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Fabrizio Gay FONDAMENTI

GEOMETRICI
DEL DISEGNO

E D I Z I O N I L I B R E R I A P R O G E T T O P A D O V A
Fabrizio Gay

FONDAMENTI
GEOMETRICI
DEL DISEGNO

E D I Z I O N I L I B R E R I A P R O G E T T O P A D O V A
In copertina: illustrazione didascalica del teorema di Quetelet e Dandelin
disegno dell’autore

Copyright 2001 Edizioni LIBRERIA PROGETTO via Marzolo, 28 PADOVA


sommario

1 UN MODELLO OTTICO DALLA GEOMETRIA


1.1 Appartenenza, dualità e forme fondamentali ................................ 9
1.1.1 Enti impropri e piano proiettivo - 1.1.2 Dualità - 1.1.3 Forme geometriche
fondamentali- 1.1.5 Proiezione e sezione.
1.2 Proprietà metrico proiettive ........................................................18
1.2.1 Continuità, ordine e misure - 1.2.2 Birapporto - 1.2.3 Invarianza del birapporto.

1.3 Proiettività..................................................................................24
1.3.1 Proiettività tra forme di prima specie - 1.3.2 Teorema fondamentale - 1.3.3 Proiettività
tra forme di seconda specie -1.3.4 Casi particolari.
1.4 Prospettività..................................................................................27
1.4.1 Elementi limite in una corrispondenza - 1.4.2 Prospettività tra forme di prima specie
- 1.4.3 Prospettività tra forme di seconda specie - 1.4.4 Teorema di Desargues nello spazio.
1.5 Omologia.......................................................................................31
1.5.1 Proiezione bicentrale delle figure di un piano - 1.5.2 Individuazione di un’omologia
del piano - 1.5.3 Esercizio - 1.5.4 Omologia dello spazio - 1.5.5 Tipi metrici dell’omologia
piana .

2 PROIEZIONI PARALLELE
2.1 L’affinità........................................................................................ 37
2.1.1 Il ribaltamento - 2.1.2 L’affinità tra piani e l’affinità omologica - 2.1.3 Teorema di
Desargues - 2.1.4 L’affinità dello spazio.
2.2 L’assonometria obliqua ............................................................... 41
2.2.2 Proiezione // dei punti dello spazio sul piano - 2.2.3 Il teorema di Pohlke - 2.2.4 Il
disegno assonometrico - 2.2.5 Rappresentazione di punti, rette e piani - 2.2.6
Ribaltamento sul quadro dei piani coordinati - 2.2.7 Assonometrie cavaliera e militare.
2.3 L’assonometria ortogonale ..........................................................49
2.3.1 Costruzione dell’assonometria ortogonale - 2.3.2 Procedimento grafico - 2.3.3 Gli
“scorciamenti” delle direzioni nel triedro coordinato - 2.3.4 I casi dell’assonometria
ortogonale .
2.4 Metodo di Monge ........................................................................52
2.4.1 Il paradigma del metodo di Monge - 2.4.2 Condizioni di appartenenza e //, piani
e rette notevoli-
2.4.3 Problemi grafici
2.4.3.1 intersezione di due piani- 2.4.3.2 intersezione tra retta e piano - 2.4.3.3 intersezione
tra poliedri- 2.4.3.4 omologia di rappresentazione del piano.
2.4.5 Problemi metrici
2.4.5.1 condizioni di ortogonalità e retta di massimo pendio - 2.4.5.2 ribaltamento di un
piano generico.
3 APPLICAZIONI SULLE PROIEZIONI PARALLELE E LE
CONICHE
3.1 Esercizi di ricapitolazione sul metodo di Monge............................65

3.2 Esercizi di ricapitolazione sulle assonometrie cavaliere e il metodo di


Monge....................................................................................................66
3.2.1 rappresentazione della sfera - 3.2.2 Assonometria cavaliera di sistemi voltati.

3.3 Coniche ......................................................................................69


3.3.1 Sezioni del cono- 3.3.2 Teorema di Quetelet e Dandelin - 3.3.3 Ombre della sfera.
3.4 Gnomonica ................................................................................. 75
3.3.1 Mappa del soleggiamento - 3.3.2 Quadrante solare.
4 PROIEZIONI CENTRALI
4.1 Prospettiva della retta e del piano .................................................81
4.1.1 La rappresentazione di una retta - 4.1.2 La rappresentazione di un piano - 4.1.3
Rette e piani proiettanti - 4.1.4 Le rappresentazioni di un punto.
4.2 Problemi grafici ..........................................................................84
4.2.1 Condizione di appartenenza tra rette e piani - 4.2.2 Condizione di parallelismo tra
piani e rette - 4.2.3 Intersezioni - 4.2.4 Retta per un punto // a una retta data - 4.2.5
Piano individuato da un punto e da una retta.
4.3 Prospettività e omologia nella rappresentazione del piano ............86
4.3.1 Teorema di Stevin.

4.4 Problemi metrici ........................................................................ 88


4.4.1 Il ribaltamento sul quadro di un generico piano proiettante - 4.4.2 Ribaltamento
sul quadro di un piano generico - 4.4.3 Esercizio di ricapitolazione - 4.4.4 Condizione
di ortogonalità tra retta e piano.
4.5 Prospettiva lineare .................................................................... 92
- 4.5.2 Costruzioni usuali della prospettiva - 4.5.3 Il
4.5.1 La costruzione legittima
metodo dei punti di misura.
4.6 Fotogrammetria elementare ...................................................... 98
4.6.1 Un esempio di problema fotogrammetrico- 4.6.2 Uso dei punti di misura.
5 MORFOGRAFIA PER LE ARTI COSTRUTTIVE
5.1 Modelli ..................................................................................... 107
5.2 Tipi .......................................................................................... 109
5.3 Figure e forme .......................................................................... 110
5.4 Forme e gruppi di trasformazioni .............................................. 112
5.5 Deformazione e modellazione analogica .................................... 115
5.6 Modellazione digitale ................................................................ 117
5.7 Simulazioni geometriche e visualizzazioni ................................. 120
Prefazione “Per mio tormento e forse per mia gioia,” – diceva Picasso - “io dispongo
le cose secondo le mie passioni … Metto nei miei quadri tutto ciò che mi piace. Tanto
peggio per le cose: devono andare d’accordo tra loro.” Solo a un occhio ingenuo
l’attitudine compositiva qui evocata, quella straordinaria spregiudicatezza nel calcolo
della fantasia, può sembrare il semplice frutto di un impulso soggettivo del tutto alieno
da ogni formalizzazione. Un fare che inventa (ritrova) le sue ragioni “facendo”, un
gioco che inventa le sue regole “giocando”, non è un’istintiva e irriflessiva spinta
violenta che precipita in un gesto compositivo, in un puro movimento di immediatezza
creativa come quelli presunti nelle tecniche artistiche dell’informale. È invece
talmente formale da rassomigliare molto, anche nella spregiudicatezza, alla geometria,
almeno nella sua concezione costruttivistica.
“Tanto peggio per le cose ...”. Ricorda la battuta attribuita a David Hilbert, che si
possono sostituire i termini “punto”, “retta” e “piano” con i termini “boccale di
birra”, “sedia” e “tavolo” senza compromettere una geometria, cioè l’insieme delle
proposizioni che formano un sistema logico deduttivo poiché gli enti ideali (“boccale
di birra”, “sedia” e “tavolo”) di quella geometria si definiscono sempre e solo
implicitamente e automaticamente negli assiomi, ovvero non possono che essere
macchinalmente le “cose” assoggettate alle condizioni esposte nei postulati.
Quella battuta del grande matematico autore dei fondamenti di geometria viene spesso
citata per mostrare non solo che la geometria è un gioco puramente autoreferenziale,
ma che si svolge anche fuori da ogni possibile riscontro fenomenico, dimenticando la
millenaria scalata empirica con la quale ha raggiunto le sue astrazioni, emancipandosi
dal ricorso ad ammissioni intuitive. Eppure chi legge in quelle parole una riduzione
della geometria a un puro gioco logico simbolico dimentica che nel 1932 David Hilbert
è autore con Stefan Cohn-Vossen di uno dei più notevoli e concreti libri di geometria,
l’ Anschauliche Geometrie, tradotto nel 1960 presso Boringhieri, in Geometria intuitiva.
Un testo che mostra quanto la geometria non sia forse molto intuitiva, ma sia comunque
una conoscenza che passa attraverso i sensi e la cui astrazione può acuire una concreta
sensibilità.
Non voglio dire che esista una geometria “sensistica” ma che è importante usarla come
tale, soprattutto negli studi delle Arti costruttive; intento questo che informa il breve
corso destinato agli studenti della facoltà di Architettura che affrontano le applicazioni
di geometria descrittiva nel loro primo trimestre di studio. Il corso cerca di rispondere
alle urgenti economie del programma d’esame richieste dall’entrata in vigore del nuovo
ordinamento degli studi in raccordo con il precedente; un mutamento che si svolge in
un quadro complessivo complicato, o almeno non riducibile a schemi semplicistici.
Infatti la necessità di snellire il carico didattico delle scienze esatte per accentuare le
esperienze progettuali nella forma del laboratorio, dell’atelier, del work shop, non
sembra comportare una rinuncia perentoria al modello didattico politecnico, ma
richiede perlomeno una drastica riduzione del periplo matematico di base mirata
all’essenzialità teorica e insieme all’efficacia applicativa. Così le nozioni di geometria
descrittiva e proiettiva qui trattate sono da intendersi strumentali all’apprendimento
del disegno come mezzo di analisi e progetto dei manufatti, come tramite per lo
sviluppo di una capacità di interrogare le configurazioni geometriche degli oggetti, di
valutarne in anticipo le conseguenze plastiche, di anticiparne l’evocazione figurale.
Roberto Gabetti suggeriva nella locuzione “geometria immaginativa” proprio
l’esercizio di questa capacità di simulare mentalmente e graficamente la consistenza
spaziale e le apparenze ottiche dei corpi progettati.
Perciò la geometria così intesa diviene un complesso di astrazioni che aiutano a
nominare la concretezza dei fatti spaziali, costituisce il mezzo attraverso il quale

prefazione 7
l’immaginazione diviene verosimigliante e produce quindi una credibile anticipazione
del fenomeno.
La geometria diviene tanto più un’arte di vedere a occhi chiusi quanto più,
parallelamente, si sviluppa la concreta memoria visiva e tattica attraverso la pratica
della modellazione plastica e del disegno dal vero. Cosa agevole quanto più è immediato
il rapporto tra disegnatore e disegno, cioè tanto più si riesce a disegnare a mano libera,
senza supporti ortopedici al segno, in modo che, senza attriti, i tracciati della mano
seguano la struttura del percetto. Il disegno a mano libera ha dunque, forse ancora
per poco tempo, questa priorità didattica poiché l’esercizio della rappresentazione
digitale dei corpi nello spazio, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare a
prima vista, richiede all’operatore una solida intuizione spaziale che egli non può
formarsi agevolmente se costretto a distrarre la sua attenzione intuitiva nel seguire i
protocolli di un software.
La brevità del corso non consente la concretezza intuitiva che desidererei poiché non
permette di oltrepassare il capitolo dei più usuali metodi di rappresentazione per
trattare in specifico le superficie più notevoli impiegate in Architettura e nelle Arti e
soprattutto non concede di accennare, a parte i riferimenti tracciati nell’ultimo
capitolo, alla specifica concretezza storica degli oggetti in discorso. Sarebbe invece
gradito, soprattutto per chi si prepara a un mestiere che consiste nell’uso estetico e
culturale delle tecniche, un apprendimento insieme storico e tecnico degli strumenti
geometrici. E la concretezza storica delle idee matematiche aiuterebbe a ricollocarle
tra gli altri oggetti di discorso delle scienze e delle tecniche.
Lo studente che voglia avventurarsi in questa direzione trova oggi comodi strumenti
di informazione come alcuni siti sul Web che costituiscono dei vasti repertori
enciclopedici, alcuni dedicati appositamente alla didattica come il francese
ChronoMath [http://chronomath.irem.univ-mrs.fr] costruito da Serge Mehl dal 1988
e disponibile dal 1997; altri d’aspetto più accademico come il sito del MacTutor History
of Mathematics archive dell’Università scozzese di St. Andrews [http://www-
history.mcs.st-and.ac.uk] che offre notizie biografiche su oltre 1100 matematici
correlate a cronologie, a relazioni sulle curve piane e sui soggetti di ricerca. Efficaci
visualizzazioni e simulazioni interattive sono offerte dal celebre Geometry Center
(ormai presente solo attraverso il suo sito) dell’Università del Minnesota [http://
www.geom.umn.edu], o dalla notevole raccolta compiuta da Xah Lee [http://
xahlee.org].

8 fondamenti geometrici del disegno


1 UN MODELLO OTTICO DALLA GEOMETRIA

1.1 Appartenenza, dualità e forme fondamentali.


Geometria e fisica appaiono oggi distinte e dimentiche della loro antica radice
comune. Anche per Euclide ottica e geometria erano saperi diversi, ma molto
più simili di quanto si possano reputare oggi. L’Ottica di Euclide, costruita
con una struttura assiomatica, si pone come scienza dell’apparire
dell’estensione ed è pensata in continuità con la geometria, la vera e propria
scienza (ipotetico-deduttiva) dell’estensione che egli edifica negli Elementi.
L’Ottica era il modello geometrico della percezione spaziale per mezzo della
luce, ed erano proprio i fenomeni di propagazione e recezione della luce a
dare senso fisico a quelle cose dette “retta” e “punto”, che come enti
dell’estensione figurata si devono definire però solo attraverso le loro mutue
relazioni fondamentali (postulati) di appartenenza [∈].
Un punto, un segno di luogo a dimensione nulla, è solo ciò che hanno in
comune due rette distinte [ ∉] di un piano o tre piani distinti (cioè che non
passano per un’unica retta) o ancora ciò che è determinato da una retta e un
piano distinti [∉]; una retta è solo ciò che hanno in comune due piani distinti
o due punti distinti; un piano è solo ciò che hanno in comune tre punti distinti
o due rette con un punto in comune. Queste condizioni sono dette assiomi
d’incidenza (o di appartenenza o di individuazione o di associazione) e
formano il primo dei cinque tipi di postulati su cui si costruisce la geometria
euclidea; gli altri sono gli assiomi dell’ordine, della congruenza, delle rette
parallele e della continuità.
Tuttavia l’Ottica di Euclide
presupponeva una geometria “del
discreto” poiché riteneva che i
“punti” recettori per quanto densi
non coprissero completamente la
superficie della retina, o così sembra
implicare la sua proposizione secondo la quale
le cose prossime all’occhio si percepiscono più
definitamene di quanto si colgano le cose lontane poiché
il maggiore angolo visivo sotteso da un oggetto vicino
all’occhio corrisponde a una maggiore quantità di punti
retinici colpiti e sollecitati, e dunque a un’immagine più “informata”.
Euclide aveva una concezione quasi oggettuale degli enti punto retta e piano
ed è molto utile per noi immaginare ancora il punto come il modello di un
fotone, e il segmento di retta come un tratto di raggio di luce, cioè come il
percorso minimo di quel fotone tra la sua posizione iniziale e finale. È utile
anche perché ci rende plausibile l’idea di uno spazio essenzialmente curvo
dove il percorso di quel fotone, come la rotta diritta di una nave, appare
rettilineo solo se “visto da molto vicino” mentre “in realtà” consiste in un
tratto di geodetica.
Questa finzione ottica ci aiuterà soprattutto a immaginare come la geometria

un modello ottico dalla geometria 9


che si usa per descrivere fenomeni proiettivi definisca le sue forme
fondamentali in modo ambivalente, come sostegno e come elemento (in modo
analogo alla dualità di forma materia). L’ente retta è intesa come il sostegno
di un’infinità di punti (i nostri fotoni) che sono gli elementi di questa forma,
detta retta punteggiata, e che noi assimiliamo al raggio di luce. In un’altra
forma, detta stella di rette, il punto gioca il ruolo di sostegno di un’infinità di
rette (elementi) ovvero si pone, come una lampadina, a sorgente (centro) di
una stella di raggi. Nella forma stella il punto si comporta con le rette come si
comportano con i raggi luminosi il sole o il foro attraverso il quale questi raggi
penetrano in una scatola, nei nostri globi oculari o in una macchina
fotografica.

1.1.1 Enti impropri e piano proiettivo. Il sole si assimila nel nostro modello
geometrico a un punto improprio, un punto infinitamente lontano che anche
in quella posizione appartata continua a comportarsi da centro di una stella
di rette con la particolarità di essere parallele tra loro. Questo fatto proiettivo
ci dice che la relazione di parallelismo [//] tra due rette non è più, com’era
per Euclide e per tutta la geometria che porta il suo nome, una questione
metrica (nella geometria euclidea due rette sono parallele se sono equidistanti
e dunque “non si incontrano mai”). Per la geometria proiettiva due rette si
incontrano sempre in uno e un solo punto (proprio o improprio che sia) e il
loro eventuale parallelismo è solo un caso che non sfugge certo al suo primo
postulato di appartenenza. Due rette parallele sono incidenti in uno e un solo
punto, il loro comune punto improprio, che siamo costretti a immaginare
infinitamente lontano e che viene detto la loro comune direzione. Senza alcuna
restrizione vale anche il postulato successivo che dice essere una e una sola la
retta (propria o impropria) comune a due piani e se questi due piani sono
paralleli la loro unica retta comune è impropria e si dice loro giacitura.
Possiamo facilmente immaginare il punto d’incidenza tra due rette, o la retta
d’incidenza tra due piani, allontanarsi sempre di più con il diminuire
dell’angolo d’incidenza, fino a raggiungere una distanza infinita all’annullarsi
di quell’angolo.
Più difficile (ma non necessario) è immaginare quel che succede all’infinito e
provare a visualizzare in un oggetto (un modello) la forma “intera” di quegli
enti che la geometria proiettiva chiama “piano” e “rette”.
I postulati che vogliono l’unicità della retta comune a due piani e l’unicità del
punto comune a due rette implicano che sia unico il punto improprio della
retta, e unica la retta impropria del piano. Se il punto P (il fotone) improprio è
unico evidentemente un raggio “finisce dove comincia” (cioè se P percorresse
la retta sempre nello stesso verso raggiungerebbe, in un tempo infinito, la
stessa posizione di partenza. Due punti P1 e P2 (due posizioni di P lungo la
retta) dividono sempre la retta in un segmento P1P2 di estensione finita e in un
secondo P2P1 di estensione infinita. Per questo saremmo tentati di immaginare
le rette proiettive come cerchi di raggio infinito e potremmo pensare che il
piano proiettivo sia analogo a una superficie sferica di raggio infinito i cui

10 fondamenti geometrici del disegno


cerchi massimi sono chiamati “rette”. Questo
modello ci delude presto perché assimilando il piano
proiettivo a una superficie sferica dovremmo
costatare che quelle che chiamiamo “rette” (cioè
i suoi cerchi massimi) si incontrano in due punti
ai poli opposti della sfera e non in uno solo come
pretende l’assioma. Inoltre per i due punti in cui si
tagliano le coppie di cerchi massimi della superficie
sferica passano infiniti altri cerchi massimi mentre il
primo assioma pretende che due punti del piano
individuino una e una sola retta.
Per salvare l’analogia dobbiamo costringere ogni coppia di punti
diametralmente opposti dei cerchi massimi della sfera a essere un solo punto.
E possiamo farlo considerando una semisfera come modello del piano
proiettivo. Qui, quelle che chiamiamo “rette proiettive” sono i semicircoli
massimi del modello a forma di scodella semisferica, e quello che chiamiamo
il “punto improprio della retta” è nel nostro modello la coppia di punti
diametralmente opposti lungo il bordo della scodella, ovvero lungo quel
cerchio del modello che corrisponde alla retta impropria del piano. Per quel
bordo deve valere il principio che due punti diametralmente opposti sono uno
stesso punto, l’unico punto improprio di ogni retta.
Con questi accorgimenti il modello funziona come il piano proiettivo. Ogni
coppia di punti della scodella individua uno e un solo semicircolo massimo
che chiamiamo “retta”; e quello che chiamiamo “segmento di retta”
corrisponde a un arco di geodetica (cioè di cerchio massimo). A differenza
della geometria euclidea dove le rette si estendono all’infinito, qui le rette
sono curve chiuse perciò la geometria proiettiva è una geometria ellittica. Non
valgono in questa geometria gli assiomi dell’ordine nella forma euclidea,
poiché se le rette sono curve chiuse non si può dire in assoluto quale di due
punti di una retta “venga prima” di un altro, ma si può stabilire una relazione
analoga su quattro punti affermando che: quattro punti di una retta si possono
separare in uno e in un solo modo in due coppie. Si può quindi fissare un
ordine e quindi definire il segmento, l’angolo, la semiretta, il semipiano. Se
consideriamo una regione sufficientemente piccola del piano proiettivo (o
del suo modello) possiamo farvi valere gli assiomi della congruenza della
geometria euclidea che assicurano la possibilità di trasportare un segmento
lungo la retta e un angolo lungo la semiretta e di confrontare l’estensione di
angoli, segmenti, triangoli; ogni segmento può essere misurato da ogni altro
(assioma della continuità di Archimede).
Per comprendere meglio questo modello emisferico (che assomiglia alla nostra
retina) del piano nella geometria ellittica (e del piano proiettivo), basta
considerare la corrispondenza che si ottiene proiettando i punti della semisfera
dal suo centro su un piano parallelo al suo equatore. Ogni punto del piano
corrisponde a uno e un solo punto della semisfera (o ai due punti
diametralmente opposti della sfera che si riguardano come un solo punto), in

un modello ottico dalla geometria 11


particolare ogni cerchio massimo della
sfera si proietta in una retta del piano
compreso l’equatore che si proietta alla
retta impropria del piano.
Chiudiamo la digressione
r’ P’
osservando che forse la
scodella semisferica non r
soddisfa l’immaginazione P
oggettuale del piano proiettivo che
dovrebbe apparire come una superficie
chiusa. Il bordo circolare della scodella dovrebbe richiudersi per funzionare
anche lui come un semicerchio massimo vero e proprio. Ma per far funzionare
quel bordo come una sorta di nastro di Moebuis dovremmo concepire un
modello topologicamente equivalente.

1.1.2 Dualità. Abbiamo detto che c’è una sorta di ambivalenza nel modo in
cui la geometria proiettiva usa gli enti punto e retta in un caso come sostegno
e nell’altro come elemento della forma chiamata punteggiata, e della forma
detta stella. Questa ambivalenza consegue dal principio detto di dualità che
emerge dall’ordine interno dei postulati di individuazione [∈] e non ha senso
in proposizioni che riguardano le proprietà metriche. Per dualità in una
proposizione che riguarda strettamente una proprietà di appartenenza del
piano (cioè quando l’ambiente geometrico si limita al piano) si possono
scambiare tra loro i termini “retta” e “punto”:
P1) - due punti distinti individuano una e una sola retta;
P1’) - due rette distinte individuano uno e un solo punto.
Le operazioni del tracciare la retta per un punto e individuare il punto di una
retta implicano l’uso della stessa condizione fondamentale, sono operazioni
duali. Si può dunque affermare che punto e retta sono nel piano elementi
geometrici duali.
Il termine “piano” è rimasto implicito nei due enunciati (P1) e (P1’)
indicandone automaticamente l’ambiente geometrico di validità. Per non
lasciare ambiguità avremmo dovuto specificarlo in P1’ : “se due rette distinte
∈ a un piano ↔ (allora) individuano un punto ∈ al piano”. La reciproca di
questa proposizione è: “se due rette ∈ a uno stesso punto (ovvero se sono
incidenti) ↔ ∈ a uno stesso piano”. Ma possiamo anche dire “se due rette ∈
a uno stesso piano (ovvero se sono complanari) ↔ ∈ a uno stesso punto”.
I postulati di appartenenza mostrano che la retta si comporta nello stesso modo
con il punto e con il piano postulando così anche le proprietà di appartenenza
(di individuazione) tra punto e piano. Se due punti individuano
necessariamente una retta, la condizione “normale” (fisicamente probabile)
di tre punti deve essere la seguente: “se tre punti distinti non appartengono
[∉ ] tutti e tre a una retta, ↔ (allora) individuano un piano”. Se la retta si deve
comportare nello stesso modo con punto e piano allora vale anche la seguente:
“se tre piani distinti non individuano [ ∉] una [stessa] retta, ↔ individuano
12 fondamenti geometrici del disegno
un punto”. E devono valere anche le seguenti: “se un punto e una retta non si
appartengono [∉], ↔ individuano un piano”; “se un piano e una retta non si
appartengono [∉ ], ↔ individuano un punto”.
Si vede come in ogni enunciato che implichi le proprietà di appartenenza tra
gli enti punto e retta immersi nello spazio si possono scambiare tra loro i
termini “punto” e “piano”, lasciando inalterato il termine “retta” e ottenendo
un enunciato duale altrettanto vero.
Due punti distinti individuano una retta Due piani distinti individuano una retta

Un punto ed una retta distinti individuano un Un piano ed una retta distinti individuano un
piano punto

Tre punti non appartenenti ad una stessa retta Tre piani non appartenenti ad una stessa retta
individuano un piano individuano un punto

La condizione predicata su un elemento di appartenere o no a un altro


elemento, equivale a quella di individuare o no quell’altro elemento. Per
questo circuito logico quelle sei proposizioni primitive sono enunciati a due a
due duali e indicano in realtà solo tre condizioni essenziali di appartenenza. I
sei postulati di individuazione [ ∈] si possono così ridurre a tre e trasformarli
poi nei loro rispettivi postulati duali scambiando ruolo alle parole “punto” e
“piano”. Da ciascuna proposizione di ∈ si ricava dunque un’altra proposizione
che si dice sua duale anche per quelle proposizioni (teoremi) che non sono
postulati di ∈, ma che sono costruite su quei postulati, come la seguente:
T1) - per un piano al quale ∉ due rette sghembe (cioè non complanari) r e s
esiste una e una sola retta incidente r e s; proposizione (evidentemente vera
perché tra i due punti che r e s individuano nel piano si ammette una sola retta)
che, sostituendovi il termine“punto” al termine “piano”, si tramuta
nell’altrettanto vera duale:
T1’) - per ogni punto distinto [∉] da due rette sghembe r e s esiste una e una
sola retta incidente r e s.
Ovviamente la convenzione di scrittura degli enti dipende dai postulati di ∈;
poiché una retta è completamente individuata dai suoi punti (che indicheremo
sempre con lettere latine maiuscole) ha senso, per quanto impreciso,
l’affermazione “retta AB” e anche “segmento AB”; per la stessa ragione, se r
e s sono rette distinte (che indicheremo con lettere latine minuscole) sappiamo
per postulato che la loro incidenza implica la loro complanarità e quindi si
parla tanto di “punto rs” quanto di “piano rs”. Un piano si può indicare anche
con tre punti ABC e, sempre per i postulati di appartenenza, dati tre piani
(che indicheremo con lettere greche minuscole) π , α, β distinti, si potrà sempre
parlare della retta πα, del punto πβα.
Esclusivamente sulla base di questi automatismi logici potremo descrivere
figure complesse – insiemi di punti, di rette e di piani e di loro segmenti –
immerse nello spazio e soprattutto le loro trasformazioni per proiezione e

un modello ottico dalla geometria 13


sezione. Le trasformazioni proiettive delle figure dello spazio conservano
sempre vere le condizioni fondamentali di ∈, e dunque la geometria proiettiva
(che è l’insieme delle proposizioni che si sviluppano da questi postulati) si
fonda su quel piccolo gruppo di enunciati dove la parola punto e la parola piano
possono scambiarsi, lasciando inalterata la parola retta (dualità nello spazio);
e tutte le ulteriori proprietà che si possono enunciare sulla base dei postulati
di ∈ sono suscettibili di una formulazione duale. In generale diciamo duale
in un certo ambiente geometrico una coppia di figure ℜ, ℑ se possiamo passare
dall’una all’altra sostituendo a ogni elemento di ℑ un elemento di ℜ a esso
duale, e dunque, compiendo idealmente operazioni duali.

1.1.3 Forme geometriche fondamentali. Il “sole” (o una lampadina o la


pupilla oculare) e il “raggio di luce” sono modelli empirici di (o si prestano a
modellizzare geometricamente ) quelle che chiamiamo rispettivamente stella
e punteggiata, intendendole come due forme fondamentali della geometria
proiettiva. Nel modello geometrico le forme hanno una definizione
insiemistica, sono intese come insiemi finiti o infiniti di elementi geometrici.
Le forme fondamentali sono classificate in base a un principio combinatorio
(dove un ente svolge ora il ruolo di elemento, ora quello di sostegno) e contabile,
o meglio numerativo, che quantifica la molteplicità degli elementi di una certa
forma.
La molteplicità (la dimensione) dello spazio della retta è lineare; la retta è
sostegno di una semplice infinità di punti e per individuarne uno basta una
sola coordinata ascissa. La retta si può intendere anche come sostegno di una
semplice infinità di piani (nella forma fascio di piani) e per individuarne uno
è sufficiente una sola coordinata angolare.
Si dice che “la retta sostiene ∞1 punti”, “il piano sostiene ∞2 rette”, “lo spazio
sostiene ∞3 punti, ∞3 piani ed ∞4 rette”. Il criterio con il quale si stabilisce la
molteplicità (∞1 , …∞ n ) degli elementi di una forma è dovuto soltanto al
numero di parametri – di coordinate - che dovremmo utilizzare per
individuarne uno sul suo sostegno. Ogni punto di una retta è individuato con
un solo numero che esprime la coordinata ascissa su quella retta, mentre nel
piano il punto si può individuare con due numeri (coordinate cartesiane o
polari) e per questo i punti di un piano “sono ∞2”. Le rette del piano sono
sempre ∞2 poiché si possono caratterizzare ciascuna, ad esempio, con il punto
d’intersezione e l’angolo formati con una retta di riferimento. I punti dello
spazio sono ∞ 3 poiché occorrono 3 coordinate (cartesiane o polari)per poter
nominarvi ciascun punto, mentre le rette dello spazio abbisognano almeno di
quattro parametri (cioè sono ∞4) per poter essere distinte; per individuarne
una possiamo ad esempio fissare un piano di riferimento che sarà incontrato
dalla retta in un punto (fissato con due parametri) secondo un certo angolo
solido (fissato con i valori di un angolo orizzontale e un angolo verticale).
Si possono dare molti esempi d’impiego di questi criteri numerativi in
geometria e comunque si può dimostrare che il numero minimo di parametri

14 fondamenti geometrici del disegno


è del tutto indipendente dal modo nel quale si sceglie il sistema di coordinate.
Le forme geometriche fondamentali di prima specie sono:
la retta punteggiata (luogo di ∞1 punti [elementi] di una retta[sostegno]);
il fascio di rette (luogo delle ∞1 rette [elementi] di un piano che passano per
un punto [il punto, detto centro del fascio, e il piano sono i sostegni della
forma]);
il fascio di piani (luogo di ∞ 1 piani [elementi] che passano per una retta
[sostegno della forma, è detta asse del fascio].
Queste forme contengono ciascuna un’ infinità a una dimensione di elementi,
come i punti della retta, o le rette complanari per un punto, o i piani per una
retta. Si noti come la proposizione della Punteggiata e quella del fascio di piani
siano tra loro duali nello spazio, mentre per dualità nel piano alla punteggiata
corrisponde il fascio di rette ( e viceversa); infine per la legge di dualità nella
stella la proposizione del fascio di rette si trasforma in quella del fascio di piani
e viceversa. La proposizione del fascio di rette è autoduale.
Le forme fondamentali di seconda specie sono:
il piano punteggiato (luogo degli ∞ 2 punti [elementi] del piano),
il piano rigato(luogo delle ∞2 rette [elementi] del piano),
la stella di rette (luogo delle ∞2 rette sostenute da un punto),
la stella di piani (luogo degli ∞2 piani [elementi] sostenuti da un punto).
Contengono quindi infinite forme di prima specie, ovvero gli ∞2 punti o le ∞2
rette di un piano, o le ∞ 2 rette o gli ∞ 2 piani che passano per un punto
(individuabili con i valori di una angolo orizzontale e uno verticale).
Si noti che sono duali nello spazio le proposizioni del piano e della stella. La
legge di dualità nel piano trasforma le proposizioni sulle figure e proprietà
del piano punteggiato in quelle delle figure e proprietà del piano rigato e
viceversa.
Si evidenzia infine anche la legge di dualità (dualità della stella) valida per le
proposizioni sulle figure di stelle di rette e stelle di piani per le quali si possono
scambiare i termini “retta” e “piano” e dunque tradurre le proprietà della
stelle di rette in quelle della stella di piani e viceversa.
Le forme fondamentali di terza specie sono le due forme sostenute dalla spazio:
lo spazio di punti (∞3 punti dello spazio) e lo spazio di piani( ∞3 piani dello
spazio), evidentemente duali nello spazio.

1.1.4 Con una breve digressione ricordiamo incidentalmente che la


relazione di proiezione potrebbe essere impiegata fin dai postulati di
associazione in modo forse più aderente alla finzione fisica, come potrebbe
essere ad esempio il sistema geometrico adottato da Giuseppe Peano nei suoi
Principi di Geometria logicamente esposti. Egli pone come concetti primitivi
solo quello di punto e di segmento, concedendo l’uso intuitivo dei termini
“insieme” e “proiezione”; dalle idee di “punto” e “segmento” si ricavano gli
elementi geometrici fondamentali nelle loro relazioni di ∈. Dato il segmento
AB (estremi esclusi) definiva: come suoi “prolungamenti” i luoghi dei punti

un modello ottico dalla geometria 15


X tali che o B sarà nel segmento AX oppure A sarà nel segmento BX, come
“retta” l’insieme dei punti appartenenti a ogni prolungamento dei segmenti
che hanno estremi nel segmento AB.
Dati tre punti non allineati ABC definiva: come “triangolo” ABC l’insieme
dei punti dei segmenti che proiettano da A i punti di BC, come “piano” ABC
l’insieme dei punti di ogni prolungamento dei segmenti che hanno estremi
sul triangolo ABC.
Dati quattro punti non complanari ABCD definiva: come “tetraedro” ABCD
l’insieme dei punti dei segmenti che proiettano da A i punti di BC e CD e dei
segmenti che proiettano da C i punti di BD e di AD, come “spazio” l’insieme
di tutti i punti.
Questo esempio si avvicina al modello ottico di definizione degli enti (cioè a
una descrizione astratta di fenomeni ottici concreti e abituali come l’ombra o
la fotografia) senza che questa possa inficiare le proposizioni successive.

1.1.5 Proiezione e sezione. È utile immaginare gli enti geometrici e le forme


fondamentali come il prodotto di legami causali nel fenomeno della proiezione
luminosa: la retta appare causata dalla proiezione di un punto da un altro
punto, mentre un punto si può interpretare come l’effetto di una sezione piana
di un retta. Dunque il postulato che dice essere “due i punti che determinano
una retta” la definisce proprio come la figura ottenuta dalla proiezione di un
punto dall’altro, come fisicamente accade alla semiretta d’ombra che si forma
dietro un punto illuminato da un altro punto. Dualmente, il postulato che
dice “essere due i piani che determinano una retta”, la definisce fisicamente
come la figura della sezione tra due piani. Affermare che “un punto e una
retta distinti individuano un piano” ci fa ricordare il piano come figura dei
raggi di una sorgente luminosa puntiforme che incontrano un oggetto
rettilineo; in quel caso oltre l’oggetto si
forma fisicamente un piano d’ombra. S
Affermare che “un piano e una retta distinti
individuano
r un punto” lo definisce come r
effetto della sezione della retta con il piano.
I termini proiezione e sezione indicano
dunque delle figure duali, ma devono a
rigore essere intesi come delle r’
relazioni, delle corrispondenze, tra
figure (insiemi).
La figura fisica del piano d’ombra in geometria
si ha come proiezione da un punto S dei punti di una
retta r e la si deve intendere come una relazione che associa a ogni punto di r
una retta del fascio di centro S.
Se il nostro concreto piano d’ombra incontra una parete vi determina la vera e
propria ombra rettilinea r’ e geometricamente intendiamo questa retta r’ come
effetto della sezione di un fascio di rette di centro O, ovvero della relazione
che associa a ciascuna retta del fascio (O)(piano luminoso) un punto della retta

16 fondamenti geometrici del disegno


r’ (d’ombra).
Il fascio di rette si può immaginare come effetto della sezione piana di un fascio
di piani e il fascio di piani si può immaginare come una proiezione da un punto
di un fascio di rette. E in generale applicando a una forma fondamentale
un’operazione di proiezione o un’operazione di sezione si ottiene una forma
fondamentale della stessa specie.
Il termine proiezione richiama tutti quei significati relativi ai fenomeni che
vengono modellizzati dalla geometria proiettiva; ma nella concezione statica
della geometria, “proiezione” e “sezione” assumono il solo significato di
corrispondenza che trasforma i punti in rette e le rette in piani, mentre il
termine “sezione” indica l’accadimento inverso, quello che trasforma i piani
in rette e le rette in punti.
Dunque la proiezione da un punto di un piano punteggiato porta a una stella
di rette e la sezione con un piano di una stella di rette porta a un piano
punteggiato, come risulta evidente considerando il modello della macchina
fotografica usata per ritrarre su una lastra π’ le figure di un piano π . I raggi
luminosi penetrano nella camera fotografica attraverso il foro O che si
comporta da centro di una stella di raggi luminosi o di piani luminosi. A ogni
punto del piano π corrisponde uno e un solo
raggio di luce della stella (O) e viceversa; a
ciascuna retta di π corrisponde uno e un
solo piano della stella (O). Dunque la
stella (O) è la figura di proiezione del
piano π dal punto O.
La lastra fotografica π’ è
geometricamente la figura di sezione
della stella (O) e consiste quindi nella
relazione che associa a ogni retta di (O)
un punto di π’ e a ogni piano di (O) una
retta di π ’ e viceversa. Dunque il
fotografare un piano π è in geometria
l’applicazione consecutiva di
proiezione e sezione e porta alla
fotografia π ’, cioè a un piano
punteggiato o rigato com’era π.
In seguito (come in geometria
descrittiva) si userà talora il
termine “proiezione” nello
stesso modo in cui lo
intendiamo a proposito
di film o diapositive,
non tanto per
indicare la singola
figura del centro

un modello ottico dalla geometria 17


e dei raggi o dei piani proiettanti, ma significando l’applicazione consecutiva
delle due operazioni di proiezione e sezione o meglio il loro effetto, il risultato,
e dunque la corrispondenza biunivoca tra due immagini (quella del
fotogramma e quella sullo schermo).

