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GESTIONE DELLE EMERGENZE IDROGEOLOGICHE 6 CFU

Il corso si focalizza molto sulla Gestione delle Emergenze e su come le Emergenze sono inserite
all’interno del sistema di Protezione Civile Nazionale. In questo aspetto si farà particolare attenzione
a quello che è il nuovo codice della Protezione Civile che definisce molto bene il ciclo della gestione
delle emergenze.

Il corso è di 6 cfu ed è organizzato in 32 ore frontali e 20 ore di laboratorio di informatica. Inoltre, è


prevista sicuramente un uscita presso la sala operativa della Protezione Civile di Regione Lombardia
e anche presso quella di Milano (sala interforza istituita in Expo 2015). In genere le uscite vengono
fatte nel mese di maggio nelle ore di laboratorio per evitare sovrapposizioni con altri corsi.

Per l’esame si richiede la creazione di una relazione su un tema che non deve per forza essere legato
agli aspetti del piano di emergenza, ma deve essere un tema che riguarda uno degli aspetti trattati nel
corso e la logica (sviluppare argomento dal proprio punto di vista).

Da quest’anno la Bicocca ha fatto una convenzione con LARES Lombardia che è un’associazione di
volontariato che opera nel campo della protezione civile; essa è un’associazione di livello nazionale
che ha ramificazioni regionali. Essa è riconosciuta nel registro di Regione Lombardia e quindi è
titolata a erogare corsi anche di formazione. La frequenza al corso di gestione delle emergenze
idrogeologiche permette di acquisire la partecipazione al corso A0-Corso base di protezione
civile.

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Introduzione

I processi naturali che siano terremoti, alluvioni, frane e attività vulcanica hanno generato e generano
una serie di problematiche sul territorio e
quindi anche contro le persone e nella figura
di seguito viene dato un totale di decessi
legati a questi vari processi naturali. La
suddivisione ci dice solo che tali processi
agiscono in modo diverso sull’uomo.
Sicuramente i terremoti sono quelli con
maggiore impatto, poi si hanno le tempeste
e le T estreme e le alluvioni; mentre le frane
e attività vulcanica e incendi sono
decisamente più ridotti come impatto
sull’uomo. Esiste addirittura un
International Disaster Database che è un registro internazionale di disastri ambientali.

Se consideriamo il nostro territorio (Italia) nella suddivisione geografica fisica (montagne, collina e
pianura) e se guardiamo la suddivisione in funzione delle regioni, si nota che si hanno regioni come
la Valle d’Aosta o Trentino che sono molto montane mentre altre meno. Quindi esistono una serie di
caratteri fisio-grafici che espongono il territorio nazionale a questi tipi di processi naturali. Inoltre,
sappiamo che l’ISPRA ha suddiviso il territorio nazionale in base alla criticità e si nota che più della
metà della nazione è a criticità elevata.

Il territorio nazionale ha una superficie di 301.000 Kmq di cui il 42% collinare, il 35% montana e il
23% pianura. Si ha una densità di popolazione di 189 ab/Kmq. Queste caratteristiche ci fanno capire
quanto il nostro Paese sia esposto a disastri naturali. Infatti, se andiamo a vedere nel passato troviamo
un lungo elenco di eventi con decessi: si parte dal 1948 in Piemonte, 1949 in Campania, 1951 in
Calabria e Sicilia, nov. 1951 in Polesine, 1953 Calabria, 1954 Salerno; cioè si osserva come ci sia
una certa ripetizione di questi eventi che ci fanno dire che non sono a carattere eccezionale, ma che
rientrano nella normalità. Inoltre, è utile fare una valutazione temporale, ovvero tenere conto del mese
in cui avvengono tali eventi (settembre, ottobre e novembre). Altri eventi rilevanti sono: Vajont nel
1963, Sarno 1994, Piemonte 1968 e 2000, Modena 2014. Dal punto di vista statistico ci sono circa 40
morti all’anno per alluvioni e frane.

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Se teniamo conto anche delle precipitazioni avvenute nel corso degli eventi sopra citati notiamo che
esiste una criticità in seguito a precipitazioni concentrate in un arco temporale breve. La relazione tra
quantità di pioggia e arco temporale sarà fondamentale quando parleremo di previsione e prevenzione
alle catastrofi e quindi gestione del rischio e delle emergenze. Poiché, le alluvioni derivano in seguito
a precipitazioni, sarà importante la parte della previsione della quantità di pioggia e di quanto durano
risulta fondamentale.

Una data che ricorre negli eventi alluvionali è il 4 novembre semplicemente perché il regime
pluviometrico nel nostro Pese fanno si che i mesi di ottobre e novembre siano quelli a maggior
pioggia. Tra i dati più significativi si hanno: Piemonte 1968, 1994 e Genova 2011.

A lato si riportano i dati messi a


disposizione dall’ISPRA e si osserva
che buona parte del territorio
nazionale è soggetto a criticità franose
e idrauliche. Le aree meno colpite qui
come Sicilia e Calabria, se tenessimo
conto anche dei terremoti e dei
vulcani otterremo che l’intero Pese è
soggetto a criticità elevata. Quindi
tutti gli eventi che accadono non sono
da considerare dei casi eccezionali ma
la normalità.
Per quanto riguarda la pericolosità
idraulica bisogna tenere conto del
tempo di ritorno (tempi di 20-50 anni
sono normali). Nel caso di opere
ingegneristiche si terranno presente
tempi di ritorno molto più ampi di
100-200 ma anche 500 anni.
Se facciamo la differenza tra i tempi
di ritorno lunghi e quelli brevi
osserviamo che tutta la zona a sud del Po (che è ribassata rispetto all’alveo del Po) è una zona
totalmente soggetta a rischio alluvione. In generale, tutto il bacino del Po è a rischio alluvione e in
particolare l’Emilia-Romagna con un tempo di ritorno di 100-200 anni.

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Se teniamo conto anche della popolazione presente nelle aree del Pese soggette a criticità otteniamo
le due carte sopra. La carta di sinistra mostra la sovrapposizione con la popolazione, mentre la carta
di destra il numero di famiglie sottoposte a rischio alluvione. La stessa cosa vale se teniamo conto
degli edifici o dei beni culturali (Venezia, Ferrara, Ravenna, Genova). Tutto ciò porta a costruire
diverse carte a diverse scale per definire le diverse classi di rischio di città come Firenze. Bisogna
ricordarsi che noi dobbiamo creare degli scenari per dire cosa potrebbe accadere.

Qui sopra vi sono delle immagini dell’evento che ha colpito il bacino del Po nel 2000 che ha
interessato 6 regioni; in particolare qui sopra sono immagini di Torino (criticità sono i ponti che sono
delle interferenze per i fiumi). La figura a destra mostra i murazzi che hanno strutture turistiche che
fa presuppore quindi che l’evento non sia giornaliero ma occasionale di inondazione (altra criticità).

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Anche la presenza di vegetazione nell’alveo del fiume risulta essere una criticità in quanto spesso
viene asportata e va poi a interferire con le infrastrutture stradali e ferroviarie creando delle situazioni
di pericolo.
Altri eventi diversi che hanno avuto come effetto un alluvione è la rottura della diga del Vajont: in
questo caso c’è stata un esondazione legata a una diga che ha interessato un’area del territorio critica
e in seguito a una serie di aspetti di carattere idraulico (cioè le prove di carico sulla diga stessa cioè
l’invaso del territorio e svaso che prova una pressione dell’acqua verso il basso e quindi trascinamento
dei versanti già critici verso il basso ha portato al collasso del monte Toc→ il riversarsi nel bacino di
migliaia di metri cubi di roccia e terra; la diga ha retto le enormi pressioni dell’evento franoso, ma la
tracimazione di acqua e fango no e si è riversata a valle creando il disastro del Vajont).
Il primo evento critico per quanto riguarda le dighe è la diga del Gleno crollata il 1° dicembre del
1923. Contrariamente a quanto si pensava che il crollo della diga fosse dovuto ad un cedimento
strutturale degli speroni della diga, recentemente uno storico locale ha ricostruito la sua storia dicendo
che fosse legato ad un evento legato all’uomo (si pensava che nei cunicoli alla base della diga fosse
stato stoccato dell’esplosivo-guerra).
A lato vi è una foto di Genova e in rosso
è segnato il fiume che ha causato
l’esondazione del 2011. Il bacino del
Ferregiano è ben visibile e poi confluisce
nel Misagno. Se consideriamo il bacino
del Ferregiano e prendiamo il massimo
della precipitazione e quello
dell’alluvione notiamo un ritardo
temporale detto tempo di corrivazione
(10-15 minuti). Esso ci dice il tempo che
la Protezione Civile potrà avere a disposizione nel momento in cui so che avrò forti precipitazioni per
attuare un piano di sicurezza.

“Il fiume non vende mai. Affitta sempre e sfratta senza preavviso” cit. (T. Moramarco)

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LE FRANE

Il 57% dei comuni italiani soffrono di dissesti idrogeologici; il 20% del territorio nazionale è franoso,
3000 frane pericolose all’anno.
La carta a lato mostra la pericolosità delle frane sul
territorio nazionale. Essa ci mostra in modo chiaro
come ci sia una fascia appenninica che va da Piemonte-
Liguria fino alla Basilicata di criticità elevata e molto
elevata. Poi, intere regioni come il Trentino o la Valle
d’Aosta hanno valori molto alti. Anche in questo caso
la distribuzione della pericolosità delle frane è dovuta
alla distribuzione fisio-grafica del territorio (monti,
colline e pianura).
Interessante a questo riguardo è il progetto IFFI che è
un inventario dei fenomeni franosi in Italia. Anche qui
la regione più colpita è l’Emilia-Romagna. Lo stesso
lavoro può essere fatto sovrapponendo la pericolosità
delle frane alla distribuzione della popolazione, degli
edifici e dei beni culturali nazionali.
Per quanto riguarda le frane si sono avute anche grossi eventi che hanno interessato città come quella
del 1982 ad Ancona che ha toccato le infrastrutture stradali e ferroviarie, 2 ospedali distrutti.
Esiste poi un catalogo CNR – AVI che racchiude un po’ tutti i dati utili. È fondamentale il dato storico
per avere una valutazione dei tempi di ritorno. Nel caso di frane e alluvioni dobbiamo andare a vedere
negli archivi e in parallelo vi è tutto un lavoro di carattere geomorfologico.

Un evento recente è la frana della Val Pola (Valtellina) del 1987 che è un evento significativo perché
è la presa d’atto che ci fosse bisogno di un coordinamento generale in emergenza. (si ricordi terremoto
Irpinia)

Altri eventi franosi sono Merano nel 2010, o la Calabria oppure le frane con edifici in zone di alveo
Ticino su detriti alluvionali.

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TERREMOTI

I terremoti fanno parte degli eventi naturali e impattano sul territorio in maniera significativa e per
questo motivo quando si parla di gestione delle emergenze è opportuno prenderli in considerazione.

Le due immagini: a sinistra si osserva la crepa generata da un sisma e a sinistra qualcosa di anomalo
ovvero una striscia di terremo finissimo che avanza per svariati km che evidenzia una fenomenologia
che il terremoto ha generato e cioè il sisma ha mosso l’acquifero sotterraneo che è andato in pressione
ed è fuoriuscito in un area precisa.
Per quanto riguarda i terremoti vi è un discorso sulla pericolosità analogo a quello delle frane e delle
alluvioni; anche in questo caso rientra il concetto
di tempo di ritorno, ma anche di probabilità di
eccedenza di accelerazione al suolo e quindi vi è
anche una valutazione statistica.
Le conoscenze attuali sui terremoti ci hanno fatto
costruire mappe come quella a lato. Il territorio
Nazionale è suddiviso in 4 zone:
- Zona 1 ovvero quella più pericolosa dove
possono verificarsi forti terremoti e comprende
725 comuni;
- Zona 2 dove avvengono terremoti abbastanza
forti e comprende 2344 comuni;
- Zona 3 dove ci sono terremoti modesti e
comprende 1544 comuni;
- Zona 4 che è la meno pericolosa e racchiude
3488 comuni.
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I terremoti interessano buona parte del territorio: il 45% del territorio nazionale, il 40% della
popolazione italiana e il 36% dei comuni italiani.
Una delle ultime sequenze sismiche significative è stata quella dell’agosto-ottobre del 2016 in
centro Italia in cui si sono avuti numerosi sismi. L’area interessata ha cominciato a muoversi a N
nel 1997, poi nel 2009 a S e nel 2016 la parte centrale. Ciò ci dice che i tempi di ritorno dei
terremoti sono diversi, parliamo di 200-1000 anni. Evidenze paleosismiche ci dicono che la faglia
interessata si era mossa 2500 anni fa.

Qui a lato si osserva una curva importante per cui eventi sismici di elevata magnitudo sono poco
frequenti rispetto a terremoti di magnitudo bassa.

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VALANGHE

Le valanghe hanno un livello di mortalità significativo e presentano un rischio elevato d’inverno e in


primavera. Le statistiche recenti ci dicono 2 cose: il numero di morti per valanghe che hanno
interessato delle abitazioni si è drasticamente ridotto per mancanza di grandi nevicate, invece
dall’altra parte vi è un forte incremento di vittime legate al passaggio delle persone su pendii di neve
e innesco di valanghe. Quando noi parliamo di piano di Protezione Civile per le valanghe facciamo
riferimento solo alla prima parte.
Evento importante è stato
quello del gennaio 2017
Rigopiano in cui una valanga
ha colpito un resort.
A lato si vedono le immagini
del vecchio rifugio e di quello
nuovo. Nel cerchio rosso vi è la
parte vecchio del resort e infatti
la valanga ha colpito la parte di
sinistra (quella nuova).
L’edificio storico era stato
costruito lungo l’asse non
principale del canalone mentre quello nuovo era al centro.

Infine, bisogna ricordare che il sistema di Protezione Civile riguarda anche la parte di trombe di aria
e aspetti di carattere meteorologico. Si ricordi la tromba di aria di Brianza-Arcore del 1999.

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PERCEZIONE DEL CITTADINO

La cosa importante è capire cosa ne pensa il Cittadino di questi eventi e il CNR a questo proposito ha
fatto uno studio: su un campione di 3126 persone (2013) sui rischi percepiti:

- Inquinamento ambientale 67%


- Incidente stradale 55%
- Sismico 45%
- Alluvioni 24%
- Frane 17%
- Vulcani 12%

Inoltre, l’esposizione al rischio sismico è percepita come molto o abbastanza elevata in Campania,
Marche, Emilia, Sicilia, Calabria e Abruzzo. Il rischio frana invece in Valle d’Aosta, Calabri,
Campania e Liguria. Il rischio alluvione in Liguria, Calabria e Valle d’Aosta. L’eruzione vulcanica
riguarda solo Campania e Sicilia.

Il 41% degli italiani ritiene che frane o alluvioni possano minacciare la sua incolumità, per lo più in
Liguria e Calabria. In particolare, si sentono più minacciate le donne e i giovani fino a 34 anni.

Inoltre, l’indagine evidenzia le cause che secondo gli italiani provocano frane e alluvioni come la
cattiva gestione del territorio, abusivismo edilizio, abbandono del territorio, cambiamenti climatici,
caratteristiche geomorfologiche del territorio.

“Se è importante conoscere dove avvengono gli eventi calamitosi e i livelli di rischio reali, è
importante anche capire la percezione che la popolazione ha di tali rischi, per dare strumenti di
conoscenza e consapevolezza attraverso una corretta e adeguata informazione. L’analisi indica che
tale percezione è elevata e in crescita, ma non sempre in funzione del rischio reale, quanto piuttosto
della sua comunicazione mediatica.” Cit. Fausto Guzzetti

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CONCETTI GENERALI

Spesso sia sui giornali, al telegiornale si sente parlare di Disastro, Emergenza, Evento eccezionale e
di Rischio. Spesso sulle cronache si parla di disastro che è un concetto che deriva dalla tradizione
della scuola americana.

Disastro o catastrofe è un processo naturale che interviene sul territorio e quindi è generato da un
evento. Esso può essere repentino (sisma), lento (come frana) cioè ha delle caratteristiche molto
diverse tra loro. L’evento ha delle conseguenze sul territorio ed esse intervengono in due aspetti
diversi: sistema sociale (vittime) e sistema economico (danni diretti e indiretti→ blocco linea
ferroviaria per tot mesi). Tra l’evento e le conseguenze c’è il rischio e le emergenze.
Quindi disastro o catastrofe è un evento che colpisce un sistema sociale e che produce un danno
osservabile tramite interruzione del processo di sviluppo del sistema che lo subisce. L’evento è
definito come il verificarsi o modificarsi di un insieme di circostanze. Un evento provoca l’emergere
di comportamenti specifici e non normali cioè extra routinari.

Un evento si può definire con 2 concezioni diverse: frequentista e cognitiva. La concezione


frequentista si basa sulla probabilità di accadimento (alta è la normalità mentre basse è l’emergenza).
Questa concezione ha il limite della definizione di una soglia netta a quello che è normalità o meno.
Ultimamente si è sviluppata la concezione cognitiva che si basa sul concetto che lo sviluppo di una
società è favorito da un ambiente altamente prevedibile cioè dove si sa cosa accadrà e come si può
essere in grado di rispondere. Se io so che qualcosa può accadere, mi preparo a quell’evento. Questo
principio si basa sul fatto che io cerco di pensare come scenari e con tutti i mezzi che ho cognitivi e
tecnologici cerco di riportare alla normalità anche eventi con tempi di ritorno molto lontani e rari.
Quindi conoscere, prevedere, approntare strategie NON riduce la probabilità del verificarsi della
calamità, ma ne riduce il danno. In questo contesto emergenza è solo ciò che non è dominabile
cognitivamente dal sistema sociale.
Un evento di pari magnitudo in due sistemi sociali diversi genera danni e comportamenti diversi.

Allo stesso livello vi è il concetto di rischio che è definito come l’effetto sugli obiettivi
dell’incertezza. Esso deriva dagli eventi che possono accadere e alle conseguenze che ne derivano.
L’incertezza è relativa all’assenza di info sulla comprensione o conoscenza di un evento.

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Il rischio è una costruzione sociale: la percezione pubblica del rischio ed i suoi livelli di accettabilità
si prospettano come costruzioni sociali. La cultura del rischio è legata all’organizzazione sociale
(modo in cui le persone si relazionano). Il rischio è tanto maggiore o minore tanto lo è la
consapevolezza di un sistema socioeconomico degli eventi che posso accadere e la risposta da dare.
Quindi vi è un nesso diretto tra società, cultura e processi naturali.
Questo tipo di concetto ha
portato diversi sociologi a
fare una valutazione sui
rapporti tra pericoli e
fattori di rischio. Lo
schema sotto mi identifica
4 aree nelle quali a
seconda del grado di
conoscenza e del rischio
temuto, ci sono pericoli
temuti per le info scientifiche oppure per maggior fiducia ecc.

Tornando al concetto di rischio, esistono rischi naturali, antropici o di altro tipo. Nel corso ci
occuperemo solo dei rischi naturali che sono legati a processi naturali che per irregolarità e
dimensione minacciano l’esistenza dell’uomo e le sue attività. Essi da classificazione normativa sono:

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rischio idraulico e idrogeologico (valanghe, ghiaccia, meteo, idrogeologico), rischio sismico e rischio
asteroidi.
Esistono poi i rischi antropici ovvero quelli legati all’attività dell’uomo e tra essi vi è il rischio
tecnologico (chimica-industriale), incendi boschivi e sanitario.
Quindi per definizione il rischio naturale è il numero di perdite e danni o interruzioni di attività dovute
ad un dato fenomeno naturale. I rischi n. sono il risultato degli impatti dei processi sull’ambiente
antropizzato. Conoscendo quindi le zone in cui sono attivi i processi naturali, la loro frequenza e la
loro intensità si possono gestire le attività antropiche al fine di ridurre gli impatti e quindi il rischio.
Oggi l’approccio ai rischi segue lo schema sotto: il rischio non è considerato come un entità a sé ma
si considerano diverse fasi: risk analysis, evaluation e management.

In un analisi di rischio il concetto principale è lo scenario, cioè cosa potrebbe accadere e andare a
pensare e valutare cosa sta avvenendo, quali sono i processi in atto e quali evoluzioni potrebbero
esserci. Oggi oltre a queste valutazioni è stata inserita anche quella socioeconomica. La relazione che
definisce il rischio è la seguente:
𝑃
𝑅=𝐷∙
𝑇

Dove R è il rischio, D è il danno, P/T è la probabilità che un evento si possa verificare in un dato
intervallo di tempo (tempo di ritorno). Questa definizione va contro la definizione cognitiva sopra
citata in quanto qui si ha un rapporto lineare e dunque all’aumentare del tempo di ritorno diminuisce
il rischio.

