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Mori Yōko

Fiabe di letto

Titolo originale: Jōji, 1978

A cura di Giuliana Carli e Daniela Travaglini

Traduzione di Greta Annese,


Giuliana Carli e Daniela Travaglini
Avvertenza

Per la trascrizione dei termini giapponesi è stato adottato il sistema


Hepburn, secondo il quale le vocali sono pronunciate come in italiano e le
consonanti come in inglese.
Si noti inoltre che:
– ch è un’affricata come la c nell’italiano cera
– g è sempre velare, come in gatto
– h è sempre aspirata
– s è sorda come in sandalo
– sh è una fricativa come sc nell’italiano scena
– w si pronuncia come una u molto rapida
– y è consonantica e si pronuncia come la i italiana.

Il segno diacritico sulle vocali indica l’allungamento delle medesime.


Secondo l’uso giapponese, il cognome precede sempre il nome. Per alcuni
termini giapponesi menzionati nel testo, si rimanda al glossario a fine
volume.
Nota introduttiva

Fiabe di letto è un tributo postumo a Mori Yōko. Nel 1978 con Fame
d’amore (Jōji), il lungo racconto che apre questa raccolta, tracciò un solco,
che fu poi seguito e ampliato da quante intuirono il valore della sua
autenticità, umana e letteraria.
Vorremmo che fosse ancora qui a dispensare fiducia e ironia, ma
prematuramente se n’è andata, nel 1993. Le chiediamo scusa per il ritardo
nel dare forma al progetto di introdurla ai lettori italiani. Al suo imprinting
vorremmo ora restituire il dovuto, suggerendo a chi legge di
contestualizzare il Giappone di Mori Yōko.
Yōko scriveva nell’era pre-digitale, pre-blog, pre-social, parlava da
cornette di telefoni ormai scomparsi, descriveva luoghi e abitudini che il
XXI secolo ha trasformato, ma ha vissuto ed è diventata popolare alla
velocità di un tweet. Cercheremo di darne conto nei cenni biografici e negli
«Appunti di lettura» in chiusura di volume.

Le traduttrici
Fame d’amore

L’estate stava per finire.


Il mio mese di vacanza, durante il quale mi ero sentita così abbandonata,
si era concluso. Stavo per lasciare Karuizawa, che ormai si avviava
rapidamente all’autunno. Ripensai alle giornate di questa seconda metà
d’estate come a un incubo, che mi aveva vista immersa nella lettura di
raccolte di racconti di Roald Dahl e di Ray Bradbury.
Era la metà di agosto, quando alla radio sentii della morte improvvisa di
Elvis Presley: l’ultimo barlume di gioventù, l’ennesimo, si era spento in
qualcuno, pensai.
Rimasi incantata dalla luce che filtrava attraverso i rami degli alberi, dai
raggi chiari che si riversavano sull’erba del giardino. In un istante l’impeto
del mio cuore si placò, e in quella debole onda le ferite ancora aperte
sembravano quasi dimenticare il ricordo della sofferenza. Ma un attimo
dopo, all’impercettibile cambiamento causato dal fruscio del vento tra gli
alberi, il mio cuore fu di nuovo irrequieto, e mi sentii subito trasportata
all’indietro verso quelle scene: le nostre amare discussioni, i numerosi gesti
densi di sensualità, quella cena penosa.
La storia era finita, e mi lasciava sgomenta che tutto fosse stato a causa di
una stupida bugia. Nel corso della vita umana si possono sperimentare
infiniti desideri, ma pur essendo una donna adulta, prima di Lane, mai sarei
stata in grado di costruire un castello di menzogne così perfetto e terribile.
Una sola era la verità, ma, ironia della sorte, quella parola era l’unica che
fino alla fine non mi uscì di bocca. Amavo Lane. Ero stata attratta da lui sin
dal giorno in cui ci eravamo conosciuti, questo mi sconvolgeva. E quando
Lane me lo aveva chiesto, turbata, avevo risposto: «No, non sono sposata».

Per quanto il rimpianto possa essere tangibile, è il tempo, infine, che porta
inevitabilmente a dimenticare. O magari continuerò a imprimere il mio
dolore tra le righe delle pagine del libro che rigiro tra le dita, intrise dei miei
dubbi.
Ma lui… Lane?
Mi veniva la nausea a immaginarlo in quel momento nella sua stanza di
Aoyama, dove non soffia un vento dolce che lenisce la rabbia, in balìa di un
senso di libertà misto a disprezzo e amarezza, a causa mia. Nella mia
mente, il sorriso beffardo e sprezzante di Lane, che avevo imparato bene a
conoscere, mi strozzava lo stomaco nel dolore.
Le lacrime avevano lavato via dal mio volto la tristezza, trasformandola in
sofferenza fisica. I miei occhi, privi di espressione, mi fissavano allo
specchio. Mentre mettevo il rossetto e mi strofinavo il mascara colato sotto
gli occhi, il peso di cui mi ero liberata era solo una magra consolazione.

Un venerdì di fine giugno. In quella sera di caldo afoso, mio marito aveva
in programma di andare insieme a nostra figlia Erika poco lontano, nella
casa di villeggiatura di Akiya. Quel sabato a mezzogiorno dovevo ritirare
un nastro da tradurre, così ci eravamo accordati che li avrei raggiunti il
giorno dopo.
«Lo sai, cerco sempre di evitare di prendere lavori di sabato, se possibile»
dissi a mio marito mentre era di spalle e caricava le buste della spesa nel
portabagagli dell’auto. «Stavolta si tratta di un radiodramma americano.
Quando mi hanno detto che si trattava di un giallo, mi è venuta una gran
curiosità. Mi spiace, ma devo assolutamente occuparmene».
«Va bene. Non è la prima, e non sarà l’ultima volta. Comunque, hai messo
il caffè nel thermos?».
«Sì, l’ho messo, Paul. Ho preparato anche del pollo freddo e una torta al
cioccolato. Falli mangiare a Erika in macchina».
«Grazie. Bene, noi andiamo. Perché stasera non passi a trovare tua
madre?».
«Sì, forse». Quella sera non avevo la minima intenzione di andare a casa
di mia madre a Seijō, così risposi vagamente: «O potrei andare a mangiare
da qualche parte fuori…».
In quel momento mi venne in mente il volto di Nishiwaki Shunsuke.
Mio marito mi diede un bacio in fronte. Gli lanciai uno sguardo per
salutarlo, i suoi occhi con la luce del sole avevano assunto una tonalità
verde intenso. Lui e nostra figlia si allontanarono; Erika, seduta sul sedile
posteriore della Crown, saltellava leggera canticchiando come un uccellino
e, agitando la mano bianca, mi salutava.
In casa era già calata la sera, simile a un profondo torpore. In
quell’oscurità, per un attimo, mi sentii serena. Il modo in cui avevo
mandato via mio marito, mutando la freddezza del mio cuore in un sorriso,
in una recita estremamente naturale, mi fece pensare a una messa in scena
sgradevole e dozzinale. Ma in questo sapevamo di essere complici, e il suo
far finta di nulla era un tentativo di andare d’accordo senza mostrare i denti.
Ormai ci eravamo abituati a questo, eppure, ancora nell’ombra, tra le
pieghe di qualche luogo dell’anima, ciò che assomigliava a insoddisfazione
e rabbia andava trasformandosi in nervosismo, che non poteva essere
cancellato, e continuava a bruciare.
Incrociai le braccia al petto e per un momento rimasi immobile, quasi
stordita, tenendomi stretta.
Poi telefonai a Shunsuke.
Una lunga notte di venerdì, il senso di colpa di non trascorrerlo insieme a
mio marito e a mia figlia improvvisamente svanì, e nella malinconia ubriaca
che genera la notte, vidi una fredda fiamma divampare in fondo al cuore.
Come una pianta rampicante si avvinghiava tra le articolazioni e in breve
mi scaldò il sangue, straripando, allungandosi dalla mano fino alla cornetta,
quasi strattonandomi.
Eppure tentennai, esitando a lungo; mi assaliva sempre un senso di
avversione verso il telefono nel momento in cui stavo per comporre il
numero.
Quell’apparecchio nero, rannicchiato, senza carattere, poteva trasmettere
al mio interlocutore, non sapevo mai fino a che punto esattamente, la mia
voce e i miei sentimenti. Tutto ciò mi generava sempre ansia, dover parlare
attraverso quell’oggetto tanto scivoloso quanto inquietante quasi mi
terrorizzava.
Non parlavo con Shunsuke dalla fine di settembre dell’anno precedente.
Avevamo mantenuto una fragile amicizia dopo esserci laureati, sentendoci
al telefono o vedendoci due, massimo tre volte l’anno, per scrutarci a
vicenda e poi far ritorno alle nostre vite ormai separate.
Nishiwaki Shunsuke, iscritto come me all’Università di Belle Arti, al
corso di architettura, era un ragazzo dal corpo flessuoso e dall’espressione
attenta come quella di un falco. Io mi stavo specializzando, senza successo
in verità, in violoncello, presso la Facoltà di musica dello stesso ateneo.
Quando ci incontrammo davanti alla recinzione rotta del cortile, ero una
ragazza che non conosceva il mondo, e il solo fatto che avesse spalancato i
suoi occhi color nocciola mi mandò in estasi, mi innamorai. Dopo una
fanciullezza trascorsa senza nessuno, mi ritrovai a sperimentare un’intensa
tempesta di emozioni. Finita l’università, gli amici credevano che ci
saremmo sposati, e così si aspettavano i nostri genitori, ma tradimmo tutti,
rompendo una relazione che durava da tre anni.
Shunsuke, una volta laureato e libero da tutto ciò che aveva a che fare con
la vita universitaria, era pronto per un mondo nuovo. Per cogliere le
possibilità che il suo talento gli offriva, partì da solo per Harvard,
voltandomi le spalle, quelle spalle esili sulle quali, per un momento, sembrò
quasi farsi carico delle mie sofferenze passate. Ciò che vedevo, mentre le
sue spalle si allontanavano sempre più, era la decisione non edulcorata di un
perfetto sconosciuto, che opponeva un rifiuto netto al passato, barattandolo
con una sicura libertà.
Anch’io, di colpo, mi ritrovai sgombra da sentimenti di complicità,
indolenza, diffidenza e amara gelosia. All’inizio, in quel vuoto inafferrabile,
provai un brivido di terrore per aver perso il mio futuro a causa di
un’illusione di gioventù, non sapevo nemmeno come occuparmi di me
stessa. Non sapevo che fare delle mie braccia, se abbassarle o sollevarle, se
mi desse sollievo tenerle immobili, o se mi fosse di aiuto stringermele al
petto. Alla fine, non mi restava altro da fare che sbatterle, continuando a
colpire le pareti bianche della stanza più forte che potevo, ogni giorno.
Mi liberai in fretta del pensiero di Shunsuke soltanto per proteggere il mio
orgoglio. Dalla sofferenza di quei giorni imparai a non legarmi troppo
all’amore, ovviamente, ma neanche alle persone, agli amici, alle arti, e in
generale a ogni espressione del genere umano.
E quando, poco dopo, giunsi alla decisione di provare a spiccare il volo
con le mie piccole ali, come prima cosa smisi col violoncello. C’erano
limiti evidenti alle mie capacità, e detestavo essere sempre relegata in un
angolino dell’orchestra. Fu soprattutto papà a stupirsi della mia decisione,
ma lo convinsi a forza, nonostante non volesse arrendersi, che avrei badato
a me stessa.
Perciò, quando finalmente potei cambiare ruolo, mettendomi dal lato di
chi ascolta un’esecuzione musicale, tirai un sospiro di sollievo. Una vita di
musica durata diciassette anni, che si erano accatastati con caparbietà fino a
quel momento. Un mondo fatto di esercitazioni fino quasi a sputare sangue,
se soltanto ci ripensavo. Erano uno strazio quegli esercizi ripetitivi, la
musica a un certo punto aveva finito col fagocitarmi al suo interno, come
fossi un guscio di carne: rompere quel guscio trasparente comportò quasi
una sofferenza fisica. La sensazione di stanchezza dopo aver cambiato
pelle, più della sensazione di libertà che Shunsuke mi aveva procurato, fu
per me un grandissimo motivo di sollievo.
Ripresi i contatti con lui soltanto dopo tre anni, quando gli annunciai il
mio matrimonio.

Si erano fatte quasi le sette e mezza di sera, quando chiamai lo studio di


architettura di Nishiwaki Shunsuke.
«Ciao, sono Yōko. Stai lavorando?».
«Ciao, Yōko! Che succede?» all’altro capo del filo sentii la voce senza
esitazioni di Shunsuke, la stessa da dieci anni.
«Niente. Se stasera non sei impegnato, mangiamo insieme?».
«D’accordo. Hai litigato di nuovo con tuo marito?».
«Dai, non ti chiamo solo per questo».
«Sì, sì, va bene. Ti aspetto da Otsuna Sushi alle otto». Così Shunsuke
riattaccò.

Dall’incrocio di Roppongi mi diressi verso l’Agenzia della Difesa, sulla


sinistra, cento metri più avanti, c’era Otsuna Sushi. Arrivai per prima, così
mi sedetti al bancone e ordinai sashimi di gambero e un whisky con soda.
Non dovetti aspettare a lungo, Shunsuke si presentò con i suoi modi
frenetici, come se volesse tagliare l’aria con la spalla sinistra.
«Fa un caldo terribile anche stasera».
«Ne è passato di tempo. Il lavoro come va? Sempre impegnato?».
«Sì, più o meno» rispose bruscamente, strofinandosi con forza il
tovagliolo sul viso; poi posò lo sguardo sul mio volto per la prima volta,
rivolgendomi una smorfia esagerata. «Stai passando un’ottima estate vedo,
sei abbronzatissima!».
Il vigore della sua voce, l’irruenza delle sue parole, mi facevano sempre
vacillare, ma il suo tono era affettuoso e nei suoi occhi scuri c’era
tenerezza.
«Passo tutti i fine settimana ad Akiya con mia figlia, mi sto bruciando
sotto il sole, cosa che detesto».
Shunsuke, in un sussurro, continuò: «Stai bene così», toccandomi il
braccio, quasi a volermi tranquillizzare. Ordinò dei nigiri zushi al bancone e
continuammo a parlare della spiaggia ancora per un po’. Esaurito
l’argomento, ci fu un attimo di silenzio.
Fui io a interromperlo: «Ultimamente mi sento molto depressa. Mi
sembra tutto così senza senso, ed è frustrante. Non dirmi che è l’età!».
«Ti serve una tresca» rispose Shunsuke seccamente. «E dello straniero
dello scorso anno che mi dici? Non vi vedete più?».
«Sì, ci vediamo ancora. Ma è una storia finita».
«È già finita? Certo, non andresti mai a letto di nuovo con uno con cui hai
rotto. Sbaglio?».
«E tu, allora?».
«Non sono certo a corto di donne».
«Quindi continui con le tue scopate fisiologiche, come al solito?».
«Se dici questo, Yōko, ecco la prova che stai invecchiando». Mentre
parlava, Shunsuke avvicinò velocemente la bocca al mio orecchio: «Oggi è
sempre peggio, sai, Yōko. Non te lo dico nemmeno quello che tocca fare
prima di poter entrare tra le gambe di una donna. E a te cosa piace da quel
punto di vista?».
«Ben altre cose, sai?» risi, profondamente divertita. «Io sono molto
esigente. Perché penso che quella sia una cosa che uomini e donne
dovrebbero fare insieme, e farla bene, a vicenda. È questo che mi piace».
«Decisamente esigente. Quindi mi stai dicendo che tra noi non c’è alcuna
possibilità di ricominciare».
«Già, non è proprio il caso. E poi la questione è un’altra. Tu sei il mio
punto di riferimento. La mia nostalgia».
«Non capisco cosa intendi». Shunsuke si alzò in piedi.
«Andiamo da un’altra parte a bere qualcosa» lo invitai, ma lui rispose che
doveva tornare in ufficio, aveva ancora del lavoro da sbrigare; poi, con fare
distaccato, mi domandò: «C’è altro che volevi dirmi?».
I suoi occhi, come illuminati da un bagliore, mi esortavano con dolcezza a
rispondere. Sorridendo, scrollai la testa. Shunsuke, facendo un cenno, si
fece portare il conto e allo stesso modo di come era arrivato, senza il
minimo sentimentalismo e con aria distaccata, quasi fredda, se ne andò a
passo svelto.
Poi mi alzai anch’io, e d’un tratto decisi di avviarmi verso il Chalcot
House, dove di solito andava mio marito. Sicuramente lì avrei incontrato
qualche faccia conosciuta. Mi diressi verso il locale, che distava circa due
minuti, camminando a passo svelto. Mi piaceva camminare velocemente,
pur non avendo alcuna particolare urgenza. Al contrario, lo detestavo se
andavo di fretta, in quel caso mi dava quasi il voltastomaco.
La notte a Roppongi era appena cominciata e lungo la strada, adorna
come un albero di Natale, si vedeva la Tokyo Tower. Quando salii le scale
di mattoni per entrare al Chalcot House, il condizionatore era acceso e l’aria
all’interno del locale avvolto dall’oscurità era densa, di una tonalità bluastra
per via del fumo di sigaretta. Qui si riunivano persone provenienti da
diverse parti del mondo, uomini e donne dai lineamenti diversi, come pesci
nelle profondità marine, tra i quali mi muovevo lentamente. Il brusio, che di
tanto in tanto si sollevava, faceva vibrare l’atmosfera all’interno del locale
che si tingeva di azzurro, come una corrente impetuosa che si agiti sotto la
calma superficie del mare.
Per un attimo quella calca mi intimorì, poi, quando incrociai lo sguardo di
un giornalista indiano di mia conoscenza, che mi rivolse un meraviglioso
sorriso, mi feci coraggio ed entrai.
Per fortuna, dal lato rivolto verso il bancone, mi scorse David Hall, che a
gran voce mi fece cenno di raggiungerlo. Mi avvicinai a lui come fossi stata
tratta in salvo, facendomi strada tra la ressa. David mi domandò: «E tuo
marito dov’è?».
«Non urlare, Dave! Stanotte sono single!». Poi, vedendolo nel suo vestito
di ottima fattura sgualcito, lo canzonai: «Ti piace far sembrare dozzinali le
cose di lusso, eh?».
David, prendendolo per un complimento, mi rivolse allora un sorriso
smagliante, poi proseguì: «Ah, fammi indovinare, Paul come al solito è
andato a fare la guardia a tua figlia nella casa al mare, vero? E quindi,
Yōko, sei qui a caccia di uomini. Dunque sono forse la tua ultima
possibilità, stasera?».
«Chissà, Dave!».
Quella sera al Chalcot House, come ogni venerdì sera, uomini e donne,
clienti abituali, erano seduti ai loro posti preferiti.
Anche i due amanti, Brian e Godot, erano seduti sulle loro poltrone color
vino accanto alla finestra, e si guardavano l’un l’altro. Godot beveva un
vodka tonic nel suo solito modo affettato, con movimenti quasi felini,
mentre Brian aveva lasciato allineate sul tavolo svariate Guinness.
A due tavoli di distanza dalla coppia di amanti, Anne, la moglie di Brian,
già piuttosto alticcia, li fissava e di tanto in tanto la si sentiva ridere ad alta
voce. Stava parlando con Jill, l’attuale ragazza di David. In quel momento
sentimmo la moglie di Brian lasciarsi andare a improperi, rovesciando i
drink sul tavolo.
«Dave, non vuoi far venire qui la tua ragazza? Hai intenzione di lasciarla
tutta la sera in balìa di Anne?» proposi, e David, che in un giapponese
incerto stava parlando con due ragazze che passavano di lì, replicò ridendo:
«No, lei è a posto così». E lanciando un’occhiata furtiva nella sua direzione,
si affrettò ad aggiungere: «Non vorrai mica lasciare la povera Anne a bere
sola soletta, no?».
La povera moglie di Brian! Per quanto ne sapevo, suo marito era sempre
in compagnia di Godot, notoriamente gay.
Sentii una presenza alle spalle: si trattava di Jacques Melans, che si
rivolse a noi in un inglese dal forte accento francese.
«Ma perché non se ne torna a casa, sua moglie? Bere alcol e lanciare
occhiatacce ai due amanti che flirtano non è il migliore dei passatempi per
una signora, no? Una mentalità a dir poco incomprensibile per noi».
Sfacciato francese! Sotto quei pantaloni stropicciati, il suo corpo doveva
proprio avere l’aspetto di un maiale bianco. Sul suo doppio mento cascante
si stagliava una barba simile a sesamo sparpagliato, e da lì sembrava levarsi
un cattivo odore. Le sue mani, tutta pelle, senza nemmeno un pelo. Il suo
corpo, sproporzionato, piccolo come quello di una donna. In quel momento
la francese insieme a Jacques parlò velocemente, con un accento nasale:
«Ma Jacques, mettiamo il caso che l’amante del marito fosse stata una
normalissima ragazza? Sicuramente sua moglie se ne sarebbe stata buona a
casa. Oppure, con il carattere che ha, forse la signora avrebbe fatto della
ragazza un sol boccone, come una tigre».
Lo disse senza nemmeno un sorriso, e mi ritrovai a pensare che quella
donna francese avesse uno strano senso dell’umorismo.
Jacques, sobillato dalle parole della sua compagna, alzò ancora di più la
voce, soddisfatto: «Proprio così! Ma con l’amante gay del marito, anche la
sua gelosia assume inevitabilmente forme anomale. Ormai il programma è
sempre lo stesso: la moglie si ubriaca e viene trascinata via dall’odiato
marito e dal suo amichetto gay. Ah, ma voi potete capire quella povera
scema della moglie, non è vero?».
Non riuscii a trattenere oltre il disgusto. «Che magnifico discorso,
Jacques. Non ti sfugge proprio nulla, eh?».
Accanto a me David gemette come una ragazzina. «Smettetela. Non vi
vergognate a divertirvi sugli scandali altrui?». Così dicendo, mi prese per il
mento e mi avvicinò a sé con forza. «Almeno tu, Yōko, evita».
«Hai ragione, Dave, ma non sopportavo più la sfrontatezza di Jacques e di
quell’altra» risposi quieta, abbassando lo sguardo.
Tuttavia, Jacques, preso dalla sua esaltazione, non prestò la minima
attenzione né al mio sarcasmo, né allo scherno di David. «Allora, in quale
letto pensate dormirà stanotte Brian? Vogliamo scommettere?».
In quel momento, con la coda dell’occhio, mi accorsi che Anne si era
voltata lentamente dalla nostra parte. Il suo sguardo non si spinse fino ai
nostri volti, fermandosi d’improvviso sui bicchieri sopra il tavolo. Con
occhi gelidi, fissò a lungo un punto; poi, come se si fosse ripresa, abbassò lo
sguardo e si portò una sigaretta all’angolo delle labbra disgustate. Si voltò
subito dall’altra parte, come se non fosse successo nulla.
La sua espressione era di pietra. Quella bocca ostinatamente chiusa
sarebbe mai più stata in grado di disegnare una dolce curva verso l’alto? In
questa donna ormai profondamente chiusa in sé, la gelosia aveva rimosso la
tensione da ogni parte del corpo, fiaccandone la carne e gonfiandone il
volto all’inverosimile.
Se lo sguardo di prima della moglie di Brian fosse stato rivolto a me, o a
David, saremmo mai stati in grado di sostenerlo? Probabilmente, dal suo
punto di vista, dovevamo essere allo stesso livello di Jacques e compagna.
La moglie di Brian fece un lungo tiro di sigaretta e, insieme al fumo, la
vidi buttare fuori in un soffio anche i suoi sospiri.
Al quel punto sentii David parlare, senza nemmeno alzare lo sguardo dal
bicchiere che teneva in mano. «Jacques. Sei davvero un individuo
spregevole. Non hai cose migliori a cui pensare in quel tuo cervello bacato?
Sei patetico. Stai annoiando tutti con queste chiacchiere da due anni, e
ormai da un anno non ti ascolta più nessuno» proseguì concitatamente,
sputando fuori tutta la sua rabbia: «Se il tuo pessimo senso dell’umorismo e
il tuo spregevole voyeurismo ti danno soddisfazione, affari tuoi, ma sei
pregato di smetterla di metterci in mezzo, grazie. I tipi come te li sbatto a
terra in cinque minuti, quindi finiscila. Il mio braccio destro ha di meglio da
fare. Dunque…» sollevando appena gli angoli della bocca, si rivolse a me
platealmente, con un sorriso raggiante: «Desidera altro da bere, madame?».
David Hall andò a ordinare un altro drink al bancone, mentre Jacques e la
sua compagna, i volti contrariati – un francese arrabbiato sembra ancora più
francese –, si rifugiarono in un tavolo in fondo alla sala. In quel momento
mi appoggiai al tavolino ripensando non tanto alle parole di David di poco
prima, quanto al volto duro e inespressivo di Anne che avevo visto in
precedenza. Sono sempre gli uomini a rendere una donna di pietra.
Quando David tornò, mi portò un bicchiere di whisky con ghiaccio.
«Che c’è? A cosa pensi?».
«Alle tragedie umane. Ciò che hanno in comune tutte le donne è l’odio
per tutti gli uomini».
«Ehi, che cattiveria! Sii più gentile!» così dicendo, David tornò al
bancone, stavolta prese due bicchieri di gin tonic e li portò al tavolo di
Anne e Jill. Li posò e diede un bacio sui capelli biondi tinti di Jill.
Un po’ alticcia e un po’ annoiata, nel tentativo di trattenere uno sbadiglio,
mi voltai leggermente verso l’entrata. E proprio lì lo vidi.

