Introduzione…………………………………………………………………………………..2
Capitolo Primo Dostoevskij: vita e opera….…………………………………………………3
1.1 Biografia……………………………………………………………………………3
1.2 I demoni…………………………………………………………………………….6
Capitolo Secondo Il libero arbitrio nei personaggi Kirillov e Stavrògin.................................11
2.1 Kirillov…………………………………………………………………………….11
2.2 Stavrògin………………………………………………………………………..…17
Capitolo Terzo Libertà dell’uomo……..…………………………………………...………..23
3.1 Dramma della libertà…………………..…………………………………………..23
3.2 Cristo modello di libertà…………………………………………………….……..26
Conclusione………………………………………………………………………………….29
Bibliografia………………………………………………………………………………… .30
INTRODUZIONE
Fëdor Dostoevskij, autore russo del diciannovesimo secolo, pone al centro del proprio
interesse filosofico e letterario l’uomo, base di partenza e fulcro di ogni suo romanzo.
Nella ricerca da me svolta, riporto nel primo capitolo, alcuni tratti biografici essenziali
dell’autore per poi analizzare il romanzo “I demoni”. In esso sono presentate storie di uomini
spregevoli, che commettono bassezze oltre i limiti della legge e della morale; storie di
personaggi che si dimenano nel tentativo spasmodico di restituire un senso alla propria fragile
esistenza. L’opera intende attaccare frontalmente la corrente nichilista dell’epoca, che, a ben
rifletterci, influenza e non poco anche l’epoca contemporanea. Con l’eclissi dei valori, il rispetto
dell’uomo verso se stesso è venuto meno e, a tener presente gli avvenimenti del secolo scorso,
la storia dell’umanità va sempre più verso il disonore dell’uomo fino al suo annientamento.
Nel secondo capitolo esamino il libero arbitrio nelle figure centrali del romanzo: Kirillov
e Stavrògin. Kirillov è afflitto dal tormento dell’esistenza di Dio ed è convinto di non poter
essere libero; decide così di darsi la morte sottraendosi a Dio. Stavrògin invece è il nichilista
puro, indifferente a tutto, non distingue più il bene dal male; egli è tiepido e il suo ultimo gesto
non può essere che il suicidio. Entrambi i personaggi sentono la paura e l’angoscia
dell’esistenza fragile e finita, ma assetata di pienezza di vita e di libertà. Essi però pretendono
di essere Dio e non più immagine di Lui. Abbandonato Dio, l’uomo diventa incomprensibile a
se stesso e i suoi innumerevoli tentativi di interpretazione giocano continuamente tra i due poli.
Solo dall’accettazione di sé, parte la via che conduce al vero futuro che solo Dio, nella finitezza
e fragilità della creatura, fa diventare infinita pienezza e perfetta semplicità della propria
essenza.
Nel terzo ed ultimo capitolo, espongo brevemente un pensiero sulla libertà, dramma da
sempre determinante per il destino dell’uomo, che trova compimento solo in Colui che è
persona in senso assoluto: il Tu divino.
2
CAPITOLO PRIMO
1.1 BIOGRAFIA
1
Gli accenni biografici sono presi da F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, Einaudi, Torino 2014, p. Ⅴ-Ⅸ
3
insieme ad altri imputati è condannato a morte, ma il 19 dicembre, lo zar Nicola I commuta la
condanna a morte con la deportazione. La revoca della pena capitale, già decisa da giorni, viene
comunicata allo scrittore solo quando è già sul patibolo; questo avvenimento lo segnerà molto,
come ci testimoniano le riflessioni sulla pena di morte nei romanzi postumi. Alle nove di sera
del 24 dicembre, insieme agli altri condannati, lascia la fortezza di Pietro e Paolo per la Siberia.
L’11 gennaio 1850 Fëdor e i suoi compagni di pena giungono a Tobol’sk, dove si incontrano
con le mogli dei decabristi deportati e da esse ricevono un esemplare del Vangelo. Sei giorni
dopo è trasferito al penitenziario di Omsk, dove resterà per quattro anni. Dalla drammatica
esperienza della reclusione matura una delle opere più crude e sconvolgenti di Dostoevskij,
“Memorie della casa dei morti”, in cui varie umanità degradate vengono descritte come
personificazioni delle più turpi abiezioni morali. Gli è concesso un solo libro, la Bibbia. Nel
febbraio del 1854 liberato dalla galera per buona condotta, deve scontare la seconda parte della
pena e servire come soldato semplice nel 7° battaglione siberiano di linea di stanza a
Semipalatinsk. Arrivato in questa cittadina entra a far parte della Iª compagnia del battaglione.
Nel marzo 1856, in una lettera al generale Ėduard Ivanovič Totleben, chiede appoggio per
ottenere la grazia, abbandonare il servizio militare e avere la possibilità di pubblicare.
Nel 1857 sposa Marija Dmitrievna, una vedova trentatreenne già madre di un bambino di
nome Pavel. Nel gennaio del 1858 rassegna le dimissioni e dichiara di voler risiedere a Mosca;
il 18 marzo, con decreto imperiale, Fëdor Dostoevskij è congedato e come città di residenza gli
è designata Tver’. Ad ottobre, in una supplica allo zar, chiede di potersi stabilire a Pietroburgo.
L’autorizzazione è concessa alla fine di novembre e a dicembre si trasferisce in città. Nel
gennaio 1861 esce il primo numero de “Il tempo”, una rivista ideata e diretta dallo stesso
Dostoevskij. I primi sette numeri della rivista pubblicano a puntate “Umiliati e offesi”, romanzo
che descrive la decadenza della nobiltà russa di fine Ottocento. Il libro, caratterizzato da un
aspro realismo, rappresenta non solo un’efficace descrizione delle umane miserie ma anche
tratti autobiografici dell’autore che passa da una posizione ricca e invidiata ad uno stato di
povertà. Il 7 giugno 1862, parte per l’Europa occidentale soffermandosi in Francia, Inghilterra,
Germania, Svizzera e Italia per tornare in Russia a settembre. Nel gennaio 1864, ottiene
l’autorizzazione a pubblicare una nuova rivista, “Epoca”, poiché la precedente è stata sospesa.
Su questa rivista pubblica “Memorie del sottosuolo”. La prima parte di questo volume è un
monologo del protagonista, attraverso il quale analizza senza censura se stesso e la sua
4
condizione di emarginato volontario dalla società, disgustato da un’epoca basata su razionalità
e regole matematiche, volte soltanto al raggiungimento di un benessere effimero ed una felicità
superficiale. Nella seconda parte vengono narrate alcune vicende vissute dal protagonista anni
prima del monologo iniziale, all’età di ventiquattro anni, periodo nel quale è già una persona
tormentata da un forte senso di inadeguatezza. Il 15 aprile, dello stesso anno, muore la moglie
Marija Dmitrievna gravemente malata da tempo. Il 22 marzo 1865 esce l’ultimo numero della
rivista che, per difficoltà finanziarie, cessa le pubblicazioni.
Nel gennaio 1866 pubblica “Delitto e castigo”. Primo dei cinque grandi romanzi di
Dostoevskij, esso è fondamentalmente la storia di un delitto; compiuto l’omicidio, l’assassino
è ossessionato dalla paura, dall’incubo del ricordo che lo fa ritornare sul luogo del delitto. Non
è rimorso, ma sentimento di frustrazione, difesa contro coloro che possono carpirgli il segreto.
