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Crediti
AMÉLIE NOTHOMB
SETE
VOLAND
AMAZZONI
Amélie Nothomb
Sete
traduzione di Isabella Mattazzi
Voland
Titolo originale: Soif
©Éditions Albin Michel – Paris 2019
© dell’edizione italiana
Voland srl Roma 2020
Tutti i diritti riservati
Prima edizione: febbraio 2020
ISBN: 978-88-6243-451-5
Pilato aveva ricevuto istruzioni sul mio conto e lo vedevo contrariato, non
che gli fossi simpatico, ma evidentemente i testimoni stavano irritando
l’uomo razionale che è in lui. Il mio stupore lo trasse in inganno, volle
darmi l’occasione di protestare contro quella marea di sciocchezze:
– Accusato, hai qualcosa da dire? – mi chiese con l’espressione
dell’uomo intelligente che si rivolga a un suo pari.
– No – ho risposto.
Scosse il capo, con l’aria di pensare che non serve a niente tendere una
mano a chi si disinteressa a tal punto della propria sorte.
In realtà non ho detto nulla perché avevo troppo da dire. E se avessi
parlato non sarei stato capace di nascondere il mio disprezzo. Provarlo mi
tormenta. Sono stato uomo abbastanza a lungo per sapere che certi
sentimenti non vanno repressi. Bisogna aspettare che passino senza cercare
di combatterli: soltanto così non lasceranno alcuna traccia.
Il disprezzo è un demone dormiente. E un demone inattivo deperisce in
fretta. Quando siamo in tribunale le nostre parole hanno valore di atti.
Tacere il mio disprezzo significava impedirgli di agire.
Pilato si consultò con i consiglieri.
– Queste testimonianze sono false, lo prova il fatto che il nostro uomo
non sta utilizzando alcuna magia per salvarsi.
– D’altra parte non è questo il motivo per cui vogliamo la sua condanna.
– Lo so. Per quanto mi riguarda, non chiedo altro che di condannarlo.
Solo avrei preferito non avere l’impressione di farlo per delle banali
imposture!
– A Roma, il popolo ha bisogno di pane e gladiatori. Qui ha bisogno di
pane e miracoli.
– Bene. Se si tratta di politica non ho più nessuna remora.
Pilato si alzò e dichiarò:
– Accusato, sarai crocifisso.
Ho apprezzato molto la sua economia di parole. La natura della lingua
latina non consente pleonasmi. Avrei trovato insopportabile che dicesse
“sarai crocifisso a morte”. Una crocifissione non contempla altri finali
possibili.
Ciò non toglie che sentirlo dalla sua bocca ha prodotto un certo effetto.
Ho guardato i testimoni e ho percepito il loro imbarazzo tardivo. Eppure
sapevano tutti che sarei stato condannato e avevano spinto lo zelo fino a
contribuire attivamente alla sentenza. Adesso facevano mostra di trovarla
eccessiva e di essere rimasti scioccati dalla barbarie della procedura. Alcuni
cercavano di incrociare i miei occhi per dissociarsi dall’accaduto. Ho
distolto lo sguardo.
Non sapevo di dover morire così. Non è stata una notizia da poco. Come
prima cosa ho pensato al dolore. La mia anima ha vacillato: non si può
concepire una sofferenza del genere.
La cosa peggiore era l’aspettativa delle persone nei miei confronti. A Cana,
a parte mia madre, nessuno mi aveva chiesto nulla. Dopo, ovunque andassi,
avevano già predisposto tutto, sul mio cammino trovavo sempre un infermo
o un lebbroso. Compiere un miracolo non significava più concedere una
grazia, ma assolvere al mio dovere.
Quante volte ho letto, nello sguardo di quelli che mi tendevano un
moncherino o un moribondo, non un’implorazione ma una minaccia! Se
avessero osato formulare il loro pensiero, sarebbe stato: “Sei diventato
famoso con questi giochetti, adesso fai in modo di continuare, altrimenti
guai a te!” È successo che non riuscissi a compiere il miracolo richiesto
perché non avevo la forza di annullare me stesso e liberare così la potenza
della scorza: quanto sono stato odiato allora!
In seguito, ci ho riflettuto e non mi è piaciuta molto questa storia dei
prodigi. Hanno falsato ciò che ero venuto a portare, l’amore non era più
gratuito, doveva servire a qualcosa. Per non parlare di quanto ho scoperto
stamattina durante il processo: nessuno dei miracolati ha per me la minima
gratitudine, al contrario, mi rimproverano aspramente i miracoli, perfino gli
sposi di Cana.
Non voglio più pensarci. Voglio solo ricordarmi della letizia di Cana,
l’innocenza della nostra felicità nel bere quel vino venuto da chissà dove, la
purezza di quella prima ubriacatura. Una sbornia ha valore solo se è
condivisa. La sera di Cana eravamo tutti ebbri e nel migliore dei modi. Sì,
anche mia madre aveva bevuto, e questo per lei non era che un bene. Dopo
la morte di Giuseppe di rado l’avevo vista felice. Mia madre danzava, ho
danzato con lei, la mia buona mamma che amo così tanto. La mia ebbrezza
le diceva che l’amavo, e sentivo la sua risposta senza neppure bisogno che
fosse pronunciata, figlio mio, lo so che sei speciale, e ho il sospetto che
questo ti creerà più di un problema un giorno, ma adesso sono
semplicemente fiera di te e felice di bere il buon vino che hai creato per noi
con la tua magia.
Ero ubriaco quella sera, e di un’ubriachezza santa. Prima
dell’incarnazione non avevo peso. Il paradosso è che bisogna essere pesanti
per conoscere la leggerezza. L’ebbrezza ci libera del nostro carico e dà
l’idea di poterci alzare da terra. Lo spirito non vola, si sposta senza
ostacolo, è una cosa molto diversa. Gli uccelli possiedono un corpo, il loro
volo ha il valore di una conquista. Non lo ripeterò mai abbastanza: avere un
corpo è quanto di più bello possa mai capitare.
Ho il sospetto che domani, quando il mio corpo verrà sottoposto al
supplizio, penserò il contrario. Ma posso rinnegare per questo tutte le
scoperte che mi ha regalato? Le gioie più grandi della vita le ho conosciute
con il corpo. E occorre forse precisare che né la mia anima né il mio spirito
si sono sottratti?
Anche i miracoli li ho compiuti con il corpo. Quella che io chiamo
“scorza” è un fatto fisico. Utilizzarla presuppone un momentaneo
annullamento dello spirito. Non sono mai stato altro che me stesso, ma ho
l’intima convinzione che questo potere lo possiedano tutti. La ragione per
cui se ne fa così poco uso, è l’enorme difficoltà del procedimento.
Occorrono coraggio e forza per sottrarsi allo spirito, non è una metafora.
Alcuni esseri umani ci sono riusciti prima di me, altri esseri umani ci
riusciranno dopo di me.
La mia concezione del tempo non è diversa da quella del mio destino: io
so Τί, ignoro Πω˜ς. I nomi appartengono a Πω˜ς, non conosco quindi il
nome dello scrittore che un giorno dirà: “Quello che c’è di più profondo
nell’essere umano è la pelle.” Arriverà a sfiorare la rivelazione, ma ad ogni
modo persino coloro che lo glorificheranno non comprenderanno fino in
fondo la concretezza di questa frase.
Non è esattamente la pelle, è appena più sotto. Lì risiede l’onnipotenza.
Questa notte non ci saranno miracoli. Non ho la minima intenzione di
sottrarmi a quanto mi attende domani. Non che non lo desideri, ovviamente.
Una volta soltanto ho usato male il potere della scorza. Avevo fame, i
frutti del fico non erano ancora maturi. Desideravo così tanto mordere un
fico caldo di sole, succoso e zuccherino, che ho maledetto l’albero,
condannandolo a non avere mai più frutti. Ho usato come pretesto una
parabola, e neppure una tra le più convincenti.
Come ho potuto commettere una simile ingiustizia? Non era stagione di
fichi. È il mio unico miracolo di distruzione. Quel giorno mi sono
comportato come un uomo comune. Frustrato nella mia ingordigia, ho
lasciato che il desiderio si trasformasse in collera. La gola è una cosa
bellissima, sarebbe bastato mantenerla intatta, dirsi che da lì a uno o due
mesi avrei potuto soddisfarla.
Non sono senza difetti. C’è una rabbia dentro di me che chiede soltanto
di esplodere. C’è stato l’episodio dei mercanti nel Tempio: almeno in quel
caso avevo un buon motivo. Ma da qui a dire “sono venuto a portare la
spada”, ce ne corre.
