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∏ Esperienza Tagliapietra ∏

Capitolo 1-Disciplina e catastrofe


Alcune analisi psicologiche moderne mostrano che prestiamo sempre meno attenzione al mondo (la
soglia è sotto quella del ciprinide dorato aka pesce rosso).

È comparsa una nuova forma di economia in cui l’attenzione è il bene più prezioso e conteso, quella
digitale online, Google, Youtube ecc. forniscono i loro servizi in cambio della nostra attenzione.
L’attenzione è, però, importante nell’epoca contemporanea, basta pensare alla “società del
controllo” di Foucault e la “società dello spettacolo” di Debord che svalutano l’attenzione per creare
individui docili.

La diminuzione dell’attenzione è causata da una reazione di difesa già intuita da Simmel a inizio
‘900, davanti alla “società eccitata” è naturale tendere a ridurre l’attenzione.
La tecnologia diviene una “seconda natura” molto più fragile che può collassare repentinamente e
esporre gli individui alla catastrofe, si tratta di un vero e proprio shock.

La differenza fra un colpo generale e uno shock è evidente dal modo in cui è cambiata la guerra: nel
duello di Achille ed Ettore dove l’attenzione è massima non c’è shock ma solo colpo, nella guerra
moderna (specialmente in quella del XVII-XVIII-XIX secolo) il colpo è inatteso, è uno shock
imprevisto. Il modo di combattere dei suddetti secoli (rigidi reggimenti in marcia verso il nemico
non curanti del fuoco nemico) è un simbolo della “società del controllo” di cui parlava Foucault.

La tecnica subisce infatti rapide declinazioni politiche (Wiener), non a caso Platone chiamava
kybernetes il timoniere della nave

C’è sempre un valore crescente alla velocità mentre chi è lento è stupido (appunto si dice
“ritardato”), tuttavia senza dubbio, esitazione e perplessità non c’è neppure quell’esperienza che
permette di abitare il mondo.

Foucault suggerirà che l’ontologia del presente è una ontologia di noi stessi. Un esempio è il
Terremoto di Lisbona del 1755 che è la prima catastrofe a non essere più solo naturale, è
ampiamente considerata come un fatto storico che colpì diversi grandi intellettuali dell’epoca
(Voltaire, Rousseau, Kant, Casanova ad esempio). Oggi nei notiziari si parla continuamente di fatti
presentati come “storici” il cui reale valore si estingue dopo poco.

Dal secolo dei Lumi nasce un nuovo uso estetico del disastro (vedere l’arte romantica) che cela il
piacere ontologico dei sopravvissuti.

Il gesto proprio della filosofia è quello di non lasciarsi fuorviare (Adorno), la funzione critica è la
funzione propria della filosofia, l’appello all’esperienza è quindi una esortazione alla critica che fa
risuonare il motto kantiano “Sapere aude” ovvero “abbi il coraggio di servirti del tuo stesso
intelletto” in “abbi il coraggio di fare esperienza” o, come diceva Foucault riformulando il passo
kantiano, “nel non voler essere governati in questo modo e con questi principi”.

È il caso di Truman di Truman Show che rivolge la propria attenzione all’unico evento disponibile,
la sua singolarità, non maturerebbe la sua crisi e la sua rivolta.
Capitolo 2-L’animale che esita
Le pitture rupestri sulle pareti delle caverne sono la più antica testimonianza del desiderio di
lasciare il segno dell’evento dell’esperienza nel qui e ora.

Hans Blumenberg definì l’essere umano “l’animale che esita” che si ribella all’automatismo proprio
degli animali (antropologia filosofica) e facendo così fa esperienza. James dirà che la mia
esperienza è ciò a cui acconsento di prestare la mia attenzione.

L’esperienza sarebbe, in accordo col mito di prometeo, la compensazione di un deficit; la tecnica


(nel caso di Prometeo il fuoco) supplisce a una mancanza ma non la elimina e si inserisce su quella
esitazione originaria allungandola (non a caso è “arte ingannevole”). L’inganno della tecnica
consiste nel prendere tempo creando scorciatoie (oggi è evidente ma è già qualcosa di contenuto
nell’invenzione della ruota), queste scorciatoie sono, tuttavia, il contrario dell’esperienza che è
sostanzialmente “prendersi del tempo”, non a caso ars longa vita brevis. Per questo la versione
platonica del mito non si limita al dono della tecnica ma necessità di pudore (aìdos) e giustizia
(dke).

In un ambiente di stimoli e risposte automatiche e un mondo di pure esperienza fa la sua comparsa


il tempo, fare esperienza di cose significa “aver imparato a attendere quello che di volta in volta si
manifesta ancora” (Blumenberg). Gli esseri in grado di supportare la sospensione dell’automatismo
cominciano a fare i conti con il fenomeno problematico della coscienza.

Capitolo 3-L’animale che non esita più


“Oggi, ogni discorso sull’esperienza deve partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa
che c’è dato fare”, questo scriveva Agamben 40 anni fa, non riescono a diventare esperienze né la
lettura di un giornale, né un viaggio in metropolitana, né una coda in macchina poiché l’uomo
moderno arriva a casa dopo una voragine di eventi, divertenti o noiosi, di cui nessuno di essi è
concreta esperienza. Moltissime (più o meno) nuove tecnologie come Internet, i social, i selfie le
fotografie e cose così non lasciano una prima esperienza ma la trasportano in una esperienza
seconda (l’esempio della foto è quello che rende meglio).

Tuttavia la tecnica non è un ostacolo all’esperienza umana ma ne è la realizzazione storicamente


mutata; Schivelbusch descrive come la ferrovia, la trasformazione tecnologica del viaggio, non ne
ha cancellato l’esperienza ma ne ha solamente modificato le condizioni gli aspetti sensoriali,
inizialmente sembrava una distruzione del viaggio ma poi si è rilevato solamente una sua
trasformazione.