Quell’uomo, con l’aria di essere arrivato per caso, era fermo a fissare rapito
la ressa all’interno del pub, poi fece una smorfia. Lasciò vagare lentamente
lo sguardo attraverso il locale, per fermarsi di colpo su David. Si fece
rapidamente strada tra la folla proseguendo sempre dritto, fino a dove
eravamo noi. Quando si avvicinò, mi accorsi dei suoi capelli mossi, neri e
folti, e dei suoi occhi blu, dello stesso colore del mare al tramonto. Quegli
occhi incorniciati da lunghe ciglia nere.
A dispetto della mia età, quasi mi mancò il fiato. Fui irrimediabilmente
attratta da quello straniero, e mi vergognai un po’. Mi sentii inquieta.
«C’è un casino pazzesco, vero?» disse quasi senza muovere le labbra,
mentre David lo salutava con la mano. La sua voce aveva un timbro basso e
vagamente malinconico.
«Come ogni venerdì» rispose in maniera scontata David, che con voce
cristallina lo accolse cordialmente.
L’uomo, sorridendo, distolse lo sguardo da David e si rivolse agli altri
clienti abituali seduti ai loro tavoli. Si guardò attorno, indugiando con
attenzione su ogni viso, e annuiva sorridendo alle persone che conosceva,
mormorando tra le labbra «Ciao», «Come va?», «Ma dai?».
Capelli come seta nera e occhi blu come inchiostro. Quell’uomo senza
dubbio doveva possedere anche una bella dose di arroganza, tipica di quelle
poche persone al mondo benedette da una tale combinazione di tratti
meravigliosi.
Persone del genere, abituate fin dall’infanzia a essere costantemente
lodate per la loro bellezza, sviluppano una straordinaria fiducia in loro
stesse. Un fascino così straripante talvolta può dare l’impressione di una
bellezza vitrea, da cui sembrano quasi scaturire fiamme fredde.
Eppure, quell’uomo di fronte a me chiaramente era già stato ferito, e
un’espressione cinica e diffidente pareva emergere dalle sue crepe. Sotto il
suo contegno colto e raffinato, adatto all’età, ai suoi abiti casual,
nascondeva la sua lascivia e la sua intelligenza, peraltro evidenti, con
accortezza. Nell’istante in cui ci incontrammo per la prima volta la notai,
quella sottile ferocia che si insinuava nei suoi bei lineamenti duri. Sembrava
aver già bevuto parecchio, e nei suoi occhi aleggiava un’espressione
sfrontata, di sfida. Il suo sguardo si fermò su di me. David ci presentò.
«Yōko, non conosci Lane, vero? Lane Gordon. Aggiungo, per rispondere
alla tua curiosità: trentacinque anni, americano, single». Poi si rivolse a
Lane: «Yōko si occupa in maniera artistica di traduzioni pessime».
Gli tesi la mano destra, sferrando un calcio a David prima che
aggiungesse altro. «Piacere di conoscerti».
Lane prese lentamente la mia mano e la strinse, chinando leggermente la
testa; mentre me la stringeva con forza, rivolse lo sguardo a David, che era
accanto a me, con un enigmatico, nonché terribilmente affascinante, sorriso,
poi di nuovo spostò i suoi occhi azzurri e freddi su di me. Il suo sguardo,
fisso su di me, d’improvviso si abbassò dolcemente, e lento scivolò giù dal
mio viso sul collo, e poi fino al mio seno: pensai si stesse attenendo a uno
schema collaudato e, nonostante l’intimo disprezzo e il fastidio che ciò mi
provocava, rimasi immobile, come paralizzata, riconoscendo un che di
sensuale nel sorriso che indugiava sul volto di quell’uomo, quasi oscurato
dal desiderio che si leggeva nel fondo del suo sguardo.
«Poter incontrare una donna così affascinante rende sopportabile persino
il folle trambusto del venerdì sera». Così dicendo, si allontanò dal nostro
tavolo per prendere da bere al bancone, mormorando qualcosa tra i denti, in
maniera un po’ scortese. Vidi i suoi capelli neri, attorcigliati sulla nuca
disegnando morbide onde, passare sopra le teste delle altre persone.
«Che sfacciato, quello, un vero maleducato» osservai, e David,
guardandomi, scoppiò a ridere.
«Piantala Yōko, che assurdità! Ehi, non ti è piaciuto come ti ha guardata?
Se, al contrario, non ti avesse guardata in quel modo, l’avresti preso come
un affronto!».
«Be’, mio caro David Hall. A quanto pare, mi conosci bene. Allora
dimmi, per favore, cosa pensi che succederà?».
«Facile. La maschera della fredda e stoica Yōko si scioglierà per
l’eccitazione e gli ormoni, e ciò che apparirà sarà soltanto nudo desiderio.
Tipico di una donna come te».
«L’onestà eccessiva non sempre è apprezzata, David. Per stavolta ti
perdono, ma solo perché hai bevuto un po’ troppo, ok? Però cerca di essere
più gentile».
David mi diede un bacio sulla guancia e ci riconciliammo. Vedendo Lane
che tornava al tavolo con birra e whisky su un vassoio, David mi bisbigliò
sottovoce: «Non per insistere, ma non è il tipo perfetto per il tuo
“passatempo”?».
«Il mio passatempo?».
«Capelli neri. Occhi blu. E poi quell’espressione sofferta sul suo
bellissimo viso».
«Ti ho forse mai raccontato dei miei gusti?».
«Lo hai fatto. Vuoi che ti ricordi quando?».
In quel momento Lane si intromise: «Scusate il disturbo, questi ve li offro
io», porgendo a me il whisky e a David una birra.
«Grazie, Lane» dissi educatamente, e David mi bisbigliò all’orecchio:
«Un’estate fa. Nel tuo letto».
Mi morsi il labbro inferiore. Poi i nostri sguardi si incontrarono, e David
chinò il capo sorridendomi.
Lane, girando attorno, venne vicino a me e, appoggiandosi al tavolo, mi
guardò. «Vieni spesso qui?».
«Ogni tanto».
«Non ti avevo mai vista prima».
«Magari ci siamo visti, senza notarci».
«Non penso, in tal caso ci conosceremmo già da un pezzo. Non avrei mai
potuto ignorarti».
E di sicuro neanch’io, Lane.
«Quindi traduci. E cosa, di bello?».
«Principalmente da nastro. Trascrivo e traduco. Ultimamente ho ricevuto
diversi audio di interviste e conferenze del movimento femminista».
«Interessante?».
«A dir la verità, non particolarmente. In realtà mi piacerebbe tradurre
racconti di satira o opere di black humour. Come quelle di Roald Dahl, hai
presente? Però quel tipo di lavoro non va, purtroppo».
«Peccato» disse Lane giocherellando col bicchiere, poi restò per un po’ in
silenzio. David allora intervenne: «Sai, anche lui scrive storie».
«Davvero? Allora mi piacerebbe proprio leggere qualcosa di tuo. Che
genere di storie scrivi?».
Lane, balbettando maldestramente, replicò: «A me non interessano
granché cose come la satira, il black humour o il femminismo; a me,
semplicemente, interessano le storie. Raccontare l’umanità. Vorresti venire
a vedere?».
Ignorai quel suo ultimo commento lanciato con disinvoltura. Eppure,
continuava a risuonarmi sorprendentemente nelle orecchie, come fosse
animato da una propria volontà: «Vorresti venire?», «Vorresti venire?»,
«Vorresti venire?».
Continuando a tacere, Lane mi osservava di sottecchi, lo sentivo. Poi
riprese a parlare in un tono amichevole.
«Sei una donna che veste molto sexy». A queste parole, ripensai alla
conversazione di poco prima con David e mi sentii a disagio. D’un tratto lo
sguardo gli cadde sul mio seno, così mi accorsi che in controluce si
vedevano i capezzoli. Lane, allo stesso tempo, notando che me ne ero
accorta, si affrettò a distogliere lo sguardo.
«Conosci Jane Birkin?».
«Quella del movimento No-Bra?».
«Allora sai di chi parlo». Ne fui sorpresa.
«Ne ho letto molto per lavoro. Soprattutto gossip e scandali».
«Meno male allora che non sono famosa».
Lane rise divertito a gran voce, e si portò alla bocca il bicchiere quasi
vuoto, scolando d’un fiato gli ultimi sorsi di birra. Incantata da quel gesto
virile, gli domandai: «Lavori nella stampa?».
«Qualcosa del genere. Collaboro con la rivista “NW”. Sono uno scrittore
freelance».
La conversazione si spostò nuovamente su Jane Birkin.
«Lei non ha proprio seno, se fosse per me non la farei nemmeno rientrare
nella categoria “donne”».
«Quindi non rientra nei tuoi gusti, che peccato!» replicai un po’ delusa.
«Fortunatamente, al mondo c’è anche chi ritiene sexy un seno piccolo».
Lane, allora, sbirciando di proposito il mio, dichiarò: «Be’, è un po’ meglio
di quello di Jane». Poi scoppiò a ridere, battendosi la mano destra sulla
fronte. Venne da ridere anche a me. Mentre ridevo, mi chiesi cosa ci fosse
di così buffo, e questo mi fece ridere ancora di più, tanto da farmi uscire le
lacrime.
David ci guardava con l’aria di chi volesse chiederci che diamine
avessimo da ridere, poi scrollò le spalle.
«Lane» ridendo lo chiamai a gran voce, «mi ha appena detto che sono un
po’ meglio di Jane Birkin». Lane sembrava stesse morendo dalle risate.
David, sorridendo amaramente, chiese: «Meglio in che senso?».
«Conosci Jane Birkin?».
«Veramente no».
«Allora ok, lasciamo perdere!».
David si strinse nelle spalle e, borbottando che eravamo entrambi
ubriachi, guardò l’orologio. Poi si voltò in direzione di Jill, lei alzò gli occhi
e lo guardò. Nonostante le spalle e le teste delle persone nel locale, i loro
sguardi si incrociarono; Jill fece un cenno e si alzò. Diede un colpetto con le
sue mani bianche sulla spalla di Anne e le sussurrò qualcosa, poi si congedò
e si incamminò nella nostra direzione.
«Torni già a casa, darling?».
«Tra un po’. Domani mi alzo presto».
«È vero, hai l’aereo alle nove. Ti accompagnerei, ma ho del lavoro da
sbrigare».
«Non preoccuparti» rispose David gentilmente, stringendo Jill a sé.
Fui sorpresa. «Dove vai David?».
«A Hong Kong, per lavoro. È una storia complicata».
«Non ne sapevo nulla. Per quanto tempo? Starai via molto?».
«È una cosa lunga. Quando tornerò avrò i capelli bianchi. O forse tinti,
chissà» così dicendo, diede un bacio in fronte a Jill. «Però stanotte dormi
con me, vero?».
«Ma certo, caro».
«Allora David, quanto a lungo resterai via?» gli rivolsi la stessa domanda
una seconda volta.
«Un mese. Durante la mia assenza mi penserai un po’, Yōko?».
«Sarà noioso venire qui senza di te. Certo, ti penseremo tutti con
malinconia».
«Mi fa piacere. Hai sentito, Jill? Grazie, Yōko. Anche se non è vero, mi fa
piacere lo stesso sentirmelo dire!».
David, facendo un giro intorno al tavolo, ci salutò. «Stammi bene»,
«Good luck, Lane!», «È stato un piacere conoscerti»… Così dicendo, si
avvicinò e mi bisbigliò all’orecchio: «Hai visto le mani di Lane? Sono lisce
come quelle di una donna, vero?» facendomi il solletico sulla pancia. Con
la punta delle scarpe gli mollai un calcio sullo stinco. Poi, ricevendo svariati
«Buon viaggio» e «Good luck», si apprestò a uscire con passo malfermo.
«Che tipo» mormorò Lane, come se parlasse da solo.
Si stava facendo ormai mezzanotte al pub, ma c’erano ancora alcuni
clienti.
«Be’…» cominciò Lane con un tono imbarazzato. «Hai intenzione di
passare qui tutta la notte? Oppure andiamo da qualche altra parte? Non hai
fame?» continuava a chiedermi.
«Non ho particolarmente fame, ma va bene. Qui ci si annoia. Se vai a
mangiare qualcosa, ti faccio compagnia».
«Perfetto, andiamo» così dicendo, Lane mi afferrò per il braccio. E
uscimmo dal locale.

Notte a Roppongi. Un quartiere familiare. Dormire ai margini di questo


quartiere e risvegliarmi ancora qui. Innumerevoli incontri e altrettanti addii
si susseguono. Il ricordo delle corse tra le lacrime, lungo il duro lastricato
della strada che corre fino ad Azabujūban. Nella tristezza e nella gioia, mi
bastava guardare verso l’alto, ed ecco davanti a me svettare la Tokyo Tower.
La torre di notte, come una donna agghindata, sembrava dolcemente
riflettere il mio stato d’animo, apparendo talvolta scintillante, a volte
terribilmente volgare. E poi qui c’era l’ufficio di Nishiwaki Shunsuke, era
qui che lui trascorreva gran parte delle sue giornate, e questo più di tutto mi
rassicurava. La notte a Roppongi era sempre gentile e indulgente, con me.
«La notte è appena iniziata. E siamo liberi». Poi, guardandomi in volto,
Lane cercò il mio assenso. «Giusto?».
«Uhm, già».
Mi prese la mano, stringendola forte. Mi sembrava di essere avvolta in
quella sua grande mano calda e sudata, e così ci incamminammo verso il
centro del quartiere, la profonda notte di Roppongi. La sua andatura era
leggera e io cercai di convincermi che ero ancora abbastanza giovane e che,
come Lane aveva detto poco prima, la notte era appena iniziata, ed ero
libera.
Lasciandoci alle spalle la torre che, spenta la metà delle luci, si era
silenziosamente insinuata nell’ombra, proseguimmo in avanti, per poi
scendere a destra, in direzione di Tameike. Lane mi portò in un piccolo
locale di yakitori, ai confini di Roppongi. Seduti al bancone, lui ordinò
tsukune e io degli shisomaki, poi prendemmo una birra e del whisky.
Passammo i minuti successivi come in un sogno, divertiti dalle nostre
chiacchiere mentre cercavamo di mettere in fila brindisi fantasiosi, quanti
più ne riuscivamo a escogitare, completamente entusiasti di questo
passatempo, fino a che Lane mi domandò, casualmente: «Sei sposata?».
In una frazione di secondo ammutolii. Poi risposi: «No». Subito dopo
aggiunsi, sentendomi terribilmente in colpa per aver mentito: «Secondo te,
una donna sposata sarebbe ancora in giro a quest’ora?».
Lane sorrise. «Sono stato sposato sette anni con una donna cinese. Quindi
riesco un po’ a leggere i kanji. Come si scrive Yōko?».
Glielo disegnai sul bancone di legno con la punta delle bacchette umide.
Lane lo pronunciò diverse volte: «Yōko, Yōko, Yōko».
Mi avvicinai un po’ a lui. I suoi occhi quasi violacei, circondati da folte
ciglia nere, e i suoi capelli scuri che emanavano una morbida lucentezza,
erano molto più intensi e scuri dei miei.
Quando mi fermai d’improvviso a pensare a quella sconosciuta cinese che
per sette lunghi anni era stata al centro del mondo di quest’uomo, fui colta
da una violenta gelosia. Fu una sensazione terribile, mai provata prima,
eppure arrendermi a questa gelosia, istintivamente, mi sembrò in qualche
modo consolante. «Sono gelosa di questa donna cinese» sussurrai in preda
all’ubriachezza.
«Gelosa? Non capirò mai i vostri sentimenti contorti, Yōko. Non è
proprio necessario. Quando ho capito che sposare una donna cinese voleva
dire sposare anche un centinaio di suoi parenti, era già troppo tardi». Negli
occhi di Lane balenò una punta di amarezza.
«Scusami, chiudiamo pure qui il discorso».
«Sì, certo. In effetti è un discorso noioso».
«No, non in quel senso. Volevo dire che non intendevo riaprire una ferita
ormai chiusa. O forse è ancora aperta?».
«No, ormai l’ho dimenticata» rispose Lane, chiedendo una seconda birra
al bancone. «Che facciamo adesso? Vuoi venire da me ad ascoltare Bach?».
«Non vuoi bere ancora un po’?».
«Va bene. Dove vorresti andare? Non ho molti soldi. Come potrai
immaginare, ogni mese devo sborsare parecchi dollari alla mia ex moglie»
replicò Lane con un tono grave, «finché non si trova un altro uomo e si
sposa, non potrò dirmi realmente libero». Poi mi guardò languidamente
negli occhi. «Dimmi, tu adesso cosa vorresti fare? Bere e basta? Io, c’è
soltanto una cosa che vorrei fare ora. Mi capisci?».
«Sì, penso di sì».
«E tu? A te non va?». Gli occhi di Lane brillavano di un desiderio che
ormai non provava più nemmeno a nascondere.
«Hai del whisky a casa tua?».
«Certo. Ho anche del ghiaccio. E acqua».
Risi. «Ok, allora andiamo da te a bere».
Lane mi tese la mano. Una bellissima mano maschile, calda e forte.
All’improvviso pensai che desideravo essere toccata da quella mano. Sentii
una fitta sensuale che dal centro del corpo si diffondeva come un’onda. In
quel momento sentii Lane mormorare «Grazie» come un ragazzino ben
educato.

Nell’appartamento di Lane non c’era il condizionatore. Sotto la luce bianca


sentii un caldo soffocante. La stanza di un uomo. C’erano scarpe gettate alla
rinfusa. Una quantità pazzesca di libri. Riviste. Bicchieri e piatti sporchi.
Una macchina da scrivere parcheggiata direttamente sul pavimento. Eppure,
quel caos incredibile non dava un senso di sporco o di stranezza, anzi era
quasi piacevole. Ma tutto ciò era nulla in confronto alle due enormi casse e
all’amplificatore che occupavano un terzo della stanza, la quale, non tanto
per l’accumulo di oggetti, quanto per la loro assurda pretenziosità, mi
faceva venire in mente una cabina di pilotaggio.
Sulla scrivania all’angolo della stanza erano aperti svariati libri, che
immaginai stesse leggendo; tra questi il mio sguardo fu attirato dal nome di
Joyce. Per terra erano caduti alcuni vinili. Mi avvicinai per prenderli, e mi
accorsi che erano di Mozart e Bach.
Girovagai per la stanza senza nascondere la mia curiosità, osservandone il
contenuto. Nel giro di trenta secondi cominciai a sentirmi in imbarazzo,
tuttavia, e finsi indifferenza. Poi pensai che avrei fatto bene a dire qualcosa.
Eppure, il silenzio, lungi dall’essere qualcosa di sfrontato o imbarazzante,
se impiegato bene, è meglio di qualunque altra conversazione.
Lane si muoveva con una naturalezza e una tranquillità come se si fosse
dimenticato di me, e quindi mi domandai a cosa fosse dovuta quella
sensazione di disagio. Dovevo sembrare una stupida. Inconsciamente, mi
accorsi del vinile che avevo tra le mani, e stringendolo dissi: «Anche a me
piace la musica barocca. Händel è il mio preferito». In realtà era Bach, ma
per qualche motivo dissi Händel.
Lane, accovacciato davanti all’amplificatore che avevo guardato e che
stava regolando, rispose, senza voltarsi: «Abbiamo qualcosa in comune,
Yōko. Per me non c’è altra musica oltre a quella barocca». E prendendo un
disco: «E quest’opera per me ne è la quintessenza, senza alcun dubbio».
Dai due singolari altoparlanti giganti si alzò una specie di gemito
mostruoso, poi ciò che straripò da lì come un’alluvione fu il secondo
Concerto brandeburghese di Bach. Sobbalzai di paura a quel volume
assurdo e, di riflesso, me la presi con Lane, che si era fiondato
sull’apparecchio per abbassarlo. «Volevi per caso uccidermi con Bach?
Stavo per avere un infarto. Ma ascolti sempre la musica così a tutto
volume? Comunque, anche a me piace molto questo Concerto
brandeburghese».
«Hai un ottimo orecchio. Suoni qualche strumento?».
«Può sembrare una bugia, ma questo brano lo suonavo quando ero
studentessa».
«Veramente? Perché non l’hai detto prima? Se lo avessi saputo, non ti
avrei riempita di sciocchezze. Che strumento? Violino?».
«Violoncello».
«Ah sì? E ora invece sei traduttrice. Non suoni più il violoncello?».
Annuii.
«Per quale motivo hai smesso?».
«Per farla breve, non avevo talento. Penso fosse perché volevo godermi la
musica in un modo diverso».
«E ora te la godi?».
«Sì, credo di sì. Da quando ho smesso col violoncello, sono finalmente
riuscita ad ascoltare tutta l’orchestra. Fino a quel momento, sentivo solo le
parti di violoncello. E inoltre ho molto più tempo libero».
Lane tacque. Il suo silenzio mi rendeva felice. In quel silenzio la
meravigliosa musica di Bach sembrava crescere come una marea. Fermi in
piedi, eravamo concentrati nell’ascolto del Concerto brandeburghese.
Poco dopo Lane disse in tono serio: «Yōko. Vai nell’altra stanza. E togliti
i vestiti».
La camera da letto di Lane era sobria, ricoperta di moquette color cenere, ed
era occupata per metà dal letto, con sopra una coperta blu notte. Nella luce
che filtrava dalla stanza accanto, vidi per terra una riproduzione di una
stampa di Picasso. L’unica decorazione presente. Quella era una camera per
dormire. Oppure per fare sesso.
Poco dopo Lane entrò nella stanza e si sedette ai miei piedi, mentre io,
seduta sul letto, ero intenta a sfilarmi le calze. Poi mi guardò, come se mi
vedesse per la prima volta.
«Oh, Yōko, sono così felice di averti incontrata».
Nella penombra lo sguardo di Lane si spostò su di me, poi premette le sue
labbra sulle mie. Intrecciai le mie dita ai suoi capelli. Scivolavano via tra le
mie mani, li afferrai di nuovo, per poi lasciarli andare. Lane sorrise
mostrandomi i suoi denti color avorio, avvolgendo completamente il mio
seno tra le sue mani calde.
«E se ora ti confessassi che sono uno di quegli uomini che amano i seni
piccoli, mi crederesti?».
«No, non ti crederei. Altrimenti non mi avresti ferito così prima, al pub».
«Be’, ma non riuscirei mai a fare sesso con una dalle grandi tette e poco
cervello».
«Davvero? Di solito gli uomini ragionano al contrario».
«Non siamo tutti uguali. Non tutti la pensiamo allo stesso modo».
«Ora che me lo dici, mi sento più tranquilla. Anche le donne hanno delle
preferenze, sai? Almeno, per me ci sono alcune condizioni su cui non posso
proprio cedere».
«Ma io lo so cosa ti piace. Ti piaccio io».
Lane, con gli occhi che brillavano di bramosia, cominciò a muoversi
sopra di me. Il desiderio mi si agitava dentro, per poi esplodere
all’improvviso. Lane mi guardò, infiammato.
«Yōko, voglio guardarti».
Lo osservai rapita, fissai quegli occhi pieni di passione, cercando
qualcosa. Ma quello che trovai non fu altro che una luce di sensualità
gioiosa. Una folata di caldo desiderio sentii che risaliva dal profondo di me.
Languida, aprii lentamente le gambe davanti a lui.
Questo atto, aprire il mio corpo davanti a un uomo, mi fece provare un
senso di colpa strisciante, tanto da dovermi tenere saldamente la gola con la
mano sinistra in modo da non urlare.
Con l’altra mano toccai la sua fronte, bollente. In quel momento allungò
le sue mani esitanti, e con un dito mi aprì delicatamente. Con una voce
calda e umida mormorò: «Gran bella fica».
A quante donne avrà fatto e detto la stessa cosa?
«Vorrei morderla» mormorò ancora Lane. Poi, senza nemmeno aspettare
una mia risposta, si infilò con il suo torso tra le mie gambe e avvicinò il
viso.
Labbra calde. Una morbida bocca di rosa. La lingua sadica e furba, come
un minuscolo animale. Denti tremanti. Un attimo bollente. Mi sentii
immensamente grata per tutto ciò.
Non riuscii a parlare, in quel caldo groviglio di dolore e piacere al centro
del corpo. Poi sentii ardere le fiamme nei miei occhi, tanto da annebbiarmi
la vista, e avvertii risuonare un urlo selvaggio, quasi da rompere un
timpano. Con un punto del mio corpo fissai Lane: potevo sentire il suo
silenzio e soffrii, nel volergli dire un milione di parole. Verso quel
meraviglioso sconosciuto dai capelli neri, inginocchiato davanti a me, ciò
che sentii in quel momento non era semplice riconoscenza. Era amore.
Un istante dopo sentii quella minuscola parte del mio corpo come
bruciare nella bocca di Lane, ed esplosi in un orgasmo, intenso da far quasi
male. In un attimo si propagò dalle profondità del mio basso ventre, perforò
il midollo spinale e corse come un lampo verso ogni estremità del mio
corpo. Ancora un altro spasmo, come una sferzata nella bocca di Lane, e
poi ancora un altro, e un secondo, e un terzo che lentamente si tramutò in un
leggero bruciore, per poi scomparire nell’eterna oscurità del mio grembo.
Infine, al centro del mio corpo, solo un piccolo fuoco senza fiamme.
«Oh, Lane, ma così sono venuta solo io» protestai con una voce rauca che
non sembrava appartenere a me.
«Così ora posso farti quello che voglio, Yōko».
Il desiderio sembrava fare a pezzi, come fossero creature separate, la
bocca, il petto, il basso ventre, le mani pesanti e gli arti animaleschi. Tutte
le parti del suo corpo cercavano il piacere, senza essere mai soddisfatte, e
continuavano a cercarlo disperatamente. La bocca di Lane, ormai senza più
parole, divorò le mie labbra, le palpebre chiuse, e il suo sguardo brillava,
accecato dal suo stesso desiderio. La forza del suo impeto che partiva dalle
viscere si fece ancora più forte, e tentò di tornare alla carica.
«Voglio entrarti dentro, Yōko» disse Lane gemendo, «infrangere la
barriera e sgattaiolare attraverso ogni parete calda. Fino in fondo. Dimmi
qualcosa, Yōko».
Sconcertata, provai a estrarre dal buio della mia fantasia qualcosa da dire,
e gemetti all’orecchio di Lane.
«Non tacere, Yōko. Continua a parlare».
Cercavo parole bellissime. Nella mia mente continuavano ad affollarsi
parole troppo volgari, parole mai usate, parole che proprio non si potevano
definire eleganti, parole che non avrei mai potuto dire, parole sconosciute.
Un po’ per la lunga solitudine, un po’ per l’eccitazione risvegliata,
continuai a sussurrarle in un caldo sospiro nelle orecchie di Lane. Poco
dopo mi venne dentro.

Un silenzio che arde. Dopo un momento di riposo, perfetto ma breve, Lane,


staccandosi solo con la parte superiore del corpo e rimanendo com’era dalla
vita in giù, si accese una sigaretta. Ogni volta che aspirava, la brace
illuminava con un che di grottesco la stanza. Istintivamente, mi voltai
dall’altra parte, coprendomi il viso col dorso della mano, e con quel gesto
languido, d’improvviso mi resi conto della mia età. Lane mi rimbrottò
subito.
«Non è forse dopo che una donna è ancora più bella?».
«Dici sul serio, Lane? Gli uomini, di solito, non vogliono subito dormire
appena finito? Pensavo non ti interessasse più il volto di una donna».
«Yōko, non siamo tutti uguali. Conosci solo uomini così? Eh? Poverina.
Forza, mostrami il tuo viso».
Il suo sguardo dolce, fisso su di me, mi fece rilassare.
«Guarda, ti brillano gli occhi. Hai le labbra rosse come fiamme. Forse
perché ti ho morso così tanto da farti quasi sanguinare?». Così dicendo,
Lane, con un bacio leggero come una piuma, mi accarezzò le labbra, con
tenerezza. Il bacio di piuma si spostò sulla guancia, poi verso l’orecchio e
scese fino alla nuca. Mi faceva il solletico e non riuscivo a resistere. Infine,
stremata, scoppiai a ridere! Lane mi fissò sorpreso, e disse: «Prova a ridere
ancora, Yōko. La parte di me che è ancora dentro di te, quando ridi, sembra
divertirsi molto. Su Yōko, per favore! Perché non ridi ancora?».
«Piantala, Lane. Non rido se non mi fai divertire. Forza, fammi ridere!».
Lane schiacciò con forza il mozzicone di sigaretta. Poi, tenendomi strette
le gambe, avvinghiandosi con le sue, cominciò, come i bambini, a farmi il
solletico sul collo, sotto le ascelle, sulla pancia e sui fianchi.
Lane, come un pazzo, e di nuovo in preda alla passione ardente,
continuava a farmi il solletico implacabilmente, con le mani, con le dita, le
labbra, la lingua, persino col suo respiro caldo. Ormai stava diventando
quasi doloroso, e per sfuggire a quel dolore improvvisamente ebbi un
mancamento. Un attimo dopo, per l’eccitazione, mi venne la pelle d’oca, e
mi sentii soffocare. Innumerevoli dolori gorgoglianti invadevano il mio
corpo come onde. La vista mi si oscurò, e cercai Lane con la mano. Mentre
mi sentivo precipitare in un senso profondo di perdita, Lane, lontano,
lentamente si girava.
Ancora galleggiando in un tempo indefinito, quando aprii gli occhi vidi lo
sguardo di Lane fisso su di me; lui era lì accanto. Così vicino, vidi le sue
pupille brillare, come una luna nascente su un lago buio.
«Che succede? Tutto bene?».
«Sì, è la prima volta che mi succede».
«Cosa?».
«Sentire ogni parte del corpo diventare un organo sessuale. Sembrava
quasi di precipitare da un punto molto alto, mi veniva la nausea, ma mi
sentivo bene. Ho avuto un orgasmo in ogni singolo poro del mio corpo».
«Ma è fantastico. Tutto per merito mio?».
Non risposi, ma gli baciai il palmo della mano. Mentre si alzava, avvolse
le sue cinque dita sul mio boschetto oscuro, ancora ansimante e bagnato di
sudore, stringendolo con tenerezza, come stesse accarezzando i capelli del
suo amato bambino.
«Ci vedremo ancora? – mi domandò – Yōko, ci vedremo ancora noi
due?».
«Certo. Sei stato meraviglioso. Mi hai quasi portato alla follia amorosa. Ti
cercherò ovunque, come un’ossessa. Dimmi dove possiamo vederci».
«La mattina di solito sono qui a lavorare. La sera, invece, sono all’R&B,
ad Akasaka».
«Ho capito. Allora ti cercherò all’R&B».
«Non sarebbe meglio darci un appuntamento per la prossima volta?»
replicò Lane con aria scontenta.
«Ho un po’ di lavoro da sbrigare. Non riesco a fare programmi. È un po’
come chiedere il menù della cena subito dopo pranzo, Lane».
«Be’, se il pranzo è stato memorabile, non vedi l’ora che arrivi la cena».
«Sei un ingordo. Non ti stancherai poi di mangiare?».
Mentre lo aiutavo a vestirsi, mi disse ancora: «Almeno dammi il tuo
numero di telefono».
«La prossima volta» risposi. E aggiunsi: «Domani, o dopodomani sera,
verrò all’R&B».
Uscimmo per il viale principale di Aoyama che era quasi mattina, Lane
chiamò un taxi. Entrai, e dal finestrino gli feci un giovanile segno di
vittoria. Quando infine vidi sparire la sagoma di Lane, rimasto immobile al
centro della strada, sprofondai con la schiena sul sedile e chiusi gli occhi.
Nella mia stanza, dove iniziava a sorgere il mattino, impostai la sveglia
alle undici e, sola, mi sdraiai su un angolo di quel letto enorme senza mio
marito. Fui sul punto di addormentarmi, avvolta in una sensazione
terribilmente infantile e di insicurezza. Da ragazzina, quando ero ferita o
soffrivo, e capitava spesso, mi addormentavo tirando le gambe sulla pancia,
stringendole tra le braccia come ali piegate sopra il petto, in posizione
fetale. Cadendo in un sonno profondo, provai una certa inquietudine per la
relazione con Lane.

