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L’UOMO SENZA QUALITA’

INIZIO

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Parte prima.

Una specie di introduzione

1. Dal quale, eccezionalmente, non si ricava nulla

Sull'Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo


incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi
verso nord. Le isoterme e le isotere si comportavano a dovere. La temperatura dell'aria era in
rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come
con quella del mese più freddo, e con l'oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del
sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell'anello di Saturno e molti altri importanti
fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo
nell'aria aveva la tensione massima, e l'umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che
quantunque un po' antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d'agosto dell'anno
1913.

Le automobili sbucavano da vie anguste e profonde nelle secche delle piazze luminose. Il
nereggiare dei pedoni disegnava contorni sfioccati. Nei punti dove più intense linee di velocità
intersecavano la loro corsa sparpagliata i cordoni si ingrossavano, poi scorrevano più in fretta e
dopo qualche oscillazione riprendevano il ritmo regolare. Centinaia di suoni erano attorcigliati in un
groviglio metallico di frastuono da cui ora sporgevano ora si ritraevano punti acuminate e spigoli
taglienti, e limpide note si staccavano e volavano via. A quel frastuono, senza che se ne possano
tuttavia descrivere le caratteristiche, chiunque si fosse trovato lì ad occhi chiusi dopo una
lunghissima assenza avrebbe capito di essere nella città capitale di Vienna, residenza della Corte.
….
Non diamo dunque particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era
costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose ed eventi,
e , frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battere ritmico e
dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell’insieme somigliava ad una vescica
ribollente posta in un recipiente materiato di case ,leggi regolamenti e tradizioni storiche. Le due
persone che in essa percorrevano una strada larga ed animata non avevano naturalmente questa
impressione. Si vedeva che appartenevano ad una classe sociale privilegiata, erano signorili nel
vestiario, nel contegno e nel modo di conversare, portavano le iniziali del proprio nome
significativamente ricamate sulla biancheria; e similmente, cioè non in modo visibile dall’esterno
ma nella raffinata biancheria della loro coscienza , essi sapevano chi erano, e sapevano che una
città capitale e residenziale era appunto il posto adatto per loro.

Il tempo e lo spazio di un romanzo mondo.


Le formule di significazione testuale dell’inizio sono in genere cose come “C’era una volta…” , o
“cantami, Diva, del Pelide Achille l’ira…”. Servono al lettore per capire in quale tipo di Mondo sta
per entrare: una fiaba, un’epos…
Il testo (qualunque testo) è un vero e proprio Mondo che di fatto si propone come analogo di quello
quotidiano e materico: ma con la differenza fondamentale che è ‘artificiale’, e che ce ne sono tante
di modalità di costruire mondi, come nel caso dei giochi.
La maniera più efficace di aiutare il lettore implicito ad entrare senza equivoci in quel particolare
mondo di finzione è il ricorso a formule stereotipe che segnalano appunto il particolare codice
simbolico e formale con cui si costruisce quel testo.
Col realismo moderno queste formule sono state sostituite da introduzioni che in tono saggistico
spiegano al lettore il modo in cui è emerso dal nulla quel libro: si dà per scontato che il patto
lettore / lettore sia necessario, ma si dà anche per scontato che il lettore laico non stia ad aspettar
miracoli e che con lui bisogna condividere una visione del mondo, una intenzione culturale, un
Mondo appunto.
Col Modernismo si sottolinea che anche questa procedura simula una oggettività ‘real’ che non è
data da nessuna parte.
Quindi Musil si limita a ‘citare’ il topos moderno per destrutturarlo: l’introduzione certo c’è, ma non
è un testo saggistico, bensì l’inizio della narrazione. Il lettore, sorpreso dall’assenza di quel che le
parole sembrano promettere (Introduzione) , è costretto a ritornare sul testo, rileggerlo e darsi il
compito di riconoscere l’introduzione nel primo lacerto narrativo dell’opera. Come a dire: legge un
racconto, ma deve andar oltre la trama, per riconoscervi il Modello teorico che in generico è
proposto nelle introduzioni.

In effetti ne L’uomo senza qualità, al posto del “C’era una volta” che rinvia ad uno spaziotempo
fantastico, il lettore trova indicazioni precise (ma sarcastiche) sul Tempo (una data precisa
addirittura) e sul Luogo (una non ben precisata capitale europea).
Solo che questi due topoi vengono dilatati in modo che tra le righe si coglie davvero un contro
canto, un modello ‘teorico’, un Mondo appunto che appena appena inizia a proporsi e lentamente
va costruendosi nel corso delle pagine a seguire.
Il lettore accorto a cui pensa l’autore è, probabilmente, così abituato a fondare sulle ‘forme’ la sua
lettura delle cose raccontate che dovrebbe essere capace di avvertire un che di parodistico in queste
prime righe.