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Altra funzione molto usata e valida è quella dell’UNESCO per cui:

𝑅 =𝐻∙𝑉∙𝑊

Dove R è il rischio, H è la pericolosità, W è il valore elementi a rischio e V è la vulnerabilità. In


questa valutazione l’intensità non rientra. La pericolosità (hazard, H) è la probabilità che un dato
fenomeno potenzialmente dannoso, di una data intensità, si verifichi in una data rea e in un dato
periodo di tempo. Esso quindi è espresso in funzione dell’intensità: H = H (I). esistono diversi tipi di
pericolosità: sismica, di frana, inondazione, idrogeologica e industriale.
Vi è poi il concetto di vulnerabilità che nasce con l’equazione sopra e nasce legata all’edificio e
allargata successivamente in base alla concezione cognitiva detta in precedenza. Essa è il grado di
perdita per un elemento o insieme di elementi a rischio determinato dall’accadere di un fenomeno
naturale di una data magnitudo. È detta come la capacità di un dato elemento di sopportare gli effetti
in funzione dell’intensità dell’evento. Quando parliamo di vulnerabilità dobbiamo dire a che tipo di
struttura ci riferiamo (muratura o cemento armato) e che tipo di struttura è (strategico o casa).

In questa situazione il danno potenziale dipende dall’evento, dall’intensità e dal numero dei soggetti
a rischio.
Quando parliamo di V e W il problema è che bisogna quantificare alcuni aspetti che non hanno un
valore monetario (sociale). L’approccio che dobbiamo avere è che i fattori che rientrano nella
valutazione del rischio sono: la pericolosità, la vulnerabilità e il fatto che ci siano elementi esposti.
L’esposizione può essere definita come qualità e valore dei beni e delle attività presenti sul territorio
che possono essere influenzate direttamente o non dall’evento.

R = 0 quando V = 0 perché il fattore di pericolosità H >0 i quando i processi naturali non sono mai
nulli. Difatto noi diciamo di non avere rischio quando le situazioni non toccano le attività umane.
Siccome V dipende anche dalla magnitudo dell’evento, posso avere diversi valori di V e quindi di
rischio al variare della magnitudo. Quindi se H > 0 NON si può affermare che R sia 0 per cui R è
sempre maggiore di 0.
Quindi la valutazione numerica è molto usata ma non è considerata come l’unico paradigma della
valutazione del rischio in quanto non prende in considerazione la modalità in cui avviene tale evento
né considera la preparazione/conoscenza della popolazione, né tantomeno il comportamento pre e
post evento e la risposta della popolazione.

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Quindi il discorso del rischio lo consideriamo all’interno del discorso della Gestione delle
Emergenze e l’evento è legato all’azione dei processi naturali all’interno del sistema antropico.
Gestire un’emergenza significa attuare una serie di azioni finalizzate a contenere i danni a persone o
cose e a riportare la situazione in condizioni di normalità il più velocemente possibile. Prima di tutto
quindi, gestire l’emergenza significa gestire il transitorio tra il movimento nel quale è stato rilevato
l’evento e quello in cui intervengono i soccorsi al fine di:

- Salvaguardare l’incolumità delle persone e dei beni presenti nella zona dell’evento;
- Limitare le conseguenze negative determinate dall’evento.

In un secondo momento si pongono in atto azioni finalizzate a supportare i soccorritori per ricondurre
il sistema allo stato di normalità. L’esperienza insegna che gli interventi effettuati in una stazione di
emergenza volti a ripristinare le condizioni ordinarie sono tanto efficaci quanto più attuati in modo
sistematico e preorganizzato e tanto meno è vulnerabile il sistema sociale.

La gestione del rischio è il processo mediante il quale si valuta il rischio e si sviluppano delle strategie
per governarlo. Le strategie possono includere: evitare il rischio, gestire le fasi di emergenza per
ridurre l’effetto negativo, trasferimento del rischio a terze parti (assicurazione), l’accettare in parte o
del tutto le conseguenze.

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Risk management – gestione del rischio → applicazione sistematica delle politiche, procedure e
prassi di gestione alle attività di comunicazione, consultazione, definizione del contesto e
identificazione, analisi, ponderazione, trattamento, monitoraggio e riesame del rischio. Un altro
schema utile è quello a sinistra che divide
le fasi in pre e post evento. Prima
dell’evento posso avere una fase di
allertamento che mi prepara all’evento
stesso e poi vi è l’evento, la risposta e la
ricostruzione. Quindi si hanno 2 fasi
distinte che dal punto di vista temporale
sono diverse: la fase pre-evento è di lungo
periodo, mentre quella post-evento è di
breve periodo.
L’obiettivo è allungare il più possibile il tempo di pace (pre-evento) e accorciare il più possibile la
fase di post-evento. Lo schema a lato esce direttamente dallo studio dei sismi (terremoto del 2016
dove ci sono ancora oggi dopo 3 anni e mezzo macerie, ricostruzione ancora ferma).

Il trasferimento verso terzi del rischio è rilevante e l’esempio del terremoto dell’emilia è importante:
aziende ad altissimo valore tecnologico hanno avuto danni strutturali notevoli. Il premio assicurativo
contro il terremoto ha permesso la ripresa produttiva altrove e la ripresa economica.

La gestione del rischio di divide in: ex ante e ex post. La fase pre-evento è data da previsione,
mitigazione, preparazione e allerta; la fase post-evento è data dalla risposta all’evento, recupero, post-
emergenza.
Già nella legge del 1992 e del 2012 il legislatore aveva già individuato la presenza di 3 parti:
previsione, prevenzione e soccorso. La previsione è la lettura territoriale della pericolosità e del
rischio; la prevenzione è la riduzione della probabilità di accadimento dell’evento; infine il soccorso
sono gli interventi diretti sull’evento e pianificazione post evento.
La prevenzione è un attività non strutturale che prevede una fase di allertamento articolata in attività
di preannuncio probabilistico e sulla base di conoscenze pregresse, di monitoraggio e sorveglianza in
tempo reale degli eventi e degli effetti. Prevede inoltre la pianificazione di protezione civile, la
formazione e acquisizione di competenze, la diffusione della conoscenza e della cultura della
protezione civile anche in scuole allo scopo di promuovere la resilienza delle comunità e l’adozione
di comportamenti consapevoli e misure di autoprotezione da parte dei cittadini.

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Bisogna valutare bene anche la vulnerabilità sociale ovvero la potenziale perdita di proprietà o vite
umane. Tutte le persone che vivono in una zona affetta da calamità naturali sono vulnerabili, ma gli
impatti sociali dell’esposizione ai pericoli spesso ricadono maggiormente sulle persone più
vulnerabili di una società come ad esempio la popolazione povera, i bambini, gli anziani e i disabili.
Essi hanno le più basse risorse con le quali prepararsi a fronteggiare eventi pericolosi, tendono a
vivere in luoghi a rischio, vivono in edifici che presentano una bassa qualità, e hanno poche
conoscenze, nonché poche connessioni sociali e politiche necessarie per sfruttare le risorse che
accelererebbero il loro recupero post disastro.

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Come si vede dalle date dei disastri e della normativa nel nostro Paese è sempre prevalsa quella che
viene chiamata la cultura dell’emergenza anziché la gestione dell’emergenza. Si cerca di risolvere
ogni problema solo quando se ne è sommersi e non se ne può fare a meno. Il rischio accettato dalle
popolazioni è proporzionale ai benefici ottenuti. A parità di benefici l’accettazione di rischi legati ad
attività volontaria è maggiore di quelli non volontari. I cittadini fondano le loro convinzioni sul rischio
su valutazione di percezione del rischio. Le esperienze del rischio tendono a formarsi attraverso
notizie diffuse e interpretate dai media e il risultato spesso non coincide con la risk analysis.

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Pianificazione di emergenza

Quello che deve essere chiaro che ogni intervento territoriale deve essere seguito da una fase di
carattere legislativo. Per questa ragione possiamo dire che le strategie di governo del rischio sono
divise in due ambiti ben chiari: pianificazione territoriale (prevenzione & mitigazione) e
pianificazione d’emergenza (preparazione verso gli eventi).

PIANIFICAZIONE DI EMERGENZA

La Costituzione ha una parte che è il Titolo V che definisce bene quali sono i ruoli della Regione e
dello Stato. All’interno di esso vi è anche la protezione civile e la pianificazione territoriale che sono
riportate come materia di legislazione concorrente per cui spetta alle Regioni la potestà legislativa e
allo Stato spetta il potere di definire le leggi quadro e cioè definire il contesto all’interno del quale
devono essere svolte le legislazioni regionali. Questo è molto importante in quando ogni Regione
opera in un ambito proprio.
È anche importante l’articolo 18 che dà le funzioni amministrative ai Comuni e quindi ciò fa si che
il sindaco diventi un autorità di Protezione Civile.
In questo contesto vi sono diverse importanti normative tra cui la Legge 225/1992 che istituisce il
sistema di protezione civile, la “Bassanini” trasferisce le competenze alle Regioni e poi ci sono una
serie di leggi regionali che ogni regione promulga per applicare la legislazione nazionale.
Si ricordi che la Legge 225/1992 ha ricevuto una chiarificazione nel 2012 con la Legge n.100 dove
sono ridefiniti alcuni aspetti e questo riordino è poi confluito nel Decreto Legislativo del 2 gennaio
2018. Allo stato attuale la legge di riferimento (per la Lombardia) per la Protezione Civile è la legge
16/2004. L’obiettivo del 2020 di Regione Lombardia è quello di arrivare ad una bozza della nuova
legge regionale.

Il Codice della Protezione Civile è diviso in 7 Capi dove ognuno di essi racchiude degli argomenti
come: finalità, attività del Servizio, organizzazione, attività per la prevenzione dei rischi, gestione
delle emergenze, partecipazione del cittadino e il volontario organizzato, aspetti finanziari cioè
definizione trasferimento finanziario per le regioni per portare avanti il programma previsto dal
codice stesso.
Il nuovo Codice esce dalla legge del 1992 chiarisce la differenziazione tra la linea politica-
amministrativa e operativa. Le situazioni di emergenze e di criticità che i Sindaci si sono trovati a
dover gestire hanno messo in luce spesso il fatto che al Sindaco è attribuita una responsabilità anche
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di carattere organizzativa sulle azioni che il Comune deve svolgere in caso di emergenza. In questo
Codice quindi viene chiarito bene il ruolo specifico della componente tecnica dei Comuni.
Inoltre, il Codice cerca il sistema della pianificazione di emergenza non più in ambito comunale, ma
definire degli ambiti ottimali che garantiscano l’effettività delle funzioni di protezione civile. Poi,
esso stabilisce la possibilità di svolgere le funzioni da parte dei comuni in forma aggregata e collegata
al fondo regionale.
Prima del Codice la fase post-evento veniva attivata quando si attivava lo Stato di Emergenza invece
ora la si attiva subito. Quindi esso introduce il provvedimento della mobilità nazionale preliminare
alla dichiarazione dello stato di emergenza.
Le motivazioni che hanno portato a istituire il Codice è per individuare procedure rapide per la
definizione dello stato di emergenza, finalizzare il fondo regionale di protezione civile al
potenziamento territoriale, coordinare le norme in materia di volontariato di protezione civile. Infine,
per esplicitare i concetti di previsione e prevenzione.

La legge 225/1992 definisce che con “Protezione Civile” si intendono tutte le strutture e le attività
messe in campo dallo Stato per tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai
danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi.

Il nuovo codice definisce nel Capo I che con “Protezione Civile” si definisce di pubblica utilità ed
è il sistema (e non un ente) che esercita la funzione di protezione civile costituita dall’insieme delle
competenze e delle attività volte a tutelare la vita, i beni, l’integrità fisica, gli insediamenti, gli animali
e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da eventi calamitosi di origine naturale o
derivanti dall’attività dell’uomo.

Servizio di pubblica utilità sono quelli che devono essere garantiti dalla pubblica amministrazione e
devono essere erogati secondo i principi di uguaglianza. La gestione di questi servizi comporta oneri
ed obblighi non sopportabili da imprese aventi finalità lucrative per cui è richiesto l’intervento dello
Stato.

Le attività di protezione civile sono suddivisibili in 4 categorie:


- Previsione (in tempo di pace);
- Prevenzione e mitigazione dei rischi (in tempo di pace);
- Gestione delle emergenze;
- Superamento emergenze.

20
Lo schema mostra i punti cardini del Nuovo Codice della Protezione Civile. La previsione consiste
nell’insieme delle attività, svolte anche con il concorso di soggetti dotati di competenza scientifica,
tecnica e amministrativa, dirette all’identificazione e allo studio degli scenari di rischio possibili, per
le esigenze di allertamento del Servizio nazionale, ove possibile, e di pianificazione di protezione
civile.
La prevenzione consiste nell’insieme delle attività di natura strutturale e non strutturale, dirette a
evitare o a ridurre le possibilità che si verifichino danni conseguenti a eventi calamitosi anche sulla
base delle conoscenze acquisite per effetto delle attività di previsione.
L’attività non strutturale si articola in varie fasi: l’allertamento che si articola in attività di
preannuncio in termini probabilistici sulla base di conoscenze o monitoraggio o sorveglianza in tempo
reale degli eventi e della conseguente evoluzione degli scenari di rischio; la pianificazione di
protezione civile; la formazione e l’acquisizione di ulteriori competenze professionali degli
operatori di Servizio nazionale; l’applicazione e l’aggiornamento della normativa tecnica di interesse;
la diffusione della conoscenza e della cultura di protezione civile, anche con il coinvolgimento delle
istituzioni scolastiche, allo scopo di promuovere la resilienza delle comunità e l’adozione di
comportamenti consapevoli e misure di autoprotezione (il cittadino ha il diritto di conoscere gli
scenari del rischio, ma ha anche il dovere di adottare le misure di cautela) da parte dei cittadini;
l’informazione alla popolazione sugli scenari di rischio e le relative norme di comportamento; la
promozione e l’organizzazione di esercitazioni sul territorio nazionale al fine di promuovere
21
l’esercizio integrato partecipato della funzione di protezione civile; le attività svolte all’estero al fine
di promuovere l’esercizio integrato; le attività volte ad assicurare il raccordo tra la pianificazione di
protezione civile e la pianificazione territoriale e le procedure amministrative di gestione del territorio
per gli aspetti di competenza delle diverse componenti.

La pianificazione di protezione civile consiste nel fare scenari di rischio anche dove il legislatore
prevede di costruire, deve essere assicurata la partecipazione dei cittadini al processo di elaborazione
della pianificazione secondo forme e modalità opportune; i piani e i programmi di gestione e tutela e
risanamento territoriale devono essere coordinati con i piani di protezione civile al fine di assicurarne
la coerenza con gli scenari di rischio e le strategie operative.

L’attività strutturale, invece, è diretta a ridurre il rischio e si articola in: la partecipazione


all’elaborazione delle linee di indirizzo nazionali e regionali per la definizione delle politiche di
prevenzione strutturale dei rischi naturali o derivanti dalle attività dell’uomo e per la loro attuazione;
la partecipazione alla programmazione degli interventi finalizzati alla mitigazione dei rischi naturali
o per l’uomo; l’esecuzione di interventi strutturali di mitigazione del rischio in occasione di eventi
calamitosi; le azioni integrate di prevenzione strutturale e non per finalità di protezione civile.

Per quanto riguarda il volontariato, esso può essere di due categorie: gruppi comunali o gruppi di
associazioni. Le associazioni possono avere competenze specifiche. Il volontario deve essere formato
tramite corsi di protezione civile. Uno dei ruoli del volontario è poi il raccordo con il cittadino perché
il codice di protezione civile nell’articolo 31 definisce che il cittadino ha il diritto di essere informato
sugli scenari di rischio, ma anche il dovere di adottare le conseguenti misure di cautela per auto
protezione.

La gestione dell’emergenza consiste nell’insieme, integrato e coordinato, delle misure e degli


interventi diretti ad assicurare il soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite dagli eventi
calamitosi e agli animali e la riduzione del relativo impatto, anche mediante la realizzazione di
interventi indifferibili e urgenti ed il ricorso a procedure semplificate e la relativa attività di
informazione alla popolazione.

Il superamento dell’emergenza consiste nell’attuazione coordinata delle misure volte a rimuovere


gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita e di lavoro, per ripristinare i servizi essenziali
e per ridurre il rischio residuo nelle aree colpite oltre che alla ricognizione dei fabbisogni per il

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ripristino delle strutture e delle infrastrutture pubbliche e private danneggiate, nonché dei danni subiti
dalle attività economiche e produttive, dei beni culturali e del patrimonio edilizio e all’avvio
dell’attuazione delle conseguenti misure per fronteggiarli.

SERIVIZIO NAZIONALE DI PROTEZIONE CIVILE

Lo scopo del Servizio nazionale di protezione civile si basa su alcuni principi: quello di sussidiarietà
e cioè di aiuto, di differenziazione e di adeguatezza; quindi devo fare in modo che il sistema sia
perfettamente programmato e per questo scopo gli attori fondamentali sono:

- Il Presidente del Consiglio dei ministri, in qualità di autorità nazionale di protezione civile;
- I Presidenti delle Regioni e delle Province autonome in qualità di autorità territoriali di
protezione civile;
- I Sindaci in qualità di autorità territoriali di protezione civile.

Il Servizio nazionale si articola in componenti, strutture operative nazionali e regionali come:

- Il Dipartimento della protezione civile di cui si avvale il Presidente del Consiglio dei
ministri nell’esercizio delle sue funzioni;
- Le Regioni che dipendono dai governatori;
- I Comuni che dipendono dalle decisioni dei Sindaci.

Intorno a questi sopra detti vi sono i soggetti concorrenti che sono i cittadini, gli ordini professionali,
i collegi nazionali; in essi vi sono anche le aziende, società e altre organizzazioni pubbliche o private
che svolgono funzioni utili per le finalità di protezione civile.

In questo tipo di ruolo i Sindaci e i Presidenti delle regioni sono quelli fondamentali, sono quelli che
danno l’indirizzo politico. Essi esercitano le funzioni di vigilanza sullo svolgimento integrato e
coordinato delle attività da parte delle strutture afferenti alle rispettive amministrazioni. Tutto ciò dà
responsabilità alle strutture tecniche.
Tra le varie competenze che hanno i sindaci è l’obbligo di recepire l’aspetto normativo e applicarlo,
di promuovere e attuare le attività di protezione civile come le esercitazioni, di destinare le risorse
finanziare, di articolare le strutture organizzative preposte all’esercizio delle funzioni di protezione
civile e di disciplinare le procedure e modalità di organizzazione. Le tre figure si ritrovano anche

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nelle tipologie di eventi che si possono avere e sui quali le varie autorità regionali, comunali e
nazionali si trovano ad operare. Gli eventi possono suddividersi in:

a. Emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività


dell’uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili, dai singoli enti e
amministrazioni competenti in via ordinaria;
b. Emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività
dell’uomo che per loro natura o estensione comportano l’intervento coordinato di più enti o
amministrazioni e debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari da impiegare
durante limitati periodi di tempo;
c. Emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività
dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono essere fronteggiate con
mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e periodi di tempo.

Quindi il Dipartimento di Protezione Civile ha diverse funzioni tra cui: coordinare attività delle
amministrazioni, elaborare dei provvedimenti finalizzati alla gestione delle situazioni di emergenza,
elaborare proposte delle direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri, elaborare e coordinare
piani nazionali riferiti a scenari specifici, coordinare l’intervento del Servizio nazionale. Inoltre, esso
ha funzione di dare l’indirizzo per le attività di formazione, promozione di studi e ricerche sulla
previsione e prevenzione dei rischi naturali, esecuzione per verificare i piani nazionali, di definire i
criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche, di coordinare alla partecipazione del Servizio
nazionale alle politiche di protezione civile dell’Unione.
Le Regioni hanno l’obbligo di fare dei piani regionali, di gestione sala operativa con flusso di raccolta
e scambio delle info, definire le modalità per la deliberazione dello stato di emergenza per gli eventi
di tipo b, definire le modalità di coordinamento, adottare le modalità di organizzazione per realizzare
gli interventi necessari per rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita. Infine,
devono predisporre i provinciali di protezione civile sulla base degli indirizzi regionali e in accordo
con le Prefetture. Il Prefetto è l’istruzione dello Stato a livello locale; esso è il referente del capo del
governo sul territorio e quindi applica ciò che Dipartimento e Consiglio decidono. Inoltre, esso ha un
altro ruolo ovvero deve assicurare il coordinamento tra le strutture amministrative (sindaci) e le
strutture di carattere nazionale (vigli del fuoco ad es.).
I Comuni hanno la funzione di svolgimento delle attività di pianificazioni di protezione civile e di
direzione dei soccorsi su suolo comunale. Per lo svolgimento della funzione, essi assicurano

24
l’attuazione delle attività di protezione civile secondo quanto stabilito dalla pianificazione e dalle
norme statali e regionali.
Essi devono attuare le attività di prevenzione dei rischi definiti dalle Regioni, devono adottare i
provvedimenti necessari ad assicurare i primi soccorsi, ordinare i propri uffici disciplinare le
procedure e modalità di organizzazione dell'azione amministrativa , al fine di assicurarne la prontezza
operativa e di risposta in occasione, disciplinare le modalità di impiego di personale qualificato da
mobilitare, in occasione di eventi che si verificano nel territorio di altri comuni, predisporre i piani
comunali o di ambito protezione civile curarne l’attuazione. In caso di evento al verificarsi delle
situazioni di emergenza deve dirigere i primi soccorsi alla popolazione e gli interventi urgenti
necessari a fronteggiare le emergenze; deve vigilare sull'attuazione da parte delle strutture locali di
protezione civile dei servizi urgenti; deve impiegare il volontariato di protezione civile a livello
comunale o di ambito sulla base degli indirizzi nazionali e regionali.