Dei miei undici anni di vita coniugale, gli ultimi tre sono stati quelli in cui
ho avuto più relazioni con uomini diversi. Poco dopo aver compiuto
trentatré anni cominciai a sentire che non ero più giovane e questo pensiero
si impadronì di me. Di tanto in tanto, mentre lavoravo, prendevo a fissare il
mio volto allo specchio, sempre di più, sempre più a lungo. Non importava
che lo specchio potesse restituirmi la migliore delle espressioni, o che non
sostenessi la vista del mio volto in lacrime; a volte mi piacevo, a volte mi
irritavo, di fatto non avevo modo di contrastare quell’immagine che
rifletteva l’età, il passare degli anni. La giovinezza si allontanava a poco a
poco dalla carne e ne sentivo forte la minaccia, perdevo l’allerta dei sensi.
In più, a dimostrazione di quel che sentivo, era accaduto qualcosa; era stato
come un pugno allo stomaco, nell’estate di tre anni prima, una sera, al
tramonto, in riva al mare. Mi crogiolavo nel crepuscolo, intingendo la punta
delle dita nel rosso violaceo: in un istante imprecisabile, la mia anima ne fu
travolta, e fu bellissimo. Ma all’improvviso, mentre guardavo il sole
abbassarsi, mi resi conto di aver perso il tepore della commozione profonda.
Percepivo, senza volerlo, il calar del sole come una funzione della grande
natura, un mero evento a cui ormai cominciavo ad abituarmi; quella sera,
che avrei dovuto celebrare, mi ritrovai immobile come un palo, per
l’incredulità, l’ansia, la paura. Piansi e fui invasa dalla tristezza, quella sera,
quella dopo e dopo ancora e per sempre; solo molto più tardi fui certa che
da quel momento molte altre toccanti espressioni di vita mi avrebbero
abbandonato. Che mi sarebbero state precluse.
In tal senso, il mare fece lo stesso con me l’anno seguente,
abbandonandomi: era stato intimo testimone della mia inquietudine, della
malinconia, dell’allegria.
Il mare. Quel mare che mi placava, mi sommergeva, mi lasciava osservare
il mondo nel suo mistero, quell’anno all’improvviso mi ripudiò. Era luglio
inoltrato, eppure l’acqua del mare non si scaldava, e in piena estate non mi
attirò a sé neppure una volta. Poco a poco, ma sempre di più, mi diventava
indifferente, insomma che cosa avrei potuto fare verso quel mare che
continuava a respingermi a quel modo? Così, poiché il legame tra me e il
mare, tra un uomo e una donna o, portato all’estremo, tra me e mio marito,
sembravano molto simili, la lontananza sopravvenuta mi riportò al mio
corpo che perdeva la gioventù, e questo mi ferì con doppia crudeltà. Ma, al
contrario, più sentivo che la gioventù mi veniva strappata via, più
aumentava il mio desiderio e la fame di sesso. C’è stato un periodo in cui
ero nella tensione continua di fare sesso, fino a vomitarlo, e il desiderio di
quel vomito non mi abbandonava un solo momento. La passione non nasce
con uno schiocco di dita, e pensai fosse inevitabile che mio marito non mi
soddisfacesse mai abbastanza. Lui si dedicava completamente al lavoro,
questo lo capivo. Mi sembrava persino accettabile che nel fine settimana
lasciasse me ed Erika nella nostra casa al mare, per andarsene col suo yacht.
Questo potevo perdonarlo. Quel che non potevo più sopportare era la sua
arrogante noncuranza nel pensare che si potesse continuare come se niente
fosse, con un marito ignaro delle ansie e dei desideri della moglie. Nel giro
di pochi anni gli uomini avrebbero smesso di girarsi a guardarmi, quanto
tempo mi restava fino al momento in cui il loro sguardo non si sarebbe più
soffermato sul mio volto? Nella vita di una donna c’è un apice, in cui
raggiunge il massimo di raffinatezza e completamento; quel momento era lì,
mentre scoprivo di non suscitare più alcun interesse in mio marito e che non
avrei potuto tenerlo legato a me. Piansi, e piansi. Poi, alla fine di giugno,
incontrai David Hall.
David era uno degli amici di mio marito, lo conoscevo di vista forse da più
di un anno; non avevo mai pensato a lui come a uno con cui avere una
storia.
David aveva tre anni meno di me, era inglese come mio marito, lavorava
in partnership con una ditta nippo-britannica di import-export.
Un fine settimana mio marito, come suo solito, non era a Roppongi, dove
io, dopo una riunione di lavoro protrattasi fino a notte fonda, per consolarmi
pensai di andare al Chalcot House. David era lì.
«E Paul?» aveva chiesto. Non appena gli risposi che era andato al mare,
disse divertito: «Bene! Allora stanotte è la nostra occasione, eh, Yōko? O
non c’è possibilità?».
Quella notte osservai David come se lo vedessi per la prima volta. Questo
ragazzo inglese, capelli castani, occhi marroni profondi, ricambiò il mio
sguardo con un’espressione di tenera insicurezza. Lo incalzai, ordinandogli
come un funzionario di tribunale: «Allora, forza, presentati!».
«David W. Hall. Trent’anni. Scapolo, nazionalità britannica. Curriculum
coniugale, assente».
«Ottimo, Mr. Hall. Hobby? Almeno uno?».
«Andare a letto con una donna».
«Meraviglioso passatempo, David. Allora, fammi dare un’occhiata alle
tue mani, mostramele». Se in quel momento le sue mani non mi fossero
piaciute, tra noi non sarebbe mai accaduto nulla. David me le tese. Due
mani pesanti, grandi come quelle di un operaio, ma nervose e intelligenti.
«David, promosso!».
«Meno male… fiuu!» disse buttando fuori un gran sospiro. A quel punto
brindammo, cominciammo a ridere e a parlare ad alta voce come se non
fossimo lì, ma altrove. Poi, quell’estate, David Hall divenne il mio amante.
A metà luglio di quell’anno, mia figlia e io eravamo a Karuizawa, nella
villa dei miei genitori. Mio marito veniva a trovarci nei fine settimana.
David nei giorni feriali, anche in presenza di mia figlia che aveva dieci
anni, veniva almeno una volta alla settimana: appena finito il lavoro
prendeva al volo il treno dalla stazione di Ueno e arrivava a Karuizawa alle
nove. Al mattino, evitando di farsi vedere da mia figlia, riprendeva il treno
delle sette, direzione Ueno. Quell’estate solo una volta si prese due giorni di
ferie e li trascorse con noi. A mia figlia lo avevo solo presentato come Mr.
Smith, un missionario. Di missionari a Karuizawa ce n’erano a iosa.
A Karuizawa era da poco passato un mezzodì scintillante di luce,
avevamo pranzato ed ero davvero felice. L’aria era profumata e mossa da
una brezza leggera. Uno scoiattolino sbucò nell’ampio giardino e corse via,
ne ridemmo sorpresi. Mia figlia non c’era, era andata a giocare a tennis.
«Chissà per quale karma…» disse David sospirando «alla mia età devo
sottopormi a questi ritmi serrati».
«Lo so io perché, a David piace Yōko!».
In un istante fu in ginocchio davanti a me, e spalancando esageratamente
le braccia, esclamò: «Esatto. È così, io sono il tuo servitore. Se mi ordinassi
di prendere lo scudiscio e sferzare il tuo bel corpo, tra le lacrime, lo farei.
Oppure, vuoi essere tu a colpirmi? O se mi ordinassi di prendere tra le
labbra il tuo meraviglioso piede, ugualmente lo farei, così…» mostrandomi
come leccava un dito del mio piede nudo.
«Oh, Dave, piantala! I tuoi passatempi da vizioso!».
«Ne sono grato» gridò alzandosi di scatto e stringendomi a sé con tutta la
forza delle sue braccia giovani. «Tu mi piaci. Mi sento molto fortunato a
essere stato scelto da te». Poi, come se qualcosa gli tornasse in mente
all’improvviso: «Di’, ma quella volta al Chalcot, quando mi hai ordinato di
mostrarti le mani, ti ricordi? Dopo che mi avevi subissato di domande…».
«Come potrei averlo dimenticato?».
«Mi sono domandato se per caso sulle mie mani si fosse depositata
polvere d’oro. O se fossero mani rispondenti ai tuoi gusti, insomma che
suscitassero un che di peccaminoso».
«Che antipatico!».
«Allora perché?».
«Perché una donna, prima che vada a letto con uno qualsiasi, pone delle
condizioni, Dave. Per esempio, che non sia grasso, che non ti vengano i
conati di vomito al vedere i peli che spuntano dalle orecchie, oppure che
abbia il petto villoso o che sia glabro. Io, infine, guardo le mani. Se sono
troppo delicate, un po’ da donna, o se il palmo è bianco e molliccio, o
stranamente troppo affusolate per un uomo, ecco, io rabbrividisco al
pensiero che mani di quel genere mi tocchino».
«Io, a dire il vero, pensavo di avere delle mani affusolate…».
«Sì, è vero. Affusolate e virili. E poi sono grandi, ossute. Sono bellissime,
quindi…».
«Oh, Yōko, come donna sei proprio pazza! Di uomini rudi al mondo, con
le mani grandi, ossute e virili, ce ne sono una marea».
«Già, Dave, come te».
«Esatto, come me. Ma, Yōko, parlo sul serio, tu sei pazza, chissà che cosa
gira in quella tua testa, sembra tu non sappia parlare di uomini che con un
vocabolario minimo… però sei bella, e quelle tue espressioni fredde, il tuo
seno a cui non so resistere, mi fanno perdere la testa e sono pazzo di te».
«Sai, Dave, ho fatto una cernita degli uomini con cui sono stata in base
alle loro mani, e non mi sono mai sbagliata».
«Quindi quanti? Un elenco…».
«Allora, innanzitutto mio padre. Ovviamente, nel giusto senso, Dave.
L’ho amato molto, mio padre. Aveva bellissime mani. Poi mio marito.
Infine te».
«Solo questi? Forse ometti qualcuno nel mezzo, anche solo il tuo partner
dell’anno scorso, e quello prima, e poi?».
«No comment. Inoltre, mi hai appena dato della pazza. Dimmi che non lo
pensi sul serio… Comunque per questa volta ti perdono. In cambio,
andiamo a letto e facciamo ancora l’amore?».
«Sei una lussuriosa, a parte fare sesso con gli uomini e scrivere cose
improbabili, non c’è altro che ti interessi».
Improvvisamente David si fece serio. «Allora, dai, qui, adesso. Togliti
prima gli slip».
«Qui?».
«Esatto, qui, adesso. Salimi sulle ginocchia. Anche se per caso arrivasse
qualcuno, non si accorgerebbe mai che sotto la tua gonna svolazzante
stiamo facendo sesso».
Ridendo, restai seduta e mi tolsi gli slip. David di colpo mi sollevò la
gonna. Le mie gambe non avevano più scampo.
«Non mi piace, Dave. Che intenzioni hai?».
«Tranquilla, Yōko, stenditi lì. Non c’è anima viva, pure Gesù Cristo
chiuderebbe un occhio. Distesi all’ombra di questo grande albero non si
vede nulla. Dai, va bene così… E ora pensa di essere in paradiso».
«In paradiso? Quindi insieme a Mr. Smith, il missionario?». Ridemmo
insieme sommessamente, dopo un attimo chiusi gli occhi e mi distesi.
David spinse con le ginocchia tra le mie gambe, facendomele aprire.
«Non mi piace. Non farmi fare queste cose, Dave, ti prego».
«Ma di notte a letto fai anche di peggio, no?».
«Non dire cattiverie! Alla luce del sole non mi va. Mi metti alla tua
mercé, disarmata, e non sono tranquilla».
«Questo è il tuo istinto femminile. Tranquilla, Yōko. Ora ci pensa il
maschio reverendo Mr. Smith a proteggerti».
«Però Dave, così no, smettila».
«Dai, per favore! Ci sono solo io, e il sole». Quel suo tono di voce privo
di ansia mi scosse. Rassegnata, rilassai i piedi, e le mie gambe si lasciarono
aprire assaporando i raggi del sole che mi penetravano. Provai una
sensazione dolce, calda, pura. Il tempo scorreva lento.
«Mi sento davvero bene!».
«Certo. Tu in questo momento ti mischi col sole! Una lingua di luce
solare sta umettando le tue più profonde pieghe nascoste. Allora? Che te ne
pare, ti dà piacere, no?».
«Senti un po’, tu hai stoffa per scrivere versi molto sensuali, Dave. Sei
stato capace di allontanare da me ogni pudore».
«Perché non c’è nulla di tanto abietto da provocare inutile pudore».
Il vento soffiava dall’altopiano; e il fruscio misterioso dei milioni di foglie
di quercia sopra le nostre teste sembrava non finire mai. Il sole che filtrava
tra gli alberi si spandeva come neve su di noi.
«Dave».
«Sì».
«A cosa stai pensando?».
«Ti guardo».
«Uhm…? E cosa senti? Prova a dirmelo».
«Be’… vediamo. Innanzitutto, qui è il paradiso. Ci sei? Dagli alberi sacri
ci inonda un’infinita messe di foglie intrise di luce. Sotto gli alberi c’è un
angelo senza macchia. Certo, non è più nel pieno della gioventù, ma mostra
la lingua come una bambina e riposa. Quella sei tu».
«Sei poco carino».
«Non prendertela, ascolta e taci. Io sono un figlio di Dio, sono il
missionario Smith. Sotto questa patina di stoico pallore, qualcosa mi
tormenta. Lo capisci? Mi segui, Yōko? E questa è una dura prova alla quale
Dio mi sottopone. Quella cosa che è lì, tra le gambe lascive dell’angelo che
riposa, in realtà è una cosa bella, e mi sta chiedendo se sono capace di
contemplarla solo come tale; o, al contrario, è un misterioso antro senza
fine, dall’interno caldo e bagnato, profumato del muschio del folto della
foresta. E non è forse la caverna della perdizione che stimola l’istinto
animale?».
«Tu che ne pensi?».
«Chi? Io? O Mr. Smith?».
«Tu, David W. Hall».
«David Hall pensa che sia un bel vedere». In questa sua risposta la voce si
era incupita. Per un momento regnò il silenzio tra noi. Poi, in tono
sommesso, chiesi ancora: «E invece il missionario?».
«Eh, già, Smith» riprese con un tono volutamente seccato. «Per lui, la
cosa dorata che l’angelo ha tra le gambe è una cavità oscena. Questo vede.
Ora è prostrato di fronte a quell’istinto animale che avrebbe dovuto
disdegnare, ha voltato le spalle a ogni dio».
Tuttavia, nei suoi occhi non ardeva la fiamma del desiderio. Nelle sue
pupille nocciola ora più chiare affiorava tenerezza; il suo sguardo era
malinconico e quieto. Poi quel pomeriggio restammo a lungo a fissarci l’un
l’altra.
Erano le quattro, l’ora del tè; noi lo prendevamo all’inglese, mettendo
nella tazza prima latte stiepidito, poi versandoci sopra molto tè denso e
bollente.
«Non c’è niente che batta un tè di prima scelta preparato all’inglese» disse
David con aria felice.
«Guarda, ho anche gli scones!».
«Sono quelli originali?».
«Esatto! Proprio come quelli della nonna. Li ho fatti io».
«Cosa? Tu in cucina! Questa sì che è una sorpresa. Proprio non riesco a
immaginarti che armeggi diligente in cucina, tutta infarinata. Comunque,
ok, approfitto degli scones!».
«Te li scaldo?».
«No, va bene così. Ci metto un bel po’ di burro e marmellata di
albicocche, ne prendo un paio».
Mentre prendevamo il tè, Erika tornò dal tennis.
«È ancora qui?» bisbigliò guardando David di sottecchi, mentre in un
lampo allungò le lunghe braccia dorate dal sole, prese uno degli scones di
David e ne fece un boccone.
«Ma che modi sono! Senza neppure lavarti le mani. E poi, rivolgersi a Mr.
Smith con “è ancora qui” è molto scortese!».
«Scusatemi» si arrangiò Erika da brava ragazza, senza alcuna soggezione.
«Mr. Smith» ripresi sforzandomi inutilmente di mantenere un’espressione
seria «questo pomeriggio è rimasto a lungo con la tua mamma per farla
pregare».
«Davvero, mamma? E come?».
Sentendomi in difficoltà, guardai David. Lui, togliendomi d’impaccio,
rispose: «Ci siamo rivolti a Dio, agli angeli».
«Allora può farlo fare anche a me, no, Padre Smith?». Poiché Erika si era
rivolta a David con quel tono, la sgridai facendola sgattaiolare dentro casa.
«Dopo che ti sarai spazzolata gli scones in cucina, esci di nuovo, giusto?
Bene, prima portamene qui uno per Mr. Smith».
«Capito, mamma».
David sul prato si rotolava dal ridere.
«Ma pure tu, il missionario Smith…» disse David mentre con la nocca si
asciugava una lacrima all’angolo dell’occhio.
«Perché con un missionario non c’è pericolo. Ad esempio, se Erika se ne
uscisse raccontando al padre che c’era un missionario, un tale Smith, mio
marito condividerebbe, ho pensato».
«Al contrario di quanto pensi, io non credo che un missionario non
costituirebbe un pericolo, Yōko…».
«Per favore, non dirlo ad alta voce, Dave. Qui accanto vive la famiglia di
un missionario tedesco».
«Ho capito, ho capito. Però, Yōko, pensaci. Un tempo costoro furono un
pericolo per le sensuali e solari genti d’Africa, imponendo la croce sulle
loro scintillanti fronti scure, o no?».
«Ecco, ci risiamo con i tuoi sofismi arguti. Ti prego, abbassa la voce,
Dave».
«Ok, Yōko. Comunque so per certo che alle Hawaii i più ricchi, i
possidenti delle zone più ambite, guarda caso sono i missionari».
«Sei sicuro di quello che dici?».
«Sicurissimo! Sono loro che si sono insediati in quel paradiso
incontaminato, e cos’hanno fatto? Hanno radunato lì il peggio del peggio
della volgarità del mondo intero. Ora l’isola degli dèi è ridotta a un luogo
che puzza di vizio».
«Mah, David, non saprei. Le Hawaii non sono il luogo di perdizione che
dici».
«Ah no? Oh Yōko, Yōko! Dio, ti prego, sembri aver già abbandonato
questa donna ingenua. Quelle stesse bocche che sostengono che tutti gli
esseri umani sono uguali davanti a Dio, più di qualunque altra, mangiano
carne tenera e bevono vino francese di qualità superiore. Mentre nel mondo
ogni giorno muoiono di fame cinquantamila, che dico, cinquecentomila
bambini, capisci? E loro, gli stessi che predicano, non provano neanche a
fare qualcosa! Si preoccupano solo delle loro terre, del proprio benessere e
l’amore che invocano, inoltre, è sorprendentemente rivolto solo al loro Dio,
mentre non fanno alcuno sforzo di avvicinarsi a noi esseri umani!».
«Sei così dogmatico. Difficile accettarlo. Ti ucciderebbero, David, lo sai?
Smettila. Per quanto riguarda l’amore di Dio, forse è perché non sei pronto
ad accettarlo, questo mi viene da pensare. Comunque, non sono in vena di
discuterne».
«Non importa» disse lui zittendosi all’improvviso, come un malato a cui
la febbre sia scesa di colpo. «È solo che appena penso a quei tizi mi viene
da vomitare».
L’estate volgeva alla fine; una sera, una settimana prima del mio rientro a
Roppongi, a Takahara, nel caldo umido dei muri, si approssimava
l’autunno. Fuori pioveva, noi guardavamo il piccolo fuoco del camino.
Quella sera David intavolò l’argomento della nostra separazione.
«Noi, a questo punto, è meglio se smettiamo di vederci».
«Tu credi?» dissi con un tono di voce che avrei voluto più pacato.
«… a Tokyo, incontrarci senza dare nell’occhio è difficile. Che sia al
Chalcot o all’R&B, passi per la prima volta, ma la seconda chiunque
dicesse di aver visto Yōko e Dave insieme ci ricamerebbe su».
«Ma soprattutto sarebbe impossibile, no?».
«A Tokyo finiremmo per incontrarci di soppiatto in un luogo sconosciuto
a tutti, ma se anche lì qualcuno ci vedesse una sola volta? Sarebbe il
capitolo uno della fine» disse mimando il gesto di una testa da mozzare.
«Inoltre, tuo marito, lo sai bene, è un mio amico. Ciò detto, non possiamo
spingerci oltre».
David incrociò le mani sul petto, continuando inconsciamente a
massaggiarsi il cuore per un tempo infinito, come se provasse dolore lì. «In
tutta franchezza, penso che piuttosto che provocare una ferita alla mia
amicizia con Paul, sia meglio perdere te. È questa la mia conclusione».
Le parole di David mi erano chiare da far male, ma quella sua espressione
oltremodo schietta mi fece davvero infuriare.
«Sostieni di non voler ferire Paul, David. Sii sincero, non vuoi invece
salvarti la faccia e uscirne indenne tu?».
David restò in silenzio a fissarsi le mani poggiate sulle ginocchia, poi
disse: «Una bella donna non si spinge a osservazioni così taglienti. E anche
se lo fa, non dovrebbe dirle ad alta voce, Yōko. Questo è il mio ultimo
consiglio. Per il resto, la risposta è sì, è come hai detto».
David tese le mani e, sollevandomi dal tappeto sulle sue ginocchia, mi
abbracciò, reclinando la testa pesante sulla mia spalla.
«Io potrei stare una settimana senza mangiare, o senza andare a letto con
una donna, e sopravvivrei, ma se sapessi di aver perso anche un solo amico
che mi vuole bene, allora credo che non resisterei per un solo giorno in
questo paese!» e mi strinse forte tra le braccia. «Yōko, darling. Mi piaci da
impazzire. Ma adesso, rimpianti a parte, dobbiamo lasciarci, conserveremo
il ricordo di quei momenti di intensa felicità». Poi aggiunse velocemente:
«Sono affezionato a Paul, quanto a te».
Per la prima volta sentii di poterlo perdonare.
«Quindi è finita, giusto?».
«Giusto. È la cosa migliore».
«E io che farò? Hai pensato a me, a come starò?».
«Tu starai bene, vedrai. Lasciandomi, la sola a non restare ferita sarai tu».
Ero affezionata al suo corpo, ai suoi tanti gesti sensuali, al suo modo di
vezzeggiarmi, ero profondamente attaccata a lui.
Quelle parole sconce che a mio marito non avrei mai osato dire,
l’atteggiamento sfacciato, i ghiribizzi, le mie pretese… da quel momento
ero libera, potevo rilassarmi da tutto. Anche da David, che da me
pretendeva una quantità di performance eccessive: era sempre stato
impaziente, implacabile con me. Oltre a quello, gli piaceva molto che mi
comportassi come una navigata prostituta parigina. Separarsi non mi
lasciava l’amaro in bocca, ma di sicuro traspariva sul mio volto un senso di
solitudine profonda.
«Non fare quella faccia triste, Yōko! Tu mi piaci da morire. Questo lo sai,
no?».
«Già, però non mi ami».
David mi fissò a lungo, rivolgendomi uno sguardo profondo, poi riprese:
«Innanzitutto, Yōko, non è quello che vuoi. Per quanto mi riguarda, io ti
amo, credo. E tu? Tu, Yōko, sii onesta, non mi ami. Non è così?».
La risposta era no, in tutta onestà. Abbassai lo sguardo, a capo chino.
David ostentò un gesto di rassegnazione, poi accennò un risolino sotto i
baffi alla Clark Gable.
«Allora, a posto così».
«Sì, tutto a posto».
Accennai anch’io un sorriso, decretando la fine di un amore estivo. Restò
l’amicizia.

Rividi Lane sette giorni dopo il nostro primo incontro. Il giovedì mio marito
era partito col suo yacht, andandosene in crociera verso Shimada e Ōshima,
e sarebbe rimasto sull’Oceano Pacifico fino a domenica sera. Per me era
finalmente giunta l’occasione di andare all’R&B ad Akasaka. Ero certa che
quella sera Lane sarebbe stato lì. E infatti c’era. Spinsi la porta di ferro ed
entrai; sorpresa, immediatamente mi trovai di fronte il suo sguardo pesante.
Nell’istante in cui le sue pupille scintillanti mettevano a fuoco il mio corpo
dalla testa ai piedi, esitai e fui presa come da un impulso di fuga.
Era appoggiato coi gomiti sul bancone, l’aria annoiata, ma i suoi occhi
avevano una strana luce e mi fissavano come a volermi trafiggere mentre
mi avvicinavo. Poi con voce ferma mi salutò. «Ciao, Yōko, tutto bene?».
Ignorai con disinvoltura lo stupore denso di sarcasmo nella sua voce,
limitandomi a rispondere: «Sì, grazie. Io sto bene. Tu? Sembri stanco».
I bordi delle ciglia di Lane, troppo lunghe per un uomo, sembravano scuri
e unti.
«Vedo che stai bene, sembri brillare. Sei sempre più abbronzata. Com’è
andato il fine settimana? Io ti aspettavo».
«Questo fine settimana sono stata a casa di amici. Non te l’avevo detto,
forse? È proprio sul mare, è lì che mi sono abbronzata».
In quel pub di Akasaka c’erano volti conosciuti. Vidi un amico di mio
marito, che mi si avvicinò facendo un segno di vittoria, così sorrisi nella sua
direzione.
«Conosci tanta gente, eh?» mormorò Lane sprezzante. Poi disse
improvvisamente: «Usciamo».
«D’accordo. Esci prima tu?» chiesi con nonchalance, e Lane, senza
nascondere un’espressione evidentemente seccata, si precipitò fuori.
Mi avvicinai alla tavolata del mio conoscente, unendomi alla loro
conversazione. L’uomo, che avevo visto al massimo due o tre volte,
continuando a chiacchierare, fece per alzarsi nella maniera più naturale
possibile e mi sussurrò: «Da sola? Vuoi un po’ di compagnia, Yōko?».
Lanciai uno sguardo fugace al suo volto cinereo e replicai con freddezza:
«Per fortuna, no. A proposito, il mio nome non è Yōko». Ferito nel suo
orgoglio, si fece scuro in volto. Colsi l’occasione per salutare il gruppetto e
uscire, fuori Lane stava fumando con aria irritata.
Subito intrecciai le mie braccia intorno alle sue, facendo scivolare le mani
nelle sue e, scusandomi dolcemente, lo invitai: «Vuoi andare a mangiare
qualcosa?».
Pallido, tenendosi la tempia con le dita, Lane replicò seccato: «Perché, ti
interessa cosa voglio?».
«Non dire così, Lane».
«Mi dispiace» scusandosi, strinse con forza la mia mano. «Da quella sera,
ti ho aspettato tutte le sere all’R&B. Quando si facevano le otto e non ti
vedevo, provavo anche al Chalcot House, a Roppongi».
«Ho avuto tanto lavoro» mormorai come giustificazione. Sentii la lingua
seccarmisi in bocca.
«Anche la sera?».
«Già. Di sera lavoro meglio».
«E nel fine settimana sei andata a casa di amici, giusto?».
«Sì, è così».
Camminammo per un po’ in silenzio. Poi Lane, cercando di alleggerire
l’atmosfera, mi chiese: «Che vogliamo fare ora?».
«Sei ancora arrabbiato?».
Lane per un po’ non rispose alla mia domanda, continuando a camminare,
serrando tra le labbra una Seven Star. «Non sono arrabbiato. Non so come
fare con te. Sei una donna incredibilmente misteriosa».
In realtà sono solo una bugiarda, Lane. «Per riappacificarci, vogliamo
andare a ballare? Ti piace il rock?».
«No. Cosa c’è di divertente nel vedere un uomo che balla?».
«Che assurdità. Io mi diverto tantissimo a ubriacarmi e ballare come una
matta!».
«Allora mi spiace, non sono il partner adatto per la serata».
«Che cattivo! Sei proprio un vecchio pigrone!».
«Ah, e così io sarei un vecchio pigrone. Eppure questo mi pare che non
sia del tutto vero. Dopo te lo ricorderò, Yōko. Non ti perdonerò per tutta la
notte».
In quel momento nel mio petto sentii affiorare il mare di Akiya. Chissà
per quale ragione. Avvertii, prepotente, come un impulso improvviso, il
desiderio di portare Lane nella casa che io e Paul avevamo costruito a bordo
scogliera, sulla costa. Mio marito era per mare, e mia figlia al sicuro a casa
dei nonni.
«Vogliamo prendere la macchina?».
«Per andare dove?».
«Al mare. A casa dei miei amici. Che ne pensi?».
«Va bene. Con quale macchina? Prendiamo il mio vecchio catorcio?».
«Ok!».