Modernità in tedesco si dice Neueuzeit che contiene sia la parola “Neue” (nuovo) che “Zeit”
(tempo) che richiama il novissimus tempus dell’Apocalisse. L’accelerazione è un concetto
teologico-apocalittico secolarizzato, l’accelerazione è il desiderio di uscire dal tempo e il bisogno
religioso di trascendenza e eternità.

Vi è quindi sempre meno tempo per fare cose, pensosità e conversazione vengono sempre più
marginalizzate come se fossero un divertimento e uno svago; addirittura si dorme poco, molto
meno rispetto a inizio secolo scorso (Nancy). L’esitazione come fondo antropologico
dell’esperienza appare accerchiata in un duplice morsa: da un lato c’è l’automatismo di prestazione
veloce e rapido come una macchina, dall’altro c’è la spinta al conformismo e alla riproduzione
seriale degli stereotipi. Ecco allora che il non avere tempo per nessuna esperienza, neppure per il
dormire, si nasconde dietro la maschera dell’efficientismo.
Capitolo 4-Esperienza: etimologia e mito
Sul vocabolario si definisce l’esperienza come conoscenza, è pertanto possibile definirla sia come
“conoscenza” che come “occasione di conoscenza”. In seguito bisogna indagare l’etimologia poiché
essa contiene, spesso e volentieri, un significato nascosto stratificato nel tempo.

Il greco peìra ed empeirìa che il latino experentia rinviano a una radice indoeuropea per che si
ritrova in molti vocaboli implicanti le idee di pericolo; parole che evocano sentimenti come
precarietà, paura, curiosità e senso di possibilità.

Alcuni etimologi hanno collegato il verbo greco peirào (“io provo”) al verbo greco perào (“passo
attraverso”) così come in tedesco Erfahrung (esperienza) deriva da erfharen (passare attraverso), il
latino ex-perire contiene l’idea di per-ire ovvero passare attraverso (o trapassare), nell’inglese
antica c’è faer (mutando la p di per in f) che indica ovviamente fear ovvero la paura, il tedesco
Gefahr (“pericolo”), to fare (viaggiare) e to farry (traghettare). Quindi l’esperienza è vista come un
passare attraverso, un viaggio, una messa alla prova, una avventura.

La radice per risuona anche nel Greco antico peràs ovvero “limite”, parola centrale per la filosofia
che sarà usata da Parmenide per descrivere “l’essere che si lega all’essere nei limiti di grandi
legami” e, quindi, con il nome di Necessità l’essere che “tiene nei legami del limite”. Inoltre
Anassimandro ricercando l’archè lo identificare con l’apeìron letteralmente “ciò che non può essere
attraversato da parte a parte”. Peràs indica inoltre sia il limite che il confine, si deve a Kant la
distinzione fra questi due, il limite è Grenzen mentre il confine Schranken; i confini sono superabili
mentre i limiti no.

Proprio all’interno della filosofia kantiana si parla della morte come della “fine di tutte le cose”
ovvero il limite oltre cui le nostre esperienze non possono andare. Sul concetto di limite la filosofia
ha speso molte parole vedendo sia come “mancanza” che come elemento che determina un oggetto
(Aristotele, Metafisica) e ne definisce termine estremo (eschatòn), forma (eìdos), fine (telos) e
essenza (ousia).

Pertanto una rappresentazione grafica del concetto filosofico di limite è:

Le frecce che vanno verso il centro rappresentano il senso aristotelico (definiscono) mentre quelle
verso l’esterno indicano l’idea del limite come mancanza.
Anassimandro descrive il suo apeiron come inattraversabile che delimita e costituisce l’esperienza
degli esseri determinati e ci determina nella dimensione della temporalità (abbiamo detto che la
morte è fine dell’esperienza). Tramite l’esperienza mi oriento e mi situo (en) in un luogo (peràs) da
cui en-peiria, empiria.
Capitolo 5: Talete e il pozzo, la caduta del protofilosofo

Il tema dell’esperienza fa il suo ingresso nella filosofia occidentale con l’aneddoto della caduta nel
pozzo di Talete. A seguito delle prese in giro da parte della serva tracia si può affermare che il
filosofo entra di diritto nella galleria dei visionari sognatori con la testa fra le nuvole. Secondo
Blumenberg Platone leggeva in quelle pagine la separazione fra filosofia e mondo pratico che
porterà alla condanna del suo maestro. Mentre nella versione riportata da Dioegene Laerzio vi è un
rafforzamento scettico della beffa.

Prevedere è la caratteristica fondamentale del sapere scientifico moderno, Talete non prevede la
caduta, all’improvviso il buco sotto i suoi piedi lo porta a vedere le stelle non con lo “sguardo da
nessun luogo” (così Thomas Nagel definisce lo sguardo della scienza) ma con quello più intimo di
chi è caduto nel pozzo e si è fatto male.

La filosofia inizia quindi con una sospensione dell’attenzione che è elemento fondamentale per
l’esperienza. Una tendenza opposta si riscontra per esempio nel pensiero cinese dove l’esercizio del
pensare non si traduce in una disattenzione verso il mondo (guardare le stelle) ma in una totale
immersione in esso.

Capitolo 6: Platone, la catastrofe del logòs e il teatro dell’evento

Il termine italiano “catastrofe” deriva dal greco katastrophè che significa letteralmente
“capovolgimento” o “mettere sotto sopra”, venne usato inizialmente per indicare il lavoro agricolo
dell’aratro che rigira la terra (appunto la mette sotto sopra), qualcosa di simile al significato di
katastrophè è quanto successo a Talete.

La catastrofe è una svolta, un mutamento, l’interruzione di una continuità e quindi ciò che
chiamiamo “evento”. Tuttavia una catastrofe è propriamente essa quando c’è irreversibilità, quando
non si può tornare indietro. Non è un caso che il logòs (discorso) si dia come continuo sia nella
sapienza antica che in quello moderno e scientifico.