Il contenuto della narrazione, altro non focalizza che l’analisi del castigo in seguito al delitto.
A fine anno pubblica “Il giocatore”, opera in cui vengono raccontate le disavventure di alcuni
personaggi presi dal vizio della roulette. Il 15 febbraio 1867, nella Cattedrale della Trinità di
Pietroburgo, alle sette di sera, sposa Anna Grigor’evna Snitkina; tra i due corrono più di venti
anni di differenza. Il 14 aprile partono per l’Europa, dove si tratterranno per più di quattro anni.
Da Dresda, dove è stabilito con la moglie, si reca a Homburg per giocare alla roulette e perde
forti somme. Nell’agosto 1867 la coppia parte per Ginevra e qui resterà sino alla fine del maggio
1868, quando Dostoevskij perderà tutto giocando alla roulette. Sempre nel 1868, dal
matrimonio nasce la figlia Sonja, che vive solo tre mesi. Il dramma della morte dei bambini è,
non a caso, uno dei temi trattati nel romanzo “L’idiota”, opera già iniziata, e portata a
compimento nella città di Firenze tra l’inverno e la primavera del 1869. Sin dal febbraio 1870,
Dostoevskij prende appunti per il nuovo romanzo, “I demoni”, al quale lavora durante tutto
l’anno e nel gennaio 1871 ne comincia la pubblicazione. A Dostoevskij, nasce il figlio Fëdor;
rinuncia così una volta per tutte al vizio del gioco e, grazie agli introiti derivatigli dalle
pubblicazioni, può tornare a San Pietroburgo. Nel 1874 comincia la stesura de “L’adolescente”
e intanto pubblica in fascicoli mensili “Diario di uno scrittore”. Nel 1875 nasce il figlio
Aleksej, che morirà prematuramente a soli tre anni in seguito ad un attacco di epilessia, malattia
ereditata dal padre. A dicembre del 1877, Dostoevskij, è eletto membro corrispondente
dell’Accademia delle scienze, sezione di lingua e letteratura russa. L’anno seguente, inizia a
scrivere il suo ultimo romanzo, “I fratelli Karamazov”. Opera gigantesca e al tempo stesso
incompiuta perché sproporzionata nelle parti. Bisogna dire che se lo scrittore fosse vissuto
5
ancora, sarebbe stata almeno tre o quattro volte più lunga; essa riprende tutti i temi dei romanzi
precedenti e li approfondisce. Nel gennaio 1879 inizia la pubblicazione in volumi del romanzo
e nello stesso anno gli viene diagnosticato un enfisema polmonare. Nell’autunno del 1880
termina il romanzo, ma per Dostoevskij diventa sempre più difficoltoso dedicarsi al lavoro
intellettuale. Il 28 gennaio 1881, alle 20 e 38 minuti, Fëdor Dostoevskij, muore
improvvisamente, in seguito ad un repentino aggravarsi del suo enfisema.
1.2 I DEMONI
Come si vede da questi cenni biografici, il romanzo “I demoni” appartiene al periodo della
maturità di Dostoevskij, ispirato a una concezione tragica della vita, che unisce in una robusta
sintesi una religiosità profonda, un vivo senso della terra, una vigorosa consapevolezza della
realtà del male e della forza redentrice del dolore, e la convinzione che l’uomo realizza appieno
le proprie possibilità soltanto se non vuole sostituirsi a Dio, ma ne riconosce la trascendenza. I
personaggi di Dostoevskij, per quanto fisicamente vestiti, socialmente collocati, ambientati in
uno spazio e in un tempo, vivono una nudità spirituale. Essi non fanno mai niente nel senso
proprio del termine; non hanno occupazioni, non hanno impegni, non hanno un lavoro, ma
vanno e vengono, si incontrano e si incrociano, non cessano mai di parlare, e soprattutto vivono
esperienze importanti e decisive. L’antropologia di Dostoevskij appare già dalla stessa
configurazione dei personaggi e dei loro rapporti: i pensieri dei suoi eroi non sono opinioni, ma
irradiazioni di idee viventi, i loro sentimenti non sono emozioni personali, ma passioni che
costruiscono o distruggono un mondo, i loro incontri non sono avvenimenti e intrecci, ma
confluenze o scontri di mondi affini od opposti, le loro vite non sono biografie ma destini2. Per
lui l’uomo è un microcosmo, il centro dell’essere, un sole intorno a cui tutto muove; in esso è
racchiuso l’enigma dell’universo e, risolvere il problema dell’uomo, è risolvere il problema di
Dio. I personaggi di Dostoevskij, idee personificate, offrono un modo di prospettare la realtà
spirituale dell’uomo, il suo destino tragico, la sua natura enigmatica, la sua possibilità di bene
o di male, cioè il suo potenziale di distruzione e di morte e la sua speranza di resurrezione e di
vita, la sua capacità di scelleratezza e di abiezione e le sue prospettive di redenzione e di riscatto.
Un’immagine di cui Dostoevskij si serve per far comprendere il significato del concetto di idea,
2
Cfr. L. PAREYSON, Dostoevskij: filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, p. 17
6
è quello di segreto: l’idea di cui un uomo vive e in cui un uomo crede è da lui spesso chiamata
il suo segreto. Per Dostoevskij:
«un uomo è una vera personalità in quanto accoglie nel suo intimo un’idea e vive nel mistero
di un’idea. Le personalità sono idee incarnate: il seme divino, cioè l’idea trascendente, diventa il
segreto immanente, intimo, di ogni personalità degna del nome. Il vero volto dell’uomo è questa
sua segreta e divina interiorità quale traspare in rari momenti sul suo viso fisico e umano: la
spersonalizzazione, che la vita quotidiana e colpevole porta con sé, deforma troppo spesso il volto
divino dell’uomo in un viso umano troppo umano»3.
Ne “I demoni”, Dostoevskij, più di ogni altro romanzo, ci dà una visione di tutta la vita.
Domina questo mondo il maligno che vuole la distruzione e la morte ma, seppur segreta, è
anche presente la grazia; il Cristo è la vita del mondo, ma rimane nascosto, invisibile, e coloro
che sono con Lui, ugualmente non operano e rimangono nascosti. Di contro alla potenza del
male, che sembra sconvolgere e distruggere ogni ordinamento sociale, ogni fedeltà ai legami
più sacri, il bene sembra raccogliersi nella figura di un uomo malato, che vive come emarginato
nel suo stesso monastero, che non opera, ma accoglie coloro che hanno bisogno di perdono e
di qualche conforto. È il vescovo Tichon, che ha lasciato il ministero attivo per vivere come
semplice monaco. Di lui Dostoevskij scrive:
«non aveva saputo ispirare nel monastero stesso, un particolare rispetto verso di sé. Dicevano che
il padre archimandrita, uomo austero e rigoroso per quanto riguardava i suoi obblighi di superiore
e, inoltre, noto per dottrina, nutrisse verso di lui perfino un certo senso, si sarebbe detto, di ostilità
e lo accusasse, di vita trascurata, e quasi di eresia»4.
Tichon nel romanzo riveste la figura di un santo che, nella sua umiltà e semplicità, si
abbandona alla malignità senza reagire. Questo perché, nella sua grandezza di uomo di Dio, è
preso tutto dalla volontà di salvare l’uomo che si presenta da lui.
Si può dire che Dostoevskij individui l’estrema e più completa forma del male nella
dissoluzione della personalità, nel senso che l’azione del male nell’uomo non può essere se non
dissolvente e disgregatrice.
