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L'OSTAGGIO
(Hostage, 2001)
Prologo
L'uomo nella casa stava per uccidersi. Quando aveva scagliato il te-
lefono in cortile, Talley aveva capito che era pronto a farla finita. Dopo
sei anni come negoziatore nella squadra Swat del Dipartimento di polizia
di Los Angeles, il reparto speciale di pronto intervento, il sergente Jeff
Talley sapeva che le persone sotto pressione comunicano spesso mediante
azioni simboliche. E il significato di questa era chiaro: basta parlare. Tal-
ley temeva che l'uomo potesse suicidarsi o fare qualcosa per costringere
gli agenti a ucciderlo. Lo chiamavano "suicidio da polizia". Talley era
convinto che fosse colpa sua.
«Hanno trovato la moglie?»
«No, non ancora. La stanno cercando.»
«Cercare non basta, Murray. Dopo quello che è successo gli devo qual-
cosa di più.»
«Non è colpa tua.»
«Invece sì. Io ho sbagliato, e ora questo tizio sta andando a fondo.»
Talley andò a ripararsi dietro un veicolo blindato insieme al co-
mandante della squadra, un tenente di nome Murray Leifitz che era anche
il supervisore del suo gruppo di negoziatori. Da quella posizione, Talley
aveva parlato a George Donald Malik per mezzo di una linea telefonica di
fortuna allacciata in tutta fretta. Ora che Malik aveva lanciato il telefono
in cortile, Talley poteva continuare a parlargli o con l'altoparlante del-
l'auto oppure faccia a faccia. Lui odiava il megafono, che rendeva dura la
voce e spersonalizzava il contatto. L'illusione di un rapporto personale era
importante; l'illusione della fiducia era tutto. Talley indossò il giubbotto
antiproiettile.
Malik urlò attraverso la finestra sfondata, la voce tesa e stridula:
«L'ammazzo, questo cane! Ora l'ammazzo!».
Leifitz si sporse oltre Talley per guardare la casa. Era la prima volta
che Malik faceva riferimento a un cane.
«Ma che cazzo?... C'è un cane, là dentro?»
«E come faccio a saperlo? Sto cercando di limitare i danni, d'accordo?
Chiedilo ai vicini se ha un cane. Scopri il nome.»
«Se spara, noi entriamo, Jeff. Non c'è altro da fare.»
«Adesso calmati e fatti dire come si chiama il cane.»
Leifitz si allontanò per andare a parlare con i vicini di Malik.
George Malik era un imbianchino disoccupato e pieno di debiti; aveva
una moglie infedele, che si vantava delle proprie avventure, e un tumore
alla prostata. Quattordici ore prima, alle due e dodici di notte, aveva spa-
rato un colpo sopra la testa dei due poliziotti che si erano presentati alla
sua porta in seguito a una segnalazione per schiamazzi. Poi si era barri-
cato in casa, minacciando di uccidersi se la moglie non avesse accettato di
parlargli. I poliziotti che avevano isolato l'area erano venuti a sapere dai
vicini che la moglie di Malik, Elena, se n'era andata portando con sé il lo-
ro unico figlio, un bambino di nove anni di nome Brendan. Mentre gli a-
genti della divisione di Rampart cercavano di rintracciarla, Malik aveva
continuato a minacciare di suicidarsi con frequenza sempre maggiore, fin-
ché Talley si era convinto che l'uomo fosse arrivato al capolinea. Quando
quelli di Rampart gli riferirono che pensavano di aver scoperto dove si
trovasse la donna, grazie alle indicazioni fornite dalla sorella di lei, Talley
decise di rischiare. Disse a Malik che sua moglie era stata rintracciata.
Era stato quello il suo errore. Aveva violato una regola cardinale della
trattativa: aveva mentito, ed era stato scoperto. Aveva fatto una promessa
che non poteva mantenere, distruggendo così quell'illusione di fiducia che
era andato lentamente costruendo. Questo era successo due ore prima, e
ora aveva saputo che la moglie non era ancora stata trovata.
«Lo ammazzo questo cane maledetto! È il suo bastardo, e se lei non mi
parla io gli sparo in testai»
Talley usci da dietro il veicolo. Si trovava sul posto ormai da undici ore.
Era sudato, la testa gli pulsava e aveva i crampi allo stomaco per il troppo
caffè e il troppo stress. Mantenne un tono di voce colloquiale, ma era pre-
occupato.
«George, sono io, Jeff. Non ammazzare il cane, okay? Non vogliamo
sentire sparare.»
«Bugiardo. Avevi detto che mia moglie mi avrebbe parlato!»
Era una piccola casa decorata a stucco, color polvere. Ai due lati della
porta d'ingresso, sotto un minuscolo porticato, si aprivano due finestre
con le tende tirate. Il vetro di sinistra era stato rotto dal lancio del telefo-
no. A tre metri sulla destra del porticato, cinque uomini di un'unità tattica
della Swat erano accovacciati contro il muro, pronti a sfondare la porta.
Malik non si vedeva.
«George, ascoltami. Ti ho detto che l'avevamo trovata, ma mi sono sba-
gliato. Lascia che ti spieghi. Qui fuori c'è un po' di casino e mi hanno dato
l'informazione sbagliata. Ma la stiamo ancora cercando e quando l'avre-
mo trovata la porteremo qui perché parli con te.»
«Mi hai mentito prima, bastardo, e ora stai di nuovo mentendo. Vuoi
proteggere quella puttana, ma io non me la bevo. Adesso ammazzo il suo
cane e poi mi faccio saltare le cervella.»
Talley aspettava. Era importante apparire calmo e dare a Malik il tem-
po per sbollire. Parlando, la gente sfoga lo stress. Se fosse riuscito a ri-
durre il suo livello di tensione, potevano ancora superare l'ostacolo e ve-
nirne fuori.
«Non sparare al cane, George. Qualunque cosa ci sia fra te e tua mo-
glie, non prendertela con lui. È anche il tuo cane, no?»
«Non so di chi cazzo sia questo bastardo. Mi ha mentito su tutto il resto
e magari mi ha mentito anche su questo. È una bugiarda nata. Come te.»
«Avanti George. Ho sbagliato, ma non racconto bugie. Ho fatto un erro-
re. Un bugiardo non lo ammetterebbe mai, ma io voglio essere sincero con
te. Anche a me piacciono i cani. Di che razza è il tuo?»
«Non ti credo. Tu sai dov'è lei, e se non la convinci a parlarmi io lo
ammazzo, questo bastardo.»
Gli abissi insondabili della disperazione possono facilmente schiacciare
un uomo, come la pressione dell'acqua sul fondo dell'oceano. Talley aveva
imparato a capire quando quella pressione cresceva nella voce delle per-
sone, e adesso la sentiva. Malik stava per esserne annientato.
«Non disperare, George. Sono sicuro che verrà a parlarti.»
«E allora perché non vuole aprire bocca? Perché non dice qualcosa?
Non deve fare altro.»
«Troveremo una soluzione.»
«Parla, maledetta!»
«Ti ho detto che troveremo una soluzione.»
«Di' qualcosa o sparo a questo maledetto bastardo!»
Talley prese fiato, riflettendo. Le parole di Malik lo lasciavano per-
plesso. Lui aveva parlato chiaro, ma quell'uomo si comportava come se
non avesse sentito. Talley temeva che fosse prossimo a un attacco psicoti-
co.
«George, non ti vedo. Vieni alla finestra così ti posso vedere.»
«SMETTILA DI GUARDARMI!»
«Per favore, George, vieni alla finestra!»
Talley vide Leifitz tornare dietro al veicolo. Erano vicini, a meno di due
metri di distanza, Leifitz al riparo, Talley allo scoperto.
«Qual è il nome del cane?» chiese Talley sottovoce.
Leifitz scosse la testa.
«Dicono che non ha nessun cane.»
«APRI SUBITO QUELLA MALEDETTA BOCCA O SPARO A QUESTO
BASTARDO!»
Talley avvertì una sensazione di gelo alla schiena. Fu come se qualcosa
gli esplodesse dentro la testa. All'improvviso si rese conto che l'inganno
valeva nei due sensi. I poliziotti di Rampart non avevano trovato la moglie
di Malik perché la moglie di Malik era là dentro. I vicini si erano sbaglia-
ti. Lei era stata lì fin dall'inizio. Lei e il bambino.
«Murray, entrate!»
L'urlo di Talley si sovrappose a un'esplosione proveniente dall'interno
della casa. Un secondo sparo echeggiò proprio mentre gli uomini della
Swat sfondavano la porta d'ingresso.
Talley si precipitò in avanti, sentendosi quasi senza peso. In seguito, non
avrebbe ricordato di essere saltato nel portico o di aver varcato la soglia.
Il corpo senza vita di Malik era trattenuto saldamente al suolo, i polsi
ammanettati dietro la schiena anche se ormai era morto. La moglie giace-
va scomposta sul divano del soggiorno, morta da più di quattordici ore.
Due agenti della Swat stavano cercando di fermare il fiotto di sangue ar-
terioso che sprizzava dal collo del ragazzo. Uno dei due urlò chiamando ì
paramedici. Gli occhi del bambino erano spalancati, e frugavano la stanza
come se fossero alla ricerca di una ragione per tutto quello. Boccheggia-
va, la sua pelle traslucida stava progressivamente perdendo colore. I suoi
occhi trovarono Talley, che si inginocchiò e gli appoggiò una mano sulla
gamba. Talley non smise mai di guardarlo negli occhi, costringendosi a
non sbattere neppure le palpebre, il solo conforto che poteva dare a Bren-
dan Malik mentre lo guardava morire.
Dopo un po', Talley uscì a sedersi nel portico. La testa gli ronzava come
se fosse ubriaco. Dall'altra parte della strada, gli agenti si attardavano in-
torno alle loro auto. Talley si accese una sigaretta, poi ripassò mental-
mente le ultime undici ore, alla ricerca di qualche indizio che avrebbe do-
vuto fargli capire come stavano realmente le cose. Non ne trovò. Forse
perché non ce n'erano, ma lui non ci credeva. Aveva fallito. Aveva fatto
degli errori. Il bambino era stato là per tutto il tempo, accoccolato ai piedi
della madre assassinata, proprio come un cagnolino leale e fedele.
Murray Leifitz gli appoggiò una mano sulla spalla, dicendogli di andare
a casa.
Jeff Talley faceva parte della Swat da tredici anni, e da sei ricopriva
l'incarico di negoziatore dell'unità di crisi. Quello di oggi era stato il suo
terzo intervento in cinque giorni.
Cercò di ricordare gli occhi del bambino, ma aveva già dimenticato se
fossero castani o azzurri.
Talley spense la sigaretta, si avviò verso l'auto e andò a casa. Aveva una
figlia di undici anni, Amanda. Voleva guardarle gli occhi. Non ricordava
il loro colore e lo atterriva il fatto che la cosa non gli importasse.
Parte prima
IL CAMPO DI AVOCADO
Venerdì, 14.47
Bristo Camino, California
DENNIS ROONEY
Nei complessi residenziali a nord di Los Angeles era uno di quei giorni
arroventati in cui l'aria è così secca che ti sembra di respirare sabbia; i rag-
gi del sole lambivano la loro pelle come lingue di fuoco. Stavano man-
giando hamburger presi a un fast-food a bordo del fuoristrada di Dennis,
un pickup Nissan di colore rosso che lui aveva comprato per seicento dol-
lari da un boliviano conosciuto mentre lavorava in un cantiere, due setti-
mane prima di essere arrestato; alla guida c'era Dennis Rooney, ventidue
anni, uscito undici giorni prima dall'Antelope Valley Correctional Facility,
il "Formicaio", come lo chiamavano i suoi ospiti; sul sedile del passeggero
un giovane di nome Mars; incastrato nel mezzo c'era Kevin, il fratello mi-
nore di Dennis. Dennis e Mars si conoscevano da appena quattro giorni.
In seguito, ripensando affannosamente alle proprie azioni, Dennis a-
vrebbe concluso che non era stato il caldo micidiale a fargli venire voglia
di commettere un crimine: era stata la paura. La paura che qualcosa di spe-
ciale lo stesse aspettando, e che, se non l'avesse colto, questo qualcosa si
sarebbe volatilizzato, e con esso la sua unica opportunità di diventare qual-
cuno.
Dennis decise che avrebbero dovuto rapinare il minimarket.
«Ehi, sentite. Perché non ripuliamo quel fottuto minimarket, quello dal-
l'altra parte di Bristo, sulla strada che va verso Santa Clarita?»
«Ma non dovevamo andare al cinema?»
Tipico di Kevin, con quella sua faccia da cagasotto: sopracciglia che gli
arrivavano fino alla radice dei capelli, occhi spiritati, e labbra tremolanti da
lattante. Nel film della sua vita, Dennis si vedeva come il tenebroso
outsider che tutte le ragazze pon-pon si sarebbero volute scopare; suo fra-
tello era lo sfigato che glielo impediva.
«Questa è un'idea migliore, stronzo. Al cinema ci andremo dopo.»
«Sei appena uscito dal Formicaio, Dennis. Hai intenzione di tornarci?»
Dennis lanciò la sigaretta fuori dal finestrino e si attardò a rimirarsi nel
retrovisore laterale della Nissan, ignorando lo sbuffo di cenere e scintille
che gli arrivava addosso. A suo avviso possedeva occhi profondi e malin-
conici del colore della tempesta, zigomi alti e labbra sensuali. Guardando-
si, cosa che faceva spesso, sapeva che era solo questione di tempo prima
che il suo destino si compisse, prima che quella cosa speciale che aspetta-
va solo lui si facesse avanti permettendogli di liberarsi di una vita fatta di
lavori pagati quattro soldi e di quel buco di appartamento che divideva con
quello stronzo di suo fratello.
Dennis si aggiustò la semiautomatica calibro 32 nella cintura dei panta-
loni e lanciò un'occhiata a Mars.
«Cosa ne pensi, amico?»
Mars era un tipo grande e grosso, con spalle e schiena massicce. Aveva
la testa completamente rasata con un tatuaggio sulla nuca che diceva "Bru-
cialo". Dennis lo aveva conosciuto al cantiere dove lui e Kevin lavoravano
a giornata per un imprenditore edile. Non sapeva quale fosse il suo co-
gnome. Non glielo aveva mai chiesto.
«Ehi, amico, ti ho chiesto cosa ne pensi.»
«Andiamo a vedere.»
Tutto lì.
MARGARET HAMMOND
TESTIMONE
Alla seconda pompa di benzina, Margaret Hammond sentì il botto del ri-
torno di fiamma di un'auto mentre scendeva dalla sua Lexus.
La donna, che viveva dall'altra parte della strada, in una casa con il tetto
di tegole esattamente uguale ad altre cento del suo complesso, vide tre
giovani di razza bianca correre fuori dal minimarket e saltare a bordo di un
pickup Nissan rosso che si allontanò a balzi con l'andatura saltellante ca-
ratteristica di una frizione bruciata. Il fuoristrada si diresse a ovest, verso
l'autostrada.
Margaret mise il blocco all'erogatore per fare il pieno, poi entrò nel
minimarket per comperarsi una barretta di cioccolato che voleva mangiarsi
sulla strada di casa.
Meno di dieci secondi dopo, tornò di corsa nel parcheggio. La Nissan
era scomparsa. Con il cellulare, Margaret Hammond chiamò il 911, che la
mise in contatto con il Dipartimento di polizia di Bristo Camino.
DENNIS
L'agente Mike Welch, trentadue anni, sposato con un figlio, era nel bel
mezzo di un codice sette, diretto alla caffetteria Krispy Kreme nella parte
ovest di Bristo Camino, quando ricevette la chiamata.
«Auto quattro, qui centrale.»
«Auto quattro.»
«Rapina a mano armata al Kim's Minimart sulla Flanders Road. Sono
stati uditi colpi d'arma da fuoco.»
Welch pensò che fosse assurdo.
«Ripeti, colpi d'arma da fuoco? Stai scherzando?»
«Tre maschi di razza bianca, vent'anni circa, jeans e magliette, a bordo
di un pickup Nissan di colore rosso visto per l'ultima volta sulla West
Flanders Road. Vai sul posto e guarda come sta Junior.»
Mike Welch stava percorrendo la Flanders Road in direzione ovest. La
stazione di servizio di Junior era dritto davanti a lui, a meno di tre chilo-
metri. Welch partì a razzo con un codice tre, inserendo lampeggianti e si-
rena. Nei suoi tre anni di servizio non aveva mai utilizzato il codice tre se
non per fermare qualche automobilista che andava troppo forte.
«Mi trovo sulla Flanders. Hanno sparato a Junior?»
«Affermativo. Sta arrivando l'ambulanza.»
Welch accelerò a tavoletta. Era così intento a cercare di battere sul tem-
po i paramedici che oltrepassò il fuoristrada parcheggiato sull'altro lato
della strada prima di rendersi conto che corrispondeva alla descrizione del
veicolo in fuga.
Welch spense la sirena e accostò. Si voltò a guardare indietro lungo la
strada. Non si vedeva nessuno a bordo né nelle vicinanze, ma il pickup
Nissan rosso era lì.
Welch attese un varco nel traffico, quindi fece inversione di marcia e
tornò indietro, andando a fermarsi dietro il fuoristrada. Attivò il microfono
che portava appuntato sulla spalla.
«Centrale, qui auto quattro. Sono sulla Flanders, due chilometri a est del
minimarket di Kim. Ho trovato un pickup Nissan di colore rosso, targa
Tre-Kilo-Lima-Mike-Quattro-Due-Nove. Sembra abbandonato. Potete
mandare qualcun altro da Kim?»
«Va bene.»
«Vado a controllare.»
«Tre-Kilo-Lima-Mike-Quattro-Due-Nove. Ricevuto.»
Welch scese dall'auto tenendo la mano destra sul calcio della Browning
Hi-Power. Non la estrasse, ma voleva essere pronto. Costeggiò il lato de-
stro del fuoristrada, guardò sotto la carrozzeria, poi girò intorno alla parte
anteriore. Il motore stava ancora ticchettando, il cofano era caldo. Porca
puttana, pensò Welch, quello poteva essere il fuoristrada dei fuggiaschi.
«Centrale, qui auto quattro. L'area è libera. Il veicolo è stato abbandona-
to.»
«Ricevuto.»
Welch proseguì il giro, arrivò alla portiera del guidatore e guardò dentro.
Non era certo che quello fosse il fuoristrada della fuga, ma il cuore gli bat-
teva forte per l'eccitazione. Mike Welch era arrivato al Dipartimento di po-
lizia di Bristo Camino dopo sette anni passati a costruire tetti. Aveva pen-
sato che il lavoro di poliziotto fosse qualcosa di più che fare multe per ec-
cesso di velocità o ricomporre liti familiari, ma non era andata così; ora,
per la prima volta nella sua carriera, poteva trovarsi faccia a faccia con un
vero criminale. Gettò uno sguardo su e giù lungo la strada, chiedendosi
perché avessero abbandonato il pickup e dove fossero andati. All'improv-
viso ebbe paura. Welch guardò verso le siepi, accucciandosi sotto i rami
bassi, ma non vide nulla a parte un muro. Estrasse la pistola e si avvicinò,
esaminandole più da vicino. Parecchi rami erano spezzati. Si voltò verso il
pickup, valutando la situazione, immaginandosi i tre sospetti che si apriva-
no la strada tra le siepi. Tre ragazzi in fuga, che se la facevano addosso per
la paura, e saltavano oltre il muro. Dall'altra parte c'era un complesso re-
sidenziale molto esclusivo chiamato York Estates. Dopo il suo giro di per-
lustrazione, Welch si rese conto che c'erano solo due vie di uscita, a meno
che non decidessero di scavalcare di nuovo il muro. Si sarebbero nascosti
in qualche garage, oppure avrebbero cercato di fuggire correndo come
matti verso il retro.
Welch rimase ad ascoltare il motore della Nissan che continuava a tic-
chettare e stabilì che non potevano avere più di un paio di minuti di van-
taggio. I battiti del suo cuore accelerarono. Welch prese la sua decisione e
partì sgommando, determinato a tagliare loro la strada prima che riuscisse-
ro a fuggire dal complesso, pronto ad arrestarli.
DENNIS
JENNIFER SMITH
A una ventina di metri da loro, oltre la porta aperta, Jennifer Smith era
davvero stufa della piega che aveva preso la sua vita. Suo padre era chiuso
nello studio che dava sul davanti della casa. Faceva il contabile, e lavorava
spesso a casa. Sua madre era in Florida, a fare visita alla zia Kate. Con
mamma in Florida e papà che lavorava, Jen era costretta a tenere d'occhio
Thomas, il fratellino di dieci anni, ventiquattr'ore al giorno, sette giorni al-
la settimana. Se le sue amiche volevano andare al Multiplex, dovevano
portarsi dietro anche Thomas. Se avesse mentito dicendo che andava a Pal-
mdale, così da poter fare una scappata fino a Los Angeles, Thomas avreb-
be fatto la spia. Jennifer Smith aveva sedici anni. Avere una piattola come
Thomas sempre attaccata al sedere le stava rovinando l'estate.
Jen era stata per un po' sdraiata sul materassino in piscina, ma ora era
entrata in casa per preparare qualche sandwich al tonno. Le sarebbe piaciu-
to far morire di fame quello stronzetto, ma doveva preparare da mangiare
anche per suo padre.
«Thomas?»
Lui odiava essere chiamato Tommy. Neanche Tom gli piaceva. Doveva
essere Thomas.
«Thomas, va' a dire a papà che il pranzo è pronto.»
«Lasciami stare.»
Thomas stava giocando in soggiorno con il suo Nintendo.
«Avverti papà.»
«Urla, tanto ti sente.»
«Vai a chiamarlo, altrimenti ti sputo nel panino.»
«Sputaci due volte. Mi eccita.»
«Sei un maiale.»
Thomas mise in stand-by il videogioco e alzò gli occhi verso la sorella.
«Lo vado a chiamare se tu chiedi a Elyse e a Tris di venire a prendere il
sole da noi.»
Elyse e Tris erano le sue due migliori amiche. Avevano smesso di venire
da lei perché Thomas faceva di tutto per metterle a disagio. Se ne stava in
casa fino a che non erano sdraiate vicino alla piscina, poi saltava fuori of-
frendosi di spalmare loro l'olio solare. E anche se tutt'e due dicevano: "Che
schifo! Fila via!", lui restava lì a fissarle.
«Non verranno se ci sei tu. Sanno che tu le guardi.»
«A loro piace.»
«Sei proprio un maiale.»
Quando i tre giovani entrarono, il primo pensiero di Jen fu che si trattas-
se di giardinieri, ma tutti i giardinieri che conosceva erano bassi, con la
pelle scura e originari del Centroamerica. Poi pensò che fossero ragazzi al-
l'ultimo anno di scuola, ma scartò anche questa idea.
«Desiderate?» chiese Jennifer.
Il primo ragazzo indicò Thomas.
«Mars, occupati del nanetto.»
Il più grosso dei tre corse verso Thomas, mentre quello che aveva parla-
to si precipitava in cucina.
Jennifer fece appena in tempo a gridare, che il ragazzo le coprì la bocca
con una violenza tale da farle sembrare che la faccia le si schiacciasse. An-
che Thomas cercò di urlare, ma il giovane più grosso gli premette il viso
contro il tappeto.
Il terzo era più giovane. Era rimasto indietro, vicino alla porta, e parlava
concitato, cercando però di tenere la voce bassa.
«Dennis, andiamocene! È una pazzia!»
«Sta' zitto Kevin! Ormai è fatta! Rassegnati!»
Quello che la teneva ferma, quello che ora sapeva chiamarsi Dennis, la
spinse all'indietro sul bancone della cucina, schiacciando i sandwich. Le
cosce di lui premevano contro le sue, immobilizzandola. L'alito gli puzza-
va di hamburger e di sigarette.
«Piantala di tirare calci! Non ti faccio niente!»
Lei cercò di mordergli la mano. Dennis la spinse ancora di più all'indie-
tro, finché le sembrò che il collo fosse sul punto di spezzarsi.
«Ho detto di smetterla. Rilassati e ti lascio andare.»
Jennifer continuò a divincolarsi finché non vide la pistola. Il ragazzo più
grosso la teneva puntata contro la testa di Thomas.
Jennifer smise di lottare.
«Ora tolgo la mano, ma farai meglio a non urlare. Hai capito bene?»
Jennifer non riusciva a distogliere lo sguardo dalla pistola.
«Kevin, chiudi la porta.»
Lei sentì il rumore della porta che si chiudeva.
Dennis tolse la mano, ma la tenne vicina, pronto a tapparle nuovamente
la bocca. La sua voce era un sibilo.
«Chi altro c'è qui?»
«Mio padre.»
«Qualcun altro?»
«No.»
«Dov'è?»
«Nel suo studio.»
«Avete una macchina?»
Le mancò la voce. Riuscì solo ad annuire.
«Non urlare. Se urli ti ammazzo. Capito?»
Lei fece cenno di sì con la testa.
«Dov'è lo studio?»
Jennifer indicò la porta d'ingresso.
Dennis le affondò le dita tra i capelli e la spinse in direzione dell'ingres-
so. La seguiva così da vicino che il suo corpo la sfiorava, ricordandole che
indossava solo un paio di calzoncini e il reggiseno di un bikini. Jennifer si
sentì nuda e vulnerabile.
Lo studio di suo padre si apriva sull'ingresso, dietro una grande porta
doppia. Non si presero il disturbo di bussare o di dire qualcosa. Dennis a-
prì la porta di scatto e il ragazzo più grosso, Mars, trascinò dentro Thomas,
sempre tenendogli la pistola puntata alla testa. Dennis la gettò a terra, poi
attraversò di corsa la stanza, puntando la pistola contro suo padre.
«Non dire una parola! Non ti muovere!»
Suo padre stava lavorando al computer, circondato da un cumulo disor-
dinato di fogli. Era un uomo magro e stempiato, con gli occhiali. Sbatté le
palpebre, guardando da sopra le lenti come se non riuscisse a capire bene
ciò che stava succedendo. Forse pensava che fossero suoi amici, che gli
stessero facendo uno scherzo. Ma poi Jennifer capì che suo padre si era re-
so conto della realtà.
«Cosa state facendo?»
Dennis gli puntò contro la pistola, tenendola con entrambe le mani, ur-
lando ancora più forte.
«Non muoverti, cazzo! Resta con il culo su quella sedia! Fammi vedere
le mani!»
Ciò che suo padre disse a quel punto, per Jennifer non aveva alcun sen-
so.
«Chi vi manda?»
Dennis diede uno spintone a Kevin con la mano libera.
«Kevin, chiudi le finestre! E piantala di fare lo stronzo!»
Kevin eseguì e chiuse le tapparelle. Piangeva ancora più di Thomas.
Dennis agitò la pistola verso Mars.
«Amico, coprilo e fa' attenzione alla ragazza.»
Mars spinse Thomas sul pavimento insieme a Jennifer, poi puntò la pi-
stola contro il padre. Dennis si infilò la pistola nella cintura, poi con uno
strattone staccò dal muro la spina di una lampada sulla scrivania, quindi
strappò il cavo.
«Non vi fate prendere dal panico e andrà tutto bene. Capito? Mi prendo
la macchina. Prima però vi lego, così non potete chiamare la polizia. Non
voglio farvi del male, voglio solo la macchina. Dammi le chiavi.»
Suo padre sembrava confuso.
«Cosa state dicendo? Perché siete venuti qui?»
«Voglio quella cazzo di macchina, brutto stronzo! Voglio rubarti la
macchina! Dove sono le chiavi?»
«È solo questo che vuoi, la macchina?»
«Parlo russo, forse? Ce l'hai una macchina?»
Suo padre alzò le mani, in un segno conciliante.
«In garage. Prendetela e andatevene. Le chiavi sono appese alla parete,
vicino alla porta. Dopo la cucina.»
«Kevin, va' a prendere le chiavi, poi dammi una mano a legare questi
bastardi, così ce ne andiamo.»
Kevin, ancora vicino alle finestre, disse: «Sta arrivando un poliziotto».
Jennifer vide l'autopattuglia attraverso le fessure delle tapparelle. Ne
scese un poliziotto che si guardò intorno, come per orizzontarsi, e quindi si
diresse verso la loro casa.
Dennis l'afferrò nuovamente per i capelli.
«Non dire una parola! Non dire un cazzo!»
«Vi prego, non fate male ai miei ragazzi.»
«Zitto. Mars, stai pronto! Mars!»
Jennifer osservò il poliziotto venire verso di loro lungo il vialetto.
Scomparve oltre la cornice della finestra, poi il campanello suonò.
Kevin corse verso il fratello, afferrandolo per il braccio.
«Sa che siamo qui, Dennis! Deve avermi visto chiudere le tapparelle!»
«Sta' zitto!»
Il campanello suonò di nuovo.
Jennifer sentì il sudore di Dennis gocciolarle sulla spalla, e avrebbe vo-
luto urlare. Suo padre la guardò, gli occhi fissi nei suoi, scuotendo lenta-
mente la testa. Lei non capiva se le stesse dicendo di non urlare, o di non
muoversi, e neppure se fosse conscio di ciò che stava facendo.
Il poliziotto superò le finestre, diretto verso l'altro lato della casa.
«Sa che siamo qui, Dennis! Sta cercando di entrare!»
«Non sa un cazzo! Sta solo guardando in giro.»
Kevin era come impazzito, e ora Jennifer avvertiva la paura anche nella
voce di Dennis.
«Mi ha visto alla finestra! Sa che c'è qualcuno qui! Molliamo tutto!»
«Zitto!»
Dennis andò alla finestra. Sbirciò attraverso le tapparelle, poi all'im-
provviso tornò indietro verso di lei e l'afferrò di nuovo per i capelli.
«Alzati.»
WELCH
L'agente Mike Welch non sapeva che in quel momento tutti gli occupan-
ti della casa erano raggruppati a meno di dieci metri da lui, e lo osservava-
no attraverso le fessure delle tapparelle.
Al suo arrivo non aveva visto né Dennis Rooney né nessun altro. Era
troppo impegnato a parcheggiare la macchina. Ma poteva supporre che gli
occupanti della Nissan avessero scavalcato il muro e fossero finiti dentro il
giardino di quella casa. Temeva che i tre sospetti fossero ormai lontani, ma
sperava che qualcuno, in quella o nelle altre case del "cul-de-sac", li avesse
visti e potesse dirgli da che parte erano fuggiti.
Quando nessuno venne a rispondere alla porta, Welch andò verso il can-
cello laterale e chiamò. Ancora nessuna risposta. Allora tornò alla porta e
suonò una terza e ultima volta. Era sul punto di allontanarsi per andare a
chiedere informazioni ai vicini quando il pesante portone dell'ingresso si
aprì e fece capolino un'adolescente molto carina. Era pallida e aveva gli
occhi arrossati.
Welch sfoderò il suo miglior sorriso professionale.
«Signorina, sono l'agente Mike Welch. Ha per caso visto qui in giro tre
giovani che andavano di corsa?»
«No.»
La sua voce era così bassa che Welch riuscì a malapena a sentirla. Notò
che sembrava turbata e si chiese come mai.
«Dovrebbe essere accaduto cinque o dieci minuti fa. Ho motivo di cre-
dere che abbiano scavalcato il muro del vostro giardino.»
«No.»
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime. Welch se ne accorse, vide due
lacrime scenderle lungo le guance e capì che loro erano nella casa con lei.
Probabilmente si trovavano proprio dietro la porta. Il cuore di Mike Welch
cominciò a battere forte. Gli formicolavano le dita.
«Va bene signorina, come le ho detto, stavo solo controllando. Le augu-
ro una buona giornata.»
Senza dare troppo nell'occhio slacciò il gancio della fondina e appoggiò
la mano sulla pistola. Lanciò uno sguardo verso la porta, poi mosse in si-
lenzio le labbra in una muta domanda, chiedendole se ci fosse qualcuno
con lei. La ragazza non ebbe il tempo di rispondere.
All'interno, qualcuno che Mike Welch non poteva vedere urlò: «Sta
prendendo la pistola!».
Esplosioni assordanti eruppero attraverso la porta e la finestra. Qualcosa
colpì Mike Welch in pieno petto, facendolo volare all'indietro. Il giubbotto
di Kevlar fermò il primo proiettile, ma un altro gli perforò il ventre sotto il
giubbotto, mentre il terzo scivolò sopra il bordo superiore della protezione
per andare a conficcarsi nella parte alta del torace. Cercò di restare eretto,
ma sentì i piedi sfuggirgli da sotto. La ragazza urlò, come pure qualcun al-
tro dentro la casa.
Mike Welch si ritrovò sdraiato sulla schiena nel cortile davanti alla casa.
Si tirò su a sedere, poi si rese conto di essere stato colpito e cadde di nuovo
a terra. Sentì altri spari, ma non fu più in grado di alzarsi per schivare i
colpi né di correre al riparo. Estrasse la pistola e sparò verso la casa, senza
pensare a chi avrebbe potuto colpire. Pensava solo a sopravvivere.
Ancora spari, urla, ma ormai non riusciva più a reggere la pistola. Poté
solo accendere il microfono sulla spalla.
«Agente ferito. Agente ferito. Oh, Dio, mi hanno sparato!»
«Ripeti. Mike? Mike, cosa sta succedendo?»
Mike Welch fissava il cielo, senza poter rispondere.
Venerdì, 15.24
JEFF TALLEY
Jeff Talley era parcheggiato a tre chilometri e mezzo dagli York Estates,
in un campo di avocado, il volume della radio di servizio ridotto a un sus-
surro mentre parlava al cellulare con la figlia. Spesso, nel pomeriggio, la-
sciava l'ufficio e andava in quel campo, che aveva scoperto poco tempo
dopo aver accettato l'incarico di capo del Dipartimento di polizia di Bristo
Camino e dei suoi quattordici membri. File di alberi, tutti uguali, tutti alla
stessa calcolata distanza l'uno dall'altro, immobili nell'aria limpida del de-
serto come un coro di testimoni silenziosi. Nell'armonia di quel posto lui
trovava la pace.
Sua figlia, Amanda, ora quattordicenne, aveva interrotto quella pace.
«Perché non posso portare con me Derek? Almeno avrei qualcuno con
cui stare.»
La voce della ragazza trasudava freddezza. Lui l'aveva chiamata perché
quel giorno era venerdì e lei sarebbe venuta per il weekend.
«Pensavo che saremmo andati insieme al cinema.»
«Andiamo al cinema tutte le volte che vengo da te. Possiamo andarci
comunque e portare anche Derek.»
«Magari un'altra volta.»
«Quando?»
«La prossima volta. Non so.»
Lei fece un sospiro esagerato che lo mise sulla difensiva.
«Mandy? Mi va bene se porti degli amici. Ma mi piace anche quando
stiamo da soli. Voglio parlare con te di tante cose.»
«Mamma vuole parlarti.»
«Ti voglio bene.»
Lei non rispose.
«Ti voglio bene, Amanda.»
«Dici sempre che vuoi parlare, ma poi finisce che ci rinchiudiamo in un
cinema e non lo facciamo mai. Ti passo la mamma.»
Jane Talley prese il telefono. Si erano separati cinque mesi dopo che lui
aveva dato le dimissioni dal Dipartimento di polizia di Los Angeles. Si era
installato sul divano e aveva cominciato a restare davanti alla televisione
per venti ore al giorno, finché sua moglie non aveva più resistito e lui se
n'era andato. Questo accadeva due anni prima.
«Salve, capo. Mandy non è del suo umore migliore.»
«L'ho capito.»
«Come te la passi?»
Talley ci pensò su.
«Non le vado molto a genio.»
«Adesso è dura, per lei. Ha quattordici anni.»
«Lo so.»
«Sta ancora cercando di capire. Ogni tanto lo accetta, ma ci sono delle
volte in cui tutto sembra sopraffarla.»
«Cercherò di parlarle.»
Avvertì la frustrazione nella voce di Jane, e nella propria.
«Jeffrey, sono due anni che cerchi di parlarle, ma non risolvi nulla. Un
bel giorno te ne sei andato e hai iniziato una nuova vita, di cui noi non fa-
cevamo più parte. Ora tu hai la tua nuova vita, lì, e lei se ne sta facendo
una nuova qui. Questo lo capisci, vero?»
Talley non rispose, perché non sapeva cosa dire. Ogni giorno, da quando
si era stabilito a Bristo Camino, si riprometteva di chiedere loro di rag-
giungerlo, ma ancora non era stato capace di farlo. Sapeva che Jane aveva
passato gli ultimi due anni ad aspettarlo. Pensò che se glielo avesse chiesto
in quel preciso momento lei avrebbe accettato, ma tutto quello che gli riu-
scì fu fissare in silenzio le file di alberi immobili e silenziosi.
Alla fine, Jane ne ebbe abbastanza di quel silenzio.
«Non voglio più andare avanti così. Tu e Mandy non siete gli unici che
hanno bisogno di rifarsi una vita.»
«Lo so. Lo capisco.»
«Non ti chiedo di capire. Non mi interessa se capisci.»
La sua voce si fece dura e dolente, poi entrambi restarono in silenzio.
Talley pensò a lei nel giorno del matrimonio; a come la sua pelle dorata
spiccava sul bianco abito country da sposa.
Alla fine Jane ruppe il silenzio con voce rassegnata. Quel giorno non a-
vrebbe saputo niente di più rispetto al precedente; suo marito non le avreb-
be detto niente di nuovo. Talley si sentì in imbarazzo, in colpa.
«Vuoi che te la porti a casa o in ufficio?»
«A casa va bene.»
«Alle sei?»
«Alle sei. Potremmo cenare insieme.»
«Non mi fermo.»
Quando il telefono divenne muto, Talley lo mise da parte e pensò al so-
gno. Era sempre lo stesso, una piccola casa di legno circondata da una
squadra tattica della Swat al gran completo, elicotteri in cielo, giornalisti
tutt'intorno relegati dietro le transenne. Talley era il primo negoziatore, ma
in quell'incubo quasi reale si trovava allo scoperto, senza protezione, men-
tre Jane e Amanda lo guardavano da dietro le barriere. Talley era impegna-
to in una trattativa con un soggetto sconosciuto di sesso maschile che si era
barricato dentro la casa e minacciava di suicidarsi. "Lo faccio! Adesso lo
faccio!" continuava a gridare. Ogni volta Talley riusciva a convincerlo a
fare marcia indietro, ma ogni volta sapeva che l'uomo era andato un po' più
vicino alla fine. Era solo questione di tempo. Nessuno lo aveva mai visto.
Non era stato trovato alcun vicino o familiare che potesse fornirne l'identi-
tà. Per tutti era una voce dietro un muro, per tutti tranne che per Talley,
che sapeva con un cupo terrore di essere lui l'uomo nella casa. Era diventa-
to il soggetto nella casa, imprigionato nel tempo e nello spazio, costretto a
trattare con se stesso per salvarsi la vita.
JENNIFER
Jennifer non aveva mai sentito nulla di così assordante come gli spari
delle loro armi; di certo non i mortaretti che Thomas aveva fatto esplodere
nel giardino o l'urlo della folla quando i Lakers avevano messo a segno
l'impossibile canestro della vittoria. Le sparatorie dei film non erano nep-
pure comparabili. Quando Mars e Dennis avevano iniziato a sparare, il
rumore le aveva scosso il cervello, assordandola.
Jennifer urlò. Dennis chiuse con violenza la porta e la trascinò all'indie-
tro verso lo studio, poi la spinse a terra. Lei afferrò Thomas e lo tenne
stretto a sé. Il padre li prese tra le braccia. Il fumo degli spari restava come
sospeso nelle lame di luce che filtravano attraverso le tapparelle; l'odore le
faceva pizzicare il naso.
Quando la sparatoria cessò, il respiro di Dennis ricordava il soffio di un
mantice, mentre camminava avanti e indietro fra lo studio e l'ingresso, pal-
lido come un morto.
«Siamo fottuti! Il poliziotto è morto!»
Mars andò nell'ingresso. Senza fretta, senza paura, apparentemente rilas-
sato.
«Prendiamo l'auto prima che ne arrivino degli altri.»
Kevin era a terra accanto alla scrivania, e tremava, bianco come un cen-
cio.
«Hai sparato a un poliziotto. Hai sparato a un poliziotto, Dennis!»
Dennis afferrò il fratello per la maglietta.
«Non hai sentito Mars? Stava per impugnare la pistola!»
Al di sopra delle urla, Jennifer sentì una sirena che si avvicinava. Anche
Dennis la udì e si precipitò di nuovo verso le finestre.
«Oh, merda, stanno arrivando!»
Il padre di Jennifer la strinse a sé con tutte le forze.
«Prendete le chiavi e andatevene. Sono sul muro vicino al garage. È una
Jaguar. Prendetela, finché siete in tempo.»
Dennis guardava attraverso i listelli delle tapparelle come fossero sbarre
di una prigione, fissava la strada con un'attesa carica di paura. Jennifer a-
vrebbe voluto che fuggissero, che se ne andassero, che uscissero dalla sua
vita, e invece Dennis restava lì, impietrito davanti alle finestre come in at-
tesa di qualcosa.
Mars parlò dall'ingresso, la voce piatta come l'acqua di uno stagno.
«Prendiamo la macchina di quest'uomo, Dennis. Dobbiamo andare.»
Poi, all'improvviso, parve che la sirena fosse dentro la casa, e allora fu
troppo tardi. Fuori si sentì uno stridore di pneumatici. Dennis corse alla
porta d'ingresso e la sparatoria ricominciò.
TALLEY
Gli York Estates, un complesso residenziale cintato da un muro, aveva-
no preso il nome dalla leggendaria città di York, in Inghilterra, separata dal
mondo da imponenti mura di pietra. I costruttori avevano edificato ventot-
to abitazioni su lotti da quattro a dodicimila metri quadri, collegati da stra-
de serpeggianti, alcune senza sbocco, che portavano nomi come Lancelot
Lane, Queen Anne Way, e King John Place, il tutto circondato da un muro
di pietra che aveva più una funzione estetica che di protezione. Imboccan-
do l'ingresso sul lato nord, Talley spense la sirena, ma lasciò accesi i lam-
peggianti. Jorgenson e Anders stavano urlando, dicevano di essere sotto ti-
ro. Dalla radio gli giunse il rumore di un colpo d'arma da fuoco.
Come imboccò Castle Way, Talley vide Jorgenson e Anders accovaccia-
ti dietro la loro auto con le pistole in pugno. Due donne stavano sulla so-
glia della casa alle loro spalle, mentre un ragazzo era fermo in piedi all'im-
bocco del cul-de-sac. Mentre risaliva la strada a tutta velocità, Talley pre-
mette l'interruttore che collegava il suo microfono all'altoparlante dell'auto.
«Voi, laggiù, mettetevi al riparo! Entrate in casa!»
Jorgenson e Anders si voltarono verso di lui. Le due donne sembravano
confuse e il ragazzo non dava cenno di muoversi. Talley accese per un at-
timo la sirena e urlò nuovamente verso di loro.
«Andate dentro! Muovetevi!»
Frenò bruscamente, andando a fermarsi dietro l'auto di Jorgenson. Due
spari esplosero dalla casa, un proiettile passò alto sopra di loro, l'altro colpì
con un tonfo sordo il parabrezza. Talley scivolò fuori dalla portiera e si ac-
covacciò dietro la ruota anteriore, usando il cofano come riparo. Mike
Welch giaceva rannicchiato sul prato antistante la casa, una grande casa in
stile Tudor a poco più di una decina di metri da loro.
«Welch è ferito! Gli hanno sparato!» urlò Anders.
«Tutti e tre i fuggiaschi sono all'interno?»
«Non lo so! Non abbiamo visto nessuno!»
«Ci sono dei civili in casa?»
«Non lo so!»
Altre sirene si stavano avvicinando da est. Talley sapeva che doveva
trattarsi dell'unità sei, con Dreyer e Mikkelson, e dell'ambulanza. Gli spari
erano cessati, ma si sentivano urla e strilli provenire dall'interno della casa.
Si appiattì al suolo e chiamò Welch da sotto la macchina.
«Mike! Mi senti?»
Welch non rispose.
«Ho paura che sia morto!» urlò Anders terrorizzato.
«Calmati, Larry. Ti sento.»
Doveva valutare la situazione e prendere delle decisioni senza sapere
con chi o con che cosa aveva a che fare. Welch era nel bel mezzo del pra-
to, immobile e allo scoperto. Talley doveva agire.
«Il retro di questa casa dà sulla Flanders Road?»
«Sì, capo. Il fuoristrada è sull'altro lato del muro che corre dietro la casa.
È la Nissan rossa! Sono quelli che hanno fatto il colpo da Kim.»
Le sirene erano più vicine. Talley doveva presumere che degli innocenti
fossero all'interno della casa. Doveva presumere che Mike Welch fosse vi-
vo. Attivò il microfono della ricetrasmittente.
«Auto sei, qui auto uno. Chi c'è a bordo?»
Gli rispose la voce di Dreyer.
«Sono Dreyer, capo. Siamo a un minuto da voi.»
«Dov'è l'ambulanza?»
«Subito dietro di noi.»
«Va bene. Voi prendete posizione sulla Flanders, vicino al pickup, nel
caso questi qui decidessero di scavalcare di nuovo il muro. Fate entrare
l'ambulanza, ma avvertiteli di aspettare all'incrocio tra la Castle e la To-
wer. Porterò io Welch da loro.»
Talley chiuse la comunicazione, poi si raddrizzò, restando però rannic-
chiato.
«Larry, voi avete aperto il fuoco contro la casa?»
«No, capo.»
«Non fatelo.»
«Cos'ha intenzione di fare?»
«State giù. E non sparate contro la casa.»
S'infilò in macchina, tenendo la testa bassa e la portiera spalancata. In-
dietreggiò, poi partì veloce sul prato, andandosi a fermare tra Welch e la
casa, usando l'auto come scudo. Un altro colpo fece esplodere il finestrino
del passeggero. Talley rotolò fuori dall'auto, rischiando di finire addosso a
Welch. Aprì la portiera posteriore, poi trascinò il collega verso la macchi-
na. Era come sollevare un peso morto di un quintale, ma Welch si lamen-
tava. Era vivo. Talley lo sollevò e, facendo appello a tutte le proprie forze,
lo spinse sul sedile posteriore. Chiuse con violenza la portiera, poi vide la
pistola di Welch sull'erba e tornò indietro a raccoglierla. Risalì in auto e
partì a tutta velocità, sbandando sull'erba viscida mentre attraversava il
prato, diretto verso l'imbocco della strada, dove lo aspettava l'ambulanza.
Due paramedici tirarono fuori Welch dall'auto e gli premettero una com-
pressa di garza sul torace. Talley non chiese se Welch ce l'avrebbe fatta.
Sapeva per esperienza che non sarebbero stati in grado di dirglielo.
Rimase a fissare la strada e venne percorso da un brivido. La prima on-
data di panico stava passando; ora aveva tempo per pensare. Aveva tempo
per prendere coscienza del fatto che quello che stava accadendo lì era ciò
che gli era costato così caro a Los Angeles. Si trattava a tutti gli effetti di
un sequestro di ostaggi. Si sentiva la bocca asciutta e qualcosa di acido in
gola, che rischiava di farlo vomitare. Attivò ancora la ricetrasmittente per
chiamare l'operatrice radio. Disponeva di quattro pattuglie operative e di
altri cinque agenti fuori servizio. Avrebbe avuto bisogno di tutti.
«Capo, ho richiamato Dreyer e Mikkelson dal minimarket. Ora non ab-
biamo più nessuno sulla scena del crimine. È completamente scoperta.»
«Chiama la Stradale e l'Ufficio dello sceriffo. Riferisci cosa sta succe-
dendo e richiedi un'unità di crisi al completo. Digli che abbiamo due uo-
mini feriti e dei possibili ostaggi.»
Gli occhi di Talley si riempirono di lacrime quando si rese conto di aver
usato quella parola. Ostaggi.
Si ricordò della pistola di Welch. Annusò la canna, poi controllò il cari-
catore. Welch aveva risposto al fuoco, e questo significava che poteva aver
colpito qualcuno all'interno della casa. Forse addirittura un innocente.
Strinse forte gli occhi e aprì la ricetrasmittente.
«Digli di sbrigarsi.»
JENNIFER
Venerdì, 15.51
TALLEY
Talley avrebbe voluto restare con Welch, ma non c'era tempo. Doveva
rendersi conto di cosa stava succedendo dentro quella casa. Richiese una
seconda ambulanza, nel caso ci fossero altri feriti, quindi risalì in auto e
tornò ancora una volta in fondo alla strada. Si fermò così vicino a quella di
Anders che i paraurti delle due macchine cozzarono leggermente. Scivolò
fuori e tornò ad accucciarsi dietro la ruota, chiamando Anders e Jorgenson.
«Larry, Jorgy, ascoltate.»
Erano giovani, ragazzi che avrebbero fatto il carpentiere o il piazzista se
non fossero entrati nella polizia. Non avevano mai visto niente di parago-
nabile a ciò che stava accadendo su Castle Way, e, come loro, nessuno de-
gli altri uomini di Talley. Non si erano mai trovati nella condizione di do-
ver estrarre la pistola o di arrestare qualcuno per un grave crimine.
«Dobbiamo evacuare queste case e isolare la zona. Voglio che vengano
bloccate tutte le strade che portano qua.»
Anders annuì con vigore, eccitato e spaventato al tempo stesso.
«Solo il cul-de-sac?»
«Tutte quelle che portano a questi lotti. Prendi l'auto di Welch, torna al-
l'angolo e passa di casa in casa, tenendoti sul retro. Scavalca i muri di cin-
ta, se necessario, e fa evacuare tutti, dalla stessa strada. Non fatevi vedere
dalle persone che sono là dentro, né tu né gli altri.»
«E se non vogliono venire?»
«Faranno quello che gli ordini. Ma non permettere a nessuno di uscire
dall'ingresso sul davanti. Comincia dalla casa che si trova qua dietro. Po-
trebbe esserci qualcuno ferito, là dentro.»
«Subito, capo.»
«Scopri chi vive in quella casa. Dobbiamo saperlo.»
«D'accordo.»
«Un'ultima cosa. Potrebbe esserci ancora qualche criminale in giro. Di'
agli altri di perquisire casa per casa. E avverti tutti gli abitanti del quartiere
perché stiano all'erta.»
Restando accucciato, Anders si avvicinò all'auto di Welch, la prima della
fila, salì, fece una brusca inversione e uscì dal cul-de-sac a tutta velocità.