La notte prima di morire mi accorgo che non mi vergogno di nulla, salvo
che del fico. Me la sono presa con un innocente. Non che ora voglia
piangermi addosso con sterili rimorsi, semplicemente sono contrariato del
fatto di non poter andare a raccogliermi sotto quell’albero, abbracciarlo,
chiedergli perdono. Basterebbe che mi perdonasse e la sua maledizione
svanirebbe all’istante, potrebbe di nuovo dare frutti e inorgoglirsi del loro
delizioso peso sui rami.
Mi ricordo di un frutteto attraversato insieme ai discepoli. I meli si
piegavano sotto il carico dei frutti, ci eravamo rimpinzati di mele, le
migliori che avessimo mai assaggiato, croccanti, profumate, succose.
Avevamo smesso solo quando era davvero impossibile continuare, la pancia
sul punto di esplodere, ed eravamo crollati per terra ridendo della nostra
gola.
– Tutte queste mele che non potremo mangiare, che nessuno mangerà! –
ha detto Giovanni. – Che tristezza!
– Tristezza per chi? – ho chiesto.
– Per gli alberi.
– Tu credi? Gli alberi sono felici di portare le mele, anche se nessuno le
mangia.
– Che ne sai?
– Sii l’albero.
Giovanni era rimasto in silenzio per un po’ e poi aveva detto:
– Hai ragione.
– La tristezza è per noi, quando capiamo di non poter mangiare tutto.
Risate generali.
Ero stato un uomo migliore con il melo che con il fico. Perché? Perché
avevo saziato la mia gola. Siamo persone migliori quando il nostro piacere
è stato soddisfatto, non è poi così difficile da comprendere.
Nel momento inconcepibile in cui ho scelto il mio destino, non sapevo che
questo avrebbe implicato il fatto di innamorarmi di Maria Maddalena. Da
qui in poi la chiamerò Maddalena. I nomi doppi non mi entusiasmano e
trovo fastidioso chiamarla Maria di Magdala. Quanto a chiamarla Maria e
basta, lo escludo. Non è raccomandabile confondere l’innamorata con la
propria madre.
In amore non esistono rapporti di causa-effetto, dato che non esistono
scelte. I perché li inventiamo dopo, per il nostro piacere. Mi sono
innamorato di Maddalena non appena l’ho vista. Qualcuno potrebbe
argomentare: se il senso della vista ha avuto un ruolo così importante, si
potrebbe considerare la bellezza perfetta di Maddalena come una causa. Si
dà il caso che lei in quell’istante non stesse parlando e quindi l’ho vista
prima di ascoltarla. La voce di Maddalena è ancora più bella del suo
aspetto: se l’avessi conosciuta attraverso l’udito, il risultato sarebbe stato
identico. E se estendessi questo ragionamento ai tre sensi restanti, potrei
arrivare a conclusioni impudiche.
Non c’è nulla di sorprendente nel fatto che mi sia innamorato di
Maddalena. Che lei si sia innamorata di me è invece assolutamente
straordinario. Eppure è accaduto nell’istante stesso in cui mi ha visto.
Ci siamo raccontati questa storia mille volte, pur sapendo che la fantasia
ci aveva ormai un po’ preso la mano. Abbiamo fatto bene: la cosa ci ha
procurato un piacere infinito.
– Quando ho visto il tuo viso, sono rimasto senza parole. Non
immaginavo fosse possibile tanta bellezza. Poi mi hai guardato ed è stato
persino peggio: non credevo si potesse guardare così. Quando mi guardi, mi
manca il respiro. Ma tu guardi tutti in questo modo?
– Non direi. Non sono famosa per il mio sguardo. Ma vedi un po’ da che
pulpito viene la predica. È il tuo sguardo, Gesù, a essere celebre. Le persone
arrivano da ogni parte perché tu le guardi.
– Non guardo nessuno come guardo te.
– Lo spero bene.
L’amore riunisce la certezza e il dubbio: si è sicuri di essere amati tanto
quanto se ne dubita, e non a momenti alterni, ma in una simultaneità
sconcertante. Provare a sbarazzarsi di questa sfumatura dubitativa facendo
mille domande alla propria amata, significa negare la natura radicalmente
ambigua dell’amore.
Maddalena aveva conosciuto molti uomini e io nessuna donna. Eppure la
nostra mancanza di esperienza ci poneva su uno stesso livello. Riguardo a
quanto ci stava succedendo eravamo ignoranti come neonati. L’abilità
consiste nell’accettare questo stato convulsivo con entusiasmo. Oso dire di
eccellere in quest’arte, e anche Maddalena. Ma il suo caso è ancora più
degno di ammirazione: gli uomini l’hanno abituata al peggio senza che lei
abbia perso fiducia in loro. È stata straordinaria.
Quanto mi manca! Richiamarla a me con il pensiero, non è che un
palliativo. Forse sarebbe più dignitoso rifiutare di farmi vedere da lei in
questo stato. Ma ciò non toglie che darei qualsiasi cosa pur di rivederla e
stringerla tra le braccia.
Si dice che l’amore accechi. Ho potuto constatare il contrario. L’amore
universale è un atto di generosità che presuppone una dolorosa lucidità.
Essere innamorati rivela splendori invisibili a occhio nudo.
La bellezza di Maddalena era un fenomeno conosciuto. Eppure, nessuno
quanto me ha avuto piena coscienza della sua bellezza. Ci vuole coraggio
per riuscire ad accettare una bellezza simile.
Spesso le ho fatto questa domanda che tutto era tranne che retorica:
– Che effetto fa essere così bella?
Lei rispondeva elusiva:
– Dipende da chi hai di fronte.
Oppure:
– Non è male.
O ancora:
– Come sei gentile.
L’ultima volta ho insistito:
– Non te lo chiedo per galanteria, mi interessa davvero.
Lei ha sospirato:
– Prima di conoscerti, le rare volte in cui me ne rendevo conto, ne ero
annichilita. Da quando sei tu a guardarmi, ho imparato a esserne felice.
Tra le cose che non le ho mai detto, per paura che potessero essere
travisate, c’è questa: di tutte le gioie che ho provato con lei, nessuna ha
eguagliato la contemplazione della sua bellezza.
– Smettila di guardarmi così – diceva a volte.
– Tu sei il mio bicchiere d’acqua.
Nessun godimento può competere con quello che ci procura un bicchiere
d’acqua quando stiamo morendo di sete.
L’unico evangelista ad aver manifestato un talento di scrittore degno di
questo nome è Giovanni. Anche per questo la sua parola è la meno
affidabile. “Chi beve di quest’acqua non avrà mai più sete”: io non l’ho mai
detto, sarebbe stato un controsenso.
Quando parlo a Pietro, spalanca gli occhi e mi ascolta per un minuto. Poi
vedo la sua attenzione diminuire. Non è colpa sua, non se ne rende conto, il
suo sguardo vaga alla ricerca di qualcosa su cui posarsi. Quando rivolgo la
parola a Giovanni, lui abbassa leggermente le palpebre come se sapesse che
le mie confidenze lo toccheranno al punto di commuoverlo. Non appena
finisco di parlare, rimane in silenzio per un po’ e poi torna a guardarmi con
gli occhi lucidi.
Anche Maddalena mi ascolta con la stessa intensità. Su di lei questa cosa
mi fa meno effetto per un motivo ingiusto: nella mia epoca alle donne si
insegna ad ascoltare così. Ma sono comunque rare quelle che ascoltano
bene come Maddalena. Quanto vorrei passare questa ultima notte con lei!
Mi diceva: “Dormiamo d’amore folle.” Poi si rannicchiava a cucchiaio
contro di me e si addormentava immediatamente. Non ho mai avuto un
buon sonno, ed era come se lei dormisse per tutti e due.
Grazie a lei ho imparato che dormire è un atto d’amore. Quando
dormivamo così, le nostre anime si mescolavano ancor più che facendo
l’amore. Era una lunga assenza dal mondo in cui ci addentravamo insieme.
Quando alla fine sprofondavo nel sonno, avevo la sublime sensazione di
naufragare.
La mia illusione si confermava al risveglio. Avevo a tal punto perduto
ogni riferimento che il nostro giaciglio era diventato la riva su cui ci
eravamo arenati e in cui ci ritrovavamo stupiti di essere ancora vivi. Che
immensa gratitudine svegliarsi sulla spiaggia accanto alla propria amata!