1.2 Proprietà metrico proiettive

Fotografare le figure di un piano π, abbiamo detto, in geometria equivale a


costruire una corrispondenza biunivoca tra i punti (o tra le rette) del soggetto
π e quelli (o quelle) dell’immagine π’. Immaginiamo che il soggetto π sia un
tavolo sul quale sono appoggiati un righello e un goniometro.
Geometricamente è utile considerare π come un piano punteggiato o rigato
(quindi una forma di seconda specie), mentre il righello e il goniometro sono
assimilabili a forme di prima specie, rispettivamente a una retta punteggiata
e a un fascio di rette. Sul tavolo sono gettate a caso due fotografie dell’identico
soggetto tanto che possiamo ancora riconoscere come le immagini si
corrispondano punto per punto. Questa corrispondenza tra le fotografie sul
tavolo è in geometria una trasformazione proiettiva di un piano in se stesso e
verrà chiamata proiettività. Per definire la proiettività è necessario definire
le proprietà che essa conserva, ovvero quelle proprietà delle figure che si
mantengono nelle loro trasformazione proiettive. Evidentemente la fotografia
e la fotografia della fotografia delle figure del piano conservano inalterate le
proprietà di appartenenza di queste figure (se il righello interseca
concretamente il bordo del goniometro in due punti lo fa anche nell’immagine,
proprio nei due punti corrispondenti) e ne conservano anche l’ordine degli
elementi (l’ordine delle scale graduate). È anche conservata la “natura
algebrica delle curve”, la fotografia di una retta è ancora una retta, il bordo
circolare del goniometro non potrà che risultare fotografato in un’ellisse, una
parabola o un’iperbole perché la fotografia di una curva algebrica di ordine n
è ancora una curva algebrica di ordine n (l’ordine di una curva, il grado del
polinomio che la esprime, è quindi ciò che significa il numero di punti nei
quali la curva è intersecata da un generica retta del piano, e dunque si
riconduce ancora a una proprietà appartenenza). È evidente che passando
dal soggetto alla sua fotografia si perdono le informazioni metriche, eppure
anche se qui gli interavalli delle scale graduate di righello e goniometro si
accorciano progressivamente, una qualche forma di misura viene ancora
conservata. Non è ovviamente un numero che esprime l’estensione del
segmento tra due tacche del righello o l’ampiezza dell’arco tra due tacche del
goniometro; non è nemmeno un numero che esprime il rapporto tra due
ampiezze o tra due estensioni. Quello che si conserva è un numero che esprime
il rapporto di due rapporti e viene chiamato appunto birapporto. Per definire
e dimostrare questa fondamentale proprietà metrico proiettiva occorre
tuttavia aggiungere qualche altra clausola alle regole del gioco fissate nei
postulati.

18 fondamenti geometrici del disegno


1.2.1 Continuità, ordine e misure. Dobbiamo postulare che la retta, o una
linea spezzata chiusa, o una circonferenza, o un fascio di rette ..., sia un sistema
lineare continuo, ammettendo che due gruppi separati qualunque di elementi
di una forma abbiano sempre un elemento di separazione. Introducendo la
continuità mettiamo l’insieme di tutti i punti della retta, o quello di tutte le
rette di un fascio e quello di tutti i piani di un fascio, in corrispondenza
biunivoca con l’insieme di tutti i numeri.
Bisogna solo ricordare che una retta proiettiva, come abbiamo visto, è una
curva chiusa e quindi due suoi punti propri la dividono in un segmento finito
e in uno infinito. Nello stesso modo due rette di un fascio di rette o due piani
di un fascio di piani dividono la forma in un segmento angolare (∧) e nel suo
complementare; il segmento di una forma ammette sempre il suo
complementare, cioè quella cosa che corrisponde al “resto” della forma (un
segmento e il suo complementare esauriscono la forma). Quindi le forme di
prima specie sono definite come forme chiuse nelle quali si danno due sensi
tra loro inversi, immaginabili come i soli versi possibili di un movimento quali
lo spostamento del punto [da una parte o dall’altra] di una punteggiata oppure
la rotazione [oraria o antioraria] di una retta del fascio o di un piano del fascio.
Sulla forma si fissa un elemento qualunque A, si sceglie uno dei due versi e si
ammette per la forma un ordine naturale che inizia dall’elemento A; è così
possibile stabilire se ogni altro elemento preceda o segua A.
Si ammette che tra due elementi qualsiasi ne siano compresi infiniti altri in
modo che non abbia senso alcun “ultimo elemento”. Dunque essendo due i
versi “di percorrenza” sono due i possibili ordini naturali, e se rispetto ad
uno di questi ordini un elemento B precede A, nel senso opposto B segue A.
La convenzione dei versi positivo e negativo di una forma di prima specie si
attua scegliendo due suoi elementi distinti (ad esempio due punti A, B della
punteggiata o due rette a, b di un fascio) che costituiscono quindi un segmento
ordinato di quella forma. Ovviamente in una punteggiata per segmento si
intende il “segmento rettilineo” della geometria elementare, o il segmento
che ha un estremo improprio, nel quale avrà senso ora parlare della grandezza
che esprime l’estensione del segmento AB distinto dal segmento BA, tanto
che si deve porre: AB + BA = 0. Posto un altro punto C della punteggiata sarà
sempre verificato che: AB+BC = AC.
L’angolo è sempre inteso come figura convessa e anche come sistema lineare
a una sola dimensione (il valore dell’angolo). Nel caso del fascio (O) di rette si
deve intendere che: si decide il verso positivo delle rotazioni e dal centro O si
stabilisce il verso positivo e negativo delle rette. Il segmento orientato del
fascio di rette dipende dal senso stabilito sulle due rette suoi estremi +a e +b e
si misura con l’angolo ∧(ab) anch’esso distinto, per la convenzione di senso
positivo degli angoli, dall’angolo (ba). Misurando l’angolo in radianti devono
essere gli angoli ∧ab + ∧ba = k2π.
Queste considerazioni si estendono ovviamente al fascio di piani considerando
il fascio (S) di rette come figura di sezione ortogonale all’asse del fascio di
piani.

un modello ottico dalla geometria 19


1.2.2 Birapporto. Stabiliamo una relazione d’ordine in una forma di prima
specie postulando che quattro suoi elementi si possano separare, in uno e in
un solo modo, in due coppie. Per definire la quantità che si conserva nelle
trasformazioni proiettive di queste forme, abbiamo quindi bisogno di quattro
elementi ordinati.
Quattro elementi A,B,C,D di una forma di prima specie possono essere
indicati con i numeri reali corrispondenti alle ascisse di quattro punti A, B, C,
D su una retta orientata, o ai quattro angoli che individuano le rette a, b, c, d
o i piani α, β , γ, δ di un fascio orientato. Si possono dunque indicare quattro
segmenti (di retta o di fascio orientati) AC, AB, AD e BD intendendoli come
quattro numeri presi con il segno che dipende all’orientazione della forma.
Dati in quest’ordine quattro elementi A, B, C, D di una forma di prima specie
si definisce come loro birapporto, simboleggiandolo con (ABCD), il rapporto
tra i due rapporti (AC/AB)/(AD/BD).
La nozione di birapporto di quattro (numeri) elementi si applica dunque ai
punti di una retta e alle altre forme di prima specie: a quattro rette di un fascio
e a quattro piani di un fascio.
Date quattro rette a, b, c, d di un fascio (O) si definisce
(abcd) = (sin ac/ sin bc)/ (sin ad/ sin bd).
Dati quattro piani: α, β, γ, δ di un fascio (o) si definisce
(αβγδ) = (sin αγ/ sin βγ) / (sin αδ/ sin βδ).

Il valore
di (ABCD)
non dipende però
dal verso scelto in
quest’orientazione della forma poiché, se il verso
venisse invertito, cambierebbero solo i segni di ogni
numero; il segno di (ABCD) dipende solo dalla posizione
reciproca (dall’ordine) degli elementi che potranno disporsi in
modo che il segmento AB contenga o meno un estremo del segmento BC.
Se entrambi gli estremi CD non appartengono ad AB si dice che le coppie AB
e CD non si separano e si constata allora che sempre (ABCD)>0.
Se il segmento AB contiene uno e un solo estremo del segmento CD, si dice
che le due coppie di elementi (AB) e (CD) si separano; in questo caso
(ABCD) < 0.
Dunque il birapporto tra i quattro elementi ABCD di una forma ordinata (con
almeno AB propri) è un valore che non dipende dalla scelta del verso positivo
della forma, il suo segno dipende dal separarsi o meno delle coppie AB e BC.
Si può constatare che il birapporto tra quattro elementi nelle loro 24
permutazioni (d’ordine) assume solo sei valori distinti.

20 fondamenti geometrici del disegno


Nel caso particolare in cui (CA/CB) = - (DA/DB) il birapporto è = -1; le coppie
AB e CD “si separano” (cioè il segmento AB contiene uno e un solo estremo
del segmento CD) in modo che (AC/BC) = - (AD/BD). Allora si dice che “C e
D dividono internamente ed esternamente il segmento AB nello stesso
rapporto”, ovvero dividono il segmento AB armonicamente, o anche secondo
un Rapporto armonico. C e D sono detti ciascuno il coniugato armonico
dell’altro rispetto alla coppia AB.

1.2.3 Invarianza del birapporto. Se si proiettano da un punto proprio O i


tre punti ABC di una punteggiata r nei punti A’B’C’ di una punteggiata r’,
constatiamo immediatamente che i segmenti A’C’ e B’C’ non sono certamente
sempre congruenti, e anche il rapporto tra le estensioni dei segmenti AC e
BC non sarà sempre uguale a quello tra i corrispondenti segmenti A’C’ e B’C’;
constatiamo cioè che il rapporto semplice di tre punti di una retta non si
conserva nella proiezione da un centro proprio.
Che il rapporto semplice non sia una proprietà che si mantiene in generale
per proiezione e sezione lo si constata verificando (teorema fondamentale)
che comunque si prendano tre punti A, B, C, e A’, B’, C’ su ciascuna di due
rette r e r’, nell’ordine assolutamente arbitrario, è sempre possibile collocare
le due rette in modo che le congiungenti AA’, BB’, CC’ si incontrino sempre
in un punto. Al proposito si proiettino i punti A’, B’, C’ nei punti A”, B”, C”
di una nuova retta r’’ // [parallela] a r’ e che intersechi r in uno dei tre suoi
punti, ad esempio il punto C; si traccino quindi le congiungenti A A”,
B B”, C C” ed essendo una C C” composta da punti coincidenti, A
necessariamente le congiungenti AA’ e BB’ si incontrano in un
punto O. Esiste dunque un centro di proiezione che può
determinare i punti A”, B” e C” di A, B, C e un secondo centro
di proiezione, all’infinito, che correla i punti A” A’, B” B’,
C” C’. B
Si può costruire sempre a partire da due distinte terne
di punti presi in qual si voglia ordine e misura una C
correlazione proiettiva tra le loro rispettive rette r e
r’. C’ B’ A’
In generale nessuna quantità relativa a soli tre punti o
a sole tre rette o a soli tre piani costituisce una A
proprietà che si mantiene per proiezione e sezione.
Ma se assumiamo quattro elementi di una forma di prima
specie (punti di una punteggiata o rette di un fascio o piani
di un fascio) possiamo definire il loro birapporto,
ovvero quella grandezza (un numero) che si conserva B A’’
nella figura corrispondente alla prima per B’’
trasformazioni proiettive. Questo “numero” non può C C’’
essere solo un rapporto, è un rapporto di due
rapporti,ovvero una proprietà matematica
B’
0
dell’insieme di quattro elementi che abbiamo chiamato A’

C’ 21
un modello ottico dalla geometria
birapporto o rapporto anarmonico o doppio
rapporto.
Dunque la proprietà più notevole del
birapporto (ABCD) nelle forme di prima
specie è quella di costituire una
proprietà metrica invariante per
proiezione e sezione.
Precisamente: il birapporto
(ABCD) di quattro punti A, B, C, D di
una punteggiata r è uguale al birapporto
della loro corrispondente figura di
proiezione da un punto O ∉ r, ovvero è uguale
al birapporto (abcd) delle quattro rette OA, OB,
OC, OD; il birapporto (abcd) delle quattro rette
OA , OB, OC, OD di una fascio (O) è uguale al
birapporto della loro figura di sezione con
qualsiasi retta r ’ ∉ O, ovvero è uguale al
birapporto (A’B’C’D’); conseguentemente il
birapporto (ABCD) di quattro punti di una
punteggiata r è uguale al birapporto
(A’B’C’D’) di una punteggiata r ’
corrispondente ad ABCD per
proiezione da un punto O; il birapporto
(abcd) di quattro rette di un fascio (O) è
uguale al birapporto della loro figura di
proiezione da un punto P ∉ al piano, ovvero è uguale al birapporto
dei quattro piani α, β, γ, δ del fascio di asse OP.
Per la dimostrazione è sufficiente provare che il birapporto (ABCD) di quattro
punti di una punteggiata r è uguale al birapporto (abcd) delle quattro rette
OA, OB, OC, OD congiungenti un punto O (∉ r) e i punti A, B, C, D.
Assegnato un centro di proiezione O e considerati i triangoli con vertici in O
e basi nei punti A,B, C, D, si dimostra che (ABCD) dipende
solo dalle reciproche angolazioni delle rette OA, OB, OC,
O
OD che proiettano A, B, C, D da O. Lo si fa
semplicemente scrivendo il valore delle aree dei
triangoli con vertice in O e lati OA, OB, OC, OD in
funzione del seno degli angoli in O formati dalle h
rette a, b, c, d.
Poiché l’area di un triangolo si può
calcolare come il semiprodotto di A B C D
due lati per il seno del loro angolo
in comune, le aree dei triangoli
a b c d
AOC, BOC, AOD, BOD valgono:
((AO.CO)/2). sin ∧ac,
((BO.CO)/2). sin ∧bc,
22 fondamenti geometrici del disegno
((AO.DO)/2). sin ∧ad,
((BO.DO)/2). sin ∧bd.
Si noti poi che i quattro triangoli hanno l’altezza h comune e quindi la loro
area deve essere proporzionale alle basi AC, BC, AD e BD.
Ad esempio l’area del triangolo OCA è ovviamente = CA . ½ h,
ed è anche = ½ OA . OC . sin ∧ca.
E poiché AC . ½ h = ½ OA . OC . sin ∧ca, AC = (OA . OC . sin ∧ca) / h,
Si può dunque scrivere (ABCD) come
OA . OC . sin ac OB . OD . sin bd
AC BD h h sin ac sin bd
. = . = .
BC AD OB . OC . sin bc OA . OD . sin ad sin bc sin ad
h h
dimostrando che (ABCD) = (abcd), ovvero che il birapporto di quattro punti
di una retta r è uguale al birapporto delle quattro rette del fascio che li proietta
da un centro O, e che il birapporto di quattro rette di una fascio (O)è uguale al
birapporto dei quattro punti nei quali si sezionano con una retta r’.
Non occorre altro per constatare che il birapporto è proprietà conservata in
una indefinita serie di proiezioni e sezioni. Se dunque (ABCD) dipende solo
dagli angoli delle rette a,b, c, d che proiettano i quattro punti A, B, C, D della
retta r dal punto O (∉ r) è ovvio che si mantiene inalterato per qualsiasi altra
quaterna di punti A’,B’,C’, D’ di una r’ con la quale si sezionano le rette OA,
AB, OC e OD, ovvero si mantiene nella proiezione su r’ di A, B, C, D da O.
Se da un punto O proiettiamo quattro punti A, B, C, D di una retta r nei punti
A’, B’ C’, D’ di una retta r’ sappiamo che (abcd) = (A’B’C’D’) = (ABCD). Se
proiettiamo da un nuovo punto O’ i punti di r’ nei punti A”, B”, C”, D” di una
nuova retta r” sappiamo che (A”B”C” D”) = (A’B’C’D’). Dunque la relazione
ω che trasforma i punti di r in quelli di r” è sempre una corrispondenza
biunivoca che mantiene il birapporto e dunque è a tutti gli effetti una
corrispondenza proiettiva indipendentemente da come la si è ottenuta
componendo operazioni successive di proiezione. Queste “operazioni” di
proiezione e sezione possono essere in un numero arbitrario, ma non
altereranno mai il birapporto tra quattro elementi. Potremmo continuare a
proiettare i punti dalla retta r” da un nuovo centro di proiezione nei punti di
una retta r”” e cosi via fino a ottenere i quattro punti di una retta r”””...n. Tra la
quaterna di punti di partenza e la quaterna di punti di arrivo esisterà una
corrispondenza proiettiva in virtù della concatenazione di trasformazioni che
hanno mantenuto il birapporto, in altri termini sarà possibile, a riprova,
ottenere la sequenza dei punti su r””” ...n anche con una sola operazione di
proiezione e sezione.
Per fare questo si tracci la parallela a r ””...n che passa per un punto, ad esempio
C, di r; allora non solo le congiungenti AA””” ...n, e BB””” ...n, ma anche la
congiungente DD””””...n si incontreranno in un unico punto O. Come già
avevamo constatato, dati in qualunque modo tre punti A,B, C di una retta r e
altri tre punti A”...n , B”...n , C”...n di un’altra retta r”’’ ...n è sempre possibile
determinare una correlazione proiettiva tra gli elementi A A””...n, B B”” ...n,

un modello ottico dalla geometria 23


C C””...n ricorrendo a una proiezione intermedia che trasformi i punti A””...n ,
B””...n, C””...n nei punti A’, B’, C’ di una r’ \\ a r”...n e passante per un punto di
r, ad esempio C. Essendo C punto unito (cioè un punto che coincide con il
proprio corrispondente) esiste sempre un punto comune ad AA’, BB’ e dunque
un centro proprio che proietta r in r’ e un centro improprio che proietta r’ in
r””” ...n; perciò, come avevamo constatato, le sole quantità relative alle terne
di punti non bastano a determinare una relazione proiettiva tra le rette.
Nell’esperimento precedente se le rette r e r””...n non fossero correlate da una
serie di proiezioni e aggiungessimo una quarta coppia di punti D e D””...n,
sarebbe improbabile che D””...n proiettato in D’ su r’ possa essere congiunto a
D con una retta che incontra A’ A e B’B nel loro punto di intersezione. Questo
può invece avvenire solo se tra tutti i punti della r e della r”...n esiste un’effettiva
corrispondenza proiettiva.
Se tra r e r”...n esiste una corrispondenza proiettiva determinata in qualsiasi
modo è infatti possibile traslare parallelamente la retta r o la retta r””...n in una
posizione tale che le rette AA”...n, BB” ...n, CC” ...n, DD”...n si incontrino in un
punto.
L’idea di birapporto consente di definire in modo generale la corrispondenza
proiettiva tra due figure permettendoci di affermare che qualora esista un
corrispondenza biunivoca che mantenga il birapporto, tale corrispondenza è
necessariamente una corrispondenza proiettiva che ora chiamiamo
proiettività.

1.3 Proiettività

Abbiamo più di quanto basta per definire la relazione tra le


possibili fotografie di una stessa figura piana.
Dato che il righello e il goniometro
fotografati sono assimilabili
rispettivamente a una punteggiata e
a un fascio di rette, la proiettività che
intercorre tra le diverse fotografie del
righello e tra le diverse fotografie del
goniometro è una corrispondenza
biunivoca tra forme di prima
specie. In tutte le fotografie dello
stesso “righello” [punteggiata] è
costante il valore del birapporto
tra le due quaterne di elementi
corrispondenti. Tutte le quaterne
di punti del righello per le quali si
verifica un rapporto armonico
sono fotografate in quaterne che
conservano il rapporto armonico.

24 fondamenti geometrici del disegno


1.3.1 Proiettività tra forme di prima specie Possiamo dunque definire:
corrispondenza proiettiva, detta anche proiettività, tra gli elementi di due
forme di prima specie una corrispondenza biunivoca che associa a un gruppo
armonico di quattro elementi della prima forma, presi in un certo ordine, un
gruppo armonico di quattro elementi della seconda, presi nell’ordine
corrispondente.
Una proiettività tra forme dello stesso nome (tra rette o tra piani o tra stelle
...) si dice omografia, ed è sempre costruibile con successive relazioni di
proiezione e sezione.
È evidente fin dagli esempi mostrati che :
- due forme proiettive e una terza sono proiettive tra loro (ovvero che la
relazione di proiettività è transitiva);
- ogni corrispondenza proiettiva conserva l’ordine in quanto una proiettività
trasforma due coppie di elementi che si separano (o che non si separano) in
due coppie di elementi che si separano (o che non si separano).

1.3.2 Teorema fondamentale. Abbiamo già osservato che prendendo ad


arbitrio tre punti su una retta e tre su un’altra retta è sempre possibile trovare
un modo nel quale si possono correlare i tre punti della prima e i tre punti
della seconda con una serie di relazioni di proiezione e sezione. Consideriamo
anche il fatto che, dato il valore k del birapporto e tre elementi di una forma di
prima specie (ABC), è sempre determinato il solo quarto elemento (D) per il
quale è verificato il valore k del birapporto. Possiamo formulare una
condizione generale (teorema fondamentale o di von Staudt) della proiettività:
tra due forme fondamentali di prima specie esiste una e una sola
corrispondenza proiettiva nella quale si corrispondano ordinatamente tre
coppie di elementi (A, A’; B, B’; C, C’) assegnate arbitrariamente sulle due
forme.
Precisamente si individua una e una sola proiettività:
- tra due punteggiate quando sono note tre coppie di punti corrispondenti
A A’, B B’, C C’;
- tra due fasci di rette quando sono note tre coppie di rette corrispondenti;
- tra due fasci di piani quando sono note tre coppie di piani corrispondenti.
Già abbiamo dimostrato l’esistenza (prima parte dell’enunciato) di una
proiettività date tre coppie di punti corrispondenti di due rette, constatando
che, date su due rette in ordine arbitrario le terne ABC e A’B’C’, con una
successione di proiezioni e sezioni, si possono disporre ABC e A’B’C’ in modo
che le congiungenti AA’, BB’, CC’ si incontrino in uno stesso punto.
Oppure, da due centri O e O’ posti sulla congiungente di una coppia di punti
A, A’ si proiettino da O i punti di r e da O’ i punti di r’. Si individua così una
retta r” unica congiungente le intersezioni di OB e O’B’, OC e O’C’, e si
dimostra con ciò come si può passare con due operazioni di proiezione e
sezione da ABC ad A”B”C” e quindi ad A’B’C’.
Esistono infiniti modi per dimostrare che tra r e r’ esiste una relazione di
proiezione e sezione, ma per dimostrare che ne esiste una sola si può procedere

un modello ottico dalla geometria 25


per assurdo. C”
Date le tre rette r, r’e r”, sulle quali abbiamo dimostrato
l’esistenza di una proiettività, poniamo che su r esista un
punto D al quale corrispondono un D” e un D’ tali che: C C’
(ABCD) = (A”B”C”D”) = (A’B’C’D’). B”
Se la prospettività non fosse unica, su r”
B
esisterebbe anche un punto E tale che: B’
(ABCD) = (A’B’C’E’) = k.
Ma poiché, dati tre elementi A, B, C A A” A’
e un valore k del birapporto (ABCD),
esiste uno e un solo elemento D tale
che (ABCD) = k, si deve escludere l’esistenza di una seconda proiettività tra r
e r’ una volta che siano assegnati ABC ed A’B’C’.

1.3.3 Proiettività tra forme di seconda specie. Tra le diverse


fotografie del righello (retta punteggiata) e tra le diverse
fotografie del goniometro (fascio di rette) esiste una
relazione di proiettività che vale anche per il resto
della fotografia, ovvero per gli altri punti e rette
del piano del tavolo. Complessivamente tra
le fotografie dello stesso soggetto piano,
gettate a caso sul tavolo, vale una relazione
di proiettività tra piani, cioè una trasformazione
proiettiva del piano in sé che subordini una
proiettività tra forme di prima specie e quindi la
validità del teorema fondamentale (1.3.2).
Due forme di seconda specie (piani o stelle) F e
F’ si dicono proiettive se tra ogni quattro
elementi di una forma di prima specie di F che
formano un gruppo armonico corrispondono
biunivocamente quattro elementi di una
forma di prima specie di F’che formano un
gruppo armonico.

1.3.4 Casi particolari. Se appoggiamo righello e goniometro sul vetro di una


macchina per xerocopie, oppure su un piano fotosensibile, possiamo
riprodurli nella loro “vera forma e misura” e poi gettare a caso sul tavolo queste
immagini congruenti della data figura piana. Immagini le cui relazioni
reciproche saranno ancora geometricamente interpretabili come proiettività.
I movimenti rigidi studiati nella geometria euclidea sono solo casi particolari
di proiettività, e quando si dice intuitivamente “traslare”, “ruotare”,
“riflettere specularmente”, una figura da una posizione F a una F’ si intende
che tra F e F’ sia istituita una particolare corrispondenza proiettiva. E come
proiettività sono riguardabili anche le similitudini (ottenute ad esempio
fotocopiando la figura con un certo fattore d’ingrandimento o di riduzione) e

26 fondamenti geometrici del disegno


l’identità che ottiene immaginando di “giustapporre” la F su se stessa.

1.4 Prospettività

Se in una proiettività [omografia] tra due forme omonime (tra due rette, tra
due piani, tra due stelle o tra due spazi) si verifica l’eventualità che un elemento
sia unito, cioè coincida con il suo corrispondente, allora la si definisce
prospettività, e le figure corrispondenti si dicono
prospettive.
La parola “prospettiva” ci ricorda come le
applicazioni della geometria alla simulazione delle
apparenze ottiche e metriche si basino
sostanzialmente su queste corrispondenze, in
particolare sulla proiezione da un punto S dei
punti di un piano π su un piano π ’, ottenuta
applicando consecutivamente la proiezione da S
retta limite
dei punti di π e di questa stella (S) la sezione con
π ’. La retta ππ ’ è elemento unito di quella
corrispondenza. CENTRO della prospettività

1.4.1 Elementi limite in una corrispondenza. ASSE della prospettività


Essendo π e π’ piani proiettivi, cioè completati
con le loro rette improprie, la corrispondenza retta limite
proiettiva tra i loro punti è completa, o
meglio, è una bijezione, cioè una
corrispondenza tale che a ogni punto P di
π corrisponde uno e uno solo punto P’
di π’ e viceversa, e ogni retta r di π
corrisponde a una e una sola retta r’
di π’ e viceversa. Gli insiemi π e π’
devono avere evidentemente “la
stessa quantità” di elementi che si
potranno chiamare gli uni le immagini degli altri, anzi ciascun elemento P’ di
π’ si dice immagine del solo elemento P di π e viceversa (la corrispondenza è
ovviamente invertibile).
Un elemento proprio di una forma si dice elemento limite della prospettività
se corrisponde all’elemento improprio della forma prospettiva alla prima (e
viceversa).
Ad esempio si riconsideri la corrispondenza che abbiamo stabilito in 1.1 tra il
piano proiettivo e la scodella semisferica con l’equatore // al piano
proiettandone i punti dal centro; se la scodella appoggia il polo al piano in
quel punto (punto unito) si troveranno a coincidere un punto del piano e il
suo corrispondente punto della semisfera. Ogni altro punto della semisfera
corrisponde a uno e un solo punto del piano, ogni semicerchio massimo della

un modello ottico dalla geometria 27


semisfera corrisponde a una e una sola retta del piano;
ma l’orlo equatoriale della scodella (parallelo al piano)
corrisponde alla retta impropria del piano e costituisce
quindi l’elemento limite della corrispondenza.

1.4.2 Prospettività tra forme di prima specie. Per


fissare le idee possiamo tornare all’esempio della
fotografia del righello o del goniometro, ma
considerandola esattamente nel preciso istante in cui
viene “scattata” la proiezione e sezione che ne
produce l’immagine sulla lastra fotografica. E
dobbiamo immaginare tanto il piano del righello (il
tavolo) e quello della pellicola fotografica
effettivamente sconfinati (cioè dei veri piani
proiettivi) e quindi ammettere che questi due
piani si incontrano in una retta comune,
l’unico luogo di punti che coincidono con
la loro fotografia e che possiamo
geometricamente definire una retta
unita.
Su quella retta unita si trova una punto
(punto unito) proprio o improprio dove la retta r supporto del righello incontra
la retta r’ sua immagine fotografica. Anche in questo caso tra il piano del
righello obiettivo e quello della fotografia esiste una proiettività, e in
particolare si tratta del caso che abbiamo definito prospettività,
per evidente analogia con il dispositivo della
ate
prospettiva. Il foro della macchina fotografica eggi
punt
o la pupilla dell’osservatore in una due
prospettiva, ovvero il centro di t r a
vità
petti vità
proiezione S può assumere il pros ro s petti ITE
nome di centro della prospettività e lla p t o LIM
ro d pun
cent
o dell’omografia.
Una prospettività è dunque quella TO
corrispondenza proiettiva t o UNI
pu n
ITE
(proiettività) che si ottiene t o LIM
pun
applicando una sola volta una
proiezione e una sezione e contiene
quindi un elemento unito. Il righello
concreto r e la sua immagine r’ sulla
pellicola fotografica (nella precisa
posizione occupata al momento dello scatto)
è geometricamente la prospettività tra due
punteggiate.
Lo stesso vale per il goniometro (O) e per la sua immagine (O)’sulla pellicola
al momento dello scatto e in questo caso la loro relazione è la prospettività tra

28 fondamenti geometrici del disegno


due fasci di rette. Ogni retta r del goniometro
corrisponde alla sua immagine r’ sulla
pellicola; r e r’ devono avere in comune un
punto r r’ (proprio o improprio) che sarà
dunque un punto unito e non può che trovarsi
lungo la retta (retta unita) dove si intersecano
il tavolo e la pellicola fotografica.
L’esempio ci mostra ancora evidentemente
come punteggiata e fascio di rette siano forme
duali analoghe alle operazioni di proiezione e
sezione: la figura di proiezione dei punti del
righello dal cento S è un fascio di rette
mentre la figura di sezione di quel fascio di
rette (S) è l’immagine r’. La figura di
proiezione del goniometro (O)è il fascio
di piani (s) che ha per asse la retta s =
SO, mentre la figura di sezione di
questo fascio di piani è ovviamente
il fascio di rette (O)’ immagine
fotografica del goniometro.
Quindi due punteggiate
prospettive sono le due sezioni di un fascio di rette il cui centro è detto centro
della prospettività; e – dualmente - due fasci di rette prospettivi sono le due
proiezioni di una punteggiata detta asse della prospettività. Punti
corrispondenti (prospettivi) sono sezioni di una stessa retta proiettante e -
dualmente - rette corrispondenti (prospettive) sono proiezioni di uno stesso
punto della punteggiata sezionante.
I punti i cui omologhi sono impropri sono detti punti limite della prospettività
tra rette e, dualmente, le rette le cui corrispondenti sono a esse parallele (e
che hanno quindi come punto unito il loro punto improprio) sono dette rette
limite della prospettività tra fasci.

1.4.3 Prospettività tra due forme di seconda specie. L’esempio della


fotografia nel preciso istante in cui viene scattata, considerando
complessivamente le figure del piano π e non solo il righello o il goniometro,
ci offre un modello della prospettività tra piani (punteggiati o rigati).
Evidentemente fotografando un piano π sulla pellicola π ’ si produce una
prospettività che ha centro nel foro S attraverso il quale passano i raggi
luminosi e asse nella retta ππ’. I piani prospettivi (punteggiati o rigati) π e π’
sono due sezioni della stella (S) (di rette o di piani), e dualmente si concepisce
una proiettività tra due stelle (S) e (S)’ come proiezione dei punti di un piano
π.
Per fissare concretamente le idee sulla prospettività tra stelle (di rette o di piani)
possiamo immaginarle come quelle scaturite da due distinte sorgenti luminose
puntiformi S e S’ che illuminano un piano π traslucido come una vetrata o una

un modello ottico dalla geometria 29


(S) (S’)
diapositiva sconfinata della quale retta unita
ogni punto ha un colore distinto dai
circostanti. Ogni raggio di S e di S’
colpendo un punto della diapositiva a a’
prosegue “colorato” dello specifico colore del
punto attraversato e il raggio di S e quello di S’
che proiettano lo stesso punto (hanno dunque lo
stesso colore) si corrispondono nella prospettività.
La retta SS’ coincide ovviamente con la sua
corrispondente S’S e dunque è retta unita nella
prospettività tra le stelle (S) e (S’).
Insomma se due forme omonime (due piani o due stelle)
sono correlate per effetto di una sola proiezione o sezione si
dicono prospettive, e si parla di piani prospettivi o di stelle
prospettive, a prescindere dal fatto che il piano possa essere
punteggiato o rigato e che la stella sia di rette o di piani, poiché
una prospettività (e in genere ogni omografia) tra rette subordina quella tra
punti allineati e una prospettività fra piani subordina quella tra rette
complanari.
In geometria proiettiva si ammettono anche proiettività tra forme di nome
diverso e sostegno omonimo, cioè quella tra un piano rigato e uno
punteggiato, oppure tra una stella di rette e una di piani; queste si dicono
reciprocità o correlazioni ed evidentemente non si possono costruire con
relazioni di proiezione e sezione.
Naturalmente anche per la prospettività vale l’importante proprietà transitiva:
due forme prospettive (o reciproche) a una terza sono prospettive (o
reciproche) tra loro.
Proprietà che si vede concretamente proiettando i punti del piano π da un
punto S su due distinti piani π’ e π’’ (come se l’apparecchio fotografico che
ritrae π disponesse di due pellicole poste in qual si voglia modo); si ottengono
così due prospettive del piano π che sono legate tra loro ancora da una
prospettività che ha ovviamente lo stesso centro e per asse la retta π’π’’.

1.4.4 Teorema di Desargues nello spazio. Descrivendo la relazione che


intercorre tra un triangolo ABC e la sua immagine A’B’C’ ottenuta per
proiezione da un punto S su un piano distinto π’, risulta evidente il seguente
teorema:
se due triangoli appartenenti a due piani distinti ABC (∈π ) e A’B’C’ (∈π ’)
sono riferiti tra loro in modo che le congiungenti i vertici A A’, B B’, C C’ si
incontrino in un punto S, allora i prolungamenti dei loro lati a=AB, b= BC,
c= CD e a’=A’B’, b’=B’C, c’= A’C’ si incontrano in tre punti a a’, b b’, c c’
allineati (ovviamente lungo ππ’). E vale il viceversa: se i prolungamenti dei
lati omonimi si incontrano in tre punti allineati a a’, b b’, c c’, ↔ ogni coppia
di vertici A A’, BB’, C C’ corrispondenti sta su rette che si incontrano in un
punto S.
30 fondamenti geometrici del disegno
Il teorema contiene
un’ipotesi (allineamento di a a’,
b b’, c c’) e una tesi (convergenza di
A A’, BB’, C C’) che sono una duale
dell’altra e si scambiano ruolo nel
viceversa.
Sembrerebbe quasi inutile pronunciare in un
teorema la relazione tra due triangoli B
ovviamente riferiti in una prospettività di centro
S e asse ππ’, non facendo altro che nominare quel A B’
centro e quell’asse attraverso i vertici
corrispondenti di quei triangoli. Infatti, se i due triangoli
ABC ed A’B’C’ sono pensati appartenenti a due piani
distinti, la dimostrazione consegue automaticamente dai
soli postulati di individuazione. In quel caso le rette AA’, A’
BB’ e CC’ convergono in un punto S, fuori dai piani ABC
e A’B’C’, dove si intersecano i piani aa’, bb’ e cc’; su quei piani per ogni coppia
di lati corrispondenti si deve ammettere un punto e quei tre punti (aa’, bb’ e
cc’) possono solo trovarsi sulla retta ππ ’ intersezione dei due piani ABC e
A’B’C’.
La cosa sorprendente è che il teorema risulta valido (anche se non è più
propriamente un teorema) anche nel caso in cui ABC e A’B’C’ siano punti di
uno stesso piano.