3
L. PAREYSON, Dostoevskij…, p. 22
4
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, Einaudi, Torino 2014, p. 397
7
Una personalità:
«in cui s’insinui e prevalga la presenza del male tende a dissolversi: per vigorosa e robusta ch’essa
sia, la sua forza viene impiegata in aspirazioni smoderate e titaniche o in azioni inadeguate e
disperse: nel primo caso essa precipita nell’impotenza, perché la sproporzione tra la disponibilità
reale e l’impiego smisurato la rende incapace di un impegno effettivo e di scelte genuine; nel
secondo caso essa degenera nella dissipazione, perché la tenuità dell’applicazione ne provoca un
inutile spreco e la destina all’inerzia; in entrambi i casi, la mancanza d’una vera distinzione fra
bene e male porta all’indifferenza e al disfacimento, all’inoperosità e alla disgregazione, al
disimpegno e all’estinzione»5.
Il mondo descritto nel romanzo, non è soltanto un mondo malato, ma è un mondo chiuso
e sufficiente a se stesso; in questo mondo opera il maligno e gli uomini sono posseduti da lui.
È il caso della fortissima personalità di Nikolàj Stavrògin, diventata preda di un principio
irrazionale e demoniaco; essa si dissocia e si dissolve, al punto che il suicidio finale non è che
l’ultimo atto di un processo ormai inarrestabile di disfacimento e di distruzione. Dostoevskij lo
presenta così:
«a quel che pareva, egli era sempre quello stesso di quattr’anni addietro: altrettanto elegante,
altrettanto grave, si presentava con altrettanta gravità di allora, era perfino quasi altrettanto
giovane. Il suo leggero sorriso era contegnosamente gentile come allora e come allora soddisfatto
di sé; il suo sguardo altrettanto severo, pensoso e come distratto. Ma una cosa mi colpì: prima il
suo viso, sebbene egli fosse considerato come bellissimo, in realtà sembrava una maschera6. […]
I suoi capelli erano anche troppo neri, i suoi occhi luminosi anche troppo tranquilli e limpidi, il
colorito del viso anche troppo delicato e bianco, l’incarnato anche troppo vivo e puro, i denti come
perle, le labbra come coralli; sembrava un quadro, ma nello stesso tempo si sarebbe detto anche
repulsivo. […] Ma passarono alcuni mesi, e a un tratto la belva mostrò i suoi artigli»7.
5
L. PAREYSON, Dostoevskij…, p. 53
6
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p.168
7
Ivi, p. 40
8
di accettare e di essere. La convivenza fra la persona e il suo sosia, fra l’ego e l’alter ego, è
impossibile, perché esiste una vera e propria separazione: quando il male è presente nell’uomo,
la sua personalità è divisa, alienata, duplicata. Incapace di mettere in fuga il sosia, la persona
cerca allora di fuggire lei stessa, ma inutilmente; sempre l’accompagna, inesorabile e
implacabile, il sosia, a convincerla della propria ineludibilità: la fuga da se stesso è impossibile,
nessuno può chiudere gli occhi di fronte alla presenza del male nel proprio cuore8. Nikolàj:
«era di quelle nature che non conoscono la paura. In duello poteva stare tranquillamente sotto il
fuoco dell’avversario, mirare a sua volta e uccidere con una calma che raggiungeva la ferocia.
[…] Nonostante l’ira smisurata che alle volte s’impadroniva di lui, egli poteva tuttavia conservare
sempre il pieno dominio di sé9. […] Ma era una collera fredda, tranquilla, e, se così ci si può
esprimere, ragionevole, e perciò la più rivoltante e la più terribile che ci possa essere»10.
8
Cfr. L. PAREYSON, Dostoevskij…, p. 54
9
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 189-190
10
Ivi, p.191
9
dell’assoluto nel finito, sostegno ontologico senza il quale esso è nullo. Così tenta di
monopolizzare l’essere finito, di sottrarlo alla subordinazione dell’assoluto, di recidere la radice
vivificante che lo tiene legato all’essere. La forza del male è diretta a negare in lui la presenza
dell’assoluto. L’essere finito:
Ne deriva che il male, cambia tuttavia il suo segno da negativo in affermativo, sostituendo
se stesso al bene, sostituendo il finito all’assoluto e facendolo passare per assoluto. Il male
produce l’ateismo, che non è una pura e semplice affermazione teorica dell’inesistenza di Dio,
ma è inevitabilmente una condotta di vita e una presa di posizione pratica. Con la distruzione
dell’idea di Dio, viene eliminata la costitutiva differenza fra Dio e uomo e per altro la
fondamentale distinzione fra bene e male. L’uomo stesso è messo al posto di Dio ed è bene
tutto ciò che l’uomo arbitrariamente vuole. In tal modo nell’uomo, gonfiato oltre le proprie
possibilità e sottratto alla guida di una legge, si introduce un germe di distruzione: da un lato la
superbia, l’isolamento e la separazione, dall’altro l’egoismo, la lotta e l’odio. Se Dio non esiste,
è lecito diventare uomo-Dio, e naturalmente scavalcare a cuor leggero tutte le barriere morali:
tutto gli è permesso. Il problema del male, da un punto di vista esterno, non può essere
considerato come prodotto dell’ambiente che ci circonda; esso si annida nella profondità della
natura umana in seguito ad un volontario allontanamento dalla radice vivificante dell’essere da
parte dell’uomo stesso12. Senza la libertà umana non c’è né responsabilità né colpevolezza,
come si vedrà nel capitolo seguente.
11
L. PAREYSON, Dostoevskij…, p. 67
12
Cfr. Ivi, p. 63
10
CAPITOLO SECONDO
2.1 KIRILLOV
Alekséj Nilyc Kirillov è un ingegnere civile appena tornato dall’estero dopo un’assenza
di quattro anni per perfezionarsi nella sua specialità ed è in attesa di risposta per ottenere un
impiego nella costruzione di un ponte ferroviario. Egli è:
«ancora un giovanotto, di circa ventisette anni, vestito decorosamente, un bruno ben fatto e
asciutto, con un viso pallido, di colorito un po' terreo e con degli occhi neri senza splendore.
Sembrava alquanto pensieroso e distratto, parlava a scatti e in certo modo senza grammatica,
trasponeva curiosamente le parole in un modo strano e s’imbrogliava se gli accadeva di formare
una frase un po’ lunga».13
13
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 84
14
Ivi, p. 88
15
Ibidem.
11
che penso a una cosa sola. Dio mi ha tormentato tutta la vita»16.
«ci sono dei secondi, non ne vengono che a cinque o sei per volta, in cui sentite tutt’a un tratto
la presenza di un’armonia eterna compiutamente raggiunta. Non è una cosa terrestre; non dico
che sia una cosa celeste, ma dico che l’uomo nel suo aspetto terrestre, non la può sopportare. […]
Come se a un tratto aveste la sensazione di tutta la natura e a un tratto diceste: sì, è vero. Dio,
quando creava il mondo, alla fine di ogni giornata della creazione diceva: sì, è vero, è bello. […]
Il più terribile è che tutto è così tremendamente chiaro e che la gioia è così grande; […] in quei
cinque secondi io vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché vale la spesa»17.
Kirillov mette in rapporto la fine di Dio con questa esperienza; si tratta di momenti
supremi, in cui si realizza una tale straordinaria intensificazione dell’autocoscienza, da non
lasciar dubbi che si attinga alla sintesi suprema della vita. Non senza ragione, dopo queste sue
parole, l’interlocutore gli chiede se soffre di epilessia, e lo considera destinato al mal caduco.