L’impressione di essere dei sopravvissuti era così forte che il giorno
appena nato si sentiva in dovere di portarci la sua parte di gioia. Il primo
abbraccio, la prima parola d’amore, la prima sorsata.
Cristo significa dolce. L’ironia ha voluto che i miei genitori umani fossero
mille volte più dolci di me. Si sono trovati: è scoraggiante che esistano
esseri di una bontà tanto sconfinata. Io che so leggere nei cuori, capisco
subito quando qualcuno si sforza di essere buono, attitudine che d’altra
parte è stata spesso la mia. Giuseppe era buono per natura. Mi trovavo
accanto a lui quando è morto, non ha neppure maledetto lo stupido
incidente che gli è costato la vita, mi ha sorriso e ha detto:
– Stai attento che non succeda anche a te.
Ed è spirato.
No Giuseppe, io non morirò cadendo da un tetto.
Mamma è arrivata troppo tardi.
– Non ha sofferto – ho detto.
Lei ha fatto il gesto tenero di accarezzargli il viso. I miei genitori non
erano innamorati uno dell’altra, ma si amavano molto.
Anche mia madre è molto migliore di me. Il male le è talmente estraneo che
neppure lo riconosce quando lo incontra. Le invidio questa ignoranza. A me
il male non è estraneo. Per poterlo identificare negli altri, è indispensabile
che io ne sia provvisto.
Non me ne lamento. Se non portassi dentro di me questa traccia oscura,
non avrei potuto innamorarmi. L’amore non tocca mai le creature estranee
al male. Non che ci sia qualcosa di male nell’amore, ma per conoscerlo
dobbiamo contenere abissi in grado di accogliere la profondità della sua
vertigine.
Ciò non significa che io sia un cattivo uomo, né che Maddalena sia una
cattiva donna. Dentro di noi la traccia oscura era a riposo. Più in Maddalena
che in me, certamente. Lei non avrebbe mai dato in escandescenze di fronte
ai mercanti del Tempio. Anche se era per una causa giusta, che orribile
ricordo ho di quello scatto di collera! La sensazione di un veleno che si
diffonde nel sangue e mi ordina di gettare fuori le persone urlando: ho
detestato farlo.
Per fortuna ora non provo nulla di simile. Perfino al processo, quando ho
assistito a quelle ripugnanti testimonianze, la mia collera non si è
risvegliata. L’indignazione è un fuoco diverso, non causa la stessa
sofferenza abominevole. Se sono riuscito a tacere il mio disprezzo è perché,
contrariamente alla collera, non è un sentimento di natura esplosiva.
Gesù, non è così che riuscirai a dormire. Non hai alcuna volontà!
Mi sveglio.
Mi è stato dunque concesso di sprofondare nel sonno. È un dono.
Ringrazio Dio e penso che è davvero il colmo dovergli dire grazie in un
giorno simile. Ma sta di fatto che ho dormito.
Sento scorrere nelle vene la dolcezza del riposo. Basta qualche minuto di
sonno per provare questa voluttà. La assaporo con la certezza che sia
l’ultima volta.
Non mi sveglierò più.
Un poeta di cui non conosco il nome dirà in futuro: “Tutto il piacere dei
giorni è nel loro mattino.” La penso così anch’io. Amo le mattine. Quell’ora
del giorno ha una forza inesorabile. Anche se la notte prima è accaduto il
peggio, il mattino mantiene la propria purezza.
Mi sento pulito. Non lo sono. La mia anima è pulita questa mattina. Il
disprezzo provato ieri non esiste più. Non vorrei rallegrarmene troppo
presto, ma ho la netta sensazione che morirò senz’odio. Spero di non
sbagliarmi.
Un’ultima pipì in un angolo della cella, torno a sdraiarmi e accade un
miracolo: piove.
Questa pioggia non è di stagione. Mi ritrovo a sperare che duri.
Dovranno annullare lo spettacolo: una crocifissione sotto la pioggia sarebbe
un fiasco, il pubblico la diserterebbe. I romani hanno bisogno che i loro
supplizi attirino le folle, altrimenti lo interpretano come un segno di
disapprovazione. Per loro il popolo vuole divertirsi e se ne frega delle
consorterie politiche. Il brutto tempo ignora le circostanze, ma Roma ha
orecchie che arrivano lontano: crocifiggere tre uomini senza che la plebe
accorra in massa verrebbe percepito come un affronto.
Ho sempre amato starmene al riparo mentre fuori piove forte. È una
sensazione meravigliosa. Viene associata un po’ scioccamente alla serenità.
In realtà ha a che fare con il piacere. Il rumore della pioggia esige un tetto
come cassa di risonanza: trovarmi sotto questo tetto è il posto migliore per
apprezzarne il concerto. Deliziosa partitura, sottilmente cangiante,
rapsodica ma senza esagerare, ogni pioggia è una benedizione.
Sta diventando un diluvio. Immagino un altro destino. Le guardie
fuggono davanti alla montata delle acque. Mi rilasciano. Ritorno nelle terre
dove sono nato, sposo Maddalena, conduciamo la vita semplice delle
persone comuni. Troppo negato come carpentiere, divento pastore.
Facciamo formaggio di pecora. I nostri bambini lo mangiano ogni sera e
crescono forti come alberi. Invecchiamo felici.
Cado per la terza volta. Mordere la polvere assume tutto il suo significato. Il
suolo non è più fangoso, il sole ha seccato la terra. Intravedo la sommità del
Golgota. Perché ho tanta fretta di arrivare? Stento a credere che una volta
sulla croce soffrirò più di quanto non stia soffrendo adesso sotto di essa.
È un’esperienza comune: quando si sale su una montagna, la si guarda
dapprima dal basso, e non sembra poi troppo alta. Bisogna arrivare in cima
per rendersi conto dell’altitudine. Il Golgota non è che una collina, ma ho
l’impressione che non finirò mai di scalarlo.
Non so come ho fatto a rimettermi in piedi. Al punto in cui sono, ogni
cosa è uno sforzo, sento male ovunque. Devo avere una bella tempra,
perché non svengo. Gli ultimi passi sono i peggiori, non posso nemmeno
provare la gioia di chi ha superato una prova, so che sta per cominciare
qualcosa di tutt’altro genere.
Non tardano a farmelo notare nel modo più semplice: mi spogliano dei
miei vestiti. Si trattava solo di una tunica di lino e una cintura: mi rendo
finalmente conto del valore di questi stracci.
Finché siamo vestiti, siamo qualcuno. Non sono più nessuno. Non sono
più nulla. Una piccola voce nella mia testa sussurra: “Ti hanno lasciato una
stoffa a cingerti i fianchi. Potrebbe andare peggio.” L’intera condizione
umana si può riassumere così: potrebbe andare peggio.
Non oso guardare i due uomini crocifissi che sono già al proprio posto.
Risparmio loro il dolore di sentirsi osservati, dolore che ho imparato a
conoscere salendo fin qui.
Uno dei due mi dice con aria beffarda:
– Se sei il figlio di Dio, chiedi a tuo padre di tirarti fuori da questo
impiccio.
Ammiro sinceramente che, in una situazione come la sua, riesca ancora a
fare del sarcasmo.
Sento l’altro rispondergli:
– Taci, di certo se lo merita meno di noi.
Soffrire così e avere la bontà di difendermi è un comportamento che mi
commuove. Lo ringrazio.
No, non gli ho detto che si sarebbe salvato. Dire una cosa simile a
qualcuno che sta patendo un supplizio del genere, è una presa in giro. E dire
a uno dei due crocifissi “tu ti salverai” e niente all’altro, sarebbe stato il
colmo del cinismo e della meschineria.
Chiarisco questo punto perché i Vangeli non lo riporteranno così. Il
motivo? Lo ignoro. Gli evangelisti non erano accanto a me quando è
successo. E per quanto se ne possa dire, non mi conoscevano. Non ce l’ho
con loro, ma non c’è nulla di più irritante di chi con il pretesto di amarvi si
arroga il diritto di conoscervi profondamente.
In verità ho avuto uno slancio fraterno verso entrambi i crocifissi, per la
semplice ragione che avrei patito ben presto il loro stesso supplizio. Un
giorno inventeranno l’espressione “discriminazione positiva” per indicare
quello che avrebbe potuto essere il mio atteggiamento nei confronti
dell’uomo che chiameranno il buon ladrone. Non ho opinioni in merito, so
soltanto che questi due condannati mi hanno commosso ognuno a suo
modo. Perché se ho amato ciò che ha detto il buon ladrone, ho amato anche
la fierezza del cattivo, che peraltro cattivo non era, non vedo cosa ci sia di
grave nel rubare del pane, e posso capire che in una situazione come questa
non si abbiano rimorsi.