La filosofia comincia con un evento, quello della morte di Socrate. Tuttavia, oltre alla morte
naturale che ogni persona deve affrontare Socrate vede la minaccia di un’altra morte ben più
pericolosa, la morte del logòs, lo stesso logòs che afferma la mortalità di Socrate tramite il famoso
sillogismo. Diventa quindi assolutamente sensata l’idea del meletè thanàtou ovvero “esercitarsi a
morire e all’essere morto”, cancellando tramite l’a priori dell’argomentazione intellettuale la
catastrofe della morte.

Aristotele sosteneva che il pensiero è la più continua delle nostre attività, una concezione simile era
comune in Grecia e lo sarà anche nella filosofia moderna (con la differenza che in Grecia l pensiero
era inteso come esterno mentre in età moderna sarà il cogito del soggetto).

La catastrofe descrivendo il collasso di un ordine spinge a interrogarsi sul vuoto che si genera,
Deleuze dirà che è in ciò che accade che noi vediamo il vero significato, pertanto l’idea di catastrofe
si può saldare con quella di evento. L’evento è, secondo Zizek, qualcosa che non solo modifica una
determinata cosa ma anche il nostro modo di intenderla. La catastrofe assoluta è un evento senza
spettatore (aka senza superstiti) in cui l’evento smette di essere e diventa puro divenire in un
processo disumano.

Carlo Diano affermava che l’evento non viene percepito come pensiero cosciente ma sempre sul
piano esistenziale, l’evento viene percepito dalla singolarità come patimento. Eppure Platone, nel
momento in cui fonda la metafisica occidentale, vuole evitare il patimento e, pertanto, esclude la
sua figura dai dialoghi, andando a delineare la figura del filosofo che si comporta da un lato con
arroganza e dall’altro è a disagio in qualsiasi situazione e non sa cosa ha fra i piedi (rimando a
Talete).

C’è tuttavia un’altra arte che si è occupata dell’evento, il teatro che coglie l’evento e lo mette in
scena; il teatro è il luogo epifanico (epifanico=manifestazione, rivelazione ecc.) dell’evento, non a
caso il Dio del teatro è Dioniso, il “dio che viene”, il dio dell’evento. Vernat definì Dioniso come un
qualcuno che entra improvvisamente in scena (appunto è un personaggio epifanico) e simboleggia
la vita autentica. Il teatro non è la neutralizzazione dell’evento fatta dalla metafisica ma lo spazio e
l’arte in grado di coglierne gli aspetti più autentici e profondi. Il teatro tratta della morte e della
catastrofe del logòs come un enigma insolubile che bisogna sopportare (risuona vagamente
Nietzsche).

Capitolo 7: Aristotele e l’esercito in rotta delle nostre esperienze

Aristotele non è indicato tra le fonti che riportano l’aneddoto di Talete e il pozzo, eppure la vicenda
appare in quelle pagine della Metafisica in cui Aristotele polemizza con i negatori del principio di
non contraddizione (Gorgia ad esempio) che non a caso verrà tradotto in latino come principium
firmissimum. Aristotele argomenta che il principio di non contraddizione vale proprio perché viene
contraddetto e nessun animale vivente vorrebbe contraddirlo (a differenza delle piante che
“contengono i contrari”) poiché “ogni essere desidera di esistere sempre”.

Quando succedono le casualità come cadere in un pozzo non è possibile avere alcun sapere di
quell’evento. L’accidente non è un fatto ma quanto di più vicino al nulla esista poiché è sia fuori dal
necessario logico che dalla probabilità (l’esempio perfetto è un uomo che scava per piantare un
albero e trova un tesoro). Nella struttura di ricostruzione teleologica aristotelica il caso rappresenta
qualcosa che irrompe ed è inspiegabile è a tutti gli effetti un “evento”. Talete è uscito di casa ed è
caduto casualmente in un pozzo perché qualcuno l’aveva costruito lì e non perché Talete avesse una
qualche qualità intrinseca particolare.

Una buona metafora moderna per esprimere la nozione di casualità in Aristotele è quella dei fili
elettrici scoperti che si toccano in un punto e generano un cortocircuito, Boezio definiva il caso
come un evento imprevedibile prodotto da cause confluenti di cui conosciamo il motivo.

Le destituzione filosofia dell’esperienza (seppur minore rispetto a Platone) condotta da Aristotele


all’inizio della Metafisica tende a svalutare la nozione di evento, l’esperienza è solo il punto di
partenza della conoscenza che culmina con l’arte (tecnè) e con la scienza (episteme); essa è in
comune con gli animali è, per il preciso disegno greco di staccarsi dall’animalità, viene svalutata
(risuonano qui i pensieri di Agamben e dell’ultimo Derrida).

La distinzione tra esperienza, arte e scienza è giocata sul piano della medicina (che Aristotele
conosceva bene poiché era medico): Aristotele distingue i medici empirici (quelli che sanno quale
cura funziona e quindi il particolare) dai medici eziologi (quelli che sanno perché la cura funziona e
quindi l’universale), tuttavia dell’accidente non v’è scienza pertanto la via del sapere è sbarrata,
l’empiria è forma solamente accessoria di conoscenza.

Alla fine degli Analitici secondi Aristotele presenta l’esperienza come un evento su cui nessuno ha
potere, egli dice che l’esperienza accade come quando in un esercito in rotta un soldato si ferma e si
gira nuovamente verso il nemico, di lì a breve tutti gli altri soldati suoi compagni faranno lo stesso.
I motivi per cui l’esercito delle nostre esperienza è in rotta sono la paura, la vita stessa come fluire e
divenire di dolore e sofferenza; ma nel disordine della ritirata è possibile l’evento e quindi
l’esperienza.

Capitolo 8: La scopa slegata

Nella filosofia moderna “esperienza” è una parola fondamentale che designa il fondamento stesso
della conoscenza.

Bacone distinguerà fra l’esperienza comune e quella scientifica dicendo che la prima ci viene
incontro casualmente ed è una “scopa slegata”.