I primi minuti di ogni situazione di crisi sono sempre i peggiori. All'ini-
zio è raro sapere con cosa si ha a che fare, e questa incognita potrebbe ri-
sultare fatale. Talley doveva assolutamente scoprire chi aveva di fronte e
chi si trovava in quella casa. Forse tutti e tre i criminali erano là dentro, ma
lui non aveva modo di saperlo. Potevano essersi separati, o forse aver già
ucciso tutte le persone all'interno. Potevano aver massacrato gli occupanti,
essere fuggiti lungo la strada ed essersi suicidati. In quel caso, lui si sareb-
be trovato davanti a una casa piena di morti.
Talley aprì il microfono della ricetrasmittente per comunicare con le al-
tre unità.
«Parla Talley. Liberate la frequenza e rimanete all'ascolto. Jorgenson e
io ci troviamo davanti al 18 di Castle Way agli York Estates. Anders sta
facendo evacuare i residenti delle abitazioni vicine. Dreyer e Mikkelson
sono sul retro della proprietà, sulla Flanders Road, vicino al pickup Nissan
rosso. Crediamo che nella casa si trovi uno o più dei rapinatori che hanno
sparato a Junior Kim e a Mike Welch. Sono armati. Bisogna identificarli.
Welch aveva già chiesto un controllo sulla targa del fuoristrada?»
Fu Mikkelson a rispondere.
«Capo, qui auto due.»
«Parla, auto due.»
«Il fuoristrada è intestato a un certo Dennis James Rooney, maschio,
bianco, ventidue anni. Residente ad Agua Dulce.»
Talley tirò fuori il taccuino e annotò il nome di Rooney. In un'altra vita
avrebbe mandato immediatamente una pattuglia al suo indirizzo, ma ades-
so non aveva gli uomini sufficienti per farlo.
La radio crepitò nuovamente.
«Capo, sono Anders.»
«Dimmi, Larry.»
«Sono con una vicina. Dice che gli abitanti della casa si chiamano
Smith, Walter e Pamela Smith. Hanno due figli, un maschio e una femmi-
na. Un momento... Va bene. Si chiamano Jennifer e Thomas. Dice che la
ragazza ha una quindicina d'anni, il maschio è più piccolo.»
«Sa se sono in casa?»
Talley udì Anders parlare con la donna. Il suo collega era così nervoso
che attivò il microfono prima ancora di essere pronto a riferire. Talley gli
disse di calmarsi.
«Dice che la moglie è in Florida, a far visita a una sorella, ma crede che
il resto della famiglia sia dentro. Il marito lavora a casa.»
Talley imprecò sottovoce. Era possibile che ci fossero tre ostaggi. Tre
assassini, tre ostaggi. Doveva assolutamente scoprire cosa stava succeden-
do in quella casa e tenere calmi i rapinatori. Nel gergo della polizia questo
si chiamava "stabilizzare la situazione". Non c'era altro da fare. Continuò a
ripeterselo più volte, come un mantra: "Non c'è altro da fare".
Fece un respiro profondo, per calmarsi, poi un altro. Attivò l'altoparlante
dell'auto in modo da poter parlare agli occupanti della casa. Da lì a un
momento avrebbe stabilito un contatto. In quell'istante sarebbe cominciata
la trattativa. Talley aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai più
trovato in una situazione del genere. Aveva stravolto la sua esistenza per
evitarlo, e invece eccolo di nuovo lì.
«Mi chiamo Jeff Talley. C'è qualche ferito nella casa?»
La sua voce echeggiò per il vicinato. Sentì un'auto della polizia fermarsi
all'imbocco della strada, ma non si voltò a guardare. Tenne lo sguardo fis-
so sulla casa.
«Ehi, voi, nella casa, restate calmi. Non c'è nessuna fretta. Se avete dei
feriti, lasciate che vengano soccorsi. Possiamo trovare una soluzione.»
Nessuno rispose. Talley sapeva che i soggetti all'interno si trovavano
sottoposti a una tensione incredibile. Erano stati coinvolti in due sparato-
rie, e ora erano in trappola. Sicuramente avevano paura, e il rischio per i
civili era alto. Il compito di Talley era quello di ridurre il loro stress. Se si
dava ai soggetti il tempo per calmarsi e riflettere sulla propria situazione,
talvolta erano loro stessi a rendersi conto che l'unica via d'uscita era la re-
sa. A quel punto era sufficiente fornire loro una scusa per consegnarsi. Era
così che funzionava. Queste cose, Talley le aveva imparate al corso del-
l'Fbi sulla gestione delle crisi, e ogni volta aveva sempre funzionato, fin-
ché George Malik non aveva sparato al figlio.
«Prima o poi dovremo cominciare a parlare. Tanto vale farlo adesso.
State tutti bene, o qualcuno ha bisogno di un dottore?»
Finalmente dalla casa rispose una voce.
«Vaffanculo!»
JENNIFER
Le palpebre di suo padre sbattevano come se stesse sognando, avanti e
indietro, su e giù. Dalle labbra gli sfuggì un debole gemito, ma i suoi occhi
non si aprirono. Thomas, accucciato accanto a lei, sussurrò: «Cosa succe-
de?».
«Non si sveglia. Perché non si sveglia?»
Non era possibile che stesse accadendo tutto questo: non in casa sua,
non a Bristo Camino, non in quella perfetta giornata d'estate.
«Papà, ti prego!»
Mars si inginocchiò accanto a lei per tastargli il collo. Era grosso e roz-
zo. Puzzava di sudore e verdura.
«Sembra una lesione cerebrale.»
Jennifer venne assalita da un'ondata di nausea e di paura, ma poi capì
che l'uomo si stava solo prendendo gioco di lei.
«Vai a farti fottere.»
Mars sbatté le palpebre, turbato, come se le parole di lei lo avessero sor-
preso e messo in imbarazzo.
«Io non le faccio quelle cose. Sono brutte.»
Mars si allontanò.
La ferita continuava a pulsare, ma non sanguinava quasi più; il sangue
rappreso e il tessuto gonfio intorno alla lesione ricordavano un orribile
vulcano rosso. Jennifer si alzò e affrontò Dennis.
«Vado a prendere del ghiaccio.»
«Chiudi il becco e posa il culo.»
«Io vado a prendere del ghiaccio. È ferito.»
Dennis la fulminò con lo sguardo, rosso in volto per la collera. Lanciò
un'occhiata a Mars, poi a suo padre. Alla fine tornò a voltarsi verso le tap-
parelle.
«Mars, accompagnala in cucina. Controlla che Kevin non stia combi-
nando qualche casino, là dietro.»
Jennifer si allontanò senza aspettare Mars ed entrò in cucina. Vide Kevin
nascosto dietro il divano nella saletta in modo da poter tenere d'occhio la
porta finestra. Avrebbe voluto che il giardino sul retro fosse pieno di poli-
ziotti e cani feroci, ma purtroppo era vuoto. L'acqua della piscina era così
limpida e calma che il materassino con cui aveva giocato fino a neppure
mezz'ora prima sembrava galleggiare immobile sull'aria. La radio era an-
cora posata per terra al bordo della piscina, ma da dove si trovava non po-
teva sentirla. Era accaduto tutto così in fretta...
Jennifer aprì lo sportello sotto il lavandino. Mars lo richiuse con un cal-
cio.
«Cosa stai facendo?»
Mars incombeva su di lei, l'inguine a pochi centimetri dal suo volto.
Lentamente Jennifer si alzò in piedi. Anche così lui era una trentina di cen-
timetri più alto di lei, e tanto vicino che faceva male guardarlo. Jennifer
sentì nuovamente quella puzza di verdura. Si fece forza per non scappare.
«Sto prendendo uno strofinaccio. Poi aprirò il freezer per tirare fuori il
ghiaccio. Ti va bene?»
Mars le andò ancora più vicino. Con il torace le sfiorò la punta dei seni.
Jennifer si costrinse a non distogliere lo sguardo, a non arretrare, ma la sua
voce era roca.
«Stammi lontano.»
Mars abbassò gli occhi, lo sguardo annebbiato come se non la vedesse.
Sulle sue labbra comparve un sorriso assente. Ondeggiò, sfiorandole piano
il seno con il torace.
Ma Jennifer non indietreggiò di un passo. Facendo ricorso a tutte le pro-
prie forze, ripeté, questa volta con voce chiara: «Stammi lontano».
Il sorriso vuoto svanì, gli occhi di lui si focalizzarono come se potesse
nuovamente vederla.
Jennifer aprì lo sportello senza aspettare una risposta, trovò uno strofi-
naccio, quindi andò verso il frigo. Era un grosso Sub-Zero nero, il tipo con
lo scomparto del freezer nella parte bassa. Lo aprì e mise un po' di ghiac-
cio nello strofinaccio, rovesciandone qualche cubetto per terra.
«Ho bisogno di una ciotola.»
«Fa' pure.»
Mentre lei prendeva la ciotola, Mars si allontanò. Andò nella saletta e
chiese a Kevin se avesse visto qualcosa. Jennifer non udì la risposta di Ke-
vin.
La ragazza scelse una grossa ciotola di plastica verde, poi vide il coltel-
lino da verdura sul bancone, che aveva dimenticato dopo aver tagliato la
cipolla per il sandwich al tonno. Si voltò a guardare Mars e vide che era
ancora con Kevin. Sentiva il terrore all'idea che potessero vederla allunga-
re la mano verso il coltello. Poi, pensò: anche se fosse riuscita a prenderlo,
cosa avrebbe potuto fare? Aggredirli? Figuriamoci, loro erano più grandi e
più forti. Inoltre, i calzoncini non avevano tasche ed era impossibile na-
scondere un coltello nel reggiseno del bikini. Si voltò di nuovo. Mars la
stava fissando. Jennifer distolse subito lo sguardo, ma con la coda dell'oc-
chio vide che era rimasto con Kevin. Mars tornò in cucina. Senza pensarci,
Jennifer spinse il coltellino dietro il mixer Cuisinart che sua madre teneva
sul bancone.
«Perché ci metti così tanto?»
«Ho finito.»
«Un momento.»
Mars andò al frigo e lo aprì. Tirò fuori una birra, la stappò e bevve. Poi
prese una seconda bottiglia e gliela porse.
«Ne vuoi una?»
«Non bevo birra.»
«La mamma non lo verrà a sapere. Ora puoi fare tutto quello che vuoi,
tanto lei non lo scoprirà.»
«Voglio tornare da mio padre.»
Lo seguì nello studio. Mars diede la seconda birra a Dennis, di guardia
dietro le tapparelle. Jennifer raggiunse Thomas, che stava sempre al fianco
del padre, accanto alla scrivania. Prese lo strofinaccio con il ghiaccio dalla
ciotola e lo premette contro la ferita. Trasalì sentendo suo padre gemere.
Thomas le si avvicinò e le parlò con voce così bassa che lei lo udì appe-
na.
«Cosa succederà?»
La voce di Mars attraversò la stanza.
«Zitti!»
Mars la stava fissando, facendo correre lo sguardo lungo le curve del suo
corpo. Jennifer arrossì, sforzandosi di concentrarsi su suo padre. Capiva
che Mars si stava divertendo alle sue spalle, proprio come prima.
Squillò il telefono.
Tutti si voltarono a guardare l'apparecchio, ma nessuno si mosse. Gli
squilli sembrarono farsi più forti, più insistenti.
«Cristo!» esclamò Dennis.
Arrabbiato, andò al telefono e sollevò il ricevitore ma gli squilli prose-
guirono.
«Che cazzo succede? Perché non la smette?»
«C'è più di una linea» rispose Thomas. «Bisogna premere il pulsante che
lampeggia.»
Dennis diede un pugno sulla lucina, poi sbatté giù la cornetta. Gli squilli
si interruppero.
Quindi tornò alla finestra, borbottando qualcosa sui ricchi che si poteva-
no permettere più di una linea.
Il telefono riprese a squillare.
«Vaffanculo!»
La voce all'altoparlante in strada echeggiò per tutta la casa.
«Dennis Rooney, rispondi al telefono. È la polizia.»
TALLEY
Venerdì, 16.22
DENNIS
JENNIFER
Venerdì, 17.10
GLEN HOWELL
Dopo quindici squilli, Glen Howell chiuse il cellulare. La cosa non gli
piaceva. Era atteso, e sapeva che chi lo aspettava rispondeva sempre al te-
lefono. Era irritato dal fatto che quel figlio di puttana avesse scelto di non
rispondere proprio adesso, quando lui era già così in ritardo. Nel mondo di
Glen Howell i ritardi non erano tollerati e le scuse erano meno che inutili.
Le punizioni potevano essere severe.
Howell non sapeva perché le strade che portavano agli York Estates fos-
sero bloccate, ma il traffico era fermo. Doveva trattarsi di un guasto a una
conduttura del gas o qualcosa del genere: una cosa grossa, se erano arrivati
a chiudere l'intero complesso, bloccando il traffico e facendo perdere del
tempo a tutti. I ricchi non amano i contrattempi.
Il finestrino della grossa Mercedes Classe S si abbassò senza fare rumo-
re. Glen mise fuori la testa, cercando di capire il motivo di quel rallenta-
mento. Un poliziotto smistava il traffico all'incrocio; fece allontanare alcu-
ne auto con un gesto, ma lasciò passare il furgone di una stazione televisi-
va. Glen chiuse il finestrino, e subito il vetro oscurato attenuò il bagliore
del sole. Prese dalla tasca la Smith & Wesson calibro 40 e la mise nel vano
portaoggetti. Aveva una regolare licenza rilasciata dallo Stato della Cali-
fornia, ma non voleva attirare l'attenzione nel caso fosse stato costretto a
scendere dall'auto.
Guardò l'orologio per la quarta volta nel giro di cinque minuti. Ne aveva
già dieci di ritardo. Di questo passo sarebbero diventati ancora di più. Tre
delle auto davanti a lui erano state deviate, una era passata, e ora era il suo
turno. Il poliziotto era giovane, alto e squadrato, con un pomo d'Adamo
prominente.
Glen abbassò il finestrino. Il caldo lo investì, facendogli desiderare di
essere a Palm Springs invece che lì, a fare il fattorino. Provò ad assumere
un atteggiamento superiore e professionale, cercando di far leva sulle dif-
ferenze sociali: un ricco uomo d'affari, un impiegato pubblico senza istru-
zione.
«Cosa succede, agente? Perché la strada è bloccata?»
«Lei vive qui, signore?»
Glen sapeva che, se avesse risposto di sì, il poliziotto avrebbe potuto
chiedergli la patente per verificare il suo indirizzo, e lui non voleva essere
sorpreso a mentire.
«Ho un appuntamento di lavoro. Mi stanno aspettando.»
«Abbiamo un problema all'interno, e siamo stati costretti a isolare la zo-
na. Facciamo passare solo i residenti.»
«Che genere di problema?»
Il poliziotto parve incerto.
«Ha dei familiari che abitano qui, signore?»
«Solo degli amici, agente. Ma quello che mi dice mi fa preoccupare per
loro.»
Il poliziotto aggrottò la fronte e si voltò a guardare la fila di auto dietro a
quella di Glen.
«Be', degli individui sospettati di aver commesso una rapina si sono as-
serragliati in una delle case. Siamo stati costretti a evacuare parecchie abi-
tazioni e a isolare il complesso finché la zona non sarà sicura. Potrebbe vo-
lerci un po' di tempo.»
Glen annuì, cercando di apparire ragionevole. Dopo dieci secondi aveva
già capito che non sarebbe servito a nulla allungargli un centone per con-
vincerlo a lasciarlo passare. Quel tizio non avrebbe mai accettato.
«Senta, agente, il mio cliente mi sta aspettando. Non ci vorrà molto,
davvero. Pochi minuti e me ne vado.»
«Mi dispiace, signore, ma non è possibile. Se vuole può telefonare a
quella persona e chiederle di venire qui, se è ancora in casa. Abbiamo
mandato degli agenti di porta in porta per avvertire i residenti di non muo-
versi o per accompagnarli fuori. Non posso farla passare.»
Glen si sforzò di restare calmo. In ogni confronto, il suo primo impulso
era sempre stato quello di mettere mano alla pistola e piazzare due pallot-
tole in fronte al suo avversario, ma ora riusciva a dominarsi. Anni di tera-
pia gli avevano insegnato che, nonostante la sua personalità iraconda, po-
teva riuscire a controllarsi. E ora si controllò.
«Okay. Potrebbe essere un'idea. Posso parcheggiare là per telefonare?»
«Certamente.»
Glen accostò l'auto, quindi chiamò di nuovo. Anche questa volta lasciò
squillare quindici volte, ma non ebbe risposta. La cosa non gli piaceva.
Con tutta quella polizia in giro, il suo uomo poteva essersela fatta addosso
dalla paura ed essersi nascosto sotto il letto, o forse era stato costretto ad
abbandonare l'abitazione. Era addirittura possibile che si ritrovasse dentro
casa un gruppo di poliziotti che la utilizzava come posto di comando, o
qualcosa del genere. Al pensiero, Glen scoppiò in una fragorosa risata. No,
questo non era possibile, doveva essere stato evacuato. In quel caso avreb-
be chiamato Palm Springs per fissare un incontro da qualche altra parte, e
Palm Springs avrebbe avvertito lui. Probabilmente il poliziotto sapeva qua-
li famiglie erano state evacuate, o avrebbe potuto scoprirlo, ma lui non vo-
leva attirare l'attenzione sul suo uomo.
Glen fece una lenta inversione di marcia e si avviò nella direzione da cui
era venuto, immerso nelle proprie riflessioni, quando vide che un altro fur-
gone di una rete televisiva si metteva in coda. Decise di tentare la sorte e
abbassò il finestrino, avvicinandosi al veicolo. L'autista era un tizio quasi
calvo, con un ciuffo di capelli dietro le orecchie e la pelle cascante. Sul se-
dile del passeggero era appollaiata una donna orientale tutta azzimata e con
le labbra turgide. Glen pensò che fosse la bella del notiziario e si chiese se
quella bocca carnosa fosse naturale o siliconata. Le donne che si iniettava-
no quella schifezza nelle labbra gli facevano venire i brividi. Decise che
probabilmente era una che sputava quando parlava.
«Scusate» disse. «Non vogliono dirmi cosa sta succedendo, so solo che
alcune persone del complesso sono state evacuate. Voi ne sapete niente?»
La donna si voltò e si sporse in avanti per vedere oltre l'autista.
«Non lo sappiamo per certo, ma pare che tre tizi che fuggivano dopo a-
ver compiuto una rapina abbiano preso in ostaggio una famiglia.»
«Davvero? Ma è terribile.»
A Glen non importava un accidente, se non fosse stato per il fatto che gli
stavano rovinando la giornata. Gli venne in mente che forse avrebbe potuto
convincere l'autista a portarlo con loro.
«Lei abita qui?» chiese la donna.
Glen capì dove stava cercando di arrivare e cominciò a rilassarsi. Forse,
se avesse avuto il dubbio che lui sapeva qualcosa di utile, sarebbe stata di-
sposta a farlo entrare insieme a loro.
«No, io no, ma ho degli amici che ci vivono. Perché?»
La coda di veicoli si stava muovendo, ma il furgone restava fermo. La
giornalista sfogliò un taccuino giallo.
«Notizie non confermate dicono che sono coinvolti dei bambini, ma non
riusciamo a trovare nessuno che ci dica qualcosa di questa famiglia. Si
chiamano Smith.»
La grossa Mercedes avvertì che la temperatura era salita. Il condiziona-
tore si mise a pompare più forte, ma Glen non se ne accorse.
«Come ha detto che si chiamano?»
«Walter Smith e signora. Abbiamo saputo che hanno due bambini, un
ragazzo e una ragazza.»
«E li hanno presi in ostaggio? Questi tre tizi hanno preso in ostaggio gli
Smith?»
«Esattamente. Li conosce? Stiamo cercando di avere notizie dei bambi-
ni.»
«Mi spiace, ma non li conosco.»
Glen chiuse il finestrino e ripartì. Guidò lentamente, in modo da non at-
tirare l'attenzione. Aveva la strana sensazione di trovarsi al di fuori del
proprio corpo, come se il mondo si fosse ritirato e lui non ne facesse più
parte. Il condizionatore andava al massimo. Walter Smith. Tre stronzi ave-
vano fatto irruzione nella casa di Walter Smith, che ora era circondata da
poliziotti e telecamere, e tutto il fottiitissimo complesso isolato.
Tre isolati più avanti, Glen si infilò in un parcheggio. Tirò fuori la pisto-
la dal vano portaoggetti e se la mise in tasca. Si sentiva più sicuro, con
quella. Aprì di nuovo il telefono e compose un altro numero. Questa volta
risposero al primo squillo.
Glen pronunciò solo tre parole.
«Abbiamo un problema.»
Venerdì, 17.26
Palm Springs, California
SONNY BENZA
Parte seconda
LA MOSCA
6
Venerdì, 18.17
TALLEY
Due degli agenti di Talley incaricati del turno di notte, Fred Cooper e
Joycelyn Frost, arrivarono a bordo delle loro auto personali. Cooper era
senza fiato, come se fosse venuto di corsa da casa sua, a Lancaster; Frost
non aveva neppure perso tempo a indossare l'uniforme: si era infilata il
giubbotto antiproiettile e il cinturone con la fondina sopra una maglietta di
cotone e un paio di calzoncini sformati che lasciava scoperte le gambe pal-
lide come la pasta di pane cruda. Raggiunsero Campbell e Anders sulla
strada.
Talley sedeva immobile a bordo della sua auto.
Quando era ancora con la Swat e veniva chiamato a risolvere situazioni
simili, in cui qualcuno si era barricato all'interno di un edificio con degli
ostaggi, l'unità di crisi era formata da una squadra tattica, una di negoziato-
ri, una che gestiva le comunicazioni, più i supervisori che coordinavano
tutte le operazioni. Già solo la squadra dei negoziatori comprendeva un
supervisore, un agente incaricato di raccogliere informazioni e condurre
interrogatori, un primo negoziatore per trattare con il soggetto, un secondo
negoziatore con il compito di prendere appunti e tenere nota di tutto, più
uno psicologo di sostegno per valutare la personalità del soggetto e sugge-
rire le adeguate tecniche di trattativa. Ora Talley poteva contare solo su se
stesso e una manciata di agenti privi di qualsiasi preparazione.
Chiuse gli occhi.
Sapeva che quelli erano i primi momenti di panico. Si costrinse a con-
centrarsi sulle cose fondamentali da fare: isolare la zona, raccogliere in-
formazioni, tenere calmo Rooney. Solo questo, finché non fossero arrivati
gli uomini dello sceriffo a prendere in mano la situazione. Talley ripassò
mentalmente l'elenco: era l'unico modo per impedire che la testa gli esplo-
desse.
Sarah lo chiamò via radio.
«Capo?»
«Parla, Sarah.»
«Mikkelson e Dreyer hanno la registrazione video del sistema di sicu-
rezza del minimarket. Dicono che i tizi si vedono perfettamente, come un
punto nero sul naso.»
«Stanno venendo qui?»
«Sì. Arriveranno fra cinque minuti. Forse meno.»
Pensando alla cassetta, Talley cominciò a rilassarsi: era qualcosa di con-
creto su cui concentrarsi. Vedere Dennis Rooney e gli altri soggetti avreb-
be reso più facile decifrare i contenuti emotivi nella voce del ragazzo. Non
aveva mai rischiato la vita di un ostaggio basandosi sul proprio intuito, ma
era convinto che ci fossero sottili indizi di punti deboli, o di forza, che un
negoziatore accorto poteva decifrare. Quella era una cosa che sapeva, che
gli era familiare.
I suoi quattro agenti lo fissavano. In attesa.
Talley scese dall'auto e si avviò verso di loro. Metzger aveva un'espres-
sione sulla faccia come per dire: "Era ora".
Avevano bisogno di un posto in cui visionare la cassetta. Talley incaricò
Metzger di occuparsene, quindi assegnò gli altri compiti: qualcuno doveva
scoprire se gli Smith avessero dei parenti nella zona e, in quel caso, avver-
tirli; poi dovevano rintracciare la signora Smith in Florida. Gli uomini del-
lo sceriffo avrebbero avuto bisogno di una piantina della casa e di sapere
se questa fosse dotata di qualche impianto di allarme; se non ne avessero
trovato una copia all'ufficio del catasto, qualche vicino avrebbe potuto far-
ne uno schizzo. Inoltre bisognava scoprire, sempre tramite i vicini, se
qualcuno degli Smith aveva bisogno di farmaci salvavita.
Talley cominciò a sentirsi a proprio agio nel familiare svolgersi dell'a-
zione. Era un lavoro che aveva già fatto altre volte, finché non ne era stato
annientato.
Stava terminando di assegnare gli incarichi quando arrivarono Mikkel-
son e Dreyer con la cassetta. Li incontrò in una grande casa in stile medi-
terraneo, proprietà di una donna corpulenta dall'aspetto solare, originaria
del Brasile, la signora Pena. Talley si identificò come capo della polizia e
la ringraziò per la sua collaborazione. Lei li accompagnò in un soggiorno
spazioso, spiegando come funzionava il videoregistratore. Mikkelson inse-
rì la cassetta.
«Abbiamo guardato il nastro da Kim per essere sicuri di avere qualcosa.
L'ho fermato al momento dell'irruzione.»
«Hai trovato qualcosa a carico di Rooney? Arresti o multe della Strada-
le?»
«Sì, signore.»
Dreyer aprì il blocchetto delle multe. Talley vide che aveva scaraboc-
chiato gli appunti sopra una contravvenzione, probabilmente mentre stava
guidando.
«Dennis James Rooney. Ha un fratello più giovane di lui, Kevin Paul,
diciannove anni. Vivono insieme ad Agua Dulce. Dennis ha appena scon-
tato trenta giorni al Formicaio per una violazione di domicilio con furto,
patteggiata in furto semplice. Ha molti precedenti, compresi furto d'auto,
taccheggiamento, detenzione di droga, possesso di merce rubata, guida in
stato di ubriachezza. Il fratello, Kevin, è stato in riformatorio per furto
d'auto. Anche se in momenti diversi, sono stati entrambi in affidamento o
sotto tutela dello Stato. Nessuno dei due ha terminato la scuola.»
«Precedenti per reati violenti?»
«Non c'è altro, a parte quello che le ho detto.»
«Quando abbiamo finito qui, voglio che tu vada a parlare con il loro pa-
drone di casa. Gente come questa è sempre in arretrato con l'affitto o fa
troppo rumore, ed è possibile che il padrone di casa abbia dovuto richia-
marli all'ordine. Nel caso, voglio sapere come hanno reagito. Scopri se
l'hanno minacciato, magari tirando fuori un'arma, o se invece se ne sono
stati calmi e tranquilli.»
Talley sapeva che il comportamento precedente di un soggetto criminale
era un buon modo per prevedere quello futuro. Era plausibile che persone
che in passato avevano fatto ricorso alla violenza e all'intimidazione rea-
gissero con percosse e minacce. Era il loro modo di affrontare lo stress.
«Fatti dire dal padrone di casa se hanno un'occupazione, nel qual caso
chiedi ai loro datori di lavoro di venire a parlare con me.»
«Ricevuto.»
Mikkelson si allontanò dal videoregistratore.
«Siamo pronti, capo.»
«Vediamo.»
Lo schermo prese vita mentre la cassetta partiva. Le vivaci immagini a
colori di una soap opera in lingua spagnola vennero quasi immediatamente
sostituite dai muti fotogrammi in bianco e nero registrati dal sistema di si-
curezza del minimarket di Junior Kim. Dall'inquadratura si capiva che la
telecamera era montata in alto sulla destra rispetto al registratore di cassa,
e inquadrava Junior Kim e una piccola zona dietro il bancone, che termi-
nava sulla sinistra dell'inquadratura, mentre sulla destra si vedeva il primo
scaffale. La telecamera offriva una veduta parziale del resto del negozio.
Sulla parte inferiore destra dello schermo, dei numeretti bianchi riempiva-
no la casella del contaminuti.
«Okay. Eccoli che arrivano» disse Mikkelson. «Il tizio che crediamo sia
Rooney è entrato qualche minuto prima, poi è uscito. Qui dove inizia la
registrazione saranno passati circa cinque minuti.»
«Okay.»
Un maschio di razza bianca, con i lineamenti affilati, che corrispondeva
alla descrizione di Dennis Rooney aprì la porta e andò dritto verso Kim
Junior. Insieme a lui entrò un altro maschio di razza bianca, con la faccia
larga e una corporatura più massiccia. Il secondo uomo aveva il cranio ra-
sato.
«Questo è il fratello di Rooney?»
«Sta per entrare il terzo uomo, quello che somiglia a Rooney.»
Un terzo individuo apparve prima che Mikkelson finisse di parlare. An-
che se era più basso e più magro, dalla somiglianza Talley capì che si trat-
tava del fratello di Dennis Rooney, Kevin, che indossava una T-shirt dei
Lemonheads. Kevin rimase ad aspettare vicino alla porta.
Talley studiò le loro espressioni e il modo in cui si muovevano. Dennis
era un bel ragazzo, con uno sguardo duro ma indeciso. Aveva una cammi-
nata arrogante e dinoccolata. Talley pensò che fosse tutta una posa, ma non
avrebbe saputo dire se a beneficio degli altri o di se stesso. Kevin si ap-
poggiava un po' su un piede un po' sull'altro, continuando a guardare ora
Dennis ora la pompa di benzina davanti al negozio. Era chiaramente terro-
rizzato. Il tizio più grosso, invece, quello con la faccia piatta e larga, aveva
occhi del tutto inespressivi.
«Sappiamo chi è quello grosso?»
«No, signore.»
«La telecamera è nascosta?»
«È appesa al soffitto, in bella vista, e questi tipi non si sono neppure
preoccupati di indossare delle maschere.»
Talley guardò il video senza la minima partecipazione. Nel periodo tra-
scorso alla polizia di Los Angeles aveva visto almeno tre o quattrocento di
queste registrazioni, tutte che riprendevano rapine finite in tragedia, pro-
prio come stava per accadere con questa, e solo un rapinatore su venti si
era preoccupato di nascondere il volto. Perlopiù non gliene importava, op-
pure non ci pensavano. I geni non si danno al crimine. Soltanto il primo
video lo aveva scioccato. Aveva ventidue anni, era appena uscito dall'ac-
cademia ed era ancora un ufficiale giudiziario addetto alla sorveglianza
delle persone in libertà vigilata. Aveva visto una ragazzina vietnamita di
tredici anni entrare in un negozietto come quello, sparare a bruciapelo in
faccia al vecchio commesso negro, e poi rivolgere la pistola verso l'unica
persona presente nel negozio, una donna latinoamericana incinta, di nome
Muriel Gonzales. La donna era caduta in ginocchio, implorando con le
mani alzate di essere risparmiata. La vietnamita le aveva poggiato la canna
della pistola contro la fronte e, senza la minima esitazione, aveva fatto
fuoco. Poi, con calma, era andata dietro il bancone e aveva ripulito la cas-
sa, prima di avviarsi verso l'uscita. Giunta sulla porta, aveva esitato un at-
timo, quindi era tornata al bancone, dove aveva rubato una scatola di ca-
ramelle alla menta. Poi, scavalcato il corpo di Muriel Gonzales, era uscita.
Talley era rimasto così scosso da quegli omicidi che nei due mesi succes-
sivi aveva seriamente pensato di dare le dimissioni.
I fatti al minimarket di Kim erano avvenuti con altrettanta velocità: Ro-
oney che solleva la camicia per far vedere la pistola, quindi salta oltre il
banco. Kim si alza stringendo in mano una pistola. Talley si sentì sollevato
nel vedere che Rooney aveva detto la verità: in tribunale non sarebbe ser-
vito a nulla, ma poteva essere utile per far leva sulla convinzione di Roo-
ney di essere vittima della sfortuna. Al momento gli interessava solo que-
sto: trovare degli elementi da poter usare per manipolare Dennis Rooney.
La lotta fra Rooney e Junior Kim dura pochi secondi, poi Kim barcolla
all'indietro, lasciando cadere la pistola e accasciandosi contro la macchina
delle granite. Si vede chiaramente che Rooney è sorpreso. Salta di nuovo il
banco e corre alla porta. Il tizio più grosso non si muove. Talley lo trovò
strano. Kim è appena stato colpito, Rooney sta scappando, ma quello resta
lì. La pistola di Junior Kim è caduta. Il terzo uomo se la infila in cintura,
quindi si sporge oltre il banco, poggiando tutto il peso sulla mano sinistra.
«Cosa sta facendo?» chiese Mikkelson.
«Sta guardando Kim che muore.»
Il volto pallido e molliccio dell'uomo si increspa. «Gesù, sta sorridendo»
disse Mikkelson.
Talley avvertì un prurito al petto e alla schiena. Fermò la cassetta, quindi
la riavvolse fino al punto in cui il tizio non identificato si sporgeva in a-
vanti.
«Abbiamo bisogno della conferma che il più giovane è Kevin Rooney, e
poi dobbiamo identificare il terzo soggetto. Fate sviluppare delle stampe
dal video. Mostratele al padrone di casa di Rooney, ai vicini, a quelli che
lavorano con lui. In questo modo potremmo riuscire a identificare veloce-
mente anche l'altro uomo.»
Mikkelson lanciò un'occhiata incerta in direzione di Dreyer.
«Ehm, capo, come facciamo a fare delle stampe dal video?»
Talley imprecò sottovoce. A Los Angeles qualunque agente avrebbe
portato la cassetta alla Scientifica di Glendale e un'ora dopo sarebbe stato
di ritorno con tutte le stampe che desiderava. Talley pensò che forse il Di-
partimento di polizia di Palmdale poteva avere l'apparecchiatura necessa-
ria, ma ci si metteva un sacco di tempo per arrivare fin là, specialmente di
venerdì sera.
«Sai quel negozio di computer al centro commerciale?»
«Certo. Quello che vende le PlayStation.»
«Chiamali. Digli che hai un video e chiedi se possono stampare un'im-
magine. Se sanno come fare, portaglielo. Se ti dicono di no, chiama il ne-
gozio di apparecchiature fotografiche di Santa Clarita. Se neanche loro
possono farlo, chiama Palmdale.»
Talley indicò la mano del soggetto sconosciuto posata sul banco, e si
voltò verso Cooper e Frost.
«Avete visto dove mette la mano? Andate da Kim ad attendere gli uomi-
ni dello sceriffo e riferitegli questo. Loro saranno in grado di rilevare una
bella serie di impronte.»
«Sì, signore.»
Talley disse loro di affrettarsi, quindi tornò in strada e salì in macchina.
Pensò all'impressione che aveva ricavato sul conto di Rooney dal video e
dalla loro conversazione. Quel ragazzo voleva essere "capito", ma anche
dare di sé un'immagine esageratamente eroica: duro, virile, dominante.
Talley decise che il giovane aveva pochissima autostima e desiderava ar-
dentemente l'approvazione degli altri, oltre che tentare di dominare l'am-
biente circostante. Era quasi certo che fosse un codardo che mascherava la
sua mancanza di coraggio con un comportamento aggressivo. Talley con-
cluse che avrebbe potuto usare le aspirazioni di Rooney a proprio vantag-
gio. Guardò l'orologio. Era ora.
Talley aprì il cellulare e premette il pulsante di composizione automatica
dell'ultimo numero chiamato. Il telefono in casa Smith prese a squillare. E
andò avanti. Al decimo squillo, Rooney non aveva ancora risposto. Talley
cominciò a preoccuparsi, immaginando una strage, anche se era molto più
probabile che Rooney stesse facendo lo stronzo. Chiamò Jorgenson con la
radio.
«Jorgy, sta succedendo qualcosa nella casa?»
Jorgenson era ancora accucciato dietro la sua auto in fondo al cul-de-sac.
«Nada. Finora è tutto tranquillo. L'avrei chiamata se avessi sentito qual-
cosa.»
«Okay. Resta in linea.»
Talley premette di nuovo il pulsante di ripetizione. Questa volta lasciò
che il telefono suonasse almeno una dozzina di volte prima di chiudere.
Quindi tornò alla radio.
«Hai sentito qualche rumore provenire dalla casa?»
«Mi è parso di sentir squillare il telefono.»
«Vedi qualche movimento?»
«No, capo. È tutto tranquillo.»
Talley si chiese se Rooney si stesse rifiutando di rispondere al telefono.
Nel corso del primo contatto si era dimostrato abbastanza ragionevole.
Talley tornò nuovamente alla radio.
«Chi c'è con gli uomini della Stradale?»
Gli agenti della California Highway Patrol erano stati dispiegati in ap-
poggio ai suoi uomini per rafforzare il controllo del perimetro della pro-
prietà. Utilizzavano le proprie frequenze radio, diverse da quelle della po-
lizia di Bristo.
«Io.»
«Digli di avanzare fino al confine della proprietà. Non voglio che si e-
spongano, ma voglio che Rooney li veda. Falli prendere posizione sui lati
est e ovest, e sul muro posteriore.»
«Ricevuto. Me ne occupo subito.»
Se Rooney non voleva rispondere al telefono, lui lo avrebbe costretto a
chiamare.
DENNIS
TALLEY
Talley era nel cul-de-sac, in attesa dietro la sua auto, quando Dennis
cominciò a urlare dall'interno della casa. Lo lasciò sfogare, poi aprì il cel-
lulare e lo chiamò.
Dennis rispose al primo squillo.
«Bastardo! Di' a quei fottuti poliziotti di allontanarsi! Non li voglio così
vicini!»
«Calmati, Dennis. Stai dicendo che non ti va di vedere poliziotti intorno
alla casa?»
«Piantala di ripetere tutto quello che ti dico! Sai benissimo cosa voglio
dire!»
«Lo faccio solo per essere sicuro di aver capito bene. Non possiamo
permetterci malintesi.»
«Se quei bastardi cercano di entrare qui dentro, io faccio una strage! Li
ammazzo tutti!»
«Nessuno ti farà del male, Dennis. Te l'ho detto anche prima. Ora dam-
mi un minuto per capire cosa sta succedendo qua fuori, d'accordo?»
Talley premette il tasto di attesa, escludendo Dennis dalla comunicazio-
ne.
«Jorgy, sei con gli agenti sul perimetro della proprietà?»
«Sì, signore.»
«Sono ancora sui muri dove li abbiamo fatti mettere?»
«Sì, signore. Due a nord sulla Flanders, altri due in ognuno dei cortili la-
terali sul retro.»
Talley riaprì la comunicazione.
«Dennis, sto controllando, d'accordo? Dimmi cosa vedi.»
«Vedo dei fottuti poliziotti. Ce li ho qui davanti. Sono troppo vicini!»
«Io non riesco a vederli da dietro la mia auto. Aiutami, okay? Dove so-
no?»
Talley udì dei rumori attutiti, come se Rooney si stesse muovendo con il
telefono. Si chiese se fosse un telefono senza fili. Come tutti i negoziatori
che dovevano liberare degli ostaggi, odiava i cordless e i cellulari perché
davano la possibilità di muoversi. Con gli apparecchi fissi si poteva stabili-
re una posizione certa. A quel punto sapevi dove si trovava il soggetto ogni
volta che era al telefono con te. Se dovevi lanciare un'azione, conoscere
con certezza la posizione del soggetto poteva salvare delle vite.
«Sono tutt'intorno!» urlò Rooney. «Quei bastardi maledetti sono qui, su
questa casa bianca. Sono sul muro! Falli scendere!»
Talley premette nuovamente il tasto di attesa. La casa bianca era una co-
struzione moderna, di pianta estesa e irregolare, alla sua sinistra. Un can-
cello bloccava il vialetto d'accesso. La casa sul lato orientale alla destra di
Talley era grigio scuro. Talley contò fino a cinquanta, poi riaprì la comu-
nicazione.
«Dennis, abbiamo un piccolo problema.»
«Lo puoi ben dire, cazzo. Falli rientrare!»
«Quelli sono uomini della Stradale, Dennis. Io appartengo al Diparti-
mento di polizia di Bristo Camino. Loro non lavorano con me.»
«Stronzate!»
«So già cosa mi diranno.»
«Me ne sbatto di quello che ti diranno! Se superano il muro, qualcuno ci
rimetterà la pelle! Ho degli ostaggi, qui dentro!»
«Se dico a quei tizi che tu stai collaborando, loro saranno più disposti ad
accontentarti. Questo lo capisci, vero? Qua fuori sono tutti preoccupati che
le persone che sono lì dentro stiano bene. Fammi parlare con il signor
Smith.»
«Ti ho detto che stanno bene.»
Talley capì che le cose non stavano proprio come diceva Rooney, e que-
sto lo preoccupò. Di solito, i soggetti che prendono in ostaggio delle per-
sone acconsentono che queste dicano qualche parola, perché tenere in
scacco la polizia li fa sentire potenti. Se Rooney non voleva lasciar parlare
gli Smith significava che aveva paura di ciò che avrebbero potuto dire.
«Dimmi cosa c'è che non va, Dennis.»
«Non c'è niente che non va! Lascerò parlare quel figlio di puttana quan-
do andrà bene a me, d'accordo? Sono io che comando, qui, non tu!»
Sembrava così sotto pressione che Talley decise di fare marcia indietro.
Se nella casa c'era qualcosa che non andava, non voleva peggiorare la si-
tuazione. Ma, dopo aver insistito perché Rooney gli facesse una conces-
sione, doveva per forza ottenere qualcosa, altrimenti avrebbe perso credibi-
lità.
«D'accordo, Dennis. Per adesso va bene così. Ma devi pur darmi qualco-
sa in cambio se vuoi che quegli uomini si ritirino. Senti cosa ti propongo:
tu mi dici chi hai lì con te. Mi dici solo i loro nomi.»
«Lo sai di chi è la casa.»
«Abbiamo sentito dire che insieme ai ragazzi potrebbero esserci dei loro
amichetti.»
«Se te lo dico, convincerai quegli stronzi a ritirarsi?»
«Posso farlo, Dennis. Ho appena sentito il loro comandante. È d'accor-
do.»
Dopo un attimo di esitazione, Rooney rispose.
«Walter Smith, Jennifer Smith e Thomas Smith. Non c'è nessun altro.»
Talley escluse di nuovo il microfono del cellulare.
«Jorgy, di' a quelli della Stradale di scendere dal muro. Voglio che si
appostino in modo da tener d'occhio la casa, ma che non stiano sul muro.
Subito.»
«Ricevuto.»
Talley attese che Jorgenson avesse finito di parlare nel suo microfono,
quindi riprese la comunicazione.
«Dennis, cosa vedi?»
«Si stanno ritirando.»
«Okay. Sembra che ci siamo riusciti, tu e io. Siamo riusciti a fare qual-
cosa, Dennis. Va bene così.»
Talley voleva che Rooney avesse l'impressione che, insieme, erano riu-
sciti a raggiungere un obiettivo, come se fossero una squadra.
«Tienili lontani. Non mi piace averli così addosso. Se scavalcano il mu-
ro, la gente che è qui morirà. Capisci cosa sto dicendo? Guarda che con me
non si scherza.»
«Ti do la mia parola fin da ora. Non entreremo. Non scavalcheremo quel
muro, a meno che qui qualcuno non pensi che tu stia facendo del male a
quella gente. Voglio essere franco, con te. Se dovessimo pensare che tu
stia per fare del male a quelle persone, entreremo senza preavviso.»
«Se state lontani non farò male a nessuno. Semplice.»
«Bene, l'importante è restare calmi.»
«Tu la vuoi questa gente, Talley? La vuoi sana e salva? Ora?»
Talley sapeva che Rooney stava per fare la sua prima richiesta. Poteva
essere una cosa innocente come un pacchetto di sigarette, oppure eccessi-
va, come una telefonata dal presidente.
«Lo sai benissimo.»
«Voglio un elicottero con il serbatoio pieno che ci porti in Messico. Tu
mi fai avere l'elicottero e ti prendi queste persone.»
Negli anni passati alla Swat, Talley aveva ricevuto richieste di elicotteri,
jet, limousine, autobus, macchine e, una volta, persino di un disco volante.
A tutti i negoziatori veniva insegnato che certe pretese non erano trattabili:
armi, munizioni, droga, alcol, mezzi di trasporto. Non si doveva mai dare a
un soggetto la speranza di poter fuggire. Bisognava tenerlo isolato. In quel
modo si spezzava la sua resistenza.
Talley rispose senza alcuna esitazione, cercando di risultare ragionevole
ma fermo, facendo capire a Rooney che il suo rifiuto non era poi la fine del
mondo e, soprattutto, non era frutto di un braccio di ferro.
«Questo non posso farlo, Dennis. Non accetteranno mai di darti un eli-
cottero.»
La voce di Rooney si fece ancora più nervosa. «Io ho queste persone.»
«Lo sceriffo non li scambierà con un elicottero. Hanno le loro regole su
queste cose. Potresti chiedere anche una corazzata, ma non te la daranno
comunque.»
Quando parlò di nuovo, Rooney sembrava meno sicuro di sé.
«Tu chiediglielo.»
«Non potrebbe neppure atterrare, qui, Dennis. E poi il Messico non si-
gnifica la libertà. Anche se avessi l'elicottero, la polizia messicana ti arre-
sterà non appena toccherai terra. Non siamo nel Far West.»
Talley voleva spostare la conversazione su un altro argomento. Rooney
avrebbe continuato a rimuginare sull'elicottero, ma lui voleva dargli qual-
cos'altro a cui pensare.
«Ho visto il nastro registrato dalla telecamera del sistema di sicurezza
del minimarket.»
Rooney esitò, come se gli ci volesse un momento per rendersi conto di
cosa stava parlando, ma poi la sua voce suonò apprensiva e speranzosa.
«Hai visto il cinese che tirava fuori la pistola? L'hai visto?»
«Proprio come avevi detto tu.»
«Tutto questo non sarebbe successo se lui non avesse estratto quella pi-
stola. Mi sono quasi cagato addosso per la paura.»
«Quindi non c'è stata premeditazione. È questo che mi stai dicendo, che
non avevi progettato quanto è successo?»
Rooney voleva essere considerato una vittima della situazione, quindi
Talley gli stava inviando un sottile messaggio per fargli capire che simpa-
tizzava con lui.
«Noi volevamo solo rapinare il negozio. Lo ammetto. Ma poi questo
cazzo di cinese tira fuori una pistola. Dovevo difendermi, no? Non volevo
sparargli. Stavo solo cercando di togliergli la pistola di mano perché non
sparasse a me. È stato un incidente.»
Dalla voce di Rooney era sparita quella nota polemica. Talley sapeva
che era la prima indicazione che il giovane cominciava a considerarlo dalla
sua parte. Abbassò la voce, per fargli capire che ciò che stava per dire do-
veva restare fra loro.
«Gli altri due possono sentirmi?»
«Perché lo vuoi sapere?»
«So che potrebbero essere lì con te, quindi non devi per forza rispondere
alle mie domande, Dennis. Limitati soltanto ad ascoltare.»
«Cosa stai dicendo?»
«So che sei preoccupato di quello che potrebbe accadere perché avete
sparato all'agente. Ci ho pensato, sai, e ho una domanda da farti. Lì dentro,
ha sparato qualcun altro, a parte te? Mi basta un sì o un no, se non puoi di-
re altro»
Talley conosceva già la risposta da Jorgenson e Anders. Lasciò che la
domanda restasse sospesa nell'aria. Sentiva il respiro di Rooney.
«Sì.»
«Allora, forse non sono stati i proiettili della tua pistola a colpire l'agen-
te. Forse non sei stato tu a sparargli.»
Talley si era spinto fin dove era possibile. Aveva insinuato che Rooney
avrebbe potuto cavarsela dando la colpa a qualcun altro. Gli aveva indicato
una via d'uscita. Ora doveva fare un passo indietro e lasciare a lui la possi-
bilità di decidere se varcare o meno quella soglia.
«Dennis, voglio darti il mio numero di cellulare. Così puoi chiamarmi in
qualsiasi momento, senza dover gridare dalla finestra.»
«Buona idea.»
Talley gli diede il numero, e gli disse che avrebbe fatto un'altra pausa,
quindi ancora una volta uscì in retromarcia dal cul-de-sac. Leigh Metzger
lo stava aspettando in strada davanti alla casa della signora Pena. Non era
sola. Con lei c'erano la moglie e la figlia di Talley.
L'agente Jeff Talley, senza camicia ma con indosso i pantaloni blu del-
l'uniforme strappati e intrisi di sangue, per prima cosa viene attirato dalle
sue caviglie. Lui va pazzo per le belle caviglie. È seduto su una barella, la
mano straziata infilata in una scodella piena di ghiaccio per ridurre il
gonfiore e calmare il dolore mentre aspetta che lo portino a fare i raggi. Il
suo compagno, un agente anziano di nome Darren Consueto, sta mettendo
al sicuro nel portabagagli dell'auto di pattuglia la pistola di Talley, la ra-
dio, il cinturone e altre attrezzature.
L'infermiera sbuca da una porta e attraversa la stanza, tutta presa da
qualcosa che sta annotando su una cartellina rigida. È vestita di bianco,
con un grembiule azzurro, i capelli scuri raccolti in una coda di cavallo.
Le caviglie lo colpiscono perché non sono nascoste dalle pesanti calze
bianche che le infermiere indossano di solito: sono snelle, forti, abbronza-
te. Ha le gambe di una ginnasta o di una velocista, cosa che a Talley piace
molto. La guarda meglio: bel fondoschiena, corpo snello, spalle larghe
per la corporatura minuta. E poi vede il suo viso. Dimostra più o meno la
sua età: ventitré, ventiquattro anni.
«Infermiera?»
Quando lei si volta a guardarlo lui fa una smorfia, cercando di apparire
molto sofferente. In realtà, non sente neppure la mano.
Lei riconosce i pantaloni e le scarpe della polizia, e gli rivolge un sorri-
so di incoraggiamento.
«Come va, agente?»
Non è bella, si potrebbe dire graziosa, con una pelle liscia e l'aspetto
sano, e un'espressione dolce che lo colpisce. I suoi occhi emanano un ca-
lore che lo rincuora.
«Ah, infermiera...»
Legge il suo nome sulla targhetta. Jane Whitehall.
«Jane... dovevano portarmi a fare i raggi, ma sono qui da un'eternità.
Potrebbe informarsi?»
Fa un'altra smorfia, cercando di impressionarla con le sue sofferenze.