Il Codice di Protezione Civile identifica come il Sindaco sia responsabile di adottare provvedimenti
contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli per l'incolumità pubblica , anche
sulla base delle valutazioni formulate dalla struttura di protezione civile in base a quanto previsto
nell'ambito della pianificazione; svolgere, a cura del Comune, l'attività di informazione alla
popolazione sugli scenari di rischio, sulla pianificazione di protezione civile e sulle situazioni di
pericolo determinate dai rischi naturali o derivanti dall'attività dell'uomo; coordinare delle attività di
assistenza alla popolazione colpita nel proprio territorio a cura del Comune, che provvede ai primi
interventi necessari e dà attuazione a quanto previsto dalla pianificazione di protezione civile,
assicurando il costante aggiornamento del flusso di informazioni con il Prefetto e il Presidente della
Giunta Regionale in occasione di eventi di emergenza b) o c) . Quando la calamità naturale o l'evento
non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune o di quanto previsto
nell’ambito della pianificazione in via ordinaria, il Sindaco chiederà l’intervento di altre forze e
strutture al Prefetto e al Presidente della Regione, i quali si raccorderanno per adottare i
provvedimenti di competenza.

Le autorità territoriali di protezione civile sono responsabili di recepire gli indirizzi nazionali in
materia di protezione civile, di promuovere e, attuare e coordinare le attività di protezione civile
esercitate dalle strutture organizzative di propria competenza; di destinare risorse finanziarie
finalizzate allo svolgimento delle attività di protezione civile; di articolare le strutture organizzative
preposte all'esercizio delle funzioni di protezione civile e dell'attribuzione, alle medesime strutture,
di personale adeguato e munito di specifiche professionalità (nuovo il richiamo alla

25
professionalizzazione degli operatori); di disciplinare le procedure e le modalità di organizzazione
semplificata dell’azione amministrativa e delle strutture, per rispondere in occasione degli eventi
calamitosi.

L’azione del Servizio nazionale si esplica in relazione alle seguenti tipologie di rischi: sismico,
vulcanico, maremoto, idraulico, idrogeologico, fenomeni meteo avversi, deficit idrico e incendi
boschivi. Per questi rischi devo costruirmi degli scenari di rischio possibili. Oltre a questi ci sono una
serie di rischi di carattere antropico come quello chimico, nucleare, radiologico, tecnologico,
industriale, ambientale, trasporti, igienico-sanitario, detriti spaziali.
Non rientrano, invece nell’azione di protezione civile gli interventi e le opere per eventi programmati
o programmabili in tempo utile come concerti, raduni.

PROTEZIONE CIVILE: LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA

Il Sistema di Protezione Civile si basa su un elemento fondamentale che è il principio di


sussidiarietà secondo il quale l’intervento devono essere svolte dall’entità territoriale più vicina ai
cittadini che è il Comune e possono essere delegate ai livelli amministrativi superiori (Province,
Regioni e Stato) solo se questi possono rendere il servizio in maniera più efficiente.
In tutta questa struttura, il ruolo del Sindaco è fondamentale e il punto chiave nell’evoluzione del suo
ruolo sta nella legge 225/1992 che assegna al Sindaco il ruolo di coordinatore della PC. Il ruolo del

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Sindaco riguarda gli aspetti politici e di responsabilità, mentre la parte operativa è delegata alla
struttura comunale.
La struttura organizzativa è espressa nello schema sotto. È bene ricordare che F.A (forze armate),

F.O (forze dell’ordine) e VVF (vigili del fuoco) sono organi esterni al sistema di protezione civile.
Essi dipendono dalla Provincia e quindi dalla Prefettura. Inoltre, le lettere A, B e C si riferiscono ai
tre tipi di evento visti in precedenza. Il Comune e quindi il Sindaco ha potere ordinativo solo sul
volontariato comunale. Il volontariato specialistico che fa capo alle istituzioni, alle liste nazionali e
regionali, sono organizzazioni a sé che possono essere chiamate ad operare dalle sale operative. È
evidente che in tale schema non è chiaro il ruolo delle Regioni dal punto di vista operativo.
Dietro questa struttura gerarchica ci sono delle strutture operative che sono: il COC (centro operativo
comunale)-UCL (unità di crisi locale) che fa capo ai Comuni, il CCS (centro coordinamento soccorsi)
che fa capo alle Province, il Dicomac (che è la sala operativa della PC nazionale) e l’emorcom
(comitato di emergenza) che fa capo allo Stato. Ci sono quindi degli organi di carattere operativo che
poi sono quelli nei quali sono fatte le scelte. Il sistema di PC è un sistema gerarchico rigido.

Altro schema in cui la struttura più simile è quella della Regione Lombardia dove abbiamo il Comune,
la Prefettura con il CCS, la Regione con la sala operativa regionale e il centro funzionale regionale
che fanno da collettore tra la Prefettura e il Dipartimento di PC. È importante specificare meglio la
27
differenza di tale secondo schema dagli altri precedenti. In questo caso, la Regione non compare come
centro operativo di comando. Le Regioni nel tempo si sono create la sala operativa come elemento di
collettore tra Comuni, Prefettura e lo Stato. Esse, invece, hanno acquisito un ruolo importante nel
centro funzionale regionale che è l’organo competente per agli aspetti di allertamento e previsione
che il sistema di PC dal punto di vista legislativo assegna alle regioni stesse. Le Regioni, non essendo

nella struttura gerarchica, si sono ricavate un proprio ruolo e sono andate a costituire la sala operativa
regionale come sistema di coordinamento di tutto quello che avviene sul proprio territorio soprattutto
a livello previsionale.
La gerarchia è importante perché è quella che comanda e dà gli ordini sul territorio. In tutto ciò vi
sono degli strumenti operativi che hanno un referente:

- COC: Centro Operativo Comunale → Sindaco


- COM: Centro Operativo Ministro → Prefetto
- CCS: Centro Coordinamento Soccorsi → Prefetto/Pres. Provincia
- SALA OPERATIVA REGIONALE → Regione
- SALA SITUAZIONE ITALIA → Stato (DPC)
- DICOMAC: Direzione Comando e Controllo → Stato (DPC)/Regione
- EMERCOM: Comitato di Emergenza → Stato

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La struttura gerarchica ci dirà cosa deve essere fatto, dove deve essere fatto, come deve essere fatto,
quando deve essere fatto e chi lo deve fare. Essa consiste nello svolgimento delle attività di PC la cui
responsabilità è assegnata alle strutture tecniche afferenti alle rispettive amministrazioni.
Si sa che esistono tanti livelli di centri operativi e per dialogare tra loro si utilizza il linguaggio
comune basato su funzione ovvero il Metodo Augustus.
In una situazione di emergenza devo avere un quadro generale, quindi ho bisogno dei dati anagrafici
poi devo sapere dove sono collocate le persone under 80 anni, quali sono le azioni che devono fare.
Esse sono tutte funzioni che i Comuni erogano come servizi, ma che sono delegate al sistema
organizzativo del Comune. Il Metodo Augustus ha cercato di definire un linguaggio comune per fare
in modo che fosse semplice dialogare tra loro le competenze.
A questo scopo sono state inventate le funzioni di supporto che sono funzioni da usare come
supporto alle attività previste secondo la normativa regionale e secondo quanto previsto dal Piano di
Emergenza Comunale. Per ogni funzione di supporto è individuato un responsabile che, in situazione
ordinaria collabora con la Struttura della PC del Comune per l’aggiornamento dei dati e delle
procedure mentre, in sede di emergenza, coordina l’intervento della Centrale Operativa relativamente
al proprio settore di competenza. In relazione all’evento devono essere attivate le funzioni di supporto
ritenute necessarie per rispondere efficacemente all’emergenza.
Le funzioni di supporto sono delle competenze specifiche e sono 15 all’ultimo aggiornamento:

1) Tecnico-scientifico-pianificazione
2) Sanità-assistenza sociale-veterinaria
3) Mass media-informazione
4) Volontariato
5) Materiali e mezzi
6) Trasporti, circolazione e viabilità
7) Telecomunicazioni
8) Servizi essenziali
9) Censimento danni a persone e cose
10) Strutture operative
11) Enti locali
12) Materiali pericolosi
13) Assistenza alla popolazione
14) Coordinamento centri operativi
15) Beni culturali

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Per ogni funzione devo prevedere una persona che ne è responsabile. 9 di queste funzione sono quelle
fondamentali che devono essere sempre garantite e sono:

1) Tecnico-scientifico-pianificazione
2) Sanità-assistenza sociale-veterinaria
3) Mass media-informazione
4) Volontariato
5) Materiali e mezzi
6) Censimento danni a persone e cose
7) Strutture operative
8) Telecomunicazioni
9) Assistenza alla popolazione

Tutte queste funzioni fanno capo al Sindaco. Quindi, nel momento in cui il Sindaco in una situazione
di crisi apre il Centro Operativo Comunale (COC) si avvarrà per prendere delle scelte dei vari tecnici
che sono responsabili di ogni funzione di supporto. Infine, il Metodo Augusto è scalato per ogni tipo
di evento a, b e c. Quindi tale metodo fornisce al decisore delle competenze settoriali, i cui settori
sono stati individuati in precedenza dal legislatore. Dietro questo tipo di azione segue tutto l’apparato
legislativo già visto.

ALLERTAMENTO

All’interno della prevenzione, dato che l’obiettivo è la riduzione della probabilità di accadimento
dell’evento, ci sono una serie di azioni che possono essere svolte. Per la prevenzione nella parte non
strutturale ci occuperemo qui della fase di allertamento che è articolato in attività di preannuncio in
termini probabilistici, ove possibile e sulla base delle conoscenze disponibili, di monitoraggio e di
sorveglianza in tempo reale degli eventi e della conseguente evoluzione degli scenari di rischio. Ad
es. dopo gli eventi di Genova 2015 è stata introdotta la figura del Cittadino Sorvegliante che è parte
integrante del sistema che sorveglia il territorio coordinato dal COC.
Tali processi sono stati poi normati da delle direttive specifiche che dicono bene come deve essere
fatto l’allertamento.
Il sistema di allertamento è stato pensato dal DPC mediante l’organizzazione di centri funzionali.
Essi fanno parte del ruolo che le Regioni si sono ricavate. Tali centri funzionali sono soggetti preposti

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allo svolgimento delle attività di previsione, di monitoraggio e di sorveglianza in tempo reale degli
eventi e di valutazione degli effetti sul territorio. La rete dei Centri Funzionali è costituita da un
Centro Funzionale Centrale (CFC) presso il Dipartimento.
I centri funzionali hanno tante funzioni e cioè di raccogliere e condividere con gli altri Centri
Funzionali sia i dati parametrici relativi ai rischi provenienti dalle reti di monitoraggio sul territorio
e via satellite, sia le info provenienti dalle attività di vigilanza e contrasto degli eventi svolte sul
territorio. Inoltre, essi hanno lo scopo di elaborare un’analisi in tempo reale degli eventi in atto sulla
base di modelli previsionali e di valutazione, di assumere la responsabilità di tali info e valutazioni
attraverso l’adozione, l’emissione e la diffusione regolamentata di Avvisi e Bollettini sull’evoluzione
degli eventi e sullo stato di criticità atteso e/o in atto sul territorio.

Il sistema di allertamento prevede che l’attività dei centri funzionali si sviluppi attraverso una fase
previsionale e una fase di monitoraggio e sorveglianza in tempo reale degli eventi e di valutazione
delle conseguenze sul territorio. La fase previsionale è costituita dalla valutazione della situazione
attesa, dai relativi effetti che tale situazione può determinare dell’integrità della vita, dei beni, degli
insediamenti e dell’ambiente, e porta alla comunicazione di scenari di rischio alle Autorità competenti
per le allerte e per la gestione delle emergenze in attuazione dei piani di emergenza. Il Territorio è
suddiviso e classificato e sono stabilite le soglie parametriche di riferimento, gli scenari i rischio
sono valutati sulle zone. Tale sistema è articolato su tre livelli di criticità: ordinaria, moderata ed
elevata a cui corrispondono livelli di allerta sulla base dei quali sono attivate le fasi operative previste.
La fase di monitoraggio e sorveglianza ha lo scopo, tramite la raccolta, concentrazione e
condivisione dei dati rilevati, per i vari fini, dalle diverse tipologie di sensori o tramite notizie non
strumentali locali, di rendere disponibili info sull’evoluzione dell’evento in atto.
A tal fine, le attività di monitoraggio e sorveglianza sono integrate dalle attività di vigilanza non
strumentale sul territorio attraverso presidi territoriali organizzati a livello regionale, provinciale e
comunale, per reperire info locali sulla reale evoluzione dell’evento e darne comunicazione alla rete
dei Centri Funzionali e ai diversi soggetti competenti attraverso le sale operative regionali.

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Il legislatore a livello nazionale, a fronte di un anarchia terminologica e simbolica che le regioni
stavano adottando scegliendo terminologie diverse, ha deciso che esistono 4 livelli di criticità:

1) Verde (assente): non sono previsti fenomeni naturali che possono generare il rischio
considerato;
2) Giallo (ordinaria): sono previsti fenomeni naturali che possono dar luogo a situazioni
usualmente e comunemente accettabili dalla popolazione e governabili a livello locale;
3) Arancione (moderata): sono previsti fenomeni naturali che non raggiungono valori estremi,
ma che possono interessare un’importante porzione di territorio o dare luogo a danni e a rischi
estesi per la popolazione;
4) Rosso (elevata): sono previsti fenomeni naturali suscettibili di raggiungere valori estremi, che
possono dare luogo a danni e rischi anche gravi per la popolazione e interessare in modo
diffuso il territorio.

A seconda che io sia una fase (livello di criticità) o in un'altra le azioni da fare sono diverse. Il
passaggio da un livello all’altro innesca una serie di azioni territoriali; l’innesco o il non innesco sono
responsabilità del Sindaco.

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Ovviamente i livelli di criticità non possono
essere estesi a livello regionale e nazionale in
modo uniforme in quanto il tutto dipende dalla
geomorfologia, dalla geografia fisica. Per
questo motivo la Regione è divisa in aree
omogenee, ad es. nel caso della Lombardia che
è stata divisa in 14 aree omogenee per il rischio
idrogeologico. Ess in base agli studi storici e del
passato si possono considerare a gradi linee con
caratteristiche idrogeologiche univoche.
L’obiettivo del legislatore è stato proprio quelo
di individuare delle aree sul territorio omogenee nelle caratteristiche idrogeologiche. Il confine tra le
aree non è provinciale, ma per praticità i confini sono stati fatti poi coincidere con i limiti cmunali.
Ogni volta che viene emesso un bollettino, ogni Comune sa dove ricade e quindi come agire.

Gli elementi che mi fanno passare da un livello di criticità all’altro sono le soglie pluviometriche in
questo caso idrogeologico. Tutti i Centri Funzionali hanno raccolto tutti i dati del passato e si è visto

qual era il rapporto tra precipitazione ed eventi e sono stati fatti una serie di studi di carattere
scientifico, analizzando le banche dati storici, i dati storici pluviometrici, rapporto tra precipitazioni
ed evento. Nel 2008 sono stati istituiti dei valori numeri precisi di precipitazione per i passaggi tra i
livelli di criticità (S0, S1 e S2).

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La stessa cosa è stata fatta per il rischio valanghe dove sono identificate solo le aree più
settenrtrionali della regione Lombardia. Le soglie di criticità non fanno riferimento a quella regionale,
ma vi è la scala ineva.
La stessa cosa vale per il rischio di incendio boschivo con suddivisioni marcate nella parte montana
della regione e più ampie nella pianura.

PIANIFICAZIONE DI EMERGENZA

La pianificazione di emergenza rientra tra le attività non strutturali come l’allertamento. L’attivitò
di pianificazione compete al DPC per i piani nazionali, alle Province per i piani provinciali, ai
Comuni, per i piani comunali e alle Comunità Montane per i piani intercomunali in aree montane. I
piani di protezione civile sono nati nel 1998 e le linee guida sono di competenza delle Regioni. Ogni
regione è libera di dare delle direttive diverse su come devono essere fatti i piani. Per la Regione
Lombardia la legge vigente è la 16/2004 che ha avuto poi un allegato tecnico nel 2007 in cui sono
esplicitati esattamente le modalità con le quali è redatto il piano di protezione civile. I piani si basano
sulla definizione degli Scenari di Rischio che conducono alla definizione del modello di intervento
di emergenza.

Il piano deve essere costruito in coordinamento con tutti gli organi competenti; esso deve prevedere
in linea di massima il tipo di evento e le sue conseguenze (scenari di evento), indicare le persone, i
mezzi e le strategie da porre in campo per il soccorso alla popolazione (comportamenti da adottare in
emergenza). Infine, esso deve essere di continuo aggiornato e prevede delle integrazioni. Inoltre, il
piano deve essere testato e quindi deve prevedere delle esercitazioni.

L’obiettivo principale di un piano di emergenza dovrebbe essere quello di predisporre procedure e


protocolli per gestire l’emergenza; favorire le capacità di enti ed organizzazioni di lavorare insieme
e di abbinare mezzi, materiali e manodopera con le esigenze dell’emergenza. Il piano di emergenza
si presenta come un documento generale con la metodologia adottata per la redazione del piano,
schede operative con le procedure di intervento, cartografia di inquadramento e carte tematiche
(elementi di pericolosità, elementi vulnerabili, scenari di rischio) ed eventuale applicativo per la
gestione del piano.

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Il Piano di PC prevede 3 fasi distinte: la prima fase consiste nella definizione del quadro conoscitivo
del territorio, la valutazione della pericolosità e identificazione degli elementi a rischio e della loro
vulnerabilità. La seconda fase prevede l’individuazione dello o degli scenari per i rischi presi in
considerazione; la terza fase consiste nella verifica ed aggiornamento.

In Regione Lombardia è obbligatorio l’utilizzo dei SIT per l’organizzazione dei dati secondo il
mosaico dei piani di emergenza. Il piano deve essere realizzato in formato “aperto” per permettere
successive rielaborazioni (.tif) e le tavole degli scenari devono avere come formato max A3.

Lo schema mostra il modello del piano di Protezione Civile nelle 3 fasi descritte precedentemente.
La prima fase è la raccolta dati (a seconda del territorio cartografie varie sono già esistenti) che sono
disponibili sui geo portali. Tali dati devono portare a definire i 5 rischi che sono riportati in alto nello
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schema. Il quadro conoscitivo del territorio è inerente all’assetto urbanistico, sistema delle
infrastrutture, assetto idrogeologico, sistema delle reti di monitoraggio. Quindi vi è la necessità di
creare una banca dati georeferenziata. Inoltre, vi è la valutazione della pericolosità con uso di carte e
dati prodotte da Comuni (pianificazione territoriale), Regioni (progetto IFFI), Autorità di bacino
(PAI), enti di ricerca. Gli oggetti su cui l’evento interviene sono diversi: sedi istituzionali (Municipio,
Prefettura che devono essere localizzate in zone a basso rischio), sedi delle strutture operative (VVF,
CR), sedi dei centri operativi (CCS, COM), scuole, ospedali, case di riposo, chiese, centri
commerciali, stazioni, aeroporti, porti, impianti energetici, reti tecnologiche, viabilità primarie e non.
Le strutture sensibili possono essere trovate nella cartografia comunale.

La seconda fase porta all’individuazione di n scenari legati ai diversi tipi di rischi. Per alcuni rischi
(incendi e rischio idrogeologico) abbiamo monitoraggio e precursori (soglie). Per tutti gli scenari vi
è il modello di intervento e procedure specifiche (UCL) cioè il chi fa che cosa.