Così mettemmo in atto quel piano senza esitare. L’umore di Lane migliorò
e, mentre mi stringeva al petto, ci dirigemmo verso il suo appartamento,
dietro Aoyama, per andare a prendere l’auto.
La Cedric usata di Lane mi fece subito tornare alla mente il suo
appartamento. Sui sedili posteriori erano gettate alla rinfusa buste di carta
spiegazzate, lattine vuote di bibite e t-shirt appallottolate, così mi sedetti
accanto a lui. Mi allacciai come d’abitudine le cinture di sicurezza, e vidi
Lane accanto a me ridacchiare prendendomi in giro, poi accese il motore.
Com’era diverso da mio marito Paul. La macchina di Paul brillava sia
dentro che fuori, e non mi permetteva assolutamente di gettare cartacce, o
di farmi sedere sul sedile del passeggero senza cintura. E anche lui guidava
sempre e solo con la cintura allacciata.
Ingranata la marcia e afferrato il volante, Lane assunse un’aria
concentrata e partì. Entrati nella Daisan Keihin, si spinse a una velocità di
90 chilometri all’ora, poi si rilassò e, senza distogliere gli occhi dalla strada,
cominciò a scherzare con una battuta dopo l’altra, facendomi ridere. In quel
momento la musica che si sentiva in sottofondo alla radio attirò la mia
attenzione, così Lane alzò il volume. Si trattava di una versione rock della
Primavera, dalle Quattro stagioni di Vivaldi. Subito Lane fece per spegnere
la radio, schioccando la lingua. Lo fermai: «Ehi, vorrei sentirla, grazie!».
Quel movimento infinitamente allegro inondò l’auto. Il tono fumoso
dell’assolo di flauto rendeva quella scena di primavera vagamente triste,
come se una goccia di profondità opaca fosse caduta nella vivace luce del
sole. Eppure, la batteria che continuava a risuonare in sottofondo era così
sensuale che sentii la pelle d’oca in tutto il corpo. Alzando ancora un po’ il
volume, esclamai: «È stupendo, Lane! Poter ascoltare le Quattro stagioni,
così semplici, e così meravigliose!».
In cerca di approvazione, mi voltai verso Lane, ma lui fece una smorfia,
affondando nel sedile. Tutto il suo corpo sembrava contrariato. Poi ribatté,
senza peli sulla lingua: «Assolutamente senza senso. Chiunque abbia
pensato di fare una versione rock delle Quattro stagioni andrebbe ucciso!
Non è altro che rumore. Per piacere, abbassa il volume, Yōko, prima che
prenda a pugni la macchina!».
Feci come mi aveva chiesto, e mi ringraziò.
«Dopotutto, la musica va ascoltata con le orecchie, non come se venisse
sparata da un cannone nella pancia» si mise a farmi la predica. «Se non
sapessi che un tempo eri una musicista, dubiterei fortemente dei tuoi gusti
da ignorante. E ti butterei fuori dalla macchina!».
«Non c’è bisogno di prenderla così, Lane! Ciò che conta è godersi la
musica. L’esecuzione di Vivaldi da parte di un’orchestra d’archi è senza
dubbio magistrale. Però che problema c’è con un arrangiamento rock, con
flauti e batteria? Il punto, semplicemente, è che può piacere o non piacere.
Sul volume poi, proprio tu che ascolti Bach e Mozart così forte da rompere i
timpani. Alla fine, un colpo di cannone allo stomaco è fatale quanto un
infarto. E a me questa versione rock piace».
«A me no. Peccato, non siamo d’accordo. Rimango fedele a Mozart».
«Capisco. Io no. Tutta qui la differenza». Così finimmo di discutere.
In quello stesso momento l’auto aveva appena superato Fujisawa e
continuava a correre lungo la strada costiera. A destra potevo vedere il mare
nero della notte, agitato dal vento che soffiava sulle creste; le onde
correvano lambendo la superficie del mare verso la terraferma, come
innumerevoli mani bianche. Raggiungendo la spiaggia, le loro delicate e
schiumose dita lattee raccoglievano la sabbia, trascinandola poi indietro
nelle profondità marine e scomparendo. Chissà ora Paul dove starà
navigando. Una volta mi disse: «Il mare della notte è scuro oltre ogni
immaginazione».
Dopo un lungo silenzio, Lane chiese, pensieroso: «Yōko, mi stai
nascondendo qualcosa?».
Per un attimo restai senza parole e fissai il mare buio. «Non credo di
averti detto tutto di me…».
La mia voce tremò. Tentai di eludere abilmente il senso della domanda di
Lane. «Per esempio, Lane, sapevi che mi piacciono i dipinti di Braque?
Chissà se ti ho detto di Chausson e Franck… E del fatto che sono
appassionata di oroscopi e psicanalisi? Se è questo il senso della tua
domanda, allora forse sì, ho ancora dei segreti. Ah, la cosa più importante:
forse non sai che sono una fantastica cuoca! Mi darai la chance di
dimostrartelo?».
«D’accordo. E cosa mi prepareresti?». La voce di Lane sembrava ancora
dubbiosa.
«Cucina giapponese, o cinese».
«Ho mangiato cucina cinese per sette anni, direi che ne ho avuto
abbastanza».
«In effetti. E l’agnello arrosto? Che ne pensi? Ti piace? Ok, allora è
deciso. La prossima settimana ce ne andiamo da Kinokuniya a fare la spesa,
e compriamo dei cosciotti di agnello surgelati».
«Bella idea. Non mangio agnello arrosto da anni, ormai!».
«Bene. Da te c’è il forno?».
«No, purtroppo. Nella cucina di un single trovi soltanto pollo e fagioli in
scatola, zuppe Campbell’s e forse del Nescafé».
«Vorrà dire allora che lo preparo da me e poi ti raggiungo in taxi».
«Che bello! Allora, quando?».
«Direi il prossimo venerdì sera».
Ben fatto, Yōko. Sei riuscita a evitare il pericolo approfittando delle
debolezze di un uomo e distraendolo con la cucina.
Lane, mentre imboccava lo svincolo per Hayama, come gli avevo
indicato, pretese una conferma: «Promettilo».
«Mi impegnerò» gli risposi con profonda attenzione. Promettere era
facile, ma non volevo deluderlo ancora. I piani di venerdì sera dipendevano
da mio marito. L’idea di usare di nuovo con lui la scusa del lavoro per
rimanere a Roppongi mi dava un senso di oppressione. Lane, cavillando
sulle mie parole, mi rimproverò: «Che significa che ti impegnerai? Non
riesci nemmeno a organizzarti?».
«Ma perché ti arrabbi subito, Lane? Voglio dire, anche tu, se la prossima
settimana ti capitasse un colpo di Stato in qualche paese del Sudest asiatico,
voleresti a raccogliere notizie senza nemmeno avvisarmi. O sbaglio?».
«Non mettere sullo stesso piano le tue questioni personali col mio lavoro.
Inoltre, se non voglio andare, non vado. Ho la libertà di scegliere cosa
scrivere nel mio lavoro. Tu continui a ripetere lavoro, lavoro, ma fammi
capire, il tuo lavoro è indissolubilmente legato ai colpi di Stato, o ai divorzi
e ai nuovi matrimoni di Liz Taylor?» sbottò Lane irritato, e premette con
forza il piede sull’acceleratore. La macchina sobbalzò vibrando e aumentò
di velocità.
«Ehi, è solo la seconda volta che ci vediamo e già litighiamo come una
coppia sposata da tre anni, ti pare normale?».
«Se per te una coppia sposata da tre anni è così, allora adesso capisco
molte cose, Yōko». Poi Lane cambiò tono di voce. «D’accordo, la smetto»
aggiunse.
«A proposito – riprese, – di chi è questa casa di Akiya?».
Non mi ero preparata una risposta per questo e, maledicendomi, replicai:
«Dovresti conoscerlo». Poi, pensandoci, aggiunsi: «Sono una coppia mista
giapponese-inglese, hanno una figlia».
Mi tornavano in mente la gigantesca mappa dell’Inghilterra appesa alla
parete del soggiorno e la cameretta di Erika.
«Uhm, come si chiama?».
«E perché, Lane? Non devi preoccupartene».
«Hai detto che forse lo conosco. Chi è?».
«McBright…».
«E il suo nome…?».
«Paul».
«… No, non lo conosco».
A quel punto Lane iniziò a rallentare. Si sentì d’improvviso l’odore del
mare. Il mare che era lì davanti, ma non si vedeva, avvolto dall’oscurità. Il
nostro viaggio in auto stava finendo. Perché avevo fatto il nome di mio
marito? Non sarebbe stato meglio dire un nome falso? E se Lane si fosse
spinto oltre, chiedendo come si chiamasse la moglie di Paul McBright, il
nome di chi mi sarei fatta sfuggire? Tremai leggermente e,
mordicchiandomi nervosamente le unghie accanto a Lane, fissai il buio
fuori dal finestrino.
La macchina entrò nel piccolo villaggio di pescatori affacciato sulla baia;
guardando a destra c’era il vecchio peschereccio e, proseguendo un po’ più
avanti, la strada convergeva su una collinetta e poi, di colpo, terminava. Lì
davanti si vedeva casa mia e di Paul. Scendemmo dalla macchina e
camminammo nella quasi totale oscurità, tenendoci per mano. Salimmo
diversi gradini in pietra di Ōya. La chiave era nascosta sotto la lanterna da
giardino, accanto alla porta.
Entrando in casa, ci investì l’aria calda soffocante e umida dell’interno.
Mi affrettai a spalancare le imposte, per far entrare un po’ di brezza marina.
Lane, decisamente incuriosito, cominciò a gironzolare per la casa, dove
elementi giapponesi si mescolavano a uno stile occidentale. La lanterna di
Isamu Noguchi, accesa accanto al camino in mattoni, che mio marito aveva
costruito nell’arco di diversi fine settimana, creava un’atmosfera
accogliente.
Diedi un’occhiata al frigo, c’erano una dozzina di birre di mio marito,
prosciutto e formaggio. Presi una birra, riempii il bicchiere e lo portai a
Lane; poi presi del ghiaccio dal freezer e lo aggiunsi al whisky, insieme
all’acqua. Tirai fuori un po’ di prosciutto e del formaggio cheddar, e li
preparai con dei cracker. Sprofondai nella poltrona di pelle nera accanto alla
finestra, dove ero andata a sedermi, e sorseggiai il mio whisky. La tensione
lentamente iniziò a sciogliersi.
«Vuoi sentire un po’ di musica?».
«Se ci fosse la Partita per violino solo di Bach, sarebbe meraviglioso».
«La seconda?».
«Sì, la Ciaccona».
«Ah, mi spiace!».
Nello stereo sopra il caminetto c’era un disco di Danielle Licari già
iniziato, forse messo da mio marito, così lo accesi. Si trattava di un
arrangiamento jazz di un Concerto per clavicembalo di Bach.
«Nemmeno i pezzi di Danielle ti piacciono? Un arrangiamento jazz di
Bach è troppo per i tuoi gusti? Devo spegnere?».
«No, va bene. Finché parliamo di una cosa del genere, non è un gran
problema. Non voglio discutere con te. Piuttosto, Yōko, vieni qui».
Lane stese le sue lunghe braccia, mi strinse al petto prendendomi tra le
sue mani, e affondò la testa tra i miei capelli. Rimanemmo a lungo così,
senza muoverci. La voce di Danielle si spense, e sentimmo solo il brusio del
mare, il rumore del vento.

La mattina dopo, quando mi svegliai sulla chaise longue, guardando fuori


dalla finestra e vedendo il mare scintillante e l’azzurro pallido del cielo, mi
resi conto che era già mattina. Lane non c’era. Mi alzai, e dopo essermi
lavata il viso, uscii nel patio, guardando verso la spiaggia. Né intorno al
faro che brillava di bianco per il riverbero del sole, né sugli scogli che si
susseguivano nerissimi, si vedeva figura umana.
Rispetto al fine settimana, con le persone che andavano in giro in costume
e le urla gioiose dei bambini, in quella calma mattutina si percepiva una
sorta di solitudine crudele. Tutto era immobile e silenzioso, e in quella
mattina d’estate che pareva quasi riempirsi di sospiri c’era soltanto il mare,
che nel punto in cui lambisce la terra si trasforma in un’onda gentile, nel
suo eterno infrangersi e ritrarsi.
Con un leggero fremito, tornai davanti allo specchio e, dopo essermi
frizionata viso e collo con la crema solare, mi sfumai la matita nera sugli
occhi. Poi misi a scaldare l’acqua per il caffè. Continuando a guardare fuori
dalla finestra, preparai sul tavolo caffè e toast per colazione, quando vidi
Lane che si precipitava dalla spiaggia fino al patio. L’istante dopo era
davanti a me, agitando le sue braccia muscolose. Il volto paonazzo per il
caldo e i capelli scompigliati dal vento che veniva dal mare.
«Buongiorno» così dicendo, Lane mi stampò sulle labbra un bacio salato,
poi aggiunse con voce affannata: «Dopo colazione andiamo a nuotare,
Yōko. L’acqua è bellissima».
Finito di mangiare, Lane andò a gettarsi in acqua, con ancora i jeans
indosso, a torso nudo. Poi iniziò a nuotare rapidamente verso il largo, e da
lontano, con solo la testa fuori dall’acqua, mi chiamò. Stringendomi nelle
spalle, gli dissi a gesti che l’acqua era fredda!
Lane, tornato a riva senza nemmeno asciugare il suo corpo tremante, mi
prese dolcemente in giro per questo, sorridendo felice con i suoi denti
bianchissimi.
Arrivò il pomeriggio, e dopo aver fatto un pasto leggero con un panino al
prosciutto e insalata e un po’ di birra, Lane si stese sulla chaise longue, e
con il volto tronfio di soddisfazione, disse: «E ora farò il pisolino più
lussuoso del mondo». Si addormentò in un attimo, come un bambino, e io
decisi di passare il tempo accanto a lui continuando a leggere Cry for me di
William Melvin Kelley, che avevo già iniziato.
Passò poco tempo, quando Lane si svegliò dal pisolino al leggero rumore
delle pagine voltate. Rapita dal colore sognante e confuso nei suoi occhi che
si trasformavano gradualmente in un sorriso vivido, gli domandai: «Hai
dormito bene?».
«Molto. Ma ho un po’ sudato».
«Vai a fare una doccia, se vuoi».
«Forse dopo».
In un istante vidi gli occhi di Lane risplendere di un forte desiderio, che
mi colpì come un’ondata di calore. Non ancora completamente risvegliato
dal sonno, allungò la sua mano e, goffamente, mi sbottonò la camicia.
In quel rapporto madido di sudore di un pomeriggio sulla spiaggia,
vedevo il mare a quell’ora risplendere scintillante, come fosse di metallo.
Poi, incantata, mi sembrò quasi capovolgersi per diventare della stessa
tonalità del cielo. Mentre sprofondavo in una gioia intensa, pensai che
riuscivo a vedere chiaramente il mare pieno e lampeggiante negli occhi
azzurri di Lane, che la passione aveva reso luminosi come vetro.
Fuori dalla finestra, il cielo iniziò a tingersi di arancio, il sole stava per
calare all’orizzonte.
«Lane, usciamo a vedere il tramonto? Vorrei proprio mostrartelo».
Ci sedemmo vicini sulle grandi rocce che sporgevano dalla riva, e
fissammo il sole dorato che calava alla destra del Monte Fuji, con le
increspature altrettanto dorate che stavano per inghiottirlo. Lane osservò in
silenzio l’improvviso bagliore del sole che, nell’istante in cui tramontava,
infiammava il cielo, mentre i contorni delle nuvole e del peschereccio,
rientrato frettolosamente dopo una giornata di lavoro, iniziavano a tingersi
di scuro, e anche il mare smetteva di gorgogliare d’oro e diventava di un
pacifico color cenere, stingendo a poco a poco. D’un tratto si alzò il vento.

C’era un tempo in cui il tramonto era in grado di mettere il mio cuore in


subbuglio. Proseguii il mio soliloquio sottovoce.
«Adesso, però, davanti a un panorama meraviglioso non riesco più a
provare quell’emozione che ti fa sentire il cuore scoppiare».
«L’emozione non è provocata dalla natura, o dal paesaggio. Dipende
dall’anima della persona che ammira quel paesaggio. Hai bisogno di
qualcuno accanto a te che sappia risvegliare ancora quella meraviglia da far
scoppiare il cuore davanti a un tramonto, Yōko».
Ci stringemmo forte in un abbraccio, come se non volessimo mai più
separarci, e ci lasciammo il mare alle spalle.
Durante il viaggio di ritorno a Roppongi, eravamo ebbri della convinzione
che la nostra felicità dipendesse l’uno dall’altra, paghi dal profondo del
cuore della nostra complicità in spiaggia.
«Non dimenticare, Yōko, mi lasceresti il tuo numero di telefono?».
Così dicendo, mi passò un foglio dalla sua agenda, e vi scrissi sopra il mio
numero di casa. Poi aggiunsi tra parentesi: «Orario d’ufficio: 10-16, lunedì-
venerdì» e lo passai a Lane. Lui gli diede una rapida occhiata mentre
guidava, e subito lo mise nel taschino della camicia.
«Ti detto il mio numero, ok?» disse, e io mi appuntai il numero
dell’appartamento di Aoyama.
«Sai, ho la fobia del telefono» gli rivelai sorridendo.
«Davvero? E cosa ti spaventa?».
«Non mi piace parlare con qualcuno che non posso vedere. Comincio a
immaginare troppe cose, e mi viene l’ansia».
«Yōko, hai davvero troppa immaginazione. Però non devi aver paura a
telefonarmi. Una tua chiamata sarà sempre la benvenuta, senza eccezioni».
«Grazie. Sei così gentile, Lane».
Fuori dal finestrino, osservavo il mare sempre più buio allontanarsi. Si
sentiva soltanto il forte moto ondoso. Dentro di me il mare bisbigliava. Da
quella spiaggia affiorò nitida l’immagine di un telefono.

Notte fonda. Soltanto il telefono illuminato, come fosse sotto i riflettori. Io


con la pancia ingrossata, al nono mese di gravidanza. Componevo il numero
e poi mettevo giù il ricevitore. Ripetei quel gesto disperato due, tre volte. Di
nuovo, presi il telefono tra le mani. Fece due squilli. Sentii la voce di
Shunsuke.
«Pronto, sono Yōko».
«Yōko, che succede?».
«Scusami per l’ora. Stavi dormendo?».
«No, leggevo. Ma che succede?».
«Volevo solo sentire la tua voce».
«Non mentirmi. Stai piangendo?».
… come ha fatto a capirlo?
«Parlami, Yōko. Ti ascolto».
«Mio marito non è tornato». Mi scorrevano le lacrime e la voce tremò.
Shunsuke cercava di consolarmi.
«Ha un’altra donna. Me lo sento».
«Allora, Yōko, immagino lo avrai tempestato di domande».
«Sì, come una pazza».
«Quando ti arrabbi, diventi una furia».
«Stamattina è rientrato a casa completamente ubriaco. Poi abbiamo
litigato, un litigio terribile, e se n’è andato di corsa. Fine. Non è ancora
tornato, a quest’ora».
«Yōko, ti dico una cosa. Se un uomo è troppo ubriaco, non è più in grado
di farlo. Potrebbe non averti tradito affatto. E se avesse avuto la coscienza
sporca, non si sarebbe certo messo a litigare così».
«E allora perché non è ancora rincasato, se non ha fatto nulla?».
«Vai a dormire, vedrai che tornerà presto».
«Come fai a saperlo?».
«Sono un uomo anch’io. Ci sono momenti in cui un uomo agisce da
maschio. E, senza motivo, adotta comportamenti crudeli verso sé stesso e
gli altri. Non importa quanto tu pianga o ti disperi, un uomo si sentirà a suo
agio solo rifugiandosi nel suo istinto maschile. Mi hai capito? Quindi è
inutile metterlo con le spalle al muro. Per un uomo un litigio non è che una
scocciatura. Lascialo stare. Vedrai che si sveglierà di colpo come da un
sogno. E anche se fosse, alla fine si tratta semplicemente di una
scappatella».
«Lo odio, Shun, lo odio. Non posso perdonare che ora non sia qui al mio
fianco, a soffrire insieme a me».
«Volevi forse che ti leccasse le ferite?».
«Le ferite che lui stesso mi ha inferto».
«So che anch’io ti ho fatta soffrire, ma non posso farci nulla» disse
Shunsuke prima di chiudere la telefonata. «Ma anche adesso, Yōko, potrei
morire per te, non dimenticarlo».

«Che succede, Yōko, sembri assente. Allora, mi chiamerai?».