«So che oggi sono molto indietro, ma vedo cosa posso fare. Cos'è suc-
cesso?»
Lui solleva la mano dal ghiaccio ormai diventato rosa. Il polpastrello
del dito medio è dilaniato. I margini della ferita sono blu per il freddo, ma
il sanguinamento è quasi del tutto cessato.
L'infermiera Whitehall sorride comprensiva.
«Oh, brutta ferita!»
Talley annuisce.
«Ho rincorso un presunto stupratore in un cortile a Venice. Il tizio mi ha
aizzato contro il suo pit bull. Sono fortunato ad avere ancora la mano.»
L'infermiera Wliitehall rimette con attenzione la mano nel ghiaccio. Il
suo tocco è caldo e deciso come il suo sguardo.
«Lo ha preso?»
«Sì. Si è difeso, ma ce l'ho fatta. A me non sfuggono mai.»
Sorride per farle capire che sta scherzando, e lei contraccambia il sorri-
so. Talley pensa di essere sulla buona strada ed è sul punto di dirle che è
stato appena ammesso al corso per diventare un agente della Swat quando
arriva Consueto con la sua andatura pesante, una Diet Coke e due barret-
te di cioccolato in mano. Come sempre, puzza di sigarette.
«Cristo, sei ancora lì? Non ti hanno ancora scattato la foto?»
Talley prende la Diet Coke, sperando che in quel modo il suo compagno
torni al distributore di bibite. Vuole restare solo con l'infermiera.
«Sono indietro con il lavoro. Puoi aspettarmi nella caffetteria, se vuoi.
Vengo a cercarti quando ho finito qui.»
L'infermiera Whitehall rivolge un sorriso gentile a Consuelo.
«Vado a vedere a che punto sono con i raggi.»
Consuelo grugnisce, seccato di dover passare la giornata al pronto soc-
corso.
«Già che c'è, prenda anche una boccetta di pillole contro l'imbranatag-
gine per il mio amico. Di quelle forti.»
«Vai, aspettami alla caffetteria» si affretta a dire Talley.
L'infermiera Whitehall piega la testa di lato, perplessa, interrogandosi
sul significato di quelle parole.
«Era con lui quando il pit bull lo ha attaccato?»
«È questo che le ha detto a proposito della mano?»
Talley avverte una vampata al collo. Guarda Consuelo negli occhi, con
una silenziosa implorazione d'aiuto.
«Già, lui era là. Quando abbiamo arrestato lo stupratore a Venice.»
Consuelo scoppia in una risata fragorosa, spruzzando caramello e noc-
cioline per tutta la barella.
«Uno stupratore? Un pit bull? Questo scemo si è schiacciato il dito nel-
la portiera dell'auto.»
Consuelo si allontana, con la sua risata gorgogliante da fumatore.
Talley vorrebbe infilarsi sotto la barella e scomparire. Quando alza
nuovamente gli occhi, vede che l'infermiera lo sta guardando.
Talley si stringe nelle spalle, cercando di scherzarci su.
«Ci ho provato.»
«Davvero si è fatto male in quel modo? Si è chiuso la mano nella portie-
ra dell'auto?»
«Non è molto eroico, vero?»
«No.»
«Be', è andata così.»
L'infermiera fa qualche passo per allontanarsi, poi si ferma, si volta e lo
guarda con un'espressione profondamente confusa.
«Devo essere pazza»
Lo bacia proprio mentre due medici e un'altra infermiera escono dall'a-
scensore. Talley l'attira a sé, baciandola con passione, proprio come fa la
sera del loro appuntamento al Rod and Gun Club dell'Accademia di poli-
zia, e tutte le sere seguenti. Nell'attimo in cui vede il calore del suo sguar-
do, Jeff Talley si innamora.
Dopo tre mesi e un giorno si sposano.
TALLEY
Venerdì, 19.02
Santa Clarita, California
Nove chilometri a ovest di Bristo Camino
Chill's Restaurant
GLEN HOWELL
Non c'era bisogno che Glen Howell ricordasse ai suoi uomini di parlare
a bassa voce; erano circondati da famigliole bianche della classe media,
venute a ingozzarsi di gamberetti surgelati e formaggio fuso a prezzi popo-
lari, gente che Glen Howell considerava degli zombi: donne e uomini fru-
strati, alla fine di un'altra inconcludente settimana, che facevano di tutto
per ignorare che i loro bambini grassi, urlanti e maleducati erano dei mo-
stri.
Howell proibì ai quattro uomini e alle due donne di ordinare alcolici o
piatti che non fossero già pronti. Non aveva tempo da perdere aspettando i
comodi dei cuochi in cucina, ex detenuti in libertà sulla parola, e l'alcol a-
vrebbe fatto venir loro sonno, mentre lui aveva bisogno che fossero ben
svegli. Howell li aveva convocati uno per uno, personalmente, dopo aver
vagliato ogni nome insieme a Sonny Benza. Erano collaboratori da lungo
tempo, in grado di fare ciò che doveva essere fatto senza attirare l'attenzio-
ne, e in fretta. Dalle notizie che gli giungevano, la velocità era determinan-
te. La velocità e il totale controllo della scena. Sapeva già che non avrebbe
potuto concedersi un minuto di sonno finché la vicenda non si fosse con-
clusa.
Ken Seymore, che aveva passato le ultime due ore fingendosi un
reporter del "Los Angeles Times", stava dicendo: «Hanno richiesto un'uni-
tà di crisi al completo all'Ufficio dello sceriffo di Los Angeles. Stanno ve-
nendo qui, ma hanno avuto qualche problema e sono in ritardo».
Duane Manelli sparò una domanda a bruciapelo. Manelli parlava a scatti
improvvisi, un po' come un M16A2 che faceva partire raffiche di tre colpi.
«Quante persone ci sono?»
«Nella squadra dello sceriffo?»
«Sì.»
Quando Duane Manelli aveva diciotto anni, un giudice del tribunale sta-
tale gli aveva dato la possibilità di scegliere tra arruolarsi nell'esercito o
farsi venti mesi di galera per rapina a mano armata. Manelli aveva scelto
l'esercito, e gli era piaciuto. Ci aveva passato dodici anni, nelle truppe a-
viotrasportate, nei ranger e infine nelle forze speciali. Ora gestiva la mi-
gliore banda di contrabbandieri di tutta l'organizzazione di Sonny Benza.
Seymore guardò gli appunti.
«Dunque, ecco cosa ci dobbiamo aspettare: una squadra di comando, un
gruppo di negoziatori, una squadra tattica - composta da agenti addetti al
controllo del perimetro, una squadra d'assalto, cecchini e demolitori - e una
squadra per la raccolta delle informazioni. Alcune di queste persone po-
trebbero rivestire un doppio incarico, ma in linea di massima dovrebbero
arrivare circa trentacinque persone.»
Qualcuno fece un fischio.
«Accidenti, quando ci si mettono, fanno le cose in grande.»
LJ Ruiz si sporse in avanti, poggiato sui gomiti, la fronte aggrottata.
Ruiz era un tipo tranquillo, dai modi pacati, che lavorava per Howell come
"persuasore". Era specializzato nel terrorizzare i proprietari di bar finché
non accettavano di acquistare gli alcolici dai grossisti approvati da Benza.
«Cos'è un demolitore?»
«Se c'è bisogno di far saltare una porta o una finestra, i demolitori siste-
mano la carica. Frequentano un corso speciale, per questo.»
A Howell non piaceva che stessero arrivando così tanti poliziotti, ma se
lo aspettava. Seymore aveva riferito che per il momento non erano stati
chiamati i federali, ma Howell sapeva bene che con il passare del tempo le
probabilità di averli tra i piedi aumentavano.
Chiese quando sarebbero arrivati gli uomini dello sceriffo.
«Il poliziotto con cui ho parlato ha detto fra tre ore, massimo quattro.»
Howell guardò l'orologio, poi fece un cenno con il capo in direzione di
Gayle Devarona, una delle due donne sedute al tavolo. Come Seymore,
anche lei si era finta giornalista in modo da poter fare liberamente delle
domande. Se queste erano troppo sfacciate, usava la sua abilità di ladra.
«Cosa mi dici della polizia locale?»
«Abbiamo sedici persone, di cui quattordici agenti di polizia, alcuni
part-time, altri in servizio pieno, più due persone che fanno lavoro d'uffi-
cio. Ho i loro nomi e l'indirizzo di alcuni. Avrei potuto procurarmeli tutti,
ma ho dovuto interrompere per venire qua.»
Seymore scoppiò a ridere. «Ah, che stronza!»
«Fottiti.»
Howell ordinò loro di smetterla. Non c'era tempo per le cazzate.
Gayle Devarona strappò un foglio da un taccuino giallo e glielo passò.
«Mi sono fatta dare i nomi dall'ufficio della polizia di Bristo. Gli indiriz-
zi e i numeri di telefono li ho avuti da un contatto nella società dei telefo-
ni.»
Howell scorse l'elenco scritto a mano con cura. Il nome di Talley era il
primo della lista, completo di indirizzo e due numeri di telefono. Howell
pensò che il primo fosse quello di casa, l'altro del cellulare.
«Hai qualche informazione su queste persone che ci faccia capire con
chi abbiamo a che fare?»
La donna riferì i dati in suo possesso, che facevano assomigliare Bristo a
un ricovero per vigilesse addette ai tassametri e ritardati mentali. In realtà
non era proprio così, ma Howell pensò che tutto sommato erano stati for-
tunati. Sapeva di piccole cittadine dell'Idaho in cui metà della popolazione
aveva lavorato nella squadra Omicidi e Rapine della polizia di Los Ange-
les e l'altra metà era composta da agenti dell'Fbi in pensione. Se a qualcu-
no fosse venuto in mente di andare a fare dei casini laggiù, gliene avrebbe-
ro fatto passare la voglia. Howell guardò di nuovo l'orologio. Entro mez-
zanotte avrebbe avuto in mano la situazione finanziaria e lo stato di servi-
zio nell'esercito (se disponibili) di tutti quegli agenti, come pure informa-
zioni dettagliate sulle loro famiglie.
«E questo Talley?»
Sonny Benza le aveva chiesto espressamente di concentrarsi su di lui. Se
tagli la testa, il corpo muore.
«Ho trovato quello che ho potuto» rispose la donna. «Single, proviene
dal Dipartimento di polizia di Los Angeles. L'appartamento in cui vive è
messo a disposizione dall'amministrazione cittadina.»
Seymore la interruppe.
«I poliziotti con cui ho parlato davanti alla casa degli Smith mi hanno
detto che Talley faceva il negoziatore nella polizia di Los Angeles.»
Gayle lo guardò torva, risentita che lui le avesse rubato la scena.
«Lo è stato per gli ultimi tre anni di servizio nella polizia di Los Ange-
les. Prima era nella Swat. In ufficio c'è una sua fotografia appesa al muro,
con tanto di tuta tattica e artiglieria spianata.»
Howell annuì. Queste due ultime informazioni erano la prima cosa inte-
ressante che sentiva. Si chiese come mai un negoziatore della Swat fosse
finito a dirigere il traffico davanti alle elementari nel paradiso delle Bmw.
Forse era per via dell'appartamento gratis.
«È rimasto nella polizia di Los Angeles per un totale di quattordici anni,
poi ha dato le dimissioni. La donna con cui ho parlato non me l'ha voluto
confermare, ma credo che non abbia retto allo stress. C'è qualcosa di strano
nel modo in cui ha mollato tutto, all'improvviso.»
Howell prese un appunto per ricordarsi di passare l'informazione a Palm
Springs. Sapeva che Benza aveva dei contatti nella polizia di Los Angeles.
Se avessero trovato qualcosa di marcio sul conto di Talley, avrebbero po-
tuto usarla per far leva su di lui. Aveva ancora una domanda su Talley.
«Faceva il detective, laggiù?»
«L'ho chiesto. La ragazza non lo sapeva, ma varrebbe la pena di accer-
tarlo.»
Quando Gayle Devarona ebbe finito di parlare, Howell aspettò un atti-
mo, ma le informazioni erano esaurite. Ognuno aveva riferito quanto sape-
va. Tutto sommato, non poteva lamentarsi. Avevano avuto a disposizione
sì e no due ore per mettere insieme quei dati. Ora bisognava andare avanti.
Rifletté sui sedici nomi che comparivano nell'elenco di Gayle. L'elenco di
banchieri, avvocati, investigatori privati e agenti sul libro paga di Sonny
Benza e dei suoi soci era ben più lungo: centinaia e centinaia di nomi che
potevano essere attivati per occuparsi della questione.
«Okay, procuratevi gli indirizzi che mancano, poi dividetevi i nomi e
cominciate a scavare. Gayle, tu occupati della parte economica. Se siamo
fortunati, uno di questi potrebbe essere con l'acqua alla gola, e noi po-
tremmo lanciargli un salvagente. Duane, Ruiz, voi scoprite cosa fa nel
tempo libero questa gente. Ci sarà pure uno sposato che se la spassa con
una puttana, oppure che ha tendenze particolari. Scavate e scoprite i loro
segreti. Ken, tu torna alla casa insieme ai giornalisti. Se succede qualcosa,
voglio venire a saperlo ancora prima di Dio.»
Seymore si appoggiò allo schienale con un'espressione irritata. Howell si
incazzava sempre quando lui faceva così.
«Non cominciare con quella faccia. Se hai qualcosa da dire, sputa il ro-
spo.»
«Ci serve più gente. Se questa vicenda dovesse trascinarsi per qualche
giorno, ci vorrà un sacco di aiuto.»
«Me ne sto già occupando.»
Seymore si sporse in avanti, abbassando ulteriormente la voce. «Se le
cose si mettono male, avremo bisogno di gente che sappia gestire la situa-
zione.»
Si riferiva a qualcuno che si sporcasse le mani. Howell ci aveva già pen-
sato e aveva telefonato a chi di dovere.
«Le persone giuste sono già per strada. Tu preoccupati del tuo lavoro. Al
mio ci penso io.»
Howell guardò l'orologio ancora una volta, quindi annotò l'indirizzo e i
numeri di telefono di Talley in fondo al conto del ristorante. Strappò via il
pezzo di carta e si alzò mettendoselo in tasca.
«Voglio un aggiornamento fra due ore.»
Howell si avviò alla macchina. Non si poteva incaricare uno qualunque
di assassinare un capo della polizia circondato da un esercito di telecamere
e giornalisti. Per un lavoro del genere ci voleva una persona speciale.
Venerdì, 19.39
Newhall, California
MARION CLEWES
Venerdì, 19.40
TALLEY
DENNIS
Dopo aver parlato con Talley, Dennis si sforzò di non guardare Mars,
ma non riusciva a trattenersi. Ripensò a quanto gli aveva detto Kevin, al
fatto che Mars aveva voluto sparare al poliziotto venuto alla porta, al fatto
che aveva mentito, e sparato per primo. Forse Talley aveva ragione. Forse
avrebbe potuto cavarsela se era stato Mars, e non lui, a sparare all'agente.
Se Kevin gli fosse venuto dietro, forse sarebbero riusciti a fare un accordo
con il procuratore in cambio della loro testimonianza contro Mars. Dennis
provò una speranza rabbiosa, ma poi si ricordò del denaro. Per fare un ac-
cordo doveva rinunciare al denaro. Spinse da parte il telefono e tornò a
voltarsi verso gli altri. Non era disposto a rinunciare al denaro.
Kevin lo guardò con espressione ansiosa.
«Ci danno l'elicottero?»
«No. Dobbiamo trovare un altro modo per andarcene da qui. Comincia-
mo a pensarci.»
La ragazza e quel ciccione del fratello erano ancora inginocchiati accan-
to al padre. Lei iniziò immediatamente a inveire contro di lui.
«Non c'è niente da pensare. Dovete fare qualcosa per aiutare mio padre.»
Continuava a tenergli lo strofinaccio premuto contro la tempia, ma il
ghiaccio si era sciolto e la pezza era intrisa d'acqua. Dennis provò un'onda-
ta di collera.
«Chiudi quella boccaccia! Ho un problema da risolvere, caso mai non te
ne fossi accorta.»
L'espressione di lei si fece più dura.
«Tu non fai altro che guardarti in tivù. Lo hai ferito. Guardalo. Ha biso-
gno di un dottore.»
«Sta' zitta.»
«Sono passate ore!»
«Metti dell'altro ghiaccio nel panno.»
«Il ghiaccio non serve!»
Il ragazzino ciccione cominciò a piangere.
«È in coma!»
La ragazza lo colse di sorpresa. Saltò in piedi con lo scatto improvviso
di un pupazzo a molla e si diresse verso la porta.
«Io vado a chiamare un dottore!»
Dennis era fuori di sé, come se l'incubo dei poliziotti e del fatto di essere
intrappolato dentro quella casa fosse diventato improvvisamente reale, a
differenza di prima. La raggiunse in due passi, schiaffeggiandola proprio
come aveva visto suo padre fare con la madre, quella cagna petulante. La
colpì in pieno sulla guancia, con tutta la forza, facendola cadere a terra. Il
ciccione urlò il suo nome e si lanciò in avanti, prendendolo a pugni come
un nano incazzato. Dennis affondò le dita nella carne morbida del collo del
ragazzo, che strillò. Kevin gli diede una spinta.
«Piantala!»
Kevin buttò il ragazzino a terra, insieme alla sorella, e si piazzò fra loro
e Dennis.
«Smettila, Dennis. Per favore!»
Dennis era furibondo. Avrebbe voluto stendere Kevin, rompergli la fac-
cia, ridurlo in polpette a suon di calci. Avrebbe voluto ammazzare di botte
la ragazzina e il ciccione, gettare i soldi a bordo della Jaguar, sfondare la
porta del garage e arrivare fino in Messico sparando all'impazzata contro la
polizia.
Mars lo fissava con un'ombra sul volto, gli occhi ridotti a minuscoli pun-
tini di una strana luce, come quelli di un furetto che sbircia da una caverna.
«Cos'hai da guardare?» urlò Dennis.
Mars fece quel suo sorriso quieto e scosse il capo.
Dennis arretrò, ansimando. Stava andando tutto a rotoli. Si voltò a guar-
dare il televisore, aspettandosi quasi di vedere i poliziotti che attaccavano
la casa, ma la scena all'esterno era esattamente la stessa di qualche minuto
prima. La ragazza si stringeva il volto fra le mani. Il ciccione lo guardava
con occhi pieni d'odio, quasi avesse voluto tagliargli la gola. Il padre dei
ragazzi respirava rumorosamente con il naso. Tutta quella tensione lo fa-
ceva impazzire.
«Dobbiamo fare qualcosa. Non possiamo continuare a sopportare queste
stronzate» disse.
Mars si alzò in piedi, grosso e ingombrante.
«Dobbiamo legarli, così non ci dovremo più preoccupare di loro. Dove-
vamo farlo comunque.»
Dennis fece un cenno con la testa in direzione della ragazza, rivolto a
Kevin.
«Mars ha ragione. Non possiamo lasciare che questi due stronzi se ne
vadano in giro e ci stiano fra i piedi. Legali e portali di sopra.»
«E con cosa li lego?»
«Guarda in garage, in cucina. Mars, trova tu qualcosa, okay? Sai cosa ci
serve, no? Questo stronzo non capisce niente.»
Mars scomparve nel garage. Kevin prese la ragazza per il braccio come
se temesse di essere colpito, ma lei si alzò senza opporre resistenza, il vol-
to contratto e le lacrime che scendevano copiose.
«E mio padre? Non potete lasciarlo lì così.»
Suo padre era freddo al tatto; a intervalli sempre più brevi il suo corpo
era scosso da tremiti. Dennis gli tastò il polso come se sapesse cosa fare,
ma non capì un accidente. Non gli piaceva il suo aspetto, ma non disse nul-
la, perché non c'era nulla da dire.
«Lo metteremo sul divano. Starà più comodo.»
«Ha bisogno di un dottore.»
«Sta solo dormendo. Se prendi un colpo in testa, ti fai una bella dormita
e ti passa, tutto qui. Il mio vecchio mi picchiava molto peggio di così.»
Dennis si fece dare una mano da Kevin per sistemare l'uomo sul divano.
Quando Mars tornò, Dennis gli disse di portare di sopra i ragazzi. Era
stanco di doversi occupare di loro. Era stanco di dover pensare a qualsiasi
cosa che non fosse il denaro. Doveva trovare una via d'uscita.
JENNIFER
Mars aprì la porta della camera, poi si fece da parte per far entrare la ra-
gazza e Kevin. Era tornato dal garage con prolunghe, nastro adesivo da
pacchi, un martello e dei chiodi. Diede due prolunghe a Kevin.
«Falla sedere su quella sedia e legala stretta. Bloccale i piedi. Quando
avrò finito con il ragazzo mi occuperò io di porte e finestre.»
Mars la guardò con occhi sfocati, come se si fosse appena svegliato da
un sonno profondo e lei fosse soltanto il ricordo di un sogno.
«Quando torno controllo come l'hai legata.»
Mars trascinò Thomas via con sé mentre Kevin la faceva entrare nella
camera. Le luci erano accese perché lei non le spegneva mai: si addormen-
tava con la luce accesa, parlando al telefono o guardando la tivù, e quando
si svegliava al mattino erano ancora accese e lei non si preoccupava di
spegnerle. Le tende erano tirate, il telefono per terra contro la parete, la
spina frantumata in modo da non poter essere utilizzata. Kevin trascinò la
sedia della scrivania in mezzo alla stanza. Era nervoso. Evitava il suo
sguardo.
«Lasciami fare e andrà tutto bene. Devi fare pipì o qualcosa?»
Jennifer avvampò, imbarazzata. Aveva una tale voglia di urinare che
sentiva un bruciore fortissimo.
«È là dentro.»
«Cosa? Hai il tuo bagno personale?»
«Sì. È là dentro.»
«Okay. Andiamo.»
Lei non si mosse.
«Non puoi venire con me.»
Kevin era fermo sulla porta del bagno, e aspettava.
«Non posso lasciarti sola.»
«E io non posso farlo di fronte a te.»
«Preferisci pisciarti addosso?»
«Non voglio che tu mi guardi. Non ho pistole o cose del genere, qua
dentro, se è questo che ti preoccupa.»
Lui parve seccato, ma a lei non importava. Kevin entrò in bagno, si
guardò intorno, poi uscì.
«Okay, non entrerò con te, ma non puoi chiudere la porta. Io resto qui,
così non ti vedo.»
«Ma mi senti.»
«Ascolta. Se vuoi pisciare fallo, a me non interessa. Se non vuoi, posa il
culo su quella sedia prima che torni Mars.»
Le scappava così tanto che decise di andare. Cercò di fare piano, ma le
parve che la pipì facesse più rumore che mai. Quando ebbe finito, tornò in
camera, troppo imbarazzata per guardarlo in faccia.
«Sei disgustoso.»
«Pazienza. Siediti lì e metti le mani dietro lo schienale.»
«Non capisco perché tu non possa semplicemente chiudermi dentro. Non
è che possa andare da qualche parte.»
«O ti lego io, o lo farà Mars.»
Lei sedette, rigida e tesa.
Kevin aveva due prolunghe nere. Quando la toccò, Jennifer si fece pic-
cola piccola, ma lui non le fece male.
«Non voglio fare il nodo troppo stretto, ma un po' devo stringere. Mars
verrà a controllare.»
La sua voce esprimeva un rammarico che la sorprese. Sapeva che Kevin
era spaventato, ma ora si chiedeva se non provasse imbarazzo per ciò che
stavano facendo. Forse aveva persino una coscienza. Quando ebbe finito di
legarle i polsi, si spostò davanti a lei per assicurarle le caviglie alle gambe
della sedia. Lei lo guardò, pensando che di tutti era l'unico che poteva farsi
amico.
«Kevin.»
«Cosa c'è?»
Lei tenne la voce bassa, per paura che Mars la sentisse.
«Tu sei finito dentro questa cosa proprio come me.»
Il volto di lui si fece scuro.
«Vi ho sentito parlare. Tu sei l'unico che sa di aver peggiorato le cose
venendo qui. Dennis sembra non capirlo» continuò la ragazza.
«Non parlare di Dennis.»
«Perché fai sempre quello che ti dice?»
«Le cose succedono, tutto qui. Non voglio parlarne.»
«Mio padre ha bisogno di un medico.»
«È solo svenuto. È successo anche a me.»
«Sai benissimo che sta male. Pensa a quello che stai facendo, Kevin, ti
prego. Cerca di far ragionare Dennis. Se mio padre muore, vi accuseranno
anche del suo omicidio. Lo sai.»
«Non posso farci niente.»
«Non è stata tua l'idea di rapinare quel minimarket, vero? Scommetto
che hai cercato di convincere Dennis a non farlo, ma lui non ha voluto a-
scoltarti, e ora siete tutti intrappolati qui dentro e ricercati per omicidio.»
Lui teneva gli occhi bassi, armeggiando con le prolunghe.
«Sono sicura che è andata così. Tu sapevi che era una cosa sbagliata. E
ora sai che anche questo è sbagliato. Mio padre ha bisogno di un dottore,
ma Dennis è ostinato. Se continui ad assecondare Dennis e Mars, la polizia
vi ucciderà tutti.»
Kevin si appoggiò all'indietro sui talloni. Sembrava stanco, come se ci
pensasse da tempo e tutto quel rimuginare lo avesse logorato. Scosse la te-
sta.
«Mi dispiace.»
Un'ombra si mosse dietro a Kevin, attirando l'attenzione di Jennifer.
Mars era fermo sulla porta e li fissava con espressione vacua. Lei non sa-
peva da quanto fosse lì, né cosa avesse sentito.
Mars non guardava Kevin. Fissava lei.
«Non ti scusare.»
Kevin si alzò così di scatto che per poco non cadde.
«Le avevo legato le caviglie troppo strette. Ho dovuto rifare il nodo.»
Mars andò alle finestre. Piantò dei grossi chiodi nei davanzali interni, in
modo che non si potessero aprire, poi venne a mettersi davanti a lei. Le
stava molto vicino, incombeva su di lei, così alto che pareva toccare il sof-
fitto. Poi si accucciò tra le sue gambe, tirando i legacci che le immobiliz-
zavano le caviglie. Il cordone le incise la pelle.
«Non è stretto bene. Hai fatto un nodo da femminuccia.»
Mars strinse il nodo, e poi fece lo stesso con quello dei polsi. Il cavo le
premeva sulla carne così forte che dovette mordersi la lingua per non urla-
re, ma era troppo spaventata per protestare. Poi Mars strappò un pezzo di
nastro adesivo grigio dal grosso rotolo e glielo premette con forza sulla
bocca.
Kevin continuava a tormentarsi le mani, chiaramente intimorito da Mars.
«Assicurati che possa respirare, Mars. Non metterlo così stretto.»
Mars premette le dita sul nastro. Il suo tocco le fece così schifo che a-
vrebbe voluto urlare.
«Va' di sotto, Kevin.»
Sulla soglia, Kevin esitò. Mars era ancora inginocchiato davanti a lei e
premeva il nastro così forte che pareva volesse farglielo entrare nei pori.
Premeva e premeva, con movimento ritmico. Jennifer pensò che sarebbe
svenuta.
«Tu non vieni?» chiese Kevin.
«Ora arrivo. Tu vai.»
Jennifer guardò Kevin, implorandolo con gli occhi di non lasciarla sola
con Mars.
Kevin scomparve.
Quando, alla fine, alzò lo sguardo verso Mars, vide che lui la stava os-
servando. Si abbassò con il viso all'altezza di quello di lei, poi si sporse in
avanti. Jennifer si ritrasse, pensando che lui volesse baciarla, ma si sba-
gliava. Mars rimase immobile per un tempo che le parve interminabile, fis-
sandola prima nell'occhio sinistro, poi in quello destro. Quindi si sporse
ancora più in avanti e tirò su con il naso. La stava annusando.
Poi si tirò su.
«Voglio mostrarti una cosa.»
Si tolse la maglietta, scoprendo un corpo flaccido e biancastro, un colore
che ricordava quello di un lenzuolo sporco. Sul torace aveva un tatuaggio
che diceva: "Cocco di mamma".
«Lo vedi? Mi è costato duecentoquaranta dollari. Ecco quanto voglio
bene a mia madre.»
Guardarlo le fece venire il vomito. Aveva il petto e la pancia punteggiati
di piccoli rigonfiamenti grigiastri. Pensò che fossero verruche. Lui ne toc-
cò uno, un nodulo duro e grigio, poi un altro, e l'angolo della sua bocca si
incurvò in un impercettibile sorriso.
«Mia madre mi bruciava con le sigarette.»
Jennifer provò un senso di nausea. Non erano bitorzoli o verruche: erano
cicatrici.
Mars si rimise la maglietta, quindi tornò a sporgersi verso di lei, e questa
volta lei fu certa che l'avrebbe toccata. Il cuore le batteva all'impazzata.
Avrebbe voluto voltarsi ma non poteva.
Lui le mise una mano sulla spalla.
Jennifer diede uno strattone ai legacci, voltando la testa di qui e di là, i-
narcando la schiena, sentendo il cavo segarle polsi e caviglie, mentre lei
cercava di urlare sotto il nastro adesivo.
Mars le strinse la spalla, una sola volta, come se stesse saggiando la con-
sistenza dell'osso sotto la carne, quindi ritrasse la mano.
Fece di nuovo quell'impercettibile sorriso, poi andò alla porta. Lì si fer-
mò, fissandola con occhi così vuoti che lei li vide pieni di incubi. Spense le
luci e uscì chiudendo la porta. Il rumore del suo martello era forte come il
tuono, ma non come il battito terrorizzato del cuore di Jennifer.
DENNIS
CLEWES
Venere brillava bassa a occidente nel cielo sempre più buio, correndo
verso il crinale delle montagne e il colmo del tetto di Talley. Le stelle non
si vedevano ancora, ma lì, nell'alto deserto, lontano dalla città, il cielo sa-
rebbe stato presto invaso dalle loro luci.
L'appartamento di Talley era una delle quarantotto unità distribuite in
quattro edifici disposti in modo da formare una H. Grandi alberi di euca-
lipto si piegavano sopra gli edifici come ubriachi appoggiati a una ringhie-
ra. Marion immaginò che un tempo gli appartamenti dovevano essere stati
unità più grandi poi frazionate e vendute. Ognuno aveva un piccolo patio
circondato da una recinzione e, al centro fra i quattro edifici, c'era una bel-
la piscina; sui due lati esterni di ogni edificio c'erano dei posti auto scoper-
ti per i residenti. Sembrava un bel posto in cui vivere.
Marion attraversò il complesso, sentendo musica e voci. Alcune auto
stavano parcheggiando, uomini e donne che tornavano dal lavoro; una
donna anziana nuotava con bracciate metodiche, unica occupante della pi-
scina. Erano accesi parecchi barbecue, che riempivano l'aria dell'odore di
carne bruciata.
Marion girò intorno all'edificio in cui si trovava l'appartamento di Tal-
ley. Poiché non era di recente costruzione (Marion immaginò che risalisse
agli anni Settanta), i contatori del gas, della luce e le centraline di telefono
e tivù via cavo erano tutti radunati in un punto lontano, di fronte ai par-
cheggi. Qualunque impianto individuale di sorveglianza doveva essere col-
legato alle linee telefoniche. Marion vide con piacere che gli edifici non
erano dotati di sistemi di allarme. Il fatto non lo sorprese. Trattandosi di
una cittadina sonnolenta e tranquilla, così lontana da Los Angeles, il mas-
simo di cui il condominio avrebbe potuto dotarsi in fatto di sicurezza sa-
rebbe stato un agente di sorveglianza che facesse un giro ogni ora. E forse
neppure quello.
Marion trovò l'appartamento di Talley e varcò il cancello che conduceva
alla porta d'ingresso. Strinse la mascella per non scoppiare a ridere: il patio
e la porta erano nascosti da una staccionata alta neppure due metri, tanto
per garantire un miniino di privacy. Non avrebbe potuto essere più facile
di così. Suonò il campanello due volte, poi bussò, sapendo già che in casa
non c'era nessuno. Indossò i guanti di lattice, tirò fuori il grimaldello,
quindi si mise all'opera. Dopo quattro minuti il chiavistello scattò. Ottanta
secondi dopo, Marion entrò
«C'è qualcuno?»
Non si aspettava una risposta, e infatti non ci fu. Richiuse la porta ma
non a chiave.
Sulla sinistra c'era la cucina, sulla destra una piccola sala da pranzo. Una
porta a vetri dava sul patio. Davanti si apriva un grande soggiorno con un
caminetto. Marion cercò una scrivania o una postazione di lavoro, ma non
ne vide. Spalancò la porta a vetri e poi attraversò il soggiorno per andare
ad aprire la finestra più grande. Se fosse uscito con calma avrebbe richiuso
tutto, ma per il momento voleva garantirsi rapide vie di fuga. Howell non
voleva Talley morto, quindi Marion avrebbe cercato di non ucciderlo, an-
che se lui lo avesse sorpreso in casa.
Marion salì la ripida scala che portava al primo piano. Sul pianerottolo si
aprivano un bagno e due camere da letto; quella alla sua destra era la ca-
mera padronale. Accese la luce. Si aspettava di dover perquisire ogni ar-
madio e ogni cassetto della casa alla ricerca di qualche elemento che po-
tesse essere usato per far leva su Talley, e invece eccolo lì, proprio davanti
a lui, che l'aspettava. A volte succedeva proprio così.
Appoggiata alla parete di fronte a lui c'era una scrivania, e sopra, gettate
alla rinfusa, carte, conti, ricevute. Ma non fu questo ad attirare l'attenzione
di Marion. Furono le cinque foto incorniciate e posate verso il fondo della
scrivania: Talley in compagnia di una donna e una bambina, la donna e
Talley sempre uguali, la bambina ritratta in età diverse.
Marion si accovacciò, e se le avvicinò al volto.
Una donna. Una bambina.
Una moglie. Una figlia.
Marion rifletté sulle possibilità.
Venerdì, 20.06
TALLEY
L'unità di crisi dello sceriffo della contea di Los Angeles sbucò da dietro
la curva come un convoglio militare. Una berlina senza contrassegni apriva
la fila, seguita da un ingombrante veicolo adibito a postazione mobile di
comando che sembrava il furgone di una panetteria dopo una cura di ana-
bolizzanti. Gli uomini dello sceriffo non avrebbero avuto bisogno della ca-
sa della signora Pena: il furgone era dotato di generatore di corrente, toilet-
te, centralina per i computer dell'agente incaricato delle operazioni di
intelligence e tutto l'occorrente per trasmettere gli ordini e coordinare l'a-
zione. C'era anche un distributore automatico di caffè. La squadra Swat
seguiva a bordo di due grossi GMC Suburban e con un secondo furgone
che portava armi e attrezzature. Mentre il convoglio si fermava, gli uomini
della Swat scesero di corsa, già vestiti con le loro uniformi tattiche verde
scuro. Andarono rapidamente al secondo furgone, dove un sergente super-
visore distribuì ricetrasmittenti e armi. A bordo di quattro autopattuglie,
che seguivano i veicoli tattici, arrivarono altri vice in uniforme, al coman-
do di un ufficiale di coordinamento. Talley percepì una variazione nella
turbolenza generata dalle pale degli elicotteri, mentre questi si riposiziona-
vano per riprendere l'arrivo degli automezzi. Se Rooney stava guardando
la televisione, il suo stress sarebbe salito alle stelle. In momenti come quel-
li aumentava la possibilità che il soggetto si facesse prendere dal panico e
decidesse di agire. Talley andò velocemente verso la prima auto della fila.
Dal posto di guida scese un afroamericano alto e snello, mentre dall'altra
parte smontava un uomo con radi capelli biondi.
«Jeff Talley» disse, porgendo la mano. «Sono il capo della polizia loca-
le. È lei il comandante della squadra?»
L'uomo di colore gli rivolse un sorriso tranquillo.
«Will Maddox. Sono il primo negoziatore. Questo è Chuck Ellison, il
mio secondo. Il comandante è il capitano Martin. Ci segue a bordo del fur-
gone.»
Mentre Talley e Maddox si scambiavano una stretta di mano, Ellison
disse, con una strizzatina d'occhio: «Lei preferisce viaggiare a bordo del
furgone anziché con noi negoziatori. Ci sono un sacco di belle lucine là
dentro».
«Chuck!»
Ellison assunse un'aria innocente.
«Perché, cos'ho detto?»
L'attività nella strada cambiò drasticamente. Talley si era sentito come
appeso per la punta delle dita a uno spuntone di roccia, ma ora una forza
organizzata militarmente stava prendendo il controllo della situazione ne-
gli York Estates. Una macchia di luce bianca scintillante li investì spostan-
dosi lungo il convoglio. Tutti e tre alzarono le mani per difendersi dal ba-
gliore accecante. Per Talley era un conforto vedere le diverse squadre che
si organizzavano con collaudata efficienza. Non si sentiva più solo. Di lì a
pochi minuti questo Will Maddox gli avrebbe tolto dalle spalle la respon-
sabilità di altre vite umane.
«Signor Maddox, sono davvero felice di vederla» disse.
«Will» ribatté lui. «Il signor Maddox è mia moglie.»
Ellison scoppiò in una sonora risata.
Maddox si limitò a sorridere distrattamente per la battuta, lanciando u-
n'occhiata verso l'imbocco del cul-de-sac, poco più avanti.
«I soggetti asserragliati sono laggiù?»
«In fondo. Ho due uomini piazzati proprio davanti alla casa, tre sparsi
per la proprietà su ogni lato, altri tre oltre il muro di cinta sul retro, che dà
sulla Flanders Road. Abbiamo anche due agenti in ogni punto di accesso
agli York Estates, e tre con i giornalisti. Avremmo bisogno di rinforzi per
tenere a bada i reporter, prima che comincino a infiltrarsi nel complesso.»
«Di questo potrà informare il capitano, ma prima di tutto ci sono un paio
di punti che avrei bisogno di chiarire con lei.»
«Dica.»
Talley andò con i due uomini verso il furgone della postazione mobile di
comando per parlare con il capitano. Sapeva per esperienza che Maddox
ed Ellison avrebbero voluto ascoltare una replica il più dettagliata possibile
delle sue conversazioni con Rooney.
«È lei ad aver avuto contatti diretti con i soggetti?»
«Sì. Solo io.»
«Okay. Gli ostaggi sono in immediato pericolo?»
«Non credo. L'ultima conversazione con Rooney l'ho avuta una ventina
di minuti fa. Da come gliel'ho messa, si è convinto di potersela cavare sia
per l'omicidio di Kim che per il tentato omicidio dell'agente. Voi siete al
corrente, vero?»
Mentre erano diretti là, gli uomini dello sceriffo avevano ricevuto un ag-
giornamento via radio sugli eventi che avevano portato all'attuale situazio-
ne. Maddox confermò che conoscevano i fatti essenziali.
«Bene. È saltato fuori che Kim aveva una pistola, e qualcun altro dei
soggetti oltre a Rooney ha sparato all'agente. Io gli ho lasciato intendere
che un buon avvocato potrebbe trovare un accordo per entrambi i capi di
imputazione.»
«Ha avanzato qualche richiesta?»
Talley spiegò che Rooney aveva chiesto un arretramento degli agenti dal
perimetro e dell'accordo che avevano raggiunto, i nomi degli ostaggi in
cambio del ritiro. La prima concessione era spesso la più difficile da otte-
nere, e il modo cui vi si giungeva poteva stabilire un precedente per quanto
sarebbe venuto in seguito.
Maddox camminava con le mani in tasca, un'espressione concentrata e
pensierosa sul volto.
«Ottimo lavoro, capo. Pare che non siamo messi poi così male. Lei era
nella squadra Swat del Dipartimento di polizia di Los Angeles, vero?»
Talley lo guardò con maggior attenzione.
«Esatto. Ci siamo già visti?»
«Prima di andare a lavorare nell'Ufficio dello sceriffo, ero agente di pat-
tuglia nel Dipartimento di polizia di Los Angeles, più o meno nel periodo
in cui c'era anche lei. Quando ci hanno chiamato qui, oggi, il suo nome
non mi è giunto nuovo. Lei è quello dell'asilo nido.»
Ogni volta che qualcuno menzionava l'asilo nido, Talley si sentiva a di-
sagio.
«È successo tanto tempo fa.»
«Dev'essere stata dura. Io non credo che avrei avuto le palle per farlo.»
«Non si tratta di palle. È che non mi è venuto in mente nient'altro.»
In una radiosa mattina di primavera, nella zona di Fairfax, un uomo ave-
va fatto irruzione in un asilo nido ebraico, prendendo in ostaggio un'inse-
gnante e tre bambini. Al suo arrivo, Talley aveva trovato l'uomo confuso,
incoerente e in preda a un rapido processo di dissociazione. Temendo che
il soggetto fosse vicino a un attacco psicotico, e che i bambini si trovassero
in imminente pericolo, Talley aveva offerto se stesso come ostaggio in
cambio dei piccoli, un gesto che andava contro gli ordini espliciti del suo
superiore e violava le procedure del Dipartimento di polizia di Los Ange-
les. Talley si era avvicinato all'asilo disarmato e senza protezione, conse-
gnandosi all'uomo, che contemporaneamente aveva rilasciato i piccoli.
Mentre l'uomo stava sulla porta con un braccio stretto intorno al collo di
Talley e una Smith & Wesson 9 millimetri puntata alla sua tempia, il mi-
glior amico di Talley a quell'epoca, Neal Craimont, lo aveva fatto secco da
cinquanta metri con un colpo al sopracciglio destro. Il proiettile ultrasoni-
co da 5,56 millimetri era passato a soli dieci centimetri dal cervello di Tal-
ley. I giornali avevano parlato di lui come di un eroe, anche se per Talley
gli avvenimenti di quella mattina erano da considerarsi un insuccesso. Lui
era un primo negoziatore, e per un negoziatore quando muore qualcuno è
sempre un fallimento. Il successo deriva solo dalla sopravvivenza.
Maddox parve avvertire il disagio di Talley e lasciò cadere l'argomento.
Quando arrivarono dietro il veicolo di comando, una donna in tuta tattica
si staccò da un gruppo di sergenti per andare loro incontro. Aveva una ma-
scella volitiva, occhi neri molto vivaci, capelli biondi e corti.
«È il capo Talley?»
Maddox annuì.
«È lui.»
Lei gli porse la mano. Ora che le era vicino, Talley vide i gradi di capi-
tano sul colletto. La donna aveva una stretta decisa.
«Laura Martin. Capitano. Sono il comandante operativo dell'unità di cri-
si.»
A differenza di Maddox ed Ellison, che erano rilassati, il capitano Mar-
tin era tesa come una corda di violino, e i suoi modi bruschi fino al limite
della scortesia.
«Mi fa piacere che abbia già conosciuto i nostri negoziatori. Il sergente
Maddox prenderà il comando come primo.»
Laura Martin attivò la ricetrasmittente assicurata all'imbracatura e chiese
un controllo delle comunicazioni tra i supervisori da lì a cinque minuti,
quindi tornò a rivolgersi a Talley.
«Ha piazzato degli uomini intorno alla casa?»
«Sissignora.»
«Quanti sono?»
«Undici. In parte uomini miei, in parte agenti della Stradale. Prima li ho
disposti vicino alla casa, poi li ho fatti arretrare per prendere contatto con
Rooney, quindi dovrete stare attenti.»
Il capitano Martin pareva non prestare alcuna attenzione alle sue parole;
continuava a voltarsi per guardare la strada in entrambe le direzioni. Talley
si convinse che fosse intenta a valutare la situazione e a farsi un'idea dei
suoi uomini. La cosa lo irritò. Stavano spostando il furgone della postazio-
ne di comando vicino a un quadro di accesso alle linee elettriche e telefo-
niche interrate. Se volevano collegarsi alle linee telefoniche della casa,
come pure a quelle elettriche, da lì avrebbero potuto farlo. Talley aveva già
convocato sul posto alcuni uomini della compagnia telefonica e di quella
che forniva l'energia elettrica.
«Radunerò tutti i miei supervisori, in modo che lei possa fare un unico
resoconto. Appena avremo stabilizzato la situazione, voglio far subentrare
la mia squadra tattica.»
Talley provò un'altra ondata di irritazione: era evidente che la situazione
era stabilizzata. Suggerì al capitano Martin di radunare i suoi supervisori in
casa della signora Peña, ma lei obiettò che ci voleva troppo tempo. Mentre
la donna riuniva i suoi sotto un lampione, Talley chiamò via radio Metzger
chiedendo le copie della piantina della casa. Le distribuì e fece un rapido
resoconto delle sue conversazioni con Rooney, descrivendo quanto aveva
appreso sulla casa e sulle persone che si trovavano all'interno.
Laura Martin gli stava accanto, le braccia incrociate sul petto, e lo osser-
vava con quello che lui avvertiva come un crescente scetticismo.
«Avete fatto tagliare luce e telefono?»
«Abbiamo bloccato i telefoni. Ma non vedevo il motivo di tagliare la
corrente elettrica finché non sapevamo per certo con chi avevamo a che fa-
re.»
Il capitano Martin ordinò al suo agente addetto all'intelligence, un ser-
gente di nome Rojas, di chiamare qualcuno delle compagnie fornitrici, in
caso avessero avuto bisogno di staccare la spina.
Metzger indicò un punto lungo la strada.
«Sono già qua. Vede quel tizio con il berretto della Duke? È lui.»
Il responsabile della squadra tattica, un sergente di grande esperienza di
nome Carl Hicks, studiò gli schizzi della piantina della casa, e parve secca-
to scoprendo che Talley non era in grado di fornirgli una copia del proget-
to originale presentato al comune.
«Sappiamo dove tengono gli ostaggi?»
«No.»
«E la posizione dei soggetti?»
«La stanza subito a destra rispetto alla porta d'ingresso è lo studio del
padre. Di solito quando Rooney parla con me sta lì, ma non potrei dire che
sia sempre così. So che si muove all'interno della casa per tenere d'occhio
il perimetro, ma è molto abbottonato. Le tapparelle sono tutte chiuse tran-
ne quelle della porta finestra che dà sulla piscina nel retro. Lì non ci sono
tende, ma lui tiene le luci spente.»
Hicks guardò il capitano con espressione accigliata.
«Peggio per noi, ma cosa ci possiamo fare? Potremmo riuscire a scattare
qualche immagine termica.»
Se fossero stati costretti a fare irruzione nella casa, sarebbe stato molto
più sicuro per tutti conoscere con certezza la posizione degli occupanti.
Maddox fece un cenno con il mento in direzione di Talley.
«Il capo, qui, è riuscito a far ammettere a Rooney che tutti e tre i ricerca-
ti si trovano dentro la casa. Forse potrei riuscire a farmi dire dove si trova-
no.»
Laura Martin non parve affatto colpita.
«Hicks, sguinzaglia due uomini intorno al perimetro per scoprire esatta-
mente con cosa abbiamo a che fare. Accertiamoci che il posto sia sicuro.»
«Capitano» disse Talley «la avverto che Rooney è ossessionato dalla po-
sizione degli agenti. Ho fatto arretrare gli uomini per poter cominciare una
trattativa. Faceva parte dell'accordo.»
La donna si spostò di qualche passo per vedere meglio la strada. Talley
non avrebbe saputo dire cosa stesse guardando esattamente.
«L'ho capito, capo. Grazie. Allora, è pronto a passare il telefono a Mad-
dox ed Ellison non appena si saranno sistemati?»
«Sono già pronto adesso.»
Lei fece schioccare la lingua con un gesto brusco e poi si rivolse a Mad-
dox.
«Per me va bene, Maddox. Voi tre dovreste prendere posizione davanti
alla casa.»
Maddox aveva un'espressione tesa. Talley pensò che i modi della donna
irritassero pure lui.
«Preferirei avere ancora qualche minuto per esaminare le precedenti
conversazioni del capo con quei tizi.»
Laura Martin guardò l'orologio, impaziente.
«Potrete farlo mentre subentriamo sulla scena. Voglio cominciare. Capo
Talley, ho il comando della situazione?»
«Sissignora, è tutto suo.»
Il capitano Martin guardò l'orologio.
«Allora, da questo momento subentro al comando. Sergente Maddox,
prenda posizione. Sergente Hicks, lei resti con me.»
Martin e Hicks si allontanarono a passo svelto verso gli uomini della
Swat.
Maddox rimase a fissarla per un momento, poi si voltò verso Talley.
«È molto tesa.»
Talley annuì ma non disse nulla. Aveva creduto che si sarebbe sentito
sollevato al momento di passare il comando, ma non era così.
THOMAS SMITH
Solo nella sua camera buia, Thomas tratteneva il respiro per udire me-
glio oltre il mutevole rumore delle pale degli elicotteri. Temeva che Mars
potesse far finta di allontanarsi e poi tornare in silenzio per vedere se lui
cercava di slegarsi. Thomas conosceva ogni cigolio del corridoio del piano
superiore perché Jennifer si divertiva a spiarlo: un'asse che scricchiolava
era proprio davanti alla sua porta, un'altra a metà strada tra la sua camera e
quella di Jennifer. Restò in ascolto.
Niente.
Thomas era sdraiato a braccia e gambe divaricate sul più basso dei letti a
castello, faccia in su, i polsi e le caviglie legati così stretti alle colonnine
del letto che non sentiva più i piedi. Una volta finito di legarlo, Mars era
rimasto lì accanto, incombendo su di lui come una specie di gigante ritar-
dato, la bocca aperta come quei pervertiti che si trovano nei gabinetti pub-
blici, contro i quali sua madre lo metteva in guardia ogni volta che anda-
vano al centro commerciale. Poi Mars gli aveva chiuso la bocca con il na-
stro adesivo. Thomas era terrorizzato: sudava come se fosse un irrigatore a
pioggia e pensava di soffocare. Si dimenava, tirando i legacci che lo im-
mobilizzavano, lottando per liberarsi, finché sentì l'alito di Mars sulla
guancia. E allora non riuscì più neppure a muoversi, come se il suo corpo e
la sua mente non comunicassero più tra loro e lui fosse condannato a resta-
re lì, fermo come una tartaruga che aspetta la macchina che la ridurrà in
poltiglia.
Mars gli posò una mano sul petto, e l'alito si spostò sull'orecchio. Caldo
e umido. Poi un sussurro.
«Ti mangerò il cuore.»
Thomas provò una sensazione di bruciore, dall'interno verso l'esterno,
una specie di calore umido che si faceva sempre più rovente. Se la fece nei
pantaloni.