Più o meno nello stesso periodo Montaigne scrive i suoi Saggi in cui espone una serie di
considerazioni su quella stessa esperienza comune che Bacone criticava. Agamben dirà che
quell’opera di Montaigne fu l’ultima opera interamente basata sull’esperienza intesa come senso
comune ovvero nello stesso modo in cui era intesa nell’epoca classica e medievale. Non a caso il
progetto della sapienza antica è quello di armonizzare la conoscenza fisica e logica per la
formulazione di un’etica anestetica che permetta di vivere felicemente; Epicureismo e Stoicismo
sono state maestre in questo così come, in epoca cristiana, saranno le Confessioni di Agostino.

In Montaigne l’esperienza è ancora relegata nella singolarità di ognuno, è autoconoscenza di sé


nascosta sotto la maschera sociale che sembra identificare l’individuo, come ben mostra la frase di
Montaigne “anche sul trono più alto del mondo non siamo seduti che sul nostro culo”. Per
Montaigne l’esperienza è pura conoscenza in movimento sull’io fluido e in divenire che siamo.

Contro di lui ci sarà Bacone che vedrà nell’esperienza il paradigma della scienza moderna. Lui
proporrà la “esperienza esatta e matura” contro quella comune della suddetta scopa slegata. La
scopa slegata è già visivamente opposta all’idea del logòs che, appunto, lega. L’esperienza matura
sarà invece l’elemento centrale del nuovo sapere oggettivo e scientifico moderno.

Nel lavoro di Bacone diventerà fondamentale l’idea di experimentum crucis ovvero


dell’esperimento crocevia che “obbliga la natura a dirci si o no”; vi è qui un cambio nell’idea di
esperimento, nell’antichità era sola osservazione empirica della realtà (l’esperimento di Aristotele
per verificare l’immobilità della Terra consisteva nel lanciare una pietra da una torre e, vedendo che
era caduta nello stesso punto, concludere che la Terra fosse ferma) mentre ora la risposta della
natura viene suscitata, ricercata e stimolata tramite strumenti (come il telescopio); l’esperienza
moderna si allontana dalla sensorialità comune per creare artificialmente le condizioni di un
esperimento. Questa distinzione venne proposta da D’Alembert nell’Enciclopedia e, nel ‘900, Paul
K. Feyerabend parlerà di “scienza senza esperienza”.

Tuttavia esistono molti modi diversi di essere empiristi nel ‘600: per William Harvey (scopritore
della circolazione del sangue nel 1628) l’esperienza è autopsia e lavoro chirurgico, per Robert
Boyle (autore di The Sceptical Chimicist) l’esperienza è il modo per verificare o negare le
assunzioni fatte a partire dall’impianto meccanicista cartesiano, con il risultato che le verità
scientifiche possono essere radicalmente confutate; per Marin Marsenne invece l’esperienza è
certezza dimostrativa derivata dall’impianto matematico.

Gadamer dice che la tendenza della scienza moderna così come dell’esperienza comune è quella di
arginare il valore storico (nel senso di “evento storico” come sensazionale ecc.) dell’esperienza in
favore della certezza della ripetitività e che è tendenza umana generale quella di dimenticare il
negativo in favore del positivo. Esperienza scientifica e comune quindi tendono a sopprimere il
fattore di storicità dell’esperienza (la prima tramite l’esperimento che fornisce sempre i medeismi
risultati, la seconda tramite l’inerzia e l’abitudine) che è quello proprio dell’evento.
Pertanto l’esperienza cerca di eliminare la storicità e la tendenza storiografica ad analizzare gli
eventi (il prof. usa il termina “evenemenziale”); tuttavia possiamo affermare che la correzione
epistemologica popperiana (falsificazionismo) induca una iniezione di storicità alla scienza
(malgrado il noto antistoricismo di Popper). La tendenza scientifica ad eliminare la storicità la porta
a autodistruggersi inducendola in errore, come sosteneva Bruno Latour: senza studi umanistici e
storici, non siamo veramente moderni.

Capitolo 9: Empirismi

Nel capitolo sulla “storia della ragion pura” (ovviamente contenuto nella Critica della ragion pura)
Kant osservava come la conoscenza occidentale fosse iniziata lì dove avrebbe dovuto finire, nella
metafisica (io, Dio, mondo) trascurando a lungo il valore dell’esperienza ovvero ciò da cui, secondo
Kant, inizia ogni nostra conoscenza.

Anche Hegel sottolinea l’importanza dell’empirismo nel pensiero moderno (Lezioni sulla storia
della filosofia) che parte da Bacone e arriva a Kant passando per Locke, Hume e Berkeley.

Usando le scansioni proposte da Foucault ne Le parole e le cose in questa epoca le parole e le cose
sono connesse mediante la rappresentazione in cui il mondo comunica all’uomo e viceeversa in
maniera binaria. In forza del noto motto baconiano “sapere e potere” nell’età moderna
(specialmente nel XVIII secolo, quello illuminista) non vi è più la concezione classica “il prato è
verde” (autoritario) ma “la mia percezione del prato è che il prato sia verde” (questo rimanda già a
una diversità di vedute e prospettive che sono fondamentali nella nascente società democratica).
Nell’arte questo slittamento è testimoniato dal quadro di D. Velazquez Las Meninas in cui la
tradizionale centralità del Re e sostituita da quella di uno specchio (in cui il Re è riflesso).

Alle soglie del ‘700 emerge il pensiero di John Locke che sostiene che l’esperienza sia tutto ciò che
riempie la nostra mente, definita un “foglio bianco” che è rappresentazione icastica (figurativa)
della mente-specchio della realtà (stesso specchio tramite cui Velazquez dipinge il quadro). Tutte le
idee, semplici e complesse, reali e fantastiche, derivano dall’esperienza. In Cartesio vi era l’idea di
un tabula rasa su cui si innesta l’unica esperienza credibile ovvero quella del pensare.