«No, non credo ti chiamerò».
«Ma come?!». Lane mi guardò sorpreso.
«Ho paura. E nel tuo caso ho doppiamente paura. Perché dovrei
combattere contro la voglia di chiamarti decine di volte al giorno. Solo per
questa ragione».
«Ma tu puoi chiamarmi decine di volte al giorno».
«Scemo, mica dico sul serio. La voglia di chiamarti decine di volte si
trasformerebbe a malapena in una telefonata all’atto pratico. Poi, pensando
a quello che stai facendo, so che esiterei. E questa è la seconda ragione.
Magari potresti essere talmente stanco da voler dormire. E non mi andrebbe
di sentire una voce scocciata al telefono. E se fossi nel bel mezzo della
stesura di una bozza? Allora sicuramente avresti una voce nervosa. E se ti
chiamassi mentre sei a letto con un’altra? In quel caso, Lane, chissà che
voce avresti. Tutto qui. Mi manca il coraggio di lanciarmi alla cieca».
Lane tolse la mano dal volante e mi afferrò il braccio, con dolcezza. «Mi
preoccupa saperti così sensibile. Come pensi di sopravvivere alla tua vita,
andando avanti?».
«Non preoccuparti, Lane. Finora me la sono sempre cavata egregiamente,
penso che continuerò così».
«Sei molto sicura di te. E dimmi, qual è il tuo segreto, per essere così
fiduciosa?».
«Non essere troppo legata a nulla, Lane».
Da quel momento non parlammo più. Lane sembrava concentrato sulla
guida, e io ascoltavo la musica alla radio.
Arrivammo a Roppongi alle otto e mezza. «Adesso che facciamo?
Vogliamo provare ad andare al Chalcot?».
Al Chalcot quasi sicuramente avremmo incontrato gli amici di mio
marito. «Stasera non ne ho molta voglia. Non mi va di vedere gente. Sono
un po’ stanca per la socialità».
«E quindi torniamo semplicemente a casa? Domani è domenica».
«No, vorrei stare con te. Ma non mi va di andare al Chalcot House».
«Ho capito. Andiamo da me, allora. È un rifugio caotico e disordinato, ma
c’è del whisky e della buona musica».
«D’accordo. Vogliamo ascoltare la Ciaccona, che non siamo riusciti a
sentire al mare?».
Con la macchina svoltammo a sinistra dopo l’incrocio a Roppongi,
dirigendoci verso Aoyama.
Ciò che mi era rimasto più profondamente impresso dell’appartamento di
Lane, dove mi aveva invitata per la seconda volta, era il voluminoso libro di
James Joyce, lasciato aperto accanto alla macchina da scrivere.
Guardandolo, mi sforzavo di pensare cosa potesse mai significare per un
uomo di trentacinque anni continuare a sfogliare l’Ulisse. Mi sembrava
strano, perché ero fermamente convinta che quello fosse il classico libro da
leggere svogliatamente durante l’adolescenza. Se rileggessi ora Joyce, forse
mi annoierebbe disperatamente, rievocando le stesse sensazioni della mia
giovinezza. O magari ora riuscirei a entrare più facilmente nel pensiero di
Joyce e nel suo inconscio? Oppure, senza l’ostinata tenacia giovanile,
quelle parole mi stancherebbero, e la mia anima rifiuterebbe quel monologo
infinito?
Lane, togliendosi la maglietta, chiese: «Resti con me fino a domattina?».
«Sì, Lane».
«Bene, ne sono felice. Dormiamo un po’, prima? Poi, dopo faremo
l’amore fino al mattino» disse, sorridendo come un bambino beato. E si
addormentò. Rimasi seduta accanto a lui, che russava leggermente, per
almeno quindici minuti, mordicchiandomi le unghie. L’idea di risvegliarmi
in quella stanza la mattina dopo non mi piaceva neanche un po’. Restare lì a
dormire mi faceva sentire sporca.
Premetti le mie labbra sulla sua fronte dolorosamente calda e abbronzata,
come a voler imprimere un ricordo, poi silenziosamente sgattaiolai fuori
dall’appartamento.
Lunedì mattina alle dieci e mezza squillò il telefono. Era Lane. Con la sua
voce bassa e ovattata, mi rimproverò: «Me lo avevi promesso, perché sei
andata via? Riesci a immaginare come mi sia sentito preso in giro, quando
domenica mattina mi sono accorto che non c’eri? Pensavo che almeno ieri
mi avresti telefonato, sono stufo!».
«Perdonami. Non riuscivo a prendere sonno nel tuo letto. E ieri alla fine
ho dormito tutto il giorno. Per questo non ti ho chiamato».
«Non mi interessa niente di quello che hai fatto da ieri fino a stamattina.
Mi sono deciso solo ora a bere un caffè, pensando che fossi finalmente al
tuo posto di lavoro. È la prima cosa che metto nello stomaco da ieri, a parte
il whisky».
«Mi dispiace, Lane».
«Possiamo vederci ancora?».
«Sì, Lane, va bene».
«Non ti sei dimenticata della cena, vero?».
«No, non l’ho dimenticata. Venerdì sera».
«Non vedo l’ora, Yōko. Posso chiamarti ancora?».
Gli dissi che non c’era problema, stavo quasi per mettere giù, poi lo sentii
esitare. «Yōko?».
«Dimmi, Lane».
«Sai, quello che mi hai detto in macchina, la cosa del telefono, no? Ora
forse riesco a capirla. Mentre stavo componendo il tuo numero, mi
tremavano le dita. Ho lasciato perdere varie volte. Mi credi?».
Sentii un violento dolore al petto, come se fossi stata pugnalata. Mi morsi
con forza il labbro inferiore, tanto da farlo sanguinare. In bocca sentii un
sapore ferroso, tiepido.
«Lane, se ti tremava la mano, probabilmente è perché hai passato la
giornata a ubriacarti».
Sentii la voce di Lane montare di rabbia. «Il tuo scopo è distorcere i miei
sentimenti come fosse un gioco, Yōko?».
«Non era mia intenzione» la voce mi si ruppe, cercando di non piangere.
«Lane, sono felice che tu abbia capito la mia paura delle telefonate. E anche
di venerdì sera. Non dimenticarti di chiamarmi ancora!».
«Non lo dimenticherò. Prima di salutarmi, non c’è niente che vuoi
dirmi?».
C’era solo una cosa che avrei dovuto dire. Ma gli dissi soltanto: «Mi
piaci, Lane».
«Mi aspettavo qualcosa di diverso, ma va bene. Ti perdono».
«Grazie, Lane» poi lo salutai. Entrambi aspettammo che l’altro chiudesse
la telefonata. Dopo un po’, riagganciai io.
Quella sera mio marito rientrò direttamente a casa senza passare dal
lavoro, esausto dai giorni di navigazione. Non era di buon umore, e quando
sollevai la questione del venerdì sera, come previsto, litigammo.
«Ma Paul, ormai non posso più cancellare questo impegno».
«Non ti ho detto di cancellarlo. Anch’io resto a Tokyo, ho semplicemente
posticipato la partenza a sabato mattina. E comunque, sono stufo che ogni
fine settimana lasci a me l’incombenza di portare Erika al mare a causa del
tuo lavoro».
«Esagerato, ogni fine settimana! Quello che ti chiedo, per stavolta, è
soltanto venerdì sera, non va bene nemmeno una sera?».
«D’accordo, d’accordo. Ma non ti ho detto che non devi lavorare!».
Poi mio marito tornò a guardare il giornale, a significare che la
discussione era terminata.
Da quanto tempo io e Paul avevamo queste conversazioni così
insignificanti? Mio marito non si prendeva quasi più la briga di parlarmi, e
mi guardava non con più interesse dei mobili che erano lì da tanto tempo.
Da quanto capitava che, per fargli capire di star parlando con lui, dovevo
ripetere la stessa frase anche tre o quattro volte, finché non alzava almeno
gli occhi dalle parole crociate del «Japan Times» o da «Punch»1? Quanti
sforzi ancora avrei dovuto fare per riuscire ad attirare la sua attenzione?
Non posso certo dire di aver trattato mio marito con grande pazienza o
gentilezza, invece di lamentarmi o sgridarlo, o attaccarlo con violenza, e
litigare come una furia, fino ad arrivare alla totale rassegnazione. E neanche
mi sono mai impegnata così tanto nella nostra quotidianità, mostrando un
sincero interesse o stupore in una qualunque delle nostre conversazioni, né
ho mai pensato di indossare un bel vestito per lui, sapendo che in cucina mi
sarei sporcata d’olio, o di mettermi del trucco, che sarebbe tristemente
sbiadito, non avendo nemmeno il tempo di guardarmi allo specchio.
Chi di noi aveva cominciato?
Ero forse stata io la prima ad aver fatto un passo falso? E a pronunciare
brutalmente parole per ferire, ero sempre stata io? Chi era stato il primo a
capire che era molto più facile rassegnarsi del tutto, rimanendo impassibili
come pesci, mio marito, o io? E chi aveva capito che era necessario
sopportare non solo l’altro, ma anche sé stessi, per mantenere la nostra
convivenza che non sembrava più sostenibile? E chi di noi aveva sofferto
più amaramente nel rendersi conto che un disinteresse totale tra marito e
moglie non era possibile, dopotutto? Chi di noi aveva imparato per primo a
fingere questa indifferenza?
Troppe cose, un mucchio di tempo. Cercare di arrivare a comprenderle era
come tentare di emergere da migliaia di chilometri dal fondale marino. Se
non è il peso dell’acqua a schiacciarti, sarà l’embolia a ucciderti. Senza
alcun legame emotivo, sarebbe stato forse più facile dirsi parole gentili e
amorevoli. E senza amore, forse avremmo potuto comprenderci meglio l’un
l’altra. Senza amore.
Poi, facendomi forza, decisi di pensare a come preparare, venerdì sera, la
cena per Lane. Anche se fossi riuscita a cucinare l’agnello arrosto, come
avrei fatto a portarlo via senza che mio marito lo notasse? Per quanto una
coscia di agnello sia piccola, alla fine pesa comunque circa tre chili, oltre al
fatto che bisogna considerare le patate e la verdura di contorno, e la salsa.
Ok, è inutile tormentarsi adesso. Ci penserò a tempo debito.
«Let it be» mormorai come incoraggiamento.
Tra l’altro, sono due le cosce di agnello da preparare. Che poi
probabilmente, anche se si sentirà odore di agnello arrosto, mio marito
sarà impegnato in altro e nemmeno ne capirà la ragione, pensai con una
punta di malinconia.

Quel mercoledì pomeriggio ricevetti una chiamata da Lane. «Darling, non


vorresti andare subito via di lì?».
«E perché?».
«Pensavo che forse volessi venire a trovarmi».
«Proprio adesso?».
«Non puoi? Non ho il diritto di essere un po’ egoista?».
Dopo averci pensato su, risposi che sarei andata. Lasciai la bozza su cui
stavo lavorando, mi misi la borsa a tracolla e mi precipitai fuori, chiamando
un taxi. Nella borsa non avevo che rossetto e mascara. Scrutandomi
attentamente nello specchietto, mi ripassai le labbra col rossetto. Poi, col
semaforo rosso, mi affrettai a mettere il mascara. In quel momento ipotizzai
che io e Lane avremmo mangiato insieme. Rimpiansi di essere andata a
lavorare con indosso dei jeans e una vecchia camicia di mio marito.
Lane era seduto in un angolo della stanza, solo, con un’aria smarrita. Ai
suoi piedi, il ventilatore girava silenziosamente, sollevando le pagine di un
tascabile che sembrava avesse appena letto.
«Ehi, Yōko» mi salutò e si alzò, stringendomi tra le braccia. Con le dita
sollevai una ciocca di capelli che si era attaccata sulla sua fronte imperlata
di sudore. «Sei venuta, dunque, ne sono così felice».
«Allora rendimi anche tu felice, Lane. Ho volato. Mi sono precipitata così
com’ero».
«Indossata da te, Yōko, anche una t-shirt sporca è sexy. Ti si vedono i
capezzoli».
«Sono abiti da lavoro. Non ho avuto nemmeno il tempo di truccarmi».
«A me tanto non interessa il trucco. Mi piaci così come sei ora. Hai le
lentiggini».
«Con il sole che ho preso in questi giorni, si vedono ancora di più».
Quel primo pomeriggio facemmo l’amore come iene affamate. Poi,
mentre riposavamo languidi, Lane si appoggiò con la testa sul mio petto e,
sentendo il mio cuore che continuava a palpitare, a poco a poco iniziò a
scendere più in basso. Si fermò per un momento sopra la mia pancia inerte,
e poi la sua testa gentile e pesante continuò a scendere, avvicinando le sue
amate labbra al mio boschetto, ardente come fiamme nere. Lì ero già stata
devastata dal corpo di Lane. Dopo l’eccitazione, doveva emanare un forte
odore di gin.
Lane, Lane, Lane. Potrei morire in questo istante per te.

La sera di venerdì, mio marito pensò che i due cosciotti di agnello che
avevo preparato fossero per Erika. Io gli avevo detto di avere una cena di
lavoro con un editore. A tavola, con mio grande stupore, mio marito disse
proprio ciò che avrei voluto proporgli io stessa, se non mi avesse anticipato.
«Il caffè dopo cena vado a prenderlo al Chalcot House. Visto che è
venerdì sera saranno tutti lì, penso. Così anche tu puoi uscire prima, e
tornare prima a casa».
Per qualche strano motivo, non ne fui affatto felice in quel momento.
Pensai che non fosse un bene che mio marito fosse così comprensivo. Fui
sul punto di dirgli tutto, che lo stavo ingannando, e che stavo andando a
cena dal mio amante. Poi che avrei fatto l’amore nel letto di quell’uomo.
Tale fu l’impeto brutale di confessare ogni cosa, da farmi tremare in tutto il
corpo.
Mio marito uscì di casa portando con sé Erika, che rimaneva a dormire da
mia madre a Seijō. Io avvolsi nella carta d’alluminio la cena che avevo
preparato e versai la salsa in un contenitore ermetico, poi misi tutto dentro
una grande cesta, e andai subito a farmi una doccia. Dopo indossai un abito
Jurgen Lehl blu navy, mi avvolsi un tessuto dello stesso colore in testa e mi
feci un piccolo chignon basso.
Quando raggiunsi l’appartamento di Aoyama, vidi Lane pallido.
«Che brutta cera, Lane. Tutto bene?».
«Che ne dici? Strano ma vero, sono ancora sobrio, sarà per quello. Ho
rispettato quello che mi avevi chiesto e non ho ancora toccato un goccio
d’alcol, hai visto?».
«Bravo bambino. Come ricompensa per aver fatto come ha detto mamma,
eccoti un bel bacio». Diedi un bacio a Lane, e poi gli passai la nostra cena.
«Hai preso il vino?».
«Sì, è sul tavolo».
La tavola era apparecchiata per la cena. Sul tavolinetto quadrato erano
raccolti dei piccoli crisantemi bianchi, messi in semplici tazze da caffè.
C’erano poi due grandi tovaglioli di carta blu scuro, accuratamente piegati a
quadrato, posti uno di fronte all’altro, due piatti per la carne e una bottiglia
di vino rosso insieme a due calici, forse appena comprati per l’occasione.
«È bellissimo!».
Misi l’arrosto avvolto nella carta di alluminio in padella, e accesi il
fornello a gas del cucinotto.
«Che ne pensi del mio vestito, Lane?».
«Ti direi bello, ma ti preferisco senza niente addosso, lo sai?».
«Ehi! Non è un gran bel complimento in questo caso. E nessuno me lo
aveva mai detto».
Mentre scaldavo la salsa e le verdure, Lane mi porse il vino. Stavamo per
cominciare la nostra cenetta intima, noi due soli. Lane indossava un paio di
pantaloni di cotone bianchi e una maglietta nera. Ebbi l’impressione che il
nero gli stesse fin troppo bene.
«Vuoi sentire un po’ di musica da tavola?».
«No, per favore» replicai un po’ freddamente. Davanti al suo sguardo
interdetto, mi spiegai meglio: «Amo mangiare, quindi preferisco
concentrarmi soltanto sul cibo. Ancora non riesco a sentire la musica solo
come sottofondo».
«Oh, poverina!» mi canzonò Lane.
«Ma ti prego, non dispiacerti. In fondo, si dice che neanche Menuhin
permetta di ascoltare musica durante i pasti. Da buongustaio qual è, sembra
che faccia fermare la musica persino nei migliori ristoranti del mondo. A
quanto pare, fa un’unica eccezione soltanto per il violino gitano».
«Allora a te che tipo di musica serve per mantenere l’appetito?».
«Se proprio devo scegliere, scenderò a un compromesso per la chitarra
flamenca. Però tieni il volume basso, Lane. Se non si sente, meglio».
Lane mise un disco borbottando qualcosa tra sé.
«Che hai detto ora?».
«Dicevo che, per quel che riguarda la musica, sei estremamente volubile.
Io, fino alla morte, resterò fedele alla mia musica barocca».
Posai sul tavolo le patate e l’agnello al forno dorati, dall’aria deliziosa.
Poi, carote al burro bollite e bacon fritto con fagioli. E la salsa, color bruno
rossastro. Sistemai infine un contenitore di salsa a base di menta piperita.
«Saranno almeno dieci anni che non faccio una cena così familiare».
«Ma va, che esagerato!».
«È vero. L’ultima volta me l’aveva preparata mia madre».
«E la tua ex moglie ti faceva mangiare soltanto cucina cinese?».
«Non è tanto quello, piuttosto non si può dire che fosse una donna “di
casa”».
Mentre Lane tagliava abilmente la carne, io presi la verdura. Misi la salsa
sulla carne e sulle patate, e poi guarnii il tutto con l’altra salsa alla menta.
In quel momento l’attenzione di Lane fu catturata dal contenitore di salsa
che avevo in mano.
«Quella è proprio tipica della cucina casalinga britannica».
«Come?».
«In America non utilizziamo granché la salsa alla menta. Da noi si usa più
frequentemente la gelatina di menta».
«Ah sì? Non lo sapevo».
Lane infilzò con la forchetta un pezzetto di agnello e se lo portò alla
bocca.
«È delizioso. Davvero ben arrostito… Sai, anche questo metodo di cottura
è tipicamente britannico».
Rimasi un momento in silenzio mentre mangiavo, poi bevvi del vino.
Sarebbe stato meglio non aver chiesto di abbassare il volume della chitarra
flamenca…
Quando aveva quasi finito il piatto, Lane riprese: «Sono proprio curioso
di sapere come hai imparato a preparare un piatto così perfetto della cucina
tradizionale britannica…».
Sentii un freddo nodo al petto, foriero di sentimenti di rabbia. «Immagino
che avrei fatto meglio a preparare un perfetto cibo americano, invece di un
perfetto cibo britannico, Lane! Chissà, forse avresti preferito che riempissi
l’arrosto d’aglio fino a farti storcere il naso, oppure che cuocessi la carne
cospargendola di rosmarino? Oh, ma forse non avrei dovuto farla ben cotta,
ma lasciarla cruda, e magari utilizzare quella dolce e immangiabile gelatina
di menta come dessert, così, forse, avrei suscitato il tuo entusiasmo?».
Lane proruppe con veemenza: «Non è così, Yōko. Non fraintendere. Era
tutto delizioso. Mia madre era di origine irlandese, quindi non posso che
apprezzare la tua cucina. Quello che volevo dire, in realtà…».
Rimasi in attesa, alzando le spalle.
«Mi domandavo chi ti avesse insegnato a cucinare così bene. Cioè, non
può che essere stata una persona inglese a insegnarti, no?». Poi posò la
forchetta, unì le dita sotto il mento, massaggiandolo col dorso della mano.
«Non fraintendermi, non ti sto accusando di nulla. Non ne ho alcun diritto.
Semplicemente, sono molto curioso».
«Ne vuoi ancora? O sei pieno?».
«Sì, grazie» rispose Lane, e riempii il suo piatto con un’altra porzione di
carne e verdure. Per un po’ sembrò che fosse assorto, impegnato solo a
mangiare. Poi d’un tratto esclamò: «David!».
Nella sua voce, più che biasimo, c’era un sereno stupore. Posò con tale
forza il bicchiere di vino da far traboccare tutto il contenuto fuori. Mentre
ripuliva attentamente con un tovagliolo, Lane sogghignò.
«È così, allora! Tu e David? Ma certo! È logico!».
Giusto. Se do la colpa a David, riuscirò a sopravvivere ancora un po’.
Ma fino a quando? Presto o tardi saprà la verità, e sarà una vera
catastrofe.
«Allora, è David?» chiese ancora Lane.
«Sì».
«Quando?».
«La scorsa estate».
Lane si portò alla bocca un pezzo di carne e, masticando lentamente,
cominciò a parlare a ruota libera, come in un monologo. «Quel David. Non
ne ha fatto parola con me. Pessimo. Provaci a tornare da Hong Kong, ti farò
confessare tutto. Tuttavia, dal momento che ti ha insegnato a preparare un
piatto così delizioso, non potrò farlo fuori. Ma almeno gli lascerò un bel
livido nero sugli occhi».
«Non scherzare, Lane. È già finita da un pezzo».
Lui, con un sorrisetto sfacciato, alzò il bicchiere di vino, mimando un
brindisi. «E per quale motivo avete rotto, tu e David?».
«Non ti so dire il perché. Forse pensavamo che fosse meglio così per
entrambi».
«Quando?».
«Sempre lo scorso anno, alla fine dell’estate».
«Non vai più a letto con lui?».
«No».
«Quindi…» mentre parlava, l’espressione sul suo volto, guardandomi, si
incupì terribilmente. «Con chi stavi prima di lui? Qualcun altro che
conosco? E dopo esserti lasciata con David, con chi sei andata a letto? E
ora? C’è qualcun altro oltre a me?».
«Sei orribile, Lane, orribile».
«…».
«Io non mi sono nemmeno sognata di chiederti con chi fossi stato dopo il
tuo divorzio, se avessi avuto altre donne».
«Se proprio ci tieni a saperlo, ti racconterò di tutte».
«No, non mi interessa». Ci sono così tante cose al mondo che non sai,
Lane, ed è meglio così. «E comunque, non c’è niente di peggio dell’essere
gelosi di un qualcosa che appartiene al passato».
Tacemmo, come per riprendere fiato.
«Scusami – disse poi. – Se è finita, va bene. Hai ragione, ti chiedo scusa,
Yōko».
Quando la nostra penosa cena finì, erano già passate le dieci. Appena dissi
a Lane che quella sera non potevo fare tardi, i suoi occhi si infiammarono.
«Ma è venerdì sera».
«Sì, ma stasera non posso. Avevo promesso a mia madre che sarei passata
a trovarla».
«Tua madre! Sei una bugiarda. Non ci credo nemmeno un po’!».
«Be’, non posso farci nulla».
«Tua madre, è una bugia! Come il lavoro tutte le sere, e il weekend al
mare a casa di amici. Tutte menzogne. Tutto ciò che esce dalla tua bocca,
Yōko, non è altro che una sfilza di bugie. Cosa diavolo fai le sere in cui non
ci vediamo, eh, Yōko? E non dirmi che lavori!».
«Non lavoro. Me ne vado al mare con altri uomini a divertirmi. Sei
contento, così?!».
Oh, Lane, perdonami. Quanto sarebbe più semplice dirti tutta la verità.
Ho un marito e una figlia, non sono così giovane come pensi. E ti amo.
«Lane, darling. Ci siamo appena conosciuti. E da un agnello arrosto ti sei
messo a fare deduzioni sul mio passato, neanche fossi Sherlock Holmes. E
oltretutto, vorresti farmi confessare cose della mia situazione attuale, o
addirittura cose del futuro ancora non accadute. No, mio caro. Io sono
un’adulta. Perché semplicemente non ci divertiamo a letto insieme?».
«Come con David Hall?».
«Sì, come con David. Ed esattamente come hai fatto tu con le altre donne
con cui sei andato a letto».
Senza volere, scoppiai a piangere. Lane, imbarazzato, mi si avvicinò e mi
strinse, cullandomi dolcemente. Poi, come se stesse consolando un bambino
piccolo, mi sussurrò: «Va bene, Yōko. Facciamo come vuoi tu, non c’è
problema».
Poi facemmo l’amore, malinconicamente. Mi alzai, pensando che volevo
morire, e mi rivestii. Lane, rimasto sdraiato a letto, fissava il soffitto, lo
sguardo perso nel vuoto.
«Non andartene, Yōko».
«Scusami» risposi, infilandomi le scarpe.
«Grazie per la cena. Era deliziosa».
«…».
«Yōko, puoi perdonarmi?».
«Certo».
«Ti chiamo allora».
«Ok».
Feci per andarmene, quando fui trattenuta dalle parole di Lane: «Yōko, ti
amo». Non riuscii a voltarmi. Pensai che il volto di una donna di
trentacinque anni che piange non fosse un bello spettacolo. Chinai la testa, e
una lacrima cadde per terra.
«Anch’io» mormorai, ma la voce non mi uscì. Ci provai ancora.
«Anch’io, Lane» tentai di dire, ma la voce non venne fuori. Poi lasciai il
suo appartamento.

In tutto, io e Lane avemmo otto occasioni di vederci.


Per la prima volta, mi resi conto che la nostra relazione non sarebbe
arrivata all’autunno. Improvvisamente, mi fu chiaro che sarebbe finita nel
mezzo dell’estate. Con il ritorno di David da Hong Kong, tutto sarebbe
stato svelato. Avrebbe risposto alle domande di Lane. Sicuramente non
sarebbe stato mio complice. Era chiaro. Avrebbe riso delle mie bugie,
ridicolizzando e ferendo Lane.
La nostra ultima notte insieme, per l’esattezza il nostro settimo incontro,
fu alla fine di luglio, la notte prima del ritorno di David.
Era ormai deciso che con l’inizio di agosto sarei andata, come ogni anno,
a Karuizawa con mia figlia. Avevo rimandato la partenza più che potevo,
ma ormai non c’era più margine per altri cambiamenti. Lo dissi a Lane
senza dare troppe spiegazioni, e lui non mi fece altre domande.
«Quanto torni?» mi chiese.
«All’inizio di settembre».
«Tra un mese, quindi?» si limitò a dire.
Quella notte ci concedemmo l’uno all’altra con dolorosa ferocia, come
due leopardi feriti. Per dissimulare la paura, il dolore e la diffidenza
reciproci, non avevamo altra scelta che umiliare l’altro senza pietà,
violentandoci fino a divorarci completamente. E non importava quanto
vuoto avrebbe provocato, poi.
Lane non provò nemmeno a sostenere il peso del suo corpo con le mani, e
ne accolsi l’orgasmo come una sorta di punizione, sotto il peso del suo
corpo pesante come pietra.
Non ci fu un languido riposo dopo il sesso. Il suo cuore ferito non poteva
trovare conforto nel piacere della carne, e negli occhi di Lane montò una
furia violenta. Nei miei occhi l’avevo scorta anch’io, forse lui lesse paura.
Quella sottile paura alimentò il furore di Lane. Mi piombò addosso come un
animale selvaggio, in preda all’eccitazione, e mi morse il seno con i suoi
denti duri. Sgorgò sangue su quella rotondità bianca, che nel timore si
irrigidì.
Alla vista del sangue, Lane sembrò esserne fiero, come fosse il simbolo di
una brillante vittoria, e con un ghigno deforme continuò, mordendo con
violenza il mio basso ventre, l’inguine, le cosce.
I sospetti di Lane avevano inquinato il nostro rapporto, facendomi quasi
sentire una schiava che offre il proprio corpo. Non ero più disposta ad aprire
me stessa avvolta nella dolce gioia di prima. Il mio corpo, brutalmente
aperto da Lane, senza sforzo, non era altro che il mio sacrificio a lui. Lo
odiai violentemente per questo, ma poi l’attimo dopo la mia anima urlava
che lo amava, cento e più volte.
Quella notte le mie lacrime bagnarono così tante volte i capelli neri di
Lane, mentre il mio corpo, la mia anima, tutto di me si riduceva a brandelli.

Quando tornai a casa, quella notte, si era ormai fatto tardi e mio marito, già
rincasato, era a letto a leggere un libro.
«Non è un po’ tardi? Hai bevuto?».
«Un po’. Sono molto stanca».
«Hai una brutta cera. Non avrai esagerato col bere?».
«No, Paul, sono solo stanca».
Mentre mi svestivo nell’ombra, mio marito dal letto mi fece una
domanda: «Conosci un uomo che si chiama Lane Gordon? C’è Jacques che
mi ha detto di averti vista insieme a lui».
«Al Chalcot? Lì ci sono sempre tante persone…».
«Hanno detto di avervi visto camminare insieme anche ad Akasaka».
«Sempre Jacques Melans? Lo sai che si diverte a mettere in giro certe
voci, Paul, no?».
«No, non è stato Jacques».
«Uhm, non ricordo. Mi avranno scambiata per qualcun’altra. Caro, sono
davvero stanca, vorrei dormire».
In realtà ero ferita, esausta, a pezzi. Non riuscivo più a dire nemmeno una
parola.
Mi stesi accanto a mio marito, che mi scivolò vicino cercando di
toccarmi, allungando la sua mano pesante. Mi sorprese a tal punto che mi
irrigidii, rifiutandomi di farlo. Poi lo sentii parlare, sembrava esanime.
«Yōko, se non ti sento dalla mia parte, non so davvero come fare. Ti ho
sempre lasciato del tempo libero per il lavoro, ma che tu sottragga il nostro
tempo insieme per altri motivi non lo posso proprio tollerare».
Oh, tu! E la nostra indifferenza reciproca, invece? Quella è la nostra colpa
comune che non possiamo più espiare. Ma lo sai che di notte vado in giro,
vagando per Roppongi come una gatta randagia in calore? Non ti sei
nemmeno accorto che ho fatto cose che non avrei mai fatto con te, e mi
sono messa in bocca parole che mai avrei detto a te, trattenendo il fiato. Sei
stato indifferente, come acqua. Almeno, così mi sembrava. Nemmeno hai
notato l’odore di un altro, o le cicatrici dell’eros, rimaste sul mio corpo.
Guarda, Paul! Guarda il mio corpo sotto la camicia da notte. Guarda il
corpo di tua moglie, sanguinante e ricoperto di ferite, Paul!
Ero sfibrata come cotone, non riuscivo né a parlare, né a muovermi. Mio
marito proseguì.
«Yōko, sarai dalla mia parte d’ora in poi?».
Sono sempre stata dalla tua parte. D’ora in poi sarà lo stesso.
Mi sforzai più e più volte di assentire. Ma mi resi conto che la mia testa
non rispondeva alla mia volontà, come in un incubo quando, nonostante gli
sforzi disperati, non si riesce a liberare mani e piedi, sopraffatti dalla paura.
In silenzio, piansi sul petto di mio marito e mi addormentai.
La mattina successiva mi telefonò Lane. Nel sentire la sua voce, il mio
cuore tremò.
«Anche stavolta te ne sei andata di nascosto, Yōko». Il suo tono era
rassegnato, più che arrabbiato. «Allora, quando ci potremo rivedere?».
«Stasera. Ci sarai al Chalcot House? Torna Dave da Hong Kong.
Sicuramente si farà vedere anche lui. Beviamo qualcosa tutti insieme?
Verrai, Lane?».
«Certo. E gliela farò vedere a quel tipo…». Ma dal suo tono di voce si
percepiva che ormai non ne aveva più voglia.
«Allora a stasera. Grazie per la telefonata, Lane». Entrambi riattaccammo.

Quella sera tornava David. Mi sentivo triste e confusa, e rimasi a lavorare a


una traduzione di tre pagine fino a sera. Per uscire, indossai una gonna color
vinaccia e una camicetta di seta nera senza maniche. La seta nera mi riportò
alla mente i capelli di Lane, e mi sentii pervasa dalla malinconia.
Il Chalcot House non era minimamente cambiato nell’ultimo mese. Si
erano radunati una decina di amici per accogliere David, risuonavano
chiassose risate. Camminavo come una sonnambula, febbricitante, e quando
mi resi conto che mi stavo dirigendo verso il gruppo, non potei più farci
nulla. Urtai una persona, barcollando, e alzando gli occhi al cielo mormorai:
«Scusi, mi dispiace».
In quel gruppetto festoso c’era anche mio marito. Lo guardai, leggermente
sorpresa, poi subito mi sembrò estremamente naturale che fosse lì, al
Chalcot, dopo il lavoro.
Paul, fissandomi, si avvicinò e mi posò un braccio intorno alle spalle.
«Potevi dirmi che saresti venuta».
David si accorse di me, e mi salutò nella sua maniera enfatica: «Ehi,
darling! Come stai? Sarai stata triste senza di me, eh?».
Dave, Dave, Dave. Stasera non ho nessuna voglia di parlare con te,
mormorai tra me e me, mentre mi salutava con un bacio sulla guancia
sinistra.
Capii all’istante che Lane non c’era. Lo avrei subito sentito, se fosse stato
nascosto dietro le altre persone, o appoggiato all’angolo del bancone. Mi
sentivo a disagio e di colpo impallidii, sentendo scorrere sudore freddo. Nel
marasma intorno a me, non riuscivo a distinguere una sola parola. Niente
sembrava riflettersi nei miei occhi, mentre il tempo pareva dilatarsi
all’infinito. I miei nervi erano tutti tesi verso l’ingresso, soltanto l’ingresso.