Mars andò alla porta, spense le luci e uscì, chiudendosi la porta alle spal-
le. Thomas attese, contando lentamente fino a cento. Poi si mise al lavoro
per liberarsi.
Era bravissimo, in questo. Ed era anche molto abile a sgattaiolare fuori
dalla casa, cosa che aveva fatto quasi ogni notte, quell'estate. Aspettava
che i suoi andassero a letto e poi se la svignava per andare da Duane Fer-
gus, che viveva in una grande casa rosa in King John Place. A volte lan-
ciavano uova e rotoli di carta igienica bagnata contro le auto che passava-
no sulla Flanders. Quando si stufavano, attraversavano la strada e an-
davano nel cantiere di un complesso in costruzione dove parcheggiavano
gli adolescenti per pomiciare. Duane Fergus (che aveva un anno più di lui
e sosteneva di farsi la barba) una volta aveva lanciato un sasso contro una
Bmw nuova fiammante perché (così diceva lui) quello stronzo fortunato al
volante si stava facendo fare un pompino. Per poco non se l'erano fatta ad-
dosso tutti e due quando l'auto si era messa in moto, illuminandoli con i fa-
ri. Avevano attraversato la Flanders così di corsa che per poco non erano
finiti sotto le ruote di un gigantesco autoarticolato.
Thomas aveva perfezionato l'arte di muoversi non visto attraverso la ca-
sa cambiando l'angolazione di alcune telecamere. Appena appena, solo un
pochino, quel tanto perché i suoi non potessero vedere proprio tutto. Sape-
va che gran parte della gente non viveva in case in cui ogni stanza era sor-
vegliata da un sistema televisivo a circuito chiuso. Suo padre gli aveva
spiegato che quella precauzione era necessaria perché lui teneva i libri con-
tabili di persone importanti e qualcuno avrebbe potuto tentare di rubarli.
Era un grossa responsabilità, aveva detto, e quindi dovevano proteggere la
casa nel miglior modo possibile. Spesso aveva raccomandato a lui e Jane
di stare in guardia da tipi sospetti, e di non parlare mai degli allarmi e delle
telecamere con i loro amici. Sua madre diceva che le considerava tutte
sciocchezze e che erano solo il giocattolo del padre. Ma per Duane erano
una bomba.
Il cavo che gli bloccava il polso sinistro era allentato.
Mentre Mars gli legava il polso destro alla colonnina del letto, Thomas
si era scostato appena, in modo che ora il cavo aveva un po' di gioco. Tirò
con forza, serrando di più i nodi, ma riuscendo così a toccare con le dita il
nodo che lo assicurava alla colonnina. Era stretto. Thomas vi conficcò le
dita così forte che il dolore gli fece venire le lacrime agli occhi, ma il nodo
si allentò. Continuò a lavorare freneticamente, terrorizzato all'idea che
Mars o uno degli altri spalancasse la porta, ma poi il nodo cedette e la sua
mano fu libera. Strappare il nastro adesivo dalla bocca gli fece più male di
un'otturazione dal dentista. Slegò la mano destra, poi i piedi, e fu libero.
Come diceva Duane, dovevi rischiare di rimanere spiaccicato sulla strada
se volevi vedere un tizio che si faceva fare un pompino.
Thomas rimase sdraiato sul letto, in ascolto.
Niente.
So dove papà tiene una pistola.
Thomas si sentiva calmo e sicuro di ciò che doveva fare. Sapeva esatta-
mente cosa le telecamere potevano riprendere e cosa no. Avrebbe voluto
andare in bagno a lavarsi, ma sapeva che sarebbe stato visibile sul monitor.
Si tolse i pantaloni e si pulì alla meglio con le mutande, quindi le appallot-
tolò e le infilò sotto il letto. Scivolò a terra e strisciò lungo la parete verso
l'armadio, passando sotto la scrivania. Qualcuno aveva divelto il suo tele-
fono dal muro, lasciando la spina nella presa, ma strappando i fili. Stronzi.
Nel libro Il leone, la strega e l'armadio, i bambini trovavano una porta
segreta in fondo al guardaroba attraverso la quale fuggivano dal mondo re-
ale per entrare nella terra fantastica di Narnia. Anche lui aveva la sua porta
segreta in fondo al guardaroba: una botola di accesso a un passaggio che
correva sotto le falde ripide del tetto. Era il suo percorso privato (suo e di
Duane), attraverso il quale poteva raggiungere le altre botole di accesso
sparse per la casa.
Thomas aprì lo sportello e si infilò nell'apertura, facendo attenzione a
non battere la testa contro le travi. Il calore accumulatosi nello spazio ri-
stretto lo avvolse come un gas. Cercò la torcia elettrica che teneva lì vici-
no, la accese, quindi richiuse lo sportello. In quella parte della casa il sotto-
tetto era un lungo tunnel a sezione triangolare che seguiva il margine po-
steriore del tetto. Nei punti in cui le finestre erano ritagliate nel tetto, il
triangolo diventava un basso rettangolo che lo costringeva a strisciare sulla
pancia. Procedette così finché non arrivò a una seconda botola d'accesso,
che si apriva nell'armadio a muro di Jennifer. Rimase in ascolto finché non
fu certo che gli stronzi non fossero nella camera della sorella, quindi la a-
prì facendo crollare una montagna di scarpe.
L'armadio era avvolto nell'oscurità, la porta chiusa.
Si fece largo tra le scarpe e i vestiti, quindi spense la torcia. Arrivato alla
porta si immobilizzò, ma non sentì nessun rumore. La socchiuse. Nella
camera le luci erano spente; era un bene perché gran parte del locale era
visibile sui monitor. Aprì la porta così lentamente che gli parve di impie-
garci un'eternità. La stanza era illuminata dal chiarore azzurrino della luna.
Vide Jennifer legata alla sedia, la schiena rivolta verso di lui.
«Jen?»
Lei si mosse di colpo e borbottò qualcosa. Thomas le parlò, tenendo la
voce bassa.
«Sono nel tuo armadio a muro. Rilassati, okay? Se stanno guardando, ti
possono vedere sui monitor.»
Lei smise di agitarsi.
Thomas cercò di ricordare quale parte della camera venisse coperta dalla
telecamera. A volte, quando i suoi erano via, lui e Duane andavano nella
stanza di sicurezza perché l'amico potesse vedere Jennifer nuda. Era quasi
certo che se fosse uscito strisciando a terra e poi si fosse tenuto contro la
parete sotto le finestre, dove c'era più ombra, avrebbe potuto avvicinarsi
alla sedia. Se avesse sentito Mars o gli altri avvicinarsi, avrebbe potuto ri-
fugiarsi di nuovo dentro il sottotetto e da lì tornare nella propria camera,
oppure fuggire in garage.
«Jen, ascoltami. Ora vengo vicino a te.»
Lei scosse il capo con violenza, borbottando freneticamente sotto il na-
stro adesivo.
«Sta' zitta! Non posso slegarti.»
Thomas spinse la porta di qualche centimetro, poi avanzò nell'oscurità
strisciando sui gomiti. Passando davanti alla scrivania, si accorse che an-
che il telefono di Jane era stato strappato dal muro. Stronzi.
Girò tutt'intorno alla stanza, e presto si trovò sdraiato accanto al letto,
sfruttando l'ombra per nascondersi. Era a poco più di un metro dalla sorel-
la, e vide che aveva la bocca coperta dal nastro adesivo. Alzò gli occhi
verso l'angolo del soffitto in cui era inserita la telecamera. Queste teleca-
mere non erano visibili: erano quelli che suo padre chiamava "stenoscopi",
montati nel sottotetto dietro la parete da cui sbirciavano attraverso minu-
scoli fori. Scivolò fino alla sedia e andò a mettersi dietro la sorella. Imma-
ginò che la telecamera potesse riprenderla dalla vita in su, ma non molto
bene nell'oscurità. Decise di rischiare. Allungò la mano e velocemente
strappò via il nastro adesivo per poi tornare a nascondersi dietro alla sedia.
«Merda! Che male!»
«Sta' zitta e ascolta!»
«Ti beccheranno!»
«Shh! Ascoltami!»
Thomas allungò le orecchie, concentrandosi per sentire oltre il rumore
degli elicotteri e della polizia, là fuori.
Niente.
«Va tutto bene, Jen. Non mi hanno visto e ora non possono vedermi.
Non ti voltare. Stammi solo a sentire.»
«Come hai fatto a entrare qui?»
«Sono passato attraverso il sottotetto. Ora ascoltami e sta' ferma. Adesso
ti slego. Hanno inchiodato le finestre, ma credo che possiamo scendere
passando per il sottotetto. Se riusciamo ad arrivare fino al garage, possia-
mo aprire la porta e scappare.»
«No!»
Thomas lavorava con gesti frenetici. Il cavo non era teso intorno a polsi
e caviglie, ma i nodi erano stati stretti molto forte.
«Thomas, smettila! Dico sul serio! Non slegarmi.»
«Ma sei scema? Potremmo riuscire a scappare!»
«Ma papà resterebbe qui. Io non me ne vado senza di lui.»
Thomas si accovacciò sui talloni, confuso.
«Ma, Jen...»
«No! Thomas, se ci riesci fa' pure, ma io non me ne vado senza papà.»
Thomas era così arrabbiato che l'avrebbe presa a pugni. Erano chiusi là
dentro con tre killer pazzi furiosi che probabilmente bevevano sangue u-
mano, tra cui un maniaco deciso a mangiargli il cuore, e lei non voleva an-
darsene. Ma poi, riflettendoci, Thomas capì che la sorella aveva ragione.
Neanche lui avrebbe potuto lasciare lì suo padre.
«Cosa facciamo, Jen?»
Per lunghi istanti lei non rispose.
«Chiama la polizia.»
«La casa è circondata dalla polizia.»
«E tu chiamali comunque! Forse loro hanno un'idea. Forse se gli dicia-
mo esattamente cosa sta succedendo qua dentro, questo potrebbe aiutarli.»
Thomas lanciò un'occhiata verso la scrivania, ricordandosi che i cavi e-
rano stati strappati.
«Hanno messo fuori uso i telefoni.»
Jennifer rimase di nuovo in silenzio.
«Allora non lo so. Thomas, tu dovresti scappare.»
«No!»
«Dico sul serio. Se riesci a raggiungere la polizia, forse li puoi aiutare.
Tu sai tutto sugli allarmi e le telecamere. Sai che papà è ferito. Quel ba-
stardo di Dennis ha mentito, continua a dire che stiamo tutti bene.»
«Lascia almeno che ti sleghi. Potresti nasconderti nell'intercapedine.»
«No! Potrebbero fare del male a papà. Senti, se scoprono che non sei più
nella tua camera, io dirò loro che sei scappato. Non possono sapere che sei
nascosto dentro le pareti. Non ci penseranno mai! Ma se scompariamo tutti
e due, se la prenderanno con papà. Potrebbero fargli del male!»
Thomas ci rifletté.
«Okay, Jen.»
«Okay, cosa?»
«Non lo lasceremo. Troverò il modo. Ce ne andremo tutti.»
Jennifer tirò il cavo con tanta violenza che per poco non fece ribaltare la
sedia.
«Lascia stare quella pistola! Ti uccideranno!»
«No, se ho la pistola. Li posso tenere a bada abbastanza a lungo da
chiamare la polizia. Non dobbiamo fare altro.»
Lei si girò sulla sedia, nel tentativo di vederlo.
«Thomas, non ci provare! Sono adulti! Sono dei criminali e anche loro
sono armati!»
«Non parlare così forte, o ti sentiranno!»
«Non mi interessa! È sempre meglio che lasciare che ti uccidano!»
Thomas allungò la mano verso l'alto e le rimise il nastro adesivo sulla
bocca, premendo con forza perché si riattaccasse. Jennifer si dimenò, cer-
cando di urlare sotto il bavaglio. Thomas non sopportava l'idea di lasciarla
lì, ma non aveva altra scelta.
«Mi spiace Jen. Ti slegherò quando torno. Porteremo papà fuori di qui,
vedrai. Non lascerò che ci facciano del male.»
Jennifer si stava ancora dimenando quando Thomas rifece il percorso al
contrario, nascosto nell'ombra. Quando arrivò all'armadio a muro, sentì
che cercava ancora di urlare attraverso il nastro. Continuava a urlare la
stessa cosa. Lui riusciva a capirla anche se le parole erano smorzate dal
bavaglio.
Ti uccideranno.
Ti uccideranno.
Thomas si infilò nel sottotetto, avanzando con cautela nel buio.
DENNIS
Il piccolo bagno di servizio annesso al garage era buio come una caverna
quando Dennis mostrò loro la finestra, spiegando che avrebbero potuto in-
filarsi nel giardino della casa vicina e da lì girare intorno all'edificio elu-
dendo la polizia. Mars sembrava pensieroso, ma Dennis non avrebbe sapu-
to dirlo con certezza, lì, con tutto quel buio.
«Potrebbe funzionare.»
«Puoi dirlo forte che potrebbe funzionare.»
«Ma non sappiamo cosa sta facendo la polizia né dove possono essere.
Dobbiamo dargli qualcosa da pensare, a parte noi.»
«Staranno sorvegliando questa casa. Non hanno nient'altro da fare.»
«A me non piace proprio per niente» disse Kevin. «Io dico che dovrem-
mo arrenderci.»
«Sta' zitto.»
Mars andò in garage e si fermò accanto alla Range Rover. Dennis teme-
va che avrebbe suggerito di nuovo di uccidere il ragazzo
«Dài, Mars, dobbiamo muoverci. Non abbiamo tutto il tempo di questo
mondo.»
Mars si voltò verso di lui, il volto illuminato dal debole chiarore prove-
niente dalla cucina.
«Se vuoi scappare, dovremmo dar fuoco alla casa.»
Dennis fece per dire di no, poi si bloccò. Aveva pensato di far salire i ra-
gazzi a bordo della Jaguar e di aprire la porta con il telecomando come a-
zione diversiva, ma un incendio era molto meglio. I poliziotti se la sareb-
bero fatta addosso per la paura se la casa avesse preso a bruciare.
«Non è una cattiva idea. Potremmo dar fuoco a qualcosa sull'altro lato
della casa.»
Kevin alzò le mani.
«Voi siete matti. Così ci accuseranno anche di incendio doloso.»
«Ma Kevin, è una buona idea! Tutti i poliziotti saranno concentrati sul-
l'incendio. Non guarderanno il giardino della casa vicina.»
«Ma... e questa gente?»
Kevin si riferiva agli ostaggi.
Dennis stava per rispondere quando Mars parlò di nuovo. La sua voce
era calma e inespressiva.
«Bruceranno.»
Dennis sentì un brivido alla schiena, come se Mars avesse passato un
chiodo su una lavagna.
«Mars, non ce n'è bisogno. Possiamo chiuderli qui in garage prima di
andarcene. Penseremo a qualcosa.»
Decisero di usare della benzina per far scoppiare l'incendio. Dennis tro-
vò una tanica di plastica da dieci litri che probabilmente la famiglia teneva
per le emergenze, ma era quasi vuota. Allora Mars si servì della cannuccia
di plastica dell'acquario per aspirare benzina dalla Jaguar. Riempì la tanica
e poi un grosso secchio. Stavano portando la benzina in casa quando il ru-
more degli elicotteri cambiò nuovamente e altre auto vennero a prendere
posizione nel cul-de-sac.
Dennis si fermò, con il secchio in mano, in ascolto. Poi, all'improvviso,
la parte anteriore della casa venne investita da una luce fortissima che si
concentrò sulla grossa porta del garage e filtrò all'interno del bagno di ser-
vizio nonostante gli oleandri.
«Ma che cazzo... Cosa sta succedendo?»
Si precipitarono verso il davanti della casa, con la benzina che sciabor-
dava dal secchio.
«Kevin! Tu sorveglia la porta finestra!»
Dennis e Mars lasciarono la benzina nell'ingresso, poi corsero nello stu-
dio, dove Walter Smith continuava a tremare sul divano. Lame di luce fil-
travano, dipingendo ogni cosa con pennellate luminose. Dennis aprì i li-
stelli delle tapparelle e vide altre due auto della polizia ferme in strada.
Tutte e quattro le auto avevano puntato i fari sulla casa, mentre dagli eli-
cotteri potenti fasci di luce investivano il giardino. Arrivarono altre mac-
chine.
«Oh, merda!»
La televisione stava trasmettendo l'arrivo degli uomini dello sceriffo del-
la contea di Los Angeles attraverso le strade buie degli York Estates. Den-
nis vide un gruppo della Swat attraversare correndo l'ovale di luce proietta-
to dagli elicotteri e andare ad appostarsi intorno alla casa. Cecchini. Killer
a sangue freddo vestiti come guerrieri ninja, armati di fucili dotati di visori
notturni, puntatori laser e - per quello che ne sapeva lui - pure di raggi
mortali. Mars aveva ragione: quei bastardi li avrebbero fatti secchi se aves-
sero cercato di fuggire con i ragazzi.
«Siamo fottuti. Guarda quanti poliziotti.»
Dennis sbirciò attraverso i listelli delle tapparelle, ma in strada erano sta-
ti sistemati così tanti fari che la luce era accecante: avrebbero anche potuto
esserci mille poliziotti a venti metri da loro e lui non li avrebbe visti.
«Vaffanculo!»
La situazione era di nuovo cambiata. Un attimo prima aveva un piano di
fuga fantastico, un attimo dopo tutti i lati della casa erano illuminati a
giorno e le strade invase da un esercito di poliziotti. In cielo, pareva che gli
elicotteri stessero per atterrare sul tetto. Ora sarebbe stato impossibile svi-
gnarsela attraverso il giardino della casa accanto. Dennis tornò a voltarsi
verso la televisione. Sei autopattuglie ostruivano il cul-de-sac, illuminate
dalla luce bianca degli elicotteri, e dietro di loro si muoveva almeno una
dozzina di agenti.
Dennis andò da Walter Smith e ispezionò la ferita. Il livido si allargava
intorno all'orbita e si stava espandendo fin sotto la guancia, coprendo an-
che gran parte del lato destro della fronte. L'occhio si era gonfiato così tan-
to che era completamente chiuso. Dennis si pentì di aver colpito quel figlio
di puttana. Si voltò e andò alla porta.
«Vado a controllare di nuovo le finestre. Voglio essere sicuro che Kevin
non si addormenti. Mars, tu tieni d'occhio la tivù. Se succede qualcosa,
fammi un fischio.»
Mars, appoggiato alla parete con il viso rivolto verso le tapparelle, non
rispose. Dennis non era sicuro che lo avesse sentito, ma non gliene impor-
tava. Andò in soggiorno, dov'era Kevin.
«Cosa succede? Non ce ne andiamo più?»
«Sono arrivati quei fottutissimi sceriffi. Sono dappertutto, come le for-
miche. E hanno piazzato dei tiratori scelti, là fuori!»
Dennis era terrorizzato all'idea di poter essere ucciso. I poliziotti non vo-
levano altro che farla pagare al bastardo che aveva ferito uno dei loro, e
quel bastardo era lui. Se fosse passato davanti a una finestra o si fosse fatto
vedere alla porta finestra, quei maledetti cecchini gli avrebbero piazzato
una pallottola in mezzo alla fronte.
Ovviamente, Kevin rese le cose ancora peggiori assumendo quella sua
aria da inconcludente.
«E ora cosa facciamo?»
«Non lo so, Kevin! Hanno acceso così tante luci là fuori che non distin-
guo più un cazzo. Forse potrei vedere qualcosa di più in quelle televisioni
nella stanza di sicurezza.»
Kevin si voltò di colpo verso il retro della casa.
«Hai sentito?»
Dennis rimase in ascolto, terrorizzato che quei killer della Swat si stesse-
ro infilando in casa silenziosi come un verme su per il culo di un gatto.
«Sentito cosa?»
«Mi è parso di sentire un tonfo, là dietro.»
Dennis trattenne il fiato per ascoltare meglio, ma non udì alcun rumore.
«Stronzo. Avvertimi se arriva Mars.»
Dennis lasciò Kevin di guardia all'inizio del corridoio, quindi si avviò
veloce verso la camera padronale e da lì entrò nella stanza di sicurezza.
Era dal tramonto che non controllava più i monitor. Vide Mars in piedi
vicino alle finestre, l'ingresso con la porta forata dai proiettili, la ragazza
legata alla sedia nella sua camera al piano superiore. Non vide il ragazzo
ma non ci fece caso. Cercò i monitor che riprendevano l'esterno della casa,
ma le inquadrature erano buie e indecifrabili.
«Merda!»
Si allontanò di scatto dai monitor, frustrato e irritato. Afferrò una brac-
ciata di giacche appese al bastone dell'armadio e le scagliò contro la parete
in fondo. Se c'era un modo per farsi fottere, si poteva stare sicuri che lui lo
avrebbe trovato!
Dennis tornò a guardare gli schermi. Osservò i pulsanti e gli interruttori
della console. Non c'erano indicazioni, ma tanto lui non aveva niente da
perdere. Abbassò tutte le levette che trovò alzate e premette tutti i tasti. Al-
l'improvviso, un monitor che fino ad allora aveva mostrato solo ombre sul
lato non illuminato della casa prese vita con un'immagine luminosa. Pigiò
un pulsante e la zona della piscina si riempì di luce. Un altro, e si illuminò
anche il lato del garage. Vide alcuni poliziotti indicare le luci che li aveva-
no abbagliati.
Dennis premette altri pulsanti, e il muro sul retro della proprietà oltre la
piscina venne inondato dalla luce. Due uomini della Swat armati di carabi-
na lo stavano scavalcando.
«MERDA!!!!»
Dennis attraversò di corsa la casa, urlando.
«STANNO VENENDO QUI!! KEV, MARS!!! STANNO ARRI-
VANDO!!!»
Andò alla porta finestra della cucina. Non riusciva a vedere i poliziotti
per via della luce accecante proveniente dall'esterno, ma sapeva che erano
là e sapeva che stavano arrivando.
Dennis sparò due colpi alla cieca, senza pensarci, così, solo per premere
il grilletto. Due pannelli della porta finestra andarono in frantumi.
«Quei porci stanno arrivando! Quel bastardo di Talley! Quel fottuto bu-
giardo!»
Dennis pensò che il suo mondo stesse per esplodere. Avrebbero sparato
candelotti lacrimogeni e poi sfondato le porte. Probabilmente in quello
stesso istante stavano correndo verso la casa con gli arieti.
«Mars! Kev! Andiamo a prendere i ragazzi!»
Dennis corse su per le scale, con Kevin che gli urlava dietro.
«Cosa ce ne facciamo dei ragazzi?»
Dennis non rispose. Salì i gradini tre alla volta.
THOMAS
Tre minuti prima che Dennis Rooney vedesse gli agenti della Swat e
sparasse i due colpi, Thomas si era calato attraverso il soffitto nel locale
lavanderia. Era così buio che mise una mano davanti alla torcia e si arri-
schiò ad accenderla per pochi istanti, usando il debole bagliore che filtrava
dalle dita per orientarsi. Poi si lasciò cadere in cima al boiler dell'acqua
calda, cercò con il piede la lavatrice, e da lì scivolò a terra.
Rimase immobile, in ascolto. La lavanderia era collegata alla cucina da
un piccolo corridoio dal quale si accedeva anche alla dispensa. Thomas
sentiva le voci di Kevin e Dennis ma non riusciva a capire cosa stessero
dicendo, poi le voci si zittirono.
Thomas attraversò silenzioso la lavanderia fino al piccolo locale che suo
padre usava come laboratorio per i suoi hobby, sull'altro lato rispetto alla
cucina. Si trovavano entrambi sul retro del garage, ma per andare in garage
si doveva per forza passare attraverso la lavanderia. Era quello il percorso
che bisognava fare per entrare in casa, una volta scesi dall'auto: garage, la-
vanderia, cucina.
Arrivato nel laboratorio, Thomas chiuse piano la porta, poi accese di
nuovo brevemente la torcia. Suo padre aveva l'hobby di costruire modellini
in plastica di razzi risalenti ai primi periodi dei programmi spaziali. Com-
perava i kit da eBay, li costruiva e li dipingeva al piccolo banco da lavoro,
poi li riponeva sulle mensole. Sullo scaffale più alto, suo padre conservava
anche una Sig Sauer 9 millimetri chiusa in una scatola di metallo. Thomas
aveva sentito i genitori discutere in proposito: prima papà la teneva sotto il
sedile della Jaguar, ma la mamma aveva piantato un tale casino che lui era
stato costretto a metterla altrove.
Sulla mensola più alta.
Parecchio in alto.
Thomas riaccese la torcia per pochi secondi, allargando appena le dita
della mano per far filtrare una lama di luce. Pensò che poteva servirsi dello
sgabello per salire sul banco e da lì, forse, allungare la mano fino alla sca-
tola.
Si arrampicò. C'era un tale silenzio che ogni minimo scricchiolio del
banco pareva un terremoto. Accese ancora una volta la torcia, solo per un
attimo, per fissare negli occhi della mente la posizione della scatola, poi al-
lungò la mano in quella direzione, ma la scatola era troppo in alto. Si sol-
levò sulla punta dei piedi. Le sue dita la sfiorarono quel tanto da spostarla
verso il bordo dello scaffale.
Fu allora che sentì Dennis urlare.
«STANNO VENENDO QUI!! KEV, MARSH! STANNO ARRI-
VANDO!!!»
Thomas non perse un solo secondo: era andato lì per prendere la pistola,
ma ora non c'era tempo. Il suo unico pensiero fu quello di tornare nella sua
stanza prima che lo scoprissero. Saltò giù dal banco e corse nella lavande-
ria mentre due colpi in rapida successione esplodevano dentro la casa, così
forti da fargli fischiare gli orecchi.
Non pensava assolutamente alla borsa di Jennifer, ma eccola lì, posata
sul tavolino pieghevole accanto alla porta del garage, il posto più comodo
dove ogni membro della famiglia mollava le proprie cose entrando in casa
dal garage. La borsa di Jennifer era proprio lì, una Kate Spade uguale a
quella di tutte le altre ragazze della sua scuola. Thomas l'afferrò.
Si arrampicò sulla lavatrice e da lì sul boiler, quindi si infilò dentro la
botola che portava al sottotetto. L'ultima cosa che udì prima di chiudere lo
sportello fu Dennis che urlava di prendere i ragazzi.
TALLEY
Passare le consegne come primo negoziatore non era mai facile. Talley
era riuscito a costruire un legame con Rooney e ora doveva ritirarsi, la-
sciando che Maddox lo sostituisse. Rooney avrebbe potuto opporre resi-
stenza, ma al soggetto non era mai data alcuna scelta. Avere la possibilità
di scegliere significava avere potere, e al soggetto questo non era concesso,
mai. Talley accompagnò Maddox ed Ellison nel cul-de-sac, e lì si accuc-
ciarono dietro la loro auto. Talley avrebbe voluto descrivere con maggiori
dettagli le sue precedenti conversazioni con Rooney, in modo che Maddox
avesse più elementi su cui lavorare, ma non c'era tempo. Gli spari prove-
nienti dalla casa crepitarono nell'aria estiva come ritorni di fiamma di u-
n'auto in un canyon lontano.
Quasi istantaneamente dalle loro ricetrasmittenti si scatenò una tempesta
di messaggi.
«Colpi d'arma da fuoco! Colpi d'arma da fuoco! Ci stanno spaiando dal-
l'interno della casa, muro posteriore, lato ovest! Aspettiamo ordini!»
Tutti e tre capirono cos'era successo nell'attimo stesso in cui udirono i
messaggi.
«Maledizione, li ha messi troppo vicini! Rooney pensa che stiano per fa-
re irruzione!»
«Siamo fottuti» disse Ellison.
Talley venne assalito da un'ondata di nausea: era così che le cose dege-
neravano, che la gente ci lasciava la pelle. Bastavano pochi secondi.
Maddox allungò la mano verso la radio, mentre altri agenti chiedevano
di verificare posizione e collegamenti. La voce metallica di Carl Hicks, il
supervisore tattico, rispose calma al di sopra delle richieste concitate dei
suoi uomini.
«Restate in attesa, tenetevi pronti mentre valutiamo la situazione.»
Talley non perse tempo. Digitò la frequenza della squadra tattica sulla
sua ricetrasmittente.
«Ritiratevi. Ritiratevi! Non rispondete al fuoco!»
La voce del capitano Martin si sovrappose alla sua, brusca e tagliente.
«Chi parla?»
«Talley. Le avevo detto di rispettare il perimetro!»
«Talley, liberi la frequenza.»
Maddox era finalmente riuscito ad afferrare la radio, imprecando mentre
attivava il microfono.
«Unità uno, qui Maddox. Gli dia ascolto, capitano. Non faccia irruzione
nella casa. Ritiri gli uomini, altrimenti sarà una carneficina!»
«Liberi la frequenza! Quella gente è in pericolo.»
«Non fate irruzione nella casa! Posso parlargli!»
Talley aveva già estratto il cellulare. Premette il pulsante di ripetizione
automatica dell'ultimo numero chiamato, pregando che Rooney rispondes-
se, quindi corse all'auto di Jorgenson, ancora ferma nella strada, e accese
l'altoparlante.
THOMAS
DENNIS
Dennis spalancò la porta di colpo. Vide che il ragazzo era quasi riuscito
a slegarsi, ma ora non aveva più importanza.
«Avanti, ciccione!»
«Stammi lontano!»
Dennis si infilò la pistola nella cintura dei pantaloni, quindi immobilizzò
Thomas con un ginocchio per slegarlo. Fuori, la voce di Talley echeggiò
attraverso l'altoparlante, ma Dennis non riuscì a distinguere le parole. Sbat-
té il ragazzo giù dal letto, lo afferrò mettendogli un braccio intorno al collo
e lo sospinse verso le scale. Se i poliziotti avessero fatto irruzione attraver-
so l'ingresso principale, gli avrebbe puntato la pistola alla tempia, minac-
ciando di ucciderlo. Lo avrebbe usato come scudo per costringere i poli-
ziotti ad arretrare. Era una chance, una speranza.
«Sbrigati, Kevin! Porta la ragazza!»
Dennis trascinò il ragazzo giù per le scale fin dentro lo studio dove Mars
aspettava, accanto alla finestra. Sembrava perfettamente calmo, come se
stesse ammazzando il tempo in un bar in attesa di andare al lavoro. Quan-
do vide Dennis piegò la testa di lato, con quel suo sorrisetto da stupido sul
volto impassibile.
«Non stanno facendo nulla. Sono fermi lì.»
Dennis trascinò il ragazzino fino alla finestra. Mars aprì le tapparelle
quel tanto da permettergli di vedere fuori. I poliziotti non stavano per fare
irruzione nella casa: erano accucciati dietro le auto.
Dennis si rese conto che il telefono stava squillando mentre l'altoparlante
diffondeva la voce di Talley.
«Rispondi al telefono, Dennis. Sono io, Talley. Rispondi al telefono, co-
sì posso spiegarti cosa è successo.»
Dennis afferrò il ricevitore.
TALLEY
THOMAS
Dopo tutte quelle urla, quei momenti frenetici in cui Thomas credeva
che Dennis gli avrebbe sparato in testa come minacciava, Jennifer lo ful-
minò con lo sguardo e gli disse solo due parole: «Non farlo».
Solo Thomas le udì. Dennis stava camminando su e giù, parlando da so-
lo, Kevin seguiva Dennis con gli occhi come un cane nervoso osserva il
padrone. Si trovavano nello studio, con il televisore acceso che riportava la
notizia dei colpi di arma da fuoco esplosi all'interno della casa. Dennis si
fermò a guardare, scoppiando improvvisamente a ridere.
«Cristo, ci siamo andati vicino!»
Kevin incrociò le braccia, dondolandosi nervosamente.
«E adesso cosa facciamo? Non possiamo più scappare. Hanno circonda-
to la casa. Sono persino nel giardino qui accanto.»
Dennis si fece scuro in volto e rispose brusco.
«Non lo so, Kevin, non lo so. Ci verrà in mente qualcosa.»
«Dovremmo arrenderci.»
«Sta' zitto!»
Thomas si sfregò il collo, pensando che avrebbe vomitato. Dennis lo a-
veva trascinato giù nello studio tenendogli un braccio intorno alla gola,
stringendo così forte da impedirgli di respirare. Jennifer venne a inginoc-
chiarsi accanto a lui, fingendo di aiutarlo; invece gli diede un pizzicotto sul
braccio e gli sussurrò, spaventata e arrabbiata al tempo stesso: «Hai visto?
Hai visto? Per poco non ti sei fatto beccare!».
Poi si avvicinò al padre.
Mars entrò nello studio, portando un fascio di grosse candele bianche.
Senza dire una parola ne accese una, fece colare un po' di cera sul televiso-
re, quindi vi fece aderire la base della candela. Andò alla libreria e fece lo
stesso. Dennis e Kevin stavano crollando, ma Thomas aveva l'impressione
che Mars fosse compiaciuto.
Alla fine Dennis se ne accorse.
«Che cazzo stai facendo?»
Mars continuò accendendo un'altra candela.
«Potrebbero tagliare la corrente. Prendi questa.»
Si interruppe solo per lanciare una torcia a Dennis. Era quella che di so-
lito stava nel cassetto degli utensili in cucina. Ne lanciò un'altra a Kevin,
che se la lasciò sfuggire di mano.
Dennis accese la torcia, poi la spense.
«Queste candele sono una buona idea.»
In breve, lo studio assunse l'aspetto di un altare.
Thomas guardava Dennis: pareva chiuso in se stesso, e seguiva Mars
con circospezione, come se questi lo tenesse in pugno per qualche oscuro
motivo. Thomas li odiava tutti quanti, pensava che se avesse avuto la pi-
stola li avrebbe uccisi, Mars con le sue candele, Dennis che guardava
Mars, Kevin che guardava Dennis, e nessuno che guardasse lui, lui che li
avrebbe ammazzati tutti, uno dopo l'altro, bangbangbang.
«Dovremmo sistemare delle pentole sotto le finestre, nel caso cercassero
di entrare. Cose che facciano rumore, così possiamo sentirli» disse Dennis
all'improvviso.
Mars grugnì.
«Mars, quando torni fra noi fallo, per piacere, okay? Sistema qualche
trappola.»
«E mio padre?» chiese Jennifer.
«Oh, Cristo. Ora basta! Non ricominciare!»
«Ha bisogno di un dottore, stronzo!» rispose lei, alzando la voce.
«Kevin, riportali di sopra. Per favore.»
Thomas non fece una piega. Era proprio quello che voleva.
«Vuoi che li leghi di nuovo?»
Dennis stava per rispondere, ma poi si bloccò e fece una smorfia, riflet-
tendo.
«C'è voluto troppo tempo per slegarli. Tu e Mars li avete legati che sem-
bravano due mummie. No, ma assicurati che siano chiusi dentro come si
deve. Non solo con i chiodi.»
Mars finì di accendere le candele.
«Posso farlo io. Tu portali su.»
Kevin obbedì. Prese Jennifer per il braccio, quasi costretto a trascinarla;
Thomas, invece, camminava davanti a loro, ansioso di tornare nella sua
stanza, anche se cercava di non darlo a vedere. Arrivati in cima alle scale
attesero che Mars li raggiungesse con un martello e un cacciavite. Salì i
gradini rumorosamente, con la lenta inesorabilità di un montacarichi buio e
sporco. Mars entrò prima nella camera di Thomas, in fondo al corridoio.
Era spettrale, senza luce.
«Entra, ciccione. Tirati le coperte sulla testa.»
Mars lo spinse dentro in malo modo, poi si inginocchiò davanti alla ma-
niglia, quella che Thomas avrebbe usato se avesse cercato di uscire. Piantò
il cacciavite sotto la base servendosi del martello, la fece saltare, tolse le
viti, quindi la estrasse, lasciando solo un buco squadrato. E poi guardò
Jennifer, solo lei.
«Visto? È così che si fa per tenere un bambino chiuso nella sua stanza.»
Lo lasciarono là dentro, richiudendo la porta e poi bloccandola con dei
chiodi. Thomas rimase in ascolto, finché non sentì il tonfo della maniglia
di Jennifer che cadeva dalla porta, e poi i colpi delle martellate. Solo allora
corse all'armadio a muro. Pensava alla pistola ma, come accese la torcia,
vide la borsa di Jennifer. L'aveva gettata dentro quando era tornato in ca-
mera di corsa. La aprì e la rovesciò.
Il cellulare di Jennifer cadde a terra.
10
Venerdì, 20.32
Palm Springs, California
BENZA
11
VIC CASTELLANO
Sua moglie aveva il sonno pesante e così Vittorio "Vic" Castellano uscì
dalla camera da letto per prendere la chiamata. Indossò il morbido accap-
patoio di spugna, regalo di compleanno dei suoi figli con la scritta "Non
scocciatemi" ricamata sulla schiena, e, zoppicando, seguì Jamie Beldone in
cucina. Beldone teneva in mano un cellulare. All'altro capo c'era l'uomo
del quale si servivano per tenere d'occhio gli affari in California.
Vic, settantotto anni, reduce da solo due settimane da un intervento al-
l'anca, si versò un bicchiere di succo d'arancia, ma non riuscì a berlo. Ave-
va già acidità di stomaco.
«Sei sicuro che la faccenda sia così grave?»
«La polizia ha circondato la casa, e dentro ci sono tutti i documenti di
Benza, compresi i libri contabili che lo collegano a noi.»
«Quel figlio di puttana! Cosa c'è in quei libri?»
«Tutti i movimenti, le cifre che ci passa. Non so fino a che punto siano
dettagliati, ma di certo deve tener conto di dove vanno a finire i soldi. Se i
federali ci mettono le mani sopra, potrebbero accusarla di frode fiscale.»
Vic versò il succo d'arancia nel lavandino e fece scorrere dell'acqua nel
bicchiere. Ne bevve un sorso. Era calda.
«E da quanto è cominciata questa cosa?»
«Ormai sono quasi cinque ore.»
Castellano guardò l'orologio.
«Benza sa che ne siamo al corrente?»
«No, signore.»
«Quello stronzo, figlio di puttana. Non sia mai che mi chiami per avver-
tirmi, come un vero uomo. Preferisce lasciare che mi becchino di sorpresa
anziché informarmi.»
«È un pezzo di merda, capo. Non c'è altro da dire.»
«Cosa sta facendo?»
«Ha mandato una squadra. Conosce Glen Howell?»
«No.»
«È il liquidatore di Benza. Uno in gamba.»
«Abbiamo un nostro uomo, sul posto?»
Beldone inclinò il telefono, annuendo.
«Ce l'ho in linea. Sta aspettando che gli dica cosa fare.»
Vic bevve dell'altra acqua tiepida, poi sospirò. Sarebbe stata una lunga
nottata. Stava già pensando a quello che avrebbe dovuto dire ai suoi avvo-
cati.
«Pensi che dovremmo mandare la nostra squadra?»
Beldone increspò le labbra, poi scosse il capo.
«Dovremmo mettere insieme gli uomini, senza contare le cinque ore d'a-
ereo... non c'è tempo, Vic. È lo show di Sonny. Sonny e Glen Howell.»
«Non riesco a credere che quello stronzo non mi abbia chiamato. Ma co-
s'ha nella testa?»
«Starà pensando che, se va tutto a puttane, lui scappa. Probabilmente ha
più paura di lei che dei federali.»
«E fa bene.»
Vic fece un altro sospiro, poi si avviò alla porta. Quarant'anni al vertice
della più potente famiglia criminale della costa Est gli avevano insegnato a
preoccuparsi delle cose che poteva controllare e lasciare agli altri quelle su
cui non aveva alcun potere.
Giunto sulla soglia si fermò e si voltò verso Jamie Beldone.
«Sonny Benza è uno stronzo incompetente, proprio come suo padre.»
«È la mafia di Topolino, capo. Il sole della California gli ha danneggiato
il cervello.»
«Se va tutto a puttane, Sonny Benza non ci deve scappare. Hai capito
bene?»
«Sì, signore.»
«Se fanno dei casini la devono pagare.» «La pagheranno, capo.»
«lo me ne vado a letto. Se succede qualcosa, avvertimi.» «Sì, signore.»
Vic Castellano se ne tornò a letto zoppicando, ma non riuscì a dormire.
12
Venerdì, 20.43
TALLEY
Talley si trovava nella casa della signora Pena insieme agli uomini dello
sceriffo. Bevevano il caffè preparato dalla donna, forte, con molto zucche-
ro di canna e latte. Lei spiegò che in Brasile si beveva così. Stavano guar-
dando la cassetta registrata dalla telecamera del sistema di sorveglianza del
minimarket.
Talley indicò lo schermo con la mano che reggeva la tazza.
«Il primo a entrare è Rooney, poi viene Krupchek. L'ultimo è Kevin.»
Il capitano Martin guardava le immagini con l'espressione distaccata e
imperturbabile del poliziotto esperto. Talley si scoprì a osservare lei anzi-
ché il nastro, chiedendosi come fosse arrivata a diventare un capitano della
Swat.
La donna fece un cenno con il capo in direzione dello schermo.
«Cos'ha sulla testa, un tatuaggio? Quello lì, il tizio grande e grosso.»
«Krupchek.»
«Sì, Krupchek.»
«Dice "Brucialo". Stiamo controllando sul computer.»
Talley riferì quanto aveva appreso da Brad Dill sul conto di Krupchek e
dei fratelli Rooney, quindi informò gli altri di aver mandato Mikkelson e
Dreyer a cercare il padrone di casa e i vicini.
«Questa gente ha una famiglia, qualcuno che possiamo far venire qui?»
chiese Ellison. «Una volta ci è capitato un tizio che ci ha tenuto in scacco
per dodici ore finché non è arrivata sua madre: lei gli ha detto di muovere
le chiappe e di uscire da quella casa, e lui è venuto fuori piangendo come
un bambino.»
Anche a Talley erano capitati tipi così.
«Forse Rooney ha una zia a Bakersfield, ma Dill non sa nulla di Kru-
pchek. Se riusciamo a trovare i loro padroni di casa, o degli amici, po-
tremmo anche arrivare alle famiglie. Se volete posso chiedere a Larry An-
ders, il mio ufficiale superiore, di mettere in contatto il vostro agente ad-
detto all'intelligence con chiunque riusciamo a trovare.»
Maddox annuì, il volto corrugato per la concentrazione.
«Avrei piacere di parlare di persona con Dill e con gli altri. A lei non di-
spiace, vero?»
«Conosco il lavoro. Tutto quello che vuole. Lo dica ad Anders e lui li
porterà qui.»
In quanto primo negoziatore, Maddox doveva formarsi una sua opinione
personale delle caratteristiche comportamentali di un soggetto. Nei suoi
panni, Talley avrebbe fatto lo stesso.
Il capitano Martin si avvicinò allo schermo. Erano arrivati al punto in
cui Krupchek si sporgeva oltre il banco.
«Cosa sta facendo?»
«Guardi.»
Maddox raggiunse il capitano davanti al televisore. Incrociò le braccia in
un gesto che a Talley parve di difesa.
«Gesù, sta guardando quell'uomo mentre muore.»
Talley annuì.
«L'ho pensato anch'io.»
«Quel figlio di puttana sta sorridendo.»
Talley finì di bere il caffè e posò la tazza. Non aveva bisogno di rivedere
quel nastro.
«Abbiamo avvertito gli investigatori della mano sul banco. Vedete? Do-
vrebbero aver ricavato un'impronta palmare piuttosto buona, ma non li ho
ancora sentiti.»
Laura Martin lanciò un'occhiata a Ellison.
«Controlla le impronte di tutti i ricercati e delle persone colpite da man-
dato.»
«Sissignora.»
Metzger si avvicinò a Talley e gli sfiorò il braccio.
«Capo, posso parlarle un secondo?»
Talley si scusò e la seguì nella stanza accanto. L'agente lanciò un'occhia-
ta agli uomini dello sceriffo, quindi si decise a parlare, abbassando la voce.
«Sarah vuole che la chiami immediatamente. Dice che è importante. Mi
ha detto di darle un colpo in testa e trascinarla a un telefono, se necessario,
tanto è importante.»
«Perché stai bisbigliando?»
«Ha detto che è molto importante. Deve chiamarla sulla linea dell'uffi-
cio, e non con la radio.»
«Perché?»
«Perché sulla radio possono sentire anche altre persone. Ha detto di usa-
re un telefono.»
Talley provò una fitta di apprensione all'idea che fosse successo qualco-
sa a Jane e Amanda. Tirò fuori il cellulare e premette il tasto di composi-
zione automatica del numero dell'ufficio. Maddox lo osservava preoccupa-
to, sempre vicino al televisore.
Sarah rispose al primo squillo.
«Sarah, sono io. Cosa c'è?»
«Oh, grazie al cielo! C'è un ragazzino al telefono. Dice di chiamarsi
Thomas Smith e di telefonare dalla casa.»
«È uno scherzo. Lascia perdere.»
Warren Kenner, il responsabile del personale di Talley e uno dei due
sergenti della polizia di Bristo, si inserì nella conversazione.
«Capo, credo che sia una cosa seria. Ho controllato il numero di cellula-
re da cui il ragazzo dice di chiamare. La compagnia telefonica mi ha con-
fermato che è intestato agli Smith.»
«Hai parlato anche tu con il ragazzo, o soltanto Sarah?»
«Gli ho parlato anch'io. Mi sembra che dica la verità, ha raccontato dei
tre tizi nella casa, di sua sorella e di suo padre. Dice che suo padre è ferito,
che è privo di sensi.»
Talley si morse il labbro, riflettendo, e cominciò ad accalorarsi.
«È ancora al telefono?»
«Sissignore. Sarah sta parlando con lui su un'altra linea. Lo hanno rin-
chiuso nella sua stanza. Dice che sta usando il cellulare della sorella.»
«Resta in linea.»
Talley andò alla porta: parecchi agenti dello sceriffo e della Stradale in-
dugiavano vicino alla cucina della signora Pena, bevendo caffè e mangian-
do enchiladas al formaggio. Chiamò il capitano Martin, Maddox ed Elli-
son e li condusse il più possibile lontano dagli altri.
«Forse abbiamo qualcosa. C'è un ragazzo al telefono che afferma di es-
sere Thomas Smith e di chiamare da dentro la casa.»
L'espressione del capitano si fece subito tesa. «È vero o è uno scherzo?»
Talley tornò a parlare nel telefono.
«Warren, chi altri sa di questo?»
«Solo noi, capo. Io e Sarah, e adesso lei.»
«Se la cosa dovesse risultare vera, non voglio che la stampa lo venga a
sapere, hai capito? Dillo anche a Sarah. Questo significa che non dovete
farne cenno con nessuno, neppure con altri agenti della polizia, neppure in
via confidenziale.»
Parlando, Talley guardava il capitano Martin, che annuì.
«Se Rooney e gli altri venissero a sapere che qualcuno ha chiamato da
dentro la casa, non so cosa potrebbero fare.»
«Bene, capo. Lo dirò anche a Sarah.»
«Passamelo.»
Si sentì la voce di un ragazzo che parlava a voce bassa, con circospezio-
ne, ma non spaventato.
«Pronto? Parlo con il capo della polizia?»
«Sì, sono il capo Talley. Dimmi come ti chiami, figliolo.»
«Thomas Smith. Sono dentro la casa che si vede in televisione. Dennis
ha colpito mio papà e lui non si sveglia più. Dovete venire a prenderlo.»
Una nota di paura si insinuò nella voce del ragazzo mentre parlava di
suo padre, ma Talley non era ancora certo che quella telefonata non fosse
uno scherzo.
«Prima ho un paio di domande da farti, Thomas. Chi c'è nella casa con
te?»
«Questi tre tizi. Dennis, Kevin e Mars. Mars ha detto che mi mangerà il
cuore.»
«A parte loro.»
«Mio padre e mia sorella. Dovete convincere Dennis a mandare mio pa-
pà da un dottore.»
Il ragazzo poteva aver appreso tutte quelle informazioni dalla televisione
ma, per quanto ne sapeva Talley, nessuno finora aveva detto dove si tro-
vasse la madre. Stavano ancora cercando di rintracciarla.
«E tua madre?»
Il ragazzo rispose senza la minima esitazione.
«È in Florida, dalla zia Kate.»
Talley sentì qualcosa di caldo sbocciargli nel petto. Poteva essere vero.
Fece un cenno con la mano, come per scrivere, indicando al capitano di
stare pronta a prendere nota. Questa lanciò un'occhiata a Ellison, che co-
minciò ad armeggiare con un taccuino a spirale e una penna.
«Come si chiama tua zia, socio?»
«Kate Toepfer. Ha i capelli biondi.»
Talley ripeté, osservando Ellison che scriveva.
«Dove vive?»
«A West Palm Beach.»
Talley non si diede la briga di coprire il ricevitore.
«È lui. Trovate il numero di questa donna, di questa Kate Toepfer a
West Palm Beach. La madre si trova lì.»
Maddox ed Ellison si scambiarono qualche parola, che Talley non sentì
perché era già tornato in linea con il ragazzo. Il capitano gli si avvicinò, ti-
randolo per il braccio in modo da inclinare il telefono per poter sentire an-
che lei.
«Dove sei, adesso, figliolo? Stai bene? Possono scoprirti mentre telefo-
ni?»
«Mi hanno chiuso nella mia stanza. Questo è il cellulare di mia sorella.»
«Dove si trova la tua stanza?»
«Al piano di sopra.»
«Okay. Dove sono tuo papà e tua sorella?»
«Papà è giù nel suo studio. Lo hanno messo sul divano, ma ha bisogno
di un dottore.»
«Gli hanno sparato?»
«Dennis lo ha colpito e ancora non si sveglia. Mia sorella dice che ha bi-
sogno di un dottore, ma Dennis non vuole ascoltarla.»
«Sta sanguinando?»
«Ora non più. È solo che non si sveglia. Ho paura.»
«E tua sorella? Lei sta bene?»
«Gli chieda se sa dove si trovano gli ostaggi» disse Maddox.
Talley alzò una mano; il ragazzo stava ancora parlando, stava dicendo
qualcosa a proposito della sorella.
«Come hai detto, Thomas? Non ho capito. Lei sta bene?»
«Ho detto che non ha voluto venire via. Ho cercato di convincerla, ma
lei non ha voluto andarsene senza papà.»
Il capitano tirò Talley per un braccio.
«Può uscire? Gli chieda se può uscire.»
Talley annuì.
«Okay, Thomas, vi tireremo fuori di lì il più in fretta possibile, ma ora ti
voglio chiedere una cosa. Tu sei solo nella tua stanza al piano superiore,
giusto?»