Nei momenti di questa eterna armonia coesistono una felicità perfetta e una gioia più intensa
dell’amore e del perdono, momenti per cui darebbe la vita, ma trattandosi di attimi preludenti
ad una crisi epilettica, nasce il dubbio che non si tratti di una vita superiore, ma di vita infima,
cioè di malattia, alterazione dello stato normale. In essi, non solo fondono, motivi spirituali,
religiosi e cosmici, ma c’è qualcosa di più: un’immagine consueta della natura, la sua
trasfigurazione in bellezza, un’esperienza dell’unione di Dio e natura, di uomo e Dio, insomma
un senso dell’unione universale che non può apparire, se non come mistero, alla mente umana.
16
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 107
17
Ivi, p. 578
12
L’uomo conferma e accetta l’universo, lo considera buono e perfetto, così come buono e
perfetto apparve al Creatore quando lo faceva. Se dunque per un verso, l’uomo di fronte al
mistero dell’universo sente la propria piccolezza ed è preso da un sentimento non solo di
meraviglia, ma anche di paura e di sgomento, per l’altro verso la consapevolezza di partecipare
col proprio consenso alla creazione lo esalta e lo rapisce; partecipazione che si realizza soltanto
nella misura in cui l’uomo sente se stesso e tutto il creato, accolto e contenuto in Dio.
Tuttavia Kirillov ama la vita, ne ha un desiderio ardente. Ma sente la realtà religiosa con
una intensità che gli preclude ogni accesso alla vita; sentire Dio in questo modo, e nello stesso
tempo vivere, non sembra una cosa possibile. Così risponde all’interlocutore, quando gli chiede:
Vive però un’esperienza religiosa tormentata e profonda; in lui c’è la nostalgia struggente
di una patria in Dio, l’aspirazione a posare il capo nel grembo di Dio per avere finalmente pace.
Ma nella sua natura qualche cosa si solleva ad impedirglielo, un sentimento che viene dalla sua
stessa personalità, dalla sua coscienza. È il lavorìo devastatore dello scrupolo, il tormento che
una coscienza, divenuta ipersensibile s’infligge infierendo contro la propria vita, in obbedienza
a una legge secondo la quale solo ciò che è difficile e doloroso, solo ciò che annienta, deve
essere19. Questo scrupolo si è insediato nella coscienza di Kirillov; esso proviene dalla struttura
della persona stessa che, come in tutti i personaggi di Dostoevskij, è fragile, incerta di sé, vile
ai propri occhi. Questo scavare inquieto dentro se stessi si traduce in Kirillov nel divieto di
sentirsi figlio di Dio; quanto più forte è il bisogno di avvicinarsi a Dio, tanto più imperioso è
l’ordine di tirarsi indietro. Tormento indicibile di un amore che si condanna alla negazione, fino
alle conseguenze più amare. Questo emerge dal dialogo con il cronista quando gli osserva:
«-l’uomo teme la morte perché ama la vita, ecco come lo capisco io, -osservai, - e così ordina la
natura.
18
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 220
19
Cfr. R. GUARDINI, Dostoevskij il mondo religioso, Morcelliana, Brescia 1995, p. 187
13
-Questo è vile e tutto l’inganno è qui! -fece e gli scintillarono gli occhi. - La vita è dolore, la vita
è paura, e l’uomo è infelice. Oggi tutto è dolore e paura. Oggi l’uomo ama la vita, perché ama
il dolore e la paura. E così l’hanno fatto. La vita si dà oggi in cambio di dolore e paura, e qui è
tutto l’inganno. Oggi l’uomo non è ancora quello che deve essere. Verrà l’uomo nuovo, felice e
orgoglioso. Quello per cui sarà lo stesso vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi
vincerà il dolore e la paura, sarà lui Dio»20.
L’uomo vive infelice; dolore e paura non sono stati d’animo ma rivelazioni di uno stato
dell’esistenza che scompariranno solo con l’estinguersi di questa. L’esistenza dunque assume
forma di negazione: all’origine non c’è l’amore della vita, ma l’amore del dolore, il quale porta
ad un pervertimento della vita affettiva e una deviazione all’origine stessa dell’atto d’essere.
Kirillov non conosce più legge, tutto per lui è indifferente, il bene e il male, il vivere e il non
vivere. Non dice però di non credere in Dio: dice che Dio «non c’è, ma c’è. […] È il dolore
della paura di morire»21. Dio dunque, non ha esistenza propria ma è. È come un’illusione che
per se stessa è inconsistente poiché sparisce quando ne vien meno la causa. Dio stesso è nulla,
è il dolore divenuto potenza universale che nasce dall’angoscia di ciò che non è. Dato il suo
particolare modo di costruire e formulare il proprio pensiero, Kirillov si pone tra il sì e il no, tra
l’essere e il non-essere, nell’indeterminato; si riduce a esser nulla, ma un nulla dotato di un
potere terribile, quello di generare l’angoscia dopo aver ricevuto dall’angoscia stessa questo
potere. Il non-essere lo tormenta e lui, cerca di aprirsi un varco, ma senza capire che la salvezza
è possibile solo sulla via della redenzione, sulla via che conduce a Cristo. Solo nell’abbandono
a Cristo e nella partecipazione a tutto il suo essere, la nuda finitezza, sentita e vissuta sotto
forma di tormento e di angoscia, verrebbe accolta nell’esistenza dell’amore, ossia dall’Uomo-
Dio. Ma in Kirillov, la stessa figura del Cristo si tinge di menzogna quando afferma:
20
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 106
21
Ibidem.
22
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 222
14
Questo Cristo è irreale, perso nell’indeterminato uomo-Dio. Qui l’uomo bisognoso di
redenzione e il Redentore diventano la stessa cosa annullando ogni carattere distintivo e
respingendo la redenzione stessa; l’uomo si chiude in sé e proclama la propria autosufficienza.
Da un punto di vista cristiano, questo non è altro che il trionfo della finitezza pura. L’imperativo
di bastare a se stessi, di essere autonomi, l’egoismo della natura si oppongono all’abbandono a
questo “Tu” divino. Egli non sente più Dio davanti e tutto intorno a sé e in sé, formante con sé
una cosa sola, ma lo sente contrapposto a sé. La coscienza conosce qui la propria esistenza
come nuda finitezza isolata e Dio come il puro assoluto isolato e ne avverte la presenza come
una minaccia alla liberazione del finito. E poiché l’abbandono confidente è ardentemente
desiderato ma non concesso, la sua immensa forza di attrazione si trasforma in un principio
ostile che minaccia di inghiottire l’uomo stesso; dal momento che amarLo è vietato, esso muta
in qualcosa di mostruoso. L’uomo, negato Dio, cerca di disporre totalmente di sé sottraendosi
a Dio con la morte. Ribadisce infatti:
«-chiunque vuole la libertà essenziale, deve osare uccidersi. Chi osa uccidersi, ha scoperto il
segreto dell’inganno. Più in là la libertà non esiste; tutto è qui, e più in là non c’è nulla. Chi
osa uccidersi è Dio. Oggi ognuno può far sì che non ci sia più Dio e non ci sia più nulla. Ma
nessuno l’ha ancora fatto nemmeno una volta.
-Di suicidi ce ne sono stati di milioni.
-Ma non mai con questo scopo, sempre con paura e non per questo. Non per uccidere la paura.
chi si ucciderà solo per uccidere la paura, diventerà subito un dio»23.