1.5 Omologia

Anche se i due triangoli ABC ed A’B’C’ di Desargues sono nello stesso piano,
il teorema vuole che se le rette AA’, BB’ e CC’ convergono in un punto S, i lati
corrispondenti si incontrino in tre punti aa’, bb’ e cc’ allineati.
Le sue dimostrazioni utilizzano la proprietà transitiva delle prospettività e
dipendono dal fatto che l’ambiente geometrico considerato sia il piano oppure
lo spazio. Potendo avvalerci dello spazio tridimensionale si può agevolmente
dimostrare la proposizione di Desargues, immaginando che uno dei due
triangoli che stanno su un medesimo piano sia ottenuto come prospettivo di
un terzo triangolo (appartenente ad un piano distinto) a sua volta prospettivo
al primo, come risulterà immediato per le considerazioni che seguono sulla
proiezione bicentrale di una figura piana. Ma se l’ambiente geometrico fosse
ristretto al piano (se il nostro spazio fosse bidimensionale) non ci sarebbe
concesso il ricorso alla proiezione da un punto fuori dal piano e la
dimostrazione, non elementare, di questo teorema non sarebbe facilmente
dedotta dai soli assiomi (del piano proiettivo).

1.5.1 Proiezione bicentrale delle figure di un piano. Immaginiamo una


sconfinata diapositiva π proiettata sulla parete con un particolare apparecchio
che sia dotato di due distinte lampade S1 e S2. Geometricamente questi due

un modello ottico dalla geometria 31


punti di luce S1 e S 2 sono due S1 S2
S*
stelle (di rette o di piani) tra loro
prospettive poiché ciascuna
coppia dei loro rispettivi raggi
colpisce uno stesso punto della

(π∩π’≡π’’)
diapositiva. La parete sulla quale si
formano le due diverse immagini della stessa
diapositiva è dunque spiegabile come sezione
piana di due stelle prospettive. Evidentemente su
quella parete ci sono coppie di punti
corrispondenti tra loro e a uno stesso punto
della diapositiva π, e per questa ragione, dal
punto di vista geometrico, dovremo considerare ciò che
accade su quello schermo come una trasformazione del
piano (lo schermo) in se stesso. Dovremo considerare
quello schermo come composto in realtà da due schermi
coincidenti π ’ ≡π’’, uno (π ’) che raccoglie l’immagine
inviata dalla stella S1, l’altro ( π’’) che raccoglie quella
proiettata da S2. Deve esserci ovviamente una retta propria
o impropria nella quale si incontrano lo schermo π’≡π’’ e
la sconfinata diapositiva π, una retta lungo la quale punti
delle due immagini della diapositiva, nonché della
diapositiva stessa, coincidono.
Questa retta (π∩π’≡π ’’) è asse di tre distinte prospettività
tra i piani, e lo vediamo immediatamente “spegnendo” una
delle due stelle.
C’è una prospettività ω’ tra π e π ’ di centro S 1, una
prospettività ω’’ tra π e π’’ di centro S2, e c’è anche una π’≡π’’
particolare prospettività ω tra π’ e π’’ il cui centro è il punto
S* (proprio o improprio) dove lo schermo π’≡π ’’ è intersecato dalla retta S1S2
congiungente le due lampade.
Quest’ultima è una prospettività che chiamiamo omologia piana che consiste
in una relazione proiettiva tra due piani coincidenti (diciamo propriamente
che è una prospettività del piano in se stesso), ha una retta di punti uniti
(π∩π’≡π ’’), cioè un asse dell’omologia, e ha un altro unico punto unito che
non appartiene all’asse: il punto S* detto centro dell’omologia , che si comporta
come il centro della prospettività (omologia) piana ω. Infatti sul piano π’≡π’’
le coppie di punti corrispondenti in ω (A’ A’’, B’ B’’ ,..., P’ P’’) sono
necessariamente allineate su rette concorrenti in S*. E lo si vede osservando
che S* è centro della stella di rette ottenuta sezionando con lo schermo π’≡π’’
il fascio di piani (proiettanti) che ha per asse la retta S1S2 e ciascuno dei piani
di questo fascio è il luogo dei due fasci di rette (S1) e (S2) prospettivi perché
proiettano gli stessi punti di π. Così lungo le rette del fascio S* si trovano
allineate tutte le possibili coppie di punti P’ (∈π ’) e P’’ ( ∈π’’) corrispondenti
32 fondamenti geometrici del disegno
biunivocamente nella omologia ω tra π ’ e π’’. Perciò (S*) è stella di rette unite
ma non composte di punti uniti, cioè tutte le rette di π’≡π ’’che passano per il
centro S* (unico punto unito di ω che ∉ all’asse) sono unite mentre ogni altra
retta r’ di π’ ammette una e una sola sua corrispondente r’’di π’’ che incontra
r’ sull’asse dell’omologia.
Con questo abbiamo mostrato che la sezione con un piano π ’≡π’’ di due stelle
prospettive (S1) e (S2), perché proiettanti gli stessi punti di un piano π, genera
in π’ ≡π’’ un’omologia ω che ha asse nella retta (π∩π’≡π’’) e centro nel punto
(S1S2 ∩π’≡π’’).

1.5.2 Individuazione di un’omologia del piano. Considerando a ritroso il


processo appena descritto possiamo ricavare che se sul piano π’≡π ’’ stabiliamo
ad arbitrio un centro S*, un asse u e una coppia di punti (P’, P’’) o di rette (r’,
r’’) corrispondenti, individuiamo una e una sola omologia di quel piano. E
possiamo immaginare quest’omologia ω generata in ∞4 modi attraverso una
qualunque proiezione bicentrale dei punti di un piano π che incontra π’ ≡π’’
in u. Esisteranno comunque due punti S1 e S 2 (allineati ad S*) che saranno i
centri di stelle di rette prospettive poiché proiettando i punti di π generano
l’omologia di π’ ≡π’’; un’omologia che possiamo immaginare prodursi come
una sezione con il piano π’ ≡π’’ delle due stelle prospettive (S1) e (S2) oppure,
dualmente, come proiezione da S1 su π’ ≡π’’della prospettività tra π e π ’ di
centro S2.
Le proposizioni precedenti possono essere riassunte nel teorema: esiste una
e una sola omologia della quale siano dati ad arbitrio un centro, un asse, e una
coppia di elementi (una coppia di rette o una coppia di punti) corrispondenti.
Le coppie di punti corrispondenti sono allineati al centro, le coppie di rette
corrispondenti si incontrano sull’asse.
Quindi l’omologia ω è determinata fissando il centro S, l’asse u e una coppia
di elementi omologhi, due rette o due punti P e P’, indicandola con
ω = ( S*, u ; P’ , P’’).
Detto Pu il punto in cui la retta S*P’P’’ interseca l’asse u, il birapporto
(P’P’’PuS*) si dice invariante assoluto dell’omologia. Esso non muta al variare
della coppia di punti omologhi P’ P’’.

1.5.3 Esercizio. Assegnata una figura F del piano, stabilito un centro S, un


asse u, e una coppia di rette r e r’ che si incontrano in u, si completi la figura F’
corrispondente a F nell’omologia ω = ( S*, u ; r’ , r’’).

un modello ottico dalla geometria 33


.

1.5.4 Omologia dello spazio. Come il resto delle proiettività l’omologia è


una trasformazione che non si limita al solo piano, ma riguarda anche le
altre forme fondamentali in quanto definibile come corrispondenza di una
forma in se stessa che lascia uniti alcuni elementi della forma.
Due spazi di punti (o di piani) si dicono proiettivi (o anche omografici)
quando i loro elementi si corrispondono biunivocamente in modo che a
elementi del primo spazio appartenenti a una forma di prima e seconda
specie corrispondono biunivocamente elementi del secondo spazio
appartenenti a forme di prima e seconda specie proiettive alle prime.
Se in una coppia di spazi proiettivi si trova un piano di punti (e quindi di
rette) uniti quell’omografia si dice prospettività.
Se in una prospettività tra due spazi oltre al piano unito si trova anche una
stella di rette unite si tratta di una omologia, e il centro di quella stella di
rette e di piani uniti (ma non costituiti di punti e di rette unite) si dice centro
34 fondamenti geometrici del disegno
dell’omologia, e il piano unito si dice piano dell’omologia.
Si tratta dunque di una trasformazione dello spazio in sé dove due punti
corrispondenti sono sempre allineati con il centro e due piani corrispondenti
si incontrano in una retta unita sul piano dell’omologia. Così un’omologia
dello spazio vi è determinata una volta assegnati ad arbitrio un centro, un piano
(unito) e una coppia di elementi omologhi.
L’esempio applicativo più evidente di un’omologia spaziale è quello fornito
dalle scene teatrali in rilievo di soggetto architettonico che producono l’effetto
illusivo di un invaso F molto più esteso di quello effettivamente concesso dal
concreto spazio scenico F’. Uno spettatore privilegiato che osservi la concreta
scena F’ dal corretto punto di vista S* ha l’illusione di percepire un invaso F
molto più esteso di F’. L’illusione è dovuta al fatto che l’occhio ideale S* dello
spettatore è centro di una stella di rette e di piani proiettanti che contengono
le coppie di punti e di rette corrispondenti: quelli della scena concreta F’
e quelli dello spazio ideale F rappresentato dalla scena.

Quindi tra le due figure spaziali F e F’ intercorre un’omologia che ha centro


nel punto di vista S* dell’osservatore e il piano dell’omologia in genere posto
nel primo piano della scenografia o nell’arco scenico.

1.5.5 Tipi metrici dell’omologia piana. Il caso generale dell’omologia ω =


( S, u ; P’, P’’) ha propri e distinti il centro S* e l’asse u (se il centro appartiene
all’asse l’omologia si dice speciale) ma interessano le applicazioni anche i casi
che vedono l’asse e/o il centro impropri.
Il caso generale dell’omologia è quello che vede centro e asse propri e si genera
(1.5.1) per proiezione bicentrale delle figure di un piano o per sezione piana di
due stelle prospettive, delle quali almeno una sia propria. Essendo propria
almeno una stella prospettiva sono proprie anche le rette limite; quindi le rette

un modello ottico dalla geometria 35


// si mutano in rette concorrenti in un
punto delle rette limite e viceversa.
L’omotetia è quell’omologia con asse
improprio e centro proprio. Nell’omotetia
piana l’asse è la retta impropria del piano,
quindi i punti uniti dell’omologia sono le
direzioni del piano, cioè l’omotetia conserva le
direzioni e trasforma i segmenti di retta in
segmenti di retta proporzionali e
proporzionalmente distanti dal centro. Ovvero,
dati due segmenti corrispondenti AB e A’B’, sono
sempre veri i rapporti AS/A’S = BS/B’S = k [costante
dell’omotetia].
Nel capitolo successivo affrontiamo l’affinità omologica che è quell’omologia
con asse proprio e centro improprio, che si genera dalla sezione di due stelle
prospettive improprie e che, quindi, muta elementi
impropri in elementi impropri. Nell’affinità del
piano la sua retta impropria corrisponde a se
stessa e quindi rette \\ sono mutate in rette \\.
Anche l’invariante assoluto non è più un
birapporto; detto Pu il punto dove la
congiungente una coppia di punti
corrispondenti P’P’’ interseca l’asse proprio u,
sarà sempre costante il rapporto semplice P’P0 /PP0
= k [costante dell’affinità].
Abbiamo già detto che se centro e asse si appartengono
l’omologia si dice speciale, ma se centro e asse sono impropri
l’omologia è una traslazione in quanto il centro e l’asse
appartengono alla retta impropria del piano e i
segmenti si mutano in segmenti congruenti,
paralleli e concordi, punti corrispondenti sono
estremi di segmenti sempre assimilabili ai
vettori di una traslazione.

36 fondamenti geometrici del disegno


2 PROIEZIONI PARALLELE

Talete di Mileto e il primo dei teoremi che portano il suo nome sono i
protagonisti di alcune versioni di un celeberrimo aneddoto che racconta il
rilevamento dell’altezza incognita di una piramide tramite la sua ombra solare,
comparata per similitudine all’ombra di un bastone verticale di altezza nota.
Quei segmenti di raggi di sole che vanno dai vertici dei due corpi ai vertici
delle loro ombre portate sono le ipotenuse di due triangoli rettangoli simili;
il cateto bastone e la sua ombra sono proporzionali rispettivamente all’altezza
misteriosa della piramide e alla sua ombra accessibile. È questo, forse, il primo
celebrato esempio d’impiego diretto di una proprietà metrico proiettiva
dovuta alla infinita lontananza del centro della stella (sole) che ha quindi la
particolarità di inviare rette proiettanti parallele tra loro, garantendo che in
ciascun distinto istante il rapporto tra la misura del bastone e quella della sua
ombra sia lo stesso che esiste tra la misura dell’altezza incognita e quella della
propria ombra. I raggi paralleli del sole costituiscono fisicamente una
relazione biunivoca tra i punti del bastone r e quelli della sua ombra solare r’
facendone così il modello di due segmenti prospettivi (affini) nel piano di luce
che essi individuano.
Questa relazione, insegnata fin dalla geometria più elementare come
“corrispondenza parallela di Talete”, mostra che a segmenti congruenti sul
bastone r corrispondono segmenti congruenti della sua ombra; a un segmento
somma o differenza di due o più segmenti a, b, c .... del bastone r corrisponde
uno e un solo segmento somma o differenza di segmenti corrispondenti a’, b’,
c’... della sua ombra r’. E da ciò si dimostra che il numero esprimente il
rapporto tra le lunghezze di due segmenti AC e BC del bastone r esprime anche
il rapporto tra i due segmenti corrispondenti A’C’ e B’C’ della sua ombra.
Ovvero una corrispondenza parallela di Talete tra due rette r e r’enuncia che
nel monoide delle lunghezze è istituita una proporzionalità k; se x è la
lunghezza di un segmento e x’ quella della sua ombra sarà comunque x’= k x,
dove k è una costante. Questa relazione che vale per due punteggiate r e r’ si
estende al piano e allo spazio e riguarda una geometria dove la relazione di
equivalenza tra due segmenti non è più limitata alla sola congruenza (alla sola
identità di misura): la geometria affine.

2.1 L’affinità

2.1.1 Il ribaltamento. “ ... Ieromimo poi afferma che egli [Talete di Mileto]
misurò le piramidi basandosi sulla loro ombra, osservandola nel momento in
cui la nostra ombra ha la stessa altezza del nostro corpo”. Così lo storico
Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, 1.27) riferisce la circostanza particolare in
cui il bastone di Talete e la sua ombra avevano la stessa lunghezza, erano cioè
i cateti di un triangolo rettangolo isoscele poiché i raggi solari formavano un
angolo verticale di 45° con il piano del terreno. In quel caso l’ombra r’del
bastone r equivale al ribaltamento sul terreno r* del bastone stesso; quindi a

proiezioni parallele 37
qualunque segmento x del bastone corrisponde un segmento ombra x’
esattamente congruente (x’=x indica che la congruenza si rivela come il caso
particolare dell’affinità in cui k=1).
Il procedimento meccanico del ribaltamento di un segmento intorno al suo
piede viene surrogato da un espediente proiettivo; per ribaltare i punti di una
retta nei punti di un’altra retta basta farli corrispondere con una proiezione
da un centro improprio nella direzione ortogonale alla bisettrice
dell’angolo formato tra le due rette.
Graficamente sono operazioni del tutto no
or
gi
equivalenti quella di ribaltare i punti di e z zo
m
una retta r su una retta r’ tracciando ∞ a
S
archi di cerchio con centro in r∩r’
e quella di condurre corde
parallele tra i punti di r e i loro
corrispondenti di r’ (è evidente che la
direzione delle corde sottese tra gli estremi
degli archi è quella perpendicolare alla
bisettrice l’angolo rr’).
Questo “ribaltamento” è dunque una pian
o
particolare prospettività (affinità) tra il di bisett
rette che ha centro improprio nella edro ore
ππ ’
direzione ortogonale [ ⊥ ] alla loro
bisettrice. S∞
Una simile affinità di ribaltamento
tra piani possiamo ottenerla nelle
medesime circostanze. Nel luogo in cui
scrivo, una griglia verticale allineata nella
direzione est-ovest a mezzogiorno dei giorni
equinoziali (cioè quando i raggi solari formano un angolo verticale di 45° con
la direzione nord-sud) getta un’ombra congruente a sé sul terreno orizzontale,
come se vi fosse ribaltata intorno al suo piede. Senza aspettare gli equinozi
possiamo ribaltare i punti di un piano π in quelli di un altro piano π’ facendoli
corrispondere con una proiezione da centro improprio S∞ (prospettività
affine ortogonale) nella direzione ortogonale al piano che biseca il diedro ππ’.

2.1.2 L’affinità tra piani e l’affinità omologica. Ma se torniamo il giorno


dell’equinozio sullo spiazzo assolato dove abbiamo lasciato la griglia verticale
π, possiamo ripassarne l’ombra lasciandone una traccia stabile sul terreno.
Se calchiamo l’ombra a mezzogiorno avremo ovviamente un’immagine π ’
congruente della griglia π , poiché ad aste parallele o ortogonali di π
corrispondono ombre di aste parallele o ortogonali di π ’, e a segmenti
corrispondono ombre di segmenti ad essi congruenti; e quindi a un sistema
di coordinate cartesiane x, y della griglia π corrisponde nell’ombra portata π’
un sistema identico x’, y’. Ma se, un po’ più tardi, ricalchiamo la nuova ombra

38 fondamenti geometrici del disegno


della griglia π avremo un’immagine affine obliqua π ’’ della griglia π . In
quest’immagine π’’ alle aste ortogonali di π corrispondono ombre di aste
generalmente oblique, ma ad aste tra loro parallele di π corrispondono in π’’
ancora ombre tra loro parallele. Come accadeva per il bastone di Talete,
l’ombra A’, B’, C’ su π’’ di tre punti allineati A, B, C di π non ne conserva
generalmente la congruenza tra le distanze AC e BC,
ma ne mantiene inalterato il rapporto semplice
.
AC/BC, ovvero A’C’/B’C’ = AC/BC. Il S∞ a or
no
o gi
sistema di coordinate cartesiane x, y che ez
z
π a
m
fissa la posizione dei punti di π S∞
corrisponde nella sua ombra π’’ al
sistema di coordinate x’,y’
tali che:
x’= ax + by + h1
y’= cx + dy + h 2
dove le costanti “a, b, c, d” sono,
perché la corrispondenza sia biunivoca, ’ ’’
π ≡π
tali che
ad – bc ≠ 0.
Sullo spiazzo, ai piedi della griglia π ci sono ora due immagini π’ e π’’ ciascuna
delle quali legata a π da quella particolare prospettività che abbiamo chiamato
affinità. Anche tra π ’ e π ’’ esiste un’affinità, precisamente un’affinità
omologica piana, cioè una trasformazione biunivoca del spiazzo in sé che ha
uniti i punti della retta in cui la griglia π taglia il terreno ( π ’ ≡π’’) e che
chiamiamo asse dell’affinità. Essa fa corrispondere a rette \\ di π’ rette ancora
\\ di π ’’ e rette corrispondenti si incontrano sempre sull’asse dell’affinità.
Ogni punto P’ di π’ corrisponde a uno e un solo punto P’’ di π’’ e ogni coppia
di punti corrispondenti è sempre allineata a rette parallele (o coincidenti).
Evidentemente il centro dell’omologia (affine) del piano π’ ≡π’’ è improprio
nella direzione individuata dalle due distinte posizioni occupate dal sole
S∞ a mezzogiorno e S∞ a... al momento delle due proiezioni dell’ombra.
L’affinità omologica è infatti generata come sezione con il piano π’ ≡π ’’
(terreno) delle due stelle (S ∞ a mezzogiorno) e (S∞ a... ) evidentemente prospettive
perché proiettano gli stessi punti di π.

2.1.3 Il teorema di Desargues. Nel piano π ’ ≡π ’’ due figure si dicono


equivalenti (affini) se si possono trasformare una nell’altra tramite un’affinità
e dunque vale una geometria più generale di quella euclidea (che considera
equivalenti solo figure congruenti). Si costituisce così una geometria del piano
affine, nella quale vale il teorema di Desargues nella seguente versione: in un
piano affine, dati due triangoli A B C e A’ B’ C’ (cioè due terne di punti non
allineati), se AA’ //BB’//CC’ allora i punti (AB ∩ A’B’), (AC ∩ A’C’) e
(BC ∩ B’C’) sono allineati e viceversa.

proiezioni parallele 39
È utile osservare che un qualunque triangolo si può sempre riguardare a meno
di una rotazione e un’omotetia come l’ombra solare di un altro triangolo.
Ovvero: due triangoli qualsiasi sono sempre affini a meno di una rotazione e
di un’omotetia.

2.1.4 L’affinità dello spazio. Come le più generali omologie anche l’affinità
omologica può riguardarsi come una trasformazione che fa corrispondere
punti, rette e piani dello spazio ordinario a punti, rette e piani dello stesso
spazio lasciando unito un piano. Essa spiega geometricamente tutte quelle
diverse applicazioni all’architettura e alla scena teatrale che dal tardo Seicento
si chiamano “obliquazioni” e consistono in una deformazione continua di un
modello di partenza in modo che mutino d’un fattore costante gli angoli ma
non il parallelismo tra i suoi piani. Rispetto alle omologie spaziali viste in
(1.5.4) le affinità differiscono solo nel fatto che il centro dell’omologia (il punto
di vista dello spettatore privilegiato di uno spazio scenico) è qui un punto
improprio. Quindi punti corrispondenti sono sempre congiunti da rette
parallele in una sola direzione (direzione dell’affinità). E resta il piano unito
dell’omologia (qui detto piano dell’affinità), ovvero il luogo dei punti dello
spazio (punti uniti) che coincidono con i loro corrispondenti, e dunque il luogo
in cui si incontrano rette corrispondenti e piani corrispondenti nell’affinità.
Se la direzione del centro è ortogonale al piano dell’affinità questa si dice
ortogonale, nel caso contrario si dice obliqua.
Come l’omologia anche l’affinità omologica dello spazio è individuata dalla
direzione del centro, dal piano dell’affinità e da una coppia di elementi
corrispondenti.

pia dir
no ez
ion
del ed
l’af el
fini ce
tà ntr
o

40 fondamenti geometrici del disegno


2.2 L’assonometria obliqua

2.2.1 Proiezione // dei punti dello spazio sul piano. Abbiamo prima
considerato come la proiezione solare di un singolo piano π (x, y) produca
una corrispondenza biunivoca (prospettività affine) tra i punti del piano π e
quelli della sua “ombra” π’(x’, y’); in seguito
abbiamo stabilito come la doppia proiezione
parallela (in particolare un ribaltamento e
z (x, y, z)
un’altra qualunque proiezione //) dei punti di
un singolo piano π produca su un altro piano
( π’≡π’’) un’affinità omologica. Non ci resta che
x
chiamare “quadro” lo spiazzo assolato π’ che ha
raccolto le ombre della griglia (piano coordinato)
π (x, y), e aggiungere a essa altre due “griglie y
piane” formando un triedro coordinato (x, y, z) che
in seguito ci consentirà di considerare
complessivamente la rappresentazione z’
piana sul quadro π ’ di un corpo x’
tridimensionale, fisicamente analoga a quella
fornitaci dalla sua ombra solare gettata (x’, y’, z’). y’
Si immagini l’ombra solare gettata su di una (x’, y’, z’)
superficie piana π ’ da un concreto oggetto OXYZ
composto da tre segmenti OX, OY, OZ, di uguale estensione e triortogonali
nel punto O comune, come i tre spigoli x, y, z di cubo che s i
incontrano in un suo vertice O; da quanto considerato
precedentemente risulta chiaro che le tre ombre O’X’,O’Y’,
O’Z’ su π ’ sono segmenti affini ai loro corrispondenti
spigoli obiettivi, ma la relazione che intercorre tra
l’obiettivo corpo OXYZ e la sua immagine piana O’X’Y’Z’
si può esprimere come tre diverse prospettività affini tra
rette (cioè tra OX e O’X’, OY e O’Y’, OZ e O’Z’), oppure
come due diverse affinità tra piani (cioè tra xy e x’y’, xz e
x’z’).
Solo in un caso particolare una di queste affinità diviene una congruenza,
quando una faccia del cubo OXYZ, ad esempio la faccia OXY,
è obiettivamente \\ a π’. Ma anche quando l’ombra solare
O’X’Y’ è congruente a OXY, l’ombra solare del O’Z’ è solo
affine a OZ e la sua estensione dipende dall’inclinazione
azimutale (orizzontale) e zenitale (verticale) del sole S∞ .
Se S∞ fosse una direzione \\ al quadro π’ allora l’ombra
O’Z’ avrebbe estensione infinita; se S∞ fosse la stessa
direzione di OZ allora l’ombra O’≡ Z’ avrebbe estensione
nulla.
In tutti i casi possibili l’angolazione reciproca e le estensioni dei segmenti

proiezioni parallele 41
ombra O’X’, O’Y, O’Z’ dipendono da ben quattro parametri: due possono
essere quelli che misurano gli angoli diedri formati con il quadro π’ da due
delle tre giaciture del cubo, gli altri due possono essere l’angolo zenitale
(verticale) e l’angolo azimutale (orizzontale) del sole S∞. Diciamo quindi
che di un cubo obiettivo OXYZ si possono avere ∞4 immagini piane O’X’Y’Z’
su π’ per proiezione //, ciascuna delle quali corrisponde in due affinità a facce
ortogonali del cubo obiettivo.

2.2.2 Il teorema di Pohlke. Se non vedessimo il cubo OXYZ obiettivo ma,


come nel mito platonico della “caverna”, solo quella bizzarra ombra O’X’Y’Z’,
e se ignorassimo anche la direzione del sole, potremmo credere sempre
O’X’Y’Z’ l’ombra portata di un cubo? potremmo sempre ipotizzare l’esistenza
di un qualche cubo OXYZ, comunque posto, che getti quell’ombra?
La risposta affermativa è enunciata dal teorema di Karl Pohlke: tre segmenti
arbitrari O’X’, O’Y’, O’Z’ di un piano uscenti da un medesimo punto O’, purché
non più di uno sia nullo e almeno due non siano allineati, si possono sempre
considerare immagini per proiezione parallela di tre segmenti OX, OY, OZ
triortogonali congruenti.
Una dimostrazione del teorema di Pohlke si fa considerando sul piano π ’
(immaginato come un qualunque foglio rigido per disegno) i quattro punti
arbitrari non allineati O’, X’, Y’ Z’ (si escludano per ora i casi di due segmenti
allineati e quello di un segmento nullo) che secondo l’enunciato dovrebbero
significare le immagini O’X’, O’Y’ e O’Z’ ottenute per proiezione // di una
terna di segmenti congruenti di estensione unitaria OX, OY, OZ a due a due
ortogonali in O. Se immaginiamo da qualche parte nello spazio questa terna
di segmenti unitari triortogonali in O,
dobbiamo constatare che il triangolo X’
XYZ è equilatero e di lato = alla radice
quadrata di 2. Mentre nel foglio rigido O’
π’ del disegno X’Y’Z’ sarà un triangolo H’ Y’
qualunque, e immaginiamo per
semplicità che il punto O’ cada al suo K’
interno. Z’
Sul foglio si prolunghi Y’O’ finché raggiunga
il lato X’Z’ nel punto H’; si prolunghi X’O’ O
finché intersechi Y’Z’ in K’.
Applicando il teorema di Talete è facile individuare
sul triangolo equilatero XYZ i punti H, K e
Z
quindi O*, tali che H
XH / XZ = X’H / X’Z’ , X
HO* / HY = H’O’ / H’Y’ , O* K
YK / YZ = Y’K’ / Y’Z’ .
Ci basta dimostrare che nel triedro obiettivo la
retta OO* individua la direzione S∞ dalla quale esso verrebbe Y
42 fondamenti geometrici del disegno
a proiettarsi su un conveniente piano π ’ in una figura simile e similmente
posta (precisamente omotetica in O’) a O’X’Y’Z’.
Immaginiamo di spostare il nostro foglio rigido π’ in modo da “appendere”
il suo punto O’ in un qualunque punto della retta OO* che abbiamo detto
individuare la direzione S∞ nella quale avviene la proiezione //. Il punto O’
funziona come un “perno” attorno al quale il piano
π’ può ruotare con i suoi due gradi di libertà.
Possiamo così “ruotarlo” prima secondo un S∞
O
certo angolo orizzontale in modo che il
segmento O’X’ si disponga nel piano Z
S∞ OX e poi ruotarlo ancora intorno H
X
alla retta O’X’ finché il segmento K
O’Y’ cada nel piano S ∞ O*
OY e il segmento O’Z’ Y
appartenga al piano X’
S∞ OZ. Y’
X Y
Abbiamo così ottenuto
che le rette O’X’, O’Y’ H O’
H’ K
e O’Z’ sono
K’
proiezioni da S∞ su Z
π ’ rispettivamente
delle rette OX, OY, Z’
OZ.
Precisamente i punti X, Y, Z, H e K si proiettano da S ∞ su π’ nei punti X di
O’X’, Y di O’Y’ e Z di O’Z’, H di H’O’, K di K’O’ .
Il teorema è dimostrato constatando che i due triangoli X Y Z e X’Y’Z’ sono
simili e similmente posti (cioè omotetici) rispetto a O’.
E questo risulta considerando che la proiezione \\ da S∞ conserva i rapporti
semplici tra le rette O*X e O’X e OX, O*Y e O’Y e OY, O*Z e O’Z e OZ, O*H
e O’H e OH, O*K e O’K e OK. Valutiamo per esempio le affinità tra la retta
OY e la retta O’Y’che figurano appartenenti al piano proiettante S∞ OY, dove
è ovvio che per proiezione da S∞ si conserva in valore assoluto il rapporto
O*Y/ O*H = O’Y/ O’H.
Per costruzione era posto il rapporto O*Y/O’H = O’Y’/O’H’ e questo implica
che se proiettassimo da S ∞ i punti Y’ e H’ sulla retta O*Y otterremmo un
segmento Y°H° omotetico in O* a YH. Segmenti omotetici rispetto ad un
loro punto O* si proiettano parallelamente in segmenti omotetici rispetto al
corrispondente O’ di quel punto, perciò YH e Y’H’ non possono che essere
tali rispetto ad O’. Ripetendo queste stesse considerazioni sull’affinità tra la
retta OX e la retta O’X’ che appartengono al piano proiettante S ∞ OX,
rileviamo che sono omotetici rispetto a O’ i segmenti XK e X’K’ . Infine basta
ricordare che gli angoli ∧XO’Y = ∧X’O’Y’ e ∧XO’Z = ∧X’O’Z’ per constatare,
come vuole la tesi, che in effetti i triangoli XYZ e X’Y’Z’ di π’ sono omotetici
(simili e similmente posti) rispetto a O’.
proiezioni parallele 43
2.2.3 Il disegno assonometrico. Se reggiamo sospesa una terna di bastoncini
(segmenti) OX, OY, OZ congruenti e a due a due ortogonali incastrati in uno
stesso loro estremo O, possiamo ammirare nella nostra ombra gettata dal sole
sul pavimento o sulla parete una rappresentazione del nostro corpo che
chiamiamo assonometria perché potremmo in parte misurarla
con gli assi coordinati costruibili per iterazione delle
ombre della terna di “bastoncini unitari” (come O’,
ci garantisce il teorema di Pohlke). Sulla parete
Y’,
π [quadro] la linea che contorna l’ombra solare
X’,
portata del nostro corpo verrà detta suo
contorno apparente ed è ovviamente Z’,
l’immagine su π dei punti in cui raggi di sole
sono tangenti al corpo, separandovi la parte
illuminata da quella in ombra propria (cioè la
parte che il sole “vedrebbe”, se fosse un occhio
infinitamente lontano, da quella che “non
vedrebbe”). Una rappresentazione più
espressiva di quella fornita dal solo contorno
apparente si otterrebbe ad esempio con un
proiezione parallela di raggi X che impressioni
una pellicola radiografica π evidenziandovi
soprattutto l’immagine assonometrica del
nostro scheletro osseo e degli altri tessuti
calcificati.
Ma se potessimo disegnare quell’immagine di
un’assonometria x,y, z del nostro corpo,
dovremmo procedere in modo analogo a quello
seguito da una tomografia assiale computerizzata;
l’immagine si “edificherebbe” impilando lungo
l’asse z una serie di sezioni del corpo con piani
paralleli a xy. Ovviamente queste “sezioni” non si
“vedrebbero” in vera forma, ma in una loro
trasformazione affine, e comunque ciascun loro punto
sarebbe individuato nello spazio dai valori delle tre coordinate
x, y, z.
Ogni disegno in cui risulta possibile con poche ambiguità quest’operazione
di riferimento dei punti del piano π’ a tre assi coordinati è appunto una
rappresentazione assonometrica. L’ambiguità grafica non vi sarà eliminata
del tutto perché ciascun punto del foglio del disegno rappresenta gli infiniti
punti della retta proiettante che lo determina e quindi le assonometrie, a
rigore, non sono un vero e proprio metodo di rappresentazione come lo
definiremo più avanti.
Si devono considerare sotto il nome assonometria tutte le proposizioni che
rispondono al seguente problema: assegnati un quadro π e un centro S di
proiezione (con S ∉π e generalmente improprio) costruire l’immagine ℑ’ su
44 fondamenti geometrici del disegno
π in proiezione centrale da S di una figura ℑ della quale siano dati i punti P ≈
(xP, yP , zP ) [o, in generale altri luoghi geometrici come curve o superficie Φ
nella forma Φ = f (x,y,z)] espressi dunque in riferimento a una terna
triortogonale x, y, z di assi cartesiani.
Chiamiamo dunque assonometria ogni proiezione centrale di un triedro xyz
coordinato triortogonale; se il centro di proiezione è proprio si ha il
procedimento, oggi desueto, detto delle axonometrie prospettive o prospettive
assonometriche, altrimenti, se il centro è improprio si distinguono i due casi
fondamentali delle assonometrie propriamente dette: con centro S ∞ nella
direzione ⊥ al quadro si hanno le ∞2 possibili assonometrie ortogonali; con
centro S∞ in una delle ∞2 direzioni non ortogonali al quadro si hanno le ∞4
possibili assonometrie oblique.
Il triedro O xyz immaginato effettivamente nello spazio ordinario e i suoi
assi x,y,z che si incontrano in O sono detti triedro obiettivo e assi obiettivi
per distinguerli dalla loro (ombra) proiezione centrale O’ x’y’z’ sul quadro π,
che vengono detti triedro assonometrico e assi assonometrici. Le scale
metriche obiettive con unità di misura uguali ux, uy, uz si proiettano da S∞
sul quadro nelle ux’, uy’, uz’ unità assonometriche che saranno in generale
(teorema di Pohlke) non congruenti tra loro e alle unità obiettive.