E poi Lane entrò.


Apparve casualmente, esattamente come un mese prima, si fermò in piedi
all’ingresso, osservando il locale buio. Stavolta il suo sguardo non cercava
David, ma me. Poi mi venne incontro. Il varco tra noi due miracolosamente
si aprì, gli occhi di Lane, che sembrava dimagrito, emanavano un bagliore
inquietante, mentre si fissavano direttamente su di me. «Ciao, Yōko»
sussurrò.
«Lane!» all’improvviso proruppe la voce di David. «Stavo quasi per
dimenticarmi di te! Ora la festa per celebrare il mio ritorno può dirsi
davvero al completo!».
«Ti vedo in forma!».
Si strinsero la mano, facendo un paio di battute su Hong Kong. David
scoppiò a ridere come a contorcersi, anche Lane sorrise, poi si voltarono
entrambi verso di me.
«Sei sempre lo stesso, David».
«Lane, ti presento…». Presi il braccio di mio marito, che stava parlando
con un alto avvocato americano lì vicino, e dissi: «Caro, questo è Lane.
Lane Gordon. Lane, lui è Paul McBright, mio marito».
In un istante, sentii il corpo di Lane accanto a me irrigidirsi. Paul allungò
la mano e si rivolse a Lane.
«Ho sentito da Jacques Melans che è un giornalista della rivista “NW”.
Conosce Jacques?» chiese Paul.
«Sono un freelance. Sì, lo conosco» rispose Lane.
Distolsi lo sguardo da loro due, trattenendo il fiato. Poi mi accorsi di
David, il suo volto sorprendentemente vicino, e scrutandolo negli occhi, mi
sentii come risucchiata.
«Non hai ancora bevuto niente? Andiamo a prendere del whisky» così
dicendo, mi afferrò il braccio e mi allontanò da loro.
«Piangi. Che succede?» bisbigliò.
«Grazie, Dave, grazie di avermi portata via».
«Non c’è problema. Presto, asciuga le tue lacrime. Una donna può
permettersi di piangere in pubblico mantenendo un aspetto decente fino
all’età di cinque anni. Non te l’hanno mai detto?».
Annuii più volte, soffiandomi il naso.
«Brava bambina, così. Che diamine è successo?».
«Ora non mi va di parlarne».
David, voltandosi lentamente, guardò Paul. Poi il suo sguardo si spostò su
Lane. Allora tornò di nuovo su di me, e disse: «Traditrice».
David prese il whisky e me lo diede. Nella mano tremante, sentii il
rumore del ghiaccio che tintinnava. «Allora?».
«Ho mentito a Lane. Gli ho detto di non essere sposata. E così credeva,
fino a stasera».
«E quindi stasera hai pensato di fargli avere un incontro shock con tuo
marito? Ma è terribile!». Poi fissò la mia espressione seria. «Ok, com’è
andata davvero? È stato un incontro casuale? O l’avevi premeditato? A
guardare Paul sembra che non ne sapesse nulla… come al solito!».
In quel momento fissai David; ero stata stupida e sventata. Non potevo
crederci. La nebbia che aveva avvolto la mia testa fino a quel momento di
colpo si diradò, e realizzai. Una sensazione di gelido terrore esplose nel mio
petto.
Ero tesa fin dall’ora di pranzo, e la mia mente si era infine persa nella
foschia del cielo della notte. Quando mi aveva telefonato Lane e l’avevo
invitato al Chalcot House, non avevo minimamente considerato mio marito.
Avevo in mente soltanto il ritorno di David. L’unica cosa a cui pensavo
erano le verità che avrebbe potuto rivelare. E non appena messo piede al
Chalcot House, qualcosa in me era andato completamente fuori controllo.
Mi sentivo svuotata, sognante, come se fossi il personaggio di un film al
rallentatore. Il fatto che mio marito fosse lì, e che fosse venuto anche Lane,
non sembravano due eventi realmente collegati. Mi accorsi di essere stata
del tutto incosciente persino nel momento in cui avevo presentato Lane a
mio marito. In realtà, me ne resi davvero conto soltanto quando lo sentii
dalla bocca di David.
Non avevo la minima intenzione di colpirlo alle spalle, come aveva
lasciato intendere David. Che avevo fatto! Dovevo subito chiarire con lui.
Non volevo in alcun modo utilizzare un tale terribile espediente, Lane. Non
avevo un copione, stasera. Piuttosto, mi stavo dibattendo, temendo solo e
soltanto di ricevere disprezzo e scherno da parte tua e di Dave. Il fatto che
mio marito fosse qui… ecco, non l’avevo previsto, Lane. Dammi la
possibilità di spiegarmi…
Distolsi in fretta lo sguardo da David, volgendomi verso Lane con
l’intenzione di precipitarmi da lui.
In quel momento David mi trattenne con forza il braccio. Cosa avesse in
mente, non lo sapevo. Tuttavia, stringendomi con forza, mi impedì di
muovermi. Poi vidi Lane, di spalle, che si affrettava verso l’uscita. Era la
prima volta che lo vedevo andarsene. I suoi capelli neri, scompigliati e
avvolti intorno al collo come un serpente vivo, mi rimasero impressi a
fuoco. Eppure, non era la prima volta che vedevo un uomo andare via.
Anche Shunsuke e David mi avevano voltato le spalle, lasciandomi. Ma
Lane? Quei begli occhi azzurri non si erano mai più voltati a guardarmi.
David allentò la presa dal mio braccio. «Va tutto bene. Vedrai che ti
chiamerà di nuovo domattina».
«No, Dave, non chiamerà. È finita».
«Se è così, non tormentarti troppo, allora. Non è da te, Yōko. Con me ti
sei limitata a sorridere brillantemente, nel lasciarmi. Se te lo chiedo, Yōko,
non è per gelosia: ma ti piaceva così tanto lui?».
«Lo amavo» risposi a bassa voce, ma chiaramente. Era la prima volta che
lo dicevo. Mi stupì il fatto che, inconsciamente, lo dissi parlandone al
passato. Avevo già iniziato ad abituarmi all’idea che la nostra relazione
fosse completamente finita.
David mi riaccompagnò al tavolo di mio marito, davanti a lui c’era
un’altra birra. Alzammo i bicchieri. Nel mio, scintillante, vidi tremare un
mare del colore delle mie lacrime. Oltre a questo, i volti molto piccoli di
mio marito e di David.
«Brindiamo!».
Alla mia relazione finita. Agli occhi blu e ai capelli neri di Lane, che
amavo. Alla sua bocca calda e alle sue bellissime mani. A Joyce, e al
Concerto brandeburghese, così amati da Lane. Alla nostra patetica cena.
Alla felicità di Lane. A David Hall. E a mio marito, Paul. E infine, a me.
Più tardi uscirò scendendo le scale, vagando nella notte della città. Mi
dirigerò verso casa insieme a mio marito e, per non urlare di dolore, mi
metterò a correre, spingendo la mia mano in quella di Paul, nel tentativo di
adeguarmi al suo passo. Così, la brezza notturna, le luci e i suoni di
Roppongi si riverseranno su entrambi i lati del mio volto, confortandomi a
poco a poco, lentamente.
Alzai ancora una volta il mio whisky.
Cheers.

1
Rivista satirica britannica [questa e le successive note a piè di pagina sono a cura delle traduttrici].
Fiabe di letto
Carta di credito

La prima cosa che fece Utako fu accendersi una Camel, aveva a malapena
aperto gli occhi. Benché nessuno dei suoi comportamenti meritasse una
lode, Utako sapeva che l’abitudine di accendersi una sigaretta di prima
mattina, ancora attorcigliata alle lenzuola, era di gran lunga la peggiore.
Non era poi esattamente prima mattina, di rado si alzava prima di
mezzogiorno. Inconcepibile per una donna sposata. Fumare a letto,
dopotutto, era solo uno dei suoi piccoli vizi. Il marito era a New York da sei
mesi, e la suocera, che abitava sotto lo stesso tetto nelle proprie stanze,
difficilmente si avventurava fin lì a disturbarla. Praticamente nessuno nei
paraggi controllava se fumasse a letto di prima mattina, tantomeno che si
alzasse, se si alzava, a mezzodì.
Il sapore acre della sigaretta che si spandeva in bocca disgustò Utako. La
spense con l’indice, tirò a sé il telefono sul letto e cominciò a comporre il
numero senza accostare l’orecchio alla cornetta.
Una voce rispose.
«Sono io – bisbigliò lei. – Ce la fai a essere qui per le 13?».
L’uomo rispose a bassa voce: «Ok».
Un tempo, Utako avrebbe premesso: «Non ho fatto che pensare a te», o
«Sono così felice di sentire la tua voce…» e altre carinerie. Lui,
normalmente, col respiro corto, replicava in sintonia: «La tua voce mi
eccita», o «A tra poco, aspetta solo un po’ e ti farò impazzire» e cose del
genere.
«Ok. A dopo» rispose invece Utako senza traccia di emozione, e
riagganciò. Quando l’approccio tra un uomo e una donna ha raggiunto lo
scopo, i convenevoli frizzanti, inevitabilmente, vanno a farsi friggere. Ci
era passata così tante volte, pensava, che ormai tutto questo la irritava.
Poco dopo Utako chiamò la nipote di suo marito, Asako, per costruirsi un
alibi.
«Facciamo un tennis, oggi? O un pranzo insieme?». Asako andò subito al
sodo, in tono cospiratorio.
«Visto che a pranzo siamo andate ieri, oggi facciamo un tennis» rispose
Utako.
«Ci date sotto, voi due! Due giorni di fila…» la incalzò Asako.
«Più brucia, più si brucia in fretta» replicò Utako come parlando a sé
stessa.
«Senti, Utako, se ti stanchi di lui, passamelo! Il tipo non è affatto male».
«Piantala. A te non piacciono le cose di seconda mano» disse Utako
pacata. In realtà avrebbe voluto dirle che quello non era un uomo con cui lei
doveva avere a che fare; si limitò a dire che l’avrebbe richiamata e
riattaccò.
Si fece una doccia, e si stava infilando un abito della Maison Alaїa,
quando sentì bussare alla porta. La domestica veniva tre volte alla settimana
e non era uno dei suoi giorni, quindi non poteva essere che la suocera.
Utako la fece aspettare un bel po’ prima di aprire la porta.
«Che sorpresa, Mamma! Viene così di rado!». La accolse con un grande,
affettuoso sorriso.
«È proprio necessario chiuderti a chiave in camera da letto?» esordì
ironica la signora Takakura, sgusciando decisa con il suo corpo esile oltre la
soglia aperta appena.
«Ero sotto la doccia» disse Utako continuando a tamponarsi i capelli
bagnati.
Un’occhiata repentina colse il letto in disordine, poi lo sguardo ispezionò
tutta la stanza.
Utako si accigliò, pensando che non avrebbe potuto ricevere dalla suocera
un’accoglienza più fredda, manco se si fosse presentata alla porta nuda
come un verme.
«Esci di nuovo, oggi?» chiese la suocera osservando l’abito Alaїa di
Utako.
«Sì. Tennis. Vado a giocare un doppio con Asako e le sue amiche».
«Se vai a giocare a tennis, quell’abito è un po’ eccessivo…» disse l’altra
soffermando lo sguardo sulla vita attillata e la scollatura profonda.
«Che cosa c’è, Mamma, non starà dubitando di me!?».
Utako spalancò eccessivamente i suoi grandi occhi. La signora Takakura
non rispose, ma palesemente insofferente accarezzò l’enorme anello di
giada che portava al medio della mano sinistra. Quel grande anello faceva
sembrare le sue mani ancora più sottili.
«Può anche non credere a me che sono sua nuora, Mamma – proseguì
Utako, – ma non vorrà dubitare di sua nipote Asako, spero» fu il suo
affondo su una nota dolente. All’inizio era stata proprio la suocera a
metterle alle calcagna la nipote, allo scopo di tenere d’occhio la neo sposa.
Poiché c’era una discreta differenza d’età tra il marito di Utako, Ichirō, e la
sorella maggiore, tra nuora e nipote correvano solo un paio d’anni; per
questo, data la vicinanza d’età, a un certo punto Asako si era confidata con
Utako per un problema di cuore e in varie occasioni le aveva chiesto di
coprirla con un alibi. Quando Utako si era sentita sicura di potersi fidare di
lei, aveva iniziato a chiederle lo stesso tipo di favore. Naturalmente la
suocera era all’oscuro di tutto e non sospettava che fossero in combutta.
«Sai, mi fido di mia nipote» bisbigliò in difficoltà la signora Takakura,
poi soggiunse andando al punto: «Il fatto è che… non mi è facile dirlo, ma
il tuo modo di usare il denaro, Utako, all’improvviso mi è apparso
scriteriato. Spendi molto di più rispetto a quando Ichirō era qui. Sì, certo,
c’è ancora il lascito di suo padre e i dividendi delle azioni ereditate che gli
vengono corrisposti eccetera, ma tu sai qual è il salario mensile di Ichirō,
nevvero? Guadagna quel che prende un impiegato qualsiasi. Non è
tollerabile che una giovane moglie usi ogni mese la carta di credito fino al
limite consentito, lo capisci, no?».
Se Ichirō fosse stato un impiegato qualsiasi con uno stipendio fisso, non
lo avrei mai sposato, pensava Utako, trattenendosi a stento dal dirlo. Non
fosse stato per la consistente eredità del padre, non avrebbe mai pensato di
sposarlo.
Innanzitutto non le garbava stare con uno più basso di lei, ma si era presa
tutto il pacchetto, inclusa la suocera, pensando alla grande casa in un
quartiere residenziale come Meguro, e anche alla parte di proprietà della
suocera che un giorno sarebbe stata loro. Solo per questo aveva assecondato
i desideri della signora Takakura, restando a Tokyo e accettando che il
marito andasse da solo a New York.
«Quella carta di credito mio marito l’ha fatta appositamente per me prima
di partire».
«Lo so. Ichirō ha fatto una cosa saggia stabilendo un limite d’uso mensile.
Quel che mi preoccupa è che tu possa dimenticare che il concessionario
della carta addebita automaticamente ogni mese l’importo sul conto che il
mio defunto mio marito ha lasciato a Ichirō».
«Mi è chiaro» replicò Utako imperturbabile. «La distinta della carta di
credito arriva a lei tutti i mesi, è ovvio che le basta un’occhiata per sapere
dove, quando e quanto ho speso, no?».
«Mi è impossibile controllare nel dettaglio una lista tanto lunga».
«Allora potrebbe darmi del contante, Mamma. La distinta delle spese si
accorcerebbe di un terzo».
«Darti il contante è fuori discussione. Così ha deciso Ichirō, e io
approvo».
«Le avrebbe detto “non dare contanti a Utako”?» chiese lei furibonda.
«Il contante in buona parte non sarebbe tracciabile».
«Indubbiamente. Invece con la carta risulta tutto. Deve essere una gran
fatica per lei controllare una a una tutte le voci fino a farsi venire il sangue
agli occhi».
«Non faccio il lavoro da spia di cui parli» disse col mento retratto,
facendosi seria.
«Suppongo che per lei, Mamma, sia faticoso. Ma anche per me non è
facile. Per comprare un pacchetto di fazzolettini di carta da cinquanta yen
devo girarmi uno a uno i grandi supermercati. Lei ha un’idea di quanto sia
scomodo vivere senza un centesimo in tasca? Per esempio, tutti i mesi,
quando arriva il ciclo. Se non me ne accorgo prima di uscire, non posso
neanche precipitarmi nella prima farmacia che trovo. O se pure invito delle
amiche a prendere un tè, è una fatica cercare un locale che accetti la carta di
credito. Inoltre mi vergogno a usare la carta per importi minimi, ogni volta
mille yen o poco più. Finisce che sono loro a pagare per me o che devo
chiedere io un prestito».
«Usi quella carta a tuo piacimento, eppure te ne stai lamentando?».
«Non me ne sto lamentando, le sto solo dicendo che è scomodo. E credo
lo sia anche per lei dover scorrere uno a uno gli importi, come e dove li ho
spesi, in una lunga lista».
«Oltre al fatto che la distinta viene recapitata qui a me, dopo devo inviarla
a Ichirō, come stabilito. È ovvio che debba prima dare uno sguardo». Alla
fine la verità era venuta fuori.
«Eccoci, come pensavo!» disse Utako battendo le mani, fiera del suo
piccolo successo. «Era incerta se dirmelo, Mamma, vero? Ma guardi, se
fossi stata al suo posto, un’occhiata furtiva a come la nuora usa il denaro
l’avrei data anch’io».
«Furtiva, non mi piace il tuo modo di esprimerti» replicò lei con una
smorfia. «Non mi metto mica sulle tue tracce a controllare ogni singolo
movimento».
«Se le fa piacere, si accomodi».
«Mi chiedo se sarebbe giusto» e nel dirlo ebbe un bagliore negli occhi che
a Utako ricordò quello del marito.
«Al suo posto, c’è già Asako che controlla da vicino le mie mosse. Sono
certa che avrà da lei un dettagliato resoconto».
«Eh, sì, e quando lo fa sembra quasi vi siate messe d’accordo, tanto i
contenuti coincidono».
«Ma come, Mamma, non si fida di sua nipote Asako?».
«Mi fido di lei più o meno quanto mi fido di te» aggiunse con naturalezza.
«In realtà mi fido solo di quanto posso constatare con i miei occhi». Guardò
diretta la nuora e il suo volto sottile incipriato di bianco, forse a causa del
naso un po’ alto e affilato, fece venire in mente a Utako una volpe. Era il
volto di una perfetta aristocratica.
Utako, con il cuore che le batteva forte, sostenne decisa lo sguardo,
indirizzandosi a quel volto pallido.
«Devi sapere, Utako, che più che per te, per Ichirō e per me è un
problema quello che la neo sposa di casa Takakura pensa, complotta, fa, le
sue strane frequentazioni, ed è tutto sorprendentemente evidente; salta agli
occhi, basta controllare uno a uno gli importi della distinta della carta di
credito».
«Quindi? Che cosa mi starebbe passando per la testa?».
«Forse una relazione» disse gelida la signora Takakura. «E intravedo un
uomo».
«Lei è proprio una chiaroveggente!» replicò Utako con una risata isterica.
«Allora supponiamo, giusto per ipotesi, che la sua fantasia abbia un
fondamento: che tipo di persona si è immaginata?».
«Senti, Utako» disse con enfatica ironia la signora Takakura, «ribadire
che il mio sia un problema ipotetico rende assurda la situazione e ti fa
apparire un’attrice scadente».
Utako non riusciva più a padroneggiare le gravi menzogne. La suocera si
sforzò di abbozzare un sorriso tremulo mentre il volto impallidiva
leggermente.
«Mamma, sta immaginando quindi che io mi veda con un uomo di
nascosto da mio marito?».
«Non lo immagino, è così, inutile negarlo. Un giovane gigolo».
Le parole le uscirono di bocca come se sputasse fuori qualcosa di sporco.
«Vuole dire che mi ha fatta sorvegliare?» disse Utako cambiando tono.
«Intendi da un detective? Incredibile» rise la suocera arricciando il naso.
«È stato sufficiente vedere dove hai fatto spese, si capisce che eri in
compagnia di un uomo, probabilmente giovane, e anche di che tipo d’uomo,
cara Utako. Con mio marito ho accumulato una discreta esperienza a
riguardo. Bastava sbirciare la distinta della carta di credito per capire una a
una con quali donne se la facesse; era un campione, pagava con la carta tutti
gli hotel dove passava la notte in compagnia, smascherarlo è stato molto più
facile che con te. Almeno tu sei stata di sicuro più accorta» continuò la
suocera inchiodando con lo sguardo la nuora che sbiadiva in volto. «E,
comunque, come hai pagato gli alberghi?».
«Ammesso e non concesso che sia come lei dice» attaccò Utako fingendo
di cadere dalle nuvole, «in quei casi è l’uomo a pagare, no?».
«Parli come se non ti riguardasse» fu il commento della suocera con un
sorrisetto gelido.
«Infatti, non mi riguarda. La sua, Mamma, è una mera supposizione,
frutto di fantasia nel ricontrollare le singole voci della carta di credito, visto
che ha tanto tempo libero da impiegare».
«Utako-san, per favore non fraintendere» disse la suocera ammorbidendo
d’improvviso il tono. «Il fatto che qualche volta tu ti veda con un uomo, al
momento, non è un problema». Utako sbatté le palpebre perplessa. La
suocera continuò: «Queste cose accadono di frequente. Sono stata testimone
con i miei occhi di tanti esempi simili. Sai, mio marito aveva due, tre
donne. C’è stato un momento nel mio passato in cui non potrei dire neanche
di me stessa di essere stata una persona onesta e del tutto disinteressata» si
lasciò andare leggera nel dichiarare una cosa impensabile. «Il problema
vero è far sì che la reputazione della famiglia Takakura non ne sia in alcun
modo intaccata. La società, la cerchia di persone di cui facciamo parte, tiene
gli occhi bene aperti su di noi. Più di ogni altra cosa bisogna evitare lo
scandalo di un divorzio. Per preservare il matrimonio, sia per il marito che
per la moglie, è meglio non privarsi di una persona dell’altro sesso, per
quanto assurdo sia. Ichirō a New York si starà facendo gli affari suoi, credo
te ne sia accorta anche tu, perfino quando era qui flirtava con una o due
donne».
«Con ciò, Mamma – si inserì Utako, – che intende dire?».
«Va bene, sarò chiara» riprese la suocera sistemandosi al centro della
sedia. «Vorrei che smettessi di rivendere ad amiche e conoscenti quello che
compri con la carta di credito per racimolare abbastanza da pagare l’hotel».
Utako, a testa china, si mordeva il labbro inferiore.
«Sbaglio in quel che dico? Tu compri borse di Vuitton e Céline per
rivenderle a qualcuno alla metà o a un terzo, in modo da mettere insieme il
contante per pagare l’albergo». La suocera emise un profondo sospiro. «È
penoso a dirsi. Ti sei lasciata abbindolare da quel tipo di gigolo? Potevi
almeno sceglierne uno che fosse in grado di pagare un hotel e altro per una
donna, di tasca sua».
«Io… sì, pensavo di troncare» mormorò Utako con un filo di voce, pronta
alla resa.
«Nella decisione di Ichirō di limitare la tua libertà a usare contanti e carta
di credito era insito un freno. Ma siamo andati ben oltre con questo tuo
imprevedibile commercio che mette a rischio l’onore dei Takakura. Voglio
che tu smetta. E se proprio devi pagare un hotel, fallo con la carta di
credito. Scusami, ma almeno così lo saprò solo io e non il mondo intero».
La suocera chiuse il discorso e si alzò dalla sedia. «Ti ho detto quanto
dovevo. Comunque stavi uscendo, vero?».
Utako rimase seduta e disse: «Mamma, se penso che lei possa contare le
volte che vado in hotel, non so, mi passa davvero la voglia…».
«Anche questo era il mio scopo» chiosò l’anziana, saggia, signora
aristocratica, sorridendo teneramente.
Il mattino seguente Utako fu destata dal telefono.
«Allora ieri che è successo? Prima mi chiami per incontrarci e poi mi
pianti in asso come un babbeo?».
«Sono andata a giocare a tennis».
«Che vuoi dire?».
«Voglio dire che ci ho ripensato e non mi andava più».
«Uhm… capito. Fa niente. Comunque ho venduto tutto e ti chiederei di
fare nuove scorte».
«Ah, è questo, allora…» rispose Utako mentre rifletteva. «Senti, ho
pensato di smetterla con questa storia».
«… Cosa? Ci sei? Smetterla hai detto?» replicò lui sconvolto. «Perché? I
contanti ci servono!».
«No, non servono più».
«Perché?!».
«Perché ho la carta di credito».
«E per pagare l’hotel come facciamo?».
«Ho la carta, anche per quello».
«Ma così ti scopriranno!».
«Mi hanno già scoperta».
«E io, però, sono nei guai!» confessò lui, all’altro capo del telefono. «Io
non ho soldi! Per te è facile, hai la carta, io non ho niente del genere!».
«Ti ho comprato più o meno tutto quel che volevi» lo fermò Utako fredda
e tranquilla, con tono molto paziente.
«Ma non posso andarci a piedi all’hotel per incontrarti, ho bisogno dei
soldi per il taxi e per qualche altra cosa».
«Se veramente volessi incontrami, dovresti fartela pure a piedi».
«Dici all’improvviso cose strane: intendi che uno come me dovrebbe
spostarsi in autobus o in treno?».
«Se uno non ha denaro per il taxi, mi pare l’unica soluzione».
«Mi stai prendendo in giro?!» urlò adirato il giovane con voce stridula.
«Chi dovrebbe fare una cosa del genere?».
«Allora basta, non c’è soluzione».
«Aspetta» continuò lui nella confusione totale. «Vuoi forse mollarmi
così?».
«No» rispose Utako calma. «Volevo solo dirti che d’ora in avanti pagherò
solo ed esclusivamente con la carta di credito, per qualsiasi cosa».
«Vuoi dire quindi che i nostri traffici sono finiti?».
«Eh, sì».
«Lo sapevo, vuoi mollarmi».
«Sei tu che la stai prendendo così» proseguì Utako con una fitta al petto.
«Ho il mio orgoglio, io! Mi offende che una donna provveda a ogni mia
esigenza con la carta di credito! E comunque io ho lavorato, sono andato in
giro con le mie gambe a piazzare tutto e a mettere insieme il gruzzolo. Con
quello ho portato la mia donna negli hotel!».
«Bene. Mi sfuggiva questo punto di vista» fu il commento di Utako,
meravigliata. Sentì un gelo totale in quel momento, e sarebbe rimasto.
«Allora ci salutiamo qui» arrivò all’orecchio di Utako.
«Non vuoi proprio smetterla, tu» rispose lei con lo stesso tono distaccato.
Le rimbombava in petto una sorta di sollievo e un velo di tristezza.
Dopodiché guardò l’orologio, era ancora presto e pensò di rimettersi giù.
Ma, invece di dormire, sollevò il busto a metà sul letto e allungò la mano
verso il pacchetto di Camel lì accanto. Ne prese una, diversamente da
sempre non la strinse tra le labbra: con drastica decisione scese dal letto.
Andò a farsi una doccia, poi cominciò a comporre il numero di Asako:
questa volta non per costruire un alibi, ma davvero per una partita a tennis.
Bloody Mary