RISCHI ESAMINATI

I rischi valutati sono quello idrogeologico, di incendio boschivo e quello industriale. La fase di
lavoro consiste in raccolta dati presso il comune, creazione della banca dati strutturata e
georeferenziata, valutazione degli eventi incidentali, valutazione delle eventuali pericolosità
idrogeologiche, individuazione degli elementi vulnerabili, creazione degli scenari di rischio. Stesura
definitiva del piano e modello organizzativo e formazione del personale comunale. Presso gli uffici
tecnici dei comuni devono essere raccolte tutte le info necessarie alla stesura del piano (cartografia
comunale 1:5000 o piani esistenti), elenco aziende a rischio di incidente rilevante, elenco attività
produttive, dati di popolazione, dati delle strutture sensibili (ospedali), infrastrutture varie e dati
storici. Quindi, un approccio fondamentale dei PC è recuperare le mappe di pericolosità dei vari rischi
già prodotte soprattutto per la pianificazione territoriale. Queste info mappano in modo preciso quali
siano le aree vulnerabili e con quei dati costruiamo gli scenari di rischio.

Se prendiamo il rischio idrogeologico dobbiamo fare riferimento a quanto previsto dalla normativa
regionale per la Pianificazione territoriale (PGT) → Legge 12/2005, componente geologica dei PGT.
Tale legge definisce dei criteri attuativi per la realizzazione del piano di governo: modalità per la
pianificazione comunale, componente geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del
territorio, sviluppo del SIT, valutazione ambientale di piani e programmi. In questo protocollo

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pianificatorio vi è una parte conoscitiva dei processi in atto sul territorio comunale e successivamente
vi è la produzione di cartografia di sintesi attraverso cui si identificano tutti i processi in atto che poi
porteranno a una cartografia vincolistica. Quindi si ha prima una fase di analisi con il quadro
conoscitivo, poi la fase di sintesi con carta di sintesi e dei vicoli, poi la fase di proposta con la carta
di fattibilità e infine il raccordo e recepimento con gli strumenti di pianificazione sovraordinata (PAI,
IFFI). Tutti questi dati rientrano nel SIT integrato.
Per quanto riguarda il rischio idrogeologico, vi è una nomenclatura e procedura che è a competenza
dei geologi e l’obiettivo di questo percorso è l’analisi della cartografia geologica, individuazione delle
aree in classe 4 della carta di fattibilità geologica, verifica del processo in atto, analisi degli eventi
storici (tempi di ritorno e magnitudo) e individuazione dello scenario di rischio.
In questo percorso, quindi, la documentazione storica ha una parte rilevante. Il caso sotto rappresenta

la cartografia del rischio idraulico sul territorio di Castellanza; si osserva come questa
rappresentazione reale abbia un limite definito quasi rettilineo e ciò è legato al processo in atto e alla
morfologia territoriale. In corrispondenza delle linee verde ci sono i terrazzi. La parte gialla e rossa
sono parti ribassate. Quindi tale mappatura tiene molto conto degli aspetti morfologici.

Altro esempio è la parte di Isola a Bergamo cioè quel territorio che si trova tra il fiume Brembo. Esso
è un territorio con caratteristiche morfologiche ben precise, quindi chiuso tra due fiumi, con la parte
montana pedealpina spessa soggetta a incendio boschivo. L’analisi dei dati storici ci porta a vedere
sul territorio quali sono state le conseguenze di un evento. L’analisi di tali effetti ci può portare a fare
delle valutazioni precise su quelle che sono le varie pericolosità e scenari che posso costruire.

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Invece, per quanto riguarda il rischio industriale che è legato alle azioni dell’uomo e le industri sono
diffuse sui territorio in varie forme e misure. In un piano di PC l’obiettivo è capire quali possono
essere gli incidenti. Tutto è controllato dalla Legge Seveso, nella quale in seguito a quello che è
avvenuto a Meda negli anni ’70 per alcune attività industriali, è obbligatorio un piano di emergenza
esterna. Tali industrie inserite nella legge sono dette ”industrie incidente rilevante”. Per le altre
industrie non vi è un piano di emergenza ed è proprio qui che entra in gioco la cartografia preesistente
che può dare info utile anche solo l’ubicazione di aziende che trattano materiale critico che in caso di
incidente possono essere rischio per la salute pubblica o per l’ambiente. I Comuni hanno un elenco
delle industrie che agiscono sul loro territorio.
Il piano di emergenza esterno è un processo di analisi del ciclo produttivo con l’obiettivo di conoscere
il rischio, pianificare gli interventi, coordinare le azioni e soprattutto informare le persone interessate
sul comportamento da tenere in caso di incidente. In definitiva gli obiettivi del PEE è quello di
ottimizzare le azioni affinché, in caso di incidente, tutte le procedure siano predisposte al meglio per
intervenire in maniera rapida ed efficace.

Un esempio di PEE è sempre nel Comune di Castellanza dove vi è un polo chimico, cove lo scenario

del PEE cioè l’area interessata da un eventuale incidente è in rosso. Il limite netto è quello comunale
e come confini a sud vi è SS Sempione e la ferrovia.
Alcune aziende IRIR hanno dato alla popolazione degli opuscoli informativi su quelle che sono le
procedure di allertamento (emissione sonora, allarme) e su quali comportamenti tenere.

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Quindi, l’ubicazione delle altre aree produttive può essere riportata in cartografie presenti in uffici
comunali nel settore ambiente e nelle tavole PRG/PGT. Esistono mappe che suddividono il territorio
in base alla tipologia di industria (alimentare, editoria, abbigliamento, carta, gomme).
L’altro esempio è usare tali banche dati in modo utile: recuperare codici ATECO (sotto) attività
produttiva da archivi. Ad esempio, altre attività produttive da Banca dati AIAP di ARPA Lombardia.

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Per quanto riguarda l’incendio boschivo per quanto concerne l’analisi degli scenari è molto semplice.
Primo aspetto sono le mappature delle aree boscate che le trovo nelle cartografie istituzionali. La
costruzione dello scenario non può essere legata ai punti di innesco perché sono casuali. Invece, posso
vedere tutti gli elementi che concorrono all’intervento: punti di presa acqua, estintori, strade carrabili
per soccorso, punti atterraggio elicotteri o aerei, dove prendono acqua.

Per quanto riguarda il rischio sismico, la parte di scenario del rischio idrogeologico non è qui
applicabile perché se io ho un sisma, il territorio coinvolto non è una porzione del comune, ma è la
totalità del comune. Si pone il problema della vulnerabilità dell’edificio al sisma stesso. Il terremoto
genera delle onde, che scorrono nel sottosuolo, subiscono amplificazione che terminano sulla
superficie del suolo che forniscono accelerazione al suolo stesso che viene poi trasferita all’edificio.
Il piano di emergenza prevede l’esistenza di strutture dove poter spostare le persone durante la messa
in sicurezza degli edifici.

MODELLI DI INTERVENTO

Una volta riconosciuti i rischi e aver fatto gli scenari bisogna definire il modello operativo comunale
e il modello di intervento basato sulla UCL e sulla realizzazione delle procedure operative di
intervento.
L’Unità di Crisi Locale o UCL è composta da figure “istituzionali” presenti in norma in ogni
comune e sono:
- Il Sindaco
- Tecnico comunale
- Comandante della Polizia Locale
- Responsabile del Gruppo comunale di PC
- Rappresentante delle Forze dell’Ordine del luogo.

Il legislatore ha previsto con la legge 16/2004 un Referente Operativo Comunale (ROC) che è la
figura che il Sindaco individua nell’amministrazione comunale tra i funzionari. Il ROC ha compiti
operativi in fase di normalità (sovraintende la stesura e/o all’aggiornamento del piano di emergenza
comunale) e in fase di emergenza (sovraintende la sorveglianza del territorio, coordina evacuazioni).
Esso è una figura facoltativa ed è un supporto al Sindaco.
Il ruolo del Sindaco deve risultare “alleggerito” dalle deleghe, di carattere prettamente operativo (non
nella responsabilità), che hanno investito le figure del ROC e del REC . Tali figure rappresentano

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l’alter ego del Sindaco nei numerosi quanto diversificati aspetti operativi che vanno attuati con
tempistiche e in condizioni spesso caratterizzati da notevole criticità, basti pensare alle concitate fasi
nelle quali si può sviluppare l’emergenza. Spesso la figura del Sindaco, quale ufficiale di governo, si
dimostra preziosa nel tenere contatti con la Prefettura e con altre Amministrazioni o Enti
coinvolgibili. Pertanto, la struttura organizzativa comunale va strutturata anche definendo le modalità
di attivazione delle funzioni di supporto.

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MODELLI DI PROCEDURA

Nel caso si verifichi un emergenza si opera con una iniziale definizione


del modello di intervento (legge 225 → normalità, preallarme, allarme,
emergenza).
I passaggi da una criticità all’altra sono dati da soglie pluviometriche
ad es. che sono poste su un area vasta e omogenea. L’obiettivo della
procedura è la chiarezza. L’obiettivo è quello di dare un protocollo
operativo attraverso diagrammi di flusso. In funzione del livello di criticità e del tipo di rischio il
protocollo cambia. Attraverso poi i SIT posso crearmi degli scenari e quindi identificare le aree
colpite.

GESTIONE FASE DI PREALLARME (frana di Bindo come es.)


Quando è applicabile: quando perviene una notizia generica su previsioni di condizioni
meteorologiche avverse o segnalazione di spostamenti pari a 3 mm/ora (72 mm/giorno). Obiettivo:
comunicazione della notizia alla Struttura Comunale di Protezione Civile. Il Livello PREALLARME
(codice 1) corrisponde ad una fase preliminare, che fa seguito a: una comunicazione della Prefettura
o della Regione Lombardia – U.O di Protezione Civile (ad es.: previsione di arrivo perturbazione
meteorologica, non ancora in atto sul territorio comunale, con possibili precipitazioni > 75
mm/giorno) oppure la segnalazione da parte della Soc.tà Field srl di spostamenti pari a 3 mm/ora (72
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mm/giorno). L’Ufficio a cui perviene la notizia deve darne comunicazione, nel più breve tempo
possibile (telefonica, a mezzo fax o consegna a mano), al Sindaco protempore/ROC.

PROCEDURE ORGANIZZATIVE
Il Comune riceve il messaggio di Preallarme meteorologico e lo comunica al Sindaco/Roc che
provvede ad inoltrare l’informativa (via telefonica - e-mail - fax) alle seguenti figure/Enti: tutti i
componenti dell’UCL comunale (telefonica), geologo ………. - consulente comunale (telefonica e
fax). Ufficio geologico C.M. Valsassina (fax). Ditta Officina ………. (telefonica e fax). Impresa
Costruzione ……. (capogruppo ……...) affinché la stessa dia attuazione a quanto previsto nel proprio
P.E. (Piano di Evacuazione). Prefettura di Lecco, U.O. di P.C./Sala Operativa e Amm.ne Prov.le di
Lecco (tramite fax). In seguito, il Sindaco/Roc si mantiene in stato di continua reperibilità e l’Ing.
………si attiva per la verifica e monitoraggio dei dati pluviometrici al fine di identificare le ulteriori
soglie previste oltre le 24 ore. Se il Sindaco/Roc riceve il messaggio: - “….Si prevede miglioramento
della situazione meteo…..” oppure le condizioni meteorologiche tendono ad un netto miglioramento
oppure non si evidenziano aumenti nei valori di spostamento (comunicazione dalla Soc.tà Field srl)
il Sindaco /ROC attende conferma della situazione meteorologica e/o del monitoraggio e dichiara
concluso il preallarme ritornando alle condizioni di normalità. (vedi slide 200 cap. 2)

Gli elementi per tenere vivo un piano sono le esercitazioni e l’aggiornamento periodico. Le
esercitazioni devono mirare a verificare, nelle condizioni più estreme e diversificate, la capacità di
risposta di tutte le strutture operative interessate e facenti parte del modello di intervento, così come
previsto dal Piano. Esse servono per verificare quello che non va nella pianificazione. esse dovranno
essere verosimili, tendere il più possibile alla simulazione della realtà e degli scenari pianificati. Esse
dovranno definire in maniera chiara gli obiettivi (verifica dei tempi di attivazione, dei materiali e
mezzi, delle modalità di informazione alla popolazione, delle aree di ammassamento, di raccolta, di
ricovero, etc.), gli scenari previsti, le strutture operative coinvolte.

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Invece, per quanto riguarda l’aggiornamento: il Piano di Emergenza è uno strumento dinamico e
pertanto deve essere modificabile in conseguenza dei cambiamenti che il sistema territoriale (sistema
sociale o politico-organizzativo) subisce; per essere utilizzato al meglio nelle condizioni di alto stress,
necessita quindi di verifiche e aggiornamenti periodici. La durata del Piano è illimitata nel senso che
non può essere stabilita una durata determinata, ma si deve rivedere e aggiornare il Piano ogni volta
che si verifichino mutamenti dell’assetto territoriale del Comune o siano disponibili studi e ricerche
in merito a rischi individuati.

Il processo di informazione è definito, nella sua realizzazione, tramite una suddivisione tra: Info “in
tempo di pace” e Info “in emergenza”. Gli obiettivi fondamentali delle informazioni in tempo di
pace sono informare il cittadino sul sistema di PC, informare i cittadini riguardo il Piano di
Emergenza comunale, migliorare la percezione del rischio della popolazione, informare e interagire
con i media e aumentare la fiducia della popolazione negli esperti e nelle istituzioni. Le informazioni
in tempo di emergenza hanno come obiettivo quello di creare messaggi che fungano da vera e
propria guida per la popolazione, di produrre un flusso continuo di info per evitare l’insorgere nei
cittadini di abbandono e di mitigare la tendenza delle persone ad assumere criteri autonomi di giudizi
nell’attribuire il grado di rischio ad una determinata situazione.

Il Sindaco gestisce l’assistenza alla popolazione colpita e l’attività post emergenza ovvero i danni
subiti alle proprietà pubbliche e private e alle infrastrutture e al territorio. Si hanno schede di
compilazione danni che dipendono dal tipo di evento.
Per la regione Lombardia a questo proposito vi è il sistema RASDA che è il sistema di rilevazione e
stima dei danni. È un sistema in uso per la gestione del post-emergenza che standardizza e ottimizza
il procedimento di segnalazione, ricognizione e valutazione dei danni. Le finalità del sistema RASDA
è quello di fornire agli Enti Locali un supporto via Internet alla compilazione delle schede danni
relative ad eventi calamitosi di tipo naturale o indotti dall’attività dell’uomo, snellire ed
omogeneizzare la raccolta di dati e trasferire le segnalazioni in tempo reale tramite internet per una
rapida elaborazione della stima dei danni. I dati contenuti sono: la tipologia di danno, scenario di
evento. Verifica strutturale dei beni danneggiati e entità del danno subito.

Esistono diverse schede (A, B, C e D) in funzione del tipo di danno a cui si riferiscono; il punto
fondamentale è la Dichiarazione di stato di emergenza.

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PIANIFICAZIONE TERRITORIALE VS PIANIFICAZIONE DI EMERGENZA

Il rapporto tra la pianificazione territoriale e quella di emergenza è un ambito molto importante in


quanto, fino ad un primo cenno nella legge cento del 2012 e successivamente l’inserimento specifico
nel codice di protezione civile, questi due ambiti erano a sé stanti. Il processo di identificazione non
strutturale che si basa sugli scenari di rischio deve essere raffrontato con la pianificazione territoriale
ed essa deve tenere conto dei propri processi periodici di revisione e di quello che dice la
pianificazione di emergenza. La pianificazione di emergenza prevede l’identificazione di aree, vie di
fuga per la popolazione; tali aree nei centri urbani storici sono molto difficili da trovare e quindi nei
processi di revisione vengono previsti abbattimenti di edifici molto lesionali per creare vie di fuga.
La legge regionale dovrà sancire tale rapporto dal punto di vista operativo. Come visto, il piano di
PC comunale è un documento a carattere operativo.si introduce un nuovo concetto, ben applicabile
al rischio sismico, che è quello di Condizione Limite dell’Emergenza. L’obiettivo fondamentale è
che una qualunque emergenza ad es. un terremoto, creano un danneggiamento nettamente superiore
a quello strutturale e quindi se voglio mantenere il sistema socioeconomico funzionale devo fare una
serie di passaggi. Quindi, l’obiettivo è il mantenimento delle funzioni all’interno del centro storico,
lo spostamento delle funzioni in strutture in grado di reggere l’evento; quindi fare un processo di
prevenzione e quindi di riduzione del danno in generale. Quindi il danno urbano è maggiore della
singola somma dei danni agli edifici. Le risorse disponibili non permettono di mettere in sicurezza
l’intero patrimonio costruito in tempi ragionevoli: necessaria selezione e priorità. In condizioni di
incertezza e di complessità gli interventi di prevenzione non possono discendere direttamente da
analisi e valutazione ma dipendono in parte anche dagli obiettivi: scelte di scala urbana.

A questo proposito, la Protezione Civile definisce la Condizione Limite per l’Emergenza (CLE)
che è definita come quella condizione al cui superamento, a seguito dell’evento sismico, pur in
concomitanza con il verificarsi di danni fisici e funzionali tali da condurre all’interruzione delle quasi
totalità delle funzioni urbane presenti, compresa la residenza, l’insediamento urbano conserva
comunque, nel suo complesso, l’operatività della maggior parte delle funzioni strategiche per
l’emergenza, la loro accessibilità e connessione con il contesto territoriale.
L’analisi della CLE viene condotta insieme agli studi di microzonazione sismica. La CLE si esegue
a scala comunale e comporta l’individuazione degli edifici e delle aree che garantiscono le funzioni
strategiche per l’emergenza, l’individuazione delle infrastrutture di accessibilità e di connessione con
il contesto territoriale, degli edifici e delle aree di cui al primo punto e gli eventuali elementi critici;

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infine, si ha l’individuazione degli aggregati strutturali e delle singole unità strutturali che possono
interferire con le infrastrutture di accessibilità e di connessione con il contesto territoriale.
L’analisi della CLE dell’insediamento urbano viene fatta usando degli standard di archiviazione e
rappresentazione cartografica dei dati, raccolti attraverso una apposita modulistica predisposta dalla
Commissione Tecnica per gli studi di MS. In particolare, l’analisi prevede la compilazione di 5
schede:

- ES Edificio Strategico;
- AE Area di Emergenza;
- AC Infrastruttura Accessibilità/Connessione;
- AS Aggregato Strutturale;
- US Unità Strutturale.

Con la definizione della CLE nasce anche il concetto di SUM, Struttura Urbana Minima, cioè
quella parte di territorio in grado di rimanere funzionante e di assicurare nella fase di emergenza a
seguito dell’evento sismico, le funzioni vitali della città e nella fase post-sismica di consentire l’avvio
della ripresa.
Il PRG deve prevedere infrastrutture di PC e quelle volte a costituire la SUM; le linee guida per la
definizione della SUM nel PRG ai fini della riduzione della vulnerabilità sismica urbana;
individuazione degli strumenti, dei soggetti e delle modalità per la realizzazione della SUM nel PRG.
La Struttura Urbana Minima articolata nelle sue componenti costituisce parte integrante del PRG nel
senso che:
- le scelte del Piano devono essere definite anche dall’intento di migliorare il comportamento
urbano sotto sisma; a loro volta criteri e interventi per l’incremento di funzionalità della SUM
tengono conto dell’insieme di previsioni del Piano strutturale;
- l’individuazione degli elementi e dei sistemi che costituiscono la SUM è finalizzata a definire
un insieme sistematico di azioni e interventi urbanistici strategici e integrati (pubblici e
pubblico -privati) che devono far parte dell’ossatura delle previsioni di Piano.
- Con riferimento allo stesso articolo, gli elementi insediativi, funzionali e infrastrutturali
esistenti e di progetto che costituiscono la Sum fanno parte del PRG parte strutturale. Ciò
implica che: il PRG parte strutturale ne individua la localizzazione e gli obiettivi generali di
qualificazione antisismica; lo stesso Piano strutturale può già contenere la specificazione delle
azioni e degli interventi, nonché delle procedure attuative, oppure demandare alle fasi
successive del processo di pianificazione o ad altri strumenti settoriali (PRG parte operativa,

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piani settoriali, programmi di opere pubbliche, ecc.) la specificazione degli interventi
necessari e le modalità attuative.