«Sì.»
«Potresti calarti dalla finestra se noi fossimo sotto a prenderti?»
«Hanno bloccato le finestre con i chiodi. Ma anche se fossero libere, mi
vedrebbero.»
«Ti vedrebbero calarti dalla finestra anche se sei solo?»
«Abbiamo delle telecamere di sorveglianza. Mi potrebbero vedere sui
monitor che sono in camera dei miei. Vedrebbero anche voi se vi avvicina-
ste alla casa.»
«Okay, figliolo. Ancora una cosa. Dennis mi ha detto di avere della ben-
zina per dare fuoco alla casa. È vero?»
«C'è un secchio di benzina nell'ingresso. L'ho visto quando mi hanno
portato giù. Puzza.»
Talley udì un fruscio e poi la voce del ragazzo divenne un sussurro.
«Stanno venendo qui.»
«Thomas? Thomas, stai bene?»
Il ragazzo non c'era più.
«Cosa sta succedendo?» chiese il capitano Martin.
Talley rimase in ascolto, ma la linea era muta.
«Ha detto che stavano arrivando e ha chiuso la comunicazione.»
Laura Martin inspirò a fondo ed espirò facendo sibilare l'aria.
«Pensa che l'abbiano scoperto?»
Talley chiuse il telefono e lo mise via.
«Direi di no. Non mi sembrava in preda al panico, quindi non credo che
l'abbiano scoperto. Ha solo dovuto interrompere la telefonata.»
«Rooney diceva la verità a proposito della benzina?»
«Sì.»
«Merda. Questo è un problema. È un fottutissimo problema. Ci manca
solo un bel barbecue.»
«Ha detto anche che c'è un sistema di telecamere di sorveglianza. È così
che Rooney ha visto i suoi uomini avvicinarsi alla casa.»
Il capitano si rivolse a Ellison.
«Di' all'agente addetto all'intelligence di controllare le linee telefoniche
per vedere se c'è qualche collegamento dedicato. Potremmo riuscire a rin-
tracciare il provider e capire con chi abbiamo a che fare.»
Talley stava per informarlo che i suoi uomini avevano già controllato
senza trovare nulla, ma poi ci ripensò. Nella sua posizione, avrebbe verifi-
cato di nuovo.
«Dice che il padre è ferito. È per questo che ha chiamato, per dire che
suo padre ha bisogno di un medico.»
L'espressione di Laura Martin si fece cupa. Quella parte non l'aveva sen-
tita.
«Prima la benzina, adesso questo. Se quell'uomo è in imminente pericolo
di vita, potrebbe rendersi necessario tentare un'irruzione.»
Maddox si mosse, chiaramente a disagio.
«Come possiamo decidere un'irruzione sapendo che questo tizio ci vede,
e tiene pronta la benzina? Faremmo soltanto dei morti.»
«Se c'è qualcuno che sta morendo, non possiamo ignorarlo.»
Talley alzò le mani come se volesse dividerli.
«Il ragazzo non ha detto che sta morendo, solo che è ferito.»
Ripeté le parole precise usate da Thomas per descrivere le condizioni del
padre. Il capitano ascoltò, a capo chino, guardando ora Maddox ora Elli-
son, come per valutare le loro reazioni. Quando Talley ebbe concluso, an-
nuì.
«Be', non ci dice molto.»
«No.»
«Va bene, se non altro sappiamo che non si tratta di una ferita da arma
da fuoco. Smith non sta morendo dissanguato.»
«Sembra più un colpo alla testa.»
«Potrebbe essere un trauma cranico, ma non possiamo saperlo con cer-
tezza. Non possiamo certo richiamare Rooney per chiedergli di Smith. Po-
trebbe capire che uno dei ragazzi sta comunicando con l'esterno.»
Talley fu costretto a darle ragione.
«Dobbiamo proteggere il ragazzo. Se avrà occasione di richiamare, sono
certo che lo farà.»
Maddox annuì.
«La prossima volta che parlo con Rooney insisterò per sapere come
stanno gli ostaggi. Chissà, forse riuscirò a strappargli qualche informazio-
ne sul padre dei ragazzi.»
Convennero che per il momento la cosa migliore era lasciare che Roo-
ney e gli altri si calmassero.
«Se il ragazzo richiama, passerà attraverso il suo ufficio» disse il capita-
no, guardando Talley.
«Suppongo di sì. Deve essersi fatto dare il numero dal servizio informa-
zioni.»
Talley sapeva dove lei voleva arrivare.
«Farò in modo che in ufficio ci sia sempre qualcuno. Se il ragazzo si farà
vivo, mi rintracceranno e io vi avvertirò.»
Laura Martin guardò l'orologio e poi Maddox.
«Dobbiamo metterci al lavoro. Voglio che tu ed Ellison prendiate posi-
zione davanti alla casa, in modo da poter cominciare a martellare quegli
stronzi.»
Talley sapeva bene a cosa si riferiva: avrebbero mantenuto un livello di
rumore piuttosto alto, chiamando periodicamente Rooney nel corso della
notte per tenerlo sveglio. Avrebbero cercato di sfiancarlo impedendogli di
prendere sonno. A volte, se si riusciva a stancarli abbastanza, si arrendeva-
no.
Il capitano Martin si voltò verso Talley, questa volta con un'espressione
cordiale sul volto. Gli tese la mano e lui la strinse. La stretta di lei non era
più così forte come prima.
«La ringrazio per il suo aiuto, capo. Ha fatto un buon lavoro per tenere
la situazione sotto controllo.»
«Grazie, capitano.»
«Se vuole mettere in libertà i suoi uomini, adesso lo può fare. Mi servi-
rebbero quattro dei suoi per mantenere i contatti con i locali, ma a parte
questo siamo a posto. So che il suo Dipartimento non è molto numeroso.»
«È tutto suo, capitano. I miei numeri li ha tutti. Se ha bisogno, mi chia-
mi. In caso contrario, mi prenderò qualche ora di riposo e ci vediamo do-
mani mattina.»
«Siamo a posto.»
La donna gli rivolse un sorriso incerto, ma aggraziato, poi si allontanò.
Talley pensò che avesse difficoltà a sorridere; ma alla gente succede spes-
so, e per i motivi più sorprendenti. Maddox ed Ellison la seguirono.
Talley riportò la tazza del caffè in cucina, ringraziò la signora Pena per
l'ospitalità e andò alla sua auto. Informò Larry Anders degli ultimi svilup-
pi, quindi guardò l'ora, chiedendosi se Jane e Amanda stessero ancora ce-
nando o lo aspettassero a casa.
E poi si chiese perché mai Laura Martin gli avesse stretto la mano.
KEN SEYMORE
13
Venerdì, 20.46
JANE
14
Venerdì, 21.12
TALLEY
Il cielo era strano senza le luci rosse e verdi degli elicotteri. Talley spen-
se la radio di servizio e abbassò i finestrini, lasciandosi avvolgere dall'aria
dolce, ancora tiepida per il calore della terra e odorosa di yucca. Non era
più il suo show, quindi la radio non serviva. Aveva bisogno di pensare.
La strada si apriva davanti a lui, curvando fra le montagne, tempestata di
fari scintillanti che gli venivano incontro. Le ultime sei ore erano passate
in un lampo; ogni istante si era sovrapposto a quello precedente come le
auto in un tamponamento a catena, rincorrendosi con un'intensità che Tal-
ley non ricordava da tempo: in parte era paura, in parte euforia. Si scoprì a
passare in rassegna gli avvenimenti della giornata e dopo un po' si rese
conto che si era divertito. La cosa lo sorprese. Era come se una parte sopita
di lui si stesse risvegliando.
L'aria calda della notte gli riportò alla mente ricordi di Jane.
Erano andati in luna di miele nel deserto. Non subito dopo il matrimonio
- allora non avevano abbastanza soldi - ma in seguito, al termine dei suoi
sei mesi di prova. Si erano presi due giorni di ferie da attaccare a un fine
settimana, pensando di andare a Las Vegas. L'idea era quella di evitare il
caldo estivo mettendosi in viaggio dopo il tramonto, ma Las Vegas era
lontana, quattro ore di macchina. Si fermarono a metà strada per mangiare
qualcosa, una cittadina insignificante ai confini del deserto californiano, e
non proseguirono più. Quella notte, la suite della loro luna di miele fu la
stanza di un motel da venti dollari accanto all'autostrada; la cena una sem-
plice bistecca da Sizzler, dopodiché andarono a esplorare la città. Ora,
mentre guidava, Talley si rammentò del calore di quella sera; Jane lo aveva
spaventato - lui, il giovane e duro poliziotto della Swat - sporgendosi con il
tronco dal finestrino dell'auto e sedendosi sulla portiera mentre correvano
per le strade buie in mezzo al deserto.
Erano anni che Talley non ripensava a quei giorni, quasi fossero stati di-
spersi dentro di lui, e si sentì a disagio. Si chiese cos'altro potesse essersi
smarrito, insieme a quei ricordi.
Si infilò nel parcheggio del residence dove abitava. Trovò l'auto di Jane
nel primo dei due posti a lui assegnati e vi si fermò accanto. Rimase a fis-
sare il vialetto che portava al suo appartamento, preoccupato per la discus-
sione che li aspettava. Lei lo aveva invitato a prendere una decisione sul
loro futuro, e ora lui doveva affrontare il problema. Basta fuggire, basta
negare, basta scuse: poteva riuscire a trattenerla oppure perderla. Quella
sera si sarebbe deciso tutto.
Scendendo dall'auto, si accorse che il parcheggio era più buio del solito:
entrambe le luci di sicurezza erano spente. Talley stava chiudendo a chiave
la portiera quando una donna sbucò dal vialetto che portava al suo edificio.
«Capo Talley? Posso parlarle un attimo?»
Talley pensò che fosse una vicina. Quasi tutti i residenti del complesso
sapevano che era il capo della polizia, e spesso si rivolgevano a lui per e-
sporgli lamentele o problemi.
«È un po' tardi. Non può aspettare domani?»
Era attraente ma non bella, con un'espressione pulita ed efficiente, i ca-
pelli che le incorniciavano il volto. Non la riconobbe.
«Mi piacerebbe, capo, ma dobbiamo parlarne stasera.»
Talley udì un passo dietro di sé, il fruscio di una scarpa sulla ghiaia, poi
un braccio lo afferrò per la gola da dietro, sollevandolo. Qualcuno gli pun-
tò una pistola davanti alla faccia.
«La vedi? Vedi la pistola? Guardala.»
Talley tentò di afferrare il braccio che lo stava strangolando, ma quando
vide l'arma smise di lottare.
«Così va meglio. Vogliamo solo parlare, tutto qui, ma se mi costringi
t'ammazzo.»
Lo lasciarono andare. Qualcuno aprì di nuovo la portiera mentre qualcun
altro gli frugava sotto la giacca e intorno alla cintura.
«Dov'è la pistola?»
«Non la porto.»
«Stronzate. Dov'è?»
Le mani si spostarono alle caviglie.
«Non la porto. Sono il capo. Non mi serve.»
Lo spinsero al posto di guida. Talley vide delle ombre, ma non avrebbe
saputo dire quanti fossero: tre, o forse cinque. Qualcuno sul sedile poste-
riore mandò in frantumi la luce dell'abitacolo colpendola con la pistola,
quindi gli premette l'arma contro la nuca.
«Metti in moto e fai retromarcia. Vogliamo solo parlarti.»
«Chi siete?»
Talley fece per voltarsi, ma mani forti gli spinsero la testa in avanti. Sul
sedile posteriore c'erano due uomini con passamontagna e guanti neri.
«Metti la retromarcia.»
Talley fece come gli veniva ordinato. I fasci dei fari sferzarono il vialet-
to. La donna era scomparsa. Le luci posteriori rosse di un'auto attendevano
in fondo al parcheggio.
«Vedi quell'auto? Seguila. Non andremo lontano.»
Talley si avvicinò all'auto. Era una Ford Mustang ultimo modello, verde
scuro con il tettuccio rigido e targa della California. Talley si sforzò di
memorizzare il numero, 2KLX561, poi guardò nello specchietto retroviso-
re, mentre una seconda macchina si accodava subito dietro di lui.
«Chi siete?»
«Tu guida.»
«Ha a che fare con quanto sta succedendo?»
«Tu pensa solo a guidare. Il resto non ti interessa.»
La Mustang procedeva con cautela, diretta verso la strada principale, poi
imboccò la Flanders Road e proseguì fino a un piccolo centro commerciale
a meno di due chilometri di distanza. Tutti i negozi erano chiusi, il par-
cheggio deserto. Talley seguì l'auto in un vicolo sul retro; si fermò accanto
a un grosso contenitore per rifiuti.
«Avvicinati. Più vicino. Attaccato al paraurti.»
Talley urtò leggermente la Mustang.
«Spegni il motore e dammi le chiavi.»
Aveva conosciuto la paura, quando lavorava nelle unità tattiche della
Swat prima di diventare negoziatore, ma quella era una paura spersonaliz-
zata, la paura di andare in combattimento, alimentata dalla divisa che in-
dossavi, dalle armi, dal sostegno dei tuoi compagni. Questa paura era di-
versa, più vicina, più privata. La gente veniva assassinata in quel modo, e
poi i corpi finivano nei cassonetti.
«Dammi quella cazzo di chiave.»
Talley la tenne alzata, e una mano l'afferrò.
La portiera del passeggero si aprì e salì un terzo uomo, anche lui con
guanti e passamontagna. Indossava una giacca sportiva nera sopra i jeans e
una T-shirt grigia. La manica sinistra salì appena, scoprendo un Rolex d'o-
ro. L'uomo non era grosso, aveva una corporatura come quella di Talley,
alto più o meno uno e ottanta, magro. La pelle intorno agli occhi e alla
bocca era abbronzata. Teneva in mano un cellulare.
«Okay, capo, lo so che hai paura, ma ti assicuro che, a meno che tu non
faccia qualcosa di stupido, non ti faremo del male. Quindi controllati, d'ac-
cordo? Hai capito?»
Talley cercò di ricordare il numero di targa della Mustang. Era KLX o
KLS?
«Non mi guardare, capo. Dobbiamo proseguire.»
«Cosa volete?»
L'uomo fece un gesto con il telefono in direzione del sedile posteriore,
scoprendo nuovamente l'orologio. Mentalmente Talley lo soprannominò
"l'Uomo con l'orologio".
«Ora la persona dietro di te ti immobilizzerà. Non ti far prendere dal pa-
nico. È per il tuo bene. Okay? Vuole solo tenerti fermo.»
Il braccio gli serrò nuovamente la gola. Una mano gli afferrò il polso si-
nistro torcendoglielo dietro la schiena. Il secondo uomo lo prese per la de-
stra. Talley riusciva a malapena a respirare.
«Cosa significa?»
«Ascolta.»
L'Uomo con l'orologio gli accostò il telefono all'orecchio.
«Saluta.»
Talley non riusciva a immaginare chi fossero né cosa volessero. Si sen-
tiva la bocca come se fosse piena d'ovatta. Il telefono era freddo contro l'o-
recchio.
«Chi parla?»
«Jeff, sei tu?» disse la voce di Jane, scossa e spaventata.
Tailey cercò di liberarsi dal braccio che lo immobilizzava, lottando in-
vano. Passò qualche secondo prima che si rendesse conto che l'Uomo con
l'orologio gli stava parlando.
«Calmati, capo. Lo so, lo so. Ora ascolta, okay? Tua moglie sta bene.
Anche tua figlia sta bene. Calmati, respira a fondo e ascolta. Sei pronto?
Ricordati una cosa: da questo momento in poi dipende da te. Te solo. Tu
hai il controllo su quello che accade a loro. Vuoi sentirla di nuovo? Vuoi
parlarle? Chiederle se sta bene?»
Talley annuì contro il braccio che lo teneva fermo, e alla fine riuscì a
gracchiare: «Figlio di puttana».
«Brutto inizio, capo, ma ti capisco. Anch'io sono sposato. Fosse per me,
io vorrei che qualcuno se la prendesse, mia moglie, ma è solo un parere
personale. Ecco, tieni.»
L'Uomo con l'orologio gli avvicinò di nuovo il telefono all'orecchio.
«Jane?»
«Cosa succede, Jeff? Chi è questa gente?»
«Non lo so. Stai bene? E Mandy?»
«Jeff, ho paura.»
Jane stava piangendo.
L'Uomo con l'orologio riprese il cellulare.
«Ora basta.»
«Chi diavolo siete?»
«Possiamo lasciarti andare? Hai superato lo choc? Non farai qualcosa di
stupido, vero?»
L'Uomo con l'orologio lanciò un'occhiata verso il sedile posteriore e Tal-
ley fu libero. L'Uomo con l'orologio si avvicinò a lui, molto vicino, per
guardarlo dritto negli occhi.
«Walter Smith ha in casa due dischetti di computer che ci appartengono.
Non ti preoccupare del motivo per cui li vogliamo. Anzi, ti dirò di più, non
ti deve interessare. Ma ci servono, e tu farai in modo di lasciarceli recupe-
rare.»
Talley non capiva di cosa stesse parlando. Scosse la testa.
«Cosa significa?»
«Che tu avrai il controllo delle operazioni.»
«Non io, gli uomini dello sceriffo.»
«Non più. Ora è il tuo momento. Tu farai in modo che sia così, a qua-
lunque costo, perché nessuno, ripeto, nessuno, dovrà mettere piede in quel-
la casa finché non ci sono entrati i miei uomini.»
«Non sapete di cosa state parlando.»
L'Uomo con l'orologio sollevò un dito come se stesse per impartire una
lezione.
«Io so esattamente di cosa sto parlando. Ora è in corso un'azione coordi-
nata tra il Dipartimento di polizia di Bristo e l'Ufficio dello sceriffo. Tra un
paio d'ore un gruppo di miei uomini arriverà agli York Estates. Tu dirai a
tutti che sono una squadra tattica dell'Fbi. Lo sembreranno in tutto e per
tutto e sanno come comportarsi. Ora capisci dove voglio arrivare?»
«Non ho idea di cosa stia dicendo. Io non ho alcun controllo sulle opera-
zioni. Non ho potere su quello che accade in quella casa.»
«Allora sarà meglio che tu ti dia da fare. Tua moglie e tua figlia contano
su di te.»
Talley non sapeva cosa dire. Si infilò le mani sotto le cosce, cercando di
pensare.
«Cosa volete che faccia?»
«Tu prepari la scena per i miei uomini, poi ti fai da parte e aspetti istru-
zioni da me.»
L'Uomo con l'orologio gli porse il cellulare.
«Quando questo telefono squilla, tu rispondi. Sarò io. Ti dirò cosa fare.»
Talley rimase a fissare il telefono.
«Quando verrà il momento di entrare nella casa, i miei saranno i primi.
Niente, e intendo dire niente, verrà rimosso da quella casa se non dai miei
uomini. Hai capito bene?»
«Io non controllo i movimenti di quei ragazzi. Potrebbero essersi arresi
in questo momento, come invece aver cominciato a sparare. Oppure gli
uomini dello sceriffo potrebbero aver deciso di fare irruzione.»
L'Uomo con l'orologio lo colpì forte con una manata in piena fronte. La
testa di Talley volò all'indietro.
«Niente panico, capo. Tu dovresti saperlo. Quelli della Swat le sanno
queste cose. Il panico uccide.»
Talley strinse il cellulare con entrambe le mani.
«Okay. D'accordo.»
«Ti chiederai "cosa posso fare?". Sei un poliziotto, potresti pensare di
chiamare l'Fbi o di chiedere aiuto agli uomini dello sceriffo, perché mi
prendano prima che accada qualcosa a tua moglie e a tua figlia. Ma ricor-
dati questo: io ho degli uomini agli York Estates, proprio sotto il tuo naso,
gente che mi riferisce tutto quello che succede. Se ne parli con qualcuno,
se fai qualcosa di diverso da quello che ti dico io, ti restituiremo moglie e
figlia per posta. Ci siamo capiti?»
«Sì.»
«Quando avrò avuto ciò che voglio, loro verranno rilasciate. Di questo
puoi essere certo. Non sanno chi le ha rapite, propria come tu non sai chi
siamo noi. Meglio così.»
«Cos'è che volete? Dei dischetti di computer? Dove sono? In che punto
della casa?»
«Due dischetti, poco più grossi di quelli normali. Si chiamano zip, e por-
tano l'etichetta "Disco Uno" e "Disco Due". Finché non li troviamo non
sappiamo dove sono, ma Smith lo sa.»
L'uomo aprì la portiera, poi si fermò e si voltò a guardare il cellulare.
«Rispondi quando squilla, capo.»
Le chiavi dell'auto gli caddero in grembo. Le portiere si aprirono e si ri-
chiusero e lui restò solo nel vicolo dietro il piccolo centro commerciale in
mezzo al nulla. La Mustang si allontanò. La seconda macchina partì in re-
tromarcia, rombando. Talley rimase seduto al volante, ansimante, incapace
di muoversi, sentendosi al di fuori del proprio corpo, come se tutto fosse
successo a qualcun altro.
Afferrò le chiavi, mise in moto e girò con forza il volante, schiacciando
l'acceleratore a tavoletta e facendo schizzare ghiaia tutt'intorno. Accese lu-
ci e sirena, su codice tre, tornando a tutta velocità al suo appartamento.
Parcheggiò a casaccio, con i lampeggianti accesi, e corse dentro come se
loro potessero essere sedute lì ad aspettarlo, e quanto era accaduto fosse
frutto di un'allucinazione.
L'appartamento era vuoto, il silenzio assordante. Le chiamò, non sapen-
do cos'altro fare.
«Jane! Amanda!»
L'unico segno della loro presenza erano le chiavi dell'auto di Jane, posa-
te in bella vista sul tavolo in soggiorno, piccole e fredde, lasciate lì come
avvertimento.
JENNIFER
15
Venerdì, 23.02
TALLEY
Gli uomini dello sceriffo avevano installato una linea telefonica dedicata
per Maddox ed Ellison. Utilizzava un collegamento cellulare tra l'auto di
Maddox e la postazione mobile di comando, e da lì si connetteva alla linea
telefonica fissa di Smith. Forniva ai negoziatori la libertà di movimento di
un telefono cellulare e nello stesso tempo permetteva che le conversazioni
venissero registrate dall'apparecchiatura sul furgone. Il capitano Martin,
Hicks e chiunque altro si trovasse a bordo potevano ascoltare ogni parola.
E questo a Talley non andava bene.
Estrasse il suo cellulare, ma aveva dimenticato il numero di Smith e fu
costretto a chiederlo.
«Abbiamo la nostra linea» obiettò Maddox, perplesso.
Talley lo ignorò.
«Mi sento più a mio agio con questo. Ha il numero?»
A meno che gli uomini dello sceriffo non avessero dato altre disposizio-
ni, il telefono degli Smith avrebbe dovuto ancora accettare le chiamate dal
suo cellulare. Ellison gli dettò il numero, mentre Maddox restava a osser-
varlo. Talley sapeva che lui trovava strana la cosa, ma non se ne curò.
«Perché fa questo?»
«Cosa?»
«Così, all'improvviso, chiama il soggetto. Ogni telefonata ha un suo
scopo ben preciso. Perché?»
Talley si interruppe e cercò di riordinare le idee. Aveva cominciato a nu-
trire un certo rispetto per Maddox e avrebbe voluto dirgli la verità, ma la
paura non glielo permetteva. Lui voleva Smith. Smith era il collegamento
con le persone che avevano preso sua moglie e sua figlia. Osservò la casa e
immaginò ciò che poteva esserci dall'altro lato della porta, poi tornò a
guardare verso Maddox. Doveva dire qualcosa per portare quell'uomo dal-
la sua parte.
«Ho paura che Smith sia morto. Credo di poter convincere Rooney a
dircelo senza fargli capire che il ragazzino ci ha chiamato.»
«Se è morto, Rooney non ci dirà una parola, e poi il ragazzino ce l'a-
vrebbe detto.»
«Allora cosa facciamo, Maddox? Vuole fare irruzione?»
Maddox sostenne il suo sguardo, poi si voltò a guardare la casa e annuì.
«D'accordo.»
Talley digitò il numero e attese che il telefono nella casa squillasse. Il
davanti e i lati dell'edificio erano illuminati a giorno dai riflettori sistemati
dagli uomini dello sceriffo, un bagliore così accecante che la casa sembra-
va quasi priva di colore. Smisurate ombre scure si allungavano sul prato
come pietre tombali. Il telefono fece quattro lunghi squilli prima che Roo-
ney rispondesse.
«Sei tu, Talley? Ti ho visto arrivare.»
Per la durata di tre lunghi battiti Talley non disse nulla. Non gli era mai
accaduto, ma ci volle tutto quel tempo per riuscire a calmare l'ansia che, lo
sapeva, sarebbe trapelata dalla sua voce. Non poteva permettersi alcuna
debolezza, niente che potesse avvisare Rooney o metterlo in guardia.
«Talley?»
«Ciao, Dennis. Eri nello studio? Ci stavi guardando?»
I listelli delle veneziane si aprirono per un attimo e si richiusero.
«Già, suppongo di sì. Ti sono mancato?» continuò Talley.
«Non mi piace quel tizio nuovo, quel Maddox. È convinto che io sia un
idiota, mi chiama ogni quindici minuti, fingendo di volersi assicurare che
stiamo bene, ma lo fa solo per tenerci svegli. Non sono stupido.»
Adesso che era di nuovo al telefono, Talley cominciò a calmarsi. Poche
ore prima aveva odiato quella situazione, ma ora la sensazione familiare
gli dava forza: lui, il telefono e il soggetto, un piccolo mondo a sé stante in
cui lui giocava una partita contro una voce all'altro capo del filo. Fu sor-
preso di provare quella sicurezza che non conosceva più da anni, la sensa-
zione profonda di poter controllare almeno quel mondo. Alzò lo sguardo
verso gli elicotteri. Angeli rossi e verdi.
«Sono tornato, stasera, perché qua abbiamo un problema.»
Come Talley aveva previsto, Rooney esitò. Stava pensando. Talley sa-
peva che ciò che stava per dire avrebbe sorpreso Maddox ed Ellison, quin-
di si voltò verso di loro e si portò un dito alle labbra. Poi si accinse a riem-
pire il silenzio lasciato da Rooney, assumendo un tono fermo, serio e deci-
so.
«Ho bisogno che tu mi faccia parlare con il signor Smith.»
«Ne abbiamo già discusso, Talley. Lascia perdere.»
«Questa volta non posso lasciar perdere, Dennis. Le persone qua fuori,
gli uomini dello sceriffo, sono convinti che tu non voglia farmi parlare con
il signor Smith o con i suoi figli perché sono morti. Pensano che tu li abbia
ammazzati.»
«Stronzate!»
Maddox ed Ellison si avvicinarono, tenendo gli occhi puntati su di lui.
Talley avvertì su di sé il peso dei loro sguardi, ma li ignorò.
«Se non mi fai parlare con il signor Smith, loro daranno per scontato che
sia morto e faranno irruzione nella casa.»
Rooney si mise a imprecare, a urlare che sarebbero morti tutti e che la
casa sarebbe bruciata. Talley si aspettava una reazione del genere, e lasciò
che Rooney si sfogasse.
Maddox lo afferrò per un braccio.
«Cosa diavolo sta dicendo? Non può dire una cosa del genere!»
Talley alzò una mano, facendogli cenno di allontanarsi. Attese un mo-
mento di tregua nello sproloquio di Rooney.
«Dennis? Dennis, ti dico subito che io ti credo, ma loro no. Non dipende
da me, figliolo. Io ti credo. Ma se non mi dai qualcosa per convincerli,
questi entrano. Fammi parlare con lui, Dennis.»
Talley stava correndo un grosso rischio. Se Smith era cosciente e in gra-
do di parlare, Rooney avrebbe davvero potuto passarglielo. In quel caso,
Talley avrebbe comunque cercato di ottenere delle informazioni sugli uo-
mini con il passamontagna, ma sapeva che le probabilità di riuscirci erano
minime. L'unica sua speranza era che Smith fosse ancora privo di co-
noscenza. Se Rooney lo avesse ammesso, lui poteva tentare di convincerlo
a liberarlo.
«Vaffanculo tu e anche loro!» urlò Rooney. «Se cercate di entrare qua
dentro, faccio fuori i ragazzi!»
«Lascia che gli parli, Dennis. Per favore. Sono convinti che lui sia morto
e faranno irruzione.»
«MERDA!!» urlò Rooney.
Talley avvertì la frustrazione nella sua voce. Attese. Rooney rimase in
silenzio: significava che stava pensando; non poteva chiamare Smith al te-
lefono, ma aveva paura di ammettere che l'uomo era ferito. Talley provò
un moto di eccitazione, ma non lo diede a vedere. Ammorbidi il tono della
voce, cercando di apparire comprensivo e disponibile. Siamo sulla stessa
barca, amico.
«C'è qualcosa che non va, Dennis? C'è un motivo per cui non puoi pas-
sarmi Smith?»
Rooney non rispose.
«Parlami, Dennis.»
Rooney ci mise almeno un minuto prima di rispondere.
«Ha preso un colpo in testa. Non si sveglia.»
Talley si guardò bene dal chiedergli come fosse successo. Sarebbe solo
servito a mettere Rooney sulla difensiva e lui questo non lo voleva. Ormai
il ghiaccio era rotto: avrebbe cercato di farsi consegnare Smith. Maddox
continuava a osservarlo, un'espressione interrogativa sul volto. Talley an-
nuì, arrivando al punto: ripeté l'ammissione a beneficio di Maddox.
«Allora mi stai dicendo che è privo di sensi. Va bene, sono felice che tu
me l'abbia detto, Dennis. Questo spiega un sacco di cose. Ora potremo oc-
cuparcene noi.»
«Sarà meglio che non tentino di entrare qui dentro.»
"Tentino". Non "tentiate".
«Credo che riusciremo a trovare una soluzione, Dennis. Si tratta di una
ferita alla testa? Non ti sto chiedendo come è successo. Voglio solo sapere
cos'ha.»
«È stato un incidente.»
«Respira?»
«Sì, ma è svenuto. Non parla.»
Ora Talley doveva passare alla mossa successiva. Doveva entrare nella
casa, oppure far uscire Smith.
«Dennis, ora capisco perché non potevi passarmelo, ma c'è un uomo che
ha bisogno di essere portato in ospedale. Lascia che venga a prenderlo.»
«Col cazzo! Lo so cosa farete, bastardi! Assalterete la casa.»
Rooney era spaventato. Terrorizzato.
«No. Non lo faremo.»
«Va' a farti fottere. Tu qui dentro non ci vieni!»
Talley insistette. Sapeva che avrebbe potuto suggerire di mandare un
medico o un paramedico, ma non voleva che nessuno entrasse in quella ca-
sa. Voleva che Walter Smith uscisse.
«Se non ti va di lasciarci entrare, mettilo fuori, davanti alla porta.»
«Non sono così stupido! Non ho intenzione di uscire da quella porta con
tutti i cecchini che avete là fuori!»
Talley avvertì un movimento al suo fianco. Maddox ed Ellison. Sentì
Maddox attivare la sua radio e ordinare a qualcuno di mandare un'ambu-
lanza.
«Non ti sparerà nessuno. Tu mettilo fuori e noi verremo a prenderlo. Se
gli salvi la vita, Dennis, questo ti aiuterà in tribunale.»
«No!»
«Non serve altro, Dennis. Mettilo fuori.»
«NO!» urlò nuovamente Rooney, a voce più alta.
«Salvalo.»
«No!»
«Aiutami ad aiutarti.»
Rooney sbatté giù il telefono.
«Dennis?»
Niente. Rooney non c'era più.
«DENNIS?!»
Maddox ed Ellison lo fissavano, immobili. Aspettavano.
«Allora?»
Talley c'era andato vicinissimo, ma aveva chiesto troppo. Aveva insistito
troppo. E aveva perso.
DENNIS
TALLEY
16
Venerdì, 23.19
TALLEY
Il capitano Martin gli stava appresso come una vespa arrabbiata. Era a
bordo dell'ambulanza insieme a un medico del pronto soccorso del Canyon
Country Hospital di nome Klaus.
«Indossi un giubbotto antiproiettile. Anche a torso nudo. Lui vedrà che
non è armato.»
«L'accordo è che saremmo stati svestiti. Non voglio innervosirlo» ribadì
Talley.
Klaus era un uomo giovane e magro, con occhiali dalla montatura nera.
Si presentò, stringendo la mano a Talley.
«Mi hanno detto che abbiamo un trauma cranico e possibili ferite da ar-
ma da fuoco.»
«Speriamo di no, dottore.»
Klaus sorrise, imbarazzato.
«Immagino che abbiano mandato me perché ho fatto due anni al Martin
Luther King, a Los Angeles. Se ne vedono di tutti i colori, laggiù.»
Uno dei paramedici, un uomo sovrappeso di nome Bigelow, si era offer-
to di andare con Talley. Ed eccolo scendere dall'ambulanza nella luce fioca
dietro la linea del fronte, con indosso soltanto dei boxer a righe, un paio di
grosse scarpe da paramedico e calzettoni neri al ginocchio. Il compagno di
Bigelow, una donna di nome Colby, portava la barella.
«È pronto?» chiese Talley.
«Sì, signore. Prontissimo.»
Il capitano Laura Martin sembrava seccata.
«Sa che è una cosa stupida accettare condizioni del genere. Lei era nella
Swat. Sa bene che non ci si deve mai esporre senza un'adeguata protezio-
ne. Potremmo ritrovarci con altri due morti.»
«Lo so.»
Talley non fece parola dell'asilo nido. Avvolse la felpa intorno alla Colt
e la lasciò insieme agli altri abiti sul sedile posteriore dell'auto di Maddox,
quindi raggiunse Bigelow. Voleva agire prima che Rooney cambiasse idea.
Chiamò la casa con il cellulare. Rooney rispose al primo squillo.
«Okay, Dennis. Portalo fuori. Siamo svestiti, quindi puoi vedere che
siamo disarmati. Aspetteremo sul vialetto. Non ci avvicineremo alla casa
finché tu non avrai richiuso la porta.»
Rooney riattaccò senza rispondere.
«Non mi piace. Dovrebbe essere una squadra tattica a recuperare que-
st'uomo» disse il capitano Martin.
Talley la ignorò e lanciò un'occhiata a Bigelow.
«Eccoci qua. All'andata starò davanti io. Quando lo avremo caricato sul-
la barella, starò dietro. D'accordo?»
«Non è necessario.»
«Va bene così.»
Talley e Bigelow uscirono da dietro l'auto e si fermarono in piena luce.
Era come entrare in un mondo accecante. Figure indistinte si mossero al-
l'imbocco del vialetto e poi si fermarono, in attesa. Talley capiva che Bige-
low aveva paura; probabilmente le parole di Laura Martin lo avevano spa-
ventato.
«Andrà tutto bene.»
«Oh, certo. Lo so.»
«Pensi che figura da scemi se mettono la nostra foto sul giornale.»
Bigelow sorrise nervoso.
Talley fissò la casa. Le tapparelle si aprirono appena, come un occhio
che si socchiude. Doveva essere Rooney, per accertarsi che non avessero
armi. La porta si aprì di qualche centimetro, poi un po' di più. Talley av-
vertì il cambiamento nella linea di agenti alle sue spalle: neppure uno scal-
piccio, nessuno che si schiarisse la voce, non un colpo di tosse. Il rumore
degli elicotteri cambiò di tono e un fascio di luce investì la porta, senza
aggiungere nulla al bagliore accecante dei riflettori. Non era Dennis Roo-
ney. Kevin e Mars Krupchek uscirono con andatura goffa e ondeggiante,
portando Smith. Lo deposero a terra, a circa due metri dalla porta, quindi
rientrarono in casa.
«Okay, andiamo.»
Talley andò dritto verso Walter Smith. Era un uomo di mezza età, con
una maglietta Polo, jeans sbiaditi e scarpe da ginnastica; e c'erano persone
disposte a uccidere Jane e Amanda per qualcosa che quest'uomo teneva in
casa sua. La ferita alla tempia era visibile dall'imbocco del vialetto.
«Mi lasci inginocchiare vicino alla testa» disse Bigelow.
Talley si fece da parte, lasciando che il paramedico aprisse la barella e la
bloccasse in posizione. Si sforzò di non guardare verso la casa. Teneva gli
occhi puntati su Smith. Cercava qualche indicazione che si stesse sve-
gliando, ma la profondità del sonno lo spaventò. L'uomo era scosso da
tremiti che parevano partire dall'interno del suo corpo, e Talley ebbe paura
che fosse in coma.
«Cosa gliene pare?»
Bigelow sollevò una palpebra, puntò una pila sottile nell'occhio di Smith
e rispose con un grugnito. «Di sicuro ha una brutta commozione cerebra-
le.»
Bigelow gli tastò il collo, alla ricerca di lesioni cervicali, e parve soddi-
sfatto di quanto aveva appurato.
«Okay. Siamo fortunati. Non c'è bisogno di collare. Io gli sostengo la te-
sta e le spalle, lei lo sollevi prendendolo tra le anche e le ginocchia. Sarà
più pesante di quanto possa pensare, quindi stia pronto. Al mio tre. Tre.»
Lo fecero scivolare sulla barella. Bigelow si accingeva a legarlo con una
cintura sul petto, ma Talley lo fermò.
«Lasci perdere. Portiamolo via di qui finché possiamo.»
Puntarono dritto verso il marciapiede e poi sulla strada, dentro la luce.
Furono subito circondati dalla squadra tattica di Hicks. Klaus corse imme-
diatamente alla barella, gridando a Bigelow: «Perché non gli ha messo il
collare?».
«Non ho visto alcun segno di lesione cervicale.»
«Avrebbe dovuto metterglielo comunque.»
Colby prese il posto di Talley per aiutare Bigelow. Ellison portò i vestiti
e Talley indossò i pantaloni mentre caricavano Smith sull'ambulanza. Tal-
ley seguì Klaus all'interno del mezzo.
«Devo parlargli.»
«Un momento.»
Se prima Klaus era parso timido e imbarazzato, adesso appariva molto
concentrato e deciso. Sollevò una palpebra al ferito e gli puntò la torcia
nell'occhio, come aveva fatto Bigelow. Poi ripeté la manovra con l'altro
occhio.
«Abbiamo una reazione pupillare disuguale. Nella migliore delle ipotesi
si tratta di un grave trauma cranico, ma potrebbe anche esserci una lesione
cerebrale. Per saperlo dobbiamo fare i raggi e una Tac.»
«Lo svegli. Ho bisogno di parlargli.»
Klaus continuò a darsi da fare. Controllò il polso di Smith.
«Non ho nessuna intenzione di svegliare quest'uomo» ribatté.
«Ho bisogno di parlargli solo per pochi minuti. È per questo che sono
andato a prenderlo.»
Klaus premette lo stetoscopio contro il collo del ferito.
«Quest'uomo va portato in ospedale. Potrebbe avere un ematoma intra-
cranico o una frattura, oppure entrambe le cose. Se dovesse verificarsi un
aumento della pressione endocranica potrebbe morire.»
Talley si sporse oltre Klaus. Prese Smith per il viso e lo scosse.
«Smith! Si svegli!»
Klaus gli afferrò la mano cercando di allontanarla.
«Che cazzo sta facendo? Lo lasci stare!»
Talley lo scosse ancora più forte.
«Svegliati, maledizione!»
Le palpebre di Smith sbatterono, una più aperta dell'altra. Ma pareva che
l'uomo non lo vedesse e così Talley gli andò ancora più vicino. Sembrò
che gli occhi mettessero a fuoco.
«Chi sei?» disse Talley.
Klaus lo spinse via.
«Lo lasci stare. Io la denuncio, figlio di puttana.»
Gli occhi di Smith si annebbiarono e si richiusero. Talley afferrò Klaus
per il braccio, cercando di convincerlo.
«Usi i sali, gli faccia un'iniezione, quello che vuole. Ho bisogno solo di
un minuto.»
Colby mise in moto e Talley batté la mano contro il divisorio, urlando:
«Ferma!».
Klaus e Bigelow si voltarono a guardarlo. Klaus abbassò lentamente lo
sguardo sulla mano di Talley, che gli stringeva forte il braccio.
«Non ho intenzione di svegliarlo. Non so neppure se sia possibile. E ora
mi lasci andare.»
«Ma stiamo parlando di altre vite. Vite innocenti. Ho solo bisogno di
fargli qualche domanda.»
«Mi lasci andare.»
Talley fissò gli occhi duri e implacabili del dottore, il viso e il collo con-
tratti per la tensione. Continuava a stringergli il braccio, pensando alla Colt
avvolta nella felpa.
«Solo una domanda, la prego.»
Gli occhi duri non mostrarono alcuna pietà.
«Non può risponderle.»
Talley fissò il corpo immobile di Smith. Vicino. Così vicino.
Klaus abbassò nuovamente lo sguardo sul braccio che Talley continuava
a stringere spasmodicamente.
«Mi lasci andare, maledizione! Devo portare quest'uomo in ospedale.»
Il capitano Martin osservava la scena dal portellone aperto, con Ellison e
Metzger accanto. Talley mollò la presa.
«Quando si sveglierà?»
«Non so se si sveglierà. In presenza di un'emorragia tra cranio e cervel-
lo, la pressione può aumentare al punto da causare la morte cerebrale. Per
ora non sono in grado di dirle niente. E ora si sieda o scenda, ma ci lasci
andare.»
Talley guardò un'ultima volta il viso di Smith, sentendosi impotente.
Scese dall'ambulanza e prese da parte Metzger.
«Chi c'è qui, dei nostri uomini?»
«Jorgy. Credo che Campbell sia ancora...»
«Allora, Jorgenson resta qui. Voglio invece che tu non abbandoni mai
quest'uomo. Voglio sapere l'istante, e intendo dire l'istante esatto, in cui si
sveglia.»
Metzger si voltò, attivando il microfono appuntato sulla spalla per co-
municare con Jorgenson.
Talley andò all'auto di Maddox per rivestirsi e recuperare tutta la sua ro-
ba. Ansimava. Era teso, furibondo. Aveva messo a repentaglio la vita di
tutti, e Smith era comunque irraggiungibile. Non poteva parlare. Rimase a
fissare la casa. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non c'era nulla da fare.
Talley provava un odio così feroce nei confronti di Dennis Rooney che
avrebbe voluto ucciderlo.
Si voltò e vide che Laura Martin lo stava osservando. Non gliene impor-
tava nulla.
DENNIS
«Dennis?»
Dennis si asciugò gli occhi e scese dallo sgabello.
«Sta' zitto, Kevin. Io non me ne vado da qui senza soldi.»
Dennis tornò nello studio e staccò il telefono dalla presa. Era inutile par-
lare con la polizia se non sapeva cosa dire. Lui voleva i soldi.
SEYMORE
Il furgone del notiziario di Channel Eight era fermo sul limitare del par-
cheggio deserto. Il reporter era un ragazzo effeminato sui venticinque anni,
che si esaltava nel dire a tutti che frequentava la University of South Cali-
fornia. Trojan di qui, Trojan di là, anche Dio apparteneva alla squadra
sportiva dell'università. Per Seymore, Trojan era solo una marca di preser-
vativi, ma si guardò bene dal dirglielo. I giornalisti non avevano fatto altro
che lamentarsi tutta la sera che non c'erano gabinetti; la polizia locale ave-
va promesso di farne arrivare uno portatile al più presto, ma per il momen-
to non si era ancora visto.
Seymore chiese al tizio se poteva andare dietro il loro furgone per "cam-
biare l'acqua al canarino".
Il ragazzo rise. Certo che poteva andare, ma che stesse attento a dove
metteva i piedi, perché non era il primo ad andare là dietro. Testa di cazzo.
Doveva essere uno che ordinava "chocolate martini".
Seymore andò dietro il furgone, dove nessuno poteva vederlo, e si fece
due cucchiaini di roba. Gli andò alla testa come un getto d'aria gelida e gli
fece bruciare gli occhi, ma aiutava a restare sveglio. Erano le undici passa-
te e ormai erano tutti lì da ore. Seymore notò che la bella giornalista orien-
tale continuava a entrare e uscire dal suo SUV e aveva un bel paio di narici
dilatate. Quel posto sembrava una convention della Hoover.
Uscendo da dietro il furgone, Seymore vide la reporter di Channel Eight
parlottare con il responsabile della troupe e il cameraman, un uomo con le
braccia muscolose. Parevano molto eccitati.
«Grazie, amico» disse Seymore.
Figurati. Hai sentito? Dalla casa ne stanno portando via uno.»
Seymore si bloccò.
«Davvero?»
«Credo che sia il padre. È ferito.»
Si udì una sirena, e tutti capirono che si trattava dell'ambulanza. Ogni
troupe presente si precipitò in strada nella speranza di riprendere qualcosa,
ma l'ambulanza imboccò un'altra uscita. Il suono della sirena si fece più
forte e poi pian piano svanì.
Il telefono di Seymore squillò proprio mentre l'urlo della sirena scema-
va. Rispose allontanandosi dai reporter, abbassando la voce, ma incapace
di nascondere la propria irritazione. Sapeva già chi era. Partì subito all'at-
tacco.
«Perché cazzo devo venire a saperlo da un giornalista? Quello stronzo di
Smith esce, perdio, e io sono l'ultimo a saperlo?»
«Pensi che possa attaccarmi al telefono ogni volta che voglio? Guarda
che sono esposto. Devo stare attento.»
«D'accordo. D'accordo. Allora, dimmi, ha parlato? Il tizio, qui, dice che
era ferito.»
«Non lo so. Non sono riuscito ad avvicinarmi abbastanza.»
«Aveva i dischetti?»
«Non lo so.»
Seymore sentì che stava per perdere la pazienza. Casini come quello po-
tevano costargli il culo.
«Se c'è qualcuno che dovrebbe saperlo, quel qualcuno sei tu, accidenti.
Che cazzo ti paghiamo a fare?»
«Lo stanno portando al Canyon Country Hospital. Va' a farti fottere.»
La comunicazione si interruppe.
Seymore non aveva tempo per incazzarsi. Chiamò Glen Howell.
Parte terza
LA TESTA
17
Venerdì, 23.36
Pearblossom, California
MIKKELSON E DREYER
18
Venerdì, 23.40
Santa Clarita, California
HOWELL
Howell prese tre stanze al Comfort Inn, tutte situate sul retro del motel e
con ingresso direttamente dall'esterno. In una c'era Marion Clewes, che fa-
ceva la guardia alla donna e alla ragazza. Le avevano legate mani e piedi, e
messo del nastro adesivo su occhi e bocca. Dopo essere andato a controlla-
re che fosse tutto a posto, Howell se n'era tornato nella sua stanza, anche se
puzzava di detergenti e moquette nuova. Non gli piaceva stare vicino a
Clewes.
Era seduto sul letto quando ricevette la telefonata di Ken Seymore. Co-
me seppe che Walter Smith era stato portato via dalla casa, gli parve che il
cuore volesse schizzargli dal petto.
«La polizia è entrata? Che cazzo sta succedendo?»
«Non è entrato nessuno. È solo uscito Smith.»
«Se n'è uscito, così?»
«Lo hanno portato fuori. È messo male. Uno degli stronzi là dentro deve
averlo picchiato per bene. L'hanno caricato su un'ambulanza.»
Howell rimase in silenzio per un attimo, a riflettere. Che Smith fosse u-
scito ma i suoi figli rimanessero ancora dentro era un problema. E anche il
fatto che lo stessero portando in un ospedale, dove lo avrebbero imbottito
di stupefacenti, era un problema.
«È uscito qualcos'altro, dalla casa?»
«Niente, secondo i giornalisti.»
Howell riattaccò e chiese subito al servizio informazioni il numero di te-
lefono e l'indirizzo del Canyon Country Hospital, quindi chiamò l'ospedale
per avere indicazioni sul percorso uscendo dall'autostrada. Fece un ulterio-
re controllo sulla sua Thomas Guide, poi chiamò Palm Springs con il cellu-
lare.
Rispose Phil Tuzee. Howell lo mise al corrente degli sviluppi, quindi at-
tese che Tuzee riferisse agli altri. Sonny Benza venne al telefono.
«Va di male in peggio, Glen.»
«Lo so.»
«Aveva i dischetti con sé?»
«Non lo so, Sonny. Me l'hanno detto due minuti fa. È appena successo.
Mando subito una persona.»
«Scopri se ha i dischetti e vedi se ha parlato con qualcuno. Speriamo di
no. I figli sono ancora nella casa?»
«Già.»
«Figlio di puttana.»
Howell sapeva che tutti stavano pensando la stessa cosa: un uomo che
cerca disperatamente di salvare i propri figli è pronto a raccontare qualun-
que cosa. Howell tentò di sembrare ottimista.
«Dicono che è messo parecchio male. Non ne sono certo, Sonny, ma se è
privo di conoscenza non c'è pericolo. I giornalisti qui parlano di commo-
zione cerebrale e di possibili lesioni al cervello. Dicono che è in coma.»
«Senti, non azzardare ipotesi se non sei sicuro. Con i "si dice" mi ci pu-
lisco il culo. Tu resta al tuo posto, mantieni il controllo e occupati della co-
sa.»
«È quello che sto facendo.»
«È per questo che quegli stronzi lo hanno lasciato andare, perché è feri-
to? Chissà, con un po' di fortuna potrebbe anche lasciarci la pelle.»
«È stato Talley a convincerli a mollarlo.»
«Sai una cosa, Glen? Non mi pare che tu abbia il controllo della situa-
zione. A me pare che le cose siano del tutto fuori dal tuo controllo. Devo
venire lì io?»
«Assolutamente no, Sonny. È tutto a posto.»
«Io voglio quei fottutissimi dischetti.»
«Certo.»
«Non voglio che Smith parli. Con nessuno. Mi sono spiegato bene?»
«Sì.»
«Hai capito cosa sto dicendo?»
«Sì.»
«Okay.»
Benza riattaccò. Era una decisione che spettava a loro e loro l'avevano
presa. Howell alzò il ricevitore e chiamò la stanza vicina.
«Vieni qui subito. Ho un lavoro per te.»