Certo è che non può disporre di sé oltre la morte e di fatto non diventa Dio e non rimane
neppure uomo. Eliminato Dio, è eliminato ogni valore: tutto è uguale e tutto è senza senso. La
vita religiosa prima di essere esercizio di virtù, è coscienza di un rapporto personale con Dio;
dove questo manca, l’uomo pretende di sostituire Dio e presume che il suo atto sia sufficiente
a trasformare l’umanità, a realizzare la salvezza. Ma lui incalza:
23
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 107
15
tutta la volontà è mia, e ho l’obbligo di affermare l’arbitrio.
-L’arbitrio? E perché ne avete l’obbligo?
-Perché tutta la volontà è diventata mia. Possibile che nessuno, su tutto il pianeta, avendo posto
fine a Dio e messosi a credere nell’arbitrio, osi affermare l’arbitrio in tutta la sua pienezza? […]
Io voglio affermare l’arbitrio. Sarò il solo, ma lo farò.
-E fatelo.
-Ho l’obbligo di spararmi, perché la suprema pienezza del mio arbitrio è uccidere me stesso»24.
Per dimostrare di saper accettare il finito puro e semplice, egli dovrà fare la cosa più
difficile: diventare indipendente, autonomo, sovrano, e diventarlo in un modo che possa
corrispondere alla sovranità di Dio come dominio sulla vita e sulla morte, preparandosi a
disporre non della vita altrui, ma della propria vita. L’uomo che credeva di sostituire Dio,
diviene solo una maschera grottesca e invece di esprimere l’atto della sua suprema libertà,
Kirillov vive la più odiosa schiavitù. Così la racconta il cronista:
Non poco tormentati sono questi ultimi attimi della sua vita, ma in lui è caduto ogni
criterio di giudizio, sul piano della sua coscienza è venuta meno ogni differenza e si vede che
«presso la finestra che aveva lo sportello aperto, coi piedi verso l’angolo destro della stanza,
giaceva il cadavere di Kirillov»26. L’apoteosi dell’uomo che nella sua morte doveva dimostrare
al mondo la sua divinità, esprime invece il terrore dell’uomo che vive nella morte la sua fine.
Nell’orrore dell’angoscia suprema si rivela d’un tratto un’altra vita, ma non certo quella
dell’uomo nuovo e redento, bensì quella raccapricciante dell’uomo meccanico. Quell’era nuova
che doveva nascere da questa morte è solo l’orrore del nulla.
24
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 603-604
25
Ivi, p. 610
26
Ivi, p. 611
16
2.2 STAVRÒGIN
Nikolàj Stavrògin è il centro del romanzo “I demoni”. Sembra infatti che il destino dei
personaggi sia legato a questa figura da cui tutti traggono ispirazione e alimento, tutti ricevono
una loro forza, ma egli non vive che il vuoto. Non ha accanto una figura paterna perché a «otto
anni circa, lo spensierato generale Stavrògin, suo padre, viveva a quel tempo già separato dalla
sua mamma, cosicché il fanciullo crebbe sotto le cure di lei»27 e:
«il ragazzo sapeva di sua madre che essa lo amava molto, ma è dubbio che l’amasse molto dal
canto suo. Ella parlava poco con lui, di rado lo impacciava in qualche cosa, ma egli sentiva sempre
su di sé con un certo disagio lo sguardo di lei, che lo seguiva fissamente»28.
Varvara Petrovna, sua madre, affida l’istruzione e lo sviluppo morale del ragazzo a Stepàn
Trofímovič, suo amico affezionato. Un’educazione ambigua come la persona che la impartisce
perché egli è inoffensivo, del tutto incapace di vivere una vita concreta. Abita nel mondo
immaginario che egli stesso si è creato. Nikolàj a sedici anni va al liceo e terminati i corsi entra
nella carriera militare dove ben presto viene assegnato ad uno dei più brillanti reggimenti di
cavalleria a San Pietroburgo. La madre lo fornisce abbondantemente di denaro ed egli ha un
gran successo nella società:
«ma assai presto cominciarono a giungere a Varvara Petrovna voci abbastanza strane: il
giovanotto si era messo tutt’a un tratto a far baldoria in un modo pazzesco. Non che giocasse
o che bevesse molto; si raccontava soltanto di una sua selvaggia sfrenatezza, di persone
schiacciate dai suoi cavalli da corsa, di un bestiale contegno verso una dama della buona società,
con la quale era stato in relazione, ma che poi aveva offesa pubblicamente. C’era in questa
faccenda perfino qualcosa di troppo apertamente sudicio. Aggiungevano inoltre che era uno
spadaccino, che attaccava e offendeva per il piacere di offendere. […] Si ricevette ben presto la
fatale notizia che il principe Harry aveva avuto quasi allo stesso tempo due duelli, che in entrambi
era colpevole in pieno, che aveva ucciso sul colpo uno dei suoi avversari e storpiato l’altro, e in
conseguenza di tali fatti era stato messo sotto giudizio. La faccenda era terminata con la sua
retrocessione a soldato, con la perdita dei diritti e l’invio in un reggimento di fanteria di linea»29.
27
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 37
28
Ibidem.
29
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 38-39
17
Ma il giovane non dà più notizie di sé, azzera completamente la corrispondenza, già rara,
che ha con la madre. Dà le dimissioni e più tardi:
«si giunse a scoprire che egli viveva in una certa strana compagnia, che aveva stretto rapporti con
certi rifiuti della popolazione di Pietroburgo, con certi pezzenti d’impiegati, militari in ritiro che
chiedevano decorosamente la carità, ubriaconi; che visitava le loro sudice famiglie, stava giorno
e notte in bassifondi oscuri e Dio sa in quali vicoletti, che si era lasciato andare, s’era fatto uno
straccione, e che tutto ciò doveva piacergli»30.
Dopo insistenti preghiere, la madre ottiene il suo ritorno in città; è sui venticinque anni e
fa una grande impressione sulla società. Il cronista lo presenta come:
«il più elegante gentleman di quanti mi fosse mai capitato di vederne, straordinariamente ben
vestito, e si comportava come poteva comportarsi solo un signore abituato alla grazia più raffinata.
Non ero stupito io solo: stupiva tutta la città, alla quale, naturalmente, era già nota tutta la vita del
signor Stavrògin»31.
«tuttavia ella lo temeva in modo evidente e in sua presenza appariva come una schiava. Si capiva
che temeva qualcosa d’indefinito, di misterioso, che lei stessa non avrebbe potuto esprimere, e
molte volte osservava Nicolas di nascosto e fissamente, riflettendo e scrutando… ed ecco che a
un tratto la belva mise fuori i suoi artigli»32.
Avviene talvolta che per rendere l’espressione di un volto o l’aspetto di un uomo si ricorra
a qualcosa di non umano perché nella persona ci sembra di veder agire un meccanismo. Esso
traspare dal comportamento di un uomo. Accade allora un fatto profondamente inquietante, che
qualcosa senza vita si pasce di vitalità umana ed acquista una vita apparente. Non si ha in questo
caso un corpo unito ad un’anima, ma un fisico semplicemente materiale, dalla cui irreale vitalità
può trasparire la grazia o la veemenza, ma che nello stesso momento può anche convertirsi in
30
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 39
31
Ivi, p. 40
32
Ivi, p. 41
18
qualche cosa di orrido, spettrale, di demoniaco33. Quando nell’uomo appaiono le caratteristiche
del meccanismo ci si trova di fronte ad un pericolo di involuzione. Ecco che la belva, come già
detto, mette fuori i suoi artigli e:
«tutt’a un tratto, di punto in bianco, il nostro principe fece a varie persone due o tre inconcepibili
villanie, e cioè l’essenziale stava per l’appunto nel fatto che queste villanie erano del tutto
inaudite, assolutamente mostruose, […] assolutamente senza alcun motivo34. Ma di lì a mezz’ora
Nicolas era arrestato e condotto, per il momento, al corpo di guardia, dove fu chiuso in una cella
apposita, con apposita sentinella alla porta»35.