La SUM costituisce il sistema essenziale dell’organismo urbano e cioè il sistema di percorsi, gli spazi
aperti, le funzioni urbane e gli edifici strategici. Essi servono per la risposta urbana al sisma in fase
di emergenza e per il mantenimento e la ripresa delle attività urbane ordinarie, economico e sociali.
Per spazio pubblico si intendono: piazze, aree verdi, aree per le emergenze, strade e percorsi pedonali;
esso è un luogo di relazione e riconoscimento di una comunità nel quale si genera senso di
appartenenza. Lo spazio pubblico assume il ruolo di ossatura fisico funzionale della Sum. La città
pubblica assume 3 diversi significati e ruoli: funzionale, identitario e di sicurezza. Il ruolo dello spazio
pubblico nella Sum in “stato di quiete” è visto come sistema di spazi collettivi per la vita quotidiana
mentre in “stato di emergenza” come sistema di spazi collettivi e come spazi per la sicurezza. In “stato
di emergenza” si riscopre la dimensione collettiva e il senso di comunità.

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Pericolosità delle alluvioni

In questo capitolo si tratterà l’analisi della pericolosità ossia quali sono i criteri e le modalità con le
quali valuto la pericolosità idrogeologica che è fondamentale per la definizione di cartografie che
portano alla definizione degli scenari di rischio. La parte di prevenzione e mitigazione deve essere
sviluppata in “tempo di pace” ed è la parte fondamentale che deve essere definita prima di andare a
operare nella pianificazione di emergenza.

Se dobbiamo parlare di pericolosità, si deve capire quale sia l’entità territoriale che deve essere
analizzata per lo studio della pericolosità delle alluvioni nel nostro caso (nel caso delle frane si studia
l’estensione e la forma). Nel caso delle
alluvioni, ovviamente non è un
problema di carattere locale del punto
dove avviene la precipitazione e quindi
lo studio del corso d’acqua deve essere
fatto all’interno del suo ambito
fisiografico di riferimento che è il
bacino idrografico. Esso è definibile
in base all’ordine del corso d’acqua,
che è definito in base a una sezione di
chiusura, ci sono sottobacini ecc. Si definisce bacino idrografico relativo ad una sezione di un corso
d’acqua (sezione di chiusura) la porzione di territorio che raccoglie tutte le acque che defluiscono
attraverso la sezione. Il bacino idrografico superficiale è delimitato dallo spartiacque topografico.
Analogamente, per il bacino i. sotterraneo si definisce una linea di spartiacque sotterraneo o
freatico. I due bacini non coincidono soprattutto nel caso di piccoli bacini; l’individuazione dello
spartiacque topografico è facile in carta dove siano indicate le linee isoipse (curve di livello); non
altrettanto semplice è individuare lo spartiacque sotterraneo che invece, si fa con dettagliate indagini
idrogeologiche che consentono di ricostruire il movimento delle acque sotterranee. Le creste
montuoso sono sempre dei limiti di bacino idrografico. Per tracciare lo spartiacque si considerano le
curve di livello di una carta topografica, se ne individuano i picchi e si uniscano con una linea,
perpendicolare alle curve di livello. Tutto ciò ha importanza in quanto la precipitazione ha effetti sul
trasferimento della pioggia nel bacino stesso. Il bacino i. principale ha la sezione di chiusura che
coincide con lo sbocco a mare, mentre quello secondario (sottobacino) ha la sezione di chiusura che
è una qualsiasi sezione fluviale posta a monte della foce.
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Si ha poi il reticolo idrografico definito come il complesso di collettori fluviali (abbiamo corsi
d’acqua perenni, grandi corsi d’acqua in cui scorre solo in alcuni mesi l’anno es. fiumare, zone
montane con corsi piccoli che sono oggetto di passaggio acqua solo durante la precipitazione ma essi
sono elementi di maggiore criticità per scenari locali es debris
flow) che raccolgono i deflussi idrici superficiali e li
convogliano alla sezione terminale del bacino; il versante è la
superficie laterale ai rami della rete sulle quali si abbattono le
precipitazioni che trovano recapito nella rete idrografica;
infine lo spartiacque è il perimetro che delimita il bacino.
È importante quindi definire che il bacino idrografico è il
luogo dei punti in cui le acque superficiali ruscellano verso lo
stesso collettore e quindi maggiore è il bacino maggiore sarà
la precipitazione che si trasferisce sul corso d’acqua e dal punto di vista terminologico si ha la
definizione del Legislatore che la chiama Unità fisiografica che raccoglie i deflussi superficiali
originati dalle precipitazioni che si abbattono sul bacino stesso e che trovano recapito nel corso
d’acqua naturale o nei suoi diversi affluenti.
Altro elemento fondamentale sono i concetti di bacino e sottobacino perché la suddivisione territoriale
del sistema fisiografico italiano è fatto di bacini idrografici distrettuali (bacino del Po, bacino del
Tevere). Quindi ogni fiume e/o torrente ha il suo bacino che è a sua volta il sottobacino del
fiume/torrente in cui confluisce.

Il bacino idrografico è stato per anni un concetto utilizzato solo nelle scienze applicate quali la
geografia fisica e l’idrologia che lo utilizzavano per le valutazioni quantitative (stima portate attese,
velocità d’erosione). La gestione dei fiumi era fatta secondo criteri amministrativi. Nel 1989 avviene
una svolta epocale → il bacino idrografico viene scoperto anche dal Legislatore.
A questo punto i piani di bacino diventano atti legislativi. La legge 183 del 1989 definisce le
Competenze in materia di “difesa del suolo”, prevede per la prima volta l’istituzione dell’autorità di
bacino, assume il “bacino idrografico” come riferimento territoriale; inoltre, il Piano di Bacino
diviene un nuovo strumento operativo con valore di Piano Territoriale di Settore. Quindi per la prima
volta si attribuiscono compiti di pianificazione e programmazione ad un Ente il cui territorio di
competenza è stato delimitato non su base politica, ma con criteri geomorfologici e ambientali.

Sappiamo che la risposta alla precipitazione è legata a cosa accade nel bacino idrografico e tra i
processi che agiscono sono la precipitazione P (una parte di essa evapora o evapo-traspira E). Quindi

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non tutta la precipitazione arriva alla sezione di chiusura. Dobbiamo poi tenere presente del guadagno
G (spartiacque superficiale e sotterraneo non sono coincidenti e una parte è legata al trasferimento
sotterraneo di P che ricade nell’altro bacino.

Quindi dobbiamo considerare che la risposta idrologica di un bacino dipende dalle precipitazioni che
si verificano su di esso, dalla loro intercettazione e dal successivo smaltimento; in generale, le P
crescono all’aumentare delle quote del bacino e possono assumere la natura di P nevose in relazione
alla posizione altimetrica dello zero termico.

REGIME PLUVIOMETRICO

Il regime pluviometrico è qualcosa che è stato fatto nel passato dove l’Italia è stata divisa in 5 aree:

1. Settentrionale
2. Zone alpine
3. Versante adriatico
4. Versante tirrenico e Sardegna
5. Puglia, Lucania, Calabria e Sicilia.

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Ciò ci dice che le caratteristiche climatiche e della circolazione atmosferica influiscono sul regime
pluviometrico. Esistono delle situazioni cicliche di ogni territorio: ad es. si consideri la figura 1 riferita
al Settentrione dove sull’asse x vi sono i mesi
dell’anno e sull’asse y non vi è scala (valori di
P anno per anno cambiano ma il rapporto è
uguale) → si hanno 2 picchi di P in primavera e
in autunno; questi massimi oscillano di 1-1,5
mesi. Ciò significa che la risposta autunnale sarà
maggiormente critica rispetto agli altri mesi
basti prendere i dati storici (alluvioni). Se ci
spostiamo nella figura 2 della zona alpina
notiamo che la situazione è diversa e essa risente
delle caratteristiche climatiche della pianura
(pianura si scalda in estate, vi è moto masse di
aria che salgono, tale aria è umida e va in
saturazione salendo→temporali). Grazie ai
regimi pluviometrici possiamo capire in quale
periodo dell’anno devo aspettarmi un evento
critico. Nella figura 3 cioè il Versante adriatico e figura 4 Tirrenico hanno un andamento simile in
autunno con un picco, ma cambia la risposta in primavera dove il versante tirrenico ha valori maggiori
rispetto a quello adriatico e ciò è legato al movimento delle masse di aria che sono prevalenti da W a
E in quel periodo dell’anno. Infine, nella figura 5 in Puglia, Lucania, Calabria e Sicilia si hanno i
massimi di precipitazione in inverno.
Insieme a questi dati vi sono poi dati quantitativi che
permettono di costruire delle carte della distribuzione
della P media annua a scala nazionale. Il valore medio è
pari a 990 mm/anno. Si osserva una diminuzione della
P al diminuire della latitudine, una coerenza della sua
distribuzione con le linee orografiche e un’influenza
sulla sua distribuzione dell’orientamento dei versanti
rispetto alla direzione dei venti prevalenti. Nei mesi
invernali (dic-feb) quando le formazioni cicloniche
investono l’Italia, le piogge risultano uniformi
sull’intera penisola ad eccesione dell’Appennino

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Centrale, in Calabria e Puglia. Nei mesi estivi (giu-ago), invece, si nota una netta diminuzione della
piovosità con il diminuire della latitudine. Le P si concentrano sulle regioni alpine. Valori di P di
poco maggiori a 100 mm predominano su vaste aree dell’Italia centrale e lungo l’Appennino. Le P si
mantengono su valori inferiori a 100 mm sul resto del Paese e a 50 mm sulle Isole.

Carte → a partire dalle misure puntuali effettuate ai pluviografi è possibile ricostruire l’andamento
spaziale dell’altezza di P in un dato intervallo di tempo. Il pluviografo serve ad avere info dettagliate
sull’andamento temporale delle precipitazioni. Tra essi i più utilizzati sono il pluviografo a sifone e
a bascula. Nella figura sotto vi è quello del secondo tipo costituito da una bilancia in cui cade l’acqua
e ogni volta che si riempie si muove e si svuota e calcolo il Volume di acqua.

Altre misure possono essere fate a livello dell’evapotraspirazione medianete evaporimetro. Quindi la
necessità di studiare il bacino idrografico comporta la necessità di avere dei dati di P, E, Q e di T.
Il dato strumentale è quello che ci consente di
costruire le curve di distribuzione spaziale
della precipitazione (isoiete). La distribuzione
spaziale della precipitazione risente di tanti
fattori tra cui l’orografia (altimetria) dove si vede
che P cresce al crescere della quota. La figura a
lato mostra la distribuzione spaziale della P per
effetto dell’altitudine Sud-Nord e lungo la
direttrice Ovest-Est nella Pianura Padana. Si
osserva l’effetto orografico soprattutto sui
versanti esposti ai venti dominanti da O-SO.
Se noi abbiamo come obiettivo quello di capire
quale sia il limite di pioggia (afflusso) sul bacino
e quindi avere la distribuzione sull’intero bacino.
L’afflusso meteorico ad un bacino è pari al
prodotto della sua area per l’altezza media delle P ad esso affluita detta altezza di pioggia hr.

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La determinazione dell’afflusso meteorico ad un bacino richiede il calcolo dell’altezza media di
pioggia caduta sul bacino stesso. Della disuniformità di distribuzione delle stazioni di misura può
essere tenuto conto con metodi empirici come quello dei topoieti (di Thiessen) con cui si determina
la pioggia media pesando le singole misure con pesi proporzionali alle aree di influenza di ogni
apparecchio misuratore. Con il tracciamento delle isoiete, possono essere considerati nella stima della
pioggia media, fattori quali l’orografia e la direzione del vento.

Esistono diverse modalità di calcolo:

1)Media Aritmetica → media aritmetica tra le stazioni presenti all’interno del bacino; come
vantaggio tale metodo è semplice da applicare con scarsi sforzi computazionali; come svantaggio
esso non ha legame con aspetti fisici del fenomeno e non vi è una spazializzazione del fenomeno.

2)Pesatura in funzione della distanza → è uno dei metodi più usati e si ha che il valore di pioggia
di un punto viene assegnato pesando le misure in funzione dell’inverso del quadrato della distanza W
= 1/d2: in pratica un punto vicino al punto 2 quindi il 2 sarà un valore importante rispetto agli altri
punti.

3)Metodo delle isoiete → il tracciamento delle isoiete si conduce collegando sulla carta topografica,
le stazioni pluviometriche vicine; su questi segmenti si individuano i punti in cui l’altezza di pioggia
assume valori interi; al crescere della distanza tra le stazioni crescono gli errori connessi all’ipotesi
di variazione lineare e il tracciamento delle isoiete deve essere ripetuto per ogni intervallo di tempo
considerato. Una volta ricostruite le isoiete, la P totale è calcolata valutando l’area compresa tra le
varie isoiete che ricade all’interno del bacino.

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4)Metodo dei poligoni di Thiessen → questo metodo è usato laddove ho molti dati pluviometrici: i
singoli pluviografi (A) vengono assegnati alle aree più vicine ad essi, dopo aver tracciato le linee
congiungenti le stazioni e bisezionato tali linee, costruendo le mediane. Ogni poligono è formato da
tali linee e dai limiti del bacino se periferico. Il volume della pioggia media è dato dalla somma delle
altezze di pioggia pesata sull’area. Si collegano con segmenti tutte le stazioni tra loro contigue, rete
triangoli. Si traccia l’asse per ogni lato della maglia individuando
un’altra rete: topoieti, ciascuno contenente una stazione. Si
assegna ad ogni stazione una superficie di influenza coincidente
con l’area del poligono.
La determinazione delle aree di influenza viene fatta tracciando
la perpendicolare al segmento congiungente ciascuna coppia di
stazioni pluviometriche per il punto di mezzo di ciascun
segmento. Si ottengono così dei poligoni irregolari di cui
ciascuna stazione occupa approssimativamente il centro. Le aree
così ottenute possono essere modificate per tenere conto di altri
parametri, come ad esempio l’effetto del rilievo sulla precipitazione. Si può tenere conto dell’effetto
del rilievo modificando il valore hi, attribuito a ciascuna area, in base all’altitudine media dell’area
stessa rispetto a quella del pluviometro ad essa appartenente.

5)Metodo statistico Kriging → metodo basato sulla teoria delle variabili regionali: esso assume che
la variazione spaziale rappresentata dai valori dei punti sia statisticamente omogenea; usa funzioni
matematiche per modellare la variazione della Z nell’area dei punti campionati. La variazione è
misurata usando la semi varianza e con la costruzione di un semi-variogramma (in asse x la distanza
tra coppie di punti e in asse y la semi varianza).

DEFLUSSO E PORTATE

Ho un deflusso di base e cioè ho acqua anche se non ho precipitazione; esso è definito da tempi
lunghi di trasferimento dato che l’acqua che si infiltra nel suolo raggiunge la rete idrografica solo con
grande ritardo. Poi ho un deflusso di pioggia che è la somma di afflusso diretto sulle acque dei fiumi

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e del deflusso superficiale. L’ambito territoriale del deflusso è il letto del fiume che è schematizzato
di seguito nella figura.

A seconda delle zone ho modalità di


intervento diverse: per la zona I che
sarebbe la zona interdetta in cui
dovrebbe essere proibito ogni nuovo
sviluppo; nella zona II è quella
regolamentata nella quale sono
ammesse solo certe strutture come
quelle ricreazionali e la zona III che è quella di allarme raggiunta da piene con Tr = 50 anni dove gli
abitanti dovrebbero ricevere l’allarme al sopraggiungere della piena.

Il deflusso superficiale è quella parte del deflusso che raggiunge la rete idrografica di un bacino per
scorrimento sulla sua superficie. Tale parte corrisponde alla cosiddetta precipitazione netta, cioè
alla parte di precipitazione che non si infiltra nel suolo, non rimane immagazzinata in depressioni
superficiali e non viene intercettata dalla vegetazione. I fenomeni di formazione e di trasferimento

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del deflusso superficiale rivestono un ruolo fondamentale nella genesi delle onde di piena e dei
processi erosivi che avvengono nei bacini idrografici.
Il deflusso superficiale, infatti, è la componente più rapida del deflusso e ad esso sono associati i
valori massimi della portata nella rete idrografica e sui versanti; lo studio di tali fenomeni riveste una
importanza nella pianificazione e nella progettazione degli interventi di protezione del territorio.
Durante una precipitazione possiamo
individuare diverse fasi:
- fase 1 ovvero il lungo periodo di assenza
delle P dove i deflussi arrivano quasi del
tutto dalle sorgenti a monte e dalle acque
sotterranee;
- fase 2 ovvero l’inizio delle P dove la
pioggia viene intercettata dalla vegetazione
e si infiltra nel suolo; i deflussi sono
alimentati solo da acque che cadono nella
rete idrografica;
- fase 3 ovvero le precipitazioni che portano ad un trasferimento maggiore della pioggia verso
il corso d’acqua fino al picco;
- fase 4 ovvero termine delle P dove cessa il deflusso superficiale. Le perdite per evaporazione
ed evapotraspirazione tornano ad essere significative, anche a causa della maggiore umidità
degli strati superficiali del suolo. Le portate e i livelli idrici del corso d’acqua diminuiscono
gradualmente con l’andamento esponenziale tipico dei fenomeni di esaurimento.

Vediamo ora altre grandezze idrologiche: la portata, l’idrogramma di piena, il tempo di corrivazione
e il tempo di ritorno.

PORTATA

La portata è il volume di acqua espresso in metri cubi che attraversa in un minuto secondo una data
sezione del suo alveo. Essa dipende dalla massa d’acqua, dall’area e dalla costituzione del bacino
imbrifero e dalla velocità di deflusso che a sua volta è in rapporto con la forma e con il dislivello tra
superficie libera dalla corrente.

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Quando parliamo di Piena intendiamo l’incremento di tale valore di portata dovuto ad un consistente
evento di pioggia e allo scioglimento di un manto nevoso rilevante.

IDROGRAMMA DI PIENA

Esso esprime l’evoluzione temporale della portata in una determinata sezione. La figura sotto

rappresenta un idrogramma di piena che ha un andamento a picco: ha iniziali valori bassi che
corrispondono all’inizio dell’evento, poi cresce raggiungendo il suo valore massimo e poi decresce.
In genere la pendenza del ramo discendente è inferiore di quella del ramo ascendente perché dipende
da fattori di bacino. Noi identifichiamo quindi un tempo di picco tra l’inizio dell’evento e il colmo.
Esso è funzione del tipo di bacino idrografico, della sua costituzione (permeabilità, carsismo, alpino).
Se teniamo conto anche dell’idrogramma delle precipitazione si noterà che vi è uno sfasamento tra il
massimo delle precipitazioni e il massimo della portata. Ed esso è il tempo di picco ovvero il tempo
necessario della pioggia ad arrivare dalla parte alta del bacino sino al punto di misura della portata e
questo valore è diverso per ogni bacino.
L’idrogramma di piena è in realtà l’unione dei due tipi di deflusso (di base e di pioggia): dal grafico
è possibile individuarli e separarli. La separazione richiede l’individuazione degli istanti in cui inizia
e finisce il deflusso di pioggia, poi si ha il tracciamento della linea di separazione cioè la

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determinazione dell’idrogramma del deflusso di base. L’idrogramma di pioggia si determina per
differenza.
Lo sfasamento tra il massimo della P e il massimo della Q è strettamente legato al bacino. Se io vado
ad impermeabilizzare i bacini idrografici accade che il picco di portata si alza (perché diminuisce la
quantità di deflusso sotterraneo) e si sposta verso l’asse y quindi il tempo che intercorre tra il massimo
di P e di piena sarà minore. Questo tempo è importante perché è quello che ho a disposizione per
intervenire.

Si hanno 2 metodi nella figura sopra: si prolunga (all’indietro) fino all’istante di picco la curva
esponenziale che rappresenta il deflusso di base dopo la fine del deflusso di pioggia, e si unisce con
una retta il punto così individuato in corrispondenza del tempo di picco al punto dell’idrogramma in
cui inizia il deflusso di pioggia. Si attribuisce all’idrogramma di base, tra gli istanti di inizio e di fine
del deflusso di pioggia, un andamento semplicemente lineare.

Le portate e i deflussi dei corsi di acqua non si possono misurare direttaemente raccogliendo l’acqua
che attraversa la sezione in un dato intervallo di tempo. Solo nel caso dei corsi piccoli si possono
eseguire misure dirette che rappresentano l’esatto corrispondente delle misure di pioggia.
La portata corrisponde alla quantità di acqua che in un certo istante attraversa una data sezione (unità
di misura m3/sec). Il deflusso superficiale corrisponde alla quantità d’acqua che attraversa una certa
sezione in un intervallo generico di tempo (unità di misura m3/sec). Il livello idrometrico rappresenta
il livello del pelo libero, misurato rispetto ad un determinato riferimento, corrispondente ad una certa
portata (unità di misura m).
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Il metodo di misura delle portate di gran lunga più diffuso consiste nell’eseguire un certo numero
di misure di velocità in diversi punti, opportunamente distribuiti, della sezione liquida. Lo strumento
per misurare la velocità dell’acqua in un punto si chiama mulinello, costituito di due parti:

- un equipaggio mobile che, investito dalla corrente, ruota ad una velocità che è funzione della velocità
della corrente;
- dispositivo utilizzato per contare il numero di giri, che provoca la chiusura di un contatto elettrico
(p. es. ogni 10 giri dell’equipaggio). Mulinello: in inglese “current meter”.