P z
2.2.4 Rappresentazione di punti x z
rette e piani. Le tre coordinate
P P (x, y, z)
yz
cartesiane xP, yP , zP che individuano
un punto P nello spazio obiettivo si
possono immaginare come le tre
immagini Pxy , Pyz, Pxz nelle quali P è u x uy
proiettato ortogonalmente su un x yP
triedro coordinato xyz. Così P xy xP
dall’immagine assonometrica Px’y’ , y
P y’z’, P x’z’ di quelle tre proiezioni
obiettive del punto P, dette prima,
seconda e terza immagine P z’x’
assonometrica del punto, si può risalire
in vari modi alla sua rappresentazione P’vera assonometria
assonometrica P’ che viene detta vera P z’y’
assonometria di P. Le coordinate obiettive P x’y’ prima immagine
x P, y P , z P di un punto P si traducono nel assonometrica
(x’, y’, z’)
disegno dell’assonometria nelle estensioni
opportunamente ridotte di tre segmenti paralleli
agli assi assonometrici x’,y’,z’ che costituiscono evidentemente le immagini
delle tre distanze della vera assonometria P’ dai piani coordinati x’y’, y’z’,
z’x’. E poiché in proiezione parallela segmenti equipollenti si proiettano in
segmenti equipollenti (segmenti // e congruenti si rappresentano in segmenti
// e congruenti) le tre distanze di P, tradotte nei corrispettivi tre segmenti

proiezioni parallele 45
assonometrici, si possono r z
(x, y, z)
comporre in vario modo nella Txz
spezzata che parte da O’ e
giunge all’immagine P’.
Una retta nello spazio obiettivo
“buca” (interseca) i tre piani T
ux yz
coordinati xyz in tre punti detti x
prima, seconda e terza vera
traccia della retta. Per la sua
T xy
y
rappresentazione assonometrica
bastano dunque le immagini di due r’ v e
di questi punti (vere tracce) che ra a
sson
(x’, y’, z’)
saranno dette prima, seconda o terza o m etria
traccia assonometrica della retta.
rx
Dunque l’assonometria r’ di una retta r è asso
’y’ p
rima
imm
individuata dal segmento che unisce due nom
etri agin T z’y’
ca e
suoi punti di traccia assonometrica. T x’y’
Ogni retta non // al quadro π, il foglio sul quale
si “proietta” l’assonometria, lo incontrerebbe
in un punto proprio che viene detto la vera traccia assonometrica della retta.
I tre assi obiettivi x,y,z intersecano il quadro in tre punti, le loro vere tracce
assonometriche Tx, Ty, Tz che sono i vertici di quello che
si dice triangolo delle tracce. I lati di questo
triangolo sono le rette nelle quali il z
(x, y, z)
triedro obiettivo coordinato
interseca il quadro π, e sono quindi
dette le sue tre vere tracce
assonometriche t x y , t y z , t z x che t xz t
formano il trilatero delle tracce. yz
Di questo trilatero conta ovviamente x
solo la giacitura: se il quadro π t xy
passasse per il punto O (quindi O
y
coincidesse con O’) il trilatero delle
tracce si ridurrebbe a quel punto, e
con l’allontanarsi di π da O si
ingrandirebbe omoteticamente a O’.
Ogni altro piano obiettivo determina tre t z’x’
rette d’intersezione con il triedro tx’ t z’y’
y prim
a s s o’ a tra
coordinato xyz e quindi la sua immagine nom
etric
ccia
a
assonometrica risulta individuata con
almeno due delle sue rette di traccia (x’, y’, z’)
assonometrica. La retta nella quale il piano
interseca il quadro si chiama sua vera traccia assonometrica. La vera traccia
assonometrica di un piano si potrà usare come asse dell’affinità omologica
che sussiste tra l’assonometria di un piano e il suo ribaltamento sul quadro.

46 fondamenti geometrici del disegno


2.2.5 Ribaltamento sul quadro dei piani coordinati. Un sistema di
assonometria è determinato anche senza precisare i tre versori unitari O’X’,
O’Y’, O’, OZ’, ma indicando il triangolo delle tracce e il punto O’. Le tre unità
assonometriche del disegno ux’, uy’, uz’ si possono ricavare in un secondo
tempo ribaltando sul quadro due dei piani coordinati xy, yz o zy intorno alle
loro vere tracce assonometriche.
Procediamo dunque disegnando sul foglio π un triangolo
qualsiasi Tx, Ty, Tz e un suo punto
O
interno O’ proiezione
dell’origine del Ty
sistema di assi
coordinati. O’

Si deve immaginare che sul


triangolo delle tracce si 0 Tz
appoggia il triedro obiettivo O O*
Tx Ty Tz trirettangolo in O; se
facciamo ruotare la sua faccia
O Tx Ty intorno al suo lato Tx Ty Tx
finché si adagi sul foglio π, notiamo
π
come il vertice O percorra un arco di
circonferenza in un piano ⊥ al foglio π e come il centro di quest’arco sia nel
piede dell’altezza del tringolo O Tx Ty . Quest’osservazione ripetuta per le
altre due facce del triedro ci fa comprendere che se proiettassimo O
ortogonalmente sul foglio π troveremmo un punto O che è l’ortocentro del
triangolo Tx, Ty, Tz .
Dunque il ribaltato O* su π del punto O si troverà necessariamente sul
prolungamento dell’altezza Tz O
del nostro triangolo delle tracce Ty
e per sapere quale punto sia di
quella retta Tz O dobbiamo O’
aggiungere un’altra sola Tz
considerazione. Sappiamo che
il triangolo Tx O* Ty non può
O
che essere rettangolo in O*, O*
U
perciò O* dovrà essere uno dei x
punti della semicirconferenza O*
che ha diametro Tx Ty (è retto
l’angolo sotteso [iscritto] dagli Tx
estremi del diametro ai punti di
una semicirconferenza). O*
È quindi presto individuato il
ribaltato O’ dell’origine O intorno a un lato del trilatero delle tracce: si trova
l’ortocentro di questo trilatero e si eleva una perpendicolare al lato che fa da
asse al ribaltamento finché incontra la semicirconferenza che ha per diametro
quel lato.

proiezioni parallele 47
Trovato O* è completamente determinata l’affinità omologica che lega
l’immagine assonometrica del piano x’y’ al suo vero ribaltamento x*y* sul
quadro π; l’asse di quest’affinità è la retta Tx Ty , mentre la coppia di elementi
corrispondenti sono i punti O’ e O* che forniscono dunque la direzione
dell’affinità. Il lato O* Tx corrisponde al lato O’Tx etc…
Se su O* Tx si individua un segmento O*Ux come unitario, si può individuare
su O’ Tx, conducendovi da U x la // nella direzione O*O’, il corrispondente
segmento unitario dell’immagine assonometrica dell’asse x’.
Ripetendo l’operazione di ribaltamento su π di un’altra “faccia” del triedro
coordinato si possono individuare i segmenti unitari degli altri due assi
disponendo così l’intero sistema di assonometria pronto all’uso.

2.2.6. Assonometrie cavaliera e militare. Tra le


diverse ragioni che ci inducono a cominciare i metodi
del disegno proprio dalle assonometrie è la
considerazione che questo tipo di rappresentazione,
per le sue evidenti prestazioni tecniche e per immensa
consuetudine storica, è quello più adottato a surrogare
con l’immagine un piccolo modello oggettuale, una macchinetta dimostrativa
per spiegare didascalicamente un dispositivo spaziale. Così
anche i diagrammi di questo testo sono da intendersi “in
assonometria” e frequentemente in assonometria
cavaliera o militare, come se fossero modelli
appoggiati su un tavolo di dimostrazione.
Le “cavaliere” e le “militari” sono quelle
assonometrie oblique che presentano un
piano coordinato parallelo al quadro.
Nell’esempio empirico
corrispondono al caso dell’ombra di
un cubo gettata su un piano parallelo
a una sua faccia. In particolare
un’assonometria obliqua si definisce
militare se π // xy e cavaliera se π è
// al piano verticale yz o xz.
Evidentemente queste assonometrie
non sono trimetriche, poiché
presentano un piano coordinato // al
quadro e dunque due assi sono
sempre congruenti alle loro
immagini.
Una disposizione spesso conveniente
del riferimento assonometrico prevede
il ribaltamento di un piano coordinato sul
piano della rappresentazione attorno a uno
dei due assi paralleli al quadro.

48 fondamenti geometrici del disegno


Si avranno ad esempio
gli assi x e z in “vera
misura” mentre la
direzione e la metria
dell’asse y dipenderanno
rispettivamente
dall’inclinazione azimutale e
zenitale del centro di proiezione
rispetto al quadro.
Se si ribalta il piano xy sul quadro
intorno a x si costituisce
un’affinità omologica tra la
prima immagine assonometria e la
prima immagine mongiana (2.4) della
stessa figura. Un’affinità che ha la retta
di punti uniti nell’asse x e come coppia di
elementi corrispondenti gli assi y e y’.

2.3 L’assonometria ortogonale

L’assonometria viene teorizzata come variante di una


tradizionale prospettiva a quadro verticale nella quale si
porta a distanza infinita il punto di vista, oppure si
considera infinitesima l’estensione dell’oggetto
rappresentatovi. In questi casi le rette \\ sono
rappresentate da rette \\ e il disegno viene infatti
denominato anche prospettiva parallela proprio perché
mantiene il compito di simulare, nei limiti sopra detti,
l’apparenza ottica dell’oggetto rappresentato. Come nella
prospettiva tradizionale, anche nell’assonometria a scopo
illusivo si assume la direzione della proiezione ortogonale al quadro.
E questo vincolo z+comporta un maggior grado di determinazione
del sistema assonometrico che dipende solo dalla scelta di due
parametri che fissano, ad esempio, gli angoli diedri
formati con il quadro da due dei tre piani coordinati,
mentre l’immagine degli altri due assi è
conseguentemente determinata dalle condizioni di mutua
ortogonalità.

2.3.1 Costruzione dell’assonometria ortogonale. Il modo più semplice


per determinare un sistema di assonometria ortogonale è quello di considerare
la seguente proprietà: il punto O intersezione e origine dei tre assi coordinati
si proietta ortogonalmente sul quadro nel punto O’ ortocentro del trilatero
delle tracce txy , t yz , txz . Quest’osservazione, già avanzata sopra (2.2.5), si
dimostra anche considerando che l’asse x è ⊥ al piano yz e dunque x è l’asse

proiezioni parallele 49
di un fascio di piani tutti ⊥ a yz;
O
a quel fascio (x)
appartiene anche il Ty
piano proiettante per O
⊥ al quadro π che ne
determina l’immagine
x’alla quale appartiene O’ Tz
ovviamente O’. Poiché O*
l’immagine x’ della x è ⊥ alla tzy,
l’immagine y’ della y è ⊥ alla tzx e Tx
l’immagine z’ della z è ⊥ alla txy , il π
punto O’, comune a x’,y’,z’, non può
che essere l’ortocentro del trilatero txy,
tyz, txz (o del triangolo Tx, Ty, Tz).
Dunque un qualunque triedro trirettangolo Oxyz si proietta ortogonalmente
su π in un triangolo Tx, Ty, Tz sempre acutangolo che ha per altezze le immagini
x’, y’, z’.

2.3.2 Procedimento grafico.


Segue che il più semplice Ty
procedimento per determinare
un sistema di assonometria Tz
ortogonale è quello che parte
fissando - a seconda delle O’
esigenza della
O*
rappresentazione - il trilatero U
delle tracce t xy, t yz, t xz sempre O* x
acutangolo [se fosse
rettangolo si ricadrebbe nel
metodo di Monge (2.4)] le cui Tx
altezze che si incontrano
nell’ortocentro O’ sono O*
ovviamente le immagini
assonometriche degli assi coordinati.
Per determinare le immagini ux’, uy’, uz’ (gli “scorciamenti”) dei segmenti
unitari obiettivi ux, uy, uz basta ribaltare sul quadro π due piani coordinati
intorno alle rispettive tracce assonometriche. Si ribalti ad esempio il piano
xy intorno alla t zy , ripetendo le stesse considerazioni fatti in (2.2.5),
considerando che il punto O* [O ribaltato su π] sarà necessariamente allineato
a O’ lungo la stessa z’ ⊥ a t zy (poiché è quella z’ l’immagine del piano
proiettante che O spazzerebbe nel ribaltamento). Si tracci poi la
semicirconferenza di diametro Tx T y e l’intersezione con z’ di quella
circonferenza è il punto O* cercato (perché tra tutti i punti della z’, è quello
nel quale, essendo il vertice di un angolo iscritto alla semicirconferenza, le

50 fondamenti geometrici del disegno


rette O*Tx e O*Ty sono ortogonali).
Con il ribaltamento del piano xy abbiamo dunque i “veri assi” x* (O*Ty) e
y*(O*Ty) “in vera grandezza” e conseguentemente i segmenti unitari
obiettivi ux, uy che possono esservi disegnati come i segmenti congruenti O*X
su x* e O*Y su y*. Basta condurre per i punti X e Y le parallele alla z’ (rette
che sono le tracce dei piani proiettanti spazzati da X e Y nel loro ribaltamento
su π) finché incontrando gli assi assonometrici x e y vi individuano le immagini
assonometriche O’X’ e O’Y’ di quei segmenti unitari.
Per ottenere l’immagine del segmento unitario OZ = uz si ribalta sul quadro
con la stessa procedura il piano xz oppure il piano yz.
Come già abbiamo osservato per la più generale assonometria obliqua questa
costruzione equivale sempre alla determinazione dell’affinità omologica (ma
in questo caso ortogonale) che fa corrispondere all’immagine delle figure piane
ℑ’ (di un piano α proiettate da S∞ su π) le stesse figure ℑ*del piano α ribaltate
su π intorno alla α∩π.

2.3.3 Gli “scorciamenti” delle altre direzioni nel triedro coordinato


sono utili solo quando si usa l’assonometria per rappresentare poliedri
complessi senza tracciare tutte le loro prime e seconde immagini
assonometriche. Quando si vogliono costruire le immagini dei segmenti
unitari in tutte le direzioni appartenenti ad un piano basta
disegnare l’immagine di una circonferenza di raggio
unitario appartenente a quel piano. In genere si
rappresentano i tre circoli che hanno centro in O e raggi
OX = OY = OZ = 1; così l’immagine della circonferenza
obiettiva di raggio OX è generalmente un’ellisse (detta
qui ellisse isometrica) che ha per semidiametri coniugati
le immagini O’X’ su x’ e O’Y’ su y’ dei segmenti unitari
OX, OY. Ogni semidiametro P xyO’dell’ellisse isometrica è
l’immagine del segmento unitario con il quale si possono commisurare per
equipollenza tutti i segmenti delle rette nella direzione PxyO.

2.3.4 I casi dell’assonometria ortogonale. Gli ∞ 2 diversi sistemi di


assonometria ortogonale si esprimevano con la serie delle terne di numeri
che significano i rapporti di riduzione degli assi coordinati. In ciascuna terna
i coefficienti possono essere o tutti diversi (Assonometria trimetrica) o due
uguali (Assonometria dimetrica) o tutti uguali (Assonometria ortogonale
isometrica). Gli infiniti casi dell’assonometria trimetrica implicano un
triangolo delle tracce sempre scaleno, quelli dell’assonometria dimetrica un
triangolo delle tracce sempre isoscele, mentre l’unico caso possibile di
assonometria ortogonale isometrica non può che ammettere un triangolo delle
tracce equilatero. È evidente che nel caso isometrico ciascun piano coordinato
obiettivo è egualmente inclinato rispetto al quadro.

proiezioni parallele 51
2.4 Il metodo di Monge

L’assonometria ortogonale è un utile strumento di simulazione delle


apparenze ottiche di un piccolo oggetto che consente anche di misurarne
l’estensione di segmenti per equipollenza e combinazione lineare delle
immagini dei segmenti unitari sugli assi assonometrici. Cioè ogni segmento
\\ a una direzione coordinata può essere direttamente misurato sul disegno
assonometrico.
Oltre a semplici problemi di misura l’assonometria ci consente di risolvere
abbastanza facilmente alcuni problemi di appartenenza (problemi grafici)
come la determinazione sul disegno del punto intersezione tra due rette o della
retta intersezione tra due piani. È tuttavia evidente che per risolvere queste
determinazioni è necessario disporre di più di una sola immagine di un punto
poiché la sua sola vera assonometria P’ è l’immagine degli infiniti punti della
retta proiettante che la individua sul quadro; è necessario associare in qualche
modo la vera assonometria P’ all’immagine certa di un altro punto, ad esempio
una delle sue tre immagini assonometriche. È evidente che su un piano π una
sola proiezione (immagine) di un punto dello spazio a tre dimensione non ne
costituisce una rappresentazione sufficiente, ne servono almeno due legate
da una convenzione rappresentativa chiara e più semplice possibile. È questo
lo scopo della geometria descrittiva nella quale si intende per metodo di
rappresentazione ogni procedimento che consente di risolvere con operazioni
grafiche sul piano (o al più con limitato uso di calcoli dimensionali) ogni
problema di posizione e di misura che concerne configurazioni dello spazio
ordinario a tre dimensioni. Le operazioni grafiche concesse sono da intendersi
quelle eseguibili con la sola riga (e quindi quelle con riga e compasso
surrogabili anche con la coppia di squadrette) e secondo le consuetudini della
geometria del piano e le proposizioni della geometria proiettiva.
Un metodo di rappresentazione è essenzialmente ciò che costituisce una
corrispondenza biunivoca tra i luoghi dello spazio ordinario e i luoghi di un
piano π sul quale si eseguono le costruzioni grafiche in modo che alle proprietà
e alle operazioni compiute sulle figure piane rappresentanti [bidimensionali]
corrispondano proprietà e operazioni sulle figure tridimensionali lì
rappresentate.
Poiché la descrittiva si pone nello sviluppo storico della prospettiva (intesa
come capitolo dell’ottica geometrica estesa a teoria delle rappresentazioni
proiettive su una superficie) i suoi metodi di rappresentazione si pongono
come particolari paradigmi proiettivi. Gli elementi di questi paradigmi
proiettivi si devono intendere come forme geometriche fondamentali della
proiettiva (in particolare il piano [punteggiato e rigato] e la stella [di rette e di
piani]); come già si è notato il piano punteggiato π, previa un’opportuna
convenzione di scrittura, si può riguardare come la sezione piana di una stella
(S) di rette che a sua volta si può considerare come la proiezione dal suo centro
dei punti P dello spazio.

52 fondamenti geometrici del disegno


2.4.1 Il paradigma del metodo di Monge. S’∞ π’’
Il metodo di Monge è la traduzione in metodo P’’ Q
P
di rappresentazione della millenaria ’’∞ Q’’
S
consuetudine di rappresentare i corpi in pianta
[icnografia] e alzato [ortografia] che, specie
nella pratica costruttiva dei componenti edilizie

P’
π’
e meccaniche, aveva stabilito la necessità di una π’
stretta corrispondenza tra le due immagini
P ’’ Q’’
ortografica e icnografica di uno stesso oggetto.

Aggetto quota
Questo metodo, detto anche della doppia Q’
π’π’’
proiezione ortogonale, consiste in una linea di terra
proiezione bicentrale su due piani ⊥ e in un
(successivo) ribaltamento (e quindi in una terza P’
proiezione) che porta a sovrapporre il piano π’
icnografico [orizzontale] e il piano ortografico
[verticale] nell’unico piano del disegno. I due
piani π ’ (piano dell’icnografia o piano r r’’ π
orizzontale) e π’’ (piano dell’ortografia o piano P ’’
verticale) sono tra loro ⊥ e a loro ⊥ sono i due S’’
∞ T’’
r T’ r
centri di proiezione S’ ∞ e S’’ ∞; brevemente

r’
[S’∞⊥S’’∞; S’’ ∞⊥π’’; π’’⊥π’].

π’
Su π ’ e π ’’ ogni punto P dello spazio è π’
rappresentato dai due punti di traccia nei quali
le due rette proiettanti che passano per P r ’’ T’’r
intersecano i quadri π’ e π’’. Il punto P è quindi
completamente individuato dai due punti che π’ T’r
costituiscono la sua prima immagine P’ r’
(icnografia, P’=PS’ ∞ ∩π ’) e la sua seconda
immagine P’’ (ortografia, P’’= PS’’∞ ∩π’’).
Ogni retta r dello spazio è rappresentata dalle
rette di traccia (d’ intersezione) con il quadro dei α
due piani proiettanti che passano per essa, e t’’ π’’
quindi da una sua prima immagine r’ = S’∞r∩π’ α
e da una sua seconda immagine r’’ = S’’∞ r∩π’’.
Oppure r è rappresentata dalle coppie di
t’ α

immagini (P’,Q’; P’’,Q’’) di due suoi punti P e


π’

Q. π’
Naturalmente ogni retta incontra π’ e π’’ in due t ’’ α
suoi punti di traccia che si indicano con T’r e con
T’’r .
Ogni piano α è rappresentato tradizionalmente
dalla prima traccia t’ α (la retta d’intersezione
t’α
α∩π’) e dalla sua seconda traccia t’’α = α∩π’’;
ovviamente le due tracce di un qualunque piano π’

proiezioni parallele 53
si incontrano sempre in un punto proprio o improprio della retta comune a π’
e π’’ ( detta linea di terra).
Ma senza considerare la linea di terra, come di preferenza accade nella
tradizione anglosassone, un piano può essere rappresentato dalle coppie delle
immagini di tre suoi punti (P’,Q’,R’; P’’, Q’’, R’’). O ancora dalla coppia di
immagini (r’, s’; r’’, s’’) di due rette che condividono un punto proprio o
improprio (rette complanari).
Riassumendo, secondo i postulati di appartenenza, si può dunque
rappresentare:
un generico punto P ≈ (P’,P’’) anche come intersezione di due rette rs ≈ (r’s’,
r’’s’’);
una generica retta r ≈ (r’, r’’), o con due suoi punti PQ ≈ (P’Q’, P’’ Q’’), o come
intersezione di due piani αβ ≈ (t’α∩t’β, t’’α∩t’’β) o, in altro modo, ABC ∩DEF;
un generico piano α si può rappresentare non solo attraverso le sue tracce
come ≈ (t’α , t’’α), ma con una coppia di sue rette rs, o con una terna di suoi
punti PQR.
Occorre poi fare in modo che i due quadri π’ e π’’ vengano a sovrapporsi
sull’unico praticabile foglio del disegno “ribaltando” il piano π’’ su π’ intorno
alla loro comune intersezione detta linea di terra. Questo equivale (cfr. 2.1.1)
a definire un terzo centro di proiezione improprio Q∞ in direzione bisettrice
l’angolo diedro π’ π’’ grazie al quale si costituisce una prospettività tra π’ e π’’
che ha centro in Q∞ e asse nella retta π’π’’ (linea di terra).
È evidente che un generico punto P, le sue due immagini P’ e P’’, e i centri
proiezione Q∞, S’∞ e S’’∞ appartengono ad un piano ⊥ sia a π’ che a π’’, ovvero
a un piano che si dice proiettante in prima e in seconda proiezione, un piano
che dunque incontra π’ e π’’ in tracce ortogonali alla linea di terra. Queste
tracce, che appaiono quindi dopo il ribaltamento di π’ su π ’’, sovrapposte sul
piano del disegno, ⊥ alla linea di terra, sono dette retta di richiamo e su di esse
sono allineate le due immagini P’ e P’’ del generico punto P. Per assecondare
l’intuizione spaziale la distanza di P’’ dalla linea di terra si dice quota, mentre
quella di P’ si dice aggetto. I punti della linea di terra sono quelli che hanno
aggetto e quota nulla. I punti che hanno la quota uguale all’aggetto
appartengono evidentemente a uno dei due piani bisettori il diedro π ’π’’.

2.4.2 Condizioni di ∈ e // , piani e rette notevoli. Le condizioni di


appartenenza tra punto, retta e piano sono già state implicate nelle
osservazioni precedenti sulla loro rappresentazione in doppia proiezione
ortogonale dove risultano sempre vere le seguenti proposizioni:
P ∈ r ↔ P’∈ r’, P’’∈ r’’ (cioè un punto P e una retta r si appartengono quando
si appartengono le immagini omonime);
P ∈ α ↔ P∈ r, r ∈ α (un punto appartiene a un piano se appartiene a una retta
del piano);
r ∈ α ↔ T’r ∈ t’α, T’’r∈ t’’α (una retta e un piano si appartengono quando si
appartengono le loro tracce omonime o, più in generale, quando si

54 fondamenti geometrici del disegno


appartengono le immagini omonime delle loro sezioni con due altri piani).
Infatti si chiarirà come la rappresentazione del piano attraverso le sue due
tracce [α≈ (t’α , t’’α )] non sia che un caso particolare della rappresentazione di
un piano attraverso le sue intersezioni con un
generico diedro. α
Caso limite delle condizioni di incidenza (e
dunque qui non caso metrico) è quello delle
t’’ π’’
α
condizioni di parallelismo [\\]. Dato che le

pi
an
o
or
immagini dei punti impropri sono punti

iz
zo
nt
al
e
impropri, rette parallele hanno immagini

t’ α
omonime parallele; piani paralleli hanno tracce

π’
π’
(o sezioni con un diedro) omonime parallele. t’’α
Casi notevoli della relazione di parallelismo sono
alcuni piani e rette particolari di fondamentale
importanza nelle applicazioni.
Si dice piano frontale un qualunque piano // al
piano ortografico π ’’ e si definisce piano
t’α
orizzontale ogni piano // al piano icnografico π’’.
Un piano generico α generalmente inclinato
[α∠π’;α∠π’’] è intersecato da un piano orizzontale
lungo le sue rette orizzontali e da un piano frontale t’’
lungo le sue rette frontali. α α
La prima immagine f’ di una retta frontale e la
pian
o fr
π’’
onta
seconda immagine o’’ di una retta orizzontale le
sono rette parallele alla linea di terra [f’//π’ π’’;
t’ α

o’’// π’ π’’]; queste immagini sono evidentemente π’


le tracce di piani proiettanti rispettivamente π’
frontali e orizzontali. t’’α
La seconda immagine f’’ di una retta frontale e la
prima immagine o’ di una retta orizzontale
mostrano in vera grandezza l’estensione dei
segmenti di f e di o dell’angolo d’inclinazione f
π ’(della retta frontale rispetto al piano
orizzontale) e oπ’’ (della retta orizzontale rispetto t’α π’
al piano verticale).

2.4.4 Problemi grafici. Prima della capillare diffusione del disegno assistito
dal computer il metodo di Monge ha costituito il mezzo più frequentato nella
risoluzione dei problemi di geometria descrittiva applicata alle arti costruttive.
Un problema di geometria descrittiva è una proposizione che richiede di
determinare, attraverso costruzioni prevalentemente grafiche elementari,
figure incognite dotate di certe proprietà (richieste) a partire da un insieme
di elementi dati; esso è determinato se vi è un numero finito di figure che
soddisfano la richiesta, indeterminato se le soluzioni sono infinite, impossibile
(in modo assoluto o relativo ai mezzi adoperati) quando la richiesta non

proiezioni parallele 55
ammette soluzioni. Rispetto all’uso delle costruzioni grafiche elementari
della geometria del piano un problema descrittivo presenta la particolarità di
risolversi graficamente attraverso un metodo di rappresentazione e quindi
sempre secondo una o più omologie del piano (del foglio del disegno). La
richiesta di costruire una figura avente certe proprietà deve essere intesa
riferita agli elementi che rappresentano la figura secondo un dato metodo di
rappresentazione. Perciò dalla distinzione delle proprietà di una figura in
grafiche e metriche consegue l’analoga suddivisione dei problemi.
Se nella proposizione di un problema non compaiono tra i dati o le incognite
condizioni di ortogonalità o misure delle estensioni di segmenti di retta, di
piani o di angoli, allora il problema è detto di posizione o problema grafico (in
opposizione a problema metrico) e si risolve considerando semplicemente le
condizioni di mutua appartenenza tra gli enti rappresentati. Si noti che la
condizione di parallelismo non è qui considerata una questione metrica perché
si ammettono sempre gli elementi impropri dello spazio e dunque rette e piani
// sono incidenti in un punto e in una retta impropri.
Tutti i problemi di posizione costituiscono semplicemente la precisazione delle
mutue appartenenze e sono riducibili in fondo ai due seguenti e ai loro duali
nello spazio:
1) costruire la retta congiungente due punti dati; 1’) costruire la retta
intersezione tra due piani dati;
2) costruire il piano che contiene un punto e una retta dati; 2’) determinare il
punto di intersezione di un piano e di una retta dati.
Nel metodo di Monge i primi due problemi fondamentali di posizione
[determinare la retta per due punti A, B; determinare il piano che passa per
un punto P e una retta r ∉ P ] sono già risolti automaticamente nel disegno
poiché l’immagine della retta AB è già individuata da quella dei due punti e
l’immagine del piano Pr è già data in quelle di quel punto e di quella retta. E
altrettanto evidente è il caso particolare ove A o B o C sia improprio e dunque
AB sia la semiretta nella direzione A o B, e ABC il semipiano che ha impropria
una retta per il punto dato improprio.

2.4.4.1 Intersezione di due piani. Il terzo


problema fondamentale di posizione è la
determinazione della retta αβ intersezione di due
piani α e β . La soluzione si ottiene sempre
intersecando i due piani α e β con un diedro π θ
ottenendo le rette απ, βπ, αθ , βθ e quindi la retta
cercata αβ congiungente i due punti απ∩βπ, αθ ∩βθ. t’’α t’’β
Se i due piani αβ sono dati, come avviene
tradizionalmente, attraverso le loro tracce t’ α , t’ β,
t’’ α , t’’ β la soluzione è già data poiché le tracce
costituiscono le intersezioni di α e β con il diedro
π’ π’’; non resta che unire le proiezioni omonime dei
t’α
punti t’α ∩t’ β e t’’α ∩t’’β. t’β

56 fondamenti geometrici del disegno


Se, come preferisce la tradizione anglosassone, i due piani sono dati con due
terne di punti (ABC) e (DEF), la soluzione (ABC∩DEF) si ottiene attraverso
un’opportuna intersezione dei triangoli dati con
due piani proiettanti π e θ.
Si scelgano ad esempio due piani π e θ orizzontali,
ciascuno dei quali si può dunque immaginare
come la superficie di un liquido nel quale F’’
sono immersi i due piani dati:
aggiungendo liquido i due piani vengono
lambiti a un livello di quota superiore
sempre lungo una loro retta (orizzontale)
di pendio nullo. La seconda immagine π’’
e θ’’ di questi due “piani del liquido” è C’’
una coppia di rette orizzontali che
danno le seguenti immagini: P’’ Q’’ R’’ T’’
π’’ interseca il trilatero A’’B’’C’’ in E’’
P’’ e Q’’ e interseca il trilatero Y’’ W’’
B’’ U’’ V’’
D’’E’’F’’ in R’’ e T’’; θ’’ interseca il
trilatero A’’B’’C’’ in U’’ e V’’ e
A’’
interseca il trilatero D’’E’’F’’ in Y’’ E’
e W’’. D’’
Tracciando le rispettive linee di Q’ R’
richiamo si determinano sul P’ Y’ V’
trilatero A’B’C’ i punti P’,Q’ e U’, V’
mentre sul trilatero D’E’F’ si A’
individuano i punti R’, T’, Y’ e W’
U’
(che equivale a determinare la prima
immagine di π∩ABC ≈ (P’Q’) , di F’
π∩DEF ≈ (R’T’), di θ∩ABC≈ U’V’ , B’ D’ W’ T’
di θ∩DEF≈ Y’W’).
La prima immagine dei due punti della retta C
ABC∩DEF è data rispettivamente da P’Q’∩R’T’
e da U’V’∩Y’W’.
Non resta infine che determinare attraverso le
rispettive rette di richiamo le seconde immagini r
P’’Q’’∩R’’T’’su π’’ e U’’V’’∩Y’W’ su θ’’. B
A
2.4.4.2 Intersezione tra una retta e un piano.
Il quarto problema fondamentale di posizione
r’’
chiede di determinare il punto r∩α comune di un
piano α e di una retta r dati (con r ∉α ). Cioè:
B’’
assegnata una retta r≈(r’,r’’) e un piano α≈(A’B’C’,
A’’B’’C’’), si determinino le immagini del punto
r∩ABC. r’
Alla soluzione si perviene prima individuando la B’

proiezioni parallele 57
retta d’intersezione αθ tra il piano α = (ABC) e un piano θ scelto tra i due piani
proiettanti (in prima o in seconda proiezione) che determinano le immagini
r’ o r’’ di r. Basta dunque costruire l’intersezione di uno qualsiasi dei due
piani proiettanti S’∞r oppure S’ ∞r e con ABC. Si scelga ad esempio il piano
proiettante θ che determina r’ (immaginatelo come una lama verticale che
passa per la retta stampandone l’immagine r’ su π’). Questo piano proiettante
θ = (S’∞ r ) è rappresentato dalla sola retta r’, cioè la sua prima immagine è
coincidente alla prima immagine r ’ della retta e interseca A’B’ e A’C’
rispettivamente nei punti P’ e Q’. Attraverso le linee di richiamo si individuano
la seconda immagine P’’ su A’’B’’ e Q’’ su A’’C’’ che determinano la seconda
immagine della retta S’ ∞r∩ABC. La seconda immagine del punto cercato
sarà r’’ ∩P’’Q’’ al quale corrisponderà sulla linea di richiamo alla prima
immagine su r’.

2.4.4.3 Intersezione tra poliedri. Iterando il procedimento (indicato in


2.4.4.1) di determinazione della
retta comune a due piani si
perviene a soluzione dei diversi E
problemi di intersezione tra
poliedri assai comuni nelle
applicazioni edili e meccaniche.
Dati ad esempio i due tetraedri N M
ABCD e EFGH entrambi con una A
F
faccia appoggiata al piano π ’
(orizzontale), per determinarne la T
loro intersezione si può constatare
che su π’ è già noto il punto comune
T’ dei lati BC e FG e il punto R’ E’’
intersezione dei lati BD e GF. Per
determinare il resto della retta ABC A’’
∩ EFG e della retta ABD∩ EFG è
necessaria un’ulteriore sezione t’’β
piana dei due tetraedri. Si V’’ W’’
rappresenti un qualunque piano
orizzontale β che possiamo
immaginare come la superficie di F’’ B’’ G’’
un liquido nel quale i due corpi H’ T’’ R’’ D’’
sono parzialmente immersi;
ovviamente t’’ β è una linea E’
G’ D’
orizzontale che taglia (lambisce) M’ R’
A’’B’’ in W’’ e il lato EF in V’’. Si B’
V’ W’
individuano quindi con le
N’ T’ A’
opportune linee di richiamo le
prime immagini W’ e V’di quei F’
C’
58 fondamenti geometrici del disegno
punti, e ripetendo l’operazione anche per gli altri spigoli si ritrova la prima
immagine della sezione dei tetraedri con il piano β , ovvero la coppia di
triangoli, uno con vertice W’ omotetico a B’C’D’ rispetto ad A’ e uno con
vertice V’ omotetico a F’G’H’ rispetto a E’ (nei quali i due corpi sono lambiti
dalla superficie del liquido). Prolungando i lati per V’ eW’ di questi triangoli
intersezione dei tetraedri con il piano β si ottengono le immagini dei loro punti
di intersezione M’ e N’.
Tracciando la retta M’T’ si individua l’intersezione ABC ∩EFG, mentre la retta
N’R’ sarà evidentemente ABD∩EGF. E dunque le porzioni di queste rette che
corrono sulle facce dei prismi ne segnano l’intersezione.
Se i due tetraedri non fossero appoggiati al piano orizzontale potremmo
comunque tagliarli con un qualunque altro piano orizzontale ricadendo nel
caso precedente.