Il momento è giunto: mi stendo sulla croce. L’ho portata fin qui, da adesso
in poi lei porterà me. Vedo arrivare i chiodi e i martelli. La paura mi toglie
il respiro. Mi inchiodano i piedi e le mani. Non ci vuole molto, ho appena il
tempo di rendermene conto. E poi alzano la mia croce tra quelle dei miei
fratelli.
Ed è lì che scopro questa sofferenza indicibile. Avere dei chiodi che ti
attraversano i palmi non è nulla in paragone a pesarci sopra. E ciò che è
vero per le mani va moltiplicato per mille per i piedi. La regola è soprattutto
quella di non muoversi. Il minimo movimento decuplica un dolore già
insostenibile.
Mi dico che mi abituerò, che i nervi non possono provare a lungo un
orrore del genere. Scopro invece che ne sono assolutamente capaci, e che
questo trabiccolo registra le variazioni più sottili come le più
macroscopiche.
E dire che quando trascinavo la croce pensavo che lo scopo della vita
fosse non portare carichi troppo pesanti! Il senso della vita è non soffrire.
Nient’altro che questo.
Non ho via d’uscita. Sono interamente consegnato al mio dolore.
Nessun’idea, nessun ricordo può darmi sollievo.
Guardo quelli che mi guardano. “Che effetto fa?” leggo negli
innumerevoli occhi di chi mi compatisce o mi osserva con crudeltà. Se
dovessi rispondere non troverei le parole.
Non ce l’ho con le persone crudeli. Innanzitutto perché la sofferenza
monopolizza ogni mia facoltà, e poi perché, se il mio dolore può dare
piacere a qualcuno, lo preferisco.
Ecco Maddalena. Vedere mia madre mi aveva addolorato, vedere la mia
innamorata mi commuove. È talmente bella che la compassione non riesce
a sfigurarla. Soffro al punto che la mia anima urla, anche se la bocca resta
chiusa, incapace persino di immaginare un grido all’altezza di tanto dolore.
L’urlo della mia anima penetra Maddalena. Non è una metafora. È per la
sofferenza intollerabile o per l’approssimarsi della morte? Vedo l’amore di
Maddalena sotto forma di raggi. Il termine raggio non è esatto, si tratta di
qualcosa di più delicato e rotondo, concentrico, un’onda luminosa che da lei
arriva fino a me, ed è tanto dolce quanto è doloroso ciò che io, in cambio, le
rimando.
Vedo l’urlo della mia anima, o meglio la mia anima sotto forma di una
corrente impetuosa che raggiunge l’anima piena d’amore di Maddalena e si
mescola alla sua. E ne provo, se non un sollievo, una misteriosissima gioia.
La sete, che mi ero conservato come arma segreta, si riaffaccia in me. È
stata un’idea eccellente. Il tormento estremo della gola mi permette di
uscire dall’orrore del corpo straziato, il mio stato di arsura porta in sé una
salvezza concreta.
L’onda che mi unisce a Maddalena è obliqua e la sua obliquità, più che
alla mia posizione rialzata, sembra in qualche modo legata al carattere
azzurro della luce. La mia innamorata e io esultiamo in segreto per qualcosa
che soltanto a noi è concesso conoscere.
E quando dico soltanto a noi significa che mio padre ne è escluso. Lui
non ha corpo e l’amore assoluto che Maddalena e io stiamo vivendo in
questo momento scaturisce dal corpo esattamente come la musica dallo
strumento. Verità così profonde non si apprendono se non avendo sete,
amando e morendo: tre attività che necessitano di un corpo. Anche l’anima
è indispensabile, certo, ma non può in alcun caso bastare da sola.
Ci sarebbe di che ridere. Non mi arrischio, mi strapperebbe uno spasmo
di dolore. Se occorre che muoia, non deve succedere così. Ho una paura
atroce di rovinare la mia morte. Soffro a tal punto che potrei fallire il grande
momento.
Questa crocifissione è un errore. Il progetto di mio padre doveva
mostrare fin dove ci si può spingere per amore. Se questa idea fosse solo
stupida, potrebbe limitarsi a rimanere inutile. E invece no, è anche
tremendamente nociva. Una sfilza di uomini sceglierà il martirio a causa del
mio esempio imbecille. E fosse solo questo! Perfino coloro che avranno la
saggezza di optare per una vita semplice ne saranno contagiati. Perché ciò
che mio padre mi infligge testimonia un disprezzo così profondo del corpo
che non può non lasciare tracce.
Padre, sei stato superato dalla tua invenzione. Potresti andare fiero di
questo risultato, che è prova del tuo genio creatore. Invece, con la scusa di
dare una lezione d’amore edificante, stai mettendo in scena la punizione più
odiosa e la più carica di conseguenze che si possa immaginare.
Eppure era cominciata bene. Generare un figlio solidamente incarnato era
una bella storia, avresti potuto imparare molto, se solo fossi stato un
minimo interessato a capire quanto ti sfuggiva. Tu sei Dio: che senso può
avere per te un tale orgoglio? Si tratta davvero di questo? L’orgoglio non è
cattivo. No, io ci vedo anche qualcosa di ridicolo: sei suscettibile.
Sì, la tua non è che suscettibilità. Altro segnale: non sopporti che esistano
rivelazioni al di fuori della tua. Ti infastidirà che uomini vicini o lontani
vivano la trascendenza in modi diversi. A volte facendo anche sacrifici
umani che tu avrai la faccia tosta di trovare barbari!
Padre, perché agisci con tanta piccineria? Sono blasfemo? È vero.
Puniscimi allora. Puoi punirmi più di così?
Eccomi servito: soffro mille volte di più. Perché lo fai? Ti critico. Ho
forse detto che non ti amo? Ce l’ho con te, sono arrabbiato con te. L’amore
autorizza certi sentimenti. Ma che ne sai tu dell’amore?
È proprio questo il problema. Non conosci l’amore. L’amore è una storia,
bisogna avere un corpo per raccontarla. Quanto ho appena detto non ha
alcun senso per te. Se soltanto fossi consapevole della tua ignoranza!
Il dolore sta assumendo proporzioni tali che spero di morire al più presto.
Purtroppo so che ne avrò ancora per molto. La fiamma della vita non
vacilla. Soprattutto non devo muovermi, pago ogni minimo movimento
oltre l’immaginabile. L’orribile svantaggio dell’indignazione è che provoca
sussulti. Gli indignati sono incapaci di immobilità.
Accetta, amico mio. Sì, è a me che parlo. Provare amicizia verso sé stessi
è quello che ci vuole. Provare amore sarebbe sgradevole: l’amore provoca
eccessi che non è sano infliggersi da soli. Per l’odio vale la stessa cosa e in
più è ingiusto. Io mi sono amico, provo affetto per l’uomo che sono.
Accetta, non perché sia accettabile, ma perché soffrirai meno. Non
accettare va bene quando è di qualche utilità: qui non servirebbe a niente.
Non hai forse a disposizione una tripletta vincente? Stai riassumendo le
tre situazioni in assoluto più radicali: la sete, l’amore, la morte. Sei
all’esatta intersezione delle tre. Approfittane, amico mio. Questo verbo è
spregevole. Non posso comunque dire “gioiscine”, avrei l’aria di prendermi
in giro da solo.
Il fatto è il seguente: sto vivendo un’esperienza cruciale, è proprio il caso
di dirlo. Non posso mettere da parte la sofferenza e allora mi tuffo nella
sete, non per sfuggire alla situazione, ovvio, ma perlomeno per pensare ad
altro.
Che sete grandiosa! Un capolavoro di arsura. La lingua si è trasformata in
pietra pomice, la sfrego contro il palato, è abrasiva. Esplora la tua sete,
amico mio. È un viaggio, ti conduce a una fonte, quanto è bella, ascolta, sì,
è una canzone meravigliosa, devi tendere l’orecchio, ci sono musiche al
mondo che bisogna sapersi meritare, questo tenero mormorio mi riempie di
gioia, in bocca sento un certo gusto di pietra. Ci sarà un paese così povero
che nel suo idioma bere e mangiare saranno un unico verbo da impiegarsi
con estrema parsimonia, bere è un po’ come inghiottire sassolini liquidi –
no, questa immagine funziona solo se l’acqua scende goccia a goccia, e nel
mio viaggio l’acqua non stilla ma sgorga potente, io mi sdraio così da
avvicinare la bocca e lei mi ama esattamente come ama la fonte santa.