I supporti dei mulinelli sono di due tipi: zavorre sospese a cavo e le pertiche. Le zavorre, chiamate
per la loro forma pesci, sono masse metalliche piuttosto grosse, affusolate per offrire la più bassa
resistenza idrodinamica possibile, di lunghezza dell’ordine del metro e di peso compreso fra 5 e 150
kg.
Le misure a guado sono riservate ai casi di profondità limitate (< 0.5 m) e di velocità della corrente
modeste (< 2 ms-1). Quando le manovre si eseguono a guado (vedi figure), si utilizza normalmente
una micropertica, che si tiene verticale e appoggiata sul fondo, con il mulinello fissato in modo da
poter scorrere lungo l’asta.

Per livello idrometrico in un determinato luogo del fiume si intende la misura del dislivello tra la
superficie dell’acqua di un fiume ed un punto di riferimento altimetrico che può essere il livello medio
del mare (l.m.m) oppure il riferimento “zero” dell’idrometro stesso (detto zero idrometrico).
Le misure dirette di portata sono decisamente onerose, con notevole impiego di attrezzatura e di
personale. Il problema dell’osservazione delle portate dei corsi d’acqua si risolve quindi facendo
ricorso a misure indirette: si misura il livello idrometrico, e da questo si stima, sulla base di una
relazione fra livelli e portate, il dato di portata. In realtà, la portata che attraversa una data sezione di
un corso d’acqua in un certo istante è funzione di:
- area della sezione bagnata;
- velocità media sulla sezione (funzione a sua volta della perdita specifica di energia).
Quindi la portata di un corso d’acqua è funzione del livello idrometrico.
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Si assume quindi che per una data sezione di un corso d’acqua esista una relazione biunivoca
(significa che per un dato livello esiste un unico valore di portata e che per una data portata esiste un
unico valore di livello) tra portate e livelli (scala delle portate), che permette di trasformare le
osservazioni di altezza d’acqua in osservazioni di portata. Su queste assunzioni si basa il rilevamento
sistematico delle portate dei corsi d’acqua naturali. Naturalmente la determinazione della scala delle
portate richiede l’esecuzione di un certo numero di misure contemporanee di livello e di portata.
Queste misure però si limitano al numero indispensabile per una corretta definizione della scala delle
portate, mentre la gran massa delle misure di portata si ottiene dall’elaborazione di semplici misure
di altezza.

La scala delle portate viene determinata adattando una funzione ai dati di portata e livello
idrometrico ottenuti durante una campagna di misura. I valori di portata si determinano sulla base
della geometria della sezione liquida (che viene discretizzata nel modo indicato in figura) e dei valori
di velocità misurati in corrispondenza delle linee centrali. Il numero minimo di segmenti da utilizzarsi
è pari a 20 (Sezione 8.1.2. norme ISO 748- 1979). La portata qi in corrispondenza di ogni segmento
di area si determina come:

La portata totale, quindi, si determin sommando tutte le portate incrementali relative ai diversi
segmenti. Un ‘affidabile scala delle portate viene costruita su un intervallo di misure di livello e
portata il più possibile esteso (è quindi necessario effettuare misure sia in condizioni di magra che di
morbida o piena - se possibile).
Lo strumento per la misura del livello dell’acqua o altezza idrometrica nei fiumi e nei laghi si chiama
idrometro o anche, nel caso dei laghi, limnimetro. La sezione in cui si installa l’idrometro deve
essere stabile (altrimenti si perde la consistenza della scala delle portate). Nel caso di correnti lente

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per migliorare la precisione delle misure è bene scegliere una sezione in cui, a parità di variazione di
portata, la variazione di livello sia particolarmente sensibile.
L’idrometro più semplice è l’asta idrometrica. Asta graduata, solidamente fissata alla spalla di un
ponte o ad un muro di protezione, lunga abbastanza da restare immersa in acqua anche quando il
livello è eccezionalmente basso e visibile anche quando è eccezionalmente alto. La lettura delle aste
idrometriche si fa generalmente ad ora fissa (una volta al giorno - in Italia a mezzogiorno). L’asta
idrometrica può essere materialmente divisa in più segmenti separati, fissati in posizioni diverse, così
che si possa seguire l’escursione dei livelli senza difficoltà. In linea di principio, lo zero
dell’idrometro dovrebbe trovarsi ad una quota tale che le misure di livello siano sempre positive,
anche nel caso delle magre più eccezionali. Quando ciò non succede la parte della scala che resta al
di sotto dello zero è graduata, come è naturale, con valori negativi. In ogni caso si prende sempre nota
della quota dello zero idrometrico rispetto ad un caposaldo topografico posto al sicuro dalle piene,
così che in caso di distruzione dell’idrometro si possa provvedere alla sua sostituzione senza dover
determinare di nuovo la scala delle portate. Quando la registrazione dei livelli deve essere continua
si utilizzano degli strumenti automatici, di nome
idrometrografi. Questi strumenti differiscono fra loro sia
per il principio su cui si basa l’organo di rilevamento vero e
proprio (sensore di livello), che produce un segnale
variabile al variare del livello, sia per il tipo di apparecchio
utilizzato per registrare le misure. In figura è descritto
l’idrometrografo a galleggiante. Le escursioni del livello del
pelo libero fanno salire e scendere il galleggiante e il filo,
mantenuto in tensione dal contrappeso, si muove facendo
ruotare la puleggia. Questa trasmette la rotazione ad un
secondo filo, al quale è fissato un equipaggio mobile, che porta una punta scrivente che può scorrere
su guide verticali. La punta scrivente lascia una traccia su una carta avvolta intorno ad un tamburo ad
asse verticale, tenuto in lenta rotazione da un meccanismo ad orologeria.
Il filo a cui sono fissati il galleggiante ed il relativo contrappeso scorre all’interno di un tubo verticale,
del diametro di qualche decimetro, che protegge il dispositivo di misura ed inoltre garantisce che lo
specchio d’acqua che sostiene il galleggiante sia al riparo da onde causate dal vento, dal passaggio di
imbarcazioni e da altri fatti accidentali, alle quali corrisponderebbero oscillazioni del galleggiante del
tutto prive di significato.

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In figura sotto è descritto l’idrometrografo a depressione. E’ costituito da un recipiente chiuso, in
parte pieno d’acqua, posto ad una certa quota la di sopra dello specchio d’acqua di cui si vogliono
misurare le variazioni di livello. Il recipiente comunica da una parte con lo specchio d’acqua, per
mezzo di un tubo che deve essere abbastanza lungo da restare sempre immerso anche quando il livello
scende ai valori minimi, e dall’altra ad un manometro registratore. In queste condizioni la differenza
tra la pressione atmosferica e quella nel baricentro del manometro è proporzionale alla differenza tra
la quota del baricentro e quella del pelo libero nel punto che sovrasta lo sbocco del tubo.

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Il principio di funzionamento dell’idrometrografo a ultrasuoni è basato su di un trasduttore a
ultrasuoni che trasmette un impulso verso la superficie da misurare (la superficie liquida, in questo
caso) e rileva l'eco riflessa risultante. Il tempo intercorso fra l'impulso trasmesso e l'eco ricevuta è
convertito in una distanza. Il sensore deve essere compensato in temperatura, in quanto la celerità di
propagazione del segnale acustico in aria dipende, fra l’altro, dalla temperatura. (si mette sui ponti)

TEMPO DI CORRIVAZIONE

Il tempo di corrivazione è un parametro non misurabile ed è usato nei modelli concettuali afflussi-
deflussi; esso è un parametro caratteristico di ogni bacino ed è dedotto e rappresenta il tempo
impiegato da una goccia di pioggia, che cade in un punto del bacino, a raggiungere la sezione di
chiusura. Quindi, esso è un valore temporale che ci indica il lasso temporale impiegato dal punto più
lontano del bacino idrografico a raggiungere la sezione di chiusura. Tale parametro si fonda su alcune
ipotesi: la formazione della piena dipende solo dal trasferimento della massa liquida, ogni singola
goccia si sposta seguendo la stessa traiettoria, la velocità di una goccia non è data dai rapporti con le
altre gocce, le linee isocorrive rimangono le stesse anche al cambiare dell’intensità della pioggia,
della durata e la portata alla sezione totatle si ottiene dalla somma delle portate elementari.
In alcune ipotesi, le isocorrive sono considerate coincidenti con le isoipse. Ciò è valido se si
ipotizza che il tempo di corrivazione di ogni punto del Bacino sia proporzionale alla distanza che

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intercorre tra esso e la sezione di chiusura e che a punti di quota più elevata corrispondano distanze
maggiori e tempi di corrivazione più lunghi.
L’ipotesi è valida per bacini che si aprono a ventaglio, mentre per bacini allungati non può essere
valida in quanto ci sono zone di egual quota a distanze diverse dalla sezione di chiusura del bacino.

Esistono numerose formule per la stima del tempo di corrivazione a partire dai parametri morfologici
del bacino e sono di 3 tipi.

Quest’ultima è la sola che, tramite il parametro CN (curve number) chiama in causa il tipo di suolo
e le sue condizioni di umidità. Viene quindi costruita una tabella numerica che definisce i valori di
CN in funzione dei tipi di suolo e di uso del suolo. Il trasferimento della precipitazione superficiale
dipende da come l’agricoltura gestisce il suolo ad esempio.

Nel 1950 è stato istituito il Servizio Idrografico e Mareografico Nazionale che è poi confluito nelle
autorità di bacino e che suddivideva il territorio in compartimenti che seguivano più o meno i bacini
idrografici. Viene costituito nel 1917 dall'allora Ministero dei Lavori Pubblici con lo scopo di
uniformare, organizzare e rendere disponibili le misurazioni pluviometriche, Prima di allora, tali
misurazioni erano eseguite in maniera non coordinata da singole strutture che avevano svolto tale
compito negli stati preunitari. Il Servizio idrografico ha anche proceduto, fino alla sua dismissione,
alla pubblicazione dei cosiddetti Annali idrologici, relativi ai vari compartimenti in cui era stato
diviso il territorio. La divisione nei 14 compartimenti ricalcava grossomodo i bacini idrografici dei
principali fiumi italiani e teneva conto della particolare natura amministrativa dei vari territori.

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Oggi il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni viene attuato anche nei confronti del
Servizio Idrografico Italiano. Infatti, per la legge n. 112 si dispone che gli Uffici periferici del
Dipartimento per i Servizi Tecnici Nazionali siano trasferiti alle Regioni ed incorporate nelle strutture
operative regionali competenti in materia. Poi, il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri
del 24 luglio 2002 trasferisce gli Uffici compartimentali e le sezioni distaccate del Servizio
Idrografico e Mareografico Nazionale (SIMN) del DSTN. Questo ha comportato che le competenze
del Servizio Idrografico sono passate ad enti regionali (Arpa) e i precedenti compartimenti che erano
spesso sovraregionali sono stati costituiti da enti aventi estensione regionale. La pubblicazione degli
Annali idrologici non è più stata fatta e ogni struttura regionale si è incaricata di pubblicare i dati
corrispondenti.

Il SIMN curava in maniera continuativa e capillare il monitoraggio del territorio tramite la rete
idrometeorologica di telemisura in tempo reale, la rete idrometorologica tradizionale, la rete
mareografica nazionale, la rete ondametrica nazionale, la rete freatimetrica nazionale, l’archivio dei
dati idrometeorologici pubblicati e la rete di misura di dati chimico-fisici delle acque di sorgente.
Pubblicazione fondamentale del SIMN sono gli annali idorlogici dove la parte prima è formata da:
termometria (T max e min), pluviometria (precipitazioni anno) e meteorologia (p atm, umidità rel.,
vento al suolo). La parte seconda contiene delle tabelle riguardanti gli afflussi meteorici su alcuni
bacini, le portate e bilanci, trsporto torbido, indagini varie.

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Pericolosità delle Frane

Come abbiamo detto nel capitolo precedente, vi è la necessità di individuare nei processi dei parametri
quantitativi e numerici che possono servire in fase di costruzione degli scenari e quindi possono essere
utili per la definizione delle soglie locali.
Per potre valutare la pericolosità occorre
studiare a fondo i fenomeni naturali e
classificarli. L’importanza dello studio
risiede nella determinazione della
velocità di movimento del fenomeno
franoso. Tutto ciò è fondamentale per la
prevenzione in PC (monitoraggio).
Quando parliamo di frane e alluvioni, il
motore è unico ovvero le precipitazioni.
Il primo step per ogni tipo di valutazione
della pericolosità riguarda la realizzazione di cartografie di base con censimento delle frane e
mappatura aree fluviali.
Una frana è un rapido spostamento di una massa di roccia o di terreno residuale o sedimenti adiacenti
d un pendio, con movimento del centro di gravità della massa stessa verso il basso e verso l’esterno
(Terzaghi, 1950).
Esistono varie tipologie di classificazione che si basano o sulle modalità con cui la frana si manifesta
e sul tipo di movimento (di crollo, scivolamento, colamento) o sullo stato di attività della frana (attiva,
stabilizzata).
La caratteristica della frana è lo spostamento del materiale in vari modi dal posizionamento originale
e verso valle; quindi si hanno 2 elementi: il corpo di frana stesso (area rossa) e il piede della frana
(parte basale, dove si muoverà la frana). Ci sono
due zone caratteristiche ovvero quella di accumulo
e quella di distacco. La zona di accumulo è l’area
entro cui il materiale in frana si trova ad una quota
superiore rispetto alla superficie originaria del
versante (simile al piede) e la zona di distacco è
l’area entro cui il materiale in frana si trova ad una
quota inferiore rispetto alla superficie originaria del versante.

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Sulla base delle tipologie di movimento e dei materiali coinvolti, i fenomeni franosi sono suddivisi
in 5 tipologie secondo Varnes (1978): in questa classficazione non si tengono conto di volumi e
velocità.

- crolli e ribaltamenti
- espandimenti laterali
- scivolamenti (rotazionali e traslazionali)
- colamento o flussi (in relazione con canali valanghive, prec. Concentrate, temporali estivi)
- frane complesse

Le tipologie di frana ci servono per capire il movimento e quali sono le ragioni. Se dobbiamo pensare
ad un discorso di monitoraggio ci sono una serie di fattori (predisponenti e scatenanti) che devo tener
conto. I fattori predisponenti sono i pendii, caratteristiche litologiche, strutturali, tessiturali e
giaciturali dei materiali del pendio; i fattori scatenanti agiscono sul pendio indebolito e innescano
la frana come intense precipitazioni, attività sismica.

FRANA DI CROLLO
Essa è definita come il distacco e caduta di una massa di materiale da un pendio molto ripido per
caduta libera finchè non raggiunge il versante; dopo l’impatto prosegue per rimbalzi o rotolamenti
(cinematismo complesso). La cinematica dell’evento è veloce e quindi ha elevata periolosità e
notevole capacità distruttiva. Le traiettorie di caduta dipendono da molti fattori come la velocità
iniziale, la forma, le dimensioni e la litologia del blocco. La geometria del pendio e le sue

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caratteristiche litologiche incidono sull’energia liberata per
effetto degli urti. Il materiale coinvolto è roccia e raramente
detrito e terreni limosi-sabbiosi parzialmente cementati.
Le cause predisponenti sono: assetto geologico-strutturale e
litologia e le cause scatenanti sono azione gelo-disgelo,
pressione idrostatica nelle discontinuità, bioclastesi (radici),
azione eolica, scalzamento al piede per corsi di acqua.
La zona di distacco è suddivisa in nicchia (parete rocciosa
denudata con fratture aperte), scarpata (verticale, denudata, non
alterata e corrisponde a superfici di taglio) e fianchi (cunei di
roccia dura), mentre la zona di accumulo in testa e corpo di frana
(superficie irregolare ed è fatta dai detriti ed ammassi rocciosi
frantumati arrotondati nel rotolamento).

FRANE PER RIBALTAMENTO


Un fenomeno di ribaltamento richiede, invece, una rotazione verso valle di uno o più elementi rocciosi
attorno ad un punto per azione della gravità, di fluidi e/o di sollecitazioni sismiche. Il materiale
coinvolte è roccia. Il cinematismo è dato dalla rotazione di un
blocco o colonna con successiva possibilità di crollo o
scivolamento. Le cause predisponenti sono l’assetto geo-
strutturale e litologico, mentre quelle scatenanti sono sempre
le stesse di quelle di crollo in più si ha scalzamento al piede
per moto ondoso.

FRANE DI SCIVOLAMENTO
La tipologia più comune sul nostro territorio di frane sono proprio quelle di scivolamento che
implicano il movimento di materiale per scorrimento lungo uno o più piani di scivolamento. In
relazione alle caratteristiche geometriche della superficie di
scivolamento si suddividono in: rotazionali e traslazionali. Entrambe
le tipologie possono evolvere in crolli o colamenti.
Gli scivolamenti rotazionali avvengono lungo una superficie curva e
sono più tipici per i materiali omogenei naturali e non. Il materiale
coinvolto può essere terreno coesivo o rocce tenere. Il cinematismo è
dato dallo scorrimento di masse di terreno o roccia lungo una superficie curvilinea; si verifica spesso

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in seguito a rottura progressiva che si propaga a partire dal piede del pendio. Si tratta di un
cinematismo autostabilizzante. Le cause predisponenti sono date da un livello di debolezza, mentre
il fattore scatenante sono eventi meteorici intensi, sismi o scalzamenti al piede.
Gli scivolamenti traslazionali avvengono per lo più lungo
una superficie piana e/o debolmente ondulata impostata in
corrispondenza di piani strutturali o stratigrafici, contatti tra
coperture e substrato roccioso. Il materiale coinvolto può
essere roccia, terreno non coesivo o detriti di versante. Il
cinemtismo è dato dallo scorrimento di blocchi di roccia o
lame di terreno lungo una superficie planare in genere
coincidente con una superficie di debolezza (fratture o giunti). Le cause predisponenti sono la
presenza di un livello di debolezza e le cause scatenanti sono gli eventi meteorici intensi e i sismi.

FLUSSI O COLAMENTI
Secondo quanto descritto da Varnes (1978), possono includere
tipologie abbastanza differenti in funzione delle caratteristiche
dei materiali coinvolti (flussi in terreni asciutti e umidi o in
substrato roccioso), delle morfologie ad essi connesse e delle
velocità di movimento (da lentissimi movimenti di flusso o creep
in roccia e estremamente veloci per fenomeni di liquefazione e
colamento). Le superfici di scorrimento nella massa in
movimento non sono generalmente visibili, oppure hanno breve
durata. Il materiale coinvolto sono terreni e detriti e roccia
fratturata. Il cinematismo è dato da flussi viscosi di terreno
sciolto fluidificato senza vere e proprie superfici di
scivolamento. Si sviluppano spesso lungo le aste torrenziali
dando luogo a trasporti in massa eccezionali. Le cause
predisponenti sono le elevate pendenze e la disponibilità di
materiale da mobilizzare. Le cause scatenanti sono le forti
precipitazioni.
In una colata la nicchia di distacco non esistem la scarpata sta
nella parte alta e ha forma a V lunga e stretta e di solito presenza
delle striature. I fianchi sono profonde e irregolari in alto, e rigonfiamenti nella parte basale. Nella
zona di accumulo la testa non esiste, il corpo di frana è fatto da blocchi disperdi in matrice limosa e

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sabbiosa e segue canali di drenaggio il piede è assente. I colamenti possono essere di grande e piccola
(ci interessano per PC) dimensione. (frana di Gressoney ott. 2000)

FRANE COMPLESSE
Combinazione di due o più tipologie di movimento sia in settori diversi della massa in movimento
(suddivisione spaziale) sia in fasi diverse di sviluppo del movimento stesso (suddivisione temporale).
Frana Val Pola. (Vajont) → Lo scivolamento lungo una superficie di strato è stato il meccanismo di
rottura del versante del Monte Toc e ha dato luogo alla gigantesca disastrosa frana nel bacino della
diga sul Vajont. Il corpo di frana è entrato simultaneamente nel lago di sbarramento sollevando
un'enorme onda (dell'ordine di 30 milioni di metri cubi).