2.4.4.4 Omologia di rappresentazione del piano. Riconoscere che tra le


due proiezioni ortogonali di una stessa figura del piano esiste una particolare
affinità omologica è utile a semplificare molte costruzioni grafiche nei
problemi di rappresentazione. Si osservi quindi che le due immagini (ℑ’, ℑ’’)
di una figura ℑ ∈ a un generico piano α sono legate da un’affinità omologica
che ha centro improprio Š ∞ nella direzione ortogonale alla linea di terra
essendo punti corrispondenti allineati lungo le linee di richiamo (rette unite
dell’affinità). L’asse di quest’affinità è il luogo dei punti (uniti) la cui prima e
seconda proiezione coincidono. Il luogo dei punti [P ≈ (P’≡P’’)] la cui prima e
seconda immagine coincidono è il secondo piano bisettore del diedro π ’π ’’
cioè il luogo dei punti che hanno quota uguale all’aggetto.
Da ciò segue che l’asse dell’affinità di rappresentazione che intercorre
tra le due immagini delle
A’’
figure di un piano α è
proprio l’immagine della centro
dell’affinità
retta nella quale esso
Š∞
interseca questo secondo
piano bisettore. Infatti i punti
di questa retta sono i soli le cui
prime e seconde immagini C’’
coincidono e dunque sono i soli B’’
punti uniti, oltre a Š ∞ , che si
C’ A’
trovano nella rappresentazione del
piano. Si costata immediatamente
asse

come, allorché il piano sia


dell

rappresentato attraverso le immagini di


’af f

suoi tre punti ABC, i due triangoli A’B’C’


init
à

e A’’B’’C’’ non possano che essere


triangoli omologici (affini); prolungando i
lati omonimi non si può che constatare che B’
si incontrano in tre punti allineati.
proiezioni parallele 59
2.4.5 Problemi metrici. Si dicono metriche le proposizioni che includono
una condizione di ortogonalità [⊥] o una misura di estensione lineare o
ampiezza angolare come le seguenti:
costruire per un punto dato una retta ⊥ a un piano dato; costruire per un punto
dato una retta ⊥ a una retta data; misurare la distanza tra due punti; misurare
l’ angolo (diedro) formato da due piani; misurare l’angolo formato da due rette
(complanari).
Con gli odierni più diffusi software per il disegno assistito dal computer questi
problemi, come del resto tutte le questioni grafiche, sono facilmente risolubili
attraverso protocolli intuitivi ma prima del loro avvento nella pratica
progettuale lo strumento più attagliato allo scopo era il metodo di Monge nato
come più estrema semplificazione dei sistemi grafici per la stereotomia, per
la determinazione della vera forma e misura di un preciso componente
costruttivo lapideo o ligneo.
Ovviamente, come ogni altra proiezione parallela, la doppia proiezione
ortogonale produce rappresentazioni che conservano sempre i rapporti
semplici di tre punti; un segmento AB e un punto C della retta AB sono
proiettati nelle due immagini (A’, B’ e C’) e (A’’, B’’ e C’’) tali che (AC/BC) =
(A’C’/B’C’) = (A’’C’’/B’’C’’). Questa costante di proporzionalità può essere
espressa altrimenti per ciascuna delle due immagini della retta; poiché la retta
AB e la sua prima proiezione A’B’ sono rette di un piano proiettante in prima
proiezione (un piano verticale per AB) che si incontrano in [AB∩A’B’] quello
che tradizionalmente si chiama prima traccia (T’AB) della retta AB formando
tra loro un angolo ϕ detto angolo di pendio di AB su π’. Segue che la proiezione
ortogonale A’B’ di AB ha un’estensione pari a A’B’=AB . cos ϕ.
E analogamente, detto φ l’angolo di pendenza di AB rispetto π’’, si ha che
A’’B’’ =AB . cos φ. Si potrebbe osservare anche che tra la retta AB e la sua
prima immagine intercorre una particolare prospettività di centro S’∞ e punto
unito in quello che tradizionalmente si chiama punto di traccia T’AB; così a
ogni coordinata ascissa x di AB corrisponde una coordinata ascissa x’ di A’B’
tale che x’=x cos ϕ .
Ma, a prescindere da ogni calcolo proporzionale o trigonometrico, il metodo
della doppia proiezione ortogonale, come i suoi antecedenti sistemi
stereotomici, consente di determinare la “vera estensione” AB di un segmento
AB per via esclusivamente grafica “ribaltando” sul piano del disegno uno
qualsiasi dei due piani proiettanti che ne determinano la prima o la seconda
immagine. Infatti è evidente che la proiezione ortogonale A*B* di un
segmento AB // al piano di proiezione è un segmento congruente
[cos AB A*B* = 1 ↔ AB = A*B*].
Si può, ad esempio, ribaltare su di un piano orizzontale il piano verticale che
contiene un segmento AB; scegliendo per semplicità il piano orizzontale θ
che passa per il punto A e che dunque avrà come seconda immagine una retta
orizzontale passante per A’’. Se indichiamo con K il piede della perpendicolare
abbassata da B su θ ammettiamo che ABK è un triangolo retto in K. Di questo
triangolo ABK il cateto verticale KB, che misura la differenza tra la quota del
60 fondamenti geometrici del disegno
punto B e quella del punto A, è ovviamente
// π ’’ e, dunque, risulta proiettato in vera B
misura nella sua seconda immagine K’’B’’,
mentre il cateto orizzontale AK risulta K A
proiettato in vera misura nella sua prima
proiezione A’ K’ ≡B’.
È quindi immediato ritrovare il ribaltamento
sul piano θ del triangolo ABK intorno al cateto B’’
AK; per individuare la posizione B* del punto
B ribaltato basta tracciare in prima proiezione
K’’ A’’
dal punto K’≡B’, perpendicolarmente a A’K’,
un segmento congruente a K’’B’’ .
Si vede come in generale un qualunque
segmento AB sia sempre ipotenusa di un K’≡B’ A’
triangolo rettangolo che ha cateti congruenti,
l’uno (AK) a una sua proiezione e l’altro (BK)
alla differenza (algebrica) di quota nell’altra B*
proiezione tra A e B. È dunque sempre
possibile ottenere un segmento in “vera misura” sul piano di rappresentazione
considerando il ribaltamento del piano proiettante che ne determina il cateto
AK in vera misura.

2.4.5.1 Condizione di ortogonalità e retta di massimo pendio. Una retta


r è ⊥ a un piano α se r è l’asse di un fascio (r) di piani tutti ⊥ ad α; dunque nel
metodo di Monge appartengono a quel fascio (r) anche i due piani proiettanti
che determinano le immagini r’ e r’’ di r. Ne segue il teorema:
se r ⊥α ↔ la prima immagine r’ della retta r è ⊥ alle sezioni (alle rette)
orizzontali del piano α e la seconda immagine r’’della retta è ⊥ alle sezioni
(alle rette) frontali del piano α.
Ovvero, detto in altri termini: condizione necessaria e sufficiente affinché
una retta sia ortogonale a un piano è che le immagini della retta siano
ortogonali alle immagini omonime delle rette principali del piano: la prima
immagine della retta deve essere ⊥ alle rette orizzontali del piano, la seconda
immagine della retta deve essere ⊥ alle rette frontali del piano.
La condizione di ortogonalità tra rette si riporta alla proposizione precedente:
due rette sono ⊥ se una è ⊥ a un piano che contiene la seconda.
Se consideriamo il piano orizzontale nel suo significato fisico risulta evidente
come le rette orizzontali di un piano α si dicano anche rette a pendenza nulla,
mentre le rette del piano α a esse ortogonali si dicono rette di massima
pendenza. Le rette di pendio nullo di un piano sono le sue sezioni orizzontali
ovvero i luoghi nei quali questo generico piano verrebbe lambito dalla
superficie di un liquido nel quale fosse immerso. Per effetto della gravità lungo
le rette orizzontali, un liquido o una sfera non avrebbero alcuna tendenza a
muoversi in alcuno dei due versi; ma la sfera pesante o il liquido lasciati cadere
sul piano tendono a muoversi lungo un direzione che abbiamo detto di

proiezioni parallele 61
massimo pendio.
La direzione di massima pendenza di una piano α è individuata sul piano α
sezionandolo con quel piano verticale (cioè un piano che contiene la direzione
della forza di gravità) che sia anche ⊥ α [αθ è retta di massimo pendio ↔ θ ⊥α;
θ ⊥π’].

2.4.5.2 Ribaltamento di un piano generico. Per determinare la vera forma


e misura delle figure di un piano rappresentate nel metodo di Monge, si ricorre
al ribaltamento di quel piano sul piano della rappresentazione, nel modo già
utilizzato per le assonometrie ortogonali (2.3.2).
Ricordiamo che dato nello spazio un segmento AB ogni altro terzo punto C
non allineato ad AB individua un piano ABC che interseca il piano orizzontale
π ’ nella retta ABC ∩ π ’, ovvero in quella che abbiamo chiamato
tradizionalmente prima traccia [t’ ABC] del piano ABC.
Tra il triangolo (o trilatero) ABC e la sua prima immagine A’B’C’ proiezione
ortogonale da S’∞ esiste per costruzione una prospettività ω di centro S’∞ e
asse ABC ∩ π’ [cioè t’ABC ].
Sappiamo inoltre che “ribaltare” il piano ABC su π’ (ottenere cioè i ribaltati
A*B*C*) intorno alla loro traccia comune [t’ABC] equivale a costruire una nuova
prospettività ottenuta dalla proiezione su π’ dei punti di ABC da un punto Š∞
in direzione ortogonale al piano bisettore il diedro ABC π’.
Il prodotto di queste due prospettività è un’altra prospettività ω’ tra A*B*C*
e π’ sovrapposti, ovvero è una particolare omologia (affinità omologica) ω’.
Ricordiamo le caratteristiche di questa affinità ancora attraverso una semplice
immaginazione meccanica del ribaltamento di un piano generico ABC
assimilandolo a uno “sportello” di una botola che ruota intorno alla sua traccia
orizzontale t’ABC (o verticale t’’ABC) che funge da vera e propria “cerniera”;
ogni punto dello “sportello” ruoterà spazzando un piano ⊥ a quello dello
sportello stesso e ⊥ anche al pavimento (o alla parete) e dunque ⊥ alla cerniera.
Quando lo sportello sarà disteso sul pavimento ogni suo punto si ritroverà
rispetto alla sua posizione di partenza allineato secondo una perpendicolare
alla cerniera.
È d’altronde evidente come le rette che ruotano entro uno stesso piano [le
rette che non descrivono nella rotazione un cono o un cilindro] sono solo quelle
⊥ alla “cerniera” ovvero sono le rette di massima pendenza del piano dello
sportello ABC rispetto al piano del pavimento π’ (o della parete π’’).
“Ribaltare” le figure di un piano sul piano della rappresentazione consiste
nel costruire l’affinità omologica [ω’= (S’∞ Š ∞ ∩ π’, ABC∩π’; A’, A*)] che ha il
suo centro improprio nella direzione S’ ∞ Š ∞ ∩ π ’ ovvero nella direzione
ortogonale all’asse proprio ABC ∩ π ’ che è ovviamente la traccia del piano
ABC. Un’affinità che risulta completamente definita una volta nota una coppia
qualsiasi di elementi corrispondenti, ad esempio A’ ed A* (cioè l’immagine di
un punto e il suo ribaltato).
Rappresentato dunque nel metodo di Monge un piano ABC ≈ (A’B’C’,
A’’B’’C’’) si fissi sempre ad arbitrio una linea di terra. Si tracci una
62 fondamenti geometrici del disegno
qualunque sezione orizzontale o del piano ABC tracciando una retta
orizzontale o’’ nella sua seconda proiezione A’’B’’C’’ e si ritrovi
con le linee di richiamo condotte dai punti di intersezione
della o’’ con i lati di A’B’C’ la prima immagine o’ di quella A’’
sezione. Si individui poi nella prima proiezione
A’B’C’ una qualunque sezione frontale f del
piano ABC tracciandovi ovviamente una
retta orizzontale f’, e si trovi con le o’’
opportune linee di richiamo
condotte dai suoi punti B’’ f ’’
d’intersezione con i lati C’’
A’C’B’ la seconda B’ A’
immagine f’’. o’
Il corrispondente in prima
proiezione del punto dove f’’ t’ABC
interseca la linea di terra è il punto in cui f’
la f’ incontra il piano orizzontale π’.
Conducendo da quel punto una // a o’ si disegna la C’
traccia orizzontale t’ABC del piano, una traccia che
assumiamo come asse del ribaltamento di ABC su π’. Per
quanto detto prima, dopo il ribaltamento su π’ i vertici del
triangolo in vera forma e misura A*,B*,C* appariranno
rispettivamente allineati ad A’,B’ e C’ rispetto al centro
improprio di quell’affinità ortogonale, quindi lungo
perpendicolari alla t’ ABC (asse dell’affinità). A’’
Quelle perpendicolari alla traccia t’ ABC sono
le rette unite (ma non fatte di punti
uniti) dell’affinità e rappresentano
tanto le immagini p’ quanto le B’’
ribaltate p* delle rette di p’’
massima pendenza di ABC.
K’’ C’’
Quindi per trovare una coppia B’
di elementi corrispondenti, ad p’ A’
esempio A’ ed A*, di
quell’affinità di ribaltamento B* t’ABC
del piano ABC su π’ intorno a (p )
t’ ABC ci basta conoscere la vera K*
distanza di A dal punto unito K
ass
in cui la retta di massima ed
ell’
af f
pendenza che passa per A init
à
incontra t’ABC .
Consideriamo quindi la retta di
massima pendenza p di ABC che p*
passa per A; in prima proiezione A*
p’ si disegna tracciando per A’

proiezioni parallele 63
l’ortogonale alla t’ABC e chiamiamo K’( ≡K*) il punto in cui la p’ interseca la
t’ABC . La vera misura del segmento KA si trova ribaltando intorno a p’ quel
piano proiettante θ che determina l’immagine p’ (come si è già indicato alla
fine del 2.4.5). In quel ribaltamento il segmento che misura la quota di A (la
distanza tra A’’ e la linea di terra) risulta perpendicolare alla p’, e graficamente
non resta che tracciare per A’ la ⊥ a p’ e su quest’ortogonale da A’ riportare la
misura della quota di A’’, cioè individuarvi il segmento A’A° congruente alla
distanza tra A’’ e la linea di terra (π’π’’). Ecco dunque nel segmento K’A° in
vera misura la distanza AK cioè la distanza di A dalla t’ABC. Puntando in K’ con
raggio K’A°si traccia l’arco di cerchio che incontra la p’ nel cercato A*,
ribaltato intorno a K’ di A’.
Tutte le altre figure di ABC eventualmente presenti nell’immagine A’B’C’ si
possono “ribaltare” su π ’ concludendo l’affinità di ribaltamento ormai
completamente determinata.

64 fondamenti geometrici del disegno


3 APPLICAZIONI SULLE PROIEZIONI PARALLELE E LE
CONICHE

3.1 Esercizi di ricapitolazione sul metodo di Monge

3.1.1 Data un figura piana ℑ* ∈ π’ e un piano generico


α≈(t’α, t’’α) si determinino le due immagini ℑ’ e ℑ’’ della
figura come appartenente al (ribaltata su il)
piano α.
1) Si costruisca una retta θα di
massima pendenza di α rispetto a t’’α
π’ tracciando uno qualsiasi θ
dei piani verticali ⊥α e
passanti per un punto A* di ℑ*.
2) Si ribalti θ su π’ intorno alla
sua prima immagine t’θ ritrovando
t’α A T’ αθ
in vera grandezza il segmento A T’αθ;
3) si tracci per A’ la perpendicolare a
t’α e su di essa si riporti il segmento
A T’αθ attraverso l’arco di circonferenza
di centro T’αθ e raggio A T’αθ.
Determinata così su quella perpendicolare
la coppia di punti corrispondenti A e A’ si A*
dispone di tutti gli elementi per completare
l’omologia (affinità omologica) che trasforma
ℑ* in ℑ’ (cfr. 2.2.5, 2.3.2 e in particolare 2.4.5.2).
3’) Per semplificare si consideri che quelle che t’’α
possiamo considerare le rette orizzontali di ℑ*
sono // t’α e si trasformano in rette orizzontali
di ℑ’ anche loro // t’α, mentre le rette
verticali di ℑ* e di ℑ’ sono unite
e ⊥ t’α; è dunque automatico
costruire i reticoli di
orizzontali e verticali
corrispondenti in ℑ*e ℑ’
riportando sulla prima
immagine della seconda traccia
di α i corrispondenti sulle
verticali delle orizzontali di ℑ*.
4) Anche per determinare ℑ’’ si può
ricorrere alle seconde immagini dei t’α
piani orizzontali che stabiliscono per
intersezione le rette orizzontali di α.
4’)Oppure, più semplicemente, si
costruisca l’omologia di rappresentazione

applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 65


(cfr. 2.4.4.4) che trasforma ℑ’ in ℑ’’ e che ha per asse il luogo dei punti
d’intersezione tra prima e seconda immagine di ogni retta.

3.1.2 Dato un poligono ℑ* ribaltato su π’ e un piano generico α≈(t’α, t’’α) si


determinino le due immagini ℵ ’ ed ℵ ’’ del prisma retto ℵ con base ℑ
appartenente al piano α e altezza h.
Il problema si riporta al precedente aggiungendovi l’utilizzo di un piano
verticale θ come terzo piano di
proiezione ortogonale // agli spigoli
in altezza del prisma retto che vi
compaiono dunque in vera
misura h* e ⊥ alla retta (αθ)*.
1) Come nell’intero
esercizio precedente si
costruisca l’omologia che
trasforma il poligono

’’
ribaltato ℑ * nella sua

(αθ)
prima immagine ℑ’∈α’ a
partire da una qualunque


(αθ)
sezione di massimo
pendio di α∩θ [θ⊥α; θ⊥π’]
ribaltata su π’ intorno a t’θ.
2) Si consideri ora il piano
verticale θ come un terzo
(αθ)*
piano di proiezione da un
centro S’’’∞ in direzione ⊥θ
e dunque la prima traccia
t’θ valga come la “linea di
terra” tra la doppia S’’
’∞
proiezione ortogonale da
S’∞ su π’ e da S’’’ ∞ su θ.
Si noti che le linee di richiamo di questa seconda doppia proiezione ortogonale
coincidono con la prima proiezione delle rette orizzontali di α.
3) Poiché il piano θ è // agli spigoli in altezza h del prisma in questa terza
proiezione ortogonale su θ, le immagini di questi spigoli saranno segmenti a
essi congruenti che giaceranno su rette ⊥ a t’θ.
4) Stabilita così la terza immagine ℵ’’’ del prisma retto su un piano parallelo
alla sua altezza, si ricavi la sua corrispondente proiezione ℵ’ su π’.
5) Per ricavare infine ℵ ’’ si possono scegliere diverse procedure: o si
costruiscono dalla seconda immagine dei vertici della base le seconde
immagini delle rette h ⊥α, o si rappresentano gli opportuni piani orizzontali
che passano per i vertici della base superiore del prisma.
Per questa seconda opzione basta riportare le quote dei punti da t’’θ* a t’’θ
con archi di cerchio con centro in t’’θ* a t’’θ , e infine tracciare la seconda
immagine dei piani orizzontali corrispondenti a quelle quote.

66 fondamenti geometrici del disegno


3.2 Esercizi di ricapitolazione sulle assonometrie cavaliere e il
metodo di Monge.

L’esercizio precedente mostra come un corpo (il prisma) possa essere


rappresentato compiutamente dalla sola prima immagine del metodo di
Monge e dal ribaltamento di un suo piano evidenziando come non vi sia alcuna
sostanziale differenza tra la doppia proiezione ortogonale e l’assonometria
ortogonale. Anche nelle assonometrie oblique militari si può far valere il loro
nesso evidente con il metodo di Monge poiché l’assonometria cavaliera o
quella militare hanno la particolarità di rappresentare congruenti le figure di
piani obiettivamente // al piano della rappresentazione e dunque a uno dei
piani π’’ o π’ dell’ordinaria doppia proiezione ortogonale. Nel metodo di
Monge abbiamo chiamato linea di terra lo spigolo del diedro π’ π’’, ma ora
possiamo considerarla come uno dei due assi x o y obiettivamente orizzontali
di un sistema di assonometria cavaliera xyz.

3.2.1 Rappresentazione della sfera. Nelle due immagini del metodo di


Monge il contorno apparente che rappresenta una sfera è sempre circolare:
su π’ (xy) viene proiettato ortogonalmente il circolo equatoriale mentre su
π ’’ (xz) si rappresenta il meridiano principale. Anche in assonometria
ortogonale il contorno apparente resta circolare ma ogni altro circolo massimo
si proietta in ellisse. In un’assonometria cavaliera il contorno apparente è
necessariamente un’ellisse e lo si può costruire anche come inviluppo delle
uniche figure che si conservano
Z z
circolari, le sezioni della sfera //
al piano della rappresentazione.
1) Si rappresenti dunque un
circolo che significa il O X x
meridiano principale della sfera 4
5 y’
di centro O e di raggio OX = OZ. Y’
6
Si tracci una serie di corde del Z
circolo 1, 2, 3, ... // all’asse x. Y’
2) Si ponga ad arbitrio il segmento OY’
che vuole significare l’immagine
assonometrica del raggio del
circolo equatoriale della sfera.
L’ellisse immagine
assonometrica completa di
O
quel circolo equatoriale si può 4’ 5’ 1’ 2’ X
dunque costruire 4 6’ 1 3’
automaticamente con l’affinità 5 2 Y’
obliqua che ha asse nell’asse x,
coppia di elementi omologhi Z e Y’ 6 3
e dunque centro nella direzione ZY’.
3) E in quell’ellisse le trasformate 1’, 2’,

applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 67


3’ ... delle corde 1, 2, 3, ... costituiscono i diametri delle
sezioni frontali della sfera che, quindi, restano
circolari. Il contorno apparente della sfera è l’ellisse
tangente a queste immagini (congruenti) delle
sezioni frontali.

3.2.2 Assonometria cavaliera di sistemi voltati.


Un’assonometria (xy’z) cavaliera può essere facilmente
costruita a partire da una rappresentazione mongiana (x yz)
considerando il fatto che la seconda proiezione ortogonale
yz è // al piano della rappresentazione e quindi coincide con la seconda
immagine assonometrica, mentre la prima proiezione xy si trasforma nella
prima immagine assonometrica x y’ a essa affine nell’omologia che ha per asse
l’asse x e coppia di elementi corrispondenti y e y’.
È chiaro che una volta trasformata la prima
proiezione mongiana xy (la pianta) nella prima
immagine assonometrica xy’ si può sempre
risalire alla vera assonometria di ogni punto
rappresentato nelle due immagini xz e xy’
poiché le rette proiettanti vi restano
ovviamente // agli assi x, y’, z.
Del tutto analoga alla precedente
rappresentazione della sfera è questa assonometria
di una cupola emisferica, rappresentata prima in
doppia proiezione ortogonale xyz, e poi attraverso
la trasformazione della sezione xy del piano
d’imposta nell’immagine assonometrica xy’ a essa
affine, dopo aver deciso arbitrariamente una coppia
di elementi corrispondenti.
Anche in questo caso il contorno apparente della cupola semisferica risulta
tangente alla serie delle immagini assonometriche delle sezioni frontali
costruite come nel caso precedente.
Sezionando la cupola emisferica con piani
verticali (cioè // y’z) si ottiene la
rappresentazione del pennacchio sferico.
La cupola risulta tagliata in quattro archi a tutto
sesto dei quali due frontali si rappresentano
effettivamente come semicircoli mentre i due laterali
si rappresentano in archi ellittici affini a questi. Per
determinarli si può procedere anche trovando l’immagine
assonometrica di ogni punto come intersezione delle due
rette, una // a z e una // y, rispettivamente condotte dalla
prima e dalla seconda immagine assonometrica del punto.
In modo analogo si procede costruendo le assonometrie
cavaliere di una volta a botte a tutto sesto e di una volta a

68 fondamenti geometrici del disegno


padiglione, entrambe interpretabili come esito dell’intersezione di due
semicilindri congruenti ad assi ortogonali lungo lo stesso piano diametrale.

3.3 Coniche

Che l’assonometria obliqua e l’ombra portata di una sfera ne rappresentino il


contorno apparente in un’ellisse si dimostra dalle proprietà delle sezioni piane
del cono e del cilindro, curve che chiamiamo indistintamente sezioni coniche
poiché intendiamo il cilindro come un cono che ha la semplice particolarità
di avere il vertice in un punto improprio e dunque le generatrici //.
Consideriamo ancora una sezione piana della superficie conica, e dunque una
conica, anche quella ottenuta con un piano sezionante che passi per il vertice
della superficie, solo che in quel caso la curva si riduce o a un punto o a una
coppia di rette (distinte oppure coincidenti) e viene detta conica degenere. Le
coniche proprie sono ovviamente curve che si ottengono sezionando con un
piano la superficie conica ma si riguardano come diverse manifestazioni,
diversi casi, di uno stesso dispositivo matematico che costituisce la semplice
generalizzazione del cerchio. Come il circolo è il luogo dei punti di un piano
equidistanti da un solo punto F (centro), l’ellisse è quello dei punti per i quali
è costante la somma delle distanze da due punti F1, F2 detti fuochi, l’iperbole
quello dei punti per i quali è costante la differenza delle distanze da due fuochi
F1, F2, la parabola quello dei punti per i quali è uguale la distanza da un punto
F (fuoco) e una retta d (direttrice). Le coniche si possono anche definire come
il luogo dei punti P di un piano tali che il rapporto tra la loro distanza PF da un
punto F detto fuoco e la loro distanza Pd da una retta d (corrispondente a F)
detta direttrice è sempre costante; tale rapporto si dice eccentricità e= PF/Pd,
e per e=1, e<1, e>1 la curva è rispettivamente parabola, ellisse e iperbole.

3.3.1 Sezioni del cono. Queste proprietà metriche che definiscono le coniche
si spiegano sempre con il modello della loro generazione in quanto sezioni
piane della superficie curva più semplice, quella conica rotonda intesa come
luogo delle rette g (generatrici) che passano per un punto V (vertice) di una
retta v (asse) e che formano con v un angolo θ costante. Un qualunque piano
π (non passante per V) taglia la superficie conica in una curva simmetrica
lungo un asse detto asse focale o asse principale della sezione conica. Tale asse
focale è l’intersezione del piano π della conica con il piano ad esso ⊥ che passa
per l’asse v della superficie conica e dunque è anche un piano di simmetria
della superficie. Esso incontra la curva nei suoi due apsidi A1 e A2, vertici
principali della conica la cui distanza 2a misura la lunghezza dell’asse focale.
L’asse focale della sezione conica può formare un angolo rispetto all’asse v
uguale, minore o maggiore di θ (l’angolo formato dalle generatrici g della
superficie) a seconda che il piano π sia // a una, a due o a nessuna generatrice.
Nel primo caso π incontra al finito tutte le generatrici tranne quella a esso //
per cui la curva, parabola, ha tutti punti propri tranne il suo secondo vertice
principale. Nel secondo caso i vertici della curva sono propri ma, essendo π
applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 69
// a due generatrici, la curva, iperbole, ha due punti impropri e dunque consta
di due rami. Nel terzo caso π incontra tutte le generatrici al finito e quindi si
determina una curva, ellisse o in particolare circolo, composta di tutti punti
propri che presenta anche una coppia di vertici secondari agli estremi di un
secondo, minore, asse di simmetria ortogonale.
Le proprietà metriche e grafiche delle sezioni del cono si deducono da quelle
della superficie conica.
Il luogo dei punti medi di tutta la schiera di corde parallele di una superficie
conica sono i punti di un piano che passa per il vertice e che chiamiamo piano
diametrale coniugato alla direzione delle corde //. Così sul piano π della
sezione conica il luogo dei punti medi di una schiera di corde // della curva è
una retta che viene detta diametro coniugato alla direzione delle corde.
Una schiera di piani // taglia generalmente una superficie conica in una serie
di coniche centrali omotetiche rispetto al vertice V; quindi il luogo dei centri
di queste coniche è una retta che passa per V che viene detta diametro
coniugato alla giacitura dei piani // considerati. Segue che (se una sezione
conica ha centro) tutti i diametri coniugati passano per il centro della conica.
Caso particolare è quello in cui π taglia la superficie conica in una parabola,
allora il piano diametrale coniugato a una direzione // a π passa per la
generatrice // a π. Tutti i diametri di una parabola sono // al suo asse.
Nel punto in cui un diametro incontra la conica, la tangente alla conica è //
alla direzione coniugata a quel diametro.
Chiariamo ora con analoghe considerazioni stereotomiche il ruolo dei fuochi
e delle direttrici.

3.3.2 Teorema di Quetelet e Dandelin. In una superficie conica rotonda


sezionata con un piano π non // a una generatrice (caso dell’ellisse e
dell’iperbole) esistono due sfere iscritte alla superficie
conica e tangenti al piano π nei fuochi F1 e F2 della
conica. Se π è // a una generatrice esiste una
sola sfera iscritta alla superficie e
tangente al piano π nel fuoco F della
parabola.
C1
F1 F2

C2

70 fondamenti geometrici del disegno


Inoltre i piani dei circoli di contatto delle sfere iscritte con la superficie conica
intersecano il piano sezionante π nelle direttrici della sezione conica.
Per dimostrare questa proposizione si consideri la sezione con il piano ⊥ π e
che passa per l’asse v della superficie conica; esso taglia la superficie secondo
due generatrici g1 e g2 e individua su π l’asse principale A1 A2 della conica.
In quel piano le due sfere iscritte alla superficie conica e tangenti a π risultano
tagliate in due cerchi massimi che si possono disegnare facilmente uno come
il circolo (di centro C1) iscritto al triangolo VA1A e l’altro come quel circolo (di
centro C2) ex-iscritto del trilatero VA1A2 che ha centro sull’asse v.
È evidente che il trilatero VA1A2 rappresenta le tangenti condotte dai punti
A1,e A2 ai due circoli di centri C1 e C2 nei punti Q2, Q1, F2, F1, R2, R1. E per la
simmetria del cerchio sono ovviamente uguali i due segmenti di tangente che
vanno dai punti di contatto R e Q ai punti esterni A per i quali si conducono
tali tangenti: così A1Q1 = A1F1 e A1F2 = A1R1.
Si vede dunque come sia A 1 Q 1 + A 1 R 1 = 2a
(lunghezza dell’asse focale A1A2 della conica) e
quindi come un qualsiasi segmento di
generatrice compreso tra i due circoli di
contatto delle sfere iscritte abbia estensione
uguale all’asse focale A1A2. Si immagini uno
qualunque di questi segmenti di generatrice
P1P2 compresi tra i due circoli di contatto
intersecare il piano π nel punto P.
I segmenti PP1 e PP2 (distanze di P dai
circoli di contatto)
sono i
segmenti di
tangenti condotte
da P alle due sfere
iscritte e per la simmetria
della sfera si può constatare che
PP1 = PF1 e PP2 = PF2 e
concludere che
PF1 + PF2 = A1A2 = 2a, cioè
che tutti i possibili
punti P della
sezione
individuano
un’ellisse
poiché sono
tali per cui resta
costante (= 2a)la
somma delle loro
distanze da F1 e da
F 2.

applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 71


3.3.3 Ombre della sfera. Naturalmente la dimostrazione precedente vale e si
semplifica se la superficie conica ha il vertice V all’infinito divenendo una
superficie cilindrica. Ogni sezione del cilindro con un piano π non // alle
generatrici è sempre un’ellisse (o in particolare un circolo, quando coincidono
i due fuochi, cioè i punti di contatto delle
due sfere iscritte nel cilindro e tangenti al
piano π di sezione), un’ellisse che ha
estensione dell’asse minore uguale al
diametro del cilindro ed estensione
dell’asse maggiore uguale al diametro
diviso per il seno dell’angolo formato dalla
giacitura del piano π con la direzione delle
generatrici.
Ha dunque questo contorno ellittico l’ombra solare portata di una sfera su un
piano π poiché è la sezione con π della superficie cilindrica luogo dei raggi
solari tangenti alla sfera. I raggi tangono la sfera lungo quel suo circolo
massimo che si ricava intersecando la sfera con un piano passante per il suo
centro e ortogonale alla direzione del Sole S∞, e questo circolo separa nel corpo
della sfera la parte illuminata da quella in ombra propria.
È semplice esercizio rappresentare quest’ombra in doppia proiezione
ortogonale specie se si pone il Sole in una direzione frontale (cioè \\ a π’’).
Rappresentata la sfera di centro C e scelta una direzione frontale del Sole S∞,
il circolo massimo separatore d’ombra si ricava intersecando la sfera con un
piano ABC ⊥ a S∞ e passante per il centro C. Essendo S∞ un direzione frontale
il piano ABC risulta proiettante in seconda proiezione e dunque rappresentato
di profilo dalla sua seconda traccia A1’’C’’, una retta per C’’ e ⊥ S∞’’.
La prima immagine
A1’,C’,A2’, B1’, B2’ del
circolo separatore
d’ombra risulta
ovviamente l’ellisse che
ha asse maggiore B1’B2’
(uguale al diametro
della sfera) e asse
minore A1’A2’uguale
alla proiezione
ortogonale di quel
diametro coniugato
(A1’’A2’’).
Il contorno dell’ombra
portata su π’ della
sfera è l’ellisse che ha
asse maggiore
nell’ombra della retta
di massimo pendio
72 fondamenti geometrici del disegno
(A1A2)del piano ABC che passa per C, e asse minore nella retta (B1B2) di pendio
nullo di quello stesso piano ABC che passa per C; e si può disegnare trovando
le intersezioni con π ’ dei raggi di sole (che sappiamo appartenere a piani
frontali) che tangono la sfera.
Più semplicemente si può trovare l’ombra portata dei diametri di massima
(A1A2) e di nulla (B1 B2) pendenza del circolo separatore d’ombra della sfera e
costruire su π’ l’ellisse cha ha per asse maggiore l’ombra A1*A2* e asse minore
l’ombra B1*B2* (quest’ultimo ovviamente congruente al diametro della sfera).

Tra le costruzioni grafiche dell’ellisse dati gli assi risulta comoda quella che
sfrutta la seguente proprietà: in un’ellisse ogni corda P1P2 \\ all’asse principale
A1A2 incontra il circolo che ha per diametro l’asse minore
B1B2 in due punti P1’ e P2’ sempre tali che
P1P2/P1’P2’ = A1A2/B1B2. B1
Si ricava dunque il seguente procedimento P’’
per determinare punti dell’ellisse dati gli
P’
assi A1A2 e B1B2; tracciate le circonferenze
concentriche che hanno per diametri i A C A2
1
due assi dal centro C si conduca una
qualunque semiretta, questa incontra la
circonferenza minore nel punto P’ e quella
maggiore nel punto P’’. Si conducano per P’ B2
la // all’asse maggiore e per P’’ la // all’asse
minore che si incontreranno in un punto P
dell’ellisse cercata.

Come riepilogo si rifà l’esercizio precedente nel caso in cui la direzione del
Sole non sia frontale.
1) Rappresentata una sfera di centro C in doppia
proiezione ortogonale si assegni una direzione
arbitraria del Sole disegnando il raggio di Sole che
passa per il centro della sfera, cioè conducendo da C’’
C’ e C’’ le rispettive immagini S∞’ e S∞’’di una retta
che significa la direzione del Sole.
2) Per utilizzare la procedura adottata nel caso
precedente dobbiamo costruire il piano verticale
che passa per quel raggio di Sole S∞C e ribaltarlo
su π’ intorno alla sua prima traccia S∞’C’.
Così da C’ si conduca una perpendicolare a S∞’C’
sulla quale si individua il segmento C’C*
congruente alla vera quota del centro C e che quindi C’
conduce al punto C* immagine del centro della ’C’
S∞
sfera ribaltato su π’. a c cia
tr
3) Si deve ora costruire il piano α del circolo
massimo separatore d’ombra della sfera, ovvero

applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 73


quel piano α che passa per C ed è ⊥ a
S∞ .
Perciò si rappresenti un qualunque
B’’ C’’
segmento orizzontale di α, meglio il
raggio CB, in prima e seconda
proiezione (C’B’, C’’B’’).
Poi si rappresenti l’immagine della
retta frontale che passa per B’’ del
piano α; essendo questo piano α ⊥ alla H’’ K’’
direzione S∞ la seconda immagine di
H’ B’
questa sua retta frontale deve essere ⊥
alla seconda immagine (S∞’’C’’) del A2’
C’
raggio di Sole, e la sua prima immagine A1’
deve essere // alla linea di terra.
Questa retta frontale incontra π’ in H K’
e, con la rappresentazione di questa
retta frontale del piano α, possiamo (A1)
individuarne la sua prima traccia t’α (C)
che passerà per il punto H e sarà ⊥ (A2)
S∞’C’ (cioè // a C’B’).
4) Chiamiamo K’ il punto
S ∞ ’C’ ∩ t’ α ; si noti che K’ è
l’immagine dell’intersezione con il
piano orizzontale π’ di quella retta di
massima pendenza di α che passa per
C. Così tracciando la retta K’C* si
individua il ribaltamento su π’ della
retta di massima pendenza KC che
B*
taglia il circolo separatore nel A 2*
diametro A1A2 la cui ombra portata è
l’asse maggiore dell’ellisse che fa da C*
B’
contorno all’ombra.
5) Per individuare i ribaltati di A1 e A2 A2’
basta costruire anche quel circolo di
A1’ C’
centro C* e raggio = AC che è il
ribaltato della sezione della sfera con K’
il piano verticale della retta KC. Se
consideriamo la retta K’C’ attorno alla (A1) (C)
quale si è ribaltato il piano della KC
(A2)
(retta di massima pendenza di α) come
la nuova linea di terra di una terza
proiezione ortogonale, risulta evidente come l’esercizio si sia ridotto al caso
già risolto prima.