Il bar del piano interrato dell’hotel aveva appena aperto, per questo c’erano
pochi sparuti avventori. Come di consueto nei bar degli alberghi, le luci
erano basse e soffuse, l’ambiente pulito e tranquillo. Tre clienti in tutto. Al
bancone sedevano a distanza, ognuno per conto suo, un uomo e una donna.
Nel separé aveva trovato il suo posto un signore più attempato. Il barman,
un tipo sgarbato che si dava pure delle arie, continuava a lucidare il ripiano
in mogano con mano esperta. Prima si era dedicato ai bicchieri da brandy,
che ora scintillavano.
«Un altro, per favore».
La donna, che seguiva con lo sguardo i movimenti del barman, beveva
tranquilla da sola a un angolo del bancone e aveva ordinato il bis.
«Era un Bloody Mary?» chiese per pura formalità il barman, fermando la
mano sul panno, senza mutamento alcuno della sua piatta espressione. Alla
domanda intempestiva, la donna rispose gelida, alzando appena il
sopracciglio destro. Stava consumando davanti a lui quello che lui stesso
aveva preparato solo dieci minuti prima, era impensabile che non fosse
capace di distinguere i clienti e quello che ordinavano. La donna, però, non
disse nulla. Al suo assenso silenzioso, lui rispose senza parole, questa volta
indirizzandole uno sguardo di avvenuta ricezione.
«C’è una storia, non so se la conosci». La donna, d’improvviso, cominciò
a parlare tranquilla. «È un aneddoto che si narra a proposito dell’Hotel O.,
quello che ogni anno viene menzionato al secondo, terzo posto della
classifica tra i migliori al mondo. Ne hai mai sentito parlare?».
Il barman abbozzò a fior di labbra una smorfia adulatoria che voleva
somigliare a un sorriso.
All’angolo del bancone, disegnato come una L maiuscola, sedeva un
uomo, sì e no sulla trentina, che stringeva tra le mani un bicchiere alto con
del bourbon, spostando distrattamente lo sguardo dal barman alla donna.
«Si direbbe che non ne sai nulla, è così?» proseguì lei portandosi alle
labbra una Camel.
«Io sì, ne ho sentito parlare» si levò dall’angolo del bancone a L la voce
del cliente; la donna rispose con cenno di piacevole sorpresa, chinando
appena il collo.
«È la storia di quell’americano in Giappone per affari che dopo due anni,
più o meno, tornò al bar dell’Hotel O., giusto?».
La donna annuì con la testa.
«Bene, il barman lo accolse senza esitazione dicendo: “Non la si vedeva
da un po’, Mr. Golding”, o un nome del genere; e continuò dicendo: “La
trovo bene”. Andò più o meno così».
«Direi che ha un’ottima memoria, rammenta persino il nome, che
comunque non era uno di quelli facili da ricordare, tipo Smith o Seller» lo
seguì la donna nello stesso tono.
«Niente di sorprendente» proseguì il cliente buttando giù un sorso di
bourbon mentre guardava il barman. «Non è tutto, il barman aggiunse
anche: “Gradisce sempre un Martini con vodka?”, che fu la ciliegina sulla
torta perché si rivolse a lui con il suo vero nome, non qualcosa come Mr.
Smith, ma Mr. Golding! Tanto di cappello!» concluse l’uomo dal punto più
lontano del bancone, carpendo da oltre le spalle del barman lo sguardo della
giovane donna.
Quest’ultimo, demoralizzato, mescolò il succo di pomodoro con la vodka
e lo porse alla cliente di fronte a sé.
«Non è una frottola. Certo, non è che chiunque sia in grado di ricordare
uno per uno i clienti e le loro preferenze – aggiunse l’uomo. – Ma è
qualcosa a cui un professionista di prima categoria può arrivare».
«Signore, c’è molta severità nelle sue parole» tagliò corto il barman,
allontanandosi con un sorriso dimesso per andare a prendere l’ordine del
cliente nel separé.
L’uomo si mosse in direzione della donna alzando leggermente il
bicchiere verso di lei, che rispose con lo stesso gesto, appena accennato.
«Aspetta qualcuno?» chiese lui con disinvoltura, lo sguardo oltre il
bicchiere.
«No» rispose lei distaccata.
«Allora, se non disturbo, posso sedermi?». Senza attendere la risposta, si
era già seduto.
Lei pensò che quando quel tipo di approccio proveniva da un uomo che
sapeva farlo, non era né sgraziato né affettato, e a poco a poco si stava
diffondendo anche in Giappone.
«Possiamo farci compagnia solo fino alle sei e mezza» disse lei cortese,
prevenendo un assalto.
«È sufficiente, va benissimo – sorrise lui soddisfatto. – È un lasso di
tempo che offre molte possibilità. Per esempio, è abbastanza per un altro
paio di Bloody Mary, o, se si ha un tascabile, si riesce a leggere un racconto
o due. Ma si può anche fare jogging da qui alla stazione di Shinjuku e
ritorno; dipende dalle circostanze». Allusivo, prese un respiro. «Oppure si
può andare alla reception dell’hotel, prenotare una stanza e farsi una doccia,
anche fare sesso alla grande è possibile… dico per dire, ovviamente» lanciò
il suo gancio.
«Non mi interessa alcuna di queste possibilità – replicò lei secca. – Non
credo mi vadano due Bloody Mary e, quanto alla lettura, i racconti
finiscono subito senza lasciarmi emozionata, non mi piacerebbe. Poi,
jogging ha detto? Lo detesto. Correre è di una noia mortale. Si va per
ipotesi, ovviamente».
«E l’ultima che ho elencato?».
«Come idea, al momento, mi sembrerebbe la migliore» commentò lei
senza scomporsi. «A prescindere che la si metta in pratica o meno».
«Se fosse un quesito realistico, ti andrebbe?». Mentre le inoltrava l’invito,
sorrideva attraverso il bicchiere alto.
«Spiacente».
«Vuoi dire che non sono il tuo tipo?» continuò per nulla intimorito.
Lei gli lanciò un’occhiata di comoda indagine: esattamente come fa di
solito un uomo quando con lo sguardo valuta una donna. «Non è
esattamente questo» disse per lasciarlo in sospeso. «Comunque, ti spiace
cambiare discorso?».
L’uomo, poco convinto, disse: «Ok».
«Per parlare d’altro, tu vieni spesso qui per un drink?».
«Non penso mi andrà di venire qui una seconda volta» rispose lei
sottovoce mentre guardava il barman tornato dietro al bancone. «Posso
sopportare un barman dai modi discutibili, ma non una raffica di domande
inopportune».
«Sei davvero una difficile!».
«Pago per bere una cosa, voglio potermela bere in pace».
«Ti va ancora un drink? Offro io». Fece segno al barman.
«Se insisti» accettò lei, scuotendo la testa. «È che ho da fare, dopo».
«Cose importanti?».
«Forse».
«Un uomo?».
«Così vestita, che ci andrei a fare se dovessi incontrare delle amiche».
Sbirciò l’altro con uno sguardo ironico.
Lui intanto la squadrava ben bene, soffermandosi infine sul suo adorabile
completo Chanel.
«Posso dirti una cosa?» le chiese.
«Di’ pure».
«Ti fa sembrare ingessata, come per un incontro a scopo di matrimonio,
un o-miai1».
«Davvero? Tu credi?».
«E vorrei aggiungere» disse lui con un sorriso gentile «che proprio non si
addice a una come te».
«Scusami tanto!» replicò la donna, ma senza essere davvero infuriata. «E
quale sarebbe la mise adatta a me?».
«Staresti bene con un Junko Shimada, o un Alaïa da donna navigata,
qualcosa di vagamente casual e aggressivo, da far pensare che hai avuto una
quantità di uomini, tanti quante le stelle».
«Sei un esperto in materia?».
«Di vestiario?».
«Non solo, di quello e di donne».
«Più o meno quanto te in fatto di uomini».
«Insomma vuoi darmi un aiuto, superfluo, su uomini e abiti» replicò lei,
seccata.
«Per quanto cerchi di sembrare una comune brava ragazza, una del tipo
“non farei del male a una mosca”, ti è impossibile celare la tua vera natura».
«Sei sgradevole – lo apostrofò. – La mia vera natura? Che cosa intendi?».
«In questi casi, come si dice, “il silenzio è d’oro”». E immediatamente
con gli occhi fece cenno al barman di riempire i bicchieri. «Comunque, non
dirmi che stai andando a un o-miai tra poco!» disse in tono canzonatorio.
«Mi prendi in giro?» fu la replica enfatizzata da una risata. «Ti sembra
che una come me possa andare a un o-miai?». Poi ci pensò su. «Vedi, una
donna, fin quando le riesce, può atteggiarsi a brava ragazza allevata nella
bambagia, incapace di uccidere un insetto».
«Tu dici?» mugugnò lui, senza dare voce ai suoi dubbi.
«Certo. È che noi ci siamo incontrati in questo strano posto; fosse stato in
un altro luogo, dove poterti gestire al nostro primo incontro, saprei farti
tacere. So il fatto mio».
«Per esempio all’ultimo piano di questo hotel, allo Sky Restaurant, con un
tavolo apparecchiato di bianco e le candele accese: è in un luogo così che
intendi?».
«Diciamo di sì». Lei si strinse nelle spalle. «Lume di candela, il luccichio
delle stelle, oltre la finestra la città con il suo scintillio di luci, è molto
romantico. In una cornice del genere, per esempio, prenderesti rigido il tuo
posto a sedere… sarebbe comunque una messinscena. A quel punto arrivo
io, i capelli raccolti in uno chignon, i bottoni della blusa chiusi fino al
mento, un’orchidea Cattleya appuntata al colletto, mi vedi camminare a
occhi bassi… che ne diresti? Sulle guance e all’angolo degli occhi spunta
anche un rossore pudico… in queste condizioni ti metterei a tacere!».
«Parli con estrema autostima».
«Parlo per esperienza».
«Chissà a quanti uomini avrai fatto girare la testa finora».
«In ogni caso, fin qui, non ne ho trovato neanche uno che andasse bene
per me».
«È un peccato, per loro» lui fissò quel bel viso dai tratti impudenti.
«Comunque, poni condizioni alquanto rigide».
«Diciamo piuttosto che non mi lascio zittire facilmente. Uno con cui inizi
una relazione, che ha in mente solo il matrimonio come premessa
inderogabile, fattibile o no, per me è un uomo insignificante. Capisci?».
«Oh sì, capisco, capisco» assentì lui, mentre non riusciva a distogliere lo
sguardo dal punto più profondo dell’ultimo bottone aperto all’altezza del
décolleté. Cambiò discorso: «Vieni spesso in posti come questo?» ripetendo
una domanda che le aveva già fatto.
«Intendi nei bar degli hotel? Sì, ci vengo».
«Per incontrare un uomo con cui hai un appuntamento, o per
rimorchiarlo?».
«Se fosse un film straniero, a questo punto partirebbe un violento ceffone
a mano piena che lei dà a lui».
«Ti sei arrabbiata? Se è così, non volevo…».
«Alle tue domande fin troppo franche, risponderò con altrettanta
franchezza: yes! Yes in entrambi i casi».
«Non esiste uomo capace di sottrarsi a una come te, dopo averla
incontrata».
«Infatti! Fin qui non ce ne sono stati». La donna sembrò rammentarsi
all’improvviso di qualcosa e rise sommessamente. «Tempo fa ho incontrato
un tipo assurdo, uno straniero. Sembrava convinto che nessuno intorno
capisse l’inglese e sparava oscenità pesanti una dietro l’altra, cose del tipo
“voglio scoparti” o “voglio leccarti lì”, in modo disgustoso. Mi ha
veramente dato sui nervi e gliele ho cantate: “Ascolta, è meglio che stai
attento” gli ho detto, “sai qual è la mia cosa preferita? Tagliare a fette
spesse quel coso degli uomini, metterlo tra due pezzi di pane nero,
spalmarci su un bello strato di mostarda e addentarlo!”. Di solito basta
questo per farli battere in ritirata».
L’uomo, nel suo abito grigio-blu, per un attimo si sentì a disagio e si
allentò la cravatta con l’indice. La donna colse l’occasione per alzarsi,
scendere dallo sgabello e rimettersi in piedi. «Tra un istante devo andare».
«Non preoccuparti del conto qui, ci penso io».
«Stai complottando qualcosa?».
«No» rispose lui, correggendosi subito dopo. «Almeno, fino a quando me
lo hai chiesto un momento fa, non pensavo ad alcun complotto, ma…»
proseguì incespicando nelle parole «dopo il tuo impegno, quando sarai
libera?».
«Mah, non so». Lo guardò bene in faccia mentre cercava di tenerlo sulle
spine. «Se andasse per le lunghe, al massimo tra un paio d’ore».
«Perfetto. Allora ci vediamo qui con calma, tra due ore».
«Era a questo che pensavi?».
In lei rifluiva per la prima volta un desiderio di sesso. «Come passerai
queste due ore? Se resti qui e continui a bere, quando torno sarai ubriaco
fradicio, e non lo gradirei».
«Non faccio di queste stronzate, mi troverai sobrio al punto giusto».
Si scambiarono uno sguardo d’intesa e lei stava avviandosi, quando lui le
posò una mano sul braccio e veloce le bisbigliò all’orecchio: «Vado a
prenotare una camera». Lei, scostando decisa la mano dal braccio, lo salutò
dicendo: «Ottimo. Tra due ore qui».

Uscendo dall’ascensore al piano dello Sky Lounge, la donna si diresse alla


toilette delle signore. Davanti allo specchio si ripulì dello strato troppo
spesso di ombretto grigio con un fazzolettino di carta. Con il fard, andando
dagli zigomi alle palpebre e fino all’angolo degli occhi, spolverò un po’ di
rosa. In poche mosse il volto apparve più giovane e tondeggiante, pudico;
l’espressione intensa di prima era scomparsa. Passò il fard sui lobi delle
orecchie e su entrambi i lati del collo, dandogli un colorito appena rosato.
Bastava questo per far apparire qualsiasi donna più giovane, di almeno tre
anni. Con un altro fazzoletto di carta levò via il rosso scarlatto dalle labbra,
sostituendolo con un rosa tenue che le conferiva un’espressione ingenua e
rassicurante. Si allontanò dallo specchio di qualche passo, scrutandosi da
capo a piedi si tirò su fino alla gola la camicetta di seta, chiudendo a dovere
anche l’ultimo bottone alla base del collo.
Il candidato all’o-miai di oggi non poteva farselo sfuggire; a forza delle
sue futili lamentele, era ormai oltre l’età papabile per il matrimonio. Non
per questo era disposta a un compromesso. L’uomo che andava a conoscere
oggi era il figlio di un dentista, al momento impiegato presso un policlinico
universitario, ma destinato a seguire le orme del padre. Non sembrava
difettare di qualcosa, e lei sapeva che un’occasione del genere non si
sarebbe ripresentata. Passò con cura il pettine tra i capelli, con un elastico li
raccolse stretti all’indietro e con mano esperta li sistemò in un pulito
chignon. Il tocco finale fu l’orchidea Cattleya, che tirò fuori dalla borsa e
fissò alla base del colletto.
… Il playboy di prima sarà lì tra due ore? Chissà. Un tipo niente male.
Come partner per un flirt divertente sarebbe perfetto. Mentre quello
dell’incontro di stasera è completamente diverso. Stando alla foto da
giovane dentista, quei suoi occhiali dalla montatura nera, spessa, non
hanno niente di sensuale. Ha dell’uomo deprimente. Però, sposandolo, mi
assicurerei il benessere a vita…
Si osservò riflessa nello specchio, incantata. Lì c’era una giovane donna,
dolce, sobria. Comunque, fino alla riva del matrimonio bisognava remare
ancora. Poi, lontana dagli occhi del marito, avere una storia con qualcuno
sarebbe stato più facile che torcere il braccio a un bambino. La donna piegò
leggermente il collo, assaporò un senso di soddisfazione di sé e si fece un
sorriso, dopodiché uscì dalla toilette e sprizzando sicurezza si diresse allo
Sky Lounge.
Come prevedibile, però, era un po’ tesa. Non per il giovane dentista,
presentatole come un serio e dedito professionista, piuttosto per la signora
N., l’intermediaria che avrebbe condotto l’incontro, della quale aveva
timore. Il nemico di una donna è di solito una donna. Doveva lusingarla nel
migliore dei modi possibili. All’interno, lo Sky Lounge era quasi al
completo. Diede il suo nome al cameriere, che la invitò ad aspettare; lei
indietreggiò nell’attesa, poi il cameriere le fece strada al tavolo, in fondo,
vicino alla vetrata.
Era in anticipo di dieci minuti, pensava che il suo partner fosse già lì,
invece trovò solo la signora N. Si scambiarono i saluti di rito con estrema
cortesia e si accomodarono al tavolo.
«Questa sera sei ancora più aggraziata e più bella del solito!» si
complimentò soddisfatta, con un sospiro, la signora N. «Puoi anche
rilassarti. La persona che incontrerai è un ragazzo molto schietto».
«Ah, bene» la giovane donna abbassò lo sguardo. «Ho sentito che è una
persona seria».
«Viene da una famiglia seria. Comunque voglio dirtelo chiaramente: ha
deciso da solo di sposarsi, ma per farlo cerca una donna in regola. Questo è
comprensibile. Si tratta di scegliere una giovane moglie per l’erede di una
clinica dentistica rinomata. Ma credo proprio che vi piacerete».
La fiamma giallognola delle candele riluceva sul metallo delle posate, sui
coltelli e sulle forchette.
«È uno che ha i suoi tempi, ci fa aspettare un po’» disse la signora N.
poggiando le dita sul bordo del bicchiere con succo d’arancia. «Fa parte del
suo carattere, non è attento a queste cose, ma non ha stranezze. Per come
sono gli uomini di adesso, si può considerare una rarità».
«Credo proprio di sì» assentì lei garbatamente.
«Talvolta capitano uomini che attendono e sono in anticipo, e quando la
donna arriva si alzano in piedi, in un batter d’occhio le scostano la sedia dal
tavolo, ma in loro c’è qualcosa che non va. I ritardatari sono più semplici.
Anche quello che incontrerai ha circa trent’anni. Se finora è rimasto
scapolo, forse è perché ha aspettative molto alte».
«Ah, è per questo?». Improvvisamente l’apprensione si palesò sul volto
della donna.
«Va tutto bene!» la signora N. la rassicurò sollecita con un gesto della
mano. «Trattandosi di te, questa volta andrà bene. Se lui dicesse che non gli
piaci, non glielo perdonerei».
«Mah… che dire». La donna spalancò i suoi grandi occhi con aria
ingenua, fissando la signora N. «Mi affido a lei».
«Ti dico la verità, quel che lui mi ha detto è che se io ritengo che sia la
persona giusta, potremmo anche omettere il superfluo e pensare
direttamente alle nozze. Ma ho insistito: così non va, prima incontrala! Ho
ragione, no?». Nel concludere, la signora N. guardò verso l’entrata.
«Finalmente è arrivato!».
La donna era tesa, indirizzò di soppiatto lo sguardo nella stessa direzione.
Dietro al cameriere si vedeva solo una testa, era la testa di un uomo. Dalla
foto non si capiva, ma era molto alto. Come nella foto, aveva quegli
occhiali con la spessa montatura nera ben poco raffinata. Bisognerà fare
qualcosa per quegli occhiali, pensò lei, dandosi un margine d’intervento.
Il cameriere, nel fare strada all’ospite, si spostò di poco a destra. Fu in
quel momento che la figura del candidato atteso si rivelò per intero agli
occhi della donna. Come sferzata da una doccia fredda, sentì il gelo
propagarsi nelle membra: ricordava di aver già visto il vestito grigio-blu che
l’uomo aveva indosso.
Lui sembrò non averla ancora notata. La donna, stordita, misurava la
distanza che si accorciava tra loro. Pensava che, se ci fosse stato un modo
per fuggire, lo avrebbe fatto, ma il suo corpo, come legato mani e piedi, non
l’assecondava. Alla fine, il partner di quell’incontro era lì, in piedi, all’altro
lato del tavolo su cui era stesa una tovaglia bianca.
«Perdonate l’attesa» disse rivolgendo un leggero inchino alla signora N.
Solo dopo, resosi conto di chi fosse la donna stordita, d’improvviso sorrise
con un ghigno. Poi, con calma, si tolse gli occhiali e rivolto alla donna
impallidita disse: «Incontrarci in quel bar è stato per noi un vero
inconveniente». Sedette di fronte a lei, e aprendo il menu proseguì:
«Comunque l’appuntamento già fissato tra due ore resta. Naturalmente,
sempre che tu sia d’accordo».
Ma per questo, la donna, basita, non ebbe una risposta pronta.

1
O-miai è stato, e in forma attualmente ridotta ma non scomparsa continua a essere, il modo più
comune per far incontrare un uomo e una donna decisi a sposarsi. L’incontro, generalmente condotto
da un’intermediaria/o, avviene solitamente in un ristorante, o comunque in un luogo pubblico,
neutrale rispetto alle parti. Sia la donna che l’uomo hanno già ricevuto in precedenza foto e
informazioni sul partner. Quanto all’uso lessicale, la o di o-miai, cosiddetta onorifica, spesso precede
il sostantivo miai (incontro di persona), e talvolta viene omessa.
La venticinquesima ora