Vi è quindi una convergenza all’inizio dell’età moderna fra le due correnti opposte di empirismo
(Locke) e razionalismo (Cartesio) sulla figura del “qualcosa che non si mostra” che fa da sostegno
alla percezione o al pensiero e, quando una nuova sensazione o una nuove idea appaiono e
illuminano la mente rischiarano lo sfondo dell’apparire ovvero l’esserci della singolarità aldilà dei
pensieri e delle sensazioni.

La domanda di Locke andrà più a fondo nel pensiero di David Hume in cui la principale attenzione
è quella sul perché noi formuliamo giudizi e principi e sui processi che avvengono nella nostra
mente. Le operazione interne alla nostra mente possono essere colte tramite un autoesame,
l’esperienza non è un’inferenza logica ma una questione di abitudine e memoria (moltissime grandi
principi metafisici come quello di causa-effetto si originano così). Hume inoltre osserverà che
l’attenzione dell’uomo non è mai costante ma salta continuamente da un punto all’altro. In accordo
con Aristotele Hume ammetterà che il piano dell’esperienza ci avvicina a quello degli animali (e dei
bambini) che compiono le inferenze della mente necessarie a sopravvivere senza bisogna di schemi
complessi ma con la sola forza dell’abitudine che si cristallizza nell’esperienza. Per Hume
l’esperienza è l’elemento fondante della natura umana (non a caso scrive un Trattato sulla natura
umana e non sull’intelletto umano come Locke o Leibniz); per Hume il soggetto conoscente si
volatilizza e lascia intravedere una singolarità nascosta in cui combattono sensi, istintualità e
esposizione all’evento.

L’esperienza consegna alla sua singolarità senza scudi se non quello dell’abitudine, questo
passaggio di Hume è paradossalmente in accordo con quanto scriveva Leibniz verso la fine della
sua vita (da qui Hume riprende il noto esempio del sole che potrebbe non sorgere).

L’esperienza aiuta a sopportare l’evento tramite l’abitudine, non a caso la scienza e la filosofia
moderna nascono in un clima oscuro e apocalittico fra il dubbio totale di Cartesio e gli scritti
sull’Apocalisse di Newton in cui il fisico cercava i simboli della fine dei tempi.

Cresce quindi la lacuna alla base della caduta di Talete che si sviluppa sui due assi del non-senso e
dell’impensato che cresce fuori e dentro la coscienza soggettiva che Kant chiamerà “io penso” (ich
denke) e cosa in sé andando a formare quello che Foucault definirà il doppione empirico-
trascendentale che deve essere presupposto per risolvere la questione della relazione fra uomo e
mondo. L’Io penso è l’unità tramite cui passano le percezioni che vanno a configurare il fenomeno,
l’io penso tuttavia è pura logica e non ha nulla a che fare con l’io empirico che sta sotto, che è
singolarità. Per tanto ciò di cui non è possibile esperienza (trascendentale) è necessario per poter
fare esperienza e vivere.

Capitolo 10-Hegel: il negativo e l’esperienza della coscienza

Con Kant si conclude l’epoca moderna e si acquisisce la piena consapevolezza che l’esperienza sia
contenuta in una coscienza.

In Hegel l’esperienza diventa esperienza che la coscienza fa di se stessa, si passa così


dall’esperienza che fa la coscienza all’esperienza che è la coscienza.

Tutto ciò viene esposto nella Fenomenologia dello spirito che può essere interpretata sia da un
punto di vista coscienzialista (scienza dell’esperienza che la coscienza fa) che da un punto
postcoscenzialista che termine dissolvendo la coscienza e le contraddizioni che la tenevano in piedi.

All’inizio dell’opera Hegel espone il ruolo positivo che l’esperienza ha avuto nella appena conclusa
età moderna in cui “lo spirito ha dovuto guardare a terra” (simboleggia il distacco dalle meditazione
metafisiche su Dio del Medioevo) per ridare all’uomo ciò che è presente ovvero l’esperienza.
Ora, con l’avvento di una nuova epoca, lo spirito deve di nuovo guardare al di là della coscienza.

Hegel criticherà la posizione dell’empirismo classico che tendeva a isolare l’oggetto e cercherà di
andare nella direzione opposta, includendo mano gli oggetti in schemi sempre più ampi. Hegel
infatti proporrà la dimensione storica e sociale (e non solo coscienziale e soggettiva) come
dimensioni in cui l’esperienza individuale assume un senso.

Come scriverà Gadamer in Hegel l’esperienza è sostanzialmente una esperienza negativa che serve
a correggere una determinata visione del mondo che si rivela errata, pertanto in Hegel non è
l’esperienza a far parte della dialettica ma la dialettica a muoversi tramite l’esperienza che è
continua correzione (Heidegger dirà ciò).

Il capolavoro hegeliano, la Fenomenologia dello spirito, è stato descritto come un’opera romantica
in cui avviene il “cammino avventuroso dell’esperienza” fino al punto in cui la coscienza rinuncerà
a se stessa e supera la visione dualistica del mondo (esempio di Indiana Jones e l’ultima crociata),
questo passaggio in Hegel è una autentica rottura paradigmatica; in Hegel l’esperienza è ciò che
emancipa dalla coscienza stessa. La coscienza scettica non dubita mai di se stessa mentre lo
scetticismo dell’autocoscienza proposto da Hegel risolve il dogma empirista secondo cui
l’immagine è fissata sul pensiero.

L’esserci è la dimensione propria dell’esperienza, non a caso Hegel afferma che per conoscere
veramente qualcosa l’uomo deve essere immerso dentro essa; l’esperienza è pertanto esser dentro
(dabei sein) a ciò di cui si fa esperienza.