74 fondamenti geometrici del disegno


3.4 Gnomonica

Il Sole nel suo movimento apparente funziona come il principale compasso


conico sul quale le nostre millenarie scienze dell’estensione spaziale hanno
fabbricato i loro più antichi modelli.
Per comprenderlo facilmente ci basta tornare a quella scodella che fin dalle
prime pagine abbiamo usato come modello tanto della retina umana quanto
del piano proiettivo; quest’oggetto elementare costituito da una semisfera e
dal centro di quell’emisfero (un punto materiale o un buco) attraverso il quale
passano rette luminose è anche un orologio solare come quello trattato fin da
Aristarco (ma presumibilmente diffuso da molto tempo prima). Quest’orologio
elementare è costituito appunto da una scodella emisferica, skaphé, con infisso
sul fondo un bastoncino (uno stilo), lo gnomone, alto esattamente quanto basta
a raggiungere il centro dell’emisfero. Con il bordo perfettamente orizzontale
e orientato, esposta al sole, la scodella indica esattamente il trascorrere
dell’ombra della punta dello gnomone (cioè del suo centro); quando, all’alba
e al tramonto, il sole sfiora l’orizzonte, l’ombra sfiora il bordo della scodella e
quanto più il sole è altro nel cielo tanto più l’ombra indicatrice scende verso il
fondo. Dall’alba l’ombra scende, descrivendo un arco di cerchio, dal bordo
ovest e a mezzogiorno tocca i punti quotidianamente più bassi , i punti
meridiani, per poi risalire simmetricamente verso il bordo est. Il punto
meridiano più basso è raggiunto nel giorno più lungo dell’anno, il solstizio
d’estate, quando evidentemente il sole è più alto nel cielo estivo; il punto
meridiano più alto della scodella è quello raggiunto dall’ombra nel giorno più
breve dell’anno, il solstizio d’inverno. I punti meridiani sono così tutti percorsi
in andata tra il 21 dicembre e il 21 giugno e poi simmetricamente in ritorno
passando due volte all’anno per una posizione intermedia nei giorni degli
equinozi di primavera e d’autunno.
A ogni posizione apparente del sole nella volta celeste corrisponde un punto
della scodella e i circoli disegnati nella scodella dal trascorrere dell’ombra della
punta dello gnomone corrispondono esattamente agli apparenti percorsi
quotidiani dell’astro nella cupola del cielo, tanto che se rovesciassimo il nostro
orologio emisferico avremmo un modello diretto delle annuali orbite apparenti
del Sole nella volta celeste.

applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 75


3.4.1 Mappa del soleggiamento. Osserviamo sul nostro modello emisferico
i tre principali percorsi quotidiani dell’ombra (quelli ai solstizi e all’equinozio)
che disegnano conseguentemente le tre principali orbite apparenti del sole
nella volta celeste. Nel giorno dell’equinozio l’ombra della punta dello stilo
compare all’alba esattamente sulla tacca del bordo della scodella che indica
l’Ovest e tramonta esattamente sulla tacca Est, percorrendo un semicerchio
massimo della semisfera. Ne desumiamo che quel giorno i raggi di sole che
passano per la punta dello gnomone formano una raggiera piana, un piano
inclinato rispetto allo gnomone, tanto quanto è il grado di latitudine sulla Terra
del luogo nel quale abbiamo posto l’orologio. Infatti nell’equinozio notte e
giorno si equivalgono perché l’asse terrestre è esattamente ⊥ alla direzione
del Sole che quindi risulta in quel giorno occupare una direzione del piano
dell’equatore terrestre.
Ma lasciando le posizioni equinoziali, equinozio
solstizio solstizio
l’asse terrestre (che trasla d’estate d’inverno

e
zial
approssimativamente parallelo a se

uino
stesso mantenendo la stessa linea degli apsidi

a eq
inclinazione rispetto al piano

line
dell’eclittica) aumenta sempre più la sua equinozio
obliquità rispetto alla direzione solare fino ai
giorni solstiziali, quando si dispone nello stesso piano dei raggi solari. Così
vediamo nel giorno del solstizio d’estate il sole alla massima declinazione
boreale passare allo zenit ( ⊥ ) sul tropico del cancro, mente il giorno del
solstizio d’inverno raggiungere la massima declinazione australe ⊥
al tropico del capricorno. Il trascorrere
dell’ombra dello gnomone disegnerà dunque
questi “tropici” sulla nostra scodella, appunto sole
come archi di circonferenza simmetrici ed
equidistanti dall’equatoriale ombra
dell’equinozio.
Constatiamo che quotidianamente i raggi solari passanti per la punta dello
gnomone descrivono una superficie conica rotonda; nei giorni dei solstizi i
raggi descrivono le due falde del cono più acuto, nel giorno dell’equinozio il
cono dei raggi di sole degenera in un piano, evidentemente un piano di
simmetria del cono solstiziale.
Noto il grado di latitudine di un luogo è dunque possibile stabilirne la mappa
geometrica del soleggiamento, cioè dell’esposizione annuale ai raggi del sole,
utile specie in edilizia e urbanistica qualora l’illuminazione e il riscaldamento
naturali di un edificio (e dunque la durata del soleggiamento) assumano
l’importanza di requisiti di progetto. A parte quest’ultima applicazione
superstite della gnomonica, dell’antica arte di costruire orologi solari e
insieme di rappresentare la sfera celeste, il tracciamento dei quadranti solari
conserva sostanzialmente un residuo scopo pedagogico abituando lo studente
architetto a immaginare proprio il ciclo geometrico dell’irraggiamento solare.

76 fondamenti geometrici del disegno


sfera celeste
orbita solare apparente
nel
solstizio d'estate piano del meridiano
nell'equinozio
nel solstizio Est
d'inverno

Nord
Sud

Ovest

linea meridiana
tizio

io
inoz

tizio
sols

qu

sols
el

l l’e
ra n
omb t e

el
omb e r n o
ta

n e

ra n
d'es

ra

v
omb

d'in
piano orizzontale
del quadrante

3.4.2 Quadrante solare. Come esercizio di riepilogo si tracci uno schema di


quadrante solare orizzontale ovvero quella che si dice usualmente una
meridiana orizzontale, anche se il termine “meridiana” vi indica
propriamente solo la linea Nord Sud occupata dalle ombre dello gnomone a
mezzogiorno, e il piano meridiano è propriamente quello al quale appartiene
lo gnomone e la linea meridiana.
Si tratta dunque di individuare sul piano orizzontale π’ i luoghi descritti dal
transito dell’ombra del vertice di uno gnomone (un qualunque segmento
verticale) nei giorni dell’equinozio e dei solstizi. L’estremo O dello gnomone
sia sempre il centro della semisfera celeste modellizzata dalla nostra scodella
emisferica rovesciata e dunque il trascorre delle sue ombre solari sul piano π’
si determina semplicemente come l’intersezione con il piano π’ dei coni di
raggi solari che hanno vertice in O.
Si rappresenti la semisfera in doppia proiezione ortogonale in modo che il
piano meridiano (Nord Sud Zenit) sia frontale. Dunque la sua seconda
immagine è il semicerchio N’S’ di centro O’, dove OP è un qualunque segmento
verticale che significa lo gnomone conficcato in P nel piano π’.
Le orbite solari disegnate sulla cupola sono archi di cerchio che appartengono

applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 77


tutti a piani ortogonali al piano meridiano
qui rappresentato frontalmente; quindi A’’
nella loro seconda immagine queste orbite
sono “viste di profilo” e disegnate
semplicemente con corde // del N’’ O’’ S’’
semicircolo NS.
La corda O’’A’’, che rappresenta la seconda
immagine dell’orbita equinoziale, è P’’
condotta da O’’ e inclinata rispetto al piano
orizzontale di un angolo uguale al grado di
latitudine del punto della superficie
terrestre in cui siamo posti (ricordo che la
latitudine equivale alla misura angolare E’
dell’arco del meridiano tra il nostro punto
di stazione e l’equatore, misurata sul piano
[meridiano] ⊥ a quello equatoriale ed
espressa in gradi, minuti primi e secondi, N’ A1’ O’ A2’ S’
distinguendo una latitudine boreale o Nord
e una latitudine australe o Sud). Scrivendo
da una latitudine Nord di circa 44°57’
diamo quest’inclinazione alla corda O’’A’’, W’
seconda proiezione ortogonale dell’orbita
solare equinoziale, ma nulla impedisce che
si scelga una latitudine diversa.
La prima proiezione di quell’orbita
equinoziale è ovviamente l’ellisse che ha A’’
asse maggiore E’W’ e asse minore A1’ A2’.
I’’
Non resta che determinare l’intersezione
del piano di quell’orbita con π’ per ottenere N’’ O’’ S’’
la retta e percorsa nel trascorrere
dell’ombra del vertice O dello gnomone nei L’’
giorni degli equinozi. P’’
Ora si descriva la superficie conica rotonda
individuata dai raggi solari per O nei giorni
dei solstizi e poi la sua intersezione con π’
che sarà dunque l’iperbole s.
Nella seconda proiezione dell’emisfero si E’
L’
tracci la corda O’’I’’ che significa il raggio
di sole a mezzogiorno del solstizio
d’inverno; esso forma un angolo di - 23°e
26’ rispetto al raggio meridiano O’’A’’ N’ I’ A1’ O’ A2’ S’
dell’equinozio (cioè pari all’inclinazione
dell’asse terrestre sul piano dell’eclittica
essendo, come abbiamo già osservato, che
nei giorni solstiziali l’asse terreste e la W’
78 fondamenti geometrici del disegno
direzione solare appartengono allo stesso piano ⊥ a quello dell’eclittica).
La seconda proiezione ortogonale dell’orbita del solstizio d’inverno è la corda
I’’ L’’ tracciata da I’’ parallelamente ad O’’A’’. La prima proiezione di
quell’orbita è dunque l’ellisse che ha asse maggiore L1’ L2’ e asse minore I1’I2’.
Tracciando un certo numero di generatrici (raggi di sole) di questa falda conica
solstiziale in prima e seconda proiezione si possono trovare le loro intersezioni
con π’ che saranno i punti dell’ombra dello gnomone disposti ovviamente
lungo uno dei due rami di un’iperbole s (essendo che il piano di sezione π’ è
// a due delle generatrici [i raggi all’alba e al tramonto] della superficie conica
dei raggi solari).
Infine si iteri lo stesso procedimento per la seconda falda del cono solstiziale.
Il raggio meridiano del giorno del solstizio d’estate è nella seconda immagine
dell’emisfero la corda O’’H’’ specularmente simmetrica rispetto a O’’A’’ della

A’’

I’’

N’’ O’’ S’’

L’’
P’’

E’
L’

N’ I’ A1’ A2’ S’ Linea meridiana


O’

W’

applicazioni sulle proiezioni parallele e le coniche 79


corda O’’I’’, cioè inclinata di + 23° e 26’ rispetto al raggio meridiano
equinoziale O’’A’’.
La seconda immagine dell’orbita è la corda H’’F’’ condotta da H’’ e // a
O’’P’’; la prima immagine di quell’orbita è l’ellisse che ha asse maggiore
F1’F2’ e asse minore H1’H2’.
Infine l’intersezione con π’ di un certo numero di generatrici di questa falda
descriverà il secondo ramo dell’iperbole s lungo la quale transita l’ombra di
O nel giorno del solstizio d’estate.

H’’
A’’

I’’
F’’
N’’ O’’ S’’

L’’
P’’

E’
L’ F1’

N’ I’ A1’ H’ O’ H’ S’

F’
W’

80 fondamenti geometrici del disegno


4 PROIEZIONI CENTRALI

4.1 Prospettiva della retta e del piano


Le assonometrie, ovvero le proiezioni centrali parallele (cap. 2), sono
ovviamente un caso particolare del metodo della proiezione centrale
generalizzata, quella che si intende sempre prodotta su un quadro π ’
(assimilato al piano della rappresentazione) come sezione della stella di rette
proiettanti con centro in un punto S (∉π’) proprio che nelle applicazioni viene
detto punto di vista. Questo metodo codifica il tradizionale disegno di
prospettiva ed è dunque il più adatto alle simulazioni delle apparenze ottiche
degli oggetti rappresentati.
Il piano passante per il centro di proiezione S e //al quadro si dice piano
parallelo anteriore; esso incontra il quadro nella sua retta impropria e
conseguentemente si dice che la retta impropria del quadro è l’immagine del
piano parallelo anteriore.
Sul quadro ogni punto P’ si dice immagine di un punto P dello spazio se P’ è
l’intersezione con il quadro π della retta proiettante PS. Se P ≡ P’ , ovvero se P
è un punto del quadro, si dice punto unito o punto di traccia nella
corrispondenza di rappresentazione (cioè rappresenta se stesso).
Sul quadro ogni retta r ’ si dice immagine di una retta r dello spazio
riguardandola come intersezione con il quadro del piano proiettante Sr;
l’intersezione della retta r con il quadro π’ è il punto Tr che si dice punto di
traccia della retta r. Ovviamente ogni retta del quadro è unita nella
corrispondenza di rappresentazione (rappresenta se stessa).

piano parallelo anteriore quadro

punto di fuga
F’r punto di fuga della retta

f’α retta di fuga del piano


punto di vista r’

P’
P

r
retta limite

Tr punto di traccia della retta

tα retta di traccia del piano

proiezioni centrali 81
Tra r e r’ esiste dunque una prospettività (crf. 1.4.2) di centro S che ha come
elemento unito il punto di traccia Tr e ha due punti limite: il primo punto limite
è l’intersezione di r con il piano parallelo anteriore, il secondo punto limite è
il punto F’r d’intersezione sul quadro della retta proiettante parallela ad r;
questo punto è l’immagine sul quadro del punto F∞ improprio di r e viene detto
punto di fuga della direzione di r.
Ogni retta t α del quadro si può riguardare come intersezione con il quadro di
un generico piano α dello spazio e allora viene detta retta di traccia del piano
α (tα è la retta di punti uniti nella prospettività di rappresentazione di α). Tra i
punti P (e le rette r) del piano α e le loro immagini P’ (e r’) sul quadro esiste
evidentemente una prospettività (cfr. 1.4.3) di centro S che ha per asse la retta
di traccia tα e due rette limite: la prima di queste rette limite è l’intersezione
del piano α con il piano parallelo anteriore, la seconda retta limite è
l’intersezione con il quadro del piano proiettante // ad α; tale retta limite f’α è
evidentemente l’immagine sul quadro della retta impropria di α e viene detta
retta di fuga della giacitura del piano α.
Perché le proiezioni centrali propriamente
dette possano costituire un vero e proprio
metodo di rappresentazione è necessario
che sul foglio della rappresentazione sia
sempre indicato il piede S°, che viene detto
S*
punto principale, della perpendicolare per
S al quadro π’ (cioè la proiezione ortogonale
di S su π’); inoltre è necessario conoscere la
distanza S°S, detta distanza principale,
manifestandola tracciando sul quadro la S S°
circonferenza di centro S° e raggio = S°S.
Tale circonferenza si dice circolo di distanza
o circolo fondamentale e questi soli dati
(posizione reciproca di centro e
quadro)costituiscono l’orientamento
interno del sistema di rappresentazione circolo
essendo sufficienti a determinare sul di
distanza
quadro le immagini di rette e piani (e solo
subordinatamente dei punti) dello spazio.
Si noti incidentalmente che sul quadro il
luogo dei punti di fuga delle rette egualmente inclinate rispetto al quadro di
un angolo φ è una circonferenza (detta di inclinazione) di centro S° e raggio
i = S°S. sin (π/2 - φ).
Le proiezioni centrali costituiscono dunque un metodo di rappresentazione
che determina rette e piani attraverso le immagini di due loro tracce con due
piani noti, precisamente attraverso le loro intersezioni con il quadro (le vere e
proprie tracce) e con l’immagine del loro elemento improprio (fughe).
Ricapitoliamo in dettaglio.

82 fondamenti geometrici del disegno


4.1.1 La rappresentazione di una retta r
è determinata dal suo punto di traccia F∞
quadro
Tr = r∩π’ e dal suo punto di fuga F’r che è la
proiezione da S su π ’ del punto improprio
F∞ di r; brevemente r ≈ (Tr, F’r).
r è una retta proiettiva (cfr. 1.1.1) e quindi i F’ r
suoi punti sono proiettati su π ’ in un
segmento F’r Tr generalmente di estensione S
finita e in un segmento infinito T r F’ r
immagine della semiretta che giace rispetto r’
a π’ dalla stessa parte di S. r
Tr
Se Tr e Fr coincidono r è evidentemente una
retta proiettante.
Se Tr e F’ r sono coincidenti nel punto
improprio di r ↔ r è // al quadro e i suoi
punti r ’ ammettono sempre una
rappresentazione propria a meno che r
appartenga al piano parallelo anteriore. In quel caso anche l’immagine r’ della
retta è impropria, è la retta impropria del quadro.
Una generica r incontra il piano parallelo anteriore in un punto R che se è
proprio sarà l’unico punto di r ad avere un immagine R’ impropria. È infatti
evidente che i punti F’r e R sono i punti limite della prospettività tra r e r’ di
centro S e punto unito in Tr .

4.1.2 La rappresentazione di un piano α è determinata dalla sua retta di


traccia tr = α∩π’ e dalla sua retta di fuga f’ r che è la proiezione da S su π’ della
retta impropria f∞ α del piano; brevemente α ≈ (tα , f’α ).
Come già osservato per la retta anche i punti di α sono proiettati su π’ in un
primo segmento di piano t α f ’ α e in un secondo segmento infinito f ’ α t α ,
immagine del semipiano che giace
rispetto a π’ dalla stessa parte di S.
Nel caso particolare in cui tr e fr non quadro
possano essere disegnate perché
sono la retta impropria di α ↔ α è //
al quadro e naturalmente l’immagine
α’ dei suoi punti ammette sempre una
f’α
rappresentazione propria a meno che
α sia il piano parallelo anteriore. I S
punti del piano // anteriore hanno
immagine nella retta impropria del
quadro.
α incontra il piano parallelo anteriore

in una retta v che, se è propria, sarà
l’unica retta di α ad avere un
immagine v ’ impropria. È infatti

proiezioni centrali 83
evidente che le rette f ’α e v sono le rette limite della prospettività (cfr. 1.4.3)
tra α e α’ di centro S e retta unita in tα .

4.1.3 Rette e piani proiettanti si rappresentano ovviamente con traccia e


fuga coincidenti (le lettere che indicano piani e rette proiettanti si indicano in
genere con lettere soprassegnate [ α]): come già osservato le rette proiettanti
r si rappresentano in un solo punto (Tr ≡ F’ r) dove coincidono il punto di
traccia e quello di fuga, mentre i piani proiettanti δ si rappresentano in una
sola retta (tδ ≡ f’δ) dove coincidono le retta di traccia e quella di fuga.
La retta proiettante r ≈ (Tr ≡ F’r) ⊥ al quadro ha come immagine il solo punto
principale S° (Tr ≡ F’r); qualunque piano proiettante del fascio che ha asse in
r, cioè ogni piano δ ≈ (tδ ≡ f’ δ) ⊥ al quadro, ha come immagine una retta
(tδ ≡ f’δ) che passa per il punto principale S°.

4.1.4Le rappresentazioni di un punto non possono che essere mediate


attraverso quelle di rette e piani ai quali deve essere prescritta in simboli
l’appartenenza del punto: brevemente, un punto P si indica come ∈ a una retta
p, quindi come P ≈ (P’, Tp, F’p), oppure come ∈ a un piano α, quindi come
P ≈ (P’, tα, f’α).
Si osservi che scrivendo un punto come P ≈ (P’, T p, F’ p) lo si implica
determinato dall’intersezione della retta p e della retta proiettante SP.

4.2 Problemi grafici

4.2.1 La condizione di appartenenza tra rette e piani consegue da quanto


detto sopra e consiste dunque nella coincidenza o nella mutua appartenenza
dei rispettivi elementi di traccia e di fuga:
rette ∈ a uno stesso piano si rappresentano in proiezione centrale con punti
di traccia ∈ alla retta di traccia del piano e punti di fuga ∈ alla retta di fuga del
piano; brevemente, se r ∈ α ↔ Tr ∈ tα, F’r∈f’ α.
Segue che due rette sono incidenti, e quindi sono complanari, se e solo se i
loro punti di traccia individuano una retta // a quella individuata dai loro punti
di fuga (evidentemente i loro punti di traccia e di fuga devono appartenere
rispettivamente alla retta di traccia e alla retta di fuga del piano che esse
individuano, altrimenti sono sghembe e la loro intersezione apparente sul
disegno non identifica un loro punto comune).

4.2.2 La condizione di parallelismo tra piani e rette consiste nella mutua


appartenenza dei relativi elementi di fuga: rette // condividono il loro punto
improprio e quindi si rappresentano in proiezione centrale come concorrenti
nel medesimo punto di fuga (perciò ogni punto del quadro, visto come
immagine di una retta proiettante, e dunque come punto di fuga, rappresenta
una direzione dello spazio);
piani // condividono la stessa giacitura e quindi si rappresentano come aventi

84 fondamenti geometrici del disegno


la medesima retta di fuga (perciò si dice che ogni retta del quadro vista come
immagine di un piano proiettante, e quindi come retta di fuga, rappresenta
una giacitura dello spazio).
Rette // a un piano hanno direzione ∈ alla
giacitura del piano e quindi si rappresentano con f’α
un punto di fuga appartenente alla retta di fuga
del piano.

4.2.3 Intersezioni. La retta intersezione di due
piani è quella che si disegna con il punto di
traccia intersezione delle due rette di traccia dei
f’β
piani e con il punto di fuga intersezione delle due tβ
rette di fuga dei piani.
Ovvie conseguenze sono quelle che: due piani
// hanno la loro intersezione rappresentata dalla f’α
loro retta di fuga; se due piani sono proiettanti tδ
la loro intersezione è una retta proiettante.

Il punto d’intersezione di tre piani si determina f’δ tα


in doppio modo come punto d’intersezione tra
le due coppie di rette d’intersezione delle coppie f’β
di piani. tβ
Il punto d’intersezione di una retta e di un piano
si determina come un punto dell’intersezione del
f’α Tr
piano con un qualunque piano passante per r.
Sul piano della rappresentazione dove sia
assegnata l’immagine di una retta r è sufficiente
tracciare per Tr e F’r una qualunque coppia di
rette // che significheranno la retta di traccia e

la retta di fuga di un qualunque piano al quale
appartiene r. Tracciata la retta intersezione tra
questo piano e il piano dato, si individua nel suo F’r
incontro con r’ l’immagine del punto comune.

4.2.4 Dato un punto P ≈ (P’, T p, F’ p) e una


retta r ≈ (Tr , F’r), la retta x per P e parallela a Tr
Tp
r è ovviamente quella che si rappresenta f ’xr
congiungendo l’immagine P’ del punto e il punto
di fuga F’r della retta data, in quanto se x//r ↔
F’x ≡ F’r. F’x ≡ F’r
Per determinare anche il punto di traccia Tx della
P’ Tx
x, essendo P dato come (P’, Tp, F’p), si consideri
che la retta x e la retta p individuano un piano la F’ p tx r
cui retta di fuga non può che essere la

proiezioni centrali 85
congiungente F’x e F’ p e la cui retta di traccia è ovviamente la // alla F’x F’p
passante per Tp e necessariamente per il cercato punto di traccia Tx.
Se invece il punto dato P fosse individuato con la sua immagine P’ e con uno
dei suoi piani di appartenenza basterebbe tracciare per P una qualunque retta
del suo piano per ricadere nella risoluzione precedente.

4.2.5 Dato un punto P ≈ (P’, Tp, F’p) e una retta r ≈ (Tr , F’ r), il piano ϖ
che essi individuano si rappresenta
necessariamente con la sua retta di fuga passante Tr Tp
per il punto di fuga F’r della retta data, e in una
retta di traccia passante per il punto di traccia Tr Ty
della retta data; non resta che determinare la
direzione di tϖ e quindi di f’ ϖ.
Quando il punto P è dato attraverso la sua P’
immagine P’ nell’immagine (P’, Tp, Fp) di una
retta p si procede come segue: F’y ≡ F’r
si determina, come indicato precedentemente, F’ p
la retta y per P // a r (si consideri che F’y deve
coincidere con F’r , e Ty si ricava conducendo da
Tp la // a F’p Tr). Tr Tp
Considerando che y e r sono complanari, i loro Ty
punti di traccia individuano la retta di traccia del tϖ
piano cercato, che avrà come retta di fuga quella
// a TyTr condotta per F’r . P’
Se invece il punto dato P è individuato con la sua
immagine P’ e con uno dei suoi piani di f’ϖ
appartenenza, basta tracciare per P una F’y ≡ F’r
F’ p
qualunque retta del suo piano per ricadere nella
risoluzione precedente.

4.3 Prospettività e omologia nella rappresentazione del piano

Abbiamo rilevato più volte che tra un piano obiettivo π e la sua immagine π’
prodotta per proiezione da S e sezione con un piano π’, esiste una prospettività
che ha asse nella traccia tπ del piano e due rette limite: una è la retta di fuga f’π
del piano π , l’altra è la retta impropria di π ’ (ovvero l’immagine
dell’intersezione di π con il piano parallelo anteriore). Se proiettiamo da un
secondo centro di proiezione i punti π su π’ otteniamo su π’ un’omologia (cfr.
1.5.1) che ha asse sempre nella retta di traccia t π e centro nel punto
d’intersezione con π ’ della retta individuata da S e dal nuovo centro di
proiezione.

4.3.1Teorema di Stevin. Abbiamo descritto (in 2.1.1 a proposito delle


proiezioni //) come il ribaltamento dei punti di un piano su un altro,

86 fondamenti geometrici del disegno


quadro π’

punto di vista S

f'
A'
S* S°*
r'*
f ’* A'* r A

interpretato come una nuova proiezione, sia una particolare omologia del
piano, l’omologia del ribaltamento. La proposizione è del tutto equivalente a
quella formulata da Simon Stevin, nei termini delle prime compiute teorie
geometriche della prospettiva all’inizio del XVII secolo, affermando che la
prospettiva π ’ [cioè una prospettività] delle figure di un piano π si conserva
anche quando il quadro π ’ si ribalta su π ruotando intorno alla loro retta
d’intersezione (traccia), se anche il piano parallelo anteriore ruota,
parallelamente a π, intorno alla sua retta d’intersezione (traccia) con π. Quindi
anche il centro S si ritroverà ribaltato su π e - tesi del teorema - sarà sempre il
centro della prospettività. Detto in altri termini: una prospettività tra piani
(o tra rette) si conserva identica se uno dei due piani (o una retta) ruota intorno
alla retta unita (o al punto unito) mentre, parallelamente, il centro S della
prospettività ruota intorno alla retta limite (o al punto limite).
Per dimostrarlo facilmente
immaginiamo di sezionare i due S F’
piani prospettivi π e π’ con un piano
passante per il centro B’
dell’omografia S, per cui otteniamo A’
un’omografia tra due rette, r e r’, V T A B
sempre di centro S, con un punto
S F’
unito T e due punti limite F’ e V.
Due punti A e B di r si proiettano B’
da S su r’ nei punti A’B’ . A’
Immaginiamo inoltre che i punti T, T A B
V
F’ , V, S siano le cerniere vertici di
S F’
un parallelogrammo articolato, per B’
cui, se r’ ruota attorno al punto

proiezioni centrali 87
unito T allora l’asta SV è costretta a ruotare parallelamente a r’ attorno a V.
Si constata che nella rotazione restano allineati S, A, A’, come vi restano
anche S, B, B‘; e inoltre restano invariate le distanze TA, TB e TA’, TB’.
Infatti, nella rotazione delle aste del parallelogrammo articolato, SV resta
//a r’, SF’ resta //a r; e F’T e TV sono anch’esse aste rigide. Dunque segue
la tesi: le rette AA’, BB’ si incontrano sempre in un punto della
circonferenza di centro F’ e raggio SF’=SV.
La prospettività di partenza “si è coricata” conservandosi in un’omologia.

4.4 Problemi metrici

Applicando il teorema di Stevin nella prospettiva su π’ delle figure di un piano


π, una volta nota la distanza tra il centro S e le rette limiti della prospettività
che intercorre tra il quadro π’ e il piano π , è possibile ribaltare intorno alla
retta limite questo centro S sul quadro nel punto che indichiamo con S*.
S* è allora il centro dell’omologia di ribaltamento che fa corrispondere sul
quadro le immagini prospettive π’ delle figure di π, alle stesse figure del piano
π ribaltate su π’ intorno alla retta di traccia π∩π’.
La prima operazione che conviene compiere è quella del ribaltamento sul
quadro dei piani proiettanti ortogonali
al quadro.
Ed è immediato rinvenire il
ribaltamento di qualunque piano δ per π’
S e ⊥ al quadro sapendo che ogni retta
che passa per il punto principale S° è (S)
proprio l’immagine di un piano
proiettante δ ≈ (t δ ≡ f’ δ ) ⊥ al quadro
e che il cerchio di distanza è il luogo di
tutti i possibili ribaltamenti sul quadro S°
del centro di proiezione o punto di vista S
S intorno al punto principale. δ t δ ≡ f’ δ
Assumendo come asse del ribaltamento
di δ su π una retta t δ ≡ f’ δ passante
per S° si tracci la sua perpendicolare che cerchio di
passa per il punto principale S° e dove distanza
questa incontra il cerchio di distanza si
individua il ribaltato (S) su π ’ del centro S.

4.4.1 Il ribaltamento sul quadro di un generico piano proiettante


α ≈ (t α ≡ f’ α ) intorno alla sua intersezione con il quadro t α ≡ f’ α ci consegnerà
il ribaltato S* del punto di vista S intorno alla retta immagine del piano α, ma
prima si deve conoscere la vera distanza KS del centro S da t α ≡ f’ α .
Si noti che la retta (della distanza) KS è quella di massima pendenza di α
rispetto al quadro π’ e dunque è quella che durante il ribaltamento si mantiene

88 fondamenti geometrici del disegno


δ S*
S*
t δ ≡ f’ δ

t δ
≡ f’ δ

t ≡ f’ t α
≡ f’ α
α α
K K


S S° (S)

(S)

ortogonale alla retta t α ≡ f’ α ; si ottiene come intersezione di α con un piano


proiettante δ ⊥ α e ⊥ a π ’ . La KS*, ovvero la α ∩ δ, in vera misura si ottiene
ribaltando sul quadro il suo piano δ (⊥ π’ e ⊥ α), facilmente individuabile
poiché è quello che si rappresenta nella retta t δ ≡ f’ δ passante per il punto
principale S°e ⊥ alla retta t α ≡ f’ α .
Il punto K è l’intersezione della t δ e la t α, mentre il centro S ribaltato in (S)
sul quadro intorno alla t δ è il punto del cerchio di distanza intersecato dalla
retta per S* e ⊥ t δ.
Noto K(S) c’è quanto basta per trovare il ribaltato S* di S su π’ intorno alla
t α(ovvero intorno a K); con centro in K e apertura K(S) si tracci l’arco di
circonferenza che incontra la t δ nel punto S* cercato.

4.4.2 Il ribaltamento sul quadro delle figure di un generico piano


α ≈ (tα ≡ f’ α) intorno alla sua retta di traccia tα , come afferma il teorema di
Stevin, significa individuare l’omologia ω che trasforma i punti e le rette di α*
[α ribaltato su π’] nei punti e nelle rette di α’ [proiezione di α da S su π’] pensati
come piani sovrapposti sul quadro π’. L’asse di quest’omologia non può che
essere la retta di traccia tα (unico luogo di punti uniti) e il centro non può che
essere il ribaltato S* del centro di proiezione intorno alla retta limite f’ α.
Dato dunque un generico α ≈ (tα ≡ f’α ), con la procedura indicata sopra, si ribalti
il piano proiettante α parallelo ad α (cioè il piano proiettante che determina
la retta di fuga f’α ), si ottiene così il ribaltato S* del centro di proiezione intorno
alla retta limite f’α dell’omologia ω, punto che vale come centro dell’omologia
ω, che dunque risulta completamente determinata.
Infatti ogni possibile immagine r’ di una retta r = (Tr, F’r) che ∈α ha
necessariamente il punto di fuga F’ r ∈ f’ α e punto di traccia Tr ∈ tα , dunque la
vera direzione di r nella sua giacitura α è quella della retta proiettante r //r

proiezioni centrali 89
che viene restituita
ribaltando il piano
proiettante α // α.
Ottenuto il δ S*
ribaltamento S* del
centro di proiezione
sul quadro intorno a t δ ≡ f’ δ
f’α, la direzione r*(la
ribaltata della retta
proiettante r che f ’α
determina il punto di
fuga F’r) è ovviamente K
la retta per F’r S*.
Tutte le applicazioni
metriche al disegno di S
prospettive e quelle
opposte delle
restituzioni
prospettiche
(fotogrammetria
elementare) si tα
riferiscono in diverso
modo a questo
semplice principio che
individua l’omologia
tra le proiezioni
centrali e i
ribaltamenti [*] delle
figure di un piano
generico attraverso la
retta limite individuata
nella retta di fuga del
piano, l’asse individuato nella retta di traccia del piano, e il centro
determinato dal ribaltamento sul quadro del centro di proiezione intorno
alla retta limite.

4.4.3 Esercizio di ricapitolazione. Si costruisca una qualunque prospettiva


di una data figura piana ℑ* (ad esempio la pianta di un edificio) intesa come
già ribaltata sul foglio π* della rappresentazione intorno alla retta di traccia tπ
del suo piano π. Di quel piano π si assegni arbitrariamente, oltre alla retta di
traccia tπ, anche la retta di fuga f’π, e poi si fissi un qualunque punto principale
S° centro di un circolo di distanza.
Ripetiamo la procedura illustrata sopra per determinare il ribaltato S* di S su
π’: 1) si tracci per S° la retta t δ ⊥ f’π e si indichi con K il punto t δ ∩ f’π ;
2) si conduca da S° la // a f’π che incontra il circolo di distanza nel punto (S);
90 fondamenti geometrici del disegno
3) con centro in K e apertura S*
K(S) si tracci l’arco di cerchio
che incontra la t δ nel punto
S* cercato.
4) Con questo si può
completare l’omologia di
K f ’π
centro S* e asse t δ che
trasforma figura ℑ* nella sua
prospettiva ℑ ’, ad esempio S° (S)
iniziando con la costruzione
della r’ prospettiva di una retta
r*della figura ℑ*. La r*e la sua A’
prospettiva r’ si incontrano nel tπ
punto di traccia Tr , mentre il
punto di fuga f ’ r della
prospettiva r’ sarà ovviamente
quel punto di f’ π intersezione
della parallela a r* condotta da
S*.
Il resto della figura si
costruisce automaticamente
(cfr. 1.5.3).
A*
4.4.4 La condizione di
ortogonalità tra retta e
piano si constata considerando la mutua posizione di un piano e di una retta
proiettanti di una giacitura e di una direzione tra loro ⊥. Sia dato dunque un
piano proiettante α ≈ (t α ≡ f’ α ) e una retta proiettante r ≈ (T r ≡ F’ r );
essendo tra loro ⊥ lo sono proprio nel loro punto comune, il centro di
proiezione S. È chiaro che, se r ⊥α , r è l’asse di un fascio di piani tutti
ortogonali ad α compreso il piano
proiettante δ ≈ (t δ ≡ f’ δ) ⊥ anche al quadro T r ≡ F’ r
π’.
Ribaltando δ sul quadro intorno alla sua
traccia t δ , risulta che la ribaltata r* ⊥ alla
ribaltata (α ∩δ)* nel ribaltato (S) del centro
S. Detto K il punto in cui la retta α∩δ incontra t δ ≡ f’ δ
la f ’ α , si avrà K(S) ⊥ (S)F’r .
Dunque se r ⊥α il punto di fuga F’r della retta S° (S)
r deve trovarsi sulla retta S°K ⊥ in K alla retta
di fuga f ’ α del piano condotta dal punto K
principale S° e inoltre K(S) ⊥ (S)F’r in (S). t α ≡ f’ α
La condizione di ortogonalità si può così
esprimere come il dispositivo di una precisa

proiezioni centrali 91
trasformazione geometrica che fa corrispondere a
ogni retta di fuga di una giacitura il punto di fuga
di una direzione ⊥ alla giacitura. Tale
corrispondenza reciproca tra punti e rette del piano
viene detta antipolarità rispetto al circolo di
distanza; la retta f’α è detta antipolare del punto F’r
rispetto al circolo di distanza e reciprocamente il T r
≡ F’ r

punto F’r è detto antipolo della retta f’α.