Andiamo con ordine, dunque.

Prima il Tempo: c’è proprio una data ‘realistica’; non solo è indicato un mese dell’anno ma
addirittura un anno storico preciso (il 1913, che nel primo dopoguerra doveva suonare come un
segno di ‘prima della fine’); ma la notazione banale (la data) arriva in effetti dopo varie righe in cui
chi scrive si diffonde a dare (DATA) informazioni molto tecniche su parametri che sono in uso nei
territori specialistici dei climatologi e dei geografi, informazioni analitiche ed enfatiche perfino, che
stanno a giocare sul fatto che il reale delle cose che accadono per l’uomo è alla fin fine una
questione di codici simbolici: quello utilitario e rapido dei pensieri veloci della sopravvivenza, che
procedendo per sintesi e approssimazione, consentono di risparmiare energia; e quello razionale e
lento dei pensieri lenti dell’analisi, che procedendo per argomentazioni consentono di interpretare e
prevedere e controllare il divenire. In tal modo il problema che viene emergendo sotto sotto è
proprio quello della codificazione in quanto tale. La verità, alla fine, la dice il pensiero lento (con la
sua ambizione positivistica di ‘limitazione del campo’ , di trasformazione del Non Finito in un
Sistema di Sistemi Esperti) o quello veloce del Senso Comune, della gente ‘che non ha studiato’? per
noi lettori postmoderni ‘che intendono essere colti’, è chiaro che sullo sfondo va posto il dato, ormai
scontato, della cosiddetta ‘crisi dei fondamenti’ che tra fine ‘800 e inizio ‘900 travolge le certezze
dei secoli passati su concetti come ‘verità’ e ‘conoscenza’. E su questo sfondo è lecito ipotizzare
come Musil stia semplicemente dando una sua Forma particolare alla forma ‘moderna’ del narrare
che ha accompagnato per qualche secolo l’affermazione della cultura occidentale (Cartesio, Leibniz
ecc. ecc.).
Il suono infine, anzi il rumore per dare al tempo la sua dimensione ‘umana’ non naturale. In
sostanza la ‘forma’ della descrizione non è quella cartesiana del top- down ma quella empirista del
bottom-up: prima i puntini poi l’immagine che risulta dall’unione dei puntini. Non la Linea Diritta,
ma la Rete

Qualcosa di simile avviene con lo Spazio: nemmeno in questo caso Musil se la sbriga secondo la
maniera moderna dell’efficacia (cioè della velocità) , dando un nome specifico di una località reale,
e via poi con gli eventi; anche la descrizione dello spazio procede con lenta aggregazione di dati,
quasi per mescolanza. Come avverte fin dal titolo del capitolo (in cui eccezionalmente non avviene
nulla), Musil rallenta ancora la narrazione, dilata i termini convenzionali del romanzo moderno per
spostare l’attenzione del lettore sugli elementi che, nelle pratiche realistiche tipiche, vengono di
fatto ignorate. Dire ad esempio un nome di città è sì un atto intenzionalmente ‘realistico’ ma di
fatto quel nome consente al lettore di sorvolare sulla specificità del luogo di cui si sta per parlare (di
fatto lo si lascia libero di evocare attraverso quel ‘suono’ i contenuti particolari che sono depositati
– o meno – nella sua memoria). Nascondendo all’inizio questa denominazione, che consentirebbe di
avviare immediatamente l’attenzione sui personaggi e sull’azione, Musil obbliga il lettore a prender
atto del ‘modello’ spaziale che connota una metropoli contemporanea, indipendentemente dagli
stereotipi con cui pigramente la (ri)conosce: non le linee geometriche della mente razionale (magari
quelle di una mappa turistica che ha di fatto guidato il viaggiatore in cerca di elementi isolati) , ma
le ingarbugliate matasse di forze indistinte e indistinguibili che attraversano i vari campi slabbrati di
cui è costituita una metropoli. Una città-metropoli, già all’inizio del XX secolo, non solo ormai non
ha più mura che separino nettamente il Dentro (Mondo) dal Fuori (Abietto), ma risulta una
mescolanza informe di frammenti ed asimmetrie, un Sistema aperto e dinamico, di fatto
inconoscibile e incontrollabile, un Disordine lontano definitivamente dalla presunta capacità di
Armonia e Ordine celebrata dalla civiltà moderna europea. Un Non Finto Sistema Complesso
dunque che contiene al suo interno la Negatività che la Razionalità Cartesiana semplicemente pone
all’esterno dell’Ordine.