19
Venerdì, 23.52
TALLEY
Talley guardò l'ora, poi tirò fuori il Nokia dell'Uomo con l'orologio e
controllò il livello di carica della batteria. Gli balenò per la mente un pen-
siero folle: lui che puntava una pistola alla tempia del medico, minaccian-
dolo. Smith sapeva chi c'era, dietro a tutto questo. Sapeva chi aveva rapito
la sua famiglia. Talley camminava avanti e indietro all'imbocco del cul-de-
sac, la mente un caleidoscopio di pensieri: Amanda, Jane, Rooney. Mad-
dox ed Ellison avevano ripreso a telefonare, ma Dennis si rifiutava di ri-
spondere alle loro chiamate e aveva staccato l'apparecchio. Talley sentiva
che Dennis si stava preparando a qualcosa, ma non sapeva cosa.
Quando udì lo squillo del cellulare, Talley pensò che si trattasse del No-
kia, e invece era la sua linea privata.
«Capo? È solo?» Era Larry Anders. Parlava a voce bassa, come se cer-
casse di non farsi sentire. Anche Talley l'abbassò, nonostante non ci fosse
nessuno vicino a lui.
«Dimmi, Larry.»
«Sono con Cooper nell'ufficio del capo settore urbanistica. Ragazzi, co-
m'era incazzato! Non voleva alzarsi.»
Talley tirò fuori il taccuino.
«Prima dimmi del cellulare. Hai già controllato?»
«Ho dovuto farmi dare un telefonico per quello. Non è sull'elenco e la
compagnia dei telefoni non voleva passarmi le informazioni.»
Il "telefonico" significava che Anders era stato costretto a ottenere un
mandato per telefono.
«Okay.»
«Il numero è intestato alla Rohiprani Bakmanifelsu & Associates. È una
ditta di gioiellieri di Beverly Hills. Vuole che cerchi di contattarli?»
«Lascia perdere. Non porterebbe a nulla.»
Talley aveva già capito che il numero di cellulare era stato clonato. Ma
visto che la Bakmanifelsu non l'aveva ancora disattivato, voleva dire che
non l'aveva ancora scoperto. Probabilmente il numero era stato clonato do-
po l'emissione dell'ultima bolletta.
«E la Mustang?»
«Niente, capo. Ho controllato i dati sui modelli degli ultimi due anni. Ho
trovato sedici denunce di auto rubate e non ancora ritrovate, ma nessuna
era verde.»
«Qualcuna rubata oggi?»
«No, signore. Neppure nell'ultimo mese.»
Talley lasciò perdere.
«Okay. Ora le licenze edilizie.»
«Non riusciamo a trovarle, ma forse non ci servono. Il responsabile del-
l'ufficio urbanistica conosce l'impresario che ha costruito gli York Estates,
un certo Clive Briggs. Prima, lì c'erano solo campi di avocado.»
«Va' avanti.»
«Gli ho appena parlato per telefono. Dice che il costruttore della casa
degli Smith potrebbe trovarsi a Terminal Island.»
Terminal Island era il carcere federale di San Pedro.
«Potrebbe?»
«Briggs non lo sa di sicuro, ma gli sembra di ricordare il costruttore. Si
chiamava Lloyd Cunz. Briggs se lo ricorda perché gli piaceva così tanto
come lavorava questo tizio, che aveva cercato di assoldarlo per un altro
complesso che aveva in programma, ma Cunz aveva rifiutato. La sede del-
la ditta era a Palm Springs, gli aveva risposto, e lui non voleva prendere al-
tri lavori così lontano.»
«Veniva da Palm Springs?»
«Non solo l'imprenditore, anche tutti gli operai: carpentieri, muratori, i-
draulici, elettricisti, tutta la banda. Non aveva assunto nessuno sul posto.
Diceva che voleva essere sicuro della qualità del lavoro. Tre o quattro anni
dopo, Briggs aveva cercato nuovamente di affidargli un cantiere ed era ve-
nuto a sapere che Cunz era stato accusato di contrabbando e attività di ra-
cket. Aveva cessato l'attività.»
Talley sapeva che un costruttore non si porta dietro un'intera squadra di
operai da così lontano a meno che non stia costruendo qualcosa di cui la
gente del posto non deve sapere nulla. Talley si stava facendo un'idea della
situazione: crimine organizzato.
«Hai già passato il nome di Cunz al computer?»
«Sono ancora qui, dal capo settore urbanistica.»
«Quando torni in ufficio fallo, e guarda se trovi qualcosa.»
«Pensa che questa gente appartenga alla mafia, vero?»
«Sì, Larry. Proprio così. Fammi sapere cosa trovi.»
«Non ne parlerò con nessuno.»
«Ecco. Bravo.»
Talley chiuse il telefono e rimase a fissare il cul-de-sac. Quasi sicura-
mente Walter Smith aveva legami con il crimine organizzato. Probabil-
mente l'Uomo con l'orologio era suo socio, e i dischetti contenevano prove
altamente compromettenti per entrambi. La pressione che avvertiva era
come un pallone che gli si gonfiava dentro la testa e nel petto. Talley era
consapevole che stava perdendo il controllo delle operazioni e degli eventi
che presto si sarebbero verificati. Con l'arrivo dei finti agenti dell'Fbi man-
dati dall'Uomo con l'orologio, la situazione gli sarebbe sfuggita completa-
mente di mano e questo avrebbe aumentato i rischi per le persone dentro la
casa. All'Uomo con l'orologio non interessava chi poteva morire. Lui vole-
va solo i dischetti.
Anche Talley li voleva. Voleva sapere cosa contenevano. Quella gente
non avrebbe mai rapito la sua famiglia se i dischetti in casa di Smith non
avessero costituito una grave minaccia. Temevano che cadessero nelle ma-
ni della polizia ancora più di quanto temessero un'indagine sul rapimento
della famiglia di Talley. Sapevano di poter sopravvivere a un'inchiesta, ma
non al ritrovamento di quei dischetti. Quindi, quei dischetti significavano
nomi.
Talley era convinto che né lui né la sua famiglia sarebbero sopravvissuti
fino al giorno seguente. Gli uomini che lo avevano preso a bordo dell'auto
non potevano contare sul fatto che, dopo quanto era accaduto, non ci sa-
rebbe stata un'indagine su di loro. Non potevano correre un rischio del ge-
nere. Talley era assolutamente certo che, appena entrato in possesso dei di-
schetti, l'Uomo con l'orologio li avrebbe ammazzati tutti e tre. Talley do-
veva arrivarci prima di lui e credeva di sapere come fare.
Si avviò a passo svelto verso l'auto di Maddox ed Ellison.
«Ha risposto al telefono?»
Ellison stava bevendo caffè da un bicchiere di plastica.
«Negativo. La compagnia dei telefoni dice che l'apparecchio è ancora
staccato.»
«Avete un altoparlante, su questa macchina?»
«No, perché?»
Talley si allontanò, camminando piegato, diretto all'unica auto della po-
lizia di Bristo Camino rimasta sul posto. Afferrò il microfono e accese
l'impianto. Maddox lo aveva seguito, curioso.
«Cosa sta facendo?»
«Mando un messaggio.»
Talley attivò il microfono.
«Sono Talley. Ho bisogno di parlarti.»
La sua voce echeggiò tra le case. Gli agenti schierati intorno lo guarda-
rono.
«Se puoi, chiamami.»
Talley non si aspettava che Rooney lo chiamasse. Non era a lui che si
stava rivolgendo.
«Vaffanculo!» rispose la voce di Rooney dalla casa.
Ellison scoppiò a ridere.
«Tentar non nuoce.»
«Cosa voleva dire con "se puoi"?» chiese Maddox.
Talley non rispose. Gettò il microfono nell'auto e tornò in fondo al cul-
de-sac. Si sedette sul marciapiede, al riparo di un'autopattuglia. Sperava
che il ragazzo avesse capito che si stava rivolgendo a lui.
Il suo telefono si mise a squillare quasi immediatamente.
Era Sarah, tutta eccitata.
«Capo, c'è di nuovo il ragazzino in linea.»
Il cuore di Talley si mise a battere più forte. Se Smith non poteva dirgli
chi aveva rapito la sua famiglia, forse avrebbe potuto scoprirlo da quei di-
schetti.
«Thomas? Stai bene, figliolo?»
«Non ero sicuro che stesse parlando a me. Papà sta bene?» Il ragazzo
sembrava calmo, però la sua voce era molto bassa, quasi un sussurro. Tal-
ley alzò il volume del telefono, ma anche così riusciva a malapena a sentir-
lo.
«È in ospedale, al Canyon Country. Tu e tua sorella state bene?»
«Sì. Lei non è più nella sua camera. L'hanno portata al piano di sotto.
Credevo che volessero farle del male, ma era perché non sapevano come
usare il microonde.»
«Sei in pericolo, adesso?»
«No.»
Talley guardò fuori dal cul-de-sac. Le squadre tattiche dello sceriffo era-
no in posizione dietro ai veicoli. Hicks e il capitano Martin dovevano esse-
re a bordo della postazione di comando, in attesa che succedesse qualcosa.
Talley ripensò al suo primo giorno nella Swat, quando un sergente gli ave-
va spiegato che il loro lavoro era fatto soprattutto di lunghe attese. Gli oc-
chi di Talley si riempirono di lacrime, mentre cercava di dominare la pau-
ra. Provò a concentrarsi sui ragazzi dentro la casa. Se avesse avuto anche il
minimo sospetto che Thomas o Jennifer si trovavano in immediato perico-
lo di vita, avrebbe ordinato di fare irruzione. L'avrebbe fatto, senza un solo
attimo di esitazione. Ma non lo pensava.
«Com'è la batteria del cellulare?»
«Indica metà carica, forse un po' meno. Lo spengo, quando non lo uso.»
«Bravo. Puoi caricarlo, quando non lo usi?»
«No. I caricabatteria sono tutti al piano di sotto. Ci pensa sempre la
mamma, perché noi ce ne dimentichiamo.»
Talley temeva che se la batteria si fosse esaurita, avrebbero perso ogni
possibilità di comunicare. Non gli restava altro che fare in fretta.
«Okay, Thomas, spegnilo quando non parli e cerca di conservare quanta
più carica possibile, d'accordo?»
«D'accordo.»
«Tuo papà ha dei soci. Tu sai chi sono?»
«No.»
«Ha mai fatto i loro nomi?»
«Non mi ricordo.»
«Oggi stava lavorando nello studio?»
«Sì. Doveva finire una cosa perché sarebbe venuto un cliente a prender-
la.»
Talley aveva qualche problema a passare al livello successivo, ma sape-
va che quel ragazzo era l'unica speranza di salvare sua moglie e sua figlia.
«Thomas, ho bisogno che mi aiuti in una cosa. Potrebbe essere facile,
oppure pericoloso. Se pensi che i tizi lì dentro possano scoprirti, non vo-
glio che tu faccia niente. Okay?»
«Certo.»
Thomas era eccitato. Era un ragazzo. Non capiva i rischi.
«Tuo papà ha un paio di dischetti di computer. Non ne sono sicuro, ma è
probabile che siano sulla sua scrivania o nella sua valigetta. Probabilmente
ci stava lavorando oggi. Si chiamano zip. Tu sai di cosa parlo?»
Thomas si lasciò sfuggire una risatina ironica.
«Ce li ho da anni, capo. Gli zip sono grossi e spessi. Contengono più in-
formazioni dei dischetti normali.»
«Sono contrassegnati "Disco Uno" e "Disco Due". Quando ti troverai di
nuovo giù, potresti andare alla scrivania, prenderli e vedere cosa conten-
gono?»
«No. Non mi lasciano avvicinare alla scrivania. Dennis mi fa sedere sul
pavimento.»
La sottile speranza che Talley aveva nutrito fino a pochi attimi prima
svanì. Ma Thomas proseguì.
«Però, potrei sgattaiolare nello studio, se loro non sono lì intorno. Così,
potrei fregare i dischetti e aprirli sul computer in camera mia.»
«Credevo che ti avessero chiuso nella tua camera.»
«Sì, ma posso uscire.»
«Davvero?»
Talley ascoltò Thomas che gli spiegava come fosse in grado di spostarsi
nel sottotetto e uscire in diverse parti della casa attraverso le botole di ac-
cesso.
«Thomas, potresti arrivare nello studio in quel modo, attraverso il sotto-
tetto?»
«No, lì no, ma nella saletta sì. C'è una porta di servizio nella cantina die-
tro il bar. Si trova proprio di fronte allo studio di papà. La mamma dice
che si accorge sempre quando lui fa un giro di troppo al bar.»
La speranza di Talley riaffiorò, seppure gravata dalla consapevolezza di
non avere il diritto di rischiare la vita di quel ragazzino.
«Mi sembra troppo pericoloso.»
«No, se non mi vedono. Mars sta quasi sempre nello studio, ma Kevin è
alla porta finestra. Dennis è sempre in giro per la casa. A volte va nella
stanza di sicurezza, quella dove si trovano i monitor. Ma una volta arrivato
alla saletta non ci vuole niente a passare nello studio e andare alla scrivania
di papà. Ci metto solo un secondo.»
Talley rifletté, cercando di non lasciare che la necessità gli offuscasse il
buon senso. Doveva fare in modo che tutti e tre i soggetti si allontanassero
da quella parte della casa. E doveva accecare le telecamere, nel caso che
qualcuno di loro si trovasse davanti ai monitor.
«Se riuscissi a far allontanare Rooney e gli altri dallo studio, credi che
riusciresti a prendere i dischetti senza farti vedere?»
«Nessun problema.»
«Riusciresti a farlo al buio?»
«Lo faccio quasi ogni notte.»
Thomas lo disse ridendo. Talley, però, non rise. Avrebbe dovuto aiutare
quel ragazzo, e invece era lui a chiedere aiuto. Si sentiva ostaggio almeno
quanto Thomas e Jane, e sperava di potersi perdonare per ciò che stava per
fare.
«Okay, figliolo. Vediamo un po' di trovare una soluzione.»
L'aria della notte era così limpida che le case, le auto e i poliziotti sulla
strada sembravano incisi sul vetro. Le luci delle case, dei lampioni e il ba-
gliore rosso delle sigarette erano nitidi punti luminosi. Sopra di loro, gli e-
licotteri fluttuavano contro il cielo stellato come uccellarci notturni in atte-
sa di qualche vittima. Talley guardò l'ora e capì che l'Uomo con l'orologio
avrebbe richiamato presto. Thomas era ancora nella sua stanza e la sorella
stava cucinando, ma le cose potevano cambiare da un minuto all'altro. Tal-
ley non aveva molto tempo.
Trovò Jorgenson e lo condusse al camion della compagnia distributrice
dell'energia elettrica. Il tecnico, un giovane con la testa rasata e una barbet-
ta intrecciata, dormiva allungato sul sedile a panchetta del camion. Talley
lo scrollò prendendolo per un piede.
«Può togliere la corrente elettrica alla casa?»
Il tecnico si sfregò la faccia, assonnato.
«Certo, che posso. Lo faccio subito.»
«Non ora. Se lei la toglie, l'energia elettrica viene a mancare in tutta la
casa e non solo in una parte?»
Talley non poteva permettersi errori, e neppure Thomas.
Il tecnico scese dal camion. Il tombino di servizio era aperto, circondato
da una bassa ringhiera di protezione.
«Non solo nella casa, in tutto il cul-de-sac. Da qui controllo tutta la di-
ramazione. Se la taglio, si spegne tutto. Se mi fossi piazzato là, dentro il
cul-de-sac, avrei potuto tagliare l'energia a una singola casa, ma mi hanno
detto di mettermi qui.»
«Qui va benissimo. Quanto tempo ci vuole per togliere la corrente?»
«Un secondo. Come accendere e spegnere un interruttore.»
«I telefoni ne risentiranno?»
«Con quelli io non c'entro.»
Talley lasciò Jorgenson insieme al tecnico, quindi chiamò il capitano
Martin con la ricetrasmittente perché dicesse a Hicks e Maddox di andare
alla postazione mobile di comando per incontrarsi con lui. Il capitano gli
rispose in modo brusco.
«Senta, apprezzo che lei abbia convinto Rooney a rilasciare il signor
Smith, ma poi se n'è andato senza una parola. Se vuole avere lei il coman-
do, deve restare a disposizione. Potevamo avere bisogno di un suo okay
per qualche azione, ma lei non c'era.»
Talley si mise subito sulla difensiva, ma era anche risentito che lei lo
stesse riprendendo, facendogli perdere tempo.
«Non me ne sono andato. Ero con Maddox ed Ellison, e poi ho fatto
qualche telefonata.»
Non le disse che aveva parlato con Thomas.
«Lei ha il comando di questa operazione, ma la prego di non fare altre
bravate senza prima avvertirmi. Se vuole la mia collaborazione, deve te-
nermi informata di quello che fa.»
«A cosa si riferisce?»
«L'ho sentita, con l'altoparlante, quando ordinava a Rooney di chiamarla.
I negoziatori ci sono per questo.»
«Maddox era proprio accanto a me.»
«Lui dice che lei l'ha fatto senza consultarsi.»
«Potremmo parlarne dopo, capitano? Al momento vorrei occuparmi di
Rooney.»
Laura Martin accettò di ordinare a Hicks e a Maddox di incontrarlo sul
furgone. Quando arrivò, Talley non disse loro di aver parlato con Thomas,
né spiegò il vero motivo di ciò che stava per fare.
«Sappiamo che Rooney è fissato sulla posizione degli agenti intorno alla
casa. Voglio tagliare la corrente, e poi scuoterlo un po' con una Starflash
per costringerlo a riprendere i contatti.»
La Starflash era una granata sparata da un fucile, costituita da un numero
variabile di submunizioni che esplodevano come una serie di potenti mor-
taretti. Veniva utilizzata per disorientare i soggetti armati prima di un'irru-
zione.
Hicks incrociò le braccia.
«Ha intenzione di spararla dentro la casa con tutta quella benzina in gi-
ro?»
«No, all'esterno. Dobbiamo richiamare la sua attenzione. L'ultima volta
che ho fatto avanzare gli uomini non abbiamo dovuto chiamarlo. È stato
lui a chiamare noi.»
Il capitano Martin lanciò un'occhiata a Maddox, il quale annuì, come pu-
re Hicks.
Il capitano si strinse nelle spalle, quindi tornò a voltarsi verso Talley.
«È lei che comanda.»
Erano partiti.
THOMAS
TALLEY
DENNIS
THOMAS
Thomas uscì dalla cantina non appena le luci si spensero, scivolò intorno
al banco del bar e corse alla porta. Dennis e Kevin stavano urlando; le loro
voci provenivano dal soggiorno. Sapeva di non avere molto tempo.
Thomas si mise a quattro zampe e sbirciò oltre la soglia. Di fronte a lui,
sull'altro lato del corridoio, lo studio di suo padre era appena illuminato
dalla luce delle candele. Thomas si sporse ancora un po' più avanti per ve-
dere se arrivava qualcuno. Il corridoio era vuoto.
Non c'è gloria senza coraggio.
Thomas attraversò il corridoio di corsa e si infilò nella stanza proprio
mentre la voce di Talley rimbombava nella casa. Sapeva che stava per e-
splodere qualcosa che avrebbe fatto molto rumore, quindi decise di non la-
sciarsi distrarre. Si concentrò, invece, sul rumore dei passi.
Andò dritto al computer. Aveva portato con sé la torcia, ma le candele
erano sufficienti, quindi non l'accese. La scrivania era ingombra di carte,
ma non vide alcun dischetto. Controllò il driver dello zip. Vuoto. Sollevò
le carte intorno al computer e alla tastiera, ma non trovò nulla.
Una serie di esplosioni attraversò la casa come una salva di potenti mor-
taretti. Thomas pensò che Dennis stesse sparando. Kevin urlò qualcosa, ma
Thomas non capì. Aveva paura che venissero da quella parte. Corse alla
porta per tornare nella saletta, ma sulla soglia si fermò, in ascolto. Il cuore
gli batteva così forte che quasi non riusciva a sentire altro, ma non arrivava
nessuno.
Il capo Talley gli aveva detto di non perdere più di un minuto o due.
Non aveva molto tempo e lo aveva già usato quasi tutto.
Thomas guardò in corridoio, verso la salvezza della saletta, poi si voltò a
guardare la scrivania e gli tornò alla mente un'immagine: quel giorno, subi-
to dopo la sparatoria, suo padre aveva cercato di convincere Dennis a tro-
varsi un avvocato e ad arrendersi. Era andato alla scrivania, infilando i di-
schetti in un astuccio nero, che poi aveva riposto nel cassetto. I dischetti
erano nel cassetto!
Thomas tornò alla scrivania.
DENNIS
Il retro della casa venne travolto da un'esplosione di rumore e di luce.
Sembrava uno sbarco dei marines. Dennis vide i poliziotti appostati sul
muro, illuminati dal bagliore degli scoppi, ma restavano fermi.
"Che cazzo?..." pensò Dennis.
La voce di Talley echeggiò dal giardino sul retro.
«È ora che parliamo, Dennis. Tu e io. Faccia a faccia. Voglio che tu
venga fuori, da solo. Ti verrò incontro e parleremo.»
Kevin arrivò in cucina camminando a quattro zampe come un personag-
gio dei cartoni animati.
«Cosa stanno facendo? Cosa succede?»
Dennis non sapeva cosa dire. Era confuso, perplesso, spaventato.
«Mars! Quei porci fottuti stanno cercando di fregarci! Va' a vedere cosa
stanno facendo sul davanti!»
Dennis strappò la ragazza dalle mani di Mars, che si rimise in piedi e si
precipitò lungo il corridoio.
THOMAS
L'astuccio di morbida pelle nera era grande quanto una custodia per CD.
Dietro la scrivania il chiarore delle candele era troppo debole per poter ve-
dere dentro il cassetto, e così Thomas accese la torcia, schermando con una
mano il raggio di luce.
L'astuccio era nel primo cassetto.
Si apriva a libro. Ogni lato aveva delle tasche per contenere i dischetti.
In quelle di destra ce n'erano due, contrassegnati proprio come aveva detto
Talley, "Disco Uno" e "Disco Due". Thomas stava chiudendo il cassetto
quando udì dei passi avvicinarsi lungo il corridoio.
Avrebbe voluto scappare, ma era troppo tardi.
I passi si avvicinavano veloci!
Stavano venendo verso lo studio!
Erano sulla porta!
Thomas spense la torcia e si infilò sotto la scrivania, raggomitolandosi a
palla, le braccia strette intorno alle ginocchia, sforzandosi di non respirare.
Nella stanza c'era qualcuno.
La scrivania di suo padre era un mostro di quercia, antica, pesante, gran-
de come una barca (papà la chiamava scherzosamente "Lexington", come
la portaerei). Poggiava su gambe di legno curvo che lasciavano aperto un
piccolo spiraglio vicino al pavimento. Thomas vide dei piedi. Pensò che
fossero di Mars, ma non ne era sicuro.
I piedi andarono alla finestra.
Thomas sentì aprirsi di scatto i listelli delle tapparelle. La luce prove-
niente da fuori invase la stanza. Poi i listelli si richiusero.
I piedi rimasero davanti alle tapparelle. "Sta sbirciando attraverso le fes-
sure" pensò Thomas.
«Cosa diavolo sta succedendo?» urlò Dennis dal retro della casa.
Quello nella stanza con lui era Mars. Thomas restò immobile.
«Accidenti, Mars!»
I piedi si allontanarono dalla finestra, ma Mars non uscì dalla stanza. I
piedi si voltarono verso la scrivania. Thomas cercò di farsi ancor più pic-
colo e strinse le ginocchia così forte da farsi male alle braccia.
I piedi mossero un passo verso la scrivania.
«Mars! Che cazzo stai facendo?»
I piedi andarono fino in fondo alla scrivania. Thomas cercò di chiudere
gli occhi, di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Continuò a fissare i
piedi come se fossero serpenti.
«Mars!»
I piedi fecero dietrofront e uscirono. Thomas seguì il rumore dei passi,
fuori, lungo il corridoio, finché non sparì del tutto.
Uscì veloce da sotto la scrivania e andò alla porta. Sbirciò in corridoio,
quindi corse nella saletta. Sentì il capo Talley parlare con l'altoparlante,
mentre entrava nella cantina, si arrampicava sugli scaffali e si infilava
nuovamente al sicuro nel sottotetto.
TALLEY
Talley sapeva che Rooney e gli altri sarebbero stati presi dal panico. A-
vrebbero pensato che fosse in corso un'irruzione e Dennis o qualcuno degli
altri si sarebbe precipitato sul davanti della casa per vedere cosa stavano
facendo gli uomini dello sceriffo. Talley doveva tenere la loro attenzione
concentrata sul retro della casa. Su di sé.
«È ancora in cucina?»
Hobbs guardava attraverso il visore notturno.
«Sì. Lui e la ragazza. Sta cercando di vederci, ma non può, per via delle
luci. Quello grosso si è allontanato lungo il corridoio. Non vedo il fratel-
lo.»
Talley aprì il megafono.
«Non abbiamo intenzione di fare irruzione, Dennis. Ma io e te dobbiamo
parlare. Faccia a faccia. Vengo alla piscina.»
Il capitano Martin e Hicks uscirono dall'ombra e corsero verso di lui.
Laura Martin non era affatto contenta.
«Perché faccia a faccia? Non se n'era discusso.»
«Io vado.»
Talley posò a terra il megafono e si issò oltre il muro, prima che lei po-
tesse dire altro. Voleva distogliere l'attenzione di Rooney dal davanti della
casa, anche se questo significava offrirsi come ostaggio.
La voce del capitano lo seguì dalla sommità del muro.
«Maledizione, Talley. Così si sta solo offrendo come bersaglio.»
Talley arrivò al bordo della piscina e gridò: «Sono disarmato. Ma questa
volta non ho intenzione di spogliarmi, quindi devi fidarti della mia parola.
Sono solo e disarmato».
Talley allontanò le mani dai fianchi, con i palmi aperti e rivolti in avanti,
e andò verso la casa, costeggiando la piscina. Un materassino scuro gal-
leggiava sull'acqua. Un asciugamano era allargato vicino al bordo, la radio
ormai muta perché le batterie si erano scaricate.
Arrivato all'estremità della piscina più vicina alla casa si fermò. Sul pa-
vimento della cucina giaceva una torcia accesa: il fascio di luce pareva una
lama bianca che rimbalzava sui piani di lavoro. Talley sollevò ancora di
più le mani. Le potenti luci dietro di lui proiettavano la sua ombra verso la
casa. Pareva quella di un crocefisso.
«Vieni fuori, Dennis. Parlami.»
Dennis urlò da dentro la casa, la voce attutita dai vetri della porta fine-
stra chiusa.
«Tu sei pazzo!»
«No, Dennis, sono solo stanco.»
Talley si avvicinò ancora.
«Nessuno ti farà del male. Purché tu non faccia del male a quei ragazzi.»
Giunto davanti alla porta finestra, Talley si fermò. Ora riusciva a vedere
chiaramente Dennis e Jennifer. Con una mano, Dennis teneva la ragazza,
con l'altra impugnava una pistola. Un'ombra si mosse alla sinistra di Tal-
ley, in soggiorno, e lui scorse una figura snella. Kevin. Sembrava un bam-
bino. Sull'altro lato della cucina, quello opposto al soggiorno, si apriva un
corridoio che veniva verso il retro. Talley vide un chiarore incerto proveni-
re da una porta. Una grossa sagoma bloccava la luce, e pareva diventare
più grande nell'ombra. Doveva trattarsi di Krupchek. Talley provò un'on-
data di sollievo: ovunque fosse Thomas, loro non lo avevano scoperto. Era
riuscito a tenerli occupati. Allargò ancora di più le mani. E si avvicinò.
«Sono qui, Dennis. Ti vedo. Esci e parliamo.»
Talley li sentì confabulare. Dennis chiamava Kevin in cucina. Ora Kru-
pchek era fermo all'imbocco del corridoio, come sospeso nel buio. Aveva
qualcosa in mano, una torcia, forse una pistola.
Dennis si alzò in piedi e andò alla porta finestra. Guardò oltre Talley,
poi cercò di vedere il lato della casa, probabilmente pensando che qualcu-
no sarebbe entrato di corsa se lui avesse aperto. Talley parlò con calma.
«Non c'è nessuno, qui, a parte me, Dennis. Ti do la mia parola.»
Dennis posò la pistola sul pavimento, poi aprì la porta e uscì. Talley sa-
peva che in fotografia le persone sembrano sempre più grandi, ma Rooney
era più basso e più magro di quanto avesse pensato dopo averlo visto sul
nastro registrato, e molto più giovane.
Talley sorrise, ma Rooney non ricambiò.
«Come va, Dennis?»
«Ho conosciuto tempi migliori.»
«Devo darti atto che è stata una lunga giornata.»
Dennis fece un cenno con il capo in direzione del muro.
«Hai un cecchino lassù, pronto a spararmi?»
«Se tu cercassi di afferrarmi probabilmente lo farebbero. Altrimenti no.
Avremmo potuto spararti dal muro, se avessimo voluto.»
Dennis parve convenirne.
«Posso uscire? Venire più vicino?»
«Certo. Fa' pure.»
Dennis si allontanò dalla porta e raggiunse Talley alla piscina. Fece un
respiro profondo, alzando gli occhi a guardare le stelle.
«È bello stare qua fuori.»
«Già.»
«Ora abbasso le mani, va bene?» disse Talley.
«Certo.»
Talley vide che Kevin era ancora con la ragazza, mentre Krupchek era
fermo in corridoio. Thomas era dentro, da qualche parte, occupato a pren-
dere i dischetti. Talley sperava che non ci volesse molto.
«Questa cosa va avanti da un sacco di tempo. Cosa stai aspettando?»
«Tu avresti fretta di finire in prigione per il resto dei tuoi giorni?»
«Al tuo posto farei di tutto per ottenere il miglior accordo possibile. La-
scerei andare questa gente, collaborerei con le autorità, lascerei che fosse
un avvocato a parlare per me. Sarei abbastanza furbo da capire di essere
circondato dalla polizia e di non poter andare da nessuna parte senza il loro
permesso.»
«Voglio quell'elicottero.»
Talley scosse la testa.
«Te l'ho già detto prima. E dove potrebbe atterrare? Non posso dartelo.
Non è possibile.»
«Allora una macchina. Voglio una macchina che mi porti in Messico,
con una scorta e un lasciapassare per la frontiera.»
«Ne abbiamo già parlato.»
Pareva che Rooney si stesse infiammando. Agitò le braccia in un gesto
di rabbia.
«E allora a che cazzo mi servi?»
«Sto cercando di salvarti la vita.»
Dennis si voltò verso la casa. Talley lo osservò, pensando che mostrava
tutto lo stress di quella giornata. Alla fine, Rooney tornò a girarsi verso di
lui e disse a bassa voce: «Sei ricco?».
Talley non rispose. Non sapeva dove volesse arrivare. Aveva imparato a
lasciar parlare i soggetti finché non avevano detto tutto quello che avevano
da dire.
Rooney si diede un colpetto sulla tasca.
«Posso mettere una mano in tasca per mostrarti una cosa?»
Talley annuì.
Rooney gli si avvicinò. Sulle prime Talley non riusciva a capire cosa
Rooney avesse tirato fuori, ma poi vide che si trattava di denaro. Pareva
che Rooney cercasse di non farsi vedere dagli altri.
«Queste sono cinquanta banconote da cento dollari, capo. Cinquemila
dollari. Ne ho una valigia piena, in casa.»
Rooney si rimise le banconote in tasca.
«Quanto vorresti per tirarmi fuori da qui? Centomila dollari? Potresti
portarmi in Messico, solo tu e io, senza che nessuno sappia niente. Basta
dire agli altri che hai fatto un accordo, senza parlare dei soldi. Io non parlo.
Ce ne sono un sacco in questa casa, capo. Più di quanti ne abbia visti in vi-
ta tua. Possiamo dividerceli.»
Talley scosse la testa.
«Hai scelto la casa sbagliata per nasconderti, Dennis.»
«Duecentomila in contanti, in banconote da cento, dritti nelle tue tasche,
senza che nessuno sappia niente.»
Talley non rispose. Si chiese cosa ci facesse Smith lì, in mezzo al nulla,
in quella anonima comunità di Bristo Camino, con tanti soldi per i quali
quel ragazzo era pronto a morire, e informazioni così importanti che gli
uomini della macchina erano pronti a uccidere. E dire che a volte si crede
di conoscere i propri vicini...
«Arrenditi, Dennis.»
Rooney si passò la lingua sulle labbra. Il suo sguardo saettò oltre Talley,
poi tornò a posarsi su di lui.
«Stai cercando di tirare su il prezzo? Okay, trecento. Trecentomila dolla-
ri. Arriverai mai a guadagnare così tanto? Puoi avere Mars e Kevin. Puoi
sbatterli dentro. Fanno parte dell'accordo.»
«Tu non sai con chi hai a che fare. Non puoi comperarti la libertà.»
«Ma tutti vogliono i soldi! Tutti! Io non ho intenzione di rinunciarci!»
Talley lo guardò, chiedendosi fin dove spingersi. Se Rooney si arrende-
va adesso, Amanda e Jane avrebbero potuto pagare per questo. Ma se Ro-
oney si fosse arreso in quel momento e fosse uscito da quella casa, lui a-
vrebbe avuto i dischetti. Una volta arrivata la squadra dell'Uomo con l'oro-
logio, lui avrebbe potuto non avere un'altra occasione.
«Questa casa non è quello che pensi. Credi davvero che qualcuno po-
trebbe tenere in casa tutto quel denaro?»
«Là dentro c'è un milione di dollari, se non addirittura due! Ti darò la
metà!»
«L'uomo che avete spedito all'ospedale, Walter Smith, è un criminale.
Quel denaro è suo.»
Rooney scoppiò in una risata.
«Stai mentendo, sono tutte cazzate!»
«Ha dei soci, Dennis. Questa è casa loro, e loro la rivogliono. Quella che
ti sto offrendo è la tua unica possibilità di salvezza.»
Rooney lo fissò, poi si sfregò il volto.
«Vaffanculo, Talley. Vaffanculo. Credi davvero che sia un idiota?»
«Ti ho detto la verità. Arrenditi. Collabora con me, se non altro ti salve-
rai la pelle.»
Rooney si lasciò sfuggire un sospiro e Talley vide la tristezza scendere
su di lui come un pesante mantello.
«E cosa vale?»
«Quello che intendi farne tu.»
«Ora torno dentro. Ci penserò e domani ti darò una risposta.»
Talley sapeva che Dennis stava mentendo. Aveva imparato a capire
quando erano disposti ad arrendersi: Rooney restava aggrappato a qualcosa
che non poteva mollare.
«Ti prego, Dennis.»
«Vai a farti fottere.»
Rooney indietreggiò, varcò la soglia e chiuse la porta finestra. L'oscurità
della casa lo ingoiò come una pozzanghera d'acqua sporca.
Talley si voltò verso gli agenti disposti lungo il muro e si allontanò, pre-
gando che Thomas avesse preso i dischetti e si fosse messo in salvo. Roo-
ney non era il solo a restare aggrappato a qualcosa che non poteva mollare.
20
Sabato, 00.04
THOMAS
TALLEY
THOMAS
Thomas sentì il chiodo che veniva estratto dallo stipite. Con uno stratto-
ne staccò il cavo del computer dalla presa e si catapultò sul letto, nascon-
dendo il cellulare sotto le coperte proprio mentre la porta si apriva. Era
Kevin. Portava un piatto di carta con due fette di pizza e un bicchiere di
Diet Coke.
«Ti ho portato qualcosa da mangiare.»
Thomas infilò le mani fra le gambe incrociate, nel tentativo di nasconde-
re il fatto che si era slegato, ma il nastro che si era tolto dai polsi era rima-
sto in bella vista sul pavimento. Vedendolo, Kevin si fermò di colpo, ful-
minandolo con lo sguardo.
«Brutto stronzo. Dovrei prenderti a calci.»
«Mi faceva male.»
«Chi se ne frega, tanto non ha più importanza.»
Thomas si sentì sollevato dal fatto che Kevin non sembrava troppo ar-
rabbiato. Gli porse la pizza e la Coca, poi andò a controllare i chiodi che
bloccavano le finestre. Thomas temeva che si accorgesse che il computer
si trovava in un posto diverso, ma Kevin sembrava assorto nei suoi pensie-
ri.
Si accertò che le finestre fossero ben salde, quindi si appoggiò alla pare-
te quasi avesse bisogno di sostegno per restare in piedi. I suoi occhi parve-
ro posarsi su ogni oggetto della stanza, ogni gioco, ogni libro, ogni mobile,
sugli abiti gettati in un angolo, sui poster alle pareti, sul telefono rotto get-
tato a terra, sul televisore e sul lettore CD, persino sul computer appoggia-
to contro il muro, ma il suo sguardo era vuoto, distante.
Alla fine gli occhi si posarono su Thomas.
«Sei proprio fortunato.»
Kevin si staccò dalla parete e si avviò verso la porta.
«Quando ve ne andrete da casa mia?» chiese Thomas.
«Mai.»
Kevin uscì senza voltarsi indietro e richiuse la porta.
Thomas aspettò.
Il chiodo venne piantato di nuovo al suo posto nello stipite. Il pavimento
scricchiolò sotto i passi di Kevin che si allontanava.
Thomas cercò di contare fino a cento, ma arrivato a cinquanta si fermò.
Si infilò ancora una volta nell'armadio a muro. Voleva sapere cosa aveva-
no in mente di fare. E voleva prendere la pistola.
21
Sabato, 00.02
Canyon Country, California
MARION CLEWES
Il Canyon Country Hospital si trovava fra due crinali in una po2za di lu-
ce azzurrina. Era una costruzione bassa e moderna a tre piani, dalla forma
irregolare. Marion pensò che assomigliava a quelle costruzioni high-tech
che ospitano società di servizi, tirate su nel giro di una notte in mezzo al
nulla accanto a un'uscita dell'autostrada, tutte pietra rossa e vetri a spec-
chio.
Girò intorno all'ospedale con l'auto e trovò l'ingresso del pronto soccorso
sul retro. Venerdì sera, mezzanotte appena passata, il posto era praticamen-
te deserto. Marion conosceva ospedali così trafficati che al venerdì sera il
personale del pronto soccorso raddoppiava e le urla si sentivano a un isola-
to di distanza. Doveva essere proprio bello vivere nella Santa Clarita Val-
ley, pensò. Più cose scopriva di quel posto, più gli piaceva.
Nel piccolo parcheggio c'erano solo tre auto e un paio di ambulanze, ma
poco più in là erano fermi quattro veicoli delle stazioni televisive. Marion
se l'aspettava e non si fece scoraggiare. Piazzò l'auto vicino all'ingresso,
con il muso rivolto verso la strada, quindi entrò nell'ospedale.
I giornalisti erano ammassati davanti al banco dell'accettazione e parla-
vano con una donna in camice bianco, che pareva infastidita. Marion rima-
se ad ascoltare quel tanto da apprendere che era la dottoressa Reese, re-
sponsabile del pronto soccorso, e che al momento Walter Smith era sotto-
posto ad accertamenti. Due giovani infermiere, entrambe molto graziose e
con occhi da tolteche, osservavano con interesse la scena da dietro il ban-
cone. Marion pensò che per loro doveva essere molto eccitante avere lì tut-
ti quei giornalisti.
Andò a un distributore automatico nella piccola sala d'attesa e prese una
tazza di caffè nero. Un'agente di polizia osservava la scena. Un giovane i-
spanico era seduto di fronte a lei e cullava un bambino mentre un altro
bimbo, un po' più grande, dormiva sdraiato per metà in grembo a lui e per
metà sul sedile accanto. L'uomo aveva un'aria così atterrita che Marion
provò pena per lui: probabilmente si trovava lì per via della moglie.
«È come se si fossero dimenticati di lei, vero?»
L'uomo alzò lo sguardo, senza comprendere. Marion sorrise, pensando
che probabilmente lui non parlava inglese.
«È triste» concluse Marion, poi si allontanò, tornando all'accettazione.
Una porta dava su un piccolo corridoio, oltre il quale si apriva una specie
di sala comune con parecchi letti separati da tende azzurre e un altro corri-
doio chiuso da porte a ventola. Marion attese davanti alla porta finché non
uscì un inserviente. Gli rivolse un sorriso timido.
«Mi scusi, la dottoressa Reese mi ha detto di rivolgermi a qualcuno,
qui.»
L'inserviente lanciò un'occhiata in direzione della Reese, ancora attor-
niata dai reporter.
«Sono il vicino di casa di Walter Smith. Mi hanno detto di passare a
prendere i suoi vestiti e gli effetti personali.»
«Il tizio che è stato preso in ostaggio?»
«Esatto. Non è orribile?»
«Ah, succedono certe cose...»
«Già, non si può mai sapere. Siamo preoccupati per i ragazzi. Sono an-
cora là dentro.»
«Poverini.»
«Dovrei portare questa roba a casa.»
«Okay. Mi dia un momento e vedo cosa posso fare.»
«Come sta?»
«Il dottore sta controllando i risultati della Tac proprio ora. Presto si do-
vrebbe sapere qualcosa.»
L'inserviente infilò una delle porte in fondo al corridoio. Marìon si ac-
certò che si fosse allontanato, quindi si intrufolò nel corridoio in modo da
non essere visto dalle infermiere al banco dell'accettazione. Aspettò lì fin-
ché l'inserviente non ritornò con un sacchetto di carta verde.
«Ecco qua. Hanno dovuto tagliargli i vestiti. Non si poteva fare altri-
menti.»
Marion prese il sacchetto. Sentì le scarpe in fondo a tutto.
«Devo firmarle qualcosa?»
«No, non è il caso. Non siamo così fiscali. Quando lavoravo a Los An-
geles, allora sì che ci voleva una firma per ogni cosa. Qui è diverso. Que-
ste cittadine piccole sono un paradiso.»
«Senta, la ringrazio molto. C'è un'altra strada per uscire? Non voglio
passare davanti ai giornalisti. Prima mi hanno fatto tante di quelle doman-
de...»
«Da quella parte, poi prende a sinistra. In fondo vedrà il cartello rosso
dell'uscita. Sbucherà fuori sul davanti.»
«Grazie ancora.»
Marion posò a terra la borsa per guardare gli effetti personali di Smith.
Lo fece lì, nel corridoio. Il sacchetto conteneva jeans, cintura, un portafo-
glio di pelle nera, mutande bianche di Calvin Klein, una maglietta Polo,
calze grigie, scarpe da tennis Reebok nere, un orologio da polso Seiko. Gli
indumenti erano stati tutti tagliati sul davanti. Marion frugò nelle tasche
dei pantaloni, ma trovò solo un fazzoletto bianco. Niente dischetti di com-
puter. Il signor Howell sarebbe rimasto deluso.
Marion si mise il sacchetto sotto il braccio e imboccò il corridoio, pas-
sando davanti ai letti della stanza comune. Erano vuoti. Si chiese dove fos-
se la moglie dell'ispanico, ma non pensò più a lei quando trovò Smith in
una stanza verso il fondo. Aveva la tempia sinistra coperta da una medica-
zione e una cannula dell'ossigeno infilata nel naso. Due infermiere, una
con i capelli rossi e l'altra con i capelli scuri, stavano sistemando alcuni
macchinari dotati di monitor, apparentemente un elettrocardiografo e un
elettroencefalografo. Il fatto che stessero posizionando i monitor solo a-
desso gli fece capire che i test erano stati completati, ma si stavano ancora
attendendo i risultati. Questo gli dava un po' di tempo. Quando i medici
avessero avuto un'idea più chiara delle sue condizioni, avrebbero procedu-
to a qualche ulteriore intervento, oppure lo avrebbero trasferito in un repar-
to dell'ospedale. Una stanza avrebbe facilitato le cose, ma nel caso di un
intervento chirurgico il suo compito sarebbe stato impossibile. Marion de-
cise di non rischiare.
Trovò un punto tranquillo poco più avanti, dove c'era una barella appog-
giata contro la parete. Posò il sacchetto sulla barella, quindi vi mise dentro
una siringa e una fialetta contenente lidocaina. Sia la fiala che la siringa
erano sue. Le aveva portate con sé dalla macchina.
Un giovane alto con l'espressione assonnata girò l'angolo spingendo una
sedia a rotelle vuota.
Marion gli rivolse un sorriso cordiale.
«Pensavo che mi sarei abituato a questi orari, ma non ci si abitua mai.»
Il giovane ricambiò il sorriso, convinto di aver trovato un'altra vittima
dei turni di notte.
«A chi lo dice.»
Quando il giovane si fu allontanato, Marion si mise all'opera tenendo le
mani dentro il sacchetto, in modo che nessuno potesse vedere cosa stava
facendo. Strappò l'involucro di carta della siringa, tolse la protezione all'a-
go e perforò il tappo della fiala. Aspirò tutto il liquido, riempiendo la si-
ringa. La lidocaina era una delle sostanze che preferiva: iniettata a una per-
sona in condizioni cardiache normali provocava l'infarto. Marion posò la
siringa sopra gli indumenti di Smith in modo che fosse facile da prendere,
quindi chiuse il sacchetto e attese.
Dopo qualche minuto, l'infermiera con i capelli scuri uscì dalla stanza di
Smith, seguita poco dopo dall'altra.
Marion entrò nella stanza. Sapeva di non avere molto tempo, ma gli ba-
stavano pochi secondi. Posò il sacchetto sul letto. Smith sbatté le palpebre,
aprendole parzialmente, e poi le richiuse, come se stesse lottando per sve-
gliarsi. Marion gli diede uno schiaffo.
«Svegliati.»
Marion lo colpì di nuovo.
«Walter?»
Smith aprì gli occhi, ma non del tutto. Marion non era certo che Smith
potesse vederlo. Lo schiaffeggiò una terza volta, lasciandogli un segno
rosso sulla guancia.
«I dischetti sono ancora in casa tua?»
Smith emise un mormorio che Marion non riuscì a decifrare. Lo afferrò
per la faccia e lo scosse violentemente.
«Parlami, Walter. Hai detto a qualcuno chi sei?»
Smith sbatté di nuovo le palpebre e parve mettere a fuoco lo sguardo su
Marion.
«Walter?»
Gli occhi si annebbiarono e si richiusero.
«Okay, Walter. Come vuoi tu.»
Marion decise che era venuto il momento. Era ragionevolmente sicuro
che i dischetti si trovavano ancora nella casa e che Smith non era stato in
grado di parlare con nessuno dopo il rilascio da parte dei suoi sequestrato-
ri. Quelli di Palm Springs sarebbero stati contenti. Sarebbero stati contenti
anche di sapere che Walter Smith era morto.
«Non ti farà male, Walter. Te lo prometto.»
Marion sorrise, soffocando una risata.
«Be', non è del tutto vero. Gli attacchi di cuore fanno un male dell'acci-
dente.»
Marion aprì il sacchetto e fece per prendere la siringa.
«Cosa sta facendo?»
L'infermiera con i capelli rossi era ferma sulla soglia. Lo fissò, chiara-
mente insospettita, quindi andò direttamente al letto.
«Lei non dovrebbe trovarsi qui.»
Marion le sorrise. Era una donna piccola con il collo esile. Con le mani
ancora nascoste nel sacchetto, Marion mollò la siringa e sollevò gli abiti in
modo che questa ricadesse sul fondo. Non distolse mai lo sguardo da lei,
né smise per un attimo di sorridere. Marion aveva un bel sorriso. Un sorri-
so dolce, diceva sempre sua madre.
«Lo so. Sono venuto a prendere la sua roba, ma ho pensato di lasciargli
una cosa sua, sa, come portafortuna, e non c'era nessuno a cui chiedere.»
Marion tirò fuori il portafoglio e lo aprì. Estrasse una foto consumata di
Walter con la moglie e i figli. La mostrò all'infermiera.
«Posso lasciarla? La prego, sono sicuro che lo aiuterà.»
«Potrebbe andare persa.»
Marion guardò oltre la donna. In corridoio non c'era nessuno. Lanciò u-
n'occhiata verso l'altro lato della stanza. Una porta. Forse un bagno, forse
un armadio o un corridoio. Avrebbe potuto tapparle la bocca, sollevarla...
sarebbero bastati pochi secondi.
«Lo so, ma...»
«Be', allora la infili sotto il guanciale. Lei non può stare qui.»
L'infermiera con i capelli neri entrò nella stanza e andò a uno dei moni-
tor. Marion chiuse il sacchetto.
«Va bene se lascia questa foto? È del signor Smith» disse la rossa.
«No. Andrà persa e qualcuno potrebbe avere da ridire. Va sempre a fini-
re così.»
Marion rimise la foto nel portafoglio e sorrise all'infermiera con i capelli
rossi.
«Be', grazie comunque.»
Marion era paziente. Era disposto ad aspettare che Smith restasse di
nuovo solo, ma mentre tornava verso l'accettazione udì delle sirene. Da-
vanti all'ingresso vide l'agente donna. Pensò che stesse parlando da sola,
ma poi si rese conto che stava parlando nella ricetrasmittente. Le sirene si
avvicinarono. I reporter uscirono, pochi per volta, per farle delle domande,
ma all'improvviso lei si staccò da loro e rientrò di corsa nell'ospedale. Ma-
rion decise di non aspettare.
Tornò alla macchina, deluso per come erano andate le cose. In effetti,
quelli di Palm Springs non sarebbero stati contenti di sentire il suo rappor-
to, ma non c'era niente da fare. Non adesso, per lo meno.
Arrivarono due auto della polizia. Marion rimase a guardare gli agenti
che correvano dentro l'ospedale, inseguiti dai reporter, poi telefonò a Glen
Howell.
TALLEY
Dalla sua auto, Talley chiamò Metzger all'ospedale. Le disse che la vita
di Smith era in pericolo e le ordinò di piazzarsi davanti alla porta della sua
camera. Prelevò Jorgenson e Campbell dalla casa della signora Pena e dis-
se loro di seguirlo.
Talley partì con un codice tre, luci e sirena accese. Sapeva che gli uomi-
ni di Benza sarebbero venuti a sapere ciò che stava facendo, e questo a-
vrebbe potuto mettere in pericolo lui e la sua famiglia, ma non poteva la-
sciare che quell'uomo venisse ucciso. Non sapeva cos'altro fare.
Quando arrivarono all'ospedale, Talley vide il capannello di reporter ve-
nire verso di lui dalla porta d'ingresso. Scese di corsa dall'auto e si unì a
Jorgenson e Campbell.
«Non dite una parola. Sono tutte informazioni riservate. Avete capito?»
I due parvero confusi e intimiditi, quando i giornalisti li circondarono.
«Andiamo.»