Bevimi senza limiti, amore mio, che la tua sete ti appaghi senza estinguersi
mai dal momento che questa parola non esiste in nessuna lingua.
Come stupirsi che la sete conduca all’amore? L’innamoramento parte
sempre da un invito a bere qualcosa insieme. Forse perché nessuna
sensazione è così poco deludente. Una gola secca si immagina l’acqua
come un delirio estatico e un’oasi è a prova di qualsiasi attesa. Chi beve
dopo avere attraversato il deserto non si dice mai: “Che cosa
sopravvalutata!” Offrire da bere a chi ci apprestiamo ad amare significa
suggerire che il godimento sarà come minimo all’altezza dello sperato.
Mi sono incarnato in un paese secco. Era necessario che nascessi non
solo là dove regna la sete, ma anche in un luogo martoriato dal caldo.
Per poco che lo conosco, il freddo avrebbe scombinato le carte. Perché
sopisce la sete, ma soprattutto azzera qualsiasi altra sensazione. Chi ha
freddo, ha freddo e basta. Chi muore di caldo è capacissimo di soffrire al
contempo per mille altre cose.
Sono ancora maledettamente vivo. Sudo – da dove viene tutto questo
liquido? Il sangue circola, cola dalle piaghe, il dolore è giunto al culmine,
ho così male che la geografia della pelle si è modificata, ho l’impressione
che le zone più sensibili del corpo siano ormai le spalle e le braccia, questa
posizione è intollerabile, e dire che un essere umano un giorno ha avuto
l’idea della crocifissione, ci ha proprio pensato su… La più grande sconfitta
di mio padre è tutta in questa osservazione: la sua creatura è stata capace di
inventarsi un supplizio di tale portata.
Ama il prossimo tuo come te stesso. Insegnamento sublime di cui sto
professando il contrario. Accetto questa messa a morte mostruosa,
umiliante, indecente, interminabile: chi accetta una cosa simile non si ama
affatto.
A mia discolpa potrei sostenere la tesi dell’errore paterno. Con il suo
progetto, in effetti, ha preso una sonora cantonata. Ma io, come ho potuto
sbagliarmi fino a questo punto? Perché ho aspettato di essere sulla croce per
rendermene conto? Sospettavo qualcosa, certo, ma non al punto da rifiutare
l’affare.
La prima scusa che mi viene in mente è che mi sono comportato come
farebbe chiunque: ho vissuto giorno per giorno senza pensare troppo alle
conseguenze. Mi piace molto questa versione in cui in fondo non sono stato
che un uomo – e quanto ho amato esserlo!
Ahimè, non posso continuare a far finta di non vedere, c’è ben altro
rispetto alla sottomissione a mio padre, qualcosa di peggio, di molto peggio.
L’amicizia che mi sono appena concesso arriva troppo tardi. Se ho accettato
l’indicibile non è unicamente in virtù di un’incoscienza che mi
discolperebbe, ma perché in me circola un veleno comune a tutti: l’odio
verso di sé.
Come ho potuto esserne contagiato? Provo a tornare indietro con la
memoria. Da quando ho saputo a cosa ero destinato, ho preso a odiarmi. Ma
ho ricordi di prima dei ricordi, frammenti in cui non dico io, in cui la
coscienza non mi ha raggiunto e in cui ancora non mi odio.
Sono nato innocente, qualcosa poi si è guastato. Come, lo ignoro. Non do la
colpa a nessuno se non a me stesso. Che errore curioso commettiamo verso
i tre anni. Attribuircene la colpa non fa che aumentare l’odio verso noi
stessi, assurdità supplementare. Nella creazione c’è chiaramente un vizio di
forma.
Ed ecco che, come tutti, rendo mio padre responsabile del mio sbaglio.
La cosa mi dà un grande fastidio. Maledetta sia la sofferenza! Senza di lei
andremmo sempre in cerca di un colpevole?
Operaio dell’ultima ora alla vigna del padrone, tento infine di diventarmi
amico. Occorre che mi perdoni per essermi sbagliato così di grosso. La
difficoltà maggiore è convincermi della mia ignoranza. Davvero non
sapevo?
Una voce interiore mi assicura che sapevo. E allora come ho potuto?
Odiare sé stessi è terribile, ma io che predicavo “Ama il prossimo tuo come
te stesso” sono costretto ad ammettere la logica del mio ragionamento:
come ho potuto odiare gli altri? E odiarli a tal punto?
Questa commedia atroce è stata solo opera del diavolo?
Oh, ne ho abbastanza di lui. Non appena qualcosa va storto, lo
invochiamo. Troppo facile. Nella mia posizione, mi concedo ogni
blasfemia: non credo al diavolo. Credere in lui è inutile. C’è già abbastanza
male sulla terra senza doverne aggiungerne altro.
La folla che assiste al mio supplizio è formata per la maggior parte da
cosiddette brave persone, lo dico senza ironia. Le guardo negli occhi e ci
vedo il male sufficiente per legittimare non solo la disavventura capitata a
me, ma anche tutte quelle passate e future. Perfino lo sguardo di Maddalena
contiene una traccia maligna. Perfino il mio. Non conosco il mio sguardo,
eppure so cosa abita dentro di me: ho accettato la mia sorte, non ho bisogno
di altre prove.
Non accontentarsi di questa spiegazione e chiamare Diavolo quella che è
solo meschinità latente, significa rivestire la nostra miseria di una parola
grandiosa, attribuendo così a quest’ultima un potere mille volte superiore.
Un giorno una donna eccezionale dirà: “Mi fa più paura chi teme il diavolo
del diavolo in persona.” Una frase che dice tutto.
Alcuni diranno che se chiamiamo Dio il bene, è giocoforza attribuire un
nome anche al male. Ma da dove salta fuori che Dio è il bene? Io ho forse
l’aria di esserlo? Vi sembra che mio padre, che ha concepito quanto ho
accettato, sia credibile in questo ruolo? D’altra parte non lo rivendica
affatto. Dice di essere amore. L’amore non è il bene. C’è solo una
intersezione tra i due, e neanche sempre.
E quanto sostiene di essere, lo è poi davvero? A volte è così difficile
distinguere la forza dell’amore dagli altri sentimenti a cui si accompagna.
Mio padre mi ha abbandonato per amore verso la sua creatura. Trovatemi
atto d’amore più perverso.
Non voglio autoassolvermi. A trentatré anni ho avuto tutto il tempo per
riflettere sulla scelleratezza di questa storia. Non è giustificabile in alcun
modo. La leggenda afferma che sto espiando i peccati di tutti gli uomini che
mi hanno preceduto. Quand’anche fosse vero, che ne sarà allora dei peccati
degli uomini che verranno? Non posso usare l’ignoranza come paravento
perché so cosa accadrà. E se anche lo ignorassi, che razza di imbecille
dovrei essere per avere dubbi al riguardo?
D’altra parte, come credere che il mio supplizio possa espiare qualcosa?
La mia infinita sofferenza non cancella nulla del dolore che quei poveretti
hanno sofferto prima di me. L’idea stessa di espiazione è ripugnante per il
suo assurdo sadismo.
Uso la parola cosa apposta. Mi rifiuto di utilizzare qualsiasi altra parola per
dire crocifissione. Risulterebbe troppo elegante e preziosa. Quanto sto
vivendo è laido e volgare. Se almeno potessi contare sul rapido oblio dei
popoli! Ciò che mi opprime di più è sapere che ne parleranno nei secoli dei
secoli, e non per deplorare la mia sorte. Nessuna sofferenza umana sarà mai
oggetto di una glorificazione così colossale. Mi ringrazieranno per questo.
Mi ammireranno per questo. Crederanno in me per questo.
Ed ecco perché non riesco a perdonarmi. Sono il responsabile del più
grande controsenso della Storia, e del più deleterio.
Non posso sostenere la tesi della sottomissione a mio padre. Gli ho
disobbedito più volte. A cominciare da Maddalena: non avevo diritto né alla
sessualità né a innamorarmi. Con Maddalena non ho esitato a infrangere il
divieto. E non sono stato punito.
Ma no, diamine. Faccio davvero ridere a pensare di aver beneficiato
dell’impunità di mio padre infrangendo le sue proibizioni con Maddalena.
In verità, il mio castigo era stato deciso dall’inizio.
Oppure il mio torto è stato quello di crederci. Ho talmente creduto alla
mia condanna da non concedermi nessun’altra possibilità.