In prigione è colto da un attacco di furiosa pazzia e per qualche mese resta a letto malato.
Una volta guarito è calmissimo e si scusa con tutti; egli stesso esclama: «possibile che mi
crediate davvero capace di gettarmi sulle persone in piena lucidità mentale? Perché mai l’avrei
fatto?»36. Ma Stavrògin è malato, certamente, e questa malattia ha un significato, precisamente
un perverso significato. Si ha qui un uomo che perfettamente impassibile, quasi assente, infligge
un affronto ad un altro uomo e come un semplice spettatore sta a vedere quello che succede.
Egli non si possiede, così come non può donarsi e nemmeno ricevere alcun dono; è un centro
di attrazione per tutti, ma nessuno può avvicinarsi a lui. È chiuso in sé pur non avendo nulla da
custodire. La sua forza, potenza sconfinata, senza oggetto e senza direzione, ha conseguenze
funeste: diviene torpida, ottusa che cristallizzandosi avvelena se stessa. In questo modo, Nikolàj
esiste ma non vive la propria esistenza; pensa, ma non vive il proprio pensiero. Lo stato di morte
interiore è così avanzato che ricorre allo stimolante più abominevole, ovvero commettere
l’infamia per se stessa. La perversione si manifesta nella crudeltà: il piacere di fare il male per
il male non tarda a portare con sé il gusto di far soffrire. Egli stesso dice:
33
Cfr. R. GUARDINI, Dostoevskij…, p. 233
34
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 41-42
35
Ivi, p. 47
36
Ivi, p. 49
19
follia o, per così dire, fino all’ostinazione, non mai però fino all’oblio di me stesso. Pur arrivando
dentro di me all’incandescenza, nello stesso tempo potevo superarlo del tutto, e perfino arrestarlo
al punto culminante; ma io stesso non lo volli mai arrestare. […] Sono sempre padrone di me,
quando lo voglio»37.
«stravaganti e confuse erano queste confidenze e realmente pareva che venissero da un pazzo. Ma
Nikolàj parlava con una sincerità così curiosa, in lui mai veduta, con una bonarietà così estranea
alla sua natura che l’uomo di prima pareva fosse in lui di colpo e inattesamente scomparso del
tutto. […] Ma tutto questo durò un attimo e sparì d’un tratto come era comparso.
-Tutto questo è assurdo, - disse in fretta e con maldestro dispetto, riprendendosi. - Andrò dal
dottore […].
-E da molto tempo andate soggetto a questo?
-Da circa un anno, ma tutte queste sono assurdità. Andrò dal dottore. E tutte queste cose sono
assurdità, assurdità tremende. Sono io stesso sotto aspetti diversi, e niente di più. Siccome or ora
ho aggiunto quella… frase, voi certo pensate che abbia ancora dei dubbi e non sia sicuro che sono
io e non proprio un demonio. […] E si può credere nel diavolo, senza credere in Dio? – domandò
Stavrògin, mettendosi a ridere.
-Oh, si può benissimo crederci, avviene ogni momento, -fece Tichon, sollevò gli occhi e sorrise.
-E sono sicuro che una fede simile vi sembra pur sempre più rispettabile di una miscredenza piena
…-disse Stavrògin scoppiando a ridere.
-Al contrario, un pieno ateismo è più rispettabile dell’indifferenza mondana, - rispose Tichon con
evidente allegria e bonarietà. […] Il perfetto ateo sta sul penultimo gradino prima della fede più
perfetta (lo debba poi varcare o no), mentre l’indifferente non ha nessuna fede, fuorché una mala
paura, e anche questa solo a tratti, se è un uomo sensibile»39.
37
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 406
38
Ivi, p. 400
39
Ivi, p. 400-402
20
L’esistenza di quest’uomo è vuota; non che egli non possieda nulla o che nulla avvenga
nella sua vita, il vuoto è nel divenire stesso di questa vita e nel suo intimo è sempre e totalmente
indifferente. La terribile condizione in cui si trova Stavrògin è di poter credere nel demonio
senza credere in Dio; la sua disperazione consiste appunto nel soffrire del peccato senza credere
nel pentimento, nell’esperire la potenza negatrice del male senza appellarsi al principio del
bene. La visita da Tichon, invece di ravvivare in lui, col pentimento, una speranza di vita, non
fa che provocare il definitivo rifiuto di Dio che poteva salvarlo. Dio non lo aveva abbandonato,
ma egli è un uomo già morto quando afferma «io non faccio venire nessuno nell’anima mia,
non ho bisogno di nessuno, me la so cavare da me»40. Tichon non gli crede e incalza:
«-questa idea è una grande idea, e il pensiero cristiano non può esprimersi in modo più pieno.
Più in là di un’impresa così singolare come quella che avete meditata il pentimento non può
andare, purché…
-Purché?
-Purché questo sia davvero un pentimento e sia davvero un pensiero cristiano.
-Io l’ho scritto con sincerità.
-Sembra che vogliate farvi apposta più volgare di quello che desidererebbe il vostro cuore…-
diceva Tichon, facendosi sempre più ardito. […] Certi punti della vostra narrazione sono
sottolineati stilisticamente; avete l’aria di compiacervi della vostra psicologia e vi aggrappate a
ogni minuzia, pur di meravigliare il lettore con una insensibilità che in voi non esiste. Che è
questo, se non la sfida orgogliosa del colpevole al giudice? […]
-Ma dov’è la sfida? Ho eliminato ogni ragionamento personale. […]
-Non vi nasconderò nulla: mi ha atterrito vedere una grande forza oziosa, consumata
deliberatamente nell’infamia»41.
40
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 403
41
Ivi, p. 415-416
21
Questo affiora quando dice:
«-ascoltate padre Tichon: io mi voglio perdonare da me, ed ecco il mio scopo principale, tutto
il mio scopo! […] So che solo allora sparirà la visione. Ecco perché cerco una sofferenza infinita,
perché la cerco io stesso. Non spaventatemi dunque, se no perirò nel rancore.
Questa sincerità era così inattesa che Tichon si alzò.
-Se credete di potervi perdonare da voi stesso e di poter raggiungere tale perdono in questo mondo
con la sofferenza, se un simile scopo ve lo proponete con fede, credete già in tutto! […] Dio vi
perdonerà la miscredenza, giacché onorate lo Spirito Santo senza conoscerlo»42.