Si afferma dunque in generale che la condizione per
cui una retta e un piano, due rette o due piani siano
tra loro ortogonali è che vengano a rappresentarsi
in elementi di fuga corrispondenti e
t ≡ f’
rispettivamente coniugati nell’antipolarità δ δ

rispetto al circolo di distanza. S S°

K
4.5 Prospettiva lineare
(S)
La prospettiva lineare è il metodo di
rappresentazione piana di un corpo che dovrebbe
meglio surrogarne la diretta esperienza visiva e
tecnicamente costituisce la principale applicazione del metodo
della proiezione centrale. Il centro di proiezione S in questo caso si
chiama punto di vista poiché è assimilato al solo occhio del quale può disporre
un osservatore ideale posto a una distanza S°S [distanza principale] dal
quadro. La verosimiglianza ottica di una rappresentazione in prospettiva non
costituirebbe un problema se si potesse costringere lo spettatore del disegno
a occupare con un solo occhio l’esatta posizione del punto di vista S
presupposta nella costruzione del disegno. Ma quando un disegno in
prospettiva è “visto” da un punto di osservazione progressivamente lontano
dall’effettivo punto di vista S, si registrano crescenti incongruenze (dette
aberrazioni marginali o effetti anamorfici) con le abituali apparenze ottiche.
Perciò da quando la rappresentazione dello spazio sul piano si è posta come
documento di una concreta esperienza visiva, si è sviluppata una precettistica
mirata a migliorarne gli effetti illusivi della profondità spaziale. L’efficacia
illusiva di una prospettiva viene valutata scegliendo opportuni “margini” del
disegno e l’orientamento interno (cerchio di distanza) della rappresentazione
in modo da “inquadrare” una porzione tanto limitata dello spazio
rappresentato da evitarne le aberrazioni marginali. La rappresentazione viene
così limitata alla sola porzione di spazio compresa entro margini paragonabili
a quelli di un campo visivo usuale, cioè entro una certa inclinazione ϕ delle
rette proiettanti rispetto al quadro che, quindi, formano un cono circolare retto
di vertice S con asse S°S, detto cono ottico o cono visivo. Per una
rappresentazione verosimile si dovrebbe porre la distanza principale in modo
che il soggetto ricada entro il cono visivo o comunque la sua immagine non
oltrepassi il circolo di distanza (che ovviamente è l’immagine di un cono visivo

92 fondamenti geometrici del disegno


con ϕ = 45°).
A differenza del caso generale delle proiezioni centrali la prospettiva lineare
si basa su un paradigma che fa uso prevalente di due piani analoghi a quelli
dell’icnografia e dell’ortografia (nella doppia proiezione ortogonale); uno
naturalmente supposto orizzontale, detto geometrale o piano di stazione o
piano del terreno, viene disposto, in genere ortogonalmente al secondo, detto
sempre quadro, poiché il geometrale simula il concreto piano topografico che
viene generalmente dato come // alla distanza principale. A questa
convenzionale ortogonalità tra quadro e geometrale (prospettive a quadro
verticale) eccepiscono quelle procedure che sono dette appunto prospettive a
quadro inclinato. Nelle prospettive a quadro verticale l’intersezione tra il piano
geometrale e il quadro (cioè la retta di traccia del piano geometrale) viene detta
linea di terra, mentre la retta di fuga del piano geometrale passa ovviamente
per il punto principale S° ed è detta linea d’orizzonte, e “piano d’orizzonte” si
chiama il piano proiettante che la determina (cioè il piano proiettante //al
geometrale).
Nei procedimenti più tradizionali e usuali l’esecuzione di una prospettiva
lineare si caratterizza come traduzione in proiezione centrale di una
rappresentazione di una figura ℑ ≈ (ℑ’,ℑ’’) data prima nel metodo di Monge.
Ma usualmente l’esecuzione di un disegno “in prospettiva” di una figura ℑ si
pratica con procedure che dipendono dallo scopo del disegno e dalla condizione
contingente dei dati della rappresentazione di partenza di ℑ, nonché dalle
abitudini intuitive del disegnatore. Abbondano al proposito molte ricette
grafiche specifiche che registrano solo varianti lessicali rispetto alle
proposizioni più generali del metodo delle proiezioni centrali; il loro
insegnamento tecnico sarebbe ancora funzionale alla produzione di disegni
per l’uso professionale. Tuttavia nella pratica professionale odierna le
simulazioni delle apparenze ottiche di una figura ℑ sono in massima parte
assolte con l’ausilio del disegno assistito dal calcolatore, con programmi
applicativi che, oltre al modello di ℑ, richiedono solo la specificazione del
punto di vista nelle coordinate dello spazio del modello. Eppure la pratica del
disegno di prospettiva ha ancora un significato formativo che trascende la
produzione delle simulazioni grafiche a scopo commerciale; essa educa ancora
a una progettazione che assume le apparenze fenomeniche della ℑ per
precisarne poi le caratteristiche metriche e meccaniche. Inoltre il disegno di
prospettiva, la fotogrammetria, come la teoria delle ombre e del chiaroscuro,
risultano anche praticate implicitamente nel “disegno dal vero”.
Nella pratica del disegno per l’architettura la prospettiva come simulazione a
scopo commerciale delle apparenze ottiche di una figura ℑ si costruisce in
genere come traduzione in proiezione centrale della rappresentazione
mongiana di una figura ℑ ≈ (ℑ’,ℑ’’). Frequentemente la prima immagine ℑ’
(prodotta su un piano di sezione orizzontale e indicata come pianta) viene
trasformata omologicamente (come abbiamo sperimentato in 4.4.4) nella sua
proiezione centrale, ovvero in quella che si chiama pianta prospettica supposta
appartenente all’immagine del piano geometrale. Spesso non risulta comodo

proiezioni centrali 93
disegnare sullo stesso foglio della rappresentazione mongiana l’omologia di
rappresentazione del piano geometrale; si ricorre così in altri modi alle
proprietà di quest’omologia realizzandola su un foglio diverso da quello della
rappresentazione mongiana di partenza.
Nonostante la varietà apparente i dispositivi del disegno di prospettiva si
riducono ai pochi tipi delle rappresentazione dei piani, delle rette e dei punti,
che iniziamo a esaminare partendo dal metodo che usa prevalentemente la
rappresentazione dei punti.

4.5.1 La “costruzione legittima” della prospettiva (detta anche metodo della


sezione o del taglio) è quella che si suppone praticata fin dagli albori delle
costruzioni della perspectiva artificialis, negli esperimenti brunelleschiani
sulle piazze fiorentine. Oggi la possiamo considerare semplicemente una terza
proiezione mongiana ℑ’’’ di una figura ℑ ≈ (ℑ’,ℑ’’) di punti P ≈ (P’,P’’), dove si
mostra solo il risultato della sezione con un piano π ≈ (t’ π, t’’ π) delle rette
proiettanti SP condotte da un punto S≈ (S’,S’’) ai punti P ≈ (P’, P’’) della ℑ. Il
metodo è detto anche costruzione “per punti” poiché avviene essenzialmente
attraverso l’individuazione delle immagini P’’’ = (SP ∩π) di ogni punto P

94 fondamenti geometrici del disegno


notevole della figura ℑ come sezione con il piano π delle rette proiettanti SP ≈
(S’ P’,S’’P’’).
Nella doppia proiezione ortogonale della figura ℑ ≈ (ℑ’,ℑ’’) si fissi la posizione
del punto di vista S≈ (S’,S’’) e le tracce di un piano π ≈ (t’π, t’’π), il quadro della
prospettiva, meglio se disposto come un qualunque piano proiettante in prima
e seconda proiezione (cioè ⊥ a π’e ⊥ π’’). Così è immediato trovare in prima
proiezione le intersezioni P’’’ ’ delle rette S’ P’ con tπ’ , cioè le coordinate ascisse
(orizzontali) della prospettiva P’’’ dei punti P , e in seconda proiezione le
intersezioni P’’’ ’’ delle rette S’’ P’’ con t π ’, ovvero le coordinate ordinate
(verticali) dei prospettivi P’’’ dei punti P.
Riportando a parte (o in corrispondenza proiettiva come terza immagine
mongiana) l’asse delle ascisse e delle ordinate del quadro π della prospettiva,
ritrovarvi i punti P’’’ ≈ (P’’’ ’ , P ’’’’’) non è operazione molto diversa dal gioco
della “battaglia navale”.

4.5.2Costruzioni usuali della prospettiva. Per quanto semplicissima la


costruzione legittima presenta l’inconveniente pratico di basare il disegno sulla
rappresentazione di moltissimi punti della figura costringendo l’esecutore a
una lunga ed estenuante (a volte frustrata) precisione grafica. Procedure più
comode consistono nelle rappresentazioni prospettiche dei piani della figura
e, subordinatamente, delle loro rette.
La costruzione usuale di una prospettiva parte dalla rappresentazione
mongiana di una figura ℑ ≈ (ℑ’,ℑ’’) sulla quale si fissano la posizione del punto
di vista S ≈ (S’, S’’) e le tracce del quadro π (t’π, t’’ π) della prospettiva che viene
disegnata generalmente su un altro foglio e in una diversa scala di riduzione.
Sul foglio della rappresentazione prospettica viene riportata, in una certa
scala, la retta di traccia (linea di terra) e la retta di fuga (linea d’orizzonte) del
geometrale , e indicato il circolo di distanza.
Nella rappresentazione mongiana si individuano come intersezioni con il
quadro π, in prima e seconda proiezione, le rette di traccia dei piani della figura
(prima tra tutte le linee di terra e d’orizzonte) e, su quelle rette di traccia, i
punti di traccia Ts, Tr, Tv …. di una serie di rette r, s, v … che appartengono a
questi piani, individuando i punti notevoli di ℑ ≈ (r’,s’,v’ …’, r’’,s’’,v’’ …).
Sempre nella rappresentazione mongiana si individuano anche i punti di fuga
F’r, F’s, F’v … di quelle direzioni r, s, v … tracciando in pianta e alzato le rette
r, s, v … proiettanti // alle r, s, v … di costruzione.
La prospettiva si esegue riportando sul piano del disegno, nella data scala,
rette e punti di traccia dei piani delle rette, e i punti di fuga delle direzioni di
quelle rette. Si possono così individuare le immagini delle rette di costruzione
della figura ℑ congiungendo i relativi punti di traccia e di fuga. Perciò questa
procedura, detta talora “metodo delle tracce e delle fughe”, si riduce
sostanzialmente all’individuazione dei punti di ℑ, ciascuno come intersezioni
di due rette, e delle rette di ℑ, ciascuna come intersezione di due piani.
In breve: tracce e fughe vengono rilevate in proiezione mongiana e poi

proiezioni centrali 95
trasposte nella rappresentazione prospettica vera e propria.
In genere si fa uso esclusivo di sole due direzioni delle rette di costruzione
considerando le rette ortogonali al quadro (che hanno punto di fuga nel punto
principale) e quelle rette orizzontali inclinate di 45° rispetto al quadro (che
hanno punti di fuga nelle intersezioni del circolo di distanza con la linea
d’orizzonte in quelli che si chiamano punti di distanza).

4.5.3 Il metodo dei punti di misura di una direzione è l’applicazione del


noto dispositivo proiettivo della prospettività di ribaltamento alla
rappresentazione prospettica della retta.
Data in proiezione centrale (quindi con il circolo di distanza) una retta
r ≈ (Tr, F’r) si può individuare un qualsiasi piano α ≈ (tα, f’α ) che contenga r,
considerando semplicemente che F’r ∈ f’α e che Tr ∈ tα .
Se nello spazio obiettivo immaginiamo di ribaltare la retta r sulla t α intorno al
comune punto Tr constatiamo che l’operazione è equivalente a proiettare i
punti di r su tα da una direzione m di α obiettivamente ⊥ alla retta che biseca
l’angolo r tα . Questa direzione m si dice direzione di misura di r, e il punto di
fuga M’ di questa direzione viene detto punto misuratore di r; esso si ricava

96 fondamenti geometrici del disegno


semplicemente sul foglio della rappresentazione in proiezione centrale
ribaltando il piano proiettante α //α intorno alla retta di fuga f’α .
Per le considerazioni svolte in 4.4.1, tracciata la perpendicolare per S° alla
f’ α, che incontra f’ α in K, si individui il
ribaltato (S) del punto di vista S sul
quadro intorno alla KS° tracciando da
S° l’ortogonale alla S°K e
individuandone l’intersezione (S) con il
circolo di distanza. Quindi, con centro
in K, si tracci l’arco di circonferenza di
raggio K(S) che individua sulla
prolungata KS° il punto S* cercato.
Si manifesta a questo punto la “vera”
direzione r* = S*F’r sulla giacitura α*,
e basta condurre da S* l’ortogonale m
alla bisettrice dell’angolo r* f’ α per
determinare il cercato punto di fuga M’
(punto di misura di r).
Ovviamente allo stesso risultato si
perviene semplicemente tracciando,
con centro in F’r, l’arco di circonferenza
di raggio S*F’ r che interseca la f’α nel
punto cercato M’.
M’, punto di misura di r, è l’immagine
in proiezione centrale di quel centro
della proiezione che nello spazio
obiettivo determinerebbe il
ribaltamento di r su tα ; sul piano della
rappresentazione M’ è il centro di

proiezioni centrali 97
quella particolare prospettività, tra r’ e tα con punto unito in Tr , che fa
corrispondere a qualsiasi coppia di punti A’, B’ di r’ una coppia di punti A*,
B* di tα in modo che l’estensione del segmento A*B* di tα sia equivalente a
quella del segmento obiettivo AB di r. È dunque evidente come una qualunque
distanza A’X’ su r’ si possa misurare “in vera grandezza” nella corrispondente
distanza A*X* su tα.

4.6 Fotogrammetria elementare

Con fotogrammetria elementare intendiamo qui la sola procedura detta di


restituzione prospettica, il procedimento inverso alla costruzione di una
proiezione centrale, ovvero la traduzione di un’immagine prospettica ℑ’ di
una figura ℑ in una o più rappresentazioni della ℑ comodamente misurabili.
Ricordiamo però che un problema fotogrammetrico, nella sua forma più
generale, si pone in questi termini: data una o più immagini ℑ’, ℑ’’, ... che si
presumono ottenute da una stessa figura ℑ per proiezione da centri in
posizione obiettiva nota o ignota su piani di posizione obiettiva nota o ignota,
è possibile pervenire alla vera forma di ℑ ? O, detto altrimenti, è possibile
trovare una nuova proiezione della ℑ da un dato centro su un dato piano?
Si affronta un problema fotogrammetrico ogni volta che si scompone
un’immagine riuscendo a considerarla il prodotto di un qualche metodo di
rappresentazione, e quindi risalendo alla posizione obiettiva delle figure che
vi sono rappresentate. Quindi la fotogrammetria è in generale esattamente
l’inverso della geometria descrittiva e sostanzialmente la sua teoria coincide
con quella dei metodi di rappresentazione, ai quali aggiunge solo procedure
pratiche legate alla specificità dei mezzi (soprattutto la fotografia) di
reperimento delle immagini. Sono quindi questioni fotogrammetriche, tanto
proposizioni teoriche come il teorema di Pohlke (2.2.2), quanto le applicazioni
della descrittiva a quelle diverse forme di rilevamento - dalla topografia alla
diagnostica medica - che si svolgono a partire da immagini piane.

4.6.1 Un esempio di problema fotogrammetrico elementare è quello


dell’interpretazione di questa immagine ℑ ‘=(A’B’C’D’E’F’G’H’) come la
prospettiva da un centro O (occhio) tracciata su un piano π’ che rappresenta
un prisma ABCDEFGH supposto nello spazio a una qualche distanza OO’ da
π’.
Si è più volte notato che una sola proiezione centrale ℑ’ dei punti della ℑ è
insufficiente a determinare la posizione obiettiva di quei punti, a meno che
l’immagine ℑ’ non contenga tutti gli elementi che la qualifichino entro un
metodo di rappresentazione. Per cui occorrerebbero almeno due proiezioni
( ℑ’, ℑ’’) o informazioni aggiuntive sulle caratteristiche geometriche della ℑ.
Volendo risalire alla forma del prisma oggettivo ABCD… possiamo subito
osservare alcune caratteristiche particolari della sua immagine A’B’C’D’… .
Le rette sostegno dei lati GA, EC, FD e HB concorrono in uno stesso punto,
così come dall’altra parte le rette sostegno dei lati AB, CD, EF e GH

98 fondamenti geometrici del disegno


concorrono in un distinto secondo punto. Se null’altro ci fosse detto
potremmo immaginare il prisma obiettivo ABCD… composto di facce
trapezoidali, sagomate in modo tale che quelle due quaterne di spigoli
convergenti in prospettiva siano obiettivamente convergenti in due distinti
punti al finito, ottenendo diverse infinità di figure.

Per arginare l’indeterminazione del problema dobbiamo aggiungere altri dati


come l’affermazione arbitraria che le facce del prisma sono a due a due
parallele. In questo caso quei punti di concorrenza saranno i due punti di
fuga delle direzioni degli spigoli ovvero i punti della prospettiva nei quali si
proiettano i punti all’infinito della direzione di quei lati.
Più certa è la condizione obiettiva dei lati AC, BD, GE e HF che sono
rappresentati con segmenti paralleli, dunque essi non possono che essere
obiettivamente // tra loro // e al quadro π ’.

proiezioni centrali 99
Per determinare la posizione del centro O di proiezione e la posizione del
prisma rispetto al quadro dobbiamo conoscere altri dati: o la posizione del
centro di proiezione oppure l’angolazione reciproca delle coppie di facce del
prisma.
Stabiliamo dunque che il prisma ABC… sia a base quadrata e ricaviamo da
questa condizione quanto manca nella rappresentazione a definire l’altezza
del prisma in rapporto alla base, e la posizione reciproca del punto di vista e
del quadro.
Determinare la posizione del punto di vista O rispetto al quadro e alla figura
equivale a ribaltare sul quadro π’ un conveniente piano proiettante, meglio
quel “piano orizzontale” che passa per il punto di vista, cioè quello che si
rappresenta sul quadro nella sola linea d’orizzonte (la retta di fuga di tutti i
piani orizzontali). Questa linea d’orizzonte è qui la retta che unisce i due punti
di fuga ai quali convergono le due quaterne di spigoli del prisma tra loro
supposti paralleli, essi sono determinati dalle due rette F1O e F2O proiettanti
parallele alle direzioni obiettive incognite dei lati CD e CE. Inoltre sappiamo,
avendo posto che la base del prisma è quadrata, che queste direzioni CD e CE
delle facce verticali del parallelepipedo sono perpendicolari tra loro, ovvero
l’angolo F 1OF2 dovrà essere retto in O.
Allora per ritrovare il ribaltato O* sul quadro
del punto di vista O (e dunque il ribaltato
sul quadro di questo particolare piano
orizzontale principale) intorno alla
linea d’orizzonte ci basta ricordare
che il luogo dei punti vertice di un
angolo retto con i lati passanti per F1 e
F2 è il semicerchio che ha per diametro
F1 F2.
Per determinare quale dei punti di questo
semicerchio corrisponde al punto di vista
ribaltato O* bisogna ripetere questa
costruzione al riguardo di un’altra coppia di punti di fuga (F3, F 4) di direzioni
tra loro perpendicolari. Non restano che le diagonali delle facce « quadrate »

100 fondamenti geometrici del disegno


orizzontali a testimoniare due direzioni ⊥; si individuano ad esempio i punti
di fuga F3 F 4 delle direzioni diagonali AH e BG, e si traccia semicircolo di
diametro F3 F 4. L’intersezione tra il semicircolo di diametro F1 F2 e quello di
diametro F3 F 4 individua il punto di vista O*, il punto comune alle due coppie
di rette proiettanti parallele rispettivamente ai lati e alle diagonali orizzontali
del parallelepipedo.
La coppia delle rette proiettanti ribaltate F1O* e F2O* // ai lati orizzontali del
parallelepipedo ci dà la vera inclinazione di quei lati rispetto al quadro.
Il passo successivo consiste nel ribaltare sul quadro il piano orizzontale che
contiene la base del parallelepipedo. Poniamo ad arbitrio una retta di traccia
(la linea di terra) tracciando una qualsiasi delle parallele alla linea d’orizzonte,
non importa quale poiché l’immagine prospettica resta simile a se stessa
traslando il quadro parallelamente a sé. Sappiamo infatti che le varie
prospettive di uno stesso oggetto da uno stesso punto di vista O che si
ottengono spostando il quadro parallelamente a sé sono sempre omotetiche
rispetto a O, come le stampe in diversi formati di una stessa fotografia, o le
riproduzioni in diverse percentuali di riduzione per xerocopia di una stessa
immagine.
Qui è conveniente scegliere quella linea di terra che tocca lo spigolo anteriore
del parallelepipedo, come se il quadro della rappresentazione si fosse spinto
parallelamente a se stesso fino allo spigolo AC.

proiezioni centrali 101


Quello
spigolo AC
appartiene così al
quadro e vi è
direttamente misurabile.
Infine le rette che determinano
la pianta del parallelepipedo
partiranno dai punti di traccia lungo la
linea di terra e si condurranno parallelamente alle rispettive
proiettanti F1O* e F 2O*.
Per tradurre la prospettiva in una rappresentazione mongiana abbiamo dovuto
aggiungere tra i dati del problema alcune proprietà metriche (e grafiche) della
figura obiettiva. Naturalmente se avessimo disposto di una vera prospettiva
sulla quale fossero indicati il punto principale e il cerchio di distanza non
sarebbero state necessarie molte delle restrizioni adottate come il presupposto
della “pianta” orizzontale (la base quadrata) del prisma.
In ogni caso una restituzione prospettica consiste sempre e solo di ribaltamenti
sul quadro di piani e di rette rappresentate in una proiezione centrale, e il suo
procedimento dipende dalla natura dei dati. Anziché supporre tra i dati del
problema le misure delle grandezze angolari, come abbiamo fatto ora, per
ricavare le misure delle grandezze lineari, potremmo rovesciare il
procedimento e partire da alcune misure lineari per determinare quelle
angolari.

4.6.2 Uso dei punti di misura. Abbiamo più volte rilevato come ribaltare
un piano su di un altro (facendolo ruotare) intorno alla loro retta d’intersezione
equivalga a proiettare i punti del primo piano sul secondo da una direzione
ortogonale al piano bisettore l’angolo (minore dei due angoli supplementari)
tra i due piani dati; e notato come ribaltare una retta r su di una retta t
(facendola ruotare) intorno al loro punto T d’intersezione equivalga a

102 fondamenti geometrici del disegno


proiettare i punti di r su t da una direzione ortogonale alla bisettrice dell’angolo
rTt . E abbiamo definito (4.5.3) il punto di misura M’r di una retta r in una
prospettiva come il punto di fuga della direzione ortogonale alla bisettrice
dell’angolo (minore dei due supplementari) formato dalla r con la retta t π
traccia del piano π della r con il quadro π’. Dunque M’r appartiene alla retta di
fuga f’π del piano π della retta r e dista dalla fuga Fr della retta quanto il punto
Fr dista dal centro di proiezione O. Il segmento Fr M’r è dunque il ribaltamento
sulla linea d’orizzonte del segmento Fr O (la parte di retta proiettante parallela
a r) intorno a Fr .
Considerando l’esempio precedente, ma supponendo ora ignoti gli angoli
formati dai lati della base, siano invece date le misure dei lati EC e CD uguali
ad a; si ricerchi la posizione del punto di vista e l’angolo obiettivo tra i lati del
parallelepipedo.
Ponendo il quadro sullo spigolo AC questo spigolo vi risulta in “vera misura”
= 3/4 a.
Riportando su questa linea di terra da C i due segmenti CE* (a sinistra) e CD*
(a destra) di misura a (in proporzione alla misura obiettiva di CD = ¾ a),
individuiamo il ribaltamento dei segmenti CE e CD sulla linea di terra. Ne
segue che tracciando la retta E*E’ determiniamo al suo incontro con la linea
d’orizzonte (in quanto retta di fuga del piano π della retta CE) il punto di misura
M’1 della retta CE.
Analogamente il punto di fuga M’2 della retta D**D’ è il punto di misura della
retta CD.
proiezioni centrali 103
I segmenti F’1 M’1 ed F’2 M’2 rappresentano uno il ribaltamento sulla linea
d’orizzonte del segmenti F 1O intorno a F1 e l’altro il ribaltamento di F 2O
intorno a F2; si può dunque ripercorrere graficamente la rotazione di questi
segmenti sul piano orizzontale principale tracciando con centro in F 1 e F 2 i
loro rispettivi archi di cerchio descritti percorrendo il tragitto da M’1 a O e da
M’2 a O.
Evidentemente gli archi di cerchio si intersecheranno nel punto di vista O*
cercato, mentre le rette O*M’ 1 e O*M’2 indicano la direzione delle rette
obiettive CE e CD. Queste due rette obiettive si possono così tracciare
immaginando di ribaltare sul quadro il loro piano orizzontale intorno alla linea
di terra, conducendo le parallele alle loro rispettive proiettanti a partire dal
loro punto comune C di traccia con il quadro.
Si noti come mutando i rapporti tra le misure presupposte (note) mutino
conseguentemente i rapporti di luogo tra i vari elementi della
rappresentazione e le caratteristiche della figura obiettiva. Se si assume CE =
CD = 2 CA = 2h il parallelepipedo risulta a base romboidale e collocato alla

104 fondamenti geometrici del disegno


sinistra del punto vista.
È dunque evidente come a seconda dei rapporti presupposti tra le misure dei
lati del prisma mutino i loro angoli e la conseguente collocazione del punto di
vista O.
Ma è altresì evidente che in ogni caso il prisma obiettivo corrispondente al
dato di questo problema non può essere un cubo poiché se assumiamo
CE = CD = CA le circonferenze di raggio F’ 1 M 1 e F 2 M 2 non si incontrano al
finito in un distinto punto O*.
I dispositivi grafici che abbiamo indicato si differenziano per il diverso ruolo
di dati o di incognite che hanno le grandezze lineari e angolari, ma non nel
numero effettivo delle determinazioni necessarie a risolvere il problema.

proiezioni centrali 105


106 fondamenti geometrici del disegno
5 MORFOGRAFIA PER LE ARTI COSTRUTTIVE

5.1 Modelli

Con il termine “modello” indichiamo genericamente il prodotto comunicabile


di una particolare rappresentazione, ovvero quell’oggetto testuale e leggibile
che chiamiamo ancora “rappresentazione”. “Rappresentazione” indica infatti
tanto il processo conoscitivo del rappresentare quanto il prodotto espressivo e
comunicabile di questo processo, significa tanto il processo per il quale un
contenuto di percezioni, immaginazioni e concetti si presenta alla coscienza
quanto l’espressione attraverso segni o indici di entità astratte o concrete.
Quindi “modello” indica non tanto le caratteristiche materiali di un oggetto
quanto il particolare uso referenziale al quale l’oggetto - concreto o astratto
che sia - è sottoposto, come evoca l’immagine precisa che ci offre Italo Calvino
nelle sue citatissime Città invisibili.
“Ai piedi del trono del Gran Kan s’estendeva un pavimento di maiolica. Marco
Polo, informatore muto vi sciorinava il campionario delle mercanzie riportate
dai suoi viaggi ai confini dell’impero: un elmo, una conchiglia, una noce di
cocco, un ventaglio. Disponendo in un certo ordine gli oggetti sulle piastrelle
bianche e nere e via via spostandoli con mosse studiate, l’ambasciatore cercava
di rappresentare agli occhi del monarca le vicissitudini del suo viaggio, lo stato
dell’impero, le prerogative dei remoti capoluoghi.
Kublai era un attento giocatore di scacchi; seguendo i gesti di Marco osservava
che certi pezzi implicavano o escludevano la vicinanza d’altri pezzi e si
spostavano secondo certe linee. Trascurando la varietà di forme degli oggetti
ne definiva il modo di disporsi gli uni rispetto agli altri sul pavimento di
maiolica. (...) In fondo era inutile che Marco per parlargli delle sue città
ricorresse a tante cianfrusaglie: bastava una scacchiera coi suoi pezzi dalle
forme esattamente classificabili. A ogni pezzo si poteva volta a volta attribuire
un significato appropriato: un cavallo poteva tanto rappresentare un vero
cavallo quanto un corteo di carrozze, un esercito in marcia, un monumento
equestre; e una regina poteva essere una dama affacciata al balcone, una
fontana, una chiesa dalla cupola cuspidata, una pianta di mele cotogne.”
L’ambiguo gioco di rappresentazione che avviene tra Marco e Kublai ci mostra
quanto possa essere equivoca e a doppio senso la referenzialità che costituisce
la funzione dell’ “essere modello di ...”. Il pezzo d’avorio in forma di cavallo
può essere interpretato come il modello di un cavallo, ma anche un cavallo
reale può a sua volta essere indicato come il modello che spiega il
comportamento del pezzo d’avorio che lo raffigura. Questa equivocità non è
solo quella reversibilità connaturata a ogni processo segnico poiché nel gioco
di rappresentazione tra Marco e Kublai sono le “regole del gioco”, la sintassi,
del modello a informare e spiegare il comportamento del referente. Anche in
geometria, abbiamo constatato (1.1.1), una superficie e le sue linee geodetiche
possono assumere il ruolo di modelli di quegli enti che possiamo chiamare
ancora “piano” e “rette”, ma di una geometria non euclidea. Nulla vieta però,

morfografia per le arti costruttive 107


come si è indicato nel primo capitolo, che una geometria non euclidea venga
usata a sua volta come “modello” di un certo fenomeno fisico; così la
geometria proiettiva ci è valsa come modello di fenomeni proiettivi, anche se
il suo senso non si esaurisce in questo occasionale servizio. La geometria non
serve e non è in sé che rappresentazione di se stessa ma, come la scacchiera di
Kublai, nella sua efficiente autoreferenzialità si rende disponibile a
modellizzare o, nel doppio senso del suo uso referenziale, a essere modellizzata
da aspetti di fenomeni molto diversi. I fenomeni donano alle geometrie la loro
concretezza e la loro plausibilità empirica mentre le geometrie offrono ai
fenomeni la chiarezza delle loro regole del gioco. Così il modello geometrico
è tanto bello e chiaro quanto più è infedele poiché le sue “regole del gioco”
devono essere molto più semplici e attraenti della congerie di fatti che
caratterizzano il suo referente. L’astrazione geometrica del gioco affascinava
anche il Gran Kan di Calvino facendogli ritenere che “... anziché scervellarsi
a evocare col magro ausilio dei pezzi d’avorio visioni comunque destinate
all’oblio, bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni
successivo stato della scacchiera come una delle innumerevoli forme che il
sistema delle forme mette insieme e distrugge.”
Poco importa ora se quella contemplazione di “ogni successivo stato della
scacchiera” abbia fini diversi per il matematico e per l’artista, il modello è per
entrambi un transitorio strumento di conoscenza, anche se uno cerca
l’immutabile nei limiti quantitativi della sintassi delle regole del gioco mentre
l’altro valuta gli effetti sul referente dei singoli casi del gioco. Entrambi
guardano inizialmente agli schemi dispositivi con un istinto simile a quello
dell’antica scienza dell’augurio e della divinazione, interrogando il modello
sul proprio referente, ma attraverso i problemi determinati o indeterminati
che gli stessi dati costitutivi del modello (le sue regole del gioco) sono in grado
di porre.
Per l’artista o l’artigiano il modello - non importa che consista in un disegno
piuttosto che in una sinopia o un quadro non finito, in una maquette piuttosto
che in una rappresentazione digitale, in un astratto schema distributivo o in
una suggestione impressionistica - ha comunque valore di simulazione
progettuale; è parte di un processo formativo, è tappa di quel dialogo continuo
costituente la rete di alternative attraverso le quali cerca di far brillare l’idea
dell’opera. Ci sono quindi modelli più o meno efficaci ovvero più o meno
capaci di rappresentare solo i fatti essenziali dei loro referenti, di simulare e
controllare tecnicamente i caratteri fondamentali del progetto; più o meno
capaci di assecondare la formatività propria dell’opera, di informarne la
realizzazione, di sedurne i committenti, di pilotarne la lettura agli occhi di
pubblici diversi. L’artista, oggi più che mai condannato alla libertà, deve di
volta in volta divinare tra le varietà dei suoi mezzi la strada che ritiene più
sensata. E deve quindi considerare la rappresentazione che genera il modello
sempre iscritta in un ordine pragmatico riferito agli scopi, alle funzioni, alle
astrazioni e generalizzazioni che la generano.

108 fondamenti geometrici del disegno


5.2 Tipi

Spesso nella letteratura architettonica (specie in questi ultimi due secoli)


“modello” non si riferisce direttamente all’oggetto prodotto di una
rappresentazione, ma all’oggetto concreto soggetto di una rappresentazione.
Anche qui, come in geometria, il termine conserva un doppio senso; un
edificio, una piazza assolata, una composizione di oggetti sottoposti a
imitazione grafica, fotografica, eidomatica, si chiamano “modelli” perché se
ne prevede quell’astrazione e generalizzazione inevitabilmente compiuta nella
loro rappresentazione.
Così nella pratica artistica, dove il designato usuale del termine “modello” è
un oggetto concreto, quelle astrazioni e generalizzazioni (i “caratteri” e gli
“aspetti”) che un processo di rappresentazione può evincere da una classe di
suoi soggetti vengono definite di volta in volta con diversi termini specifici, e
specialmente con il termine “tipo”.
Solo per rara estensione il termine “tipo” viene usato per indicare un concreto
modello grafico o un “prototipo”; propriamente lo si deve intendere come il
prodotto di un’astrazione e di una generalizzazione, come il nome che allude
a un certo “carattere invariante” di un insieme di oggetti, come l’etichetta
che si attribuisce a una specifica classe di equivalenza. Una classe che
ovviamente non esisterebbe se non fosse determinata da un criterio di
classificazione, ovvero da ciò che si dice “tipologia”.
Ogni “tipologia” è partita in “tipi”, cioè in classi di equivalenza. Così a
proposito di un certo insieme di unità edilizie si parla, ad esempio, di un tipo
“a corte”, “in linea” o “a schiera” indicando diverse classi di una “tipologia
insediativa”; si parla di tipo “a pareti semplici portanti”, o “a gabbia” in
riferimento a una “tipologia strutturale”. Ma nell’uso pratico di queste
categorie la complessità dei fatti architettonici rende poco evidente il semplice
fatto che i “tipi” siano le classi di equivalenza di un insieme detto “tipologia”.
Ciò che si indica generalmente come “tipo edilizio” è una classe di equivalenza
composta dall’intersezione di diversi criteri tipologici basati su considerazioni
funzionali, distributive, strutturali, tecnologiche e morfologiche.
L’architettura è un sapere induttivo e non sopporta a lungo il rigore deduttivo,
tanto che risulta spesso più semplice elencare i caratteri edilizi che vengono
esclusi da un criterio di classificazione tipologica, oppure connotare un “tipo”
con il nome di una classe di edifici storici, come quando si parla di “tipo
conventuale benedettino”, di “tipo basilicale”, etc.
Comunque si consideri la varietà possibile delle “tipologie edilizie” essa ci
fornisce un esempio che ci fa intuire anche la gamma delle rappresentazioni
strumentali alle arti costruttive, o almeno ci indica come queste
rappresentazioni, queste mappe descrittive, questi “modelli” geometrici
possano fondarsi ancora oggi su statuti e geometrie molto diverse. Si può
facilmente constatare come siano altrettanto significative nel progetto di una
costruzione tanto rappresentazioni (modelli) che intrattengono rapporti
puramente simbolici topologici con il loro referente (come il diagramma delle

morfografia per le arti costruttive 109


linee della metropolitana, lo schema di un circuito elettrico, o una mappa
suggestiva simile a una rappresentazione geografica medievale che
rappresenta una regione evocandone luoghi deputati tramite figure
simboliche) quanto precise mappe proiettive che ne illustrano tutte le
caratteristiche metriche e le apparenze ottiche. Quotidianamente, anche
senza ricorrere all’equivoca scacchiera di Kublai, la nostra esperienza dei fatti
spaziali utilizza modelli di natura topografica e modelli di natura topologica
in una vasta gamma, compresa tra l’uso quantitativo delle forme e l’uso
qualitativo delle figure.