Anche se non è più tempo ormai, immaginiamo.
Nell’Orto degli Ulivi mi avrebbe raggiunto Maddalena. Con qualche
bacio mi avrebbe convinto a scegliere la vita. Saremmo fuggiti insieme,
saremmo andati a vivere in una terra lontana, sconosciuti a tutti, e avremmo
condotto laggiù la meravigliosa esistenza della gente normale. Ogni notte
mi sarei addormentato stringendo la mia donna al petto, ogni mattino mi
sarei svegliato accanto a lei. Non esiste felicità paragonabile a una
fantasticheria simile.
A non funzionare in questa versione è che faccio dipendere la mia scelta
da un’altra persona. Cosa mi ha impedito di avere questa idea da solo?
Dovevo soltanto trovare Maddalena e tenderle la mano. Lei mi avrebbe
accompagnato senza esitare.
Non ci ho mai neanche pensato.
Ho compiuto diversi miracoli. Adesso non potrei più. Soffro troppo per
accedere alla scorza. Il potere della scorza mi veniva da un’assoluta
incoscienza. L’eccesso di dolore mi sbarra ormai la strada. Giuro che se
potessi compiere un ultimo miracolo, mi libererei di questa croce.
Razza di sognatore, la vuoi smettere di farti del male? Sì, ce l’ho con me
stesso.
Devo perdonarmi. Perché non riesco?
Perché ci sto pensando. Più ci penso, meno mi perdono.
La riflessione impedisce il perdono.
Devo perdonarmi senza riflettere. Dipende solo dalla mia decisione, non
dall’orrore del mio atto. Devo decidere che è cosa fatta.
Avevo dieci anni, i bambini del villaggio giocavano a buttarsi nel lago
dall’alto di uno strapiombo, per me era impossibile. Un ragazzino mi ha
detto:
– Il segreto è saltare senza riflettere.
Ho svuotato la testa e sono saltato. È passato qualche tempo prima che
mi ritrovassi nell’acqua. Ho adorato quell’esaltazione.
Devo riuscire a svuotare la testa. Creare il nulla là dove imperversa il
rumore. Ciò che chiamano pomposamente “pensiero” in fondo non è che un
acufene.
Ecco.
Mi perdono.
È fatta. È un verbo performativo. Basta dirlo – nel modo giusto, nel senso
assoluto del verbo – e ogni cosa è compiuta.
Mi sono appena salvato e ho dunque salvato tutto l’esistente. Mio padre
lo sa? Sicuramente no. Non ha alcun senso dell’improvvisazione. Non è
colpa sua: per poter improvvisare, bisogna avere un corpo.
Io ne ho ancora uno. Non sono mai stato così incarnato: la sofferenza mi
inchioda al mio corpo. L’idea di lasciarlo mi ispira sentimenti contrastanti.
Malgrado l’immensità del dolore, mi ricordo quanto devo a questa
incarnazione.
Perlomeno la mia testa ha smesso di torturarsi. È un considerevole
sollievo perdermi nello sguardo di Maddalena: sente che ho vinto.
Annuisce.
Da quanto tempo sono su questa croce?
Le labbra di Maddalena abbozzano parole che non riesco a sentire. Sono
indirizzate a me, vedo la loro traiettoria dorata dirigersi verso di me. Il
crepitio di scintille dura più a lungo delle frasi stesse, ricevo il loro urto in
pieno petto.
Affascinato, la imito. Pronuncio parole mute verso di lei, le vedo uscire
da me sotto forma di raggi d’oro e so che lei le incorpora.
Gli altri mantengono la loro aria impietosita. Non hanno capito. Bisogna
riconoscere che la mia vittoria è quasi impercettibile.
Non sono ancora morto. Come arrivare fino in fondo? Per quanto strano,
sento che potrei crollare, e questo significa che ancora non sono crollato.
Per evitare di cedere, ricorro al vecchio metodo: l’orgoglio. Il peccato
d’orgoglio? Se preferite. Nella mia situazione, questo peccato mi sembra
così risibile che me lo perdono in anticipo. Orgoglio, sì: al momento occupo
un ruolo che ossessionerà l’umanità per i prossimi millenni. Che sia tutto un
malinteso, non cambia niente.
Questo punto di osservazione è concesso a una persona soltanto, non che
io sia l’ultimo crocifisso della specie – sarebbe troppo bello – ma
nessun’altra crocifissione avrà mai una risonanza simile. Mio padre ha
scelto me per questo ruolo. È un errore, una mostruosità, ma rimarrà una
delle storie più sconvolgenti di tutti i tempi. La chiameranno la Passione di
Cristo.
Nome calzante: una passione designa qualcosa che si subisce e, per
conseguenza semantica, un eccesso di sentimento a cui la ragione non ha
preso parte.
La deposizione dalla croce è una scena che darà luogo a un gran numero di
rappresentazioni artistiche: la maggior parte di loro testimonierà di questa
ambiguità. Maria ha quasi sempre l’aria di accorgersi di un’anomalia che
non dice. Quanto alla mia estasi, è ogni volta evidente.
Non hanno tutti i torti: anche i meno mistici tra i pittori coglieranno che
la mia morte è una ricompensa. È il mio riposo del guerriero. Che ci sia o
no immortalità dell’anima, come non tirare un sospiro di sollievo per questo
poveretto che ha finalmente smesso di soffrire?
Io che ho accesso alle opere d’arte del mondo intero e di tutti i secoli amo
guardare le deposizioni dalla croce. Non considero neppure di sfuggita le
scene che riproducono la mia crocifissione: mi ricordano il supplizio. Ma
mi commuovo profondamente per le statue o i quadri in cui vedo le mie
spoglie tra le braccia di mia madre. Mi colpisce l’acutezza dello sguardo
degli artisti.
Alcuni, e non i meno noti, hanno percepito il ringiovanimento di mia
madre. Nessuna delle Scritture ne fa menzione, forse perché non lo si
ritiene importante. La mater dolorosa ha ben altre gatte da pelare delle sue
rughe, d’accordo.
Di solito sono i defunti ad apparire ringiovaniti sul letto di morte. Non è
il mio caso. In effetti, dopo una crocifissione, si tende sempre a sembrare un
po’ sciupati. Tra noi si direbbe quasi che sia stata mia madre a beneficiare
della famosa giovinezza post mortem. Mi piace molto il legame che c’è tra i
nostri corpi.
Nella Pietà all’entrata della basilica di San Pietro, Maria sembra avere
sedici anni. Potrei essere suo padre. Il rapporto tra noi è talmente invertito
che mia madre è diventata la mia orfana. Comunque sia, le rappresentazioni
della mater dolorosa sono sempre inni all’amore. La madre riceve il corpo
di suo figlio con tanto più trasporto sapendo che quella sarà l’ultima volta.
Potrà raccogliersi sulla sua tomba ogni giorno, ma sa che nulla vale
quanto stringerlo a sé: sì, perfino con un corpo morto, tutto l’amore del
mondo non riesce mai a esprimersi così bene come attraverso un abbraccio.
Sono qui. Non ho mai smesso di essere qui. In un’altra maniera, certo, ma
sono qui.
Non c’è bisogno di credere in qualcosa per sondare il mistero della
presenza. È esperienza comune. Quante volte siamo qui senza essere
presenti? Non è necessario sapere a cosa sia dovuto.
“Concentrati” diciamo. E il vero significato è: “Richiama la tua
presenza.” Quando parliamo di un allievo indisciplinato descriviamo il
fenomeno di una presenza che si disperde. Perché questo accada basta un
minimo di distrazione.
La distrazione non è mai stata il mio forte. Essere Gesù forse è proprio
questo: qualcuno presente per davvero.
Mi è difficile fare paragoni. Ho accesso soltanto alla mia esperienza, in
questo sono come tutti gli altri. La mia cosiddetta onniscienza mi lascia in
realtà all’oscuro di parecchie cose.
Il fatto è questo: qualcuno presente per davvero non lo si incontra tutti i
giorni. La mia tripletta vincente – amore, sete, morte – insegna a ben
guardare anche tre modi di essere incredibilmente presente.
Quando ci innamoriamo, siamo presenti fino al parossismo. In seguito,
non è l’amore a venire meno, è la presenza. Se volete amare come il primo
giorno, dovete coltivare la vostra presenza.
L’assetato è presente al punto da diventare fastidioso. Non c’è bisogno di
chiosare sull’argomento.