Mentre entravano nell'ospedale, Talley si guardò intorno con attenzione,
sperando di vedere una mano abbronzata, un Rolex massiccio, abiti simili
a quelli indossati dagli uomini e dalla donna che l'avevano sequestrato nel
parcheggio. Chiunque era sospetto. Chiunque era un potenziale assassino.
Chiunque avrebbe potuto condurlo ad Amanda e Jane.
Il capo della sicurezza dell'ospedale, un uomo sovrappeso di nome Jobs,
andò loro incontro al banco dell'accettazione, insieme a Klaus e al respon-
sabile del pronto soccorso, una donna anziana che si presentò come la dot-
toressa Reese. Talley chiese di poter parlare loro in privato, e li seguì oltre
una porta che dava su un corridoio. Vide Metzger ferma davanti a una por-
ta poco lontano. Andò da lei, dicendo alla Reese e agli altri di aspettare.
«Tutto bene?»
«Sì. Cosa sta succedendo?»
Talley si fermò sulla porta. Smith era solo nella stanza. La testa gli cion-
dolò di lato, poi si raddrizzò.
«Torno subito» disse Talley.
Ordinò a Jorgenson e a Campbell di aspettare insieme a Metzger, quindi
tornò dai medici per spiegare loro cosa stava succedendo.
«Abbiamo motivo di credere che potrebbe esserci un attentato alla vita
del signor Smith. Metterò un agente di guardia fuori dalla sua stanza e ter-
rò degli agenti qui in ospedale.»
Klaus assunse un'espressione accigliata.
«Un attentato alla sua vita? Come quello che ha fatto lei in ambulanza?»
La dottoressa Reese lo ignorò.
«Questo è un pronto soccorso, sceriffo. Qui dobbiamo poter agire in
fretta. Non posso permettere che ci siano intralci.»
«Sono il capo della polizia di Bristo, non uno sceriffo.»
«Ho capito. Il mio staff è in pericolo?»
«Se i miei uomini sono qua, no, signora.»
«Sono tutte stronzate» sbottò Klaus. «Chi potrebbe voler uccidere quel-
l'uomo?»
Talley non avrebbe voluto mentire. Era stanco di menzogne. Si strinse
nelle spalle.
«Non possiamo prendere alla leggera queste minacce.»
Jobs, il capo della sicurezza, annuì.
«Il mondo è pieno di pazzi.»
Talley si accordò perché i suoi agenti rimanessero fissi di guardia davan-
ti alla porta di Smith, con il personale di Jobs come rinforzo. Se Smith fos-
se stato trasferito in un'altra ala dell'ospedale, la polizia di Bristo lo avreb-
be scortato. Stavano ancora discutendo quando Metzger chiamò dal suo
posto di guardia.
«Si sta svegliando.»
Klaus si fece largo tra il gruppetto e corse nella stanza, seguito da Tal-
ley. Smith aveva gli occhi aperti, ma il suo sguardo, sebbene orientato, era
ancora un po' annebbiato. Borbottò qualcosa e poi disse, più chiaramente:
«Dove sono?».
Le parole erano mal articolate, ma Talley le comprese comunque.
Klaus tirò fuori la sottile pila, sollevò le palpebre di Smith ed esaminò
prima un occhio poi l'altro.
«Mi chiamo Klaus. Sono un medico del Canyon Country Hospital, dove
lei si trova. Ricorda il suo nome?»
Smith ci mise qualche secondo a rispondere, come se gli ci volesse un
po' a capire la domanda e a trovare la risposta. Si passò la lingua sulle lab-
bra.
«Smith. Walter Smith. Cosa mi è successo?»
Klaus lanciò un'occhiata ai monitor.
«Non lo sa?»
Smith parve riflettere ancora, poi spalancò gli occhi e cercò di alzarsi a
sedere. Klaus lo fece sdraiare.
«Piano. Stia giù, se non vuole svenire.»
«Dove sono i miei figli?»
Klaus si voltò verso Talley, il quale rispose: «Sono ancora nella casa».
Gli occhi di Smith si spostarono incerti nella sua direzione. Talley solle-
vò la felpa in modo che potesse vedere il distintivo.
«Sono Jeff Talley, il capo della polizia di Bristo. Ricorda cosa è succes-
so?»
«Della gente è entrata in casa mia. Tre uomini. Cosa ne è dei miei ragaz-
zi?»
«Sono ancora dentro la casa. Ci risulta che stiano bene. Stiamo cercando
di trovare una soluzione.»
Klaus annuì di malavoglia. «È stato il capo Talley a tirarla fuori da là.»
Smith lo guardò. «Grazie.»
La sua voce era debole, lontana. Smith si abbandonò, chiudendo gli oc-
chi. Talley pensò che stesse di nuovo perdendo i sensi.
A Klaus non piaceva ciò che vedeva sui monitor. La sua faccia assunse
nuovamente un'espressione tirata.
«Non voglio che si stanchi.»
Talley prese Klaus di lato e gli parlò a voce bassa.
«Dovrei scambiare qualche parola con lui, adesso. Su quello che abbia-
mo appena detto.»
«Non ne vedo il motivo. Servirà solo ad agitarlo.»
Talley guardò Smith, sapendo che avrebbe potuto toccare il tasto giusto
perché riusciva a leggere Klaus proprio come riusciva a leggere un sogget-
to barricato dentro una casa.
«Ha diritto di sapere, dottore. Lo capisce anche lei. Ci vorrà solo un mi-
nuto. La prego.»
Klaus scosse la testa, ma uscì.
«Smith?»
Sinith aprì gli occhi, ma non completamente. Talley vide che stavano
per richiudersi, pesanti. Si chinò per essergli più vicino.
«Io so chi è lei.»
Gli occhi si riaprirono.
«Sonny Benza ha rapito la mia famiglia.»
Smith lo fissò, inespressivo, senza mostrare alcuna sorpresa, senza rive-
lare nulla. Ma Talley capì. Lo sentì.
«Vuole i suoi registri. Ha preso mia moglie e mia figlia per essere certo
che io collabori. Ho bisogno del suo aiuto, Smith. Devo sapere dove le tie-
ne prigioniere. Ho bisogno di sapere come arrivare a lui.»
Qualcosa di umido cadde sulla spalla di Smith. Talley sentì gli occhi ap-
pannarsi e si rese conto che stava piangendo.
«Mi aiuti.»
Smith si leccò le labbra. Scosse la testa.
«Non so di cosa sta parlando.»
Talley gli si avvicinò ancora di più.
«Lui ti ucciderà, figlio di puttana!» disse con voce roca.
Klaus rientrò nella stanza.
«Ora basta.»
«Mi lasci ancora un minuto.»
«Ho detto basta.»
Talley mise gli uomini di guardia e se ne andò. Guidava con i finestrini
abbassati, frustrato, arrabbiato. Calò dei pugni sul volante. Urlò. Avrebbe
voluto tornare di corsa alla casa, e allo stesso tempo non voleva tornarci.
Avrebbe voluto buttare giù porte e finestre, finché non avesse trovato Jane
e Amanda. Era in preda a una rabbia impotente. Prese il Nokia dalla tasca
e lo posò sul sedile. Sapeva che avrebbe squillato. Sapeva che l'Uomo con
l'orologio avrebbe chiamato. Non aveva altra scelta.
Il cellulare squillò.
Talley accostò bruscamente. Si trovava su un tratto deserto tra Canyon
Country e Bristo, in mezzo al nulla, nient'altro che rocce, strada e camioni-
sti che cercavano di arrivare a Palmdale prima dell'alba. Talley si fermò
con una sbandata e rispose. L'Uomo con l'orologio prese a urlare prima che
lui potesse dire una sola parola.
«Hai fatto una cazzata, coglione di un poliziotto! Hai fatto un'enorme
cazzata!»
Talley urlò più di lui, coprendo le sue parole.
«No! Tu hai fatto una cazzata, figlio di puttana! Pensavi davvero che ti
avrei lasciato assassinare un uomo?»
«Vuoi sentirle urlare? Eh? Vuoi che avvicini una fiamma da saldatore al
bel visino di tua figlia?!»
Talley prese a pugni il cruscotto, senza neppure sentire i colpi.
«Ti tengo in pugno, testa di cazzo! Io ti ho in pugno! Tu toccale, torci
loro un solo capello e io entro in quella casa, mi prendo quei dischetti e
vedo cosa c'è dentro. Li vuoi vedere sul giornale? Vuoi che li consegni alla
vera Fbi? Non credo proprio che tu voglia questo, BRUTTO FIGLIO DI
UNA TROIA! E ho anche Smith, non te lo dimenticare! Io ho Smith!»
A Talley tremavano le mani per la rabbia. Era così che si sentiva subito
dopo un'irruzione con la Swat, quando si era sparato, e il sangue gli ribol-
liva in un modo che solo altro sangue avrebbe potuto calmarlo.
Quando l'Uomo con l'orologio parlò di nuovo, la sua voce era pacata.
«A quanto pare, tutti e due abbiamo qualcosa che l'altro vuole.»
Talley si sforzò di stare calmo. Aveva preso tempo.
«Ricordatelo. Ricordatelo bene.»
«D'accordo. Hai messo degli uomini a guardia di Smith. Mi sembra giu-
sto. Di lui ci occuperemo al momento opportuno. Ora vogliamo ciò che ci
appartiene.»
«Neppure un capello gli dovete torcere. Un capello e vi rovino, brutti
bastardi.»
«L'abbiamo già chiarito, Talley. Ora andiamo avanti. Devi ancora fare in
modo che io possa avere quei dischetti. Se non ci riesci, altro che capel-
lo...»
«Cosa vuoi?»
«I miei uomini sono pronti a partire. Sai a chi mi riferisco?»
«L'Fbi.»
«Sei, a bordo di due furgoni. Se fai qualche cazzata, se fai qualcosa di
diverso da quello che ti dico io, la tua famiglia la riavrai indietro un pezzo
alla volta.»
«Io faccio quello che posso, maledizione! Dimmi cosa vuoi.»
«Tutto quello che ti chiedono, tu glielo dai. Tutto quello che ti dicono di
fare, tu lo fai. Ricordati, Talley: quando io mi riprendo i dischetti, tu ti ri-
prendi la tua famiglia.»
«Cristo! Non puoi mandare una squadra di assassini. Il posto è pieno di
agenti di polizia. Non sono stupidi.»
«Neanch'io lo sono, Talley. I miei sanno esattamente come muoversi e
come parlare. Agiranno in modo professionale. Metti gli uomini dello sce-
riffo intorno alla casa, ma tieni buoni quelli della squadra tattica. Il mio
uomo, il caposquadra, ci penserà lui a parlare con loro. Si trovavano in zo-
na per una missione di addestramento insieme ad agenti doganali e US
Marshal. Ti hanno chiamato, ti hanno offerto la loro collaborazione e tu
hai accettato.»
Talley sapeva che il capitano Martin non se la sarebbe mai bevuta. Capì
che la cosa gli sarebbe scoppiata fra le mani.
«Non ci crederà nessuno. Perché avrei dovuto accettare, con gli uomini
dello sceriffo già sul posto?»
«Perché i federali ti hanno informato che Smith fa parte del loro pro-
gramma di protezione testimoni.»
«Davvero?»
«Non essere stupido, Talley. Il mio uomo chiarirà tutto con la squadra
dello sceriffo quando sarà lì. Sa cosa dire per convincerli. Vuoi sentire di
nuovo tua moglie?»
«Sì.»
La linea rimase muta per qualche momento, poi Talley udì delle voci e
sentì Jane urlare.
«Jane?!»
Talley strinse il cellulare con entrambe le mani. Si mise a urlare, dimen-
ticando dov'era, cosa stava facendo.
«JANE!!»
L'Uomo con l'orologio tornò in linea.
«L'hai sentita, Talley. Ora occupati dei miei uomini e fa' in modo che
possano lavorare.»
La comunicazione si interruppe. Talley tremava e sudava. Premette aste-
risco-6-9, nel tentativo di richiamare il numero, ma non successe nulla. Ja-
ne non c'era più. L'Uomo con l'orologio non c'era più. Talley tremava così
forte che gli pareva di essere ubriaco. Si sforzò di calmarsi, poi mise via il
telefono e tornò alla casa.
22
Sabato, 00.03
DENNIS
Quando Dennis rientrò in casa Mars non disse nulla, ma Kevin gli saltò
subito addosso.
«Cosa ti ha detto? Ti ha offerto un accordo?»
Dennis non provava nulla: non era più disperato né spaventato. Era solo
confuso. Non capiva come Talley potesse rifiutare così tanti soldi, a meno
che non pensasse che stava mentendo a proposito del denaro, proprio come
lui aveva mentito sul fatto che la casa apparteneva a un mafioso.
«Cosa voleva, Dennis? Ci ha dato un ultimatum?»
La ragazza era carponi sul pavimento della cucina e lo fissava.
«Il tuo vecchio è un mafioso?»
«Cosa stai dicendo?»
Capì subito che la ragazza non ne sapeva niente. Era stata una scioc-
chezza anche solo chiederglielo.
«Mars, levamela di torno. Riportala nella sua stanza.»
Dennis andò nello studio a prendere la vodka e portò la bottiglia nella
saletta, bevendo a garganella strada facendo. Le luci si accesero proprio
mentre si lasciava cadere sul divano di pelle.
Kevin si fermò sulla porta.
«Vuoi dirmi cos'è successo?»
«Non avrei dovuto raccontargli del denaro. Ora vorrà tenerlo tutto lui.»
«Ha detto questo?»
«Ho cercato di convincerlo a spartirlo. Cazzo, sono un sacco di soldi.
Pensavo bastassero a farci uscire da qui. Capisci, è stato questo il mio erro-
re. Quando gliene ho parlato, probabilmente ha cominciato a pensare che
poteva tenerli tutti per sé. Vaffanculo. Se non riusciamo a scappare lo dirò
a tutti. Tutti e tre racconteremo del denaro, così se Talley cerca di tenerselo
gli faranno il culo.»
Dennis si attaccò alla bottiglia, senza più sentire l'alcol, incazzato che
quel bastardo di Talley volesse rubargli i suoi soldi.
«Ci ammazzerà, Kev. Siamo fottuti.»
«È pazzesco. Non può ammazzarci.»
Kevin era troppo stupido.
«Deve ucciderci, idiota! Non può lasciare che diciamo a tutti dei soldi.
L'unico modo per tenerseli è che non lo venga a sapere nessuno. Ci farà
fuori prima che qualcuno possa leggerci i nostri diritti. Probabilmente pro-
prio in questo momento sta pensando a come fare.»
Kevin si avvicinò, fermandosi davanti al divano. Già solo la sua presen-
za lo infastidiva.
«È finita, Dennis. Dobbiamo arrenderci.»
«Non è finita un cazzo! Quei soldi sono miei!»
Dennis sentì la rabbia montare dentro e bevve dell'altra vodka. Era sem-
pre stato così. Per tutta la vita Kevin lo aveva trattenuto, frenato, tirato a
fondo come un peso morto.
Kevin gli andò ancora più vicino.
«Tu ci farai uccidere, per quei soldi. Talley non scherza. La polizia si
stancherà di aspettare e ci ammazzeranno tutti!»
Dennis levò la bottiglia, stringendosi nelle spalle.
«Allora tanto vale morire ricchi.»
«No!»
Kevin allontanò la bottiglia con un colpo della mano. Dennis schizzò in
piedi, fuori di sé per la rabbia e la frustrazione. Diede uno spintone al fra-
tello, scaraventandolo sul tavolino, e gli si lanciò addosso. Kevin grugnì
per il dolore e cercò di ripararsi il volto, ma Dennis lo tenne fermo con la
mano sinistra e lo colpì ripetutamente con il destro.
«Fermati, Dennis!»
Ma lui continuò a mollare pugni con tutta la forza.
«Smettila di piangere!»
Un altro pugno, ancora più forte
«Smettila di piangere!»
Kevin si raggomitolò a palla, singhiozzando, il volto rosso per le percos-
se. Dennis lo odiava. Odiava suo padre, sua madre, quelle topaie in cui a-
vevano vissuto e tutti quegli stronzi che sua madre si portava a casa, odia-
va il suo lavoro di merda, il Formicaio e ogni giorno della loro vita di falli-
ti, ma più di ogni altra cosa odiava Kevin perché gli ricordava tutte queste
cose ogni volta che lo guardava.
«Sei patetico.»
Dennis si rimise in piedi, svuotato, senza fiato.
«Quei soldi sono miei. Io non me ne vado senza, Kevin. Mettitelo bene
in testa. Noi non ci arrendiamo.»
Kevin si allontanò strisciando e mugolando come un cane bastonato.
Dennis recuperò la bottiglia, e vide Mars fermo sulla soglia che li osser-
vava con un'espressione vuota sul viso. Avrebbe voluto picchiare anche
Mars, quel figlio di puttana.
«Allora? Hai qualcosa da dire?»
Mars non rispose, il volto parzialmente in ombra.
«Allora?»
Mars rispose con voce grave.
«Mi piace qui, Dennis. Non ce ne andiamo.»
«Lo puoi ben dire che non ce ne andiamo.»
Un vago sorriso passò sulle labbra di Mars, l'unica parte del suo viso che
Dennis riusciva a vedere.
«Andrà tutto bene, Dennis, vedrai. Mi occuperò io di tutto.»
Dennis gli voltò le spalle e bevve un'altra sorsata di vodka.
«Bravo, Mars, fallo.»
Mars si confuse con l'ombra e sparì.
Dennis ruttò.
Quel bastardo gli faceva venire i brividi.
TALLEY
Il silenzio scese sugli York Estates. Il traffico sulla Flanders Road era
andato diminuendo; la fila di auto cariche di morbosi guardoni in cerca di
un incontro ravvicinato con il crimine se n'era andata, dando un po' di tre-
gua agli agenti della Stradale addetti ai posti di blocco. All'interno del
complesso, gli uomini dello sceriffo se ne stavano in auto o ai loro posti.
Nessuno parlava. Tutti aspettavano.
Talley fermò l'auto accanto al marciapiede davanti alla casa della signo-
ra Pena e spense il motore. Guardò la postazione mobile di comando. Visto
che nella casa non succedeva nulla, Maddox ed Ellison dovevano essere
rientrati nel furgone, alternandosi al telefono; il negoziatore non impegnato
poteva fare un pisolino sul furgone o sul sedile posteriore di un'auto. Tal-
ley era stanco. Sentiva un dolore alla schiena proprio in mezzo alle scapo-
le, un nodo di tensione che si irradiava a tutta la colonna. Aveva la testa
annebbiata, non solo dalla fatica, e temeva di aver perso la lucidità di pen-
siero. Non era più un ragazzo.
Entrò per bere una tazza di caffè, ma tornò subito alla sua auto. In cucina
c'erano tre uomini della Stradale e due dello sceriffo, e lui non aveva vo-
glia di parlare. Sedette sul cordolo del marciapiede con il Nokia e il suo
cellulare posati accanto. Sorseggiò il caffè pensando ad Amanda e Jane,
sedute insieme su un divano nella stanza anonima dove erano tenute in o-
staggio, vive, sane e salve. Immaginarsele così aiutava.
La ricetrasmittente agganciata al cinturone prese vita.
«Capo, qui Cooper.»
«Dimmi, Coop.»
«Ehm, mi trovo all'ingresso sud. Ci sono dei tipi dell'Fbi che chiedono di
lei.»
Talley non rispose. Era troppo impegnato a respirare. Fissò la postazione
mobile di comando e la fila di auto della polizia lungo la strada, gli agenti
che si muovevano tra i veicoli. Si sentiva preoccupato, spaventato. Stava
per diventare un traditore. Sarebbe stato come far entrare il nemico nel
campo. Avrebbe mentito a questa gente, venuta lì per aiutare lui e le per-
sone nella casa.
«Capo? Dicono che lei li sta aspettando.»
«Falli passare.»
Talley andò fino all'angolo della strada. Non sapeva cosa aspettarsi e vo-
leva incontrarli da solo, lontano dagli altri. Arrivato a un lampione si fer-
mò: in quel modo avrebbe potuto vederli alla luce.
Due furgoni grigi svoltarono l'angolo, quattro uomini a bordo del primo,
due sul secondo. Talley alzò una mano per fermarli. I due furgoni accosta-
rono al marciapiede, spegnendo il motore. Gli uomini all'interno avevano
capelli corti e indossavano tute da combattimento nere, la divisa standard
delle unità tattiche dell'Fbi. Uno degli uomini seduti dietro indossava un
berretto con la scritta "Fbi".
«Lei è Talley?» chiese l'autista del primo furgone.
«Sì.»
L'uomo seduto dalla parte del passeggero scese e girò intorno al muso
del veicolo. Era più alto di Talley e muscoloso. Era perfetto: tuta nera, an-
fibi, capelli cortissimi. Portava una pistola nera infilata in una fondina sot-
to l'ascella sinistra.
Si fermò di fronte a Talley, lanciò un'occhiata lungo la strada in direzio-
ne della casa, quindi tornò a voltarsi verso di lui.
«Okay, capo. Mi mostri un documento. Voglio sapere con chi sto par-
lando.»
Talley sollevò la felpa quel tanto da mostrare il distintivo.
«Non me ne faccio un cazzo di quello. Voglio vedere una fotografia.»
Talley tirò fuori il portafoglio e gli fece vedere un documento con foto-
grafia. Quando l'uomo fu soddisfatto, tirò fuori la custodia del distintivo e
l'aprì perché Talley lo vedesse.
«Okay. Io sono l'agente speciale Jones.»
Talley esaminò le credenziali che identificavano l'uomo come William
F. Jones, agente speciale del Federal Bureau of Investigation. C'era anche
una foto. Sembrava un documento autentico.
«Non perda tempo a chiedere i documenti a tutti. Ogni uomo della squa-
dra ne ha uno.»
«E vi chiamate tutti Jones?»
Jones chiuse l'astuccio con un colpo secco e lo mise via.
«Non faccia lo spiritoso, capo. Non se lo può permettere.»
Diede un colpetto al muso del furgone, facendo un cenno all'autista. Le
portiere dei due veicoli si aprirono. Gli altri cinque uomini scesero, diri-
gendosi verso il retro del secondo furgone. Come Jones, anche gli altri e-
rano perfetti, dagli stivali al taglio di capelli. Indossarono giubbotti anti-
proiettile con il logo dell'Fbi stampato sulla schiena.
«Tra qualche minuto il suo telefono squillerà» disse Jones. «Sa a quale
telefono mi riferisco. Quindi, chiariamo prima alcune cose. Mi sta ascol-
tando?»
Talley stava osservando gli uomini. Dopo i giubbotti indossarono delle
nuove protezioni per le cosce, il tutto con gesti calcolati ed efficienti. Dal
retro del secondo furgone qualcuno cominciò a distribuire passamontagna
neri, granate stordenti ed elmetti. Gli uomini piegarono il passamontagna
in due e lo infilarono sotto un passante sistemato sulla spalla, dove sarebbe
stato a portata di mano. Agganciarono le granate all'imbracatura con gesti
precisi e gettarono gli elmetti sui sedili oppure li posarono sul tetto del
furgone. Talley conosceva quei gesti perché li aveva compiuti un sacco di
volte quando lavorava nell'unità tattica della Swat. Questi uomini doveva-
no averli fatti altre volte.
«La sto ascoltando. Lei prima faceva il poliziotto.»
«Non si preoccupi di cosa facevo prima. Ora ha altre cose di cui preoc-
cuparsi.»
Talley lo guardò.
«Come potete pensare che funzionerà? Lo sceriffo ha mandato un'unità
di crisi al completo. Si incazzeranno e cominceranno a fare delle doman-
de.»
«Sono perfettamente in grado di occuparmi di loro e di qualsiasi altra
cosa. Come mi chiamo?»
Talley non capiva cosa cavolo volesse.
«Come?»
«Le ho chiesto il mio nome. Ha appena visto il mio tesserino. Come
cazzo mi chiamo?»
«Jones.»
«Bene. Io sono l'agente speciale Jones. Pensi a me in questi termini e
non farà stronzate. Io sono perfettamente in grado di fare la mia parte. Sua
moglie e sua figlia pregano che lei sappia fare la sua.»
Talley aveva la testa che gli pulsava, il collo così teso che sembrava in
fiamme, ma riuscì ad annuire.
Jones si voltò a guardare la fila di veicoli.
«Chi comanda, là?»
«Il capitano Laura Martin.»
«L'ha già avvertita del nostro arrivo?»
«No. Non sapevo cosa dire.»
«Bene. Meno tempo ha per fare domande, meglio è. L'uomo al telefono,
lei sa a chi mi riferisco, le ha detto che copertura useremo?»
«Smith è inserito nel programma di protezione testimoni.»
«Esatto. Smith è nel nostro programma, quindi è cosa nostra. Come mi
chiamo?»
Talley arrossì per la rabbia, ma si sforzò di dominarsi. Sembrava tutto
fuori controllo, surreale starsene lì alla luce del lampione, con le falene che
sbattevano contro il vetro e quegli agenti che non erano agenti.
«Jones. Lei si chiama Jones. Però vorrei tanto sapere il suo vero nome.»
«Stia calmo, capo. Noi dobbiamo collaborare. Io comando un'unità ope-
rativa speciale che stava conducendo delle esercitazioni insieme agli uo-
mini della Dogana quando Washington è venuta a sapere quello che sta ac-
cadendo qui. Hanno chiamato lei, spiegandole la situazione e chiedendo la
sua collaborazione. Abbiamo degli obblighi nei confronti di Smith, dob-
biamo proteggerlo, lui e la sua copertura, e quindi lei ha accettato. Spie-
gherò tutto questo al capitano Martin. Lei non dovrà fare altro che stare a
sentire e annuire. Ha capito?»
«Ho capito.»
«Al capitano non piacerà la nostra presenza, ma non farà storie perché
quello che le diremo ha un senso.»
«E se decidesse di controllare? Se conoscesse qualcuno dell'ufficio di
Los Angeles?»
«È mezzanotte passata di venerdì sera. Se chiama Los Angeles troverà
solo un agente di servizio, e questo dovrà chiedere a qualcun altro, cosa
che non vorrà fare. Anche se chiamasse l'agente responsabile di Los Ange-
les e lo svegliasse, quello aspetterà domani per parlare con Washington,
perché nessuno, assolutamente nessuno, ha motivo di dubitare di noi. E poi
non staremo qui molto a lungo.»
Jones porse a Talley un biglietto da visita bianco con il sigillo dell'Fbi
impresso nell'angolo sinistro in alto e un numero telefonico di Washington.
«Se quella si mette in testa di controllare, le dica che questo è il tizio che
l'ha chiamata. Può parlare con lui quanto vuole.»
Talley si mise il biglietto in tasca, chiedendosi se il nome sul biglietto
fosse quello di un vero agente. Probabilmente sì. Il solo pensarlo lo terro-
rizzò. Era come un avvertimento: questo ti fa capire quanto siamo potenti.
Talley lanciò un'occhiata agli uomini. Erano pronti. Dal secondo furgone
un uomo stava distribuendo MP5, CAR-15 e relativi caricatori.
«Cosa avete intenzione di fare?»
«Lei e io chiariremo la situazione con gli uomini dello sceriffo. Due dei
miei uomini faranno una ricognizione della casa, per vedere come siamo
messi. Dopodiché ci schieriamo in posizione e aspettiamo che l'uomo
chiami. Lei ha il suo telefono, io ho il mio. Quando lui dà l'ordine, ci muo-
viamo. Se nella casa dovesse succedere qualcosa che ci costringe ad agire
prima del tempo, agiremo. Ma continueremo ad avere il controllo delle o-
perazioni finché non avremo recuperato l'obiettivo. Dopodiché, la casa è
sua.»
Talley pensò alle parole dell'uomo, pensò che doveva aver già compiuto
azioni simili per l'esercito, i Ranger, o magari le Forze speciali.
«Non riuscirò a tenere fuori gli altri, lo sa bene. Gli uomini dello sceriffo
entreranno, e io con loro.»
Jones incrociò il suo sguardo e scosse la testa.
«Senta, amico, se questo la può aiutare, noi non vogliamo uccidere nes-
suno, neppure quei tre stronzi che hanno causato tutto questo casino. Vo-
gliamo solo la roba che si trova nella casa. Ma sapremo cos'è necessario
solo dopo aver fatto irruzione. Prima di recuperare quello che vogliamo,
dobbiamo rendere sicura la scena. E lo faremo. Siamo dei professionisti.»
Il telefono prese a squillare nella tasca di Talley. Ne aveva uno nella ta-
sca destra e uno in quella sinistra, e non ricordava più quale fosse. Tirò
fuori il cellulare dalla tasca sinistra. Era il Nokia. Suonò di nuovo.
«Risponda, capo.»
Talley premette il tasto di risposta.
«Talley.»
«Il signor Jones è con lei?»
«Sì, è qui.»
«Me lo passi.»
Talley porse il Nokia a Jones senza dire una parola. L'uomo se lo portò
all'orecchio, dicendo il proprio nome per far capire all'interlocutore che era
in linea. Talley lo osservò. Aveva gli occhi azzurri o grigi, non era facile
capirlo alla luce debole del lampione. Era sui quarantacinque anni, forte e
in perfetta forma fisica. Mentre parlava, i suoi occhi continuavano a guiz-
zare nervosi verso gli uomini dello sceriffo. Talley pensò che forse aveva
paura. Qualunque uomo sano di mente avrebbe avuto paura nella sua posi-
zione. Talley si chiese quale potere avesse l'Uomo con l'orologio su di lui,
o se Jones lo facesse per i soldi.
Jones finì di parlare e restituì il telefono a Talley.
«Andiamo, capo. È ora.»
«Cosa ha su di lei?»
Jones lo fissò, poi distolse lo sguardo senza rispondere.
«Io so perché lo faccio. Ma lei? Che cos'ha su di lei?»
Jones allacciò il giubbotto, più stretto di quanto fosse necessario, così
stretto che le cinghie tiravano.
«Lei non sa un cazzo.»
Jones si avviò lungo la strada.
Talley lo seguì.
KEVIN
TALLEY
Dopo che Talley e Jones ebbero parlato con il capitano Martin, Jones
portò i due furgoni all'imbocco della strada. Talley tornò alla sua auto, do-
ve rimase tutto solo a osservare i furgoni. Jones e uno dei suoi uomini, un
tizio biondo con i capelli a spazzola e gli occhiali cerchiati di metallo, si
allontanarono per perlustrare il perimetro.
Talley si sentiva un traditore, un codardo. Era tornato alla macchina in
modo da evitare i suoi uomini e quelli dello sceriffo. Quando lui e Jones
erano saliti sul furgone della postazione mobile di comando, non era riu-
scito a guardare in faccia il capitano Martin e aveva lasciato che fosse l'al-
tro a parlare.
Quando Jones e il suo uomo scomparvero nel cul-de-sac, la strada rima-
se deserta.
Il capitano Martin scese dalla postazione mobile di comando, vide Tal-
ley a bordo dell'auto e si avvicinò. Si era tolta il giubbotto antiproiettile e
tutta la roba che gli agenti della Swat si portano addosso, e indossava solo
la tuta verde scuro e un berretto con la scritta "Boss". Talley la osservò av-
vicinarsi, sperando che proseguisse verso la casa della signora Pena, ma lei
venne a mettersi accanto alla sua auto.
Si fermò a pochi passi di distanza, tirò fuori un pacchetto di sigarette e
ne offrì una a Talley.
«Non fumo.»
Laura Martin accese la sigaretta senza dire una parola. Aspirò a fondo,
poi espirò una boccata di fumo, che si espanse per l'aria della notte come
una coltre di nebbia. Talley non conosceva molti agenti della Swat che
fumassero. Non andava bene per il fiato.
Quando il capitano parlò, il suo tono era calmo e ragionevole.
«Vuole dirmi cosa sta succedendo?»
Talley fissava il fumo.
«Cosa intende dire?»
«Non sono stupida.»
Talley non rispose.
«Tutte quelle telefonate. La scena in ambulanza fra lei e il medico,
quando voleva che svegliasse Smith. Pensavo che stesse per sparargli. La
sua conversazione con il ragazzo, la corsa verso l'ospedale. Avevo là il mio
agente per l'intelligence, Talley; a nessuno risulta che siano state fatte mi-
nacce di morte nei confronti di Smith, neppure al suo ufficio.»
Tirò un'altra boccata, studiandolo.
«E ora arriva l'Fbi con questa stronzata secondo la quale Smith sarebbe
nel loro programma di protezione. Cosa sta succedendo, capo? Chi è Wal-
ter Smith?»
Talley le lanciò un'occhiata: lo sguardo di lei era fermo, tranquillo e pri-
vo di cattiveria. A Talley piacevano i suoi modi diretti, l'atteggiamento mi-
surato. Pensò che, se ne avesse avuto il tempo, sarebbe arrivato a trovarla
gradevole; probabilmente era una brava poliziotta. All'improvviso tutto il
peso della giornata gli crollò addosso con un'intensità che lo lasciò quasi
stordito. Troppe cose da tenere sotto controllo, troppe bugie da raccontare.
Era tutto troppo complicato, e lui non poteva permettersi di commettere er-
rori. Come un giocoliere con cento palle per aria, prima o poi ne avrebbe
lasciata cadere una. Una palla per terra e qualcuno sarebbe morto. Non po-
teva permetterlo. Non poteva abbandonare Amanda e Jane, o i ragazzi nel-
la casa, e neppure Walter Smith.
«Ho bisogno di aiuto.»
«È per questo che siamo qui, capo.»
«Le dice qualcosa il nome Sonny Benza?»
Lei scrutò il suo volto, e Talley pensò che non conoscesse quel nome.
Ma non era così.
«Il mafioso, giusto?»
«Smith lavora per lui. Smith ha qualcosa in casa sua che può rovinare
Benza, e Benza lo vuole.»
«Cristo.»
Talley la guardò e sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
«Ha preso mia moglie e mia figlia.»
Il capitano Martin distolse lo sguardo.
Talley le disse dei dischetti, dell'Uomo con l'orologio e di Jones. Le rac-
contò di come aveva gestito la cosa e come intendeva mandarla avanti. Lei
ascoltò senza fare domande né commenti finché lui non ebbe concluso, poi
spense la sigaretta schiacciandola con il piede e si voltò a guardare i due
furgoni a bordo dei quali aspettavano gli uomini di Jones.
«Deve informare l'Fbi.»
«Non posso.»
«Si rivolga al Dipartimento crimine organizzato. Con gli elementi che ha
in mano potrebbero muoversi subito, tirare Benza giù dal letto e incrimi-
narlo. Noi facciamo irruzione nella casa, prendiamo i dischetti che lui vo-
leva e fine della storia. E così salva la sua famiglia.»
«Però, non è la sua famiglia.»
Lei fissò la sigaretta spenta e fece un sospiro.
«No, suppongo di no.»
«Io ho solo una voce al telefono, capitano. Non so dove sono, non so chi
le tiene prigioniere. Benza ha delle persone, qui sul posto, è informato di
cosa stiamo facendo. Potrebbe far sparire Jane e Amanda prima ancora che
riusciamo a leggergli i suoi diritti, e a me cosa resterebbe? Tre uomini che
non sono in grado di identificare, a bordo di auto che non esistono, e Jo-
nes. Non me ne frega un accidente di incriminarlo. Io rivoglio la mia fami-
glia.»
Laura Martin rimase a fissare i due furgoni, e sospirò di nuovo. Sarebbe
stata una lunga notte per tutti.
«Non ho intenzione di lasciar commettere alcun omicidio, qui, Talley.
Non posso farlo.»
«Neanch'io.»
«E allora cosa farà?»
«Non posso permettere che quei dischetti vengano ritrovati. Sono l'unica
merce di scambio che ho.»
«Cosa vuole che faccia?»
«Che mi aiuti. Tenga tutto per sé, ma mi aiuti a prendere quei dischetti.
Non posso lasciar entrare Jones in quella casa da solo.»
Talley la guardò, sperando che acconsentisse. Non poteva impedirle di
rivolgersi ai suoi superiori: doveva fidarsi di lei. Lei ricambiò il suo sguar-
do e annuì.
«Farò quello che posso. Mi tenga informata, Talley. Non voglio beccar-
mi una pallottola nella schiena. E non posso neanche mettere a repentaglio
la vita dei miei uomini.»
Talley si sentì meglio; il peso era diminuito perché ora lei lo aiutava a
portarlo.
«Ho solo bisogno di quei dannati dischetti. Se li trovo, avrò qualcosa da
scambiare.»
Lei lo osservò, quindi rimise le sigarette nella tasca della tuta. Talley ca-
pì cosa stava per dire ancora prima che aprisse bocca.
«Lei ha bisogno di molto di più. Sa troppe cose perché Benza la lasci vi-
vo. Se ne rende conto, vero? Lei, la sua famiglia, Smith: non può lasciare
vivo nessuno di voi. Cos'ha intenzione di fare?»
«Ci penserò quando avrò in mano quei dischetti.»
Il cellulare di Talley squillò, rumoroso nel silenzio della notte. Il capita-
no Martin trasalì.
«Merda.»
Talley pensò che fosse Thomas, ma era Mikkelson. Sembrava lontana e
aveva una voce strana.
«Capo, Dreyer e io siamo ancora qui alla roulotte con gli investigatori
dello sceriffo. Ho delle novità.»
Talley si era completamente dimenticato di Mikkelson e Dreyer. Gli ci
volle un minuto per raccogliere le idee.
«Dimmi, Mikkelson.»
«Krupchek non si chiama Krupchek. Il suo vero nome è Alvin Marshall
Bonnier. Tiene la testa della madre nel freezer.»
Parte quarta
STRATEGIE
23
Sabato, 00.52
TALLEY
Alvin Marshall Bonnier, ventisette anni, noto anche come Mars Kru-
pchek, era ricercato per quattro omicidi compiuti a Tigard, Oregon. Le au-
torità locali avevano ricostruito la seguente catena di eventi in base alle
deposizioni dei testimoni e ai rilievi della Scientifica: Bonnier, che a quel-
l'epoca viveva con la madre, aveva rapito e violentato una vicina, Helen
Getty, di diciassette anni, abbandonandone il corpo nel letto di un ruscello
in una zona fitta di vegetazione. La ragazza era stata strangolata e ripetu-
tamente pugnalata al petto, all'addome e alla vagina. Qualche tempo dopo,
la signora Bonnier, inferma e affetta da una grave forma di artrite, aveva
scoperto le mutandine e la scarpa sinistra della Getty macchiate di sangue
nella camera del figlio. Lo aveva affrontato, e lui l'aveva uccisa a pugnala-
te nel soggiorno, poi aveva portato il cadavere in bagno per farlo a pezzi.
Bonnier aveva avvolto arti e torso in fogli di giornale e sacchetti di plastica
per la spazzatura e poi seppellito il tutto sotto i cespugli di rose della ma-
dre. I vicini avevano raccontato che quando il figlio era piccolo, la donna
era solita fare delle bacchette con i rami spinosi delle rose per picchiare il
ragazzo. Bonnier aveva tenuto la testa della madre in frigo, per poi tra-
sferirla alcuni giorni dopo nel bagagliaio dell'auto di famiglia. Con la testa
della madre al seguito per tenergli compagnia, aveva fatto amicizia in un
centro commerciale con un ragazzo sedicenne di nome Stephen Stilwell, e
l'aveva convinto a fare un giro in macchina, probabilmente offrendogli bir-
ra e sigarette. Invece, Bonnier aveva portato Stilwell in un vicino cinema
all'aperto abbandonato, dove lo aveva sodomizzato e poi ripetutamente ac-
coltellato. Messo il corpo nel bagagliaio insieme alla testa della madre, si
era quindi recato nella stessa zona dove si era già sbarazzato del cadavere
di Helen Getty. Arrivato sul posto si era accorto che Stilwell era ancora vi-
vo; allora gli aveva tagliato la gola, mutilato i genitali e abbandonato i resti
senza neppure tentare di occultarli. Alcuni testimoni al centro commerciale
erano stati in grado di fornire una descrizione di Bonnier e della sua auto.
Dodici giorni più tardi, una diciottenne liceale di nome Anita Brooks ave-
va chiesto un passaggio a Bonnier dopo aver perso l'autobus. Invece di ac-
compagnarla a scuola, Bonnier l'aveva portata a un lago lì vicino, dove l'a-
veva strangolata prima di bruciarle seni e vagina con le sue stesse sigarette.
Prove raccolte sulla scena del delitto indicavano che Bonnier aveva siste-
mato la testa della madre su un tavolo da picnic perché potesse osservare la
mutilazione. Bonnier era tornato immediatamente a casa, aveva parcheg-
giato l'auto al solito posto e poi, secondo quanto appurato dalla polizia, si
era subito allontanato. Le autorità avevano scoperto per primo il cadavere
di Anita Brooks, senza sospettare di Alvin Marshall Bonnier, finché due
giorni dopo i vicini, insospettiti dal cattivo odore che proveniva dalla casa
dei Bonnier, si erano convinti a chiamare la polizia, che aveva rinvenuto il
cadavere della madre sotto i cespugli di rose. Stilwell e la Getty furono ri-
trovati la settimana seguente.
Talley ascoltò il resoconto di Mikkelson con una crescente impazienza,
che non sfuggì al capitano Martin.
«Cosa diavolo sta succedendo?»
Talley alzò una mano, facendole segno di aspettare.
«Mikki, siamo sicuri che Bonnier e Krupchek siano la stessa persona?»
«Affermativo, capo. L'impronta palmare che ha lasciato nel minimarket
corrisponde perfettamente, e quelli dell'Fbi hanno portato una copia dei
mandati d'arresto emessi in Oregon. Ho visto la foto. È Krupchek.»
«Cosa sta succedendo lì, adesso?»
«La segnalazione al Vicap ha automaticamente allertato l'Fbi. I detective
dello sceriffo hanno isolato la scena in attesa che arrivi una squadra da Los
Angeles.»
Talley guardò l'orologio.
«Quando dovrebbero arrivare?»
«Non lo so. Vuole che chieda?»
«Sì.»
Mentre aspettava Mikkelson in linea, Talley mise al corrente il capitano
Martin, che ascoltò con un'espressione cupa e perplessa. Mikkelson tornò
in linea prima che lei potesse fare commenti.
«Capo?»
«Dimmi, Mikki.»
«I federali dovrebbero essere qui tra un paio d'ore. Vuole che li aspet-
tiamo o che torniamo lì?»
Talley le disse di tornare, quindi chiuse il cellulare con un colpo secco.
Si passò una mano tra i capelli e fissò la casa.
«Fantastico. Qua fuori abbiamo la mafia, dentro Freddy Krueger.»
Il capitano lo osservava, calma.
«Questo cambia le cose.»
«Lo so che cambia le cose, capitano! Sto cercando di salvare mia moglie
e mia figlia, ma devo tirare fuori quei ragazzi da là.»
«Per via di Krupchek? È tutto il giorno che sono là dentro con lui. Qual-
che ora in più non farà differenza.»
«Invece sì. Eccome.»
Talley lasciò Laura Martin alla postazione di comando e trovò Jones che
stava impartendo istruzioni ai suoi. Jones lo vide avvicinarsi e si staccò
dagli altri. Talley si accorse che sembrava nervoso, e teneva la mano posa-
ta sull'MPS appeso alla spalla.
«Cosa c'è, capo?»
«Abbiamo un problema. Uno dei tre soggetti nella casa non è quello che
credevamo. Krupchek. Il suo vero nome è Alvin Marshall Bonnier. È ri-
cercato per omicidio plurimo in Oregon.»
Jones fece un sorriso tirato, come se Talley avesse fatto una battuta nien-
te affatto divertente.
«Mi sta prendendo per il culo.»
«No, e c'è dell'altro che le piacerà ancora meno. La vera Fbi sta venendo
qui. Non sto scherzando, Jones, o come diavolo si chiama. Gli uomini del-
lo sceriffo hanno rilevato un'impronta sul banco del minimarket che questi
stronzi hanno rapinato. Hanno trovato una corrispondenza sul Vicap. Sa
che cos'è?»
Jones non sorrideva più, ma l'accenno all'archivio degli arresti per cri-
mini violenti non sembrava preoccuparlo granché.
«Lo so.»
Talley gli spiegò che gli uomini della Omicidi dell'Ufficio dello sceriffo
si trovavano in quel momento al domicilio di Krupchek, in attesa dell'arri-
vo degli agenti dell'Fbi da Los Angeles.
«Perlustreranno la sua casa e poi verranno qui. E non se ne andranno.
Domani mattina questo posto sarà invaso dall'Fbi, compresa una vera
squadra Swat.»
«A quell'ora noi ce ne saremo già andati. Aspettiamo solo l'ordine per
l'irruzione.»
«Io voglio entrare adesso.»
Jones scosse il capo.
«Finché non ho ricevuto la telefonata, no.»
Talley non sapeva se Jones fosse sospettoso o semplicemente non capis-
se.
«Mi ascolti. Le cose sono cambiate. Non si tratta più di tre balordi che
tengono in ostaggio una famiglia. Quei ragazzi sono prigionieri di un paz-
zo.»
«Andrà tutto bene, Talley.»
«Stiamo parlando di un uomo ricercato per diversi omicidi, Jones. Ha
tagliato la testa alla madre e l'ha messa nel freezer.»
«Non me ne frega un cazzo.»
«È uno psicopatico. Gli psicopatici sottoposti a forte stress si scompen-
sano, e questo tizio si trova dentro una pentola a pressione da questa matti-
na. Potrebbe fare qualsiasi cosa.»
Jones fu irremovibile.
«Faremo irruzione dopo che sarà arrivata la telefonata.»
«Vada a farsi fottere.»
«Dopo la telefonata.»
Talley si allontanò. Vide che il capitano Martin lo osservava dal furgo-
ne, ma non avrebbe saputo cosa dirle. Ripensò alla conversazione con Ro-
oney e concluse che lui non conosceva la vera identità di Krupchek. Se a-
vesse consapevolmente fatto comunella con un serial killer, questo avrebbe
significato che traeva un piacere indiretto dalla sua compagnia. Il bisogno
di Rooney di essere considerato speciale lo avrebbe spinto a seminare in-
dizi sull'identità di Bonnier nella speranza di far colpo su Talley, ma Roo-
ney non l'aveva fatto. Rooney non sapeva nulla, e quindi poteva cadere vit-
tima di Bonnier quanto tutti gli altri.
Talley si voltò a guardare verso Jones. Aspettava insieme ai suoi uomini
dietro i furgoni. Aspettava la telefonata.
Talley decise che non poteva più attendere. Doveva mettere in guardia
Rooney e Thomas, e far uscire di là i ragazzi.
In quel momento si udì un urlo provenire dalla casa.
DENNIS
THOMAS
Thomas udì Dennis e Kevin litigare attraverso la bocchetta dell'impianto
di condizionamento. Kevin voleva arrendersi, Dennis no. Thomas capiva
bene cosa significava: se Dennis non voleva arrendersi, quei tre stronzi sa-
rebbero restati là per giorni, e uno di loro avrebbe potuto cercare di fare del
male a sua sorella. Thomas aveva visto come Mars la guardava.
Le urla si placarono in fretta. Thomas attese che qualcuno salisse, ma il
corridoio rimase silenzioso. Pensò che forse stavano cercando di dormire.
Si infilò nell'armadio a muro e tornò nel sottotetto. Pensò di fermarsi
nella camera di Jennifer per dirle cosa aveva in mente, ma la sorella non
voleva che lui toccasse la pistola. Attraversò tutta la casa, fermandosi ad
ascoltare a ogni bocchetta di aerazione, ma sentì solo il televisore acceso
nella saletta. Il resto della casa era silenzioso.
Si calò attraverso la botola nella lavanderia, scendendo sul boiler e da lì
sulla lavatrice e poi a terra. Era buio: l'unica, debole luce filtrava dalla cu-
cina attraverso la dispensa. Fu costretto a ricorrere alla torcia.
Come toccò terra, sentì Dennis che chiamava Kevin e Mars. Dennis era
vicino, in cucina dall'altra parte del muro, o forse nella saletta. Thomas
venne preso dal panico. Fece per risalire verso la botola, ma in quel mo-
mento Mars rispose e allora lui si bloccò. Stavano parlando. Thomas aveva
ancora paura, ma era arrivato così vicino alla pistola che non voleva dover
rinunciare un'altra volta. Si sforzò di sentire cosa dicevano. Dennis stava
imprecando contro il fratello. Non stavano andando da quella parte, non
cercavano lui.
Thomas corse nel laboratorio. Mise una mano davanti alla torcia e l'ac-
cese di nuovo, il tempo strettamente necessario a localizzare il punto esatto
sopra il bancone, poi la spense e si arrampicò.
Si sollevò in punta di piedi, allungandosi più che poteva, ma non riuscì
ad arrivare alla scatola. Accese di nuovo la torcia e vide una latta di pittura
da cinque litri posata sul bordo del bancone. La mise in posizione, vi mon-
tò sopra con un piede e salì. Il barattolo cigolò ma resse. Thomas si allun-
gò di nuovo e questa volta le sue mani trovarono la scatola della pistola.
Ce l'aveva fatta! La tirò giù dallo scaffale, scese dalla latta e poi dal ban-
cone. Il cuore gli batteva forte per l'eccitazione. La scatola era molto più
pesante di quanto avesse immaginato. Pareva che ci fosse dentro una mi-
tragliatrice!
Thomas tirò fuori la pistola. Era pesante come un mattone e di gran lun-
ga troppo grande per la sua mano. Thomas non sapeva che calibro fosse,
non se ne intendeva, anche se una volta, al poligono, suo padre gli aveva
permesso di sparare un colpo. Il rinculo era stato così forte che gli aveva
fatto male!
Thomas aveva bisogno delle mani libere per risalire, e così se la infilò
nei pantaloni. La pistola lo faceva sentire potente, ma allo stesso tempo lo
spaventava. La sicurezza di poter proteggere se stesso e la sorella lo riem-
piva di ottimismo, ma non voleva far male a nessuno. Sperava di non do-
verla usare.
Thomas stava per tornare nella lavanderia, quando scivolò. Per poco non
cadde, ma riuscì ad aggrapparsi al bancone appena in tempo. Esplorò il
pavimento con il piede e trovò qualcosa di bagnato e scivoloso. Alzò la
scarpa che si staccò da terra come se fosse finita in un lago di colla. Tho-
mas accese la torcia. Un liquido scuro come l'olio si stava spandendo sul
pavimento. Lo seguì con il raggio della torcia. Veniva dal ripostiglio delle
scope. Thomas allargò le dita per far filtrare un po' più di luce dalla torcia.