Il Vescovo legge in Stavrògin il nuovo addensarsi della minaccia: la ripresa del ritmo
pauroso per cui il tormento della coscienza sta per essere sopraffatto da una nuova infamia. Il
suo pentimento non viene dal cuore e non è veramente cristiano ma resta viziato di
esibizionismo. Stavrògin capisce che l’occhio penetrante di Tichon scorge qualche cosa che
forse a lui stesso finora è sfuggito. Infatti «si mise addirittura a tremare dalla collera e dallo
spavento. -Maledetto psicologo! – esclamò con furore, tagliando corto, e, senza voltarsi indietro
uscì dalla cella»43. Questa freddezza e questo vuoto interiore, non significano altro che una
predestinazione alla condanna. Questo nulla che nientifica può portare solo all’eliminazione di
sé, e a Stavrògin non resta altra via che il suicidio, atto finale della disperazione:
«il cittadino del cantone di Uri penzolava lì, dietro la porticina. Su un tavolino c’era un pezzetto
di carta con queste parole a lapis: -Non s’incolpi nessuno, sono io-. Pure sul tavolino c’erano
anche un martello, un pezzo di sapone e un grosso chiodo, evidentemente preparato come riserva.
Il solido cordone di seta, evidentemente preparato e scelto in precedenza, con cui si era impiccato
Nikolàj, era copiosamente insaponato. Tutto indicava la premeditazione e la coscienza conservata
fino all’ultimo momento. I nostri medici, fatta l’autopsia del cadavere, negarono in modo assoluto
e reciso l’alienazione mentale»44.
42
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 419
43
Ivi, p. 420
44
Ivi, p. 658
22
CAPITOLO TERZO
LIBERTÀ DELL’UOMO
Dostoevskij è tutto preso dalla visione dell’uomo, scopre e discende nelle profondità della
vita e dell’esperienza interiore; e proprio nel discendere negli abissi del cuore, egli scopre il
mistero dell’uomo. Ma al tempo stesso si fa presente il mistero di Dio: la vita dell’uomo è lo
scontro del male e del bene. Il problema del male e la concezione del bene, non solo dominano
tutti i suoi romanzi, ma essi suppongono la libertà, postulano Dio; l’uomo è al centro dell’opera
dello scrittore, e l’uomo è alle prese con Dio. I romanzi descrivono questo cammino per il quale
l’uomo tende a divenire ciò che ha scelto: o immagine di Dio, o immagine del maligno.
Il Vescovo Tichon, riprendendo il passo del libro dell’Apocalisse della Bibbia, descrive
così Stavrògin:
«mi sono note le opere tue, come non sei freddo né ardente; oh, se tu fossi freddo o ardente! Ma
perché sei tiepido, e né freddo né ardente, comincerò a vomitarti dalla mia bocca. Imperocché vai
dicendo: son ricco e dovizioso e non mi manca niente, e non sai che sei meschino e miserabile e
povero e cieco e ignudo»45.
Stavrògin è tiepido avendo talmente annullato la sua libertà da non essere più in grado di
distinguere fra bene e male. Chi è freddo, cioè chi fa il male conoscendone la distinzione dal
bene, è malvagio; allo stesso modo, il buono è l’ardente, cioè chi fa il bene sapendo che potrebbe
anche fare il male, e avrebbe anche il coraggio di farlo. Indifferente è colui che non sente e
quindi non pone il problema di Dio. Se credente e ateo, hanno in comune il problema di Dio,
se pur con soluzioni diametralmente opposte, l’indifferente è lontano da entrambi: è molto più
facile passare dall’ateismo alle fede e viceversa, che non passare dall’indifferenza alla fede e
viceversa. Il centro della filosofia di Dostoevskij consiste nel concepire l’esperienza della
45
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 403
23
libertà come l’esperienza più profonda dell’uomo. E per libertà si deve intendere la libertà
primaria, cioè la libertà di scegliere fra il bene e il male, la libertà di rifiutare o riconoscere il
principio dell’essere e del bene. Questo perché:
«non c’è ancora mai stato un popolo senza religione, cioè senza concetto del bene e del male.
Ogni popolo ha un concetto suo proprio del bene e del male e un bene e un male suoi propri.
Quando molti popoli cominciano ad avere in comune i concetti del bene e del male, i popoli
si estinguono, e allora la stessa distinzione tra il male ed il bene, comincia a cancellarsi e
sparire. La ragione non è mai stata in grado di definire il bene e il male, e nemmeno di distinguere
il bene dal male, sia pur approssimativamente; al contrario, li ha sempre confusi in modo
vergognoso e miserevole»46.
«la scelta del male è una decisione della libertà primaria, la quale non è di per sé cattiva, perché
consiste appunto nella libertà di scegliere o il bene o il male. Certo, se questa libertà sceglie il
male, essa finisce per distruggersi perché cade nella schiavitù del peccato: la libertà del male
conduce alla distruzione della libertà stessa. […] L’imposizione del bene è l’eliminazione
completa della libertà primaria, e la sua sostituzione con la necessità. Certo, si tratta di una
necessità buona, nel senso che si è negata la libertà del male»47,
e con ciò, è negata l’intera libertà primaria come possibilità di scegliere sia il bene che il
male. Ma l’intento di Dostoevskij è quello di impiantare la dialettica di bene e male interamente
sulla libertà. Dalla libertà originaria vengono fuori due forme di libertà: la libertà dell’arbitrio,
dal quale non può discendere che ribellione, e quella della scommessa, dove ogni atto dell’uomo
diventa una scelta compiuta a proprio rischio, consapevole e deliberato. Per l’uomo non c’è
altro accesso a Dio che la libertà, quella stessa libertà primaria da cui egli trae anche la
possibilità del puro arbitrio cadendo nell’autodistruzione; ma una volta che egli ha riconosciuto
liberamente Dio, questi diviene principio e guida della libertà. Per Dostoevskij l’esistenza di
46
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 234
47
L. PAREYSON, Dostoevskij…, p. 119
24
Dio è così strettamente connessa con la libertà che la negazione della libertà e della moralità
deve necessariamente prendere forma dall’ateismo, nel senso che senza Dio non ci può essere
distinzione fra bene e male, e nel senso che l’ateismo è così distruttivo della libertà che nelle
sue manifestazioni più coerenti culmina col suicidio. Negare Dio come fondamento della libertà
è il proposito di Kirillov, dove ateismo e suicidio si legano strettamente quando dice:
«non capisco come finora l’ateo abbia potuto sapere che non c’è Dio e non uccidersi
immediatamente. Aver coscienza che non c’è Dio, e nello stesso tempo non aver coscienza
d’essere diventato tu stesso dio, è un’assurdità; in caso contrario ti uccidi di sicuro. Se ne hai
coscienza, sei re, e non ti uccidi più, ma vivi nella maggior gloria. Ma uno, quello che è il primo,
deve uccidersi di sicuro; in caso contrario chi mai comincerebbe e darebbe la prova? Sarò
io di sicuro che mi ucciderò, per cominciare e dar la prova. Io non sono dio altro che per forza
e sono infelice, perché sono obbligato ad affermare l’arbitrio. Tutti sono infelici, perché tutti
temono di affermare l’arbitrio. […] Per tre anni ho cercato l’attributo della mia divinità e l’ho
trovato: l’attributo della mia divinità è l’Arbitrio! È tutto ciò con cui, sul punto essenziale,
posso mostrare la mia ribellione e la mia nuova spaventosa libertà. Perché essa fa molto
spavento. Io mi uccido per mostrare la mia ribellione e la mia nuova spaventosa libertà»48.
48
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 605-606
25
insondabile. Infatti nel romanzo è detto:
«lo scopo di tutto il moto popolare, in ogni popolo e in ogni periodo della sua esistenza, è
unicamente la ricerca di Dio, del suo Dio, del suo proprio Dio, e la fede in lui come nell’unico
vero. Dio è la personalità sintetica di tutto un popolo, dalla sua origine sino alla sua fine»49.