Morire è l’atto di presenza per eccellenza. Non mi capacito dell’enorme
quantità di persone che si augura di morire nel sonno. L’errore è tanto più
profondo in quanto morire dormendo non garantisce alcuna incoscienza. E
perché poi vogliono perdersi il momento più interessante della loro
esistenza? Per fortuna nessuno muore senza rendersene conto, per il
semplice motivo che è impossibile. Perfino l’uomo più distratto viene
immediatamente riportato al presente nell’ora del trapasso.
E dopo? Nessuno lo sa.
Quanto a me, io sento di essere qui. Alcuni affermeranno che è
un’illusione della coscienza. Eppure tutti abbiamo notato l’estrema presenza
dei morti. Poco importa in cosa crediamo. Quando qualcuno muore, è
incredibile quanto si pensi a lui. Per molte persone è addirittura l’unico
momento in cui si pensa a loro.
In seguito, la cosa tende a esaurirsi. Oppure no. Ci sono riapparizioni
straordinarie. Individui che tornano in mente dieci, cento, mille anni dopo il
decesso. Possiamo negare che questa sia una forma di presenza?
Quello che vorremmo sapere è se questa presenza è cosciente. Il morto sa
di essere qui? Io direi di sì, ma dato che sono morto, si potrebbe obbiettare
che sto portando acqua al mio mulino. E d’altra parte, ammettiamo pure che
io non sia un morto come tanti.
Ancora una volta, non ho certezze. Non sono mai stato un morto diverso
da me. Forse tutti i morti sentono la propria presenza quanto io sento la mia.
Esistono svariate versioni sul resto della storia. Ecco la mia: a forza di
passeggiare dove ne avevo voglia, ho incontrato le persone che amavo.
Anche qui, cosa c’è di più naturale? Non avevo alcun desiderio di andare in
luoghi che non mi piacciono, né di far visita a individui sgradevoli.
Come spiegare che mi abbiano visto e sentito? Non lo so. Non è un
fenomeno comune, ma non è neppure così unico. Esistono altri casi nella
Storia di morti che sono stati visti, sentiti, e forse anche qualcosa di più. Ci
sono stati casi celebri e casi sconosciuti. Se volessimo censire tutte le
esperienze di contatti sconvolgenti con i defunti, dovremmo riempire
cataloghi su cataloghi.
Chiedo a ogni uomo di testimoniare, chiunque abbia perduto un proprio
caro ha fatto esperienza di un momento inesplicabile. Alcuni hanno persino
epifanie con esseri che non hanno mai conosciuto. In verità, non esistono
limiti a quella che chiamiamo vita.
Questo non impedisce e non impedirà a un’ampia percentuale di persone
di affermare che dopo la morte non c’è niente. È un’idea che non mi
sciocca, se non fosse per la sua perentorietà, e soprattutto per il senso di
superiore intelligenza di cui si fregiano i suoi sostenitori. Come stupirsene?
Sentirsi più intelligenti degli altri è sempre sintomo di stupidità.
In verità vi dico: neppure io sono più intelligente degli altri. E non vedo
nemmeno dove stia l’interesse di rivendicarlo. Non ho fantasticherie di
uguaglianza tanto quanto non ne ho di superiorità, entrambe le cause mi
sembrano vane, la qualità di un essere non è misurabile. Esattamente come
non è misurabile il grado attivo o passivo di quello che viene ritenuto il mio
ultimo miracolo: ho resuscitato me stesso o sono resuscitato? Se analizzo
quanto mi è successo, direi che sono resuscitato. Ho soltanto lasciato che le
cose facessero il loro corso. Il terzo giorno? Non ci ho fatto caso. Il mio
passaggio dalla vita alla morte ha comportato un significativo cambio di
percezione, specie per tutto ciò che concerne la durata. Dal decesso in poi,
il mio destino è stato diverso da quello degli altri? Non ho mezzi per
saperlo, ma posso intuire di non essere il solo ad aver avuto una simile
esperienza.
Uno scrittore tra i più grandi dirà che il sentimento d’amore scompare con
la morte per trasformarsi in amore universale. Ho voluto verificarlo
andando da Maddalena. Ancora prima che lei si accorgesse della mia
presenza, ritrovarla mi ha molto turbato. Il ricordo del mio corpo l’ha presa
tra le braccia, lei mi ha stretto a sé con frenesia, il nostro fervore è rimasto
immutato.
Lo stesso scrittore tratta questo tema in una novella dal titolo La fine
della gelosia. Il narratore, morbosamente geloso, guarisce dalla sua malattia
nell’istante in cui muore, smettendo al contempo di essere innamorato.
Questo scrittore ha una concezione molto particolare della gelosia: ai suoi
occhi costituisce la quasi totalità dell’amore.
Dal momento che sono stato anche un uomo come tanti, mi sono
ricordato che quando ero vivo l’idea di Maddalena insieme a un altro mi era
sgradevole. Adesso devo riconoscere che tale prospettiva mi è indifferente.
Quindi lo scrittore ha ragione: la gelosia non lascia tracce dopo la morte.
Però ha anche torto, almeno per quel che mi riguarda: la gelosia e l’amore
non sono completamente sovrapponibili.
Se mi sono manifestato a coloro che amo, è più per onorare il messaggio
di mio padre che per un mio bisogno profondo. Ecco un’altra differenza
importante rispetto alla vita: l’amore non richiede più grande necessità di
contatto. Soprattutto se ci si è lasciati senza malintesi o inquietudini. Io non
dubito dell’amore di Maddalena, so che lei non dubita del mio: perché
moltiplicare gli incontri? Ciò che è vero per lei lo è a fortiori per gli altri.
Non si tratta di freddezza. È una questione di fiducia. Certo, mi ha
commosso rivedere alcuni tra i miei discepoli e amici. La loro felicità nel
trovarmi così bene si è riverberata anche su di me. Cosa c’è di più naturale?
Eppure mentre vivevo questi momenti di festa, avevo fretta che finissero.
L’eccesso di tensione mi era un po’ faticoso. Avevo voglia di starmene in
pace. Sentivo che i miei amici richiedevano la mia presenza e ho cercato di
accontentarli. Ma l’ho fatto per loro, non per me.
Se rimproverate al vostro adorato defunto di non manifestarsi, non
dimenticate che siete voi ad averne bisogno e non il contrario. Quando
amiamo davvero qualcuno, pretendiamo che si sacrifichi per noi? La prova
d’amore più bella che si possa offrire non è forse permettergli di
abbandonarsi a un’egoistica tranquillità? Richiede meno sforzo di quanto
non si creda, basta un po’ di fiducia.
In verità, se il vostro caro estinto tace, rallegratevene. Significa che se n’è
andato nel modo migliore. Che vive bene la sua morte. Non saltate alla
conclusione che non vi ami. Vi ama nella maniera più bella: non
sforzandosi di fare per voi spiacevoli acrobazie.
È dolce essere morti. Tornare da voi è fastidioso. Immaginate: è inverno,
ve ne state sdraiati sotto le coperte, riposando in un delizioso tepore. Anche
se adorate i vostri amici avreste voglia di uscire al freddo per dirglielo? E se
siete l’amico, vorreste davvero costringere chi vi manca ad affrontare il
disagio del gelo per rassicurarvi?
Se amate i vostri morti, abbiate tanta fiducia in loro da rispettarne il
silenzio.
Nei miei confronti hanno parlato di abnegazione. D’istinto è un concetto
che non amo. Il mio sacrificio è stato già un grande errore: bisogna davvero
attribuirmi anche la virtù che ne è stata la causa?
Non vedo in me la minima traccia di tale disposizione. Le persone
toccate da abnegazione dicono con una fierezza che trovo sconveniente:
“Oh, per me non ha importanza, io non conto.”
O mentono – e perché inventarsi una menzogna così assurda? – oppure
dicono la verità, ed è una cosa indegna. Il desiderio di non contare nulla non
è che umiltà fuori luogo, vigliaccheria.
Ognuno di noi conta in proporzione così enorme da risultare
incalcolabile. Niente è più importante di ciò che si pensa essere
infinitesimo.
L’abnegazione presuppone il disinteresse. Io non posso provare
disinteresse perché sono una leva. Il contagio è la mia missione. Vivi o
morti, tutti abbiamo la possibilità di diventare leve. Non esiste potere più
rilevante.
L’inferno non esiste. I dannati sono quelli che trovano sempre qualcosa da
ridire. Tutti ne abbiamo incontrato almeno uno nella vita: quello
perennemente contrariato, l’insoddisfatto cronico, l’invitato a un sontuoso
banchetto che nota solo la pietanza mancante. Perché dovrebbero privarsi
della loro passione per le lamentele nel momento di morire? Hanno tutto il
diritto di fallire la propria morte.