Quell'olio era rosso.
Nella mente di Thomas, la porta del ripostiglio diventava sempre più
grande, mentre si avvicinava progressivamente come l'inquadratura di uno
zoom. Lo spazio angusto del ripostiglio si restrinse, mentre la porta au-
mentava di dimensioni. Dimenticò la pistola: ora esisteva solo la porta e
quel liquido rosso e viscoso che filtrava da sotto.
Thomas fissava la porta. Avrebbe voluto aprirla. Avrebbe voluto fuggi-
re.
Scavalcò la pozza rossa, allungò la mano verso la maniglia, ma non riu-
scì a toccarla. Le sue dita restavano a pochi centimetri da essa.
Aprila!
Thomas afferrò la maniglia con attenzione, terrorizzato all'idea che qua-
lunque cosa si trovasse dall'altra parte potesse cercare di tenerla chiusa.
Aprì lentamente la porta.
Kevin cadde all'esterno, crollando in un fagotto scomposto ai piedi di
Thomas, le braccia senza vita intorno alle gambe del ragazzo.
Aveva gli occhi spalancati, e la testa quasi staccata di netto, trattenuta
ormai solo da un pezzo d'osso biancastro, la gola squarciata da parte a par-
te si apriva nell'orribile parodia di una risata silenziosa. Thomas urlò.
JENNIFER
DENNIS
L'urlo proveniente dal retro della casa si insinuò nel suo stupore alcolico,
lasciandolo più sorpreso che spaventato. Era un urlo stridulo, come se fos-
se stata una ragazza a gridare, seguito da colpi sordi provenienti dal punto
più lontano della cucina, vicino al garage. Dennis tirò fuori la pistola, gri-
dando: «Che cazzo è stato? Chi c'è?».
Non poteva essere Mars, che era appena uscito da lì, né i due ragazzi che
si trovavano di sopra, a meno che quello stronzo di Kevin non fosse andato
a prenderli. Forse Kevin era tornato.
«Kev? Sei tu, stronzo?»
Dennis accese la torcia ed esplorò la cucina. Nessuna risposta, nessun
movimento.
«Maledizione, chi c'è qui?»
Niente.
Dennis puntò la luce verso la porta finestra, terrorizzato al l'idea che la
polizia gli stesse tendendo una trappola.
«Talley?»
Niente.
Spianò la pistola davanti a sé e attraversò la cucina diretto in garage.
«Sei tu, ciccione?»
Niente.
Dennis entrò nella dispensa e poi nel locale lavanderia. Il pavimento era
coperto da una pozza rossastra che si allargava, venendo verso di lui. Den-
nis aggrottò la fronte, perplesso. Fece un passo avanti, poi un altro. Vide il
fratello sul pavimento. Abbassò la pistola, raddrizzandosi.
«Kevin, che cazzo?... Alzati.»
Venne assalito da un tremito profondo e violento, proveniente da dentro,
che crebbe fino a che tutto il suo corpo ne fu scosso e il fascio di luce pre-
se a sobbalzare come impazzito per il piccolo locale.
«Kevin, alzati!»
Dennis avanzò con passo incerto. Era difficile mantenere l'equilibrio.
Giunto al limitare della pozza di sangue si fermò e puntò la torcia contro il
fratello. Vide il collo squarciato, il grottesco osso bianco esposto tra la
carne, gli occhi spalancati. Dennis spense la luce.
Non potevano essere stati il ciccione e la ragazza.
Mars.
Mars aveva mentito.
Mars aveva ucciso Kevin.
Dennis arretrò fino alla cucina, poi corse verso le scale.
«Mars!»
Salì i gradini due alla volta, con l'unico scopo di trovare Mars e uccider-
lo. Era arrivato a metà della scala quando sentì urlare la ragazza.
«MARS!»
Dennis si scagliò contro la porta, spalancandola e mandandola a sbattere
contro la parete. Mars teneva la ragazza per la gola, spingendola contro la
scrivania. Dennis puntò la pistola.
«Sei morto, stronzo.»
Con calma Mars girò la ragazza davanti a sé, bloccandogli la linea di ti-
ro. Dennis vide il coltello e la macchia di sangue che si allargava sulla
spalla sinistra.
Mars gli sorrise con un'espressione innocente.
«Cosa c'è che non va, amico? Perché sei così incazzato?»
Dennis vide la faccia terrorizzata della ragazza, vide i suoi occhi gonfi e
arrossati. Lei riuscì a pronunciare solo due parole: «Per favore».
Dennis sollevò la pistola. Non voleva sparare con lei davanti, ma voleva
piazzare un colpo in mezzo agli occhi di quel bastardo di Mars. Voleva
sentirlo urlare.
«Questo bastardo ha ucciso Kevin. Gli ha tagliato la gola. C'è sangue
dappertutto.»
Come se avesse bisogno dell'assoluzione di lei.
La ragazza chiuse gli occhi e urlò ancora più forte.
Dennis avrebbe dovuto essere pronto, ma non lo era. Avrebbe dovuto
premere il grilletto, ma non lo fece.
E poi fu troppo tardi.
Mars sollevò la ragazza per il collo e corse in avanti, caricandolo, co-
prendo in un lampo la distanza che li divideva. Dennis ebbe solo un attimo
di esitazione perché non voleva colpire la ragazza, ma fu comunque trop-
po. La ragazza gli crollò addosso, spinta da tutta la massa del corpo di
Mars, facendolo ruzzolare all'indietro, nel corridoio. Poi la ragazza venne
scagliata di lato e Mars gli fu addosso. Dennis ebbe solo il tempo di vedere
lo scintillio del coltello che calava su di lui.
THOMAS
24
Sabato, 02.16
MARS
Mars spense le luci ancora accese a mano a mano che passava davanti
agli interruttori. Uno dopo l'altro, l'ingresso, lo studio e la saletta piomba-
rono nell'oscurità. Mars sapeva che i poliziotti avrebbero visto le luci spe-
gnersi e si sarebbero chiesti il motivo.
Andò in cucina. Trovò dei fiammiferi in un barattolo vicino ai fornelli,
quindi spense le fiammelle pilota. Spruzzò benzina sul piano cottura e sui
tubi del gas, poi tornò verso la camera da letto matrimoniale, versando una
scia ininterrotta di carburante lungo le pareti. Il buio gli dava la forza del-
l'invisibilità; l'oscurità gli era amica. Mars pensò con rammarico che non
avrebbe più rivisto sua madre, ma solo perché ci godeva un mondo a tortu-
rare quella strega schifosa. Sentì la voce di lei, viva e chiara nella mente.
Non sopporto di vedere un ragazzo fare le cose brutte! Io non voglio ve-
dere un ragazzaccio, Marshall! Perché mi costringi a punirti in questo
modo?
Non lo so, mamma.
Questo ti insegnerà a essere migliore.
A lei non piaceva vedere un ragazzo fare le cose brutte, e così ora lui la
costringeva a vederle tutte, e qualche volta anche a partecipare. Si ramma-
ricò che non fosse con lui in quel momento: gli sarebbe piaciuto presentar-
la a Kevin e Dennis.
Finito il primo secchio di benzina, Mars passò alla tanica, continuando
la scia di carburante nella camera da letto. La rovesciò sul letto, sulle pareti
e sulla porta della stanza di sicurezza.
Poi tirò fuori i fiammiferi.
THOMAS
TALLEY
Quando Talley udì il primo urlo provenire dalla casa, prese posizione
dietro un'auto della Stradale. Gli agenti erano agitati poiché lo avevano
sentito anche loro. Talley non avrebbe saputo dire se si trattava di una voce
maschile o femminile, ma era stato un grido isolato. Ora la casa era nuo-
vamente silenziosa.
Talley andò verso l'agente più vicino.
«È sulla frequenza operativa?»
«Sì, signore. Ha sentito? Credo che nella casa stia succedendo qualco-
sa.»
«Dammi la tua radio.»
Talley chiamò Laura Martin, che prese atto della comunicazione senza
fare commenti. Talley si spostò lungo la fila di veicoli, cercando di sentire
se dalla casa provenisse qualche altro rumore, ma era tutto silenzioso.
Poi, una stanza dopo l'altra, le luci si spensero.
Talley vide il capitano Martin avvicinarsi e le andò incontro. L'urlo lo
aveva spaventato, ma il silenzio lo atterriva ancora di più. Jones era troppo
lontano per averlo sentito.
«Cosa succede? Perché la casa è al buio?» sbottò lei, eccitata.
Talley aveva cominciato a spiegarle i fatti quando vide un riflesso aran-
cione spostarsi all'interno della casa, incorniciando le tapparelle. Pensò che
si trattasse di una torcia.
Squillò il telefono.
«Talley.»
Era Thomas, ma non si distingueva una parola di quanto diceva perché
urlava e il collegamento era pessimo.
«Parla più lentamente, Thomas, non ti capisco!»
«Mars ha ucciso Kevin e Dennis e ora sta incendiando la casa! Io e Jen-
nifer siamo nella stanza di sicurezza! Siamo in trappola!»
Il collegamento stava perdendo di intensità. Talley sapeva che il ragazzo
doveva aver esaurito la batteria.
«Okay, figliolo. Ora vengo a prendervi! Quanta carica hai?»
«Sta finendo.»
Talley guardò l'orologio.
«Spegnilo, figliolo. Spegnilo, ma riaccendilo fra due minuti. Sto arri-
vando!»
Talley si sentiva stranamente distaccato, come se le sue sensazioni fosse-
ro ovattate. Ora non aveva altra scelta: doveva agire per salvare quei ra-
gazzi. Non importava più cosa volesse l'Uomo con l'orologio, o Jones, e
neppure che l'azione mettesse a rischio la vita di Jane e Amanda. Afferrò il
capitano Martin per il braccio trascinandola con sé mentre correva lungo la
strada verso Jones, urlando istruzioni strada facendo.
«Krupchek ha dato fuoco alla casa! Chiami i pompieri!»
«E Jones?»
«Sto andando da lui. Entriamo!»
«E sua moglie?»
«Chiami i pompieri e dica ai suoi uomini di tenersi pronti. Se Jones non
vuole venire, entreremo senza di lui!»
Laura Martin rimase indietro, occupata con la radio. Talley corse verso
Jones.
«Krupchek ha incendiato la casa. Dobbiamo andare.»
Jones si voltò a guardare la casa con espressione distaccata. Talley capì
che non gli credeva.
«Stiamo ancora aspettando istruzioni.»
Talley lo afferrò per un braccio e lo sentì irrigidirsi. Alle loro spalle, il
camion dei pompieri svoltò l'angolo rombando.
«La casa è in fiamme, maledizione! I ragazzi sono intrappolati nella
stanza di sicurezza. Non possiamo aspettare.»
«Stronzate.»
«Guardi!» esclamò Talley, dando uno spintone a Jones in direzione della
casa.
Attraverso la finestra della saletta ora si vedevano le fiamme. Le ricetra-
smittenti della polizia presero vita mentre gli agenti di guardia al perimetro
tenevano d'occhio l'incendio e quelli nel cul-de-sac si muovevano nervosi
dietro le loro auto, chiaramente in attesa che qualcuno facesse qualcosa.
Hicks e la squadra tattica dello sceriffo arrivarono di corsa verso il ca-
pitano Martin.
Jones sembrava bloccato, ogni decisione rimandata nell'attesa di quella
telefonata.
Talley lo tirò di nuovo per il braccio, costringendolo a voltarsi.
«Io faccio irruzione nella casa, Jones. Viene con me o no?»
«Entreremo quando ce lo dirà il nostro uomo. Non prima.»
«Non possiamo aspettare!»
«Uccideranno la sua famiglia.»
«Quei ragazzi sono in trappola!»
Jones impugnò il suo MPS. Talley fece scivolare la mano sotto la felpa e
sfiorò la .45.
«Vuole un conflitto a fuoco con il capo della polizia qui, in strada? Pen-
sa davvero di riuscire a mettere le mani su quei dischetti in questo modo?»
Jones lanciò un'altra occhiata alla casa e fece una smorfia. Niente di tut-
to ciò era nei piani. All'improvviso ogni cosa era sfuggita al controllo, e
Jones, come Talley, era stato spazzato via dalla tempesta.
Jones prese una decisione.
«E va bene, maledizione, ma saremo solo noi a entrare. Metteremo al si-
curo la struttura e poi recupereremo i dischetti.»
«Se non fa partire subito i suoi uomini, entreranno prima i pompieri.»
Misero a punto il piano d'attacco mentre correvano verso la casa.
MARS
TALLEY
Due uomini avrebbero sfondato la porta d'ingresso, altri due la porta fi-
nestra, mentre Talley e Jones sarebbero entrati attraverso la finestra di una
camera degli ospiti situata accanto a quella padronale. Una volta dentro,
Jones avrebbe chiamato via radio il sesto uomo, il quale avrebbe mandato
in frantumi le porte finestre scorrevoli della camera da letto padronale per
distrarre l'attenzione di Krupchek dalla porta, che sarebbe stata la via di
accesso per l'attacco. Ognuno di loro avrebbe portato con sé un estintore
per domare le fiamme.
Talley non aveva tempo di andare a prendere il giubbotto antiproiettile
in macchina e se ne fece prestare uno da un agente della Stradale, lo indos-
sò sopra la felpa, e poi si mise l'estintore a tracolla. I pompieri corsero in
avanti con le manichette, rimanendo al coperto finché dalla casa non fosse
venuta la comunicazione che i soggetti ostili erano stati neutralizzati.
Una volta deciso il piano d'attacco, Talley chiamò Thomas. Il collega-
mento era ancora più debole della volta precedente, e Talley gli disse di la-
sciare il cellulare acceso. Riaccenderlo avrebbe probabilmente richiesto
più energia di quanta se ne poteva risparmiare. Jones non fece commenti
sul fatto che Talley e il ragazzo si stessero parlando.
Il capitano Martin si avvicinò a Talley mentre Jones disponeva i suoi
uomini.
«Cosa vuole che faccia?»
«Non lo so.»
«Lascerà che si prendano i dischetti?»
«Non so cosa farò, capitano, davvero non lo so. Ora devo tirare fuori di
là quei ragazzi.»
Talley finì di chiudere il giubbotto e sistemò la ricetrasmittente. Tutto
procedeva alla perfezione, senza parole o gesti inutili. Quando fu pronto,
guardò Jones.
«Pronti?»
Jones indossò l'elmetto, poi si scosse un'ultima volta per sistemare l'at-
trezzatura.
«Si ricordi, Talley.»
«Facciamolo e basta.»
Jones partì in direzione della casa. Talley gli lasciò un passo di vantag-
gio, poi si voltò verso il capitano Martin.
«Se io non dovessi farcela, non lo lasci andare via. Informi chi di dovere
e cerchi di salvare la mia famiglia.»
«Lei si preoccupi solo di uscirne vivo» ribatté il capitano, e prima che
lui potesse rispondere si voltò per gridare ai suoi uomini di restare ai loro
posti.
Talley raggiunse Jones all'angolo esterno, davanti alla finestra della ca-
mera per gli ospiti. Udirono una musica forte e martellante provenire dalla
casa in fiamme. Talley era contento di questo, poiché il rumore della musi-
ca e dell'incendio avrebbe coperto il loro ingresso. Tolsero la zanzariera e
Jones forzò la finestra con un piede di porco. Spinse via il pannello e fece
un cenno con i pollici alzati a Talley, indicando che la stanza era vuota.
Sollevarono gli estintori e li posarono all'interno, quindi aspettarono. Non
sarebbero entrati nella casa finché gli altri non fossero stati in posizione.
Talley tirò fuori il telefono e chiamò Thomas.
«Thomas?»
«Sono qui, capo.»
La voce del ragazzo gli giunse frammentata e coperta di scariche elettro-
statiche.
«Ci siamo quasi. Tre minuti, forse quattro. Appena prendiamo Krupchek
entreranno i pompieri.»
«Fa molto caldo qui dentro.»
«Lo so. Krupchek è ancora lì nella stanza?»
Talley voleva continuare a far parlare il ragazzo. Finché parlava, non a-
veva tempo di rendersi conto di quanto fosse spaventato. E neanche Tal-
ley.
«È seduto per terra vicino al...»
La linea si interruppe.
«Thomas? Thomas?»
Niente.
Il cellulare del ragazzo si era scaricato del tutto.
Jones si voltò verso Talley e fece roteare un dito. Si stavano preparando
ad attaccare.
«Andiamo, maledizione.»
Jones puntò il dito verso la finestra.
«Via!»
Jones entrò per primo. Talley gli diede una spinta per aiutarlo e poi si ar-
rampicò dietro di lui. La stanza era illuminata solo dalla piccola barriera di
fiamme che avvolgeva la porta verso il corridoio. La camera da letto pa-
dronale era a soli tre metri da lì. Jones sparò alla serratura con il suo MP5,
Talley mise il colpo in canna. Accesero le torce e si scambiarono un'oc-
chiata. Talley annuì. Jones attivò il microfono.
«Ora.»
Talley udì le finestre scorrevoli della camera da letto padronale andare in
frantumi nello stesso momento in cui la porta d'ingresso saltava per aria,
divelta dai cardini.
Dalla camera da letto vennero due colpi in rapida successione. Talley e
Jones si lanciarono lungo il corridoio mentre nella camera echeggiava un
terzo sparo, e poi entrarono.
La camera da letto era un inferno. L'uomo che aveva infranto le finestre
era a terra, ferito, e si contorceva per il dolore. Talley avvertì un movimen-
to alla sua destra e vide Krupchek sollevarsi in piedi dietro una grossa pol-
trona di legno, a petto nudo, luccicante di sudore e furioso, un sorriso di-
storto sul volto. Krupchek urlò, un urlo stridulo, puntando la pistola verso
di loro e sparando mentre Talley e Jones aprivano il fuoco. Krupchek bar-
collò all'indietro, facendo mulinare le braccia, e cadde tra le fiamme, di-
menandosi e continuando a urlare. Jones gli scaricò addosso altri due col-
pi, e lui rimase immobile.
Deposero gli estintori mentre gli altri uomini di Jones entravano nella
stanza con le armi spianate.
«La stanza è sicura!» urlò Talley.
Jones puntò il dito verso i primi due e indicò loro l'uomo ferito.
«Tu e tu. Portatelo fuori, sul furgone.»
Talley diresse brevi getti dell'estintore contro la porta della stanza di si-
curezza e chiamò Jones perché lo aiutasse.
«Jones! I ragazzi sono qua dentro.»
Jones spinse l'altro uomo verso la porta.
«Lo studio è sul davanti della casa. Assicurati che il corridoio sia libe-
ro.»
«Mi aiuti a liberare i ragazzi!»
Jones e l'ultimo uomo si unirono a Talley. Gli estintori sibilavano come
draghi. Le pareti rosse diventarono nere a mano a mano che le fiamme che
le avvolgevano si affievolirono. Talley batté sulla porta con l'estintore.
«Thomas! Sono io!»
Le fiamme sulle pareti ripresero forza, mangiando la pittura.
«Thomas!»
Talley diresse il getto sulla porta mentre questa si apriva. Il ragazzo e la
sorella si ritrassero, temendo di essere investiti dal calore. Jones afferrò
Talley per un braccio.
«Sono tutti suoi, Talley. Noi prendiamo i dischetti.»
Talley li lasciò andare. Spruzzò nuovamente le pareti intorno alla porta
per respingere le fiamme, poi entrò e prese il ragazzo per mano.
«Dobbiamo fare in fretta. State dietro di me.»
Jennifer gli si avvicinò, guardandosi intorno nervosamente.
«È morto?»
Quando la vide, Talley provò una fitta di dolore. Jennifer e Amanda a-
vevano più o meno la stessa età. Erano pettinate allo stesso modo. Si chie-
se dove fosse sua figlia in quel momento. Si chiese se anche lei stesse cer-
cando il suo mostro.
«È morto, Jennifer. Venite, ragazzi. Siete stati bravissimi.»
Talley fece strada in corridoio, ricorrendo all'estintore ogni volta che le
fiamme minacciavano di avvicinarsi troppo. Si fermò solo il tempo neces-
sario a sintonizzare la ricetrasmittente sulla frequenza della polizia di Bri-
sto e chiamare Mikkelson.
«Mikki!»
«Dica, capo!»
«I ragazzi stanno uscendo dalla porta principale. Occupati di loro.»
Quando arrivarono nell'ingresso, Talley riuscì a vedere dentro lo studio.
Jones e i suoi uomini stavano perquisendo la scrivania di Smith. Talley
scostò Thomas di lato perché loro non lo vedessero, consapevole che quelli
erano gli ultimi momenti che gli restavano per salvare la sua famiglia.
L'Uomo con l'orologio doveva sapere che erano entrati nella casa. Avrebbe
chiamato Jones per avere un rapporto e si sarebbe aspettato i dischetti.
Talley si chinò verso il ragazzo.
«I dischetti sono ancora su nella tua camera?»
«Sì, nel mio computer.»
Talley indicò l'agente Mikkelson che aspettava nel cul-de-sac e spinse i
ragazzi verso la porta.
«Andate da lei. Correte!»
Talley attese finché non vide i ragazzi correre verso le auto, quindi im-
boccò le scale. Al piano superiore l'aria era invasa da un fumo così denso
che il raggio della torcia si ridusse a un debole alone di luce. Non si vede-
va a più di un metro di distanza. Avanzò lungo la parete e trovò Rooney a
terra, fuori dalla prima porta. Bolle rosse si affollavano sul petto e sulla
bocca del ragazzo come funghi di vetro. Talley non avrebbe saputo dire se
fosse vivo o morto, e non perse tempo a controllare. Allontanò la pistola di
Rooney con un calcio, guardò dentro la prima stanza i pochi istanti neces-
sari a capire che era quella di Jennifer. Proseguì lungo il corridoio. La se-
conda stanza era quella di Thomas. Talley trovò il computer per terra, ai
piedi del letto. Un dischetto era posato sul pavimento, l'altro era inserito
nel drive accanto alla tastiera. Talley vi puntò la torcia per leggere le eti-
chette, con il cuore che batteva forte, e capì di averli trovati: "Disco Uno"
e "Disco Due". L'unica merce di scambio per salvare la sua famiglia!
«Talley!»
Talley sussultò, e vide il capitano Martin ferma sulla soglia. Indossava il
casco allacciato stretto e aveva la pistola nella fondina sul fianco.
«Li ha trovati?»
Talley le si avvicinò. Ora il fumo si era fatto più denso. Talley vide le
fiamme in fondo al corridoio.
«Dov'è Jones?» le chiese.
«Stanno buttando all'aria lo studio. Ma non hanno trovato nulla.»
«Il ragazzo li aveva in camera sua» disse Talley, mostrandole i dischetti.
Voleva uscire senza incontrare Jones e si avviò verso le scale. Il capitano
lo afferrò per il braccio, sollevando la pistola. «Me li dia.»
Talley rimase scioccato dal suo tono. Osservò l'arma, e poi vide che la
donna lo guardava con occhi nervosi.
«Di cosa sta parlando?»
«Mi dia quei dischetti.»
Talley guardò di nuovo la pistola e capì, senza ombra di dubbio, che la
donna era sul libro paga di Benza.
Scosse la testa.
«Quando sono arrivati a lei?»
Il capitano tolse la sicura.
«Mi dia quei dischetti, Talley e riavrà la sua famiglia.»
Lui sapeva che non era così. Sapeva che quando Sonny Benza si fosse
sentito al sicuro, chiunque era a conoscenza del suo rapporto con Smith sa-
rebbe morto.
Talley arretrò, tenendo i dischetti lungo il fianco. Una volta che lei li a-
vesse avuti, lo avrebbe ucciso. Sarebbe stato più facile, così.
«Dov'è Jones?»
«È di sotto. Lui non sa nulla.»
«Cosa intende fare, capitano? Raccontare che sono stato colpito nella
confusione? Intende dare la colpa a Krupchek e Rooney?»
«Se necessario.»
«Quanto la pagano?»
«Più di quanto lei possa immaginare.»
La donna sollevò ancora di più la pistola.
«Ora mi dia quei dischetti.»
Le fiamme salirono lungo le scale, in fondo al corridoio. Talley vide le
lingue rossastre danzare nel fumo, e in quel bagliore qualcosa si mosse.
«Me li dia, Talley. È l'unico modo per uscire vivo da qui.»
Un'ombra si sollevò da terra.
«Rooney è vivo.»
Lei lanciò un'occhiata veloce di lato, ma tornò subito a voltarsi verso di
lui. Non gli credeva.
«Mi dia i dischetti!»
Dennis Rooney avanzò barcollando verso di loro, lo sguardo vitreo,
grondante sangue. Aveva trovato la pistola.
«Martin!»
Lei si voltò, ma non abbastanza in fretta. Rooney sparò prima che lei po-
tesse puntargli contro la pistola. Qualcosa di duro colpì Talley al petto. Il
proiettile seguente colpì Laura Martin alla coscia, il terzo alla guancia, sot-
to l'occhio destro.
Mentre la donna ruotava lentamente su se stessa nel fumo, accasciandosi
al suolo, Talley estrasse la pistola e fece fuoco.
25
Sabato, 02.41
TALLEY
KEN SEYMORE
GLEN HOWELL
TALLEY
Talley corse all'ospedale a sirene spiegate. Batté Cooper sul tempo, arri-
vando poco dopo le tre del mattino. Il parcheggio era quasi deserto. Gli ul-
timi giornalisti rimasti erano accampati vicino all'ingresso del pronto soc-
corso. Parcheggiò sull'altro lato dell'edificio per evitarli, ma scese dall'auto
perché non riusciva a stare seduto. Si appoggiò alla portiera a braccia con-
serte, osservando la strada, e in quel momento si rese conto che indossava
ancora il giubbotto antiproiettile con la ricetrasmittente attaccata. Se li tol-
se e li gettò sul sedile di dietro. Trovò il Nokia e lo lanciò sul sedile ante-
riore.
Il Nokia si mise a squillare.
Talley esitò, pensando che l'Uomo con l'orologio doveva essere venuto a
sapere di quanto era successo. Rimase a fissare il cellulare come se volesse
nascondersi, come se ogni suo movimento potesse attirare l'attenzione del-
l'Uomo e questi potesse scoprire che lui si trovava là. Voleva che l'Uomo
con l'orologio restasse nel dubbio.
Talley provò una stretta al petto e si rese conto che aveva smesso di re-
spirare. Il cellulare si zittì proprio mentre Cooper entrava nel parcheggio.
Talley fece un respiro profondo e alzò una mano, ma Cooper stava già ve-
nendo verso di lui.
Talley osservò Thomas e Jennifer scendere dall'auto. Avevano un'aria
pallida e tirata, lo sguardo ansioso. Talley sapeva che adesso sembravano
stare bene, nell'iniziale euforia del rilascio, ma dopo sarebbero cominciati
gli incubi, i flashback, e gli altri sintomi dello stress post-traumatico. An-
cora una volta Jennifer lo fece pensare ad Amanda. Talley si sentì travol-
gere da una tempesta di sentimenti: avrebbe voluto piangere e abbracciarli,
ma si concesse solo un sorriso.
«Ci portate da nostro padre?» chiese Jennifer.
«Sì. L'agente Cooper vi ha detto di vostra madre? L'abbiamo rintracciata
in Florida. È già in volo.»
Sorrisero, felici. Jennifer si lasciò sfuggire un'esclamazione di trionfo.
Talley le porse la mano.
«Non ci siamo presentati. Mi chiamo Jeff Talley.»
«Jennifer Smith. Grazie per tutto quello che ha fatto.»
La ragazza gli strinse la mano con forza e con un sorriso smagliante.
Thomas, invece, gliela strinse come se stessero concludendo una trattativa
d'affari. I due ragazzi si tenevano così vicini che le loro braccia si sfiora-
vano, ed entrambi si stringevano a lui. Sapeva che era normale: lui era
l'uomo che aveva salvato loro la vita.
«È un piacere conoscerti, finalmente, Thomas. Mi sei stato di grande
aiuto. Sei davvero molto coraggioso. Tutti e due lo siete.»
«Grazie, capo. Sa che è proprio sporco?»
Jennifer alzò gli occhi al cielo e Cooper scoppiò a ridere.
Talley si guardò le mani. Erano striate di fuliggine e di sudore, come il
viso.
«Già. Non ho avuto tempo di darmi una ripulita.»
«A volte è proprio maleducato» disse Jennifer. «Ma ti sei visto, Tho-
mas? Hai il naso tutto sporco di cenere.»
Thomas se lo sfregò, senza mai distogliere lo sguardo da Talley.
«Nostro padre sta bene?»
«Sta meglio. Andiamo da lui.»
Talley li condusse all'interno passando da un ingresso secondario, tenen-
doli per mano. Li lasciò solo per mostrare il distintivo a un inserviente che
li accompagnò attraverso l'ospedale fino al pronto soccorso. Tutti quelli
che incontravano si voltavano a guardarli. Talley sapeva che era solo que-
stione di tempo prima che la stampa venisse a sapere che il capo della po-
lizia aveva accompagnato i due ragazzi presi in ostaggio dal loro padre. E
quando l'avesse saputo la stampa lo avrebbe saputo anche l'Uomo con l'o-
rologio.
Talley si rifiutò di passare attraverso l'accettazione del pronto soccorso.
Allora l'inserviente li portò oltre il laboratorio lungo un corridoio usato dal
personale per portare i campioni da analizzare. Klaus e la dottoressa Reese
non c'erano più, ma un'infermiera che lo aveva già visto prima lo fermò.
«Lei è il capo della polizia, vero? Posso aiutarla?»
«Sto portando i figli di Smith a vedere il loro padre.»
«Sarà meglio che vada a chiamare la dottoressa Reese.»
«Bene. Noi intanto andiamo.»
Talley cercò la stanza di Smith senza attendere. Pensava che stesse dor-
mendo, e invece lo trovarono sveglio, che fissava il soffitto. Era ancora
collegato ai monitor.
«Papà?» disse Jennifer.
Smith sollevò appena il capo, e sul suo volto comparve un'espressione
sorpresa ed euforica.
I ragazzi corsero verso di lui, entrambi dalla parte del letto libera dai ca-
vi, e lo abbracciarono. Talley attese sulla soglia, dando loro qualche mo-
mento, poi entrò e rimase ai piedi del letto. Jennifer piangeva, la faccia
premuta contro il petto del padre. Il ragazzino si asciugò gli occhi e si in-
formò se la ferita gli faceva male.
Talley li osservava. Smith li teneva stretti a sé. Poi alzò la testa, incon-
trando lo sguardo di Talley, e li strinse ancora più forte.
«Grazie al cielo state bene. State bene, vero? È tutto a posto?»
«La mamma sta tornando a casa.»
Talley si avvicinò a Jennifer.
«Abbiamo rintracciato sua moglie. In questo momento è in volo.»
Smith guardò Talley negli occhi, poi distolse lo sguardo.
«La sua famiglia è salva» disse Talley.
Smith annuì.
«Cosa è successo ai tre uomini?»
«Sono morti.»
Thomas tirò il padre per il braccio.
«Papà, la nostra casa sta bruciando. Per poco non bruciavamo anche
noi.»
Thomas diede un altro strattone al braccio del padre e poi si lasciò sfug-
gire un gran singhiozzo, nascondendo il volto sul suo petto. Stava venendo
tutto a galla, la tensione e la paura. Smith gli accarezzò i capelli.
«Va bene così. Sei salvo. Solo questo conta.»
Talley attese che il ragazzo si fosse calmato, poi strinse appena la spalla
di Jennifer, dicendole: «Potreste aspettare un secondo in corridoio? Ho bi-
sogno di parlare con vostro padre».
Smith indicò il corridoio con un cenno del capo. Jennifer prese Thomas
per mano e lo condusse fuori. Smith fece un respiro profondo e guardò
verso Talley.
«Grazie.»
Talley tirò fuori i due dischetti.
Smith li fissò, poi distolse lo sguardo.
«Lo ha detto ai ragazzi?»
«No. Ma le faranno delle domande. Thomas mi ha aiutato a recuperarli.
Li ha aperti sul suo computer.»
«Non significano nulla, per lui.»
«Si farà delle domande. Prima o poi vorrà sapere.»
Smith fece un altro sospiro.
«Merda.»
«Sono davvero dei bravi ragazzi. Thomas, poi, è speciale.»
Smith chiuse gli occhi.
Talley lo osservò, chiedendosi cosa avrebbe potuto dire per convincere
quell'uomo ad aiutarlo. Aveva trattato con centinaia di soggetti, e la strate-
gia era sempre la stessa: scoprire cosa avevano bisogno di sentirsi dire e
dirlo. Trovare il tasto giusto e premerlo. Ora sembrava tutto così lontano.
Non sapeva come comportarsi. Si voltò a guardare Jennifer e Thomas fuori
in corridoio, e provò un dolore così assoluto e profondo che pensò di esse-
re annientato. Se solo fosse riuscito a ritrovare Jane e Amanda non le a-
vrebbe più lasciate andare.
Diede un colpetto sul braccio di Smith.
«Non so da dove venga lei, né cosa abbia fatto nella sua vita, ma farà
meglio a comportarsi onestamente con quei ragazzi. Lei ha riavuto la sua
famiglia, Smith. Sono tutti salvi. Mi aiuti a riprendermi la mia.»
Smith sbatté le palpebre, fissando il soffitto. Scosse la testa e strinse gli
occhi. Fece un altro respiro profondo, poi guardò verso i figli.
«Merda.»
«Già. Merda.»
Smith lo guardò. Aveva gli occhi lucidi.
«Se ha i dischetti ha tutto. Può sbatterli dentro per sempre.»
«Chi ha preso la mia famiglia?»
«Dev'essere Glen Howell. Doveva venire da me proprio oggi. È l'uomo
di Benza qui in zona.»
Talley si toccò il polso.
«Rolex d'oro? Molto abbronzato?»
Smith annuì.
Talley si stava animando. Ora aveva qualcosa in mano. Era arrivato vi-
cino alla porta e si sentiva pronto a fare irruzione.
«Okay, Smith. Glen Howell. Lui mi ha chiamato spesso, ma ora ho bi-
sogno di chiamarlo io. Dove lo trovo?»
Smith gli diede il numero di telefono di Howell.
26
Sabato, 03.09
TALLEY
GLEN HOWELL
SONNY BENZA
27
Sabato, 03.37
Santa Clarita, California
TALLEY
Talley guidava a luci spente, buttandosi sul limite estremo della carreg-
giata tutte le volte che incrociava un veicolo. Parcheggiò lungo la strada a
un centinaio di metri dal motel, lasciando l'auto in mezzo ai cespugli e rin-
graziando il cielo per la decisione di indossare una felpa nera. Legò un ro-
tolo di nastro adesivo da imballaggi a un passante della cintura, poi infilò
in tasca una manciata di fascette serrafilo di plastica. Si sfregò del terriccio
su faccia e mani per smorzare il chiarore della pelle, estrasse la pistola e si
avviò a passo svelto verso il motel. La luna, alta e lucente come una perla,
gli illuminava la strada.
Talley pensava che Howell avrebbe schierato delle sentinelle per essere
avvertito nel caso si fosse avvicinata la polizia. Arrivò ai confini della pro-
prietà e si fermò, immobile, vicino a un cespuglio di manzanita dalle foglie
pungenti, perlustrando l'oscurità ai limiti della zona illuminata alla ricerca
di qualche minimo movimento o di un'ombra sospetta. Quando era con la
Swat, Talley si era avvicinato a centinaia di case occupate da criminali ar-
mati, e questa volta non era diversa dalle altre. Il motel era un lungo edifi-
cio rettangolare a due piani circondato da un'area di parcheggio. Poche au-
to sostavano davanti alle stanze del pianterreno. Due enormi motrici di au-
toarticolato erano ferme sul retro, mentre una terza era parcheggiata vicino
alla strada. Talley fece il giro della proprietà muovendosi al di fuori della
zona illuminata e fermandosi ogni due passi per guardarsi in giro e ascolta-
re.
Individuò un uomo di guardia sul lato orientale del parcheggio, seduto
tra le ruote di un lungo autoarticolato. Pochi minuti dopo scoprì un secon-
do uomo accovacciato sotto una pianta di pepe dall'altra parte della strada,
sul lato ovest. Talley si guardò intorno attentamente alla ricerca di altri, ma
non ne vide.
DUANE MANELLI
Manelli era sdraiato a pancia in giù sul terreno compatto alla base di una
pianta di pepe, e osservava LJ Ruiz che si muoveva tra le ruote di un lungo
autoarticolato. Si tenevano in contatto con il cellulare. Se uno dei due a-
vesse avvistato un veicolo che si avvicinava, o qualcosa di sospetto, poteva
avvertire subito l'altro e poi Glen Howell. A Manelli non piaceva vedere
tutto quel movimento. Voleva dire che LJ era annoiato, e le persone an-
noiate fanno degli errori.
«LJ, sei al tuo posto?» sussurrò nel cellulare.
«Sì, sono qui.»
«Allora, sistemati e smettila di agitarti.»
«Vaffanculo. Io non mi sto agitando.»
Manelli non rispose: LJ aveva smesso di muoversi, e lui decise di lasciar
perdere. Aveva passato abbastanza tempo in esercitazioni di ricognizione
notturna quando era nell'esercito per sapere quando rispettare il silenzio
radio.
Tornò a sdraiarsi per terra.
Ruiz disse qualcosa, ma Manelli non capì.
«Ripeti.»
Ruiz non rispose.
«Non ti ho sentito, LJ. Cos'hai detto?»
Niente.
«LJ?»
Manelli udì uno scricchiolio di ghiaia alle sue spalle, poi la testa gli e-
splose con i colori dell'arcobaleno.
TALLEY
GLEN HOWELL
MARION CLEWES
TALLEY
TALLEY
L'uomo sulla porta, che Howell aveva chiamato Marion, alzò la pistola
puntandogliela dritta in faccia. Marion era un uomo piccolo, dall'aspetto
comune, il tipo di persona anonima che risulta invisibile in un centro
commerciale e impossibile da descrivere per un testimone. Un signor Qua-
lunque: altezza media, corporatura media, capelli castani, occhi castani.
Talley fissò la bocca della pistola, aspettando il proiettile.
«Mi dispiace Jane.»
Marion spostò improvvisamente la pistola di lato e fece fuoco. Aggiustò
la mira e sparò ancora, e ancora. Il primo proiettile prese Howell sopra
l'occhio destro, il secondo centrò l'uomo della Mustang in pieno occhio si-
nistro, e il terzo colpì l'uomo dalla testa grossa alla tempia.
Marion abbassò la pistola.
Talley era in piedi contro la parete, immobile. Guardava Marion come
un uccello guarda un serpente.
Marion si strinse nelle spalle.
«La vita non perdona.»
Marion attraversò la stanza per prendere l'unico dischetto buono, se lo
mise in tasca e andò verso la macchina. Aiutò Jane a scendere, poi aprì la
porta posteriore e fece lo stesso con Amanda. Girò intorno alla vettura, salì
al posto di guida e partì senza dire una parola. Talley lo vide parlare al cel-
lulare prima ancora di essere uscito dal parcheggio.
Il motel era tranquillo.
Un vento scuro aveva soffiato su Bristo Camino, qualcosa che andava
oltre il controllo di Talley, oltre il suo dolore e il suo smarrimento, e ades-
so era cessato. Adesso restavano solo loro tre.
«Jane?»
Talley uscì barcollando dalla stanza e corse verso la moglie. L'abbracciò,
stringendola disperato, poi attirò a sé la figlia e le strinse entrambe, mentre
le lacrime gli rigavano il volto. Le tenne strette e capì che non le avrebbe
lasciate mai più andare via, che le aveva perse una volta e per poco non le
aveva perse una seconda, questa volta per sempre, e che avrebbe fatto tutto
quanto era in suo potere perché non accadesse di nuovo.
Era finita.
28
Sabato, 04.36
Palm Springs, California
SONNY BENZA
Dopo la telefonata con Glen Howell, Sonny Benza non provò nemmeno
a rimettersi a dormire. Si fece venti milligrammi di Adderall e due piste di
coca per tirarsi su, poi tutti e tre si sedettero ad aspettare.
Al primo squillo del telefono poco ci mancò che saltasse giù dal divano.
Tuzee lo guardò, chiedendogli se voleva che rispondesse lui. Benza an-
nuì.
Tuzee alzò la cornetta.
«È l'aeroporto. Vogliono sapere dove vuoi andare. Devono compilare un
piano di volo.»
«Digli Rio. Lo cambieremo in viaggio.»
«Sapranno dove siamo diretti» disse Salvetti come Tuzee ebbe riattacca-
to. «Quei jet vanno così in alto che il controllo aereo li segue per tutto il
volo.»
«Non ti preoccupare, Sally. Ci penseremo.»
«Facevo così per dire.»
«Non ti preoccupare.»
La seconda volta che il telefono squillò, Tuzee rispose senza chiedere
nulla. Dalla sua espressione, Benza capì che quella era la chiamata che a-
spettava.
«Merda» disse Salvetti.
Tuzee schiacciò il pulsante del vivavoce dicendo: «È Ken Seymore.
Ken, Sonny e Charlie sono qui. Cosa sta succedendo, laggiù?».
«È un casino. Sta andando tutto a puttane. Sono ancora qui nel comples-
so, ma...»
L'urlo di Benza coprì la sua voce. La paura nella voce di Seymore lo
mandò in bestia.
«Non me ne frega un cazzo di dove sei. Abbiamo quei maledetti dischet-
ti o no?»
«No! Li hanno loro. Glen Howell e altri due dei nostri sono morti. Han-
no preso Manelli, Ruiz e non so chi altri. È un gran casino, qui. Non so co-
sa sia successo.»
«Chi ha ammazzato Howell? Talley?»
«Non lo so! Sì, penso sia stato Talley. Non lo so. Cazzo, se ne sentono
di tutti i colori.»
Sonny Benza chiuse gli occhi. Tutto finito, tutto distrutto. Tre balordi
qualunque fanno irruzione in una casa e tutto quello che lui aveva costruito
in una vita stava per sparire.
«Sei sicuro che abbiano i dischetti?» chiese Tuzee.
«Talley li ha dati agli uomini dello sceriffo. Questo lo so di sicuro. Non
so cosa sia successo dopo. Glen l'hanno fatto fuori al motel, c'è stata una
gran sparatoria o qualcosa del genere, e ora sono arrivati quelli dell'Fbi, la
vera Fbi. Cosa volete che faccia?»
Benza scosse la testa: non c'era più nulla che Ken Seymore o altri potes-
sero fare.
«Sparisci» disse Tuzee. «Chiunque non sia stato preso deve sparire. Lì
avete finito.»
La linea restò muta. Ken Seymore non c'era più.
Benza si alzò senza una parola e andò alla grande vetrata che dominava
Palm Springs. Quella vista gli sarebbe mancata.
Salvetti gli si avvicinò, fermandosi alle sue spalle.
«Cosa vuoi fare, capo?»
«Quanto pensi che abbiamo prima che arrivino i federali?»
Aveva già un'idea, ma voleva sentirselo dire.
Salvetti e Tuzee si scambiarono un'alzata di spalle.
Fu Tuzee a parlare. «Talley dirà loro cosa c'è sui dischetti; poi, proba-
bilmente, parleranno con Smith. Non so se lui confermerà o meno.»
«Parlerà, parlerà.»
«Okay, diranno che ti trattengono come soggetto a rischio di fuga, e in-
tanto avranno il tempo di formulare i veri capi d'accusa; poi chiederanno
un mandato sulla base del nostro presunto coinvolgimento nei sequestri e
negli omicidi di Bristo. Supponendo che ottengano un mandato per telefo-
no e che si appoggino alla polizia di Stato attraverso il loro ufficio locale...
diciamo due ore.»
«Due ore.»
«Sì, non penso che possano arrivare qui prima.»
Benza sospirò.
«Okay ragazzi. Voglio essere in volo tra un'ora.»
«Va bene, Sonny.»
«Lo dirai a New York?» chiese Salvetti.
Benza non avrebbe detto nulla a New York. Aveva più paura della loro
reazione che di affrontare i federali.
«Si fottano. Andate a prendere le vostre famiglie. Non preoccupatevi dei
bagagli, compreremo tutto a destinazione. Troviamoci all'aeroporto al più
presto. Quarantacinque minuti al massimo.»
I tre uomini rimasero in silenzio per un momento. Erano nella merda fi-
no al collo e lo sapevano. Benza strinse loro la mano. Erano amici sinceri e
fidati. Benza voleva bene a entrambi.
«Siamo stati bene, qui, ragazzi.»
Charlie Salvetti cominciò a piangere. Voltò le spalle e uscì dall'ufficio
senza una parola.
Tuzee rimase a fissare il pavimento finché Salvetti non se ne fu andato,
poi allungò nuovamente la mano verso Benza, che la strinse.
«Si sgonfierà tutto, Sonny. Vedrai. Chiariremo le cose con New York, e
finirà tutto bene.»
Benza sapeva che erano tutte stronzate, ma apprezzò il tentativo di Tu-
zee per tirarlo su di morale. Trovò anche la forza di sorridere.
«Philly, dovremo guardarci le spalle per il resto della nostra vita. Be', fa
parte del gioco.»
Tuzee sorrise stancamente.
«Sì, penso di sì. Ci vediamo all'aeroporto.»
«Contaci.»
Tuzee si allontanò in fretta.
Sonny Benza tornò a voltarsi verso la finestra. Restò ad ammirare le luci
nel deserto sotto di lui, splendenti come sogni infranti, e ripensò a quanto
era stato orgoglioso suo padre, a come si vantava: "Solo in America,
Sonny, solo in America; a due passi dalla casa di Francis Albert!".
Frank Sinatra era morto da anni.
Benza andò a svegliare la moglie.
VIC CASTELLANO
Vic Castellano sedeva sulla terrazza che dominava l'Upper West Side di
Manhattan. Era una mattina stupenda, limpida e gradevole, anche se sareb-
be diventata più calda di un fottuto forno prima di mezzogiorno. Indossava
ancora l'accappatoio di spugna con la scritta "Non scocciatemi" sulla
schiena. Gli piaceva così tanto che probabilmente l'avrebbe indossato fino
a che non si fosse ridotto a uno straccio. Posò il caffè.
«Dalla tua espressione capisco che le cose non vanno bene.»
Jamie Beldone era uscito in quel momento a parlargli.
«Proprio così. La polizia ha i dischetti. Hanno preso il contabile di Ben-
za e parecchi altri dei suoi. Non appena i federali avranno visionato il con-
tenuto, avremo una bella grana per le mani.»
«Ma sopravviveremo.»
Jamie annuì.
«Incasseremo qualche colpo, ma sopravviveremo. Per Benza, invece, è
un altro discorso.»
«Quel figlio di puttana non ha ancora avuto la decenza di chiamare. Ma
ci pensi?»
«Dimostra di non avere classe.»
Castellano si appoggiò allo schienale, pensando a voce alta. Lui e Jamie
avevano affrontato l'argomento più e più volte durante la nottata, ma non
faceva mai male ripetere certe cose.
«Sopravviveremo, ma a causa di questo rottinculo della costa Ovest sa-
remo sottoposti a un sacco di pressioni da parte del procuratore federale.
Questo significa che abbiamo diritto a un risarcimento.»
«Le altre famiglie la vedranno in questo modo.»
«E dal momento che i federali stanno per mettere Benza fuori dal giro,
nessuno protesterà se ce ne occupiamo noi al posto loro.»
«Mi sembra giusto.»
Castellano annuì.
«In fondo, probabilmente è stato un bene per tutti che questo sia accadu-
to. Possiamo mandare qualcuno laggiù a rilevare quello che resta della par-
te di Benza, e ritagliarci una fetta più grossa della torta.»
«L'aspetto positivo che tutti gradiranno. Cosa intende fare, capo?»
Erano ore ormai che Castellano sapeva cosa avrebbe fatto. Non ne era
entusiasta, ma aveva già organizzato tutto.
«Telefona.»
Beldone fece per rientrare in casa.
«Jamie!»
«Sì, capo?»
«Voglio essere sicuro. Quel Clewes, Marion Clewes, è un po' strano.
Non voglio avere solo la sua parola che la colpa è stata tutta di Benza. Vo-
glio saperlo con sicurezza.»
«Sono sicuro, Vic. Ho controllato. Ho appena messo giù con Phil Tuze-
e.»
Castellano si sentì meglio. Sapeva che Phil Tuzee non gli avrebbe mai
detto una cosa per un'altra.
«Allora va bene. Fa' quella telefonata e finiamola qui.»
SONNY BENZA
Sua moglie si muoveva così pigramente che gli venne voglia di infilarle
un pungolo da vacche su per il sedere. I ragazzi erano ancora più lenti.
«Vuoi sbrigarti, perdio? Dobbiamo andarcene da qui.»
«Non posso lasciare le mie cose!»
«Te ne comprerò di nuove!»
«Non possiamo abbandonare le nostre foto! E il nostro album del ma-
trimonio? Come fai a comperarmi un nuovo album del matrimonio?»
«Cinque minuti, hai cinque minuti! Prendi i ragazzi e aspettami davanti
a casa o ti lascio qui.»
Benza attraversò la casa a passo svelto, diretto verso il garage. Portava
solo una sacca da ginnastica blu di nylon con dentro centomila dollari in
contanti, le medicine per l'ipertensione e la .357. Qualunque altra cosa gli
servisse, poteva comperarla una volta atterrati: Benza aveva oltre trenta
milioni di dollari depositati su conti esteri.
Schiacciò il pulsante per aprire la porta del garage. Buttò la sacca sul se-
dile posteriore della Mercedes, quindi si mise al volante. Accese il motore,
inserì la retromarcia e accelerò con violenza, partendo all'indietro in u-
n'ampia curva verso la porta d'ingresso della casa. Andava così forte che
per poco non centrò in pieno l'anonima berlina che gli bloccava la strada.
Lampi di luce esplosero intorno all'auto, mandando in frantumi il lunotto
posteriore della Mercedes. I proiettili lo sbatterono contro il volante, e poi
di lato sul sedile. Sonny Benza cercò di estrarre la .357 dalla borsa, ma non
ne ebbe il tempo. Qualcuno spalancò la portiera dalla parte del guidatore e
gli sparò in testa.
Parte quinta
IL CAMPO DI AVOCADO
29
Domenica, 14.16
Due settimane dopo
TALLEY
FINE