Solo alla presenza di Dio, la scelta illimitata della libertà si converte in un dilemma
preciso in cui è in gioco il destino stesso dell’uomo, e ciò può voler dire due possibilità
direttamente contrarie: da un lato l’uomo-dio, cioè il diritto del superuomo, dall’altro il Dio-
uomo, cioè l’esempio del Cristo. Due ipotesi in cui l’ambiguità è accresciuta dal fatto che in
entrambe il risultato autentico consiste nel capovolgimento dello scopo, perché il diritto del
superuomo fa precipitare chi lo persegue nel subumano e nella schiavitù, e l’esempio del Cristo
è un giogo terribile, ma in definitiva soave, perché realizza la piena libertà e la perfezione
dell’uomo come tale.
49
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 234
Cfr. F. CASTELLI, Il Cristo di Dostoevskij. Ⅰ. «Il Verbo si è fatto carne», in La Civiltà Cattolica, 3147 (1981)
50
ⅩⅤ, 225-237
26
trascurare la risposta. Non ci sono altri sbocchi, o Dio e il Cristo o il nulla e la dissoluzione
della vita. Non si sbaglia a dire che ogni personaggio dei suoi romanzi, è la descrizione di un
modo di legarsi a Cristo o di rifiutarlo. Al disquisire degli uomini senza Dio non c’è altra
risposta che la pietà, anzi l’amore silenzioso e crocifisso, perché:
«quell’uomo era il più sublime di tutta la terra, formava ciò per cui essa deve vivere. Tutto il
pianeta, con tutto ciò che c’è sopra, senza quell’uomo non è che follia. Non ci fu né prima, né
dopo nessuno che Lo eguagliasse, né mai ci sarà: che è perfino un miracolo. In questo appunto
sta il miracolo, che non ci fu e non ci sarà mai chi Lo eguaglia»51.
«non siete voi che mi dicevate che, se vi avessero dimostrato matematicamente che la verità è
51
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 605
52
Cfr. F. CASTELLI, Il Cristo di Dostoevskij. ⅠⅠ. «Tu volesti il libero amore dell’uomo», in La Civiltà Cattolica,
3150 (1981) ⅩⅤⅠⅠⅠ, 477-489
27
fuori di Cristo, avreste preferito rimanere con Cristo piuttosto che con la verità?»53.
«per l’uomo è ben più necessario della propria felicità sapere e credere a ogni istante che c’è in
qualche luogo una già perfetta tranquilla felicità, per tutti e per ogni cosa… Tutta la legge
dell’umana esistenza sta solo in questo: che l’uomo possa sempre inchinarsi all’infinitamente
grande. A privare gli uomini dell’infinitamente grande, essi non vorrebbero vivere e morrebbero
nella disperazione. L’immenso e l’infinito è altrettanto indispensabile all’uomo come quel piccolo
pianeta sul quale egli abita»54.
Nella luce di questa icona, Cristo, risulta essere realmente il restauratore dell’uomo e della
storia. Solo se noi ci apriamo a Lui, e quindi a Dio, se con Lui ci fondiamo e sintonizziamo, in
noi si verifica una trasformazione interiore che è pace, trasfigurazione, libertà. Paradiso
significa uno stato in cui il mondo e Dio non sono due realtà separate, ma il mondo è solo in
quanto esiste in Dio e il desiderio divino d’amore si compie in quanto Dio può aprirsi nella
creatura che si è data a Lui. La redenzione operata da Cristo, non pone l’uomo di fronte a Dio
come un suddito in attesa di ricevere ordini, ma lo eleva ad essere suo amico, per cui la libertà
di Dio e la libertà dell’uomo convergono in un accordo divino-umano: Dio è diventato uomo
perché l’uomo diventasse Dio.
53
F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, p. 233
54
Ivi, p. 646
28
CONCLUSIONE
In questo lavoro, il mio intento è stato quello di mettere in evidenza come l’uomo vuole
affermare la sua indipendenza, è tentato di correggere arbitrariamente ciò che gli si impone e
per questo non accetta Dio e vuole sganciarsi da Lui. Se Dio non è anche l’uomo non è, ma se
Dio è anche l’uomo è, e tutto può essere perdonato. Le due posizioni fondamentali e antitetiche
sempre ritornano: la posizione dell’ateo che nega Dio e la posizione del credente che ne
ammette l’esistenza e Lo ama. Nel rifiuto di Dio, secondo Dostoevskij, vi è il rifiuto di ogni
valore; anche il rifiuto della creazione è indirettamente rifiuto di Dio. La creazione manifesta
Dio, per mezzo di essa Egli si fa conoscere e si rende accessibile all’uomo. Rifiutare la
creazione, quando tu ne fai parte, vuol dire escludere te stesso dalla vita. Mentre chi ama la vita,
ama necessariamente Dio che gliela dona, accogliere quel dono è già accogliere Dio. La vita
religiosa comporta così un ritorno al mistero di una creazione che rivela Dio agli uomini. Il
mondo, nell’esperienza di Dio, non scompare ma è trasfigurato; gli uomini credenti vedono le
cose con altri occhi. Più l’uomo sa chi è, più comprende se stesso a partire da Dio e può farlo
solo accettando la sua Rivelazione.
Creato ad immagine di Dio, l’uomo che crede a sua volta Lo rivela, e come recita la
Gaudium et Spes al numero diciassette, “nell’uomo, segno altissimo dell’immagine divina, è la
vera libertà”. L’indagine fatta da Dostoevskij, e da me presa in considerazione, non è di tipo
psicologico ma pneumatologico, ossia un modo di prospettare la realtà spirituale dell’uomo,
della sua natura enigmatica e le sue possibilità di bene e di male. Così l’uomo e il suo destino
sono appesi al sottile filo della libertà. Egli non soggiace a nessuna costrizione e dunque può
agire e non agire, fare una cosa anziché un’altra; ciò che mettiamo in atto, e cioè in essere, non
è perché non può non essere, ma perché voluto, deciso. Se così non fosse, non vivremmo, non
penseremmo, ma saremmo pensati. Soltanto nella libertà, l’uomo può volgersi al bene, così che
liberamente e spontaneamente, uscendo da sé, cerchi e giunga al suo Creatore, sapendo che il
bene non è qualcosa di superiore a Dio ma è Dio stesso. Al termine di questo lavoro,
sintetizzerei così la mia riflessione: solo il Dio-uomo, Cristo, è colui che permette all’uomo di
diventare pienamente uomo.
29
BIBLIOGRAFIA
FONTI
SUSSIDI
BARSOTTI D., Dostoevskij la passione per Cristo, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1996
CASTELLI F., Il Cristo di Dostoevskij. Ⅰ. «Il Verbo si è fatto carne», in La Civiltà Cattolica,
3147 (1981) ⅩⅤ, 225-237
CASTELLI F., Il Cristo di Dostoevskij. ⅠⅠ. «Tu volesti il libero amore dell’uomo», in La Civiltà
Cattolica, 3150 (1981) ⅩⅤⅠⅠⅠ, 477-489
CASTELLI F., Il Cristo di Dostoevskij. ⅠⅠⅠ. «Se non avessimo davanti agli occhi la preziosa
immagine di Cristo», in La Civiltà Cattolica, 3153 (1981) ⅩⅩⅠ, 248-262
GUARDINI R., Dostoevskij il mondo religioso, Morcelliana, Brescia 1995
PAREYSON L., Dostoevskij: filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993
30