5.3 Figure e forme

“Figura” è ogni forma e configurazione dotata di un significato iconografico


o, più in generale, ciò che nomina lo specifico senso culturale di una forma
apparente situandola in una tradizione, in un mito, in un uso, in una tecnica,
in un gruppo sociale in un dato tempo storico. Perciò l’architettura e le arti,
come la nostra esperienza quotidiana, sono essenzialmente fatti di figure più
che di forme.
Trattando di fondamenti geometrici del disegno non abbiamo considerato la
fondamentale dimensione iconografica delle arti recependo il termine
“figura” nel suo più ristretto senso geometrico, intendendola generalmente
solo come un insieme di punti, di singoli segni di luogo a estensione nulla. La
geometria applicata all’architettura ha una piccola giurisdizione solo sulle
“forme” anche se alcune “forme geometriche” (particolari curve e superficie)
possono ormai intendersi, per ragioni storiche, anche come “figure”
architettoniche. È tuttavia importante sottolineare le conseguenze
dell’enorme differenza tra il significato artistico e quello geometrico del
termine figura poiché indicano precisamente i limiti di applicazione della
geometria all’architettura e alle arti.
Abbiamo visto [5.1] che nel suo significato essenziale il “modello” sia parte
del lavoro tanto del matematico quanto dell’architetto, ma è evidente come
l’interrogazione progettuale di un modello a fini costruttivi, pur riguardando
procedure delle geometria, non sia assolutamente geometria ma operazione
diversa dalla ricerca di proprietà generali, immutabili, di una figura. Ogni
rappresentazione per l’architettura e il disegno industriale si può riguardare
in parte e solo retrospettivamente come un modello geometrico, perché le
rappresentazioni che ineriscono in vario modo il mondo del costruito o del
costruibile non possono essere comprese in un qualche sistema di proposizioni
assolutamente ipotetico deduttivo. Al contrario l’architettura e le arti,
consistendo nell’uso culturalmente estetico delle tecniche, sono in generale
saperi non ipotetico deduttivi, sono anzi potentemente induttivo e non
progressivi. Vale infatti il principio che l’uso estetico delle tecniche non
“evolve” parallelamente al progresso delle specifiche tecniche. Mentre
evolvono le tecniche che l’architettura impegna esteticamente e
politicamente, l’architettura nel suo complesso - a differenza della geometria

110 fondamenti geometrici del disegno


- non giunge allo stato di sapere completamente autoreferenziale che produce
verità stabili anche fuori da un contesto culturale specifico. È infatti evidente
che se un matematico odierno può ben dire di sapere più di un agrimensore
egizio sulla teoria della misura, un architetto invece non può oggi dimostrare
le sue composizioni in un qualche vantaggio artistico rispetto alle opere di un
suo collega dell’antico Egitto; anzi l’architetto odierno vive generalmente
uno svantaggio sostanziale rispetto al suo mitico precursore egizio che poteva
agire in un definito universo di senso delle forme, in un mondo nel quale si
identificavano figura e scrittura, dove erano solidamente fondati il significato
e il valore di ogni figurazione.
I due significati artistico e geometrico del termine “figura” mostrano
chiaramente quanto l’architettura e le arti nel loro complesso siano molto più
vicine alla retorica che alla geometria; esse persuadono ma non dimostrano,
giungono a una riuscita, ma non a un risultato. A singoli risultati giungono le
tecniche chiamate dall’opera d’arte, riuscita o non riuscita che sia.
L’ingegnere, il fisico tecnico o il quadraturista approdano al risultato, all’esito
certo del procedimento tecnicamente valido, mentre l’architetto, l’artista, il
retore o il pubblicitario cercano, senza cadere nel bricolage, di pervenire a
una riuscita, cioè a un esito commisurato al successo delle intenzioni che lo
hanno determinato attraverso procedimenti ritrovati e azzardati caso per caso.
Queste considerazioni, che possono apparire digressive in un manualetto di
geometria pratica, sono utili a sgombrare il campo da fraintendimenti forse
molto frequenti nei primi anni di studio e saranno riprese per ricordare che
l’uso degli argomenti della geometria (e delle altre scienze esatte) nella
legittimazione delle arti è tanto fondamentale quanto essenzialmente
pretestuoso; infatti l’arte non trova il suo senso (significato più valore) nelle
tecniche, ma attraverso loro. Oggi le arti non trovano nelle matematiche alcun
senso ma solo dei procedimenti morfografici che possono giovare al progetto
diminuendone l’entropia dei dati.
Il servizio estetico che la geometria può fare alle arti costruttive è quello di
aiutarle a rappresentare i problemi che in altri linguaggi si direbbero in modo
più complicato, non quantitativo, e quindi tecnicamente meno efficiente. In
particolare la geometria è utile a un’attività compositiva poiché insegna a
descrive le forme in termini di trasformazioni come potrebbe esemplificare
l’ordito delle manipolazioni di un tema che informa l’offerta musicale, l’arte
della fuga o le variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach anche se la
bellezza musicale di una fuga, o di un canone scritto e trasformato con
procedimenti numerologici non dipende che in piccola parte dalla loro
caleidoscopica struttura geometrica.
Le leggi di trasformazione che vi sono applicate alla composizione musicale
contribuiscono solo a quel particolare effetto di ordine complesso che meglio
si direbbe con il termine sintropia e che indica la tendenza di un sistema a
raggiungere nello stesso tempo, come nei fenomeni biologici, la massima
configurazione ordinata e insieme differenziata. Per questa ragione ancora
oggi qualche sostenitore (spesso inconsapevole) di estetiche di tipo

morfografia per le arti costruttive 111


teleonomico (cioè che vorrebbero le costruzioni artistiche informate da quello
stesso finalismo biologico che negli organismi è determinato dalla selezione
naturale) confida nella meccanica geometrica o cibernetica come chiave
d’accesso ai “segreti della bella forma”.
Mettendo da parte ogni esoterismo naturalistico, si vede invece nella
morfologia praticata dalle scienze naturali l’offerta, più che di astratti criteri
descrittivi delle forme, di un esempio formidabile della concezione di una
geometria connaturata alle cose (della forma intesa come legge di costruzione
dell’organismo) e quindi di un’idea appropriata alla formatività
dell’architettura e del disegno industriale. Ma al proposito non possiamo che
rimandare a un saggio classico di questo settore di studi, il fortunatissimo libro
quasi centenario di D’Arcy Wentworth Thompson, On Growth and form,
tradotto in Crescita e forma.

5.4 Forme e gruppi di trasformazioni

È evidente fin dall’uso più occasionale del termine geometria come ai fini della
sua descrizione geometrica la forma sia intesa come struttura: insieme di parti
più o meno elementari connesse secondo certe regole più o meno complesse.
Riconoscere la legalità geometrica di una forma è immaginarla come il
risultato di trasformazioni compiute su una figura originaria più semplice,
come si impara sin dalle costruzioni grafiche della geometria elementare,
basate in buona parte sulle simmetrie più semplici.
Gli esempi più evidenti di regolarità geometriche sono le comuni simmetrie
bilaterali e traslatorie. Nella letteratura architettonica, specialmente a partire
dal trattato vitruviano, simmetria indica in senso lato (convenientemente al
significato etimologico) un carattere di regolarità secondo un certo progetto:
un “equilibrio” fra parti della costruzione che a volte è precisabile come
costanza di proporzioni e di ritmi in una composizione o in una struttura. A
differenza delle sue accezioni scientifiche, “simmetria” nelle arti costruttive
ha solo raramente significati esatti e quantitativi, più generalmente si trova a
indicare aspetti di natura puramente qualitativa o semplicemente intuitiva,
fondati su valutazioni che sfuggono a qualsiasi caratterizzazione univoca. Per
essere usata come strumento descrittivo della regolarità delle forme e delle
configurazioni la simmetria deve essere ricondotta al suo consueto e intuitivo
significato geometrico, come accade nell’uso che se ne fa nelle scienze
naturali.
Il concetto fondamentale per descrivere quantitativamente la regolarità delle
forme, le loro rappresentazioni e le loro manipolazioni è dunque quello di
trasformazione, per il quale vale forse la pena di ricordare nozioni che il lettore
già conosce. In senso geometrico una trasformazione T è quel concetto
primitivo fondamentale in buona parte sinonimo di relazione, operazione,
corrispondenza e funzione, immaginabile dunque come un dispositivo per il
quale si associano agli elementi x di un insieme A gli elementi x’ = T (x)
[trasformati degli x] di un insieme A’ detti corrispondenti o immagini degli x.

112 fondamenti geometrici del disegno


Più precisamente T è un’applicazione di un insieme in se stesso e valgono per
essa la stessa ideografia, le stesse distinzioni e proprietà che abitualmente si
usano in altri ambiti della matematica per indicare e specificare le
corrispondenze: così una T : A→A’ [una trasformazione T che porti da A in A’]
si dice injettiva se a ogni elemento distinto x di A corrispondente un elemento
distinto x’ di A’ (due punti distinti di A hanno sempre in A’ immagini distinte);
si dice surjettiva se ogni elemento x’ = T(x). Una T : A←→ A’ , insieme injettiva
e suriettiva (univoca e reciproca), si dice anche bijettiva e costituisce dunque
un corrispondenza biunivoca tra A e A’, in questo caso a ogni x di A corrisponde
uno e un solo x’ di A’ e viceversa.
È evidente che una T biunivoca è per gli elementi di A una sorta di “biglietto
di andata e ritorno”, ammette cioè l’esistenza di una trasformazione inversa
(o reciproca) T - 1 : A’ →A. Applicando su A una trasformazione diretta T e poi
applicando ad A’=T(A) la trasformazione reciproca T - 1 “si torna” allo stesso
A.
Le trasformazioni come le tappe di un viaggio si possono dunque concatenare,
applicare successivamente una dopo l’altra al risultato della trasformazione
precedente; la composizione di due o più trasformazioni viene a consistere
ancora in una trasformazione e si dice spesso, forse impropriamente, prodotto
(così come un numero può essere inteso come addizione o prodotto tra due o
più numeri).
La composizione di T e T - 1 è la trasformazione I che “lascia invariato” l’insieme
A e si dice trasformazione identica o identità; applicando ad A una
trasformazione identica ogni elemento x di A viene trasformato da I in se stesso
e si dice quindi elemento unito.
Il modo che da circa un secolo e mezzo i geometri ritengono più efficiente per
ordinare l’insieme di tutte le trasformazioni con la loro operazione di
composizione è dargli una struttura gruppale, decidendo cioè quali
trasformazioni compongano un certo gruppo G e quale gruppo si possa
includere in un altro più generale, come in una serie di scatole cinesi. Il criterio
per il quale varie trasformazioni formano un insieme G, dotato di quella
struttura algebrica detta gruppo, vuole che tanto l’inversa di ogni
trasformazione di G quanto la composizione di due trasformazioni di G siano
trasformazioni che appartengono ancora a G. Segue che G contiene
necessariamente la trasformazione identica.
Un esempio di gruppo sono le trasformazioni che abbiamo utilizzato in questo
corso, le omografie o collineazioni del piano, ovvero quelle trasformazioni che
portano i punti di un piano, attraverso una serie di operazioni di proiezione e
sezione, a corrispondere ai punti di un altro piano coincidente al primo. Si
tratta di una trasformazione del piano in se stesso in cui generalmente a rette
parallele corrispondono rette concorrenti in un punto. Il caso di omografie in
cui rette parallele corrispondono a rette parallele si dice affinità, e anche le
affinità hanno struttura di gruppo, ponendosi quindi a sottogruppo delle
omografie. Quelle particolari affinità nelle quali resta costante un rapporto
tra due segmenti corrispondenti si dicono similitudini e formano un

morfografia per le arti costruttive 113


sottogruppo delle affinità. E le similitudini nelle quali il rapporto costante
(rapporto di similitudine) è = |1| formano il sottogruppo delle congruenze
(dirette o inverse) o movimenti rigidi. Scendendo ancora tra questi troveremmo
i gruppi delle abituali simmetrie con la sorpresa di vederle definite
semplicemente come le trasformazioni che coincidono con le proprie inverse.
È facile rendersi conto, immaginando una qualunque figura piana, che il
gruppo delle sue specifiche simmetrie misura “quanto quella figura non muti
se sottoposta a trasformazioni isometriche”, infatti quel gruppo contiene tutti
e i soli movimenti rigidi (traslazioni, riflessioni, rotazioni, ...) del piano che
“non modificano la figura”. È evidente che quei movimenti rigidi formano
un gruppo poiché se un movimento “non muta” una figura, “non la muta”
nemmeno l’inverso, e se due movimenti “non mutano” la figura, essa “non
viene alterata” nemmeno dalla loro composizione. Ad esempio il gruppo di
simmetria (D5) al quale appartiene un pentagono regolare ci dice che la figura
“resta la stessa” se la sottoponiamo alle 5 rotazioni intorno al suo centro di un
angolo multiplo di 2π/5 e alle 5 riflessioni nelle rette degli apotemi. Il gruppo
di simmetria (D2) di un rettangolo contiene solo le 2 riflessioni per gli assi e le
2 rotazioni intorno al centro, mentre infinite isometrie sono contenute ad
esempio nei gruppi di simmetria del cerchio e della retta.
La simmetrie geometriche sono dunque solo casi particolari di regolarità di
una configurazione, di equivalenza tra due figure. Le diverse geometrie
(euclidea, affine, proiettiva, topologica ...) si distinguono e si ordinano in
primo lungo a seconda del criterio con il quale ciascuna di esse afferma che
due figure sono equivalenti. E poiché due figure sono equivalenti se si possono
trasformare una nell’altra, i gruppi di trasformazioni hanno un ruolo
fondamentale nell’intero ordinamento della geometria, e quindi conseguenze
sulla morfografia.
Le morfografie, i modi di scrivere, di rappresentare le forme per uno scopo
tecnico, in epoca moderna vengono codificate tramite una o più geometrie, e
ogni geometria è l’insieme delle proposizioni che dimostrano le proprietà
invarianti di certe figure in un certo gruppo di trasformazioni. La diramata
scatola cinese dei gruppi di trasformazioni offre il criterio del “se” e del
“come” due figure possono dirsi specificamente equivalenti ovvero identiche,
oppure isometriche, simmetriche, congruenti, omotetiche, simili, affini,
omologiche, omografiche, proiettive, omeomorfe, etc. Dalle proprietà
invarianti nei gruppi di trasformazione la morfografia troverebbe dunque gli
algoritmi prima grafici e poi algebrici, meccanici, informatici attraverso i quali
costruisce i suoi modelli.
Ma la concretezza storica delle arti non rispecchia che frammenti episodici di
questo semplice schema astratto, generalizzante e deduttivo e quella
concezione della forma che da un secolo argomentiamo nella teoria della
trasformazioni geometriche ha riguardato la morfografia per l’architettura
soltanto sotto la categoria induttiva della “deformazione”.

114 fondamenti geometrici del disegno


5.5 Deformazione e modellazione analogica

La deformazione, come variazione delle qualità spaziali di una forma


architettonica geometricamente più semplice (alterazione di una
configurazione originaria modificandone in modo continuo o discontinuo le
distanze tra i punti, o i valori degli angoli fra i piani o fra le rette del suo modello
geometrico), caratterizza la tecnica della modellazione. La si può intendere
come strumento di configurazione tradizionale nella cultura architettonica
almeno fin dall’antichità classica, a partire dalle tecniche di profilatura
dell’entasi delle colonne o delle lievi curvature delle cornici dei frontoni, per
giungere al capitello sghembo lungo la rampa del tempio della Fortuna
Prenestina.
Si potrebbe anche sospettare la presenza di tecniche di deformazione in tutto
il repertorio virtuosistico delle forme architettoniche basate su linee e
superficie più complesse, o perlomeno inusuali, e conseguentemente
individuare una codificazione tecnica della deformazione architettonica nella
letteratura che riguarda la stereotomia, che è appunto la geometria pratica
del taglio delle pietre e dei legnami per la costruzione degli elementi di archi
e volte a superficie complessa. Ma in realtà l’arte di ritrovare l’esatta forma
dei conci di pietra testimonia solo lo sviluppo di quella geometria pratica che
permette di porre in discorso la deformazione nelle nostre odierne specie delle
trasformazioni geometriche. Infatti è su questo terreno che a partire dal XVI
secolo emergono critiche che invocano un’istanza di coerenza geometrica, di
rifiuto del grottesco, nelle soluzioni di alcuni elementi decorativi di impianto
“sghembo”. Philibert de l’Orme, il primo trattatista divulgatore della
stereotomia, l’architetto che contribuisce a portare questa tecnica di profonda
tradizione gotica a cifra dell’architettura francese del XVII secolo, sosteneva
che nella scala elicoidale bramantesca del Belvedere si dovessero abolire i
raccordi a forma di cuneo tra il capitello “non deformato” e l’architrave a
sviluppo elicoidale, proponendo di coinvolgere uniformemente il capitello
nello stesso andamento “obliquo” degli altri elementi dell’ordine com’era
avvenuto in diversi esempi gotici, e come sarà affermato nell’Architectura civil
recta y obliqua, di Juan Caramuel de Lobkowitz. L’“architettura obliqua” era
teorizzata da Caramuel per ogni occasione quando venisse meno l’ortogonalità
dei piani di riferimento, come nei partiti murari delle scale e degli ambienti a
pianta circolare, ovale o ellittica dove al classico ordine “retto” viene sostituito
un ordine deformato, corrispondente al “retto” in base a quella che oggi
diremmo una omologia spaziale (1.5.4 e 2.1.4). Caramuel non usa ovviamente
i termini odierni della teoria delle trasformazioni, ma (avvalendosi spesso di
termini prossimi alla geometria astronomica) sviluppa un ragionamento
analogo dove le regole della forma del corpo materializzano una geometria,
un “lugar intrinseco”. Tanto che anche lui, come già faceva de l’Orme
riferendosi alla rampa elicoidale del Belvedere, considera incoerenti i cunei
di raccordo tra capitelli retti e architravi obliqui della Berniniana scala Regia
e si propone di correggere la deformazione che Bernini conferisce all’intero

morfografia per le arti costruttive 115


colonnato ellittico di San Pietro.
Ovviamente la storia preferirà agli esiti dell’ortodossia omologica di Caramuel,
architetto della facciata del duomo di Vigevano, i risultati delle deformazioni
strategicamente discontinue di Bernini, di Borromini e di Gaurini. Ma per
quegli straordinari artifici barocchi la geometria coeva non aveva un
vocabolario semplice e univoco, e la grande eccitazione geometrica del XVI e
del XVII secolo poteva contagiare le ricerche morfologiche degli architetti al
più mediante le sue applicazioni proiettive o indirettamente con le suggestioni
legate alle nuove curve algebriche e trascendenti (cicloidi, ovali cartesiane,
concoidi a base circolare [cardioide, lumaca di Pascal], nefroide, logaritmica,
catenaria, rodonea ...) nate dalla rinnovata coincidenza di meccanica e
geometria negli studi di Galilei, Roberval, Huygens, Cartesio, Torricelli, ...
fino alla eco newtoniana del settecento. Da questa straordinaria geometria
meccanica si diffonde una più precisa immaginazione cinematica delle forme
(che rende anche consueto l’uso di un sistema di riferimento cartesiano,
immaginato soggetto a trasformazione continua) grazie a una fioritura inedita
di procedimenti dimostrativi immaginifici, come le considerazioni
variazionali del nuovo Calcolo o, semplicemente, quelle relative alle sezioni
coniche (ora intese come diverse manifestazioni, diversi stadi, di un unico
ente matematico), o ancora come dimostrerebbe la fioritura di congegni,
cinematismi, e strumenti (reali o solo immaginati) sempre più spesso assunti
a modelli di proposizioni geometriche.
Prima che la teoria dei gruppi consentisse un quadro stabile delle
trasformazioni geometriche esse erano studiate nei mille casi isolati della
geometria pratica attraverso le macchine e i fenomeni che le riproducevano.
Così le “deformazioni” regolari, con le quali dal XVI al XVIII secolo si
costruivano ordini “obliqui” (2.1.4) e spazi architettonici deformati
prospetticamente (1.5.4) nella profondità delle scene teatrali, erano allora
intese come estensione alle tre dimensioni spaziali della prospettiva piana e
dell’anamorfosi. Le straordinarie generalizzazioni proiettive di Girard
Desargues, che sorgevano proprio dalle applicazioni geometriche alla
prospettiva e all’arte del taglio delle pietre, non incidono sulla pratica di
cantiere nel secolo del trionfo della letteratura stereotomica francese (1636 –
1737) e sono riconosciute fondative della geometria proiettiva ovviamente solo
all’incoronazione ufficiale di questa geometria, cioè nella seconda decade del
XIX secolo. A quella data il primato tecnico della comunicazione delle “vere
forme” dei corpi per la loro fabbricazione nelle arti e nelle industrie spetta
ormai alla geometria descrittiva di Gaspard Monge sulla quale si codifica
l’odierno disegno tecnico. La geometria descrittiva segna dunque il più
efficace sbocco industriale dell’antica scienza delle proiezioni regolando
definitivamente su semplici procedure la redazione dei modelli grafici che
simulano le apparenze ottiche misurabili dei corpi da fabbricare.
Il mondo più fluido di quelle trasformazioni geometriche che codificherebbero
matematicamente la modellazione plastica dei corpi conosce l’avvento della
geometria differenziale (dovuta anche allo stesso Monge) e delle topologie,

116 fondamenti geometrici del disegno


che tuttavia non sembrano incidere direttamente nella pratica d’officina tra
Ottocento e Novecento.

5.6 Modellazione digitale

Sono piuttosto le necessità delle officine industriali che spingono a individuare


nella traduzione meccanica delle trasformazioni geometriche la possibilità di
costituire modelli molto più efficienti delle simulazioni ottiche offerte dai
disegni. In officina i disegni di progetto terminano la loro funzione produttiva
con la realizzazione di un altro modello, il prototipo, e non attraversano
fisicamente le diverse fasi del processo tradizionale con il quale l’industria
meccanica, specie quella automobilistica, navale e aeronautica, passa dal
primo azzardo progettuale alle verifiche e alla realizzazione in serie. Nella
produzione seriale il prototipo fisico resta un modello analogico che viene
sottoposto a verifica meccanica e misurazione, cioè a un’ulteriore
rappresentazione numerica. Ciò si manifestava chiaramente nella produzione
delle carrozzerie automobilistiche dove la superficie del guscio veniva
descritta prima geometricamente con disegni e poi stereotomicamente con
sagome riportanti i profili (tracciati a mano) di sezioni piane parallele del
corpo, individuate sul disegno come le linee di livello su una mappa
topografica, o come le curve isoplete di un comune monogramma cartesiano
piano. Il corpo si ricomponeva fisicamente nel prototipo riassemblando le
varie “fette stereotomiche” sagomate, e dal prototipo si procedeva al calco e
controcalco di ciascuna componente della carrozzeria per produrne poi gli
stampi e le fustelle su macchine copiatrici.
È chiaro che agendo direttamente fin dalla prima rappresentazione
progettuale su un “modello numerico”, leggibile anche dagli utensili che
fabbricano il prodotto, si riduce notevolmente tutto il processo esecutivo e
gli errori che si cumulano nella lunga serie di passaggi da modello a modello.
Il “modello digitale” concepisce la forma come insieme delle istruzioni della
sua “lavorazione” reale o virtuale, una concezione essenzialmente arcaica e
modernamente attrezzata dalla rapidissima evoluzione delle tecniche di
calcolo numerico, specie con il progresso vertiginoso dei calcolatori
elettronici e lo sviluppo degli utensili a controllo numerico.
È facile constatare che oggi la costruzione di un modello digitale con un
programma CAD riproduce nell’asettico protocollo del software procedimenti
simili alla laminazione, trafilatura, estrusione, deformazione plastica,
fucinatura, stampaggio, imbutitura, foratura, tornitura, fresatura, rettifica,
... compiuti su virtuali elementi greggi di dimensione indefinita, e ancora per
addizione, fusione, sottrazione di corpi immersi in una spazio coordinato
cartesiano. Ma al di la dello spettacolo meccanico offerto dall’interfaccia
grafica del programma, il modello è essenzialmente una lista di istruzioni
stoccate nella memoria del computer secondo una precisa e semplice
gerarchia. Ad esempio un segmento rettilineo può esservi ricordato tramite

morfografia per le arti costruttive 117


le coordinate cartesiane dei suoi punti estremi e dall’equazione parametrica
che ne può calcolare le coordinate di punti intermedi, mentre un arco di
cerchio può essere immagazzinato con un’equazione parametrica nei due
versori uscenti dal centro della circonferenza dell’arco (che ne determinano
il piano d’appartenenza) e nel valore del raggio. Ogni entità può essere
memorizzata come forma segmentaria (e discreta) attraverso i dati della sua
“frontiera” e le funzioni parametriche che permettono di calcolare dei punti
in essa contenuti. Così la geometria di un “pezzo” è strutturata
gerarchicamente come una lista di “pezzi più semplici” descritti da funzioni
parametriche, in modo che ogni ente complesso non sia in fondo che un
insieme ordinato di rimandi a pochi altri enti primitivi.
Una rinnovata ricerca geometrica ha accompagnato le vicende d’officina e
determinato l’avvento dei sistemi di Computer Aided Design come illustra
l’esempio forse più noto, la formulazione nei primi anni Sessanta delle curve
e superficie di Bézier. In quegli anni la ricerca sulla modellazione numerica
delle superficie complesse da applicarsi alla produzione automobilistica è
affrontata presso l’industria Renault da Pierre Bézier, un ingegnere Arts et
Métiers già direttore del “bureau d’études des outillages” e poi della divisione
“Macchine utensili”, noto per i contributi alla produzione seriale delle
componenti dei motori della 4cv (prodotta nel 1946) con la messa a punto di
un vero e proprio robot per la catena di montaggio, la machine de transfert.
Con l’avvento della macchine a controllo numerico, nel 1960, egli approda a
un metodo che permette di definire curve piane e sghembe e superficie
continue e continuamente derivabili (compreso il piano) tramite un numero
minimo di punti caratteristici, per i quali la forma generalmente non passa,
ma spostando i quali la forma si modella metamorficamente senza alterare la
sua proprietà caratteristica. I punti di controllo [poignées] funzionano proprio
come le “maniglie” della curva che si modella con il loro spostamento. Con
questa rappresentazione si potevano così approssimare le linee tracciate a
mano libera sui disegni di progetto (allora ancora dette linee grafiche) là dove
esse erano continue e continuamente derivabili, offrendo alle macchine a
controllo numerico la possibilità di tracciare meccanicamente curve e
superficie, allora dette “non matematiche” (delle quali non è nota una qualche
forma della equazione che le rappresenta). Matematicamente una curva di
Bézier piana o sghemba è definita da n+1 punti di controllo [maniglie] che
formano i vertici di un poligono di controllo e informano una funzione espressa
con polinomi di Bernstin (Sergueï, Natanovitch) di grado n. Questa teoria
delle “courbes à pôles” proveniva dall’analisi tensoriale, cioè da una
generalizzazione della geometria differenziale ordinaria esprimendo le
proprietà geometriche locali dello spazio mediante relazioni tra tensori (cioè
tra vettori generalizzati in modo da formulare proprietà geometriche in
maniera del tutto indipendente dal riferimento a ogni sistema di coordinate).
Essa fu decisiva nel sottoporre a discorso geometrico la modellazione plastica
per tradurla a esecuzione numerica segnando, nei primi anni Sessanta,
l’esordio dei sistemi per il disegno e la fabbricazione assistita da calcolatore.

118 fondamenti geometrici del disegno


E fu elaborata, indipendentemente e contemporaneamente a Bézier, anche
da Paul Faget de Casteljau, un matematico puro formatosi all’École Normale
Supérieur incaricato nel 1958, nel gruppo di ricerca del servizio di fresatura a
controllo numerico della Citroën, di elaborare un metodo di definizione
numerica delle superficie complesse finalizzato alla fabbricazione con utensili
a controllo numerico.
Prestissimo i risultati del matematico si inverano nella produzione di parti
della celebre 2 cv. e alla base di quel primo programma applicativo
(sperimentato nel 1961) è la sua teoria matematica delle forme a poli che – per
quanto sprovviste delle famose maniglie modellatrici di Bézier – anticipano
l’algoritmo che prenderà il nome solo da Bézier. Com’era accaduto due secoli
prima alla geometria descrittiva di Monge, la necessità del segreto industriale
impone a de Casteljau di ritardare la pubblicazione dei suoi risultati al 1985, e
a quella data sono già diverse le memorie che trattano la teoria di Bézier
applicata ai programmi CAD, sviluppati dai primi anni Settanta, e sono ormai
moltissimi i “modellatori di superficie” che integrano quelle che ormai si
chiamano surfaces ou carreaux di Bézier, accanto alle analoghe e altrettanto
celebri curve B-Spline.
Oggi la grandissima diffusione del disegno assistito dal calcolatore e delle sue
possibilità di diretta modellazione tridimensionale avrebbe esaurito la
tradizionale funzione tecnica della geometria descrittiva che insegnerebbe solo
a rappresentare le figure dello spazio sul piano del disegno. Il grafico, il
disegno su supporto cartaceo nella pratica progettuale, si può forse
considerare un’anticaglia, un elaborato costoso e certo poco informato
rispetto ai ben più ricchi modelli digitali che forniscono efficienti simulazioni
ottiche e meccaniche attraverso i sempre più accessibili programmi applicativi
che sembrano non richiedere l’apprendimento del corpus delle geometrie
applicate alle arti e alle industrie, come è venuto a costituirsi dal XIX secolo
nelle scuole tecniche e politecniche. Le tradizionali applicazioni tecniche della
geometria sarebbero oggi appannaggio del disegno assistito dal calcolatore
che permette di risolvere agevolmente gran parte dei problemi metrici e grafici
tipici di quell’uso virtuosistico della geometria descrittiva direttamente
discendenti dall’antica stereotomia. Infatti anche l’odierna modellazione
digitale discende mediatamente dalla veneranda arte del taglio delle pietre e
dei legnami che si fece geometria descrittiva e, come la scienza di Monge, si è
divisa tra la scuola politecnica e le officine che quarant’anni fa erano ormai
quelle della progettazione automobilistica, aeronautica e navale dove si
delineava l’impiego delle macchine a controllo numerico. La
rappresentazione numerica costituisce lo sbocco delle tecniche di
modellazione, se le immaginassimo evolvere in modo che i loro strumenti di
rappresentazione siano via via sussunti da altri con sempre maggiori
prestazioni informative; secondo questa filogenesi la stereotomia
settecentesca si sarebbe ridotta ai problemi grafici e metrici del metodo di
Monge, che a sua volta venne rubricato tra i casi metrici descritti dalla
geometria proiettiva, poi trattata dall’algebra lineare e dal suo immediato

morfografia per le arti costruttive 119


impiego informatico.
Sulla base di questa constatazione in parte evidente sono molti quelli che, in
nome dell’efficienza didattica, vorrebbero limitare gli insegnamenti della
rappresentazione a quello che viene chiamato, con ironia involontaria,
“disegno automatico” inteso come addestramento a qualche diffuso software
applicativo per il disegno edile e meccanico.

5.7 Simulazioni geometriche e visualizzazioni

Basata direttamente sulle diramazioni della geometria analitica, la


modellazione digitale consente la più diretta applicazione delle trasformazioni
geometriche codificate nell’algebra lineare; ogni deformazione del modello è
un ricalcolo dei sui parametri, come una sorta di aggiornamento (tramite
prodotti tra matrici) ed inventario del magazzino della memoria. Ed esito di
trasformazioni proiettive del modello sono le sue simulazioni ottiche che il
programma offre sullo schermo all’operatore o invia alla stampa, ultimo
residuo materiale del disegno tecnico tradizionale.
Per il resto il disegno tecnico tradizionale sembra scomparire dalle officine
meccaniche dove i sistemi di Computer Aided Design offrono prestazioni
insostituibili con quelle dei vecchi sistemi normografici che li hanno
preceduti. I programmi che trattano i modelli digitali permettono ora non
solo di fare più semplicemente della geometria descrittiva disegnando nelle
tre dimensioni spaziali e governando l’esecuzione automatica del prodotto su
macchine a controllo numerico, ma anche in fase di progetto consentono di
compiere sul modello numerico le verifiche meccaniche che prima si
sperimentavano rilevando gli effetti delle sollecitazioni su una maquette o su
un prototipo. Infatti quei grappoli di liste che definiscono il modello
geometrico di un corpo nella memoria del computer possono contenere anche
altri dati di valori fisici oltre a quelli inerenti il segmento di spazio
tridimensionale occupato, possibilitando così l’esercizio di una geometria
pratica a più di tre dimensioni.
Con l’avvento dei sistemi CAD s’inaugura una stagione di ricerche (che in
parte perdura) in campi molto diversi, ma tutte rubricabili nel tentativo di
fare della Concezione Assistita da Calcolatore un compiuto processo di
feedback, di retroazione delle verifiche sul modello iniziale, una sorta di
correzione quasi automatica analoga, nel suo piccolo, alla vecchia selezione
naturale. Il processo di progettazione vi è assimilato a una sorta di retroazione
negativa come quella dei processi di regolazione automatica in natura del tipo
dei riflessi biologici che garantiscono il mantenimento di una temperatura
costante del corpo. Ma di tutta l’analogia fra queste retroazioni naturali e
quelle di cui sono dotati ad esempio i servomeccanismi e i termostati artificiali
ne beneficia sostanzialmente la sola cibernetica mentre per la progettazione
industriale ed edilizia resta in buona parte il sogno di un’astratta estetica
teleologica. Da queste applicazioni hanno tratto profitto solo quei settori della
progettazione che interessano fenomeni dei quali si possiede un efficace e

120 fondamenti geometrici del disegno


semplice modello matematico, come i comportamenti meccanici dei corpi che
interessano i settori industriali dov’erano più alti i costi di sperimentazione
sui modelli oggettuali e su prototipi. Così a sfruttare inizialmente la ricerca
per l’economia ed efficienza della Concezione Assistita dal Calcolatore sarà
fin dagli anni Sessanta soprattutto l’industria aeronautica francese con il
programma CATI (poi CATIA) ed EUCLYD (sviluppato dal laboratorio
centrale di dinamica dei fluidi del CNRS), e la grande industria americana
dove oltre alla NASA anche General Motor, Mac Donel Douglas, General
Electric sviluppano specifici softwares CAD. Tuttavia si tratta ancora di
programmi, macchine e ricerche costose, “dedicati”, modellati sulle
specifiche esigenze dell’azienda almeno fino all’inizio dell’era del personal
computer.
L’avvento dei circuiti integrati e dei microprocessori inaugura la rivoluzione
informatica di questi ultimi venti anni con l’esplosione quantitativa del
mercato del software, della pletora di programmi improvvisati e dello sviluppo
costante di quelli già sperimentati sulle macchine precedenti, ma ormai in
una dimensione tanto globale da porre molto presto il problema degli
standards (come l’IGES e il SET).
L’attuale proliferazione di strumenti di simulazione geometrica di produzione
e di esplorazione d’immagini e modelli digitali con Personal Computer è un
fenomeno che sarebbe forse rappresentabile nel suo complesso solo attraverso
il suo marketing, dove vige l’imperativo manageriale del “3P Concept: Product,
Process, People” che fa della comunicazione la funzione fondamentale della
produzione. Un imperativo che nelle progettazioni industriali non implica
solo i corollari della standardizzazione dei formati dei files CAD, della
efficiente trasmissibilità e condivisione del modello nei passaggi di produzione
e di verifica, ma una celebrazione di quello che oggi si chiama “sviluppo
virtuale del prodotto”.
La comunicazione diventa anche funzione principale del consumo e, per
effetto della nostra isteria dell’anticipazione dei tempi, dell’anticipazione delle
emozioni e del consumo, si espande il fenomeno del consumo virtuale del
prodotto. Questo fenomeno non è una vera e propria novità per l’architettura,
ma solo una sorta di inconsapevole espansione del genere artistico tradizionale
della rappresentazione a soggetto architettonico (pittura di architettura) e di
una sua recente varietà tecnica, quella (cinematografica) delle simulazioni
ottiche digitali delle costruzioni. Tuttavia nell’odierna enfasi quantitativa
delle visualizzazioni si dimentica sempre più spesso che la pittura o il cinema
a soggetto architettonico hanno un valore artistico autonomo che non riguarda
affatto l’architettura “reale”, e lo si dimentica specie nelle celebrazioni
teoriche, sotto le insegne di “architettura digitale”, “architettura virtuale”,
“architettura frattale” , ... , di una pletora di rappresentazioni digressive che
cercano di sedurre lo spettatore facendo leva prevalentemente sull’immagine
mediatica e sulla sua apparente complessità geometrica e tecnologica. Non è
un intento truffaldino a sollecitare l’uso di complesse rappresentazioni
geometriche nella pubblicistica architettonica ma un diffuso fenomeno di

morfografia per le arti costruttive 121


estetizzazione superficiale, di teatralizzazione delle tecniche. Un fenomeno
dovuto al fatto che oggi “comunicazione” significa sempre di più
visualizzazione e sempre più visualizzazioni, con la conseguenza inflativa che
una visualizzazione significa sempre meno.

Certo non è difficile profetizzare (considerando la legge del mercato) che entro
pochi anni lo stato degli strumenti per la rappresentazione delle costruzioni
consentirà a qualsiasi apprendista delle arti costruttive la formulazione di
simulazioni geometriche, di modelli molto ricchi d’informazione con un
minimo impiego d’apprendimento dei protocolli di scrittura; infatti i
programmi applicativi per le rappresentazioni assistite dal calcolatore saranno
probabilmente d’utilizzo tanto più semplice quanto più complesso potrà essere
il contenuto informativo del modello che possono costruire. Ma anche quando
ogni algoritmo costruttivo sarà comodamente disponibile alla minima
istruzione, anche in quella condizione di mimino sforzo meccanico da parte
del progettista, il progetto di una qualsiasi costruzione a una qualsiasi scala e
con una qualsiasi tecnica avverrà sempre attraverso la realizzazione e
l’interrogazione di un suo modello rappresentativo, ovvero si compirà sempre
secondo una simulazione di suoi aspetti e conseguenze fenomeniche. Rispetto
a questo fatto essenziale la rappresentazione digitale apporta solo delle novità
apparenti ai modi di costruire mappe descrittive o sistemi di spazializzazione,
poiché questi “nuovi” prodotti devono comunque commisurarsi alle modalità
di figurazione dell’estensione e della durata, alle forme dello spazio e del tempo
che si sono già ben costituite durante qualche millennio di scritture e
immagini.
Per la semplice ragione che ogni invenzione – come vuole la parola latina – è
un ritrovamento, e come accade in generale in geometria, ogni nuova modalità
di rappresentazione, come ogni nuova teoria interpretativa, non fa che
reinventare un’origine e riorganizzare una storia delle proposizioni che
caratterizzano il suo “nuovo” oggetto di discorso; non deve stupire che
l’affermazione della rappresentazione digitale consenta geometrie in qualche
modo più arcaiche, come se dal filo a piombo e dalle corde annodate degli
agrimensori egizi si tornasse al topologico filo di Arianna per dipanare il
labirinto.

122 fondamenti geometrici del disegno

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