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Prevenzione e Mitigazione

Dal punto di vista del nostro sistema che abbiamo definito essere quello che ci guida ossia la gestione
del rischio nella prevenzione e mitigazione, parleremo di modelli della predizione della pericolosità,
delle opere strutturali e non.

Le opere di difesa sono variegate e sono di diersa natura, ma si suddividono in due categorie: opere
di difesa strutturale o puntuale come muri di sostegno, argini, rete paramassi che non hanno nessun
legame con la pianificazione territoriale: esse sono messe in un punto definito del territorio con uno
scopo preciso. Le altre sono le opere di difesa strutturali dalla pericolosità, come le vasche di
laminazione e le fasce fluviali che hanno un rapporto diretto con la pianificazione territoriale.
Si era parlato di pianificazione territoriale (strutturale e ha piena valenza nella gestione del rischio) e
di emergenza (non strutturale). La pianificazione territoriale non è legata solo allo sviluppo del
territorio, ma è anche il primo strumento di mitigazione del rischio. Si parla di mitigazione e non
eliminazione in quanto un rischio residuo per quanto piccolo, permane sempre. Quindi, si interviene
sempre con entrambe le tipologie, strutturali e non strutturali, soprattutto in casi ad elevata
pericolosità.

Innanzittuto, abbiamo detto che le frane hanno come elemento dominante la necessità di avere un
pendio e quindi l’elemento che sul pendio genera la stabilità o meno ovvero il campo di forze che si
genera. Quindi, la stabilità dei versanti dipende da tre fattori: l’inclinazione del pendio, la coesione
che tende a tenere uniti tra loro i materiali e l’attrito che contrasta la gravità.
Quindi, esistono 3 casi possibili:

- Coesione + attito = gravità (eq)


- Coesione + attrito < gravità (inst)
- Coesione + attrito > gravità (stab)

La causa principale che fa variare le condizioni è la presenza di acqua sulla superficie di scorrimento
facendo si che l’attrito sia perso e il materiale si mette in movimento.
Quindi, per ridurre la pericolosità si deve intervenire sull’evento, mediante opere di mitigazione
(difesa) che si suddividono in 2 tipologie: difesa attiva significa che noi agiamo per fare in modo che
l’evento non si verifichi cercando di eliminare le cause scatenanti come ad es. il drenaggio delle acque

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sup e sott; la difesa passiva, invece, si effettua quando il moto franoso è già in atto e per proteggere
i beni di interesse.
Le opere di difesa attiva cercano di evitare che avvengano i dissesti dove le principali cause di frane
sono l’erosione al piede del pendio, la circolazione idrica sup e profonda e l’eccessiva pendenza. La
difesa attiva ha lo scopo di contrastare e/o evitare i dissesti consolidando i versanti.

1. Erosione al piede del pendio: esso si verifica quando un corso di acqua asporta per erosione
la parte basale del pendio. Viene così alterata la stabilità del versante che tende a riportarsi in
equilibrio scivolando verso il basso. Le soluzioni possono essere proteggre il piede attraverso
una difesa spondale, rimodellare la morfologia del pendio e consilare il versante con specie
erbacee e arbusti. GABBIONATA → si oppongono per peso proprio e fanno filtrare l’acqua
attraverso gli spazi tra le pietre.

2. Circolazione idrica superficiale: in una prima fase si verificano modeste erosioni lungo le
linee di massima pendenza, ma in seguito, soprattutto durante precipitazioni intense,
l’accumulo di acqua nella pendice può provocare un fenomeno franoso. Le soluzioni sono
captare le acque di deflusso sup a monte del pendio e allontanarle, rimodellare il pendio e
consolidare il versante con arbusti. Erosione superficiale dovuto a deflussi idrici incontrollati:
se l’acqua defluisce in modo incontrollato lungo il versante, si vengono a formare dei solchi
che aumentano il grado di erosione impedendo la formazione di vegetazione. Per limitarne gli
effetti si realizza una rete drenante. In genere, i drenaggi superficiali corrispondono a canalette
superficiali, fossi di guardia, dreni intercettori
e riprofilatura (ridurre la pendenza e capacità
erosiva) versanti per eliminare le depressioni.
Lavori eseguiti a mano o con mezzo
meccanico in relazione alle difficoltà operative

73
con rimodellamento pendio, gradoni o scoronamento
cigli franosi per ridurre la velocità dell’acqua. Altri
metodi sono le strutture di sostegno per trattenere il
terreno come le gradonate con talee che permettono di
rinvenire le scarpate attraverso la formazioni di piccoli
gradoni lineari lungo le curve di livello del pendio in
cui si interrano fitti pettini di talee. Esse permettono
consolidamento e abbassamento dell’erosione
superficiale. Esistono poi le palificate vive che sono
strutture fisse in legname che formano piccole
gradinate a monte delle quali si raccoglie il terreno.
Infine, un ultimo tipo sono la grata viva che sono
una tipologia di intervento complesso rispetto ad altri
sistemi ma molto efficace anche con scarpate molto acclivi.

3. Circolazione idrica profonda: infiltrazioni di acqua in


profondità e la stabilità viene compromessa. È il caso più
complesso da risolvere. Le soluzioni sono l’indagine conoscitiva
mediante perforazioni per trovare la falda, drenaggi profondi per
la raccolta e allontamnamento delle acque e opere per controllare
il movimento della frana (es. Val Pola). In questo caso si usano
dreni intercettori che sono realizzati a monte
della nicchia di distacco e a valle del fosso di
guardia eseguendo uno scavo in profondità fino a
intercettare la superficie piezometrica della falda
e riempite da materiale drenante (ghiaia). La
raccolta e allontanamenro dell’acqua è garantito
da un tubo fessurato in pvc. La seconda foto in
bianco vi è un geotessile. La criticità di questi sistemi è vista nella prima foto cioè acqua
colorata per forte componente in sospensione e in erosione.

74
Le opere di difesa passiva, invece, sono finalizzate esclusivamente
al contenimento e le opere in atto sono di 2 tipi: reti paramassi
(problemi strutturali e poi ci sono quelle che trattengono i blocchi)
e muri di contenimento (opere fortemente soggette a grandi
pressioni e la variabile è
l’acqua).

DEBRIS FLOW
L’unico modo per intercettare il trasferimento di
materiale e quindi impedire il debris flow sono le
briglie che sono disegnate a lato. esse sono
costruite con una riprofilazione del versante
riducendo la pendenza e abbassamento della
velocità del deflusso idrico. Spesso le briglie non
sono posizionate singolarmente, ma sono in serie
perché più il fenomeno erosivo è grande nel
bacino, più le opere devono essere grandi per contenerle. Queste
opere richiedono manutenzione con svuotamento in quanto il
materiale va ad appianare i gradini delle briglie eliminando il loro
scopo.
Alcuni tipi hanno pietre alla base per idurre velocità delle acque
e facilitare la seidmentazione del flusso.

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INONDAZIONI

Per inondazione si intende la rottura degli argini o tracimazione dovute alle portate del corso d’acqua
superiore alla media. Si parla di alluvione quando l’inondazione è accompagnata dal trasporto solido.
Gli effetti delle inondazioni sono indebolimento sponde, rottura sponde, distrizione e danni a
infrastrutture e case, distruzione piante, cambiamento del tracciato del fiume, modifica natura del
suolo ed erosione del fondale. La difesa delle inondazioni può avvenire con 2 tipi di difese:

- Opere di laminazione che servono ad aggirare i luoghi minacciati da straripamenti come


serbatoi, canali scolmatori (serbatoio → capacità utile nella quale è immagazzinata una parte
del volume idrico corrisponde all’onda di piena in arrivo, restituito nel corso d’acqua nel
tempo) oppure casse di espansione (zona delimitata da un argine soggetto a allagamento
preordinato, es. fiume Secchia) che sono o in linea o in derivazione; diversivo è un canale
artificiale che deriva permanentemente acqua dal fiume e la convoglia altrove (lago, mare,
fiume); il canale scolmatore è un canale artificiale alimentato da uno sfioratore che entra in
funzione solo durante eventi di piena.
- Regolazione dei fiumi ovvero opere di sopraelevazione di sponda come gli argini.

VALANGHE

Anche in questo caso parleremo di opere di difesa attiva e passiva. Le opere di difesa attiva si basano
sul principio di non far partire la valanga e l’obiettivo è il contenimento della massa nevosa come ad
es. i paravalanghe in legno, in metallo. Opere di difesa passiva sono invece le gallerie paravalanghe
oppure cunei per proteggere piloni alta tensione o case.

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Pianificazione Territoriale

Il ruolo della pianificazione territoriale è quello di assicurare che i processi di trasformazione siano
compatibili con la sicurezza e la tutela dell’integrità fisica e con l’idenntità culturale del territorio.
Quindi, una pianificazione adeguata è finalizzata ad evitare un incremento delle situazioni di
rischio. La pianificazione è a vari livelli: regionale, provinciale e comunali ed esistono anche piani
sovraordinati che sono quelli legati al piano di assetto idrogeologico (PAI) → piano di gestione del
rischio alluvioni (PGRA).

La Pianificazione Territoriale si sviluppa a partire dal 1942 dove naque il Piano regolatore Comunale;
poi dal 1975 vennero inseriti i Piani Territoriali regionali e provinciali e dal 2005 il Piano di Governo
del Territorio (PGT).
77
Il Sistema di Pianificazione Territoriale risulta essere articolato su 3 livelli: regioale tramite il Piano
Territoriale Regionale, provinciale tramite il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale e
livello comunale tramite il Piano Urbanistico Comunale.

Un piano territoriale è costituito da una serie di elaborati nei quali vengono individuate aree soggette
a vincoli più o meno cogenti indicati da norme che prescrivono, indirizzano, anche con incentivi o
non, o comunque suggeriscono i criteri di uso del territorio sulla base di obiettivi e finalità generali
individuate dal potere politico attraverso apposite leggi. Esso ha la finalità di indirizzare l’uso del
territorio verso tipologie di uso sostenibile e razionale dell’acqua, del suolo e del sottouolo così da
perseguire l’obiettivo del miglior interesse collettivo. L’obiettivo del Legislatore è quello di creare
un inversione di tendenza che vincoli la pianificazione comunale al rispetto delle limitazioni derivanti
dalle caratteristiche geomorfologiche, di periolosità idraulica e di salvaguardia degli acqiferi sup. e
profondi che solo una pianificazione di livello adeguato può cogliere nella sua completezza e negli
effetti di sistema.

I PGR (Piani Regolatori Generali) hanno come contenuti principali la rete delle infrastrutture,
zonazione del territorio comunale, la localizzazione, piano dis ervizi, zone di rispetto, misure di
salvaguardia e norme tecniche di attuazione. + elaborati cartografici. Con iter procedurale di 3-4 anni.

11 marzo 2005 → definisce che il governo del territorio si attua mediante una pluralità di piani tra
loro coordinati e differenziati. I principi basi del Piano di Governo del Territorio sono: univocità delle
strategie, piano come processo, come programma, trasparenza, condivisione delle conoscenze,
sostenibilità socio-economica e ambientale delle scelte.

L’iter massimo del PGT è di 240 gg e presenza molti elementi cartografici al suo interno.

Il Documento di Piano prevede lo studio delle pericolosità mediante l’analisi sull’assetto geologico,
idrogeologico e sismico; il Piano delle Regole stabilisce cosa è possibile fare e cosa non è possibile
fare; il Piano dei Servizi valuta le attrezzature.

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Le principali novità concettuali introdotte dal Piano del governo del territorio riguardano la
partecipazione del Cittadino, la compensazione, la perequazione e l’incentivazione urbanistica. Il
primo atto che l’amministrazione comunale è tenuta a fare quando decide di iniziare la stesura del
PGT è informare la cittadinanza che il processo è iniziato. I cittadini o le associazioni di cittadini sono
invitati da questa fase a formulare proposte in merito. La differenza rispetto al Piano Regolatore
generale sta nel fatto che in quel caso i cittadini erano chiamati ad esprimersi solo dopo la prima
adozione sotto forma di osservazioni al PGR già adottato.
In tutto ciò, vi è l’interazione diretta con i cittadini che si esprimono come singole persone senza
deleghe o incarichi di rappresentanza di gruppi. Questo tipo di attori permette di discutere questioni
di natura generale, responsabilità e cura nei modi di vita ed esprime competenze su speranze e visioni
di futuro di ogni persona o famiglia.

Il DGR 22 dicembre 2005 definise le modalità organizzative e gli standard di riferimento; i criteri per
il PGT sono che tutti gli elaborati devono essere prodotti su supporto digitale. → SIT.

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Per la prima volta in testo di legge coordina contestualmente e in modo paritario la materia urbanistica
e geologica.
La legge 12/2005 definisce dei criteri attuativi per la realizzazione del piano di governo ovvero
modalità per la pianificazione territoriale, componente geologica, idrogeologica e sismica del PGT,
sviluppo del SIT, valutazione ambientale di piani e programmi.
La componente geologica, idro e sismica comprende una fase di analisi con quadro conoscitivo, fase
di sintesi con carta di ipotesi, dei vincoli e del reticolo minore in accordo col PAI, fase di proposta
con carta di fattibilità.
La carta di sintesi deve rappresentare le aree omogenee dal punto di vista della
pericolosità/vulnerabilità riferita allo specifico fenomeno che la genera. Pertanto, tale carta deve
essere costituita da una serie di poligoni che definiscono porzioni di territorio caratterizzate da
pericolosità geo-geotecnica e vulnerabilità idraulica e idrogeologica omogenee.
La carta di fattibilità viene desunta dalla carta di sintesi e dalla carta dei vincoli attribuendo un
valore di classe di fattibilità a ciascun poligono. Devono essere sovrapposte, con apposito retino
“traspearente”, le aree soggette ad amplificazione sismica locale sedunte dalla carta di pericolosità
sismica locale. La crat di fattibilità è una carta di pericolosità che fornisce le indicazioni in ordine alle
limitazioni e destinazioni d’uso del territorio.

Tutto ciò si raccorda con i Piani sovraordinati che sono quelli regionali e provinciali e il PAI che è
confluito da poco nel Piano di Gestione del Riscio Alluvione.
Il PAI contiene norme vincolanti in campo di pianificazione urbanistica e territoriale volte ad evitare,
nella regione fluviale delimitata dalle fasce fluviali e nelle aree allagabili lungo il reticolo secondario
collinare e montano, usi del suolo non compatibili con le condizioni di pericolosità presenti. Il PAI
non tratta la gestione del rischio.
La legge 183 del 1989 ha istituito le Autorità di bacino con il compito di predisporre il piano per la
tutela delle acque e la difesa del suolo dalle inondazioni. La legge definisce le Competenze in materia
di difesa del suolo, prevede per la prima volta l’istituzione dell’autorità di bacino, assunzione del
bacino idrografico come rif. Territoriale. Piano di bacino è un nuovo strumento operativo con valore
di piano territoriale di settore. Per la prima volta si attribuiscono compiti di pianificazione e
programmazione ad un Ente il cui territorio di competenza è stato delimitato non su base politica, ma
con criteri geomorfologici e ambientali. L’autorità di bacino controlla la pianificazione territoriale
sull’intero bacino dei fiumi principali, il reticolo minore è dato alle regioni. La suddivisione della
autorità di bacino è: nazionali (Po, Tagliamento), interregionali e regionali.

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D.L 11 giugno 1998 ha disposto l’adozione di Piani stralcio straordinari di bacino per l’assetto
idrogeologico (PAI) contenenti l’individuazione, la perimetrazione delle aree a riscio idrogeologico
e l’adozione delle misure di salvaguardia.
Il piano di stralcio delle Aree Fluviali ha valore di Pino territoriale di settore ed è lo strumento
conoscitivo, normativo, tecnico-operativo, mediante il quale sono pianificate e programmate le zioni
e le norme d’uso riguardanti le fasce fluviali.
Il DPCM 29 settembre 1998 aveva infine disciplinato le modalità per l’individuazione e la
perimetrazione, su tutto il territorio nazionale, della aree interessate da condizioni di rischio
idrogeologico e delle aree a rischio idraulico, introducendo anche il criterio dei tempi di ritorno dei
fenomeni di alluvione per la definizione degli scenari di pericolosità.
Nel bacino del Po, il Piano stralcio di bacino per l’assetto Idrogeologico (PAI) è stato approvato con
DPCM 24 maggio 2001 e, nel corso degli anni è stato oggetto di successivi aggiornamenti, varianti,
integrazioni e modifiche, allo scopo di adeguarlo il più possibile all’evoluzione della situazione in
atto ed ai risultati delle attività di studio e approfondimento conoscitivo sviluppate negli anni
successivi alla sua approvazione.
Con il decreto legge del 3 aprile 2006 sono state soppresse le autorità di bacino e sono state inserite
le Autorità di bacino distrettuale.

L'insieme di interventi definiti riguardano: la messa in sicurezza dei centri abitati e delle infrastrutture,
la salvaguardia delle aree naturali di esondazione dei corsi d'acqua, la limitazione degli interventi
artificiali di contenimento delle piene, gli interventi di laminazione controllata, gli interventi diffusi
di sistemazione dei versanti, la manutenzione delle opere di difesa, degli alvei e del territorio
montano, la riduzione delle interferenze antropiche con la dinamica evolutiva degli alvei e dei sistemi
fluviali.

I parametri necessari per la valutazione della pericolosità e per predisporre adeguate misure di tutela
territoriale sono: le fasce di rispetto lungo i corsi di acqua (dove), i tempi di ritorno (quando), la
velocità attesa dell’acqua durante la piena, la portata dell’onda di piena attesa e l’altezza dell’onda di
piena attesa (severità).
Le fasce fluviali sono classificate secondo il tempo di ritorno dell’evento di piena in 3 fasce: fascia
A o deflusso di piena, fascia B o esondazione e fascia C o inondazione per piena catastrofica. La
fascia A è la porzine dove fluisce l’80% della portata ed è macata da 200 anni di tempo di ritorno; il
limite della fascia B si estende fino al punto in cui le quote naturali del terreno sono superiori ai livelli

81
idrici alla portata tempo di 200 anni; la massima piena registrata se corrisponde ad un tempo maggiore
di 200 anni o in assenza di essa sarà di tempo di ritorno di 500 anni.

La Fascia A deve garantire il deflusso della piena di riferimento, evitando che si provochino ostacoli
allo stesso, si produca un aumento dei livelli idrici e si interferisca negativamente nel complesso sulle
condizioni di moto; consentire, ovunque non controllata da opere idrauliche, la libera divagazione
dell'alveo inciso, assecondando la naturale tendenza evolutiva del corso d'acqua; garantire la
tutela/recupero delle componenti naturali dell'alveo, soprattutto per quelle parti funzionali a evitare
nell'alveo il manifestarsi di fenomeni di dissesto (vegetazione spondale e ripariale per la stabilità delle
sponde e il contenimento della velocità di corrente, componenti morfologiche connesse al
mantenimento di ampie sezioni di deflusso).
Qui sono vietate attività di trasformazuone stato dei luoghi che modifichino l’assetto idraulico,
morfologico, infrastrutturale, edilizio; coltivazione erbacee non permanenti e arboree per 10 mt dal
ciglio della sponda, impianti di smaltimento rifiuti. Sono consentiti interventi volti a ricostruire
equilibri naturali alterati e eliminazioe fattori incompatibili di interferenza antropica.

La Fascia B deve garantire il mantenimento delle aree di espansione naturale per la laminazione della
piena, deve controllare e ridurre la vulnerabilità degli insediamenti e infrastrutture presenti, deve
garantire il mantenimento e recupero dell’ambiente fluviale e conservazione dei valori storici, artistici
e culturali. Qui sono vietati interventi che riducano la capacità di invaso, impianti smaltimento rifiuti,
82
interventi che compromettano la stabilità dell’argine. Sono invece consentiti depositi temporanei
connessi ad attività estrattive e riequilibrio.

La fascia C deve esegnalare le condizioni di rischio idraulico ai fini della riduzione della vulnerabilità
degli insediamenti in rapporto alle funzioni di PC. Qui occorre predisporre adeguati piani di PC,
monitoraggio e controllo delle piene. Tra fascia C e B di progetto si possono applicare i dispositivi in
fascia B fino a completamento dei lavori di tutela.