Al Marrakech Night Club era più che notte fonda quando alcune coppie in
abito da sera cominciarono ad arrivare, i soli trenta tavoli erano già al
completo.
Tra le fogge alla moda si mischiavano facce e nomi celebri, artisti,
produttori discografici, cantanti. L’ora era tarda, l’età media dei clienti alta,
cosicché l’atmosfera al Marrakech era quella da adulti in confortevole relax.
Che l’età media dei clienti fosse alta, non poteva addebitarsi solo all’ora
tarda. Sarebbe bastato dare uno sguardo all’arredo della toilette – solo in
quella era stato speso l’equivalente di quanto costerebbe a una persona
normale costruirsi senza pensieri una casa – per capire che si trattava di un
club esclusivo, non uno di quei locali da giovani universitarie col taglio alla
Farrah Fawcett, né un posto da ragazzi come i tipi che giravano su Mazda
sportive comprate da papà; in definitiva, un mondo con il quale loro non
avevano niente a che fare. In più, si trattava di una serata particolare: poiché
si sarebbe esibita una grande cantante degli anni ’50, famosa in tutto il
mondo e venuta apposta dall’America, per chiunque non l’avesse mai
ascoltata in quegli anni non avrebbe avuto senso; sarebbe stato come dare
perle ai porci.
Erano le 0:58 del mattino, appena due minuti prima che cominciasse lo
spettacolo, quando calpestò il red carpet dello scintillante Marrakech, scese
le scale ed entrò, accompagnata da un tipo di bell’aspetto e con qualche
anno meno di lei, Minami Aono.
Naturalmente l’attenzione di tutti i presenti fu attirata dalla famosa stilista
al braccio di un giovane uomo che assomigliava a Warren Beatty. I due che
avanzavano, preceduti dal cameriere che faceva loro strada verso l’unico
tavolo rimasto libero al centro della sala e vicino al palco, erano la vera
attrazione prima che avesse inizio l’evento. Assolvevano splendidamente a
quella funzione.
«Abito favoloso» mormora qualcuna. «Alla sua età potrebbe anche darsi
meno arie» le fa eco un’altra. «Conta molto sulle sue gambe, visto lo spacco
azzardato che si è concessa!». «Ma lui chi sarà? Ne cambia uno via l’altro,
e sono tutti fantastici!». «Da Minami Aono c’è da aspettarselo, il suo buon
gusto in fatto di uomini è ineguagliabile».
A volte i sussurri arrivavano più chiari delle parole gridate. Minami,
trionfante, catturava con lo sguardo i mormorii di invidia, di gelosia, delle
donne che affollano la sala. «Quello è uno nuovo – continuavano a
bisbigliare, – per lei gli uomini sono come gli accessori, li cambia
abbinandoli al vestito».
Le occhiate di Minami arrivavano all’indirizzo di quelle voci come
subdole scudisciate. Dopo, non mancava di prodursi in un sorriso alla
Vivien Leigh dei vecchi schermi, inarcando un sopracciglio e accennando
una smorfia ironica con gli angoli della bocca. L’uomo al suo fianco scostò
la sedia per lei. Minami, con movimenti fluidi e impeccabili, si accomodò.
«Non far caso a tutto questo» sussurrò all’orecchio di lui.
«Io?». L’uomo, per nulla turbato, la tranquillizzò: «Assolutamente. Tu,
piuttosto. L’importante è che non diano noia a te».
«Sono avvezza alle calunnie e alla malizia». Si guardò intorno sprezzante,
il mento in alto.
Le donne sono creature che provano gelosia pura nei confronti di quello
che un’altra possiede, che siano abiti, auto, gioielli, pellicce, o l’uomo che ti
accompagna.
Le luci si abbassano repentine. Il cameriere riempie i loro flûte di
champagne fino all’orlo e, con discrezione, si allontana. Sul palco,
l’orchestra di pochi elementi attacca un motivo di sottofondo. Le fiammelle
delle candele ondeggiano.
«Brindiamo!». Minami solleva il bicchiere.
«A cosa brindiamo?». Il viso dell’uomo avvolto dal lume giallognolo
della candela è di una bellezza esasperante.
«Vediamo… alla venticinquesima ora!».
«Grandioso! Alla venticinquesima ora!». I due cristalli si sfiorano in un
gradevole tintinnio.
Mischiata alle note dell’orchestra, si sente ancora una voce mormorare:
«Comunque lei è una spudorata, si direbbe proprio che ha una tresca con
quello e non si trattiene dall’esibirlo, di fronte a tutti, tanto che non si sa più
dove guardare, è inaccettabile».
«Oggi sono particolarmente scatenate» sorride amabile Minami. «È a
causa tua».
«A causa… mia?».
«Tu sei un uomo troppo desiderabile, le donne smaniano».
L’orchestra passa dalla melodia di sottofondo alle note di un brano
celeberrimo della grande cantante d’un tempo. Le quinte a sinistra si
aprono: la cantante bionda, avvolta in un abito di satin bianco candido
dall’orlo morbido, con uno spacco che si apre al suo avanzare, un sorriso
smagliante, entra in scena.
Scroscio di applausi in sala. Senza tradire l’emozione, comincia a cantare.
La voce è dolce e consumata. Gli ospiti, come innaffiati, la ascoltano assorti
in religioso silenzio.
Riflettori puntati sul busto. Pur volendo, sarebbe impossibile dire
benevolmente che è ancora giovane. Lo show business è spietato, pensa
Minami. Una donna normale a lume di candela riesce a contraffare
qualcosa, mentre le luci della ribalta non lasciano scampo ai ricatti dell’età.
Le borse scure sotto gli occhi che vede nella cantante le provocano dolore,
come fossero le sue. Innegabilmente, un tempo era stata una star. Residui di
polvere di stelle le volteggiavano intorno. Di sicuro, al culmine della
celebrità, quelle stelle scintillavano una per una; ora, in un cielo notturno
percorso da nubi, si distinguevano a fatica, disperse nella Via Lattea
rilucevano un poco, come vapori argentati. Ma la scintilla, quella c’era
ancora. I bei lineamenti di un tempo erano sfioriti con gli anni e il vigore
vocale era scemato di molto. A esserne consapevole, più di chiunque altro,
era lei, la cantante, che con intensità triste e gentile, rassegnata e quasi in un
pianto sommesso, continuava a cantare una canzone d’amore.
Quanto può mostrarsi iniquo il passare del tempo per una donna! Minami
aveva quarantatré anni e non pensava alla propria età. Riandò con gli occhi
lungo il profilo dell’uomo che le sedeva accanto. Era rilassato e sprigionava
un fascino ipnotico, che lo rendeva ancor più simile a Warren Beatty.
Invaghirsi di un uomo così significava soffrire di sicuro, dopo. Minami
distolse lo sguardo concentrandosi sul diamante che risplendeva al collo
della cantante. Le dava sollievo sapere almeno che il diamante era vero.
Chiuse gli occhi per preservare quell’immagine. La voce vellutata la fece
sentire in una culla, e si lasciò lentamente dondolare.
«A cosa stai pensando?» le sussurrò l’uomo all’orecchio. Sulla nuca le
arrivava il respiro umido e caldo di lui. Minami aprì gli occhi.
«A nulla in particolare. Ascoltavo la canzone». Non poteva dirgli che si
era immedesimata nella cantante e nell’età della donna, scivolando verso
amare riflessioni sulla vita. «E tu?» chiese di rimando.
Il primo brano era finito, la cantante incrociò le mani sul petto a mo’ di
preghiera, mentre prestava orecchio agli accordi del secondo pezzo. Il gesto
rivelò al pubblico un contrasto quasi grottesco tra il dorso delle mani,
scurito dal reticolo bluastro delle vene sporgenti e da piccole macchie, e il
candore dell’abito di satin.
«Intendi a cosa stavo pensando io?» replicò il giovane quasi sfiorandole il
viso. «Pensavo che lei è proprio nella venticinquesima ora» disse portando
il flûte di champagne alle labbra. «Che cosa triste» sospirò.
«Sì, a dire il vero è proprio triste».
La cantante spalancò le braccia, poi in un vero crescendo di
partecipazione, si appoggiò a sedere, leggera. Quel suo gesto accattivante
mise a nudo la sua malinconia. Ma il pezzo era bello. Era intrattenimento di
alta qualità, capace di emozionare.
Mentre canta, a passo di danza, scende lentamente in sala. I suoi occhi
color nocciola fissano il volto dell’uomo che accompagna Minami. Restano
su di lui fin troppo a lungo, inchiodati su quel volto, mentre continua a
cantare di un tenero amore. Minami, da donna, coglie al volo il desiderio.
Viene attraversata da un moto di gelosia, ma anche di orgoglio, al pensiero
che quello è il suo uomo. D’improvviso la cantante si discosta,
approcciando sinuosa un altro tavolo, come se stesse nuotando.
«Da giovane era di certo molto affascinante» sussurrò lui.
«Naturalmente a te non dà fastidio essere osservato, vero?».
«In questi casi è da arrogante, lo so, ma per la verità un uomo si chiede
una cosa sola».
«Che cosa?».
«In breve: con quella cantante attempata ci farei l’amore o no?».
«Gli uomini pensano subito a quello».
«Sì, è così. Per un uomo esistono solo due tipi di donne: quelle con cui
vuole andare a letto e quelle con cui non vuole. Tutto qua».
Minami si accigliò. Passò le dita sull’orlo del bicchiere di champagne. «E
tu potresti fare l’amore con lei?».
«Yes».
Per qualche assurdo motivo, quella risposta la tranquillizzò.
«Non è il suo corpo, in questo caso. Farei l’amore con un suo brano. O
con il suo nome famoso nel mondo».
Era cominciata la terza canzone, uno standard con un tempo1 vivace. Tutti
cominciarono ad accompagnarla battendo le mani.
«Devo dire che, se fosse una sconosciuta avanti negli anni a bere da sola
al bar dell’Imperial Hotel, non mi sognerei mai di attaccare bottone».
Minami ebbe un sussulto. Inconsciamente, tentando di calmarsi, si guardò
intorno a cercare qualcosa, fermando lo sguardo sul tavolo accanto.
Intercettò un uomo, i loro occhi si incrociarono. Vide il tipo in smoking
accostarsi all’orecchio della sua giovane compagna. Forse ubriaco,
blaterava ad alta voce: «Perché tra le stiliste non ci sono belle donne?». E
aggiunse: «Non ti pare che somigli a Sonia? Chi è Sonia? Sonia Rykiel, la
stilista francese che pare una strega, non la conosci?».
«Posso farti una domanda?» chiese d’un tratto Minami al suo
accompagnatore. «Se fossi io a bere da sola al bar dell’Imperial Hotel,
tenteresti un approccio?».
«Intendi con Minami Aono?».
«No, intendo un’altra cosa. Voglio dire se si trattasse di una donna di
quarantatré anni di nome Satō Etsuko».
Il silenzio durò qualche secondo più del previsto. Nel frattempo la
cantante era tornata sul palco, da dove elargì un sorriso a trentadue denti,
bianchissimi e perfettamente allineati; Minami pensò che fossero tutte
capsule.
«Non ha senso la domanda che mi hai fatto – rispose lui. – Tu non sei la
solita donna di mezza età, né una sconosciuta. Non conosco Satō
vattelapesca di cui parli, non conosco quella donna».
«Insomma, vale la stessa cosa che hai detto per la cantante» tentò lei di
sdrammatizzare, senza successo.
«Diciamo che questo ci riguarda entrambi. Tu non perdi occasione per
ribadire il nome di Minami Aono».
Lei accennò un sorriso, stentato e triste.
Lui fa l’amore con il nome di Minami Aono, con il suo prestigio sociale,
con il suo potere finanziario, con l’edificio su cui campeggia l’insegna di
lei, con la sua Porsche, con il look aggressivo del suo design. L’anima e il
corpo di Minami Aono non contano nulla. Ma del resto, questa non era una
nuova scoperta. Lo sapeva sin dall’inizio. Diversamente, un uomo giovane,
bello e affascinante come lui non si sarebbe mai accostato a una
quarantatreenne che somigliava a Sonia Rykiel.
A volte le capitava di aver paura che la sua immagine la sovrastasse
oltremodo, spazzando via la vera sé stessa. A lei Minami Aono non piaceva
per nulla: era arrogante e presuntuosa, cinica, si truccava pesantemente,
spendeva soldi a palate, era sposata e infedele al marito. Tutto ciò non era
che un’immagine virtuale, costruita ad arte. All’inizio aveva stentato ad
abituarcisi, ma poco alla volta e senza volerlo, lo strato di make-up
aumentava. Si truccava, si agghindava, si comportava da boriosa, spendeva
a piene mani; aveva la sensazione di aver preservato a malapena il suo vero
volto e il suo corpo, rispetto ai quali si era sempre sentita insicura.
La cantante si ritirò dietro le quinte per dieci minuti d’intervallo. Si
accesero le luci dei lampadari del Marrakech. Forse per un’illusione ottica,
in quell’istante fu Minami a sentirsi sotto i riflettori. Si alzò di scatto.
«Scusami un momento» lo avvisò e, a passo spedito, si diresse alla toilette.
Questa si trovava sul retro delle quinte. Nel corridoio angusto erano stati
approntati per l’occasione i camerini e le sedie degli orchestrali; c’era una
gran confusione. Alcuni di loro sostavano pensierosi, altri fumavano o
bevevano qualcosa di fresco da bicchieri di carta.
«Se sono inopportuno, le chiedo scusa». Minami procedeva verso il
fondo, molte signore in fila erano già entrate nella toilette. «Ma lei non è la
signora Satō?» la voce proveniva da una qualche direzione. Non realizzò
che si riferiva a lei finché non sentì un tocco sulla spalla.
«Eh sì, sei proprio Satō Etsuko!» disse l’uomo di mezza età togliendosi
gli occhiali e accostandosi al suo viso. «Non ti ricordi di me?». Aveva in
mano un sassofono che riluceva di un argento smorto. Lei non aveva
memoria alcuna di quell’uomo dall’aria smunta, magro, con qualche capello
bianco; ma all’improvviso ricordò uno che suonava il sassofono. Una storia
di venticinque anni prima. Ai tempi dell’università aveva avuto una
relazione di tre mesi con uno del Dipartimento di musica che suonava il
sassofono. Tre mesi, perché poi lei lo aveva mollato per uno studente di
architettura. Il nome del sassofonista proprio non lo ricordava, ma ricordava
come le parlava a letto e il tocco delle sue dita, ed ebbe un lampo di
memoria.
«Certo che mi ricordo» disse invasa da un senso di colpa. Con voce
metallica, lui le rammentò che era stato venticinque anni prima. Tutto le fu
chiaro: lui, con le labbra tremanti, violacee di rancore, le aveva detto: «Tu
cambi gli uomini come cambi vestito».
Minami lo fissò una volta ancora, aveva il torace sottile e sembrava
infreddolito. Non aveva detto tante volte che sarebbe entrato nell’orchestra
della NHK? La vita dell’uomo che aveva di fronte era cambiata per colpa
sua. Il suo aspetto aveva impressi i segni dei poco più di vent’anni trascorsi.
Lui la fissava in una sorta di smarrimento.
«Te la passi bene, sembra» disse impallidito e rigido, trattenendosi a
fatica.
«Che vuoi dire con “te la passi bene”?» replicò Minami facendo del suo
meglio per ammorbidire il tono.
«Che puoi permetterti di stare in un posto così, in abiti di lusso, nel cuore
della notte». Il sassofonista emise un breve fischio. «Fiumi di Dom
Pérignon e caviale russo all’una di notte, per noi, comuni mortali, è una vita
da sogno».
«Questo non avviene all’una di notte, accade nella venticinquesima ora».
«Ah! E quale sarebbe la differenza?».
«La venticinquesima ora è vacuità. È un lasso di tempo in cui nulla esiste.
È il raduno delle illusioni. È l’ora in cui regna l’inerzia. Non accade nulla di
nuovo. È solo la vita, che regala un extra».
«Sembra esattamente la mia vita, dopo che mi hai accantonato».
«Ti prego di non parlare a questo modo». Minami non riusciva più a
dissimulare il proprio turbamento.
«Ma è la verità! Mi hai prosciugato, poi, come un nulla, mi hai buttato
via. Non mi sono mai ripreso. Sarà stata la frustrazione per non essere
entrato nell’orchestra, ma poi per un periodo, alcol, droghe, sonniferi, mi
avevano ridotto uno zombie». L’uomo dimostrava anche più dei suoi anni e
il volto, su cui vagava un sorriso amaro, aveva un’aria esausta. «Satō
Etsuko, non ti ho dimenticata mai, neanche per un momento».
«Non sono più Satō Etsuko». Lei era sul punto di pronunciare il nome,
Minami Aono, ma all’ultimo si trattenne.
«Per me sei Satō Etsuko, e nessun’altra. Satō Etsuko!». Il viso sofferente
e contratto, come se avesse mal di denti, faceva apparire ancor più
rattrappito il suo torace esile.
«Potresti per favore dimenticarla? È passata un’eternità».
Minami capì a quel punto di essere in un vicolo cieco; si mise in salvo
oltrepassando il sassofonista in gran fretta e sgusciando all’interno della
toilette. Era un ambiente piccolo ma sontuoso, circondato da pareti a
specchio su tre lati. Davanti allo specchio sfavillavano allineate bottiglie di
profumo, oltre una decina di fragranze diverse, mentre di lato al lavabo
c’era un mucchio di salviette candide per asciugarsi le mani.
Una donna di mezza età, in divisa da inserviente, estrasse da un
contenitore, simile a uno sterilizzatore a vapore da studio medico, un o-
shibori caldo e lo porse a Minami. Lei lo prese distratta e si deterse la punta
delle dita.
«Quale fragranza usa di solito?» chiese la donna in divisa.
«Fidji» rispose Minami alzando gli occhi al cielo mentre posava lo o-
shibori sulla mensola di marmo dei trucchi. La donna prese la bottiglia
corrispondente, dandole due, tre spruzzate intorno alle spalle.
Minami tirò fuori dalla borsa il portacipria e picchiettò leggermente le
zone lucide del naso e della fronte.
«Signora, io sono una fan di Minami Aono» disse la donna in divisa
molto ossequiosamente. «Anche se gli abiti di Aono-san sono alquanto
costosi e assolutamente fuori dalla portata di quelle come me».
Minami osservò la donna riflessa nello specchio, pensò che molto
probabilmente aveva la sua stessa età.
«Se non la disturba, le dispiacerebbe farmi un autografo su un foglio
colorato?» e senza aspettare la risposta prese dallo scaffale un foglio
quadrato a colori, una penna per firmare e li porse a Minami. Lei accettò, e
di getto, com’era solita fare, firmò con gli ideogrammi di Minami Aono. Fu
come se vedesse i tratti di quel nome, che lei stessa aveva scritto, per la
prima volta; si soffermò a guardarli, poi restituì il foglio alla donna.
Uscendo, le caddero gli occhi su un cestino color argento: dentro c’erano
sicuramente più di una decina di banconote da 1000 yen, gettate lì alla
rinfusa. Erano mance. A ben guardare, c’erano anche tagli da 500 yen e
solo un paio da 10.000 yen. Le banconote da 10.000 yen erano in bella
vista; un’esca, pensò.
Tuttavia tirò fuori il portafoglio, ebbe solo un attimo di esitazione, e
lasciò lì una banconota dello stesso taglio. Non sapeva perché lo avesse
fatto. La donna sua probabile coetanea ebbe una luce di sorpresa in volto,
ma prima che riuscisse a proferire parola, Minami era già fuori dalla
toilette.
Nel corridoio non c’era ormai più nessuno. Sul palco avevano ripreso a
esibirsi. La famosa cantante anziana era lì, dietro le quinte, a testa china, da
sola, in attesa di tornare in scena. Pensando che nessuno la vedesse, era
esposta in tutta la sua fragilità. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono,
la cantante sollevò il viso e, raddrizzando la postura, sorrise a Minami. Era
un sorriso amichevole, uno di quelli in cui il volto contrae tutti i muscoli
formando mille rughe, un sorriso che sul palco non avrebbe mai osato
mostrare.
Minami sentì un tepore diffondersi dentro di lei. Non mi dispiacciono
quelle rughe, si disse, e pensò anche che quel volto sorridente era bello.
Ancora una decina d’anni e quelle rughe, quell’espressione, quel volto sarà
il mio: non è poi così male invecchiare, rifletté.
Fece ritorno al tavolo.
«Ero preoccupato, pensavo che, infuriata, te ne fossi andata via».
«E perché mai avrei dovuto infuriarmi?» rispose lei con un sorriso
accogliente. «Mi sto godendo la venticinquesima ora!».
Il brano era cominciato. L’uomo posò la mano su quella di Minami e lei,
mentre lo assecondava nel gesto affettuoso, non guardava il profilo perfetto
del suo fascinoso accompagnatore, né la cantante attempata, né il
sassofonista amato per tre mesi in un’altra epoca. Ogni sua fibra era tesa a
osservare lo scorrere inafferrabile del Tempo.

1
In italiano nel testo.
Amiche

Appena il semaforo diventò verde, da quattro, otto direzioni diverse, uno


sciame di pedoni si riversò nel mezzo delle carreggiate. Mischiati nella
confusione e procedendo in una calca disordinata, tutti gradualmente
guadagnavano il lato opposto. Il verde di attraversamento cominciò a
lampeggiare. I ritardatari accelerarono il passo, tra questi anche Kazumi.
Kazumi era da sola.
Una macchina, che premeva per girare a destra, sbucò di gran carriera. La
scocca rosso Italia e la cappotta leggera beige, un design elegante in
contrasto col clacson strombazzante dell’auto che, in corsa, mancò di un
pelo l’addome di Kazumi. A ben guardare, il volante era a sinistra e a
impugnarlo era una donna. Kazumi s’infuriò, e quando si strusciarono
picchiò forte col palmo il finestrino laterale. La donna alla guida la guardò
con occhi di fuoco, ma in un attimo si riconobbero e in contemporanea
esclamarono: «Non ci posso credere!».
La Fiat rallentò, poi accostò fermandosi sulla sinistra. Mentre Kazumi
ansimante raggiungeva da dietro l’auto sportiva italiana, bella da impazzire,
improvvisamente si sentì a disagio per il proprio abbigliamento e gli
accessori.
Asako aprì la portiera e scese dall’auto, sorridente e con voce emozionata.
«Quanto tempo!» disse, mentre sfilati i guanti da guida si ravviava
all’indietro i capelli con la mano. «Ma quanti anni saranno che non ci
vediamo?». Un brillante da almeno un carato e mezzo le scintillava al dito
nel sole di novembre. Oltre a quello, sfoggiava un anello con incastonati
cinque diamanti quadrati, che a chiare lettere si presentava come una fede
nuziale.
«Saranno sette anni?». Kazumi mantenne lo stesso tono gioioso, benché si
sentisse di colpo depressa.
«Già sette anni!?». Asako sgranò gli occhi. Quegli occhi ricordarono a
Kazumi il complesso d’inferiorità che era pesato all’amica nei tre anni di
corso universitario, a causa della palpebra cadente, senza piega, pesante
sugli occhi piccoli.
«Accipicchia, siamo invecchiate, eh?» disse Asako enfatica, coprendosi la
bocca con una mano, ma con un sorriso fresco.
«Però, Kazumi, tu sei sempre bella!» aggiunse squadrando la vecchia
compagna di corso e quello che aveva indosso. Come risultato, forse un
sentore che veniva da quel look, riprese zelante: «E adesso? Che fai?».
Kazumi era rimasta da sola, non era sposata, era impiegata all’ufficio
informazioni di una ditta di import-export. Per qualche motivo voleva
evitare di dirglielo. «Sto lavorando a un progetto…» rispose vaga e
intorbidendo le parole. Aveva ripescato in fondo ai suoi ricordi Asako che,
ai tempi dell’università, gridava entusiasta ai quattro venti che il suo sogno
era di entrare in uno studio pubblicitario, fare progettazione e dedicarsi alla
promozione commerciale.
«Dai!» commentò appena Asako, che, di poco, sentì di aver cambiato
espressione. «Kazumi, è un progetto pubblicitario o qualcosa del genere?».
«Sì… prodotti per il pubblico femminile».
«Quindi sei una donna in carriera, brava». La voce tradiva una frecciatina
di invidia e di ironia.
«Già, perciò non penso a sposarmi» replicò Kazumi con un sorriso
smagliante, intendendo sorprenderla e farle capire che il matrimonio non
era una priorità.
«Senti, ma anziché stare qui in piedi a parlare, che ne dici di pranzare
insieme? Non hai ancora mangiato, vero?».
«In effetti…». Kazumi dette uno sguardo al suo orologio da polso: le
12:26. Avrebbe dovuto essere di nuovo al lavoro in ufficio alle 13.
«Ma forse hai un orario stabilito per la pausa pranzo…?». Asako, per
conferma, a sua volta dette uno sguardo al suo orologio, un massiccio Rolex
d’oro.
«No, no, anzi, praticamente il mio è un lavoro sregolato da mattina a sera;
in compenso siamo liberi di gestire i nostri orari» mentì Kazumi con
disinvoltura.
«Bene!». Mentre ascoltava, Asako aprì la portiera. «C’è un posto qui
vicino, un ristorante francese dove ci preparano qualcosa, anche se è un po’
piccolo… ma forse tu lo conosci già, con i tuoi colleghi sarete esperti di
questi posticini, vero?».
«Mah, più o meno» si mantenne vaga Kazumi e, dalla portiera che Asako
le aveva aperto, sgusciò sul sedile del passeggero della Fiat e vi si
accomodò.
«È nuova?».
«Sì, me l’ha comprata appena la settimana scorsa».
«Per il tuo compleanno, o una ricorrenza?».
«Noo, niente del genere». Asako si fece una risatina. «Avrà avuto la
coscienza sporca. Gli uomini sono davvero ingenui, si fanno scoprire
subito». Avviò il motore e mentre la macchina era in marcia continuò:
«Quando mi compra qualcosa, eccolo là, ci risiamo, capisco che ne ha fatta
un’altra delle sue».
«Che vuoi dire?».
«Per esempio, che mi fa le corna» disse Asako tranquilla.
«Ti fa le corna… e a te non importa?».
«Non può non importarmene, è ovvio, ma tanto dirgli di smettere non
serve: se un uomo ha deciso di farlo, continuerà a farlo. Dal canto mio,
neppure io mi tiro indietro». Inclinò un po’ il collo con un sorriso
malinconico.
Kazumi era in subbuglio: stentava a credere non solo che fosse sposata,
ma che avesse un flirt con un altro, e che si trattasse proprio di Asako, una
che certo non spiccava per avvenenza. Ai tempi del circolo universitario di
tennis, ogni volta che andavano a bere o a festeggiare in gruppo, quella che
riscuoteva successo tra gli studenti della Tōdai o della Keio era di solito
Kazumi, nessuno invitava mai Asako a uscire per un appuntamento a due.
Kazumi, compassionevole, organizzava incontri a quattro, per dare anche a
lei la possibilità di vivere quel momento di gioventù e serbarne il ricordo.
Per dirla tutta, a quel tempo c’era uno studente che le stava alle calcagna e
non demordeva: veniva dalla provincia e, a fargli un complimento, non era
un granché, era brutto, e quando Kazumi si metteva i tacchi era per giunta
anche più basso di lei di due centimetri. Le telefonava a casa almeno tre
volte alla settimana per strapparle un appuntamento e, per quanto lei non gli
desse spago, lui non si arrendeva. Decise allora di uscirci una volta ogni due
mesi, ma anche in quelle occasioni non le andava di essere loro due da soli,
allora sceglieva uno tra una decina dei suoi pretendenti, tirava dentro anche
Asako e così l’appuntamento diventava a quattro.
Finito il corso universitario triennale, cominciò subito a lavorare per una
ditta di import-export e per i primi due anni ancora molti uomini le giravano
intorno, coccolandola.
È vero, la vezzeggiavano, ma furono pochi a fare un passo deciso verso di
lei o a proporsi seriamente. Erano sempre funzionari sposati, manager di
ditte associate, capisezione e affini, quelli che la corteggiavano nei locali
per bere, ma volevano solo la compagnia di una notte o una breve storia; in
alcuni casi le proposero un vero e proprio contratto per diventare per due o
tre anni la loro mantenuta, se non altri indecenti intrighi.
I giovani uomini adatti a lei, in realtà, la tenevano a rispettosa distanza.
Non perché si desse delle arie o avanzasse troppe pretese, semplicemente
dal canto loro la consideravano «un fiore irraggiungibile», fuori dalla loro
portata. Senza colpo ferire, era arrivata ormai a ventisette anni.
La Fiat si fermò davanti alla vetrata del ristorante con l’accattivante
scritta in francese e le due donne entrarono, attirate dal menu scritto a mano
e appeso sulla porta. C’erano fiori ovunque, quasi uno spreco. Le sedie
anticate e ricoperte di velluto blu, il mobilio intonato e di gusto, tutto
sapeva di costoso, come sarebbe stato anche il conto.
Asako sembrava essere una habitué, sedettero al tavolo vicino alla vetrata;
dal fondo del locale comparve un uomo, probabilmente il proprietario chef,
che venne a salutarla.
«Che cosa c’è di buono oggi?» chiese sorridente Asako, prendendo in
mano il menu. Sul blu e argento predominante degli interni, l’abito blu di
Persia di Asako era perfetto, il risvolto aperto da un lato del collo, foderato
di seta nera, creava un accento molto elegante. Chiunque poteva stimarne il
prezzo, più di 200.000 yen, e il taglio, haute couture parigina. Al confronto,
il completo di tweed che indossava Kazumi, comprato alla fine dei saldi
invernali un anno prima, era costato, pressappoco, 15.000 yen; era un pezzo
scovato su un appendino, di design newyorchese ma confezionato in
Giappone su licenza. Eppure, indossato da Kazumi, alta e slanciata, con i
suoi lineamenti fini e quel suo tocco personale, attirava naturalmente lo
sguardo di chiunque. Purtroppo però, tra mazzi di fiori, lampadari, pezzi
antichi, costosi calici di cristallo, stoviglie di fine porcellana inglese
marcata, al cospetto inoltre della mano elegante di Asako che sfogliava il
menu, e del suo costoso haute couture, sì, i suoi erano bei lineamenti, ma
Kazumi inevitabilmente perdeva smalto. Più di chiunque altro, era Kazumi
stessa a esserne consapevole, ma per quanto si ripetesse che l’abito non fa il
monaco e in cuor suo si facesse forza, la postura assunta senza volere,
spalle basse e schiena curva, mostrava il suo disagio. Dalla finestra si
vedeva l’auto italiana dalla linea slanciata di Asako.
«Abbiamo dell’ottimo pesce» suggerì il paffuto chef.
«Pesce… che ne dici?». Asako guardò Kazumi. «Tu che prendi?».
«Che pesce ci sarebbe?» si informò Kazumi.
«Abbiamo sogliola e salmone».
«Io prendo la sogliola».
«Ottimo. Ha preferenze per la salsa?».
«Qualcosa che non sia pesante».
«Bene. Allora gliela salto con un po’ di burro».
«Per me va bene ris de veau» disse Asako chiudendo il menu.
Kazumi si chiese cosa potesse essere il ris de veau, ma non indagò,
avrebbe capito una volta arrivata la portata.
«Gradisce un vino, signora?».
«Devo guidare, ma un bicchiere posso concedermelo. Che vino avete alla
mescita oggi?».
«Abbiamo un Reine Pédauque».
«Per me va bene quello. Tu prendi un bianco, no?».
«Uhm, non so». Kazumi era indecisa. Anche solo un bicchiere di vino la
frenava, non poteva tornare in ufficio emanando odore di alcol, ma non
poteva neanche, in quel momento, mostrarsi titubante, si sarebbe sentita
ancor più pressata dalla disparità con Asako. Evitò la resa: «Un calice di
bianco secco della casa».
Lo chef le lasciò. Asako appoggiò di peso le braccia sulla tovaglia bianca
e, sporta verso Kazumi, fissandola disse: «Che incredibile coincidenza,
sono felice che ci siamo incontrate!».
«Anch’io! E ti trovo benissimo!». Non avrebbe voluto, ma i suoi occhi
erano velati di invidia.
«Tu, piuttosto! È splendido quello che fai, una donna che si mantiene col
proprio lavoro, era il mio sogno!».
«Già, e pensare che eri tu quella che diceva sempre “fino a trent’anni non
mi sposo”».
«Sì, lo ricordo. È perché ero brutta» rise spensierata Asako. «Sono ancora
brutta, pensavo di non avere altra strada che il lavoro. Tu, Kazumi, eri come
una principessa, e noi amici pensavamo tutti che appena laureata avresti
avuto subito chissà quante proposte di matrimonio. La vita è sorprendente!
Una come me che trova uno pronto a sposarla subito, mentre uno splendore
di donna come te che sceglie di dedicarsi anima e corpo al lavoro, è
incredibile…».
Non c’era malignità nelle parole di Asako, ma colsero nel segno come
schegge acuminate. Non si manteneva con il lavoro perché le piacesse, né
evitava il matrimonio per scelta. Asako, lì, di fronte a lei, aveva un marito
ricco, persino un amante, sembrava possedere tutto. Anche la sua vita
sessuale era di sicuro gratificante. Andando col pensiero alla propria vita
sessuale, Kazumi fu fulminata da una sorta di autocommiserazione che le
dette il gelo dentro. Per una donna di ventisette anni come lei, non potersi
permettere altro che la sua attuale sex life era davvero patetico.
Naturalmente, se andava da sola a bere in un locale, di uomini che ci
provavano con lei ce n’erano a frotte.
Ma non aveva il coraggio di instaurare una relazione con quel tipo di
uomini, tizi di passaggio, storie di una notte. Se lo avesse fatto una volta,
dalla seconda in poi avrebbe lasciato andare i freni.
Asako era rotondetta e aveva una carnagione radiosa; al confronto
Kazumi sentiva la sua pelle cadente e fastidiosamente segnata da rughe
sottili. Il pensiero di non essere ancora nella fase di donna matura scatenò in
lei un nervosismo tale da non poter più rimanere lì, seduta, in piedi, in
nessun modo. Non poteva sopportare il pensiero che il suo corpo, così,
senza neanche essere stato sfruttato, in breve sarebbe avvizzito, marcito. Il
grande rammarico le faceva quasi digrignare i denti.
Arrivò la pietanza che Asako aveva ordinato. Pur scrutando bene il centro
del piatto, non si riusciva proprio a capire che cosa fosse il ris de veau. Si
vedeva, sì e no, un mucchietto di sei, sette castagne e tutt’intorno una salsa
cremosa.
«E quello cos’è?» chiese incuriosita Kazumi.
«Ris de veau, sono le animelle!».
«Ah… ecco». Kazumi rise, ma continuava a chiedersi che cosa fosse,
quali parti e di quale animale, senza averne idea.
«Senti, il progetto a cui stai lavorando per il pubblico femminile, di che si
tratta?». Repentina, Asako cambiò discorso e le chiese del suo lavoro.
«Scusa, questo non posso dirtelo. Il cliente ci ha imposto il segreto».
«Direi che stai diventando sempre più professionale. Ti invidio, sai. A
confronto con la tua, la mia è una vita davvero piatta. Talmente piatta che si
può morirne, lo sai?».
«Ma dai, che assurdità stai dicendo». Kazumi era in imbarazzo. «Potessi
fare la tua vita, per quanto mi riguarda smetterei anche subito di essere una
donna in carriera».
«Se potessimo fare uno scambio, lo farei anche adesso». Forse non era
vero, ma il tono di voce era credibile. Asako sospirò. Kazumi, trascinata dal
frangente, si lasciò andare con sincerità: «Sembra che le nostre vite siano
state scambiate».
«A dir la verità, lo penso anch’io. Sembra che ci ritroviamo per sbaglio a
vivere una la vita dell’altra».
Kazumi non ci capiva più nulla, aveva lo sguardo lontano, si chiedeva
dove, quando, fosse accaduto. Forse le era capitata