Le persone (anzi i personaggi) non possono non essere determinati da queste coordinate di sfondo.
Non sono Soggetti ontologicamente Forti, separati dalla materialità più o meno in divenire
d’intorno, ma Soggetti – Maschere (persone davvero) che, muovendosi dentro quella vischiosità,
hanno di fatto un solo modo per disincagliarsene: eliminare per quanto possibile le prospettive
assolute del Futuro e limitare l’attenzione allo spazio limitato che percepiscono nella loro
sopravvivenza, attaccandosi quindi alle proprie convenzioni sociali (di cui percepiscono sempre più
la convenzionalità precaria) come se fossero leggi ontologiche. Questo ’autoriferimento si realizza
allora soprattutto nelle forme esteriori del vestire, del gestire, del parlare. Insomma nel ‘mostrare’
all’esterno (a nessuno in particolare, a tutti in generale) quello che si ha intenzione di essere
(magari ancora illudendosi che quella ‘intenzione’ corrisponda al ‘profondo’ – che non c’è): l’intimo
(l’interiorità) in questa scena da ‘passeggio’ è quindi solo la biancheria, non gli abissi morali o
filosofici dell’uomo con qualità. E il dispositivo ‘realistico’ tradizionale del ‘narratore onnisciente’
viene introdotto proprio per consentire al lettore di ‘guardare’ al di sotto delle vesti di superficie, e
spiare in modo complice proprio ‘quello che non si vede’ (ma c’è!)

Infine l’incontro con l’Altro avviene in forma di neutra registrazione del singolo evento, che
conferma la separazione del Finito (Loro) dal Non Finito (l’Altro).
C’è un incidente: oggi sappiamo dare una denominazione a questa casualità, addirittura possiamo
indicarlo come sintomo del particolare ordine che ‘emerge’ dalla intricata rete di correlazioni di
sistemi di cui è fatta la realtà (“emergenza” per l’appunto.
Dall’incidente consegue una serie di effetti non prevedibili ma statisticamente possibili: i passanti
semplicemente si incuriosiscono, perché l’homo sapiens – a differenza dell’animale- si fa domande
(cos’è successo?) sulla spinta dell’archetipo problema di fondo (che cosa c’è alla fine della mia vita?
E di tutto? Cos’è la morte?) di voler capire in che direzione stanno andando le cose.
Regolarmente dopo la prima casuale adunata in forma di sciame, ci si allontana, come fanno i due
protagonisti messi in scena da Musil, una volta che si sia ricondotto il non previsto al previsto. Si
cataloga l’accaduto, gli si dà un nome, ed allora tranquillamente recuperata la sensazione di
‘ripetizione’, del movimento che porta al già accaduto, si torna al movimento senza direzione della
passeggiata.
I due sono – per così dire – dei flaneur, che si muovono, grazie alla loro classe sociale, per le strade
non sotto l’urgenza della funzionalità (un affare, un lavoro, un problema da risolvere) ma
semplicemente per ‘riempire il tempo’ ( ovvero il Vuoto che sta li sempre a dare sostanza ontologica
alla serie di gesti e riti.
Sono in pratica, degli esteti che per dare senso alla esistenza, si accontentano dello Stile: non si
danno pena del ‘cosa’ fare, ma del ‘modo’ in cui farlo. La metropoli disordinata è tutt’intorno, ma
essi sono capaci di muoversi al suo interno con le linee consapevoli del ‘gusto’. L’Altro è
semplicemente un incontro che non suscita sensi di responsabilità, ma solo una leggera agitazione
perché sempre portatore del Rischio del Non previsto. Non ci si pone problemi sulla sua identità (Chi
è?) né sulla qualità della sua Esistenza (ha problemi?). Gli si passa- vive Accanto, a patto che non
invada il territorio della propria privacy.

Insomma la crisi della persona, dell’homo oeconomicus a favore dell’homo psycologicus, che con la
‘mente piatta’ si limita a percepire del reale solo quanto entri in relazioni con proprio sé.
Passeggiano senza fine utile, se non mettere in mostra (a sé prima ancora che agli altri) la propria
Differenza Stilistica: il disordine dell’incidente del traffico (il ‘rumore’ che disturba il ‘segno’ del
codice) non vale a modificare il loro tragitto, la loro relazione con le cose.
Si mossero indietro esitanti.. alla fine una serie di rilevazioni statistiche che danno la possibilità di
inquadrare ‘avvenimento nella casella ordinata delle conoscenze che fanno andare avanti il mondo
nel migliore dei Modi Possibile,

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