I valori delle portate di piena sono stati stimati mediante diverse metodologie: modelli idrologici
afflussi – deflussi, regolarizzazioni statistiche delle serie storiche disponibili presso le stazioni di
misura, metodi di regionalizzazione. Tali valori sono stati definiti nelle sezioni di chiusura dei bacini
di monte e di valle del corso d’acqua ed in alcune sezioni intermedie, laddove presenti confluenze,
stazioni di misura, centri abitati significativi. La delimitazione delle aree inondabili è stata effettuata
con riferimento a tutti e tre gli scenari di piena previsti dalla Direttiva. Le fonti dati utilizzate derivano
da:
- studi propedeutici al PAI (1996 AdBPo);
- fasce Fluviali (1994-2001);
- studi di fattibilità (2004 AdBPo) che hanno aggiornato in parte il
precedente quadro conoscitivo;
- ulteriori approfondimenti effettuati da Regioni, Province, AIPO e
altri Enti nell’ambito delle attività di adeguamento della
pianificazione territoriale ed urbanistica alle disposizioni del PAI e
per la progettazione delle opere idrauliche di difesa previste nei
programmi di attuazione del PAI;
- Per Adda Sopralacuale, Arda, Stura di Lanzo, Secchia, ecc. sono
state condotte nuove analisi idrauliche per la delimitazione delle
aree inondabili

I livelli di piena, per lo scenario di media probabilità, sono stati stimati mediante modelli idraulici
monodimensionali di intera asta fluviale, solo localmente sono disponibili modellazioni
bidimensionali. Solo negli Studi più recenti i livelli di piena sono stati elaborati anche per gli scenari
di scarsa ed elevata probabilità. Le modellazioni idrauliche sono implementate sulla scorta di sezioni
trasversali del corso d’acqua, rilevate topograficamente generalmente prima del 2000 o nel triennio
2003-2005.

83
Il Piano di Gestione Rischio Alluvioni è lo strumento operativo previsto dalla legge italiana, in
particolare dal d.lgs. 49/2010, che dà attuazione alla Direttiva Europea 2007/60/CE, per individuare
e programmare le azioni necessarie a ridurre le conseguenze negative delle alluvioni per la salute
umana, per il territorio, per i beni, per l’ambiente, per il patrimonio culturale e per le attività
economiche e sociali. Esso deve essere predisposto a livello di distretto idrografico.
Per il Distretto Padano, cioè il territorio interessato dalle alluvioni di tutti i corsi d’acqua che
confluiscono nel Po, dalla sorgente fino allo sbocco in mare, è stato predisposto il Piano di Gestione
del Rischio Alluvioni del Po, brevemente PGRA-Po. Le azioni del PGRA-Po (misure) sono
classificate in quattro tipologie, che corrispondono alle quattro fasi di gestione del rischio alluvioni:
- prevenzione (es. vincoli all’uso del suolo),
- protezione (es. realizzazione di opere di difesa strutturale),
- preparazione (es. allerte, gestione dell’emergenza),
- ritorno alla normalità e analisi (es. valutazione e ristoro danni, analisi degli eventi accaduti).

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Gli elementi esposti sono: Abitanti (in
normativa solo il numero); Attività
economiche; Impianti industriali ad
elevato potenziale inquinante (IED-
Industrial Emissions Directive); Aree
protette; Altre informazioni. Per ognuna di esse si è capito come devono essere rappresentate
(puntuali come ospedali, scuole, dighe o poligonali come reti sdradali, ferrovie). A questi sono
attribuite delle classi di rischio, di danno e pericolosità.

I contratti di fiume (CdF) sono strumenti volontari di programmazione strategica e negoziata che
perseguono la tutela, la corretta gestione delle risorse idriche e la valorizzazione dei territori fluviali
insieme alla salvaguardia del rischio idraulico contribuendo allo sviluppo locale.

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Aspetti Assicurativi

Quando abbiamo parlato di gestione del rischio tra le varie immagini viste vi era anche quella qui
sopra che evidenzia come nell’ambito di un settore lontano da quello del rischio ambientale e quindi
quello di rischio di impresa che riguarda il mondo dell’industria finanziaria in generale ritroviamo le
stesse voci e cioè rischio, vulnerabilità, esposizione, impatto di analisi post-disastro e una parte a dx
una parte di mitgazione e prevenzione con aspetto finanziario e quindi ciò che riguarda il
trasferimento del rischio. Nell’ambito dei rischi naturali, gli aspetti assicurativi possono svolgere un
ruolo significativo nell’ambito della gestione del rischio. La gestione del rischio è il processo
mediante cui si misura o si stima il rischio e si sviluppano delle strategie per governarlo. Di regola,
le strategie impiegate includono il trasferimento a terze parti, l’evitare il rischio, il risurre l’effetto
negativo e infine accettare in parte o del tutto le conseguenza di un rischio. Gli aspetti assicurativi
sono nella fase post-evento che si suddividono in risuzione dell’impatto economico e aiutare la
ricostruzione. Negli ultimi 20 anni l’insieme di crisi economica e l’elevato numero di catastrofi
naturali ha messo in luci le forti difficoltà della PA (pubblica amministrazione) nel poter risarcire i
danni avvenuti e ancor più nell’impossibilità di destinare fondi per finanziare lo sviluppo. In questa
visione oggi siamo avvantaggiati (pandemia) abbiamo tutti visto come un problema sanitario
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comporti a livello economico. Le implicazioni macroeconomiche sono di due tipi: effetto di breve
periodo o diretto e quindi distruzione di parte dei beni fisici dell’economia come il capitale, le
infrastrutture, risorse naturali e il lavoro e poi un effetto a lungo termine o indiretto come il
peggioramento delle entrate fiscali, indebolimento bilancia commerciale o eccesso di disponibilità
finanziaria.
È evidente che nel momento in cui interviamo con velocità sulla ripresa, minore saranno gli effetti,
ma la velocità della ripresa necessita grandi risorse finanziarie. Esse o si trovano nell’accantonamento
dei fondi o nelle forme assicurative e di ripartizione dei rischi.
Nonostante l’elevato numero di catastrofi naturali, non vi è alcuna legge che regoli come debba
avvenire l’intervento dello stato nel caso di dichiarazione di stato di calamità. Di fatto il governo
stanzia somme di denaro per far fronte alle spese nelle 3 fasi: emergenza, ricostruzione e sviluppo.
Quindi, mancando una legge che stabilisca come queste fasi debbano essere gestite, il Governo è
solito convertire i decreti emessi in regime di emergenza in “decreti di spesa”. Le spese delo stato
riguardano l’emergenza e quindi la riduzione disagi della popolazione, la ricostruzione e quindi il
patrimonio edilizio e infrastrutture e lo sviluppo e quindi il rilancio economico. Ciò evidenzia che dal
punto di vista economico non esiste la fase di prevenzione (ex ante come assicurazioni) ma solo quella
di emergenza e post emergenza (ex post). Il ricorso a fonti di finanziamento Ex post porta
all’assorbimento, quasi totale, delle fonti accantonate negli anni precedenti, solitamente destinate ad
azioni di sostegno e di intervento dello sviluppo del terriorio. Mentre, l’approccio ex ante non si ha
copertura delle perdite causate dalle catastrofi ma individuazione delle azioni che possono portare ad
una riduzione dell’impatto provocato dagli eventi catastrofici. Ciò si applica con piani strategici di
trafserimento del rischio o con adeguata pianificazione pre evento.

RUOLO COMPAGNIE ASSICURATRICI

Le compagnie assicurative hanno a disposizione un assicurazione primaria e per la ripartizione del


rischio con riassicurazione (spesso eseguito dallo Stato). Il ruolo dell’assicurazione primaria non
può essere quello di impedire la perdita di vite umane, ma aiuta a ridurre l’impatto economico e
favorisce la ricostruzione. Quindi si identificano delle aree ad alto rischio e aree a basse rischio: essa
se non fosse obbligatoria, la farebbero solo chi vive in zone ad alto rischio. In genere premio alto per
alto rischio e premio basso per aree a basso rischio, ma queste ultime in genere non la fanno e ciò
genera quello che si chiama “selezione avversa” cioè la funzione di utilità viene meno e quindi tutto
il carico finanziario sta in capo a chi ha rischio e quindi ci sarebbero dei premi troppo alti. Da qui se
si usa un’assicurazione di calamità si fa obbligatoria. Non vi è legge che regolamenti il grado di

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copertura che le assicurazioni debbono garantire: attualemnte vengono assicurati i beni immobili ma
molto rararmente quelli mobili.
Invece, la riassicurazione serve per garantire che le compagnie siano solventi ossia che una quota
del premio che esse incassano viene dato ad un terzo che gestisce tale fondo in mercato immobiliare
o in sistema pubblico o privato e cioè un fondo che sia accesso in un momento in cui deve essere fatto
un risarcimento e che garantisca che una persona colpita sia risarcita anche nel caso in cui la
compagnia non fosse in grado di essere solvente. La soluzione migliore è un sistema di cooperazione
pubblico/privato in cui lo Stato agisce da ente riassicuratore.
In Italia, questo concetto nasce nel 1921 con il governo Giolitti e quindi è fatto un fondo nazionale
che serviva a rimborsare nel caso di eventi esso è un risarcimento legato alla dichiarazione di stato di
calamità e subentra dopo quantificazione del danno e risarcimento di esso stesso.

Per calcolare il premio assicurativo necessito del rischio specifico e quindi di mappare il territorio
nazionale classificando ogni tipologia di rischio basata su una probabilità di accadimento dell’evento.
Ciò richiede la stima della frequenza e delle onseguenze di eventi estremi come alluvioni, terremoti.
Si deve tenere conto anche del ruolo attivo che può avere l’amministrazione locale nel contenere il
rischio attraverso regolamentazione dell’edilizia, pianificazione urbanistica e tutela dell’ambiente.
Vediamo ora la situazione a livello europeo tra gli stati che hanno legiferato e quindi Francia, Spagna,
Belgio, Regno Unito, Svizzera, Norvegia e USA.

La Francia è un sistema molto interessante in quanto ha un assicurazione obbligatoria e con premio


unico per tutti; lo Stato è l’ente riassicuratore e quindi è l’ente in cui le compagnie versano la quota
di premio che incassano. Nel 1995 sono introdotti i Piani di prevenzione del rischio naturale e quindi
dei piani in cui sono individuate delle aree a rischio. Questi piani sono obbligatori per i comuni e gli
enti locali avevano 5 anni per farli. Dal 1997, le compagnie assicurative possono rifiutare le coperture
delle zone ad alto rischio se tali piani non sono stati ancora approvati. Inoltre, il sistema che ha
introdotto la Francia è quello “sliding scale” e cioè la franchigia è soggetta ad un coefficiente che va
da 1 a 4 ed è legato all’accadimento degli eventi nelle municipalità. I coefficienti maggiore di 1 si
applicano a quelle che non hanno adottato un definito piano e il valore cresce all’aumentare del
numero di eventi catastrofici che si sono verificati nei 5 anni precedenti.
Gli aspetti positivi sono che la collettività copre il costo generale degli interventi di prevenzione e la
perdita di valore dei terreni su cui gravano i vincoli e che il premio assicurativo unico mette in atto il
principio della solidarietà nazionale e garantisce stabilità finanziaria. Gli aspetti critici sono che il
premio unico per tutti i cittadini si paga la stessa cifra indipendentemente dall’esposizione al rischio.

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La Spagna ha invece un sistema assicurativo semi-obbligatorio dal 1930 ed esiste l’ente pubblico di
assicurazione fatto al 50% dallo Stato e dal 50% dai rappresentanti delle imprese di assicurazione
private. Le imprese private possono sottoscrivere polizze per copertura di danni ai beni e alle persone
e hanno l’obbligo di aggiungervi un sovrapprezzo e di trasferirlo mensilmente al Consorcio
trattenendo una piccola % per coprire i costi di raccolta. Il Consorcio è l’ente che certifica l’entità del
rimborso, mentre le imprese assicurative sono quelle che pagano il danno. Laddove l’impresa non sia
in grado di coprire del tutto subentra il Consorcio ed esso ha anche il compito di pagare i danni di
quelle famiglia che non hanno potuto fare una polizza assicurativa. Inoltre, esso ha obbligo di
accumulare i profitti e di inserirli in meccanismo di gestione finanziaria per risarcire in futuro. In
questo caso non vi è uso di tali fondi per prevenzione verso i danni.

Il Belgio ha un sistema semi-obbligatorio a partire dal 2006 legato al fatto che se fai la polizza
incendio hai la clausola per le catastrofi naturali. Il sistema pone un limite alle assicurazioni per i
danni ma anche legato al fatto che esso non è esposto molto ai rischi naturali. Vi è un enete pubblico
che interviene per le perdite eccedenti tali limiti.

La Norvegia, ha una legislazione dal 1980 e anche qui il Parlamento ha varato una legge che prevede
che siano le compagnie assicurative le uniche responsabili per i danni causati da feomeni naturali per
chi ha un’assicurazione contro l’incendio. Tutte le compagnie di assicurazione che coprono i danni
da incendio si sono riunite ed hanno istituito un’alleanza. Si tratta di un pool danni e quindi i danni
provocati da calamità naturali sono segnalati dalle compagnie al pool e quindi ridistribuiti alle stesse
in base alla loro quota di mercato.

Invece, il sistema Svizzero è misto e qui vigono 2 sistemi che offrono assicurazioni da incendi e per
catastrofi naturali con 19 cantoni a monopolio statale e 7 con assicurazioni private. I monopoli
cantonali partecipano alla pianificazione urbana e al processo amministrativo di determinazione degli
standard edilizi. Nei 7 cantoni nei quali vige il sistema di mercato, le imprese private offrono
copertura dei danni senza che si avverta la necessità di invocare un intervento pubblico per far fronte
un fallimento del mercato relativamente a tale copertura assicurativa.

Gli Stati Uniti, presenta un offerta assicurativa libera con l’eccezione di obbligo introdotto nello stato
di California a sottoscrivere polizze contro i teremoti, che vale solo per le imprese. I due principali
tipi di calamità naturali (terremoti e inondazioni) sono eslcusi dal pacchetto base delle assicurazioni
della casa offerto dall’industria privata in tutto il Paese. È presente una franchigia pari al 15% del

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valore dell’immobile. La Federal Emergency Management Agency o FEMA porta avanti un
programma di riduzione dei rischi di incendi, terremoti, uragani e inondazioni. La FEMA individua
le “mappe di rischio” a cui far corrispondere le tabelle dei premi assicurativi. Negli USA vi è una
problematica soprattutto nella zona sud riguardo alle alluvioni e ciò riguarda la tipologia edilizia di
tali aree. Esiste il NFIP (National Flood Insurance Program) che offre copertura contro il rischio di
inondazioni ai proprietari che vivono nelle aree che hanno adottato un programma pubblico di zoning
and building codes. Esistono 2 categorie di edifici in tale area: pre 1978 e post 1978. Pre 1978 anno
nel quale NFIP ha identificato e classificato le aree soggette a rischio inondazione, la copertura
assicurativa è offerta a un premio che è costante e indiependente al rischio specifico. Post 1978 la
copertura assicurativa è offerta a premi che riflettono le differenze tra i risarcimenti attesi.

Infine, in Italia non esiste alcuna legge che porta l’obbligatorietà dell’assicurazione verso le catastrofi
naturali e le assicurazioni offrono dei pacchetti con le catastrofi naturali. Oggi l’unica catastrofe che
è assicurata è quella del terremoto. A partire dagli anni ’90 sono stati presentati diversi progetti di
legge mai giunti però a conclusione. Nel 1993 uscì il primo disegno di legge con una serie di
indicazioni legate all’ici e imu attuale e quindi una volta che si pagava la tassa ai comuni, una parte
di essi venivano dati ad u consorzio assicurativo che faceva in modo che si generasse un salvadanaio
per risarcimento dei danni. La grossa criticità e il motivo per cui la legge non fu approvata è che non
vi era alcun coinvolgimento delle imprese assicuratrici nel processo ma era del tutto controllaro dallo
Stato e quindi le imprese di assicurazioni e l’ANIA elaborò un progetto diverso che però non fu mai
approvato. Questo progetto c’è ancora ed è l’unico elemento che possiede ANIA per valutare il rischio
alluvioni a livello nazionale.
Nel 1996 nelle norme di delega al Governo di PC si parlava ancora di una graduale itroduzione di un
assicurazione ai rischi naturali legato al sistema francese anche se l’adesione doveva essere
volontaria. I premi sarebbero stati determinati dal Governo in relazione alle fsce di rischio e la criticità
in quel momento era che le fasce di rischio non erano ancora distribuite in modo omogeneo sul
terriorio nazionale e quindi questa situazione aveva portato ad convergenza delle forze politiche sul
modello francese ma la grossa criticità fu la mancanza totale di una mappatura di rischio.
Nel 1999 ci sono dei disegni di legge legati alla Finanziaria che proponeva di introdurre
un’assicurazione contro le calamità naturali e lo scopo era quello di renderla obbligatoria per privati
che avevano acquistato una polizza contro il rischio d’incendio dei fabbricati.
Nel 2001 fu progettato un sistema simile che prevedeva la possibilità di indennizzare ai privati i danni
per calamità per mezzo di un sistema assicurativo.

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Nel 2002 si proponeva di fornire una norma di riferimento per disciplinare i processi post calamità e
la legge avrebbe dovuto rendere semplici e veloci i provvedimenti e uniformi sul territorio e dando la
certezza ai cittadini e ad enti locali di poter disporre di risorse certe in tempi brevi.
Nel 2004 ci fu la Finanziaria che fu indetta a introdurre l’assicurazione delle calamità naturali e la
norma delegava il Governo a disciplinare la materia con un apposito regolamento e il nuovo sistema
prevedeva l’inserimento obbligatorio della garanzia del rischio delle calamità naturali nei contratti di
assicurazione contro l’incendio stipulati per immobili ad uso abitativo ed esclusione di quelli abusivi.
Nel 2005 si progetto di allargare il riferimento ai rischi anche di alluvione, maremoto, frane,
inondazioni, vulcani. I premi dovevano essere calcolati in base agli indici di rischio per zona ed erano
introdotte franchigie ed era escluso lo Stato su danni subiti da fabbricati non assicurati. Ci fu la
proposta di legge “Benvenuto-Fulvi” che proponeva un sistema misto che accanto al soggetto
pubblico prevedeva l’intervento sia del settore assicurativo nazionale sia di quello internazionale.
Nel 2012 (governo Monti) con inserimento della copertura assicurativa contro i rischi naturali:
estensione assicurativa contro i danni, esclusione dell’intervento statale ecc. L’obiettivo di tale
decreto era quello di togliere allo Stato il discorso del risarcimento, ma tale decreto non aveva al suo
interno il discorso delle riassicurazioni delle altre nazioni. Una delle criticità è che si prevedeva la
mappatura di rischio, stima interessati, ma fu cancellato tutto.

Le motivazioni per la mancata legge sono: dubbi delle compagnie assicurative, abusivismo,
difficoltà della comunità scientifica, indecisione dei politici e della pubblica opinione.
Per l’industria assicurativa il problema principale è come far fronte a rapidi e numerosi flussi di
domande di risarcimento dopo disastri con alto tasso di distruzione; necessità che alla sottoscrizione
privata venga coinvolta l’industria della riassicurazione, cioè gli assicuratori delgi assicuratori che
intervengono con diversi gradi d’impegno nei settori dei disastri. Mancanza di tempo per la creazione
di un fondo in relazione alla frequenza di accadimento degli eventi.
L’abusivismo arriva sino a punte del 60% al sud; alcuni edifici non sono stati condonati, altri sì. Per
i primi non può sussistere alcuna forma di assicurazione e neppure lo Stato o l’Ente locale dovrà
pagare gli eventuali danni, cosa che è stata regolarmente fatta sino al 1996, anno nel quale è stato
adottato un provvedimento (art.2, comma 50 della L 662/96) che nega l’erogazione d’indennizzi agli
immobili edificati abusivamente in zone inondabili. Per quelli condonati, invece, l’assicurazione
dipenderà dal livello di rischio dell’area in cui ricade l’immobile: in caso di rischio medio – basso è
ipotizzabile una certa forma di assicurabilità.
La difficoltà della comunità scientifica è data dalla difficoltà nella valutazione del lasso di tempo
intercorrente fra un evento e il successivo; dell’altezza della lama d’acqua sul piano campagna o la

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magnitudo di una colata o il volume di una frana; della velocità del processo; di tutti parametri in
base ai quali le compagnie assicurative dovrebbero calcolare i danni e quindi i relativi premi. Per i
terremoti non vi sono problemi di mappatura ma solo di valutazione strutturale dei singoli edifici.
Infine, l’indecisione dei politici e della pubblica opinione con scarse conoscenze da parte di tutti e
forti interessi in gioco. Timore che la legge potesse apparire agli occhi dei cittadini come un’ennesima
tassa. Nessuna lavoro da parte della pubblica opinione e della stampa per informare i cittadini sui
vantaggi di cui avrebbero goduto con un sistema di cooperazione Stato/Assicurazione, ingenerando
nel cittadino più sprovveduto, il sospetto che “l'evento calamitoso potesse rappresentare
un’opportunità per i parlamentari dell'area colpita più che una tragedia per i suoi abitanti”.

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