Capitolo 11: Erfahrung ed Erlebnis (Walter Benjamin)

La filosofia dell’esperienza di Walter Benjamin è il prodotto sia del clima culturale del suo tempo
che della formazione filosofica neokantiana e marxista ed è un tratto fondamentale per affrontare
questo tratto decisivo della storia in cui molti soldati di rientro dalla Prima Guerra Mondiale
soffrono di mutismo da combattimento e, pertanto, non possono né testimoniare l’esperienza
condivisa e accumulata (Erfahrung) né quella come vissuto intimo (Erlebnis). A questo si aggiunge
la tragica situazione tedesca ed europea del dopoguerra oltre che lo scombussolamento causato
dall’avvento della moderna metropoli.

A soli 21 anni Benjamin scrisse un breve saggio su un rivista giovanile intitolato Erfahrung in cui
manifestava il tipico conflitto generazionale fra adulti e giovani e si impegnava a distruggere l’idea
di esperienza degli adulti per portare alla luce una “nuova esperienza” piena di ideali e che sa,
nietzschanamente, farsi carico del dolore, della fatica, del fallimento e perfino della morte (di lì a
poco i soldati che sarebbero partiti per il fronte avrebbero portato lo Zarathustra nello zaino).

L’esperienza adulta è Erfharung (poiché accumulata ecc.) mentre quella giovanile è Erlebnis, è
individuale e, come diceva Dilthey, immersa nell’orizzonte dei fatti e significati storici. Qualcosa di
simile era sostenuto da Foucault che intendeva il “vissuto” come quella dimensione dove tutti
contenuti sono di matrice empirica e il corpo comunica con la cultura. In questo modo il “vissuto” si
pone nuovamente come una sorta di trascendentale che contesta da un lato il riduzionismo
positivista e la visione escatologica profetica marxista (che prevedeva l’andamento generale del
mondo).

Secondo Gadamer il termine Erlebnis nasce nell’ambito del romanticismo come opposizione al
freddo meccanicismo razionalista dell’illuminismo, elementi simili si possono trovare nell’epoca di
Benjamin in cui contro la società borghese del tardo Ottocento si pone la rivolta giovanile nel nome
di Nietzsche e Bergson (pertanto è sensata una nuova fioritura del termine Erlebnis).

Proprio in quel periodo Simmel usa il termine Erlebnis per indicare l’esperienza intellettualizzata e
continua che viene assediata nella metropoli moderna in cui gli stimoli sempre più intensi
producono una reazione di difesa ideologica (Benjamin dirà che tanto più si vincono gli stimoli
quanto più l’esperienza sarà Erlebnis invece che Erfahrung).

Dilthey cercava di fondare la scienza dello spirito a partire dall’immanenza della vita interiore
accedendo all’esperienza del vissuto Erlebnis come molteplicità di legami psichici.

Le posizioni di Dilthey unite alla ripresa di posizioni kantiane e all’empiriocriticismo di Avenarius


stanno alla base della prima concettualizzazione fenomenologica dell’esperienza da Edmund
Husserl.

Tornando a Benjamin, nei suoi lavori su Kant espone la necessità di riformulare il concetto
illuminista di esperienza che sia in grado di tenere insieme l’apertura al sapere scientifico con la
capacità di sintesi e trasmissione simbolica della cultura. Si prospetta l’idea di un’esperienza molto
più ampia comprendente la religione, la storia, l’arte, ecc.
Questa esperienza che include elementi soggettivi, individualisti e vissuti (Erlebnis) si mescola con
gli elementi dell’esperienza accumulata nelle forme della cultura (Erfahrung).

Dopo la sua svolta marxista Benjamin associa la svalutazione delle esperienze a due fattori epocali:
1) il tramonto dell’arte di narrare e 2) il sorgere di una opprimente ricchezza di idee
Una generazione intera era tornata dai campi di battaglia non più ricca ma più povera di esperienza
poiché nessuna esperienza era mai stata smentita come quella militare dalla guerra di trincea, come
quella economica dall’inflazione come quella morale dalla condotta dei potenti.

La tecnica ha prodotto la miseria dell’esperienza in un senso totalmente diverso, la tecnica cancella


le tracce dei corpi e non permette lo sviluppo dell’esperienza che è sostanzialmente tradizione e
storicità nella vita collettiva come in quella privata.

Capitolo 12: L’aura e la traccia

A questo punto Benjamin scrive la sua opera più nota l’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica in cui espone i due concetti fondamentali di traccia (Spur) e aura.
La traccia è l’apparizione di una vicinanza per quanto sia lontana ciò che ha lasciato dietro di sé
mentre l’aura è l’apparizione di una lontananza per quanto possa essere vicino ciò che esso suscita;
nella traccia noi facciamo nostra la cosa, nell’aura essa si impadronisce di noi.

L’aura è l’elemento fondante dell’opera d’arte tradizionale legata al suo hic et nunc (qui e ora), è
una oggettivazione dell’esperienza legata a u particolare intreccio di spazio e tempo. Nell’aura la
storicità dell’opera non è legata a chi osserva ma al luogo dove essa era esposta originariamente. È
il caso della Madonna sistina di Raffaello, dipinta per il monastero di San Sisto di Piacenza: per
Benjamin il quadro è collegato a un momento rituale preciso, doveva stare sulla bara di Giulio II
durante l’orazione funebre, non a caso raffigura la Madonna che sembra “uscire dal quadro” per
andare sopra la bara del Papa. È evidente che l’esposizione nel Museo di Dresda priva l’opera di
questa sua originaria aura effetto ulteriormente amplificato dall’avvento di fotografia e cinema e
dall’uso diffuso di quei due angeli per diversi gadget dal gusto marcatamente kitsch. È bene
concludere che il valore esperienziale del quadro non è legato al hic et nunc ma alla suo valore
culturale recepito singolarmente, in tal modo Benjamin ha cercato di ripristinare il valore
dell’evento e dell’esperienza nella fruizione dell’opera d’arte senza scivolare nel vitalismo o nel
positivismo.