I defunti hanno anche l’opportunità di incontrarsi tra loro. Noto che se ne
astengono quasi sempre. Per quanto intensa sia stata la loro amicizia o il
loro amore, quando sono morti non sembrano avere più granché da dirsi.
Non so perché parlo di questo fenomeno in terza persona, in fin dei conti
vale anche per me.
Non si tratta di indifferenza, ma di un’altra maniera di amare. È come se i
morti fossero diventati lettori: il rapporto che intrattengono con l’universo è
simile alla lettura. È un’attenzione calma, paziente, un lento e ponderato
decifrare. Una condizione che esige solitudine – una solitudine propizia alla
folgorazione. Su un piano generale, i morti sono meno stupidi dei vivi.
E qual è questa lettura che ci intrattiene dopo il trapasso? Il libro si
costituisce in funzione del nostro desiderio, è quest’ultimo che genera il
testo. Ci troviamo nella lussuosa situazione di essere a un tempo l’autore e
il lettore: uno scrittore che crea per il suo personale incanto. Nessun
bisogno di penna o tastiera, scriviamo sul tessuto della nostra stessa delizia.
Se non siamo in cerca d’incontri, è perché ci ricordano la nostra
individualità di quando eravamo vivi, a cui non teniamo affatto. Quando mi
ha trovato, Giuda mi ha chiamato per nome, il che mi ha sorpreso.
– Hai dimenticato che ti chiami Gesù?
– Dimenticare non è il verbo corretto. Non sono ossessionato dal mio
nome, ecco tutto.
– Non sai quanto sei fortunato. Io non penso che a questo: ti ho tradito.
Sono il cattivo della tua storia.
– Se ti dà fastidio pensa ad altro.
– E a cos’altro potrei pensare?
– Non hai nemmeno un pensiero felice dentro di te?
– Non capisco la tua domanda. Io sono colui che ha tradito il Cristo.
Come vuoi che non ne sia ossessionato?
– Se ti fa piacere, potrai rimuginarci sopra nei secoli dei secoli.
– Vedi! Mi stai incoraggiando ad avere rimorsi!
Non avevo affatto detto questo. Accorgermi che i malintesi sopravvivono
alla morte mi ha provocato una curiosa emozione.
Cosa mi rimane dell’essere stato un uomo chiamato Gesù?
Sul letto di morte, gli uomini dicono spesso: “Se potessi tornare
indietro…” e precisano cosa rifarebbero o cosa cambierebbero. Questo
atteggiamento dimostra che sono ancora vivi. I morti non sentono né
approvazione né rimorso per quanto hanno o non hanno fatto. Guardano la
loro vita come se fosse un’opera d’arte.
Al museo, davanti al quadro di un grande autore nessuno pensa: “Io al
posto di Tintoretto avrei fatto così.” Contempliamo, prendiamo atto. E
anche se un tempo siamo stati quel famoso Tintoretto, non diamo giudizi,
ma semplicemente ammettiamo “mi riconosco in quella pennellata”. Non ci
poniamo la questione se abbiamo fatto bene o male e non veniamo mai
sfiorati dal pensiero che avremmo potuto comportarci altrimenti.
Perfino Giuda. Soprattutto Giuda.
Non ripenso mai alla crocifissione. Non ero io.
Contemplo solo ciò che ho amato, ciò che amo. La mia tripletta vincente
funziona ancora. Anche se per me morire non è più all’ordine del giorno, ne
è valsa comunque la pena. Morire è meglio della morte, così come amare è
molto meglio dell’amore.
La grande differenza tra me e mio padre, è che lui è amore e io amo. Dio
dice che l’amore è per tutti. Io che amo so bene che è impossibile amare
tutti allo stesso modo. È una questione di respiro.
In francese, è una parola troppo facile. In greco antico respiro si dice
pneuma: termine brillantemente coniato per indicare che il respiro non è
un’attività poi così scontata. Il francese, lingua dello humour, conserverà
nella vita quotidiana solo il termine pneumatico.
Quando abbiamo a che fare con qualcuno con cui sappiamo già che non
funzionerà, diciamo che a naso non ci piace. Questa impressione olfattiva ci
impedisce di respirare in presenza dell’importuno.
Il colpo di fulmine è l’esatto contrario: all’inizio ci manca il respiro e poi
i polmoni si dilatano all’infinito. Proviamo il bisogno disperato di annusare
la persona il cui odore ci sconvolge così nel profondo.
Per quanto sia morto, provo ancora la vertigine del respiro. L’illusione
recita la sua parte alla perfezione.
Il mio unico rimpianto è la sete. Lo slancio che ci spinge a bere mi manca
più dell’atto stesso. Tra marinai si è soliti dire di uno che beve come una
spugna che “beve senza sete”. Con ogni evidenza è un insulto che non ho
mai corso il rischio di meritare.
Per provare la sete, occorre essere vivi. Io ho vissuto così intensamente
da morire assetato.
Forse è proprio questa la vita eterna.
Mio padre mi ha inviato sulla terra per portare la fede. Fede in cosa? In lui.
Anche se si è degnato di includermi all’interno del concetto con l’idea di
trinità, trovo tutto allucinante.
L’ho pensato quasi subito. D’altra parte, in quante situazioni ho ripetuto a
questa o quella persona in difficoltà: “La tua fede ti ha salvato”? Mi sarei
permesso di mentire a questi infelici? La verità è che ho cercato di giocare
d’astuzia con mio padre. Mi sono accorto che la parola fede ha una strana
proprietà: diventa sublime a condizione di essere intransitiva. Il verbo
credere obbedisce alla stessa legge.
Credere in Dio, credere che Dio si sia fatto uomo, avere fede nella
resurrezione, sono cose che suonano strano. Quanto stride all’orecchio,
stride anche al pensiero. Queste frasi suonano stupide perché di fatto lo
sono. Siamo allo stesso livello terra terra della scommessa di Pascal:
credere in Dio significa puntare tutte le nostre fiches su di lui. Il filosofo si
spinge perfino a spiegarci che, qualsiasi numero esca, a questa roulette
vinciamo comunque.
E io, in tutto ciò, a cosa credo? All’inizio ho accettato questo progetto
demenziale perché credevo nella possibilità di cambiare gli uomini.
Abbiamo visto come è finita. Se sono riuscito a cambiarne tre, è già tanto. E
del resto, che convinzione stupida! Bisogna proprio non sapere niente di
niente per pensare di poter cambiare qualcuno. Le persone cambiano solo se
la cosa parte da loro, ed è rarissimo che lo vogliano davvero. Nove volte su
dieci il loro desiderio di cambiamento riguarda gli altri. La frase “questa
situazione deve cambiare”, che abbiamo sentito ad nauseam, vuol dire né
più né meno che “la gente” dovrebbe cambiare.
Io sono cambiato? Sì, certo. Non tanto quanto avrei voluto. Potete fidarvi
del fatto che ci ho provato seriamente. Ammetto la mia irritazione nei
confronti di quanti ripetono senza sosta di essere cambiati mentre si sono
limitati solo a desiderarlo.
Ho fede. Una fede senza oggetto. Questo non significa che non creda in
nulla. Credere è bello solo nel senso assoluto del verbo. La fede è
un’attitudine e non un contratto. Non ci sono caselle da barrare. Se
conoscessimo la natura del rischio in cui consiste la fede, questo slancio
non sopravvivrebbe al calcolo delle probabilità.
Come sappiamo di avere fede? È come per l’amore, lo sappiamo e basta.
Non abbiamo bisogno di nessuna riflessione per determinarlo. Nel
repertorio gospel c’è una frase – “And then I saw her face, yes I’m a
believer” – che mostra esattamente come fede e innamoramento si
somiglino: vediamo un volto e all’improvviso tutto cambia. Non abbiamo
neppure contemplato questo volto, lo abbiamo appena intravisto. Questa
epifania è stata sufficiente.
So che per molti quel volto sarà il mio. Mi convinco che non ha alcuna
importanza. Eppure, a voler essere onesto, e voglio esserlo, mi lascia senza
fiato.
Bisogna accettare questo mistero: non potete sapere cosa vedono gli altri
nel vostro volto.
Ma c’è una contropartita altrettanto misteriosa: mi guardo allo specchio.
Ciò che vedo nel mio volto a nessuno è dato saperlo. Questa si chiama
solitudine.
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