L’opposto dell’aura è la traccia: il termine fa pensare ai corpi che lasciano tracce (corpi totalmente
inesistenti nelle metropolitane, nei padiglioni dell’expo pre-novecentesco ecc.); solo gli eventi
lasciano tracce, tuttavia è bene sottolineare che le tracce sono sottoposte al dubbio, all’incertezza,
possono essere dimenticate ecc.

Nonostante ciò Benjamin sostiene che l’esperienza possa avere una funzione tracciante nel mondo
moderno non malgrado la tecnica ma proprio grazie a essa: fotografia e cinema, in particolare
quest’ultimo è in grado di causare una serie di shock che penetrano a fondo negli spettatori e
permette di rimodulare radicalmente la percezione di sé e degli oggetti fornendo la via d’accesso a
una nuova forma d’esperienza. Il cinema ha quindi nel suo antenato il finestrino del treno che aveva
cambiato modo di percepire il mondo (capitolo 3), sembra quasi un passaggio di testimone il fatto
che la prima proiezione sia stata “l’arrivo del treno” e che le reazioni del pubblico in sala siano state
di panico generale. Nella prospettiva benjamiana la metropoli come mondo chiuso viene fatta
esplodere dal cinema come arte politica.
Per Pirandello il cinema avvilisce il teatro (in cui il qui e ora si concretizza sul palco) mentre per
Benjamin propri la sua mancanza di aura permette di sprigionarne tutte le potenzialità del cinema
affermando che “gli schermi distraggono per incantare meglio”.

Eppure le analisi di Benjamin non coglievano che il cinema si stava muovendo verso tutt’altra
direzione, di lì a poco sarebbe nata Hollywood con i suoi divi e la loro immagine auratizzata che
tende a farsi evento e lasciare traccia. Benjamin partiva dall’idea che la società fosse paralizzata e
che fosse necessaeria una mobilitazione che sarebbe passata tramite il cinema, tuttavia l’essere in
mobilitazione è proprio il tratto distintivo della società capitalista (e comunista-sovietica).

È quindi il “collo di bottiglia” dell’attenzione a rendere la nostra esperienza povera di contro alla
sovrabbondanza di stimoli e alla ricchezza di idee. Nel suo appello per una nuova forma di
esperienza Benjamin vede due personaggi: l’intellettuale come lui, materialista dialettico,
avanguardia del proletariato che vuole una nuova forma di esperienza e dall’altro l’uomo-massa che
vuole essere liberato dall’esperienza.

Un mondo in cui ogni esperienza è sconfessata è quello dei cartoni animati, in cui le leggi della
fisica sono abolite e i loro protagonisti (mai umani in quegli anni) lottano in diadi infinite
intervallate dalle esplosioni di risate del pubblico. Tuttavia, proprio tramite le fragorose risate,
questo mondo permette una nuova visione e può rovesciarsi in una nuova forma è possibile, in cui
l’Erlebnis si rovescia in Erfahrung, in esperienza condivisa generata dal recupero dell’arte di
narrare.

Capitolo 13: La caduta nell’ora-l’arte di narrare

L’altro fattore di inesperienza è, sempre secondo Benjamin, il tramonto dell’arte di narrare. Ne Il


narratore Benjamin afferma che sempre più raramente si trovano persone capaci di raccontare come
si deve.

Benjamin non denuncia la scomparsa della forma del racconto che, anzi, è stata ampliata nell’età
contemporanea dalle nuove tecnologie, quello che il filosofo recrimina è che non vi sia più
connessione fra l’arte di narrare e la dimensione dell’esperienza.

L’arte della narrazione di cui parla il filosofo si incentra più sul fuori che sul ritratto psicologico
individuale, è capacità di far provare esperienza in quanto è esperienza. Di conseguenza si tratta di
quelle forme di racconto come le storielle, le favole, i miti ecc.

A questa narrazione che produce esperienza collettiva appare diametralmente opposta quella del
racconto moderno per antonomasia, il romanzo ovvero l’esperienza vissuta individuale.

Nel romanzo il senso della vita è depositato sul fondo del bicchiere (così scriveva Benjamin),
quando si raggiunge la fine bisogna leggere il senso della vita negli altri (i personaggi).

Per queste ragione Le Recherche di Proust sono il romanzo esemplare dell’Erlebnis in cui si
intrecciano il vissuto e le sue contraddizione, quindi le esperienza private.

La narrazione che Benjamin ricerca deve trasmettere esperienza e, quindi, deve essere soprattutto
traccia e consentire la strutturazione sociale dell’esperienza. Un esempio è la piccola favole on cui
inizia Esperienza e povertà (quella della vigna, pagina 236-237), la caratteristica di quella breve
narrazione è di aver trasmesso esperienza, i lettori sono dentro al racconto e vivono con i
protagonisti le vicende per poi cogliere la “morale della favola”, una formula spesso semplice e
banale che tuttavia non rappresenta una aggiunta rispetto al corpus della favola ma solo una sintesi.
In conclusione i lettori non si limitano a apprendere il significato moralistico ma hanno vissuto la
storia con i protagonisti e hanno fatto autentica esperienza (Erfahrung).

Ernst Bloch e Benjamin riportano entrambi una favole ebraica con alcune differenza (favola di
Bloch pagina 239-240) che si intitola La caduta nell’ora. Nella versione di Bloch alla fine del
racconto vi è prima un forte shock causato dalla caduta nell’ora e poi, tramite una risata fragorosa
causata dall’ultima battuta, si cancella il tutto. In quella di Benjamin la risata non c’è perché manca
la divisione, presente in Bloch, fra la camicia “raccontata” e quella “reale” (regalata al mendicante);
nella versione di Benjamin la camicia rimane nel racconto e la sua compensazione rimane
all’interno del desiderio (Benjamin, in fuga da Hitler, rivedeva se stesso nella figura del mendicante
che, fuggendo, non ha neanche il tempo per un desiderio).

Vi sono anche due possibili differenze teologiche (Sia Bloch che Benjamin erano ebrei), Benjamin
espone la pura attesa messianica ovvero l’attesa. Non a caso Scholem definirà Benjamin “l’uomo
più paziente che io abbia mai conosciuto”, l’attesa senza aspettativa implica attenzione che
contrasta la mega distrazione veicolata dai mezzi di comunicazione di massa. La “caduta nell’ora”
(che potrebbe anche essere interpretata alla luce della caduta di Talete).

In chiusura de Il Narratore Benjamin paragona l’arte di narrare al lavoro artigianale comparando la


narrazione all’arte di lavorare artigianalmente le esperienze. In un noto aforisma, riportato da
Aristotele, Alcmeone di Crotone che gli uomini muoiono perché non uniscono il principio e la fine.
Unire il principio è la fine significa dare un senso all’accadimento aldilà delle difficoltà, la strategia
per unire il principio e la fine e il raccontarsi delle storie, dice Benjamin.

Elias Canetti definisce lo scrittore come “il custode della metamorfosi” ovvero colui che,
salvaguardando le esperienze dall’oblio della morte e dell’inerzia, finisce per salvaguardare la vita .

L’arte di narrare è salvaguardia dalla morte che trasforma il tempo da condanna momento in cui
sviluppare e intrecciare le nostre singolarità. Ciò avviene nel migliore dei modi quando il raccontare
è libero dal peso della documentazione, dell’attualità ecc.

In sintesi: l’arte di narrare di cui parla Benjamin è qualcosa che va aldilà della semplice espressione
artistica ed è la forma simbolica più adatta a ospitare quell’aspetto dell’esperienza che è l’evento.
L’esperienza, la “caduta nell’ora”, si accompagna al lavoro della narrazione e consiste nello stato di
attenzione proprio della pazienza.

Capitolo 14: l’esperienza pura e il cielo di Austerlitz

Talete non sarebbe caduto nel pozzo se avesse fatto attenzione che era rivolta al cielo stellato,
attenzioni diverse possono interferire e aiutarci a criticare la crisi dell’esperienza, come abbiamo
visto in Benjamin. È quindi possibili distinguere una attenzione per il vicino, dove succedono gli
eventi, e per il lontano (il cielo stellato).

La filosofia antica, seguendo Talete, si allontana dal vicino e arriva a schernirlo (sia
epistemologicamente, in Aristotele, che metafisicamente, in Platone) per rivolgere il suo sguardo al
lontano. Nell’età moderna i vari empirismi sembreranno avvicinarsi di nuovo all’esperienza
quando, in realtà, si allontanano configurandosi come metafisiche dell’esperienza legate
all’allotropo empirico-trascendentale. In Hegel c’è una svolta e si costruisce un sistema che (tramite
negazione e contraddizione) arriverà a dissolvere la coscienza collegando direttamente lo spazio
socio-culturale alla natura. Dopo Hegel si introduce il concetto di inconscio (anche tramite le
scoperte scientifiche del 1830 ma già filosoficamente formulato), uno sfondo su cui le strutture di
mondo e coscienza si proiettano (Nietzsche dirà che la coscienza è l’ultimo stadio di sviluppo
dell’organico).

Agli inizi del XIX secolo l’idea di esperienza affronta una biforcazione (annunciata da Deleuze): da
un lato c’è una linea che include autori come James, Bergson, Deleuze, Dewey e Whitehead che
sviluppa una idea di esperienza pura nel piano dell’immanenza della vita (senza la dimensione
soggettivista metafisica).

D’altra parte c’è una corrente coscienzialista che fa capo da Husserl che porta agli estremi la
filosofia trascendentale kantiana affermando che l’esperienza non si fa per degli schemi logici a-
priori (l’Io penso) ma mostra nella sua purezza sul piano fenomenologico, l’esperienza non è più
una ricezione passiva dei dati ma appunto qualcosa di cui si può fare esperienza. L’esperienza
galleggia su un mondo della vita (qui si nota il debito che la fenomenologia ha verso Bergson).

Benjamin formula la sua teoria dell’esperienza a partire dalla formazione neo-kantiana e dalla
adesione al marxismo, mediante la figura della distrazione egli formula l’idea che vi sia una
sospensione dalla attenzione della coscienza.

Senza coscienza emerge una nuova forma di esperienza pura (dal lavoro congiunto di James e
Bergson) in cui viene superato il dualismo e ogni esperienza è un flusso puro in cui esterno e
interno sono uniti. Il piano della realtà è quindi “successione senza esteriorità” (Bergson).

Similmente, in James, l’esperienza pura sia quella propria dei bambini o dei malati in semi-cosa
che non collegano il dato alla cosa. Bisogna pertanto ridefinire l’esperienza non come la ricezione
di dati ma con un fare vitale connesso all’organismo (Bergson affermerà che le mosche pensano con
il cervello e con le ali). L’esperienza pura è il contatto con il mondo che, successivamente,
separeremo trasformando il che in che cosa; in questa ottica l’io penso kantiano arriva solo in un
secondo momento (nella fase del che cosa) mentre prima c’è l’io respiro (che) e la sostanza è il
divenire se stesso.

Dewey dirà, partendo dalla riflessione Jamesiana, che l’esperienza è l’insieme di azioni e sentimenti
umani che si susseguono sia nella dimensione del fare e del soffrire che in quella del modo in cui
essi agiscono e subiscono l’azione esterna.

L’esperienza pura si manifesta a noi come al principe Andrej che è ferito sul campo di Austerlitz,
dopo il fragore della battaglia, e osserva estasiato il cielo provando l’esperienza di essere un essere
che vive a pieno la sua stessa vita. I pochi spettacoli in grado di farci ritornare alla dimensione
dell’animale che esita nella caverna e che fa esperienza sono quelli naturali. Il principe Andrej è sul
limite della morte, in questa misura ogni esperienza accade in rapporto con l’inizio e la fine, con la
nascita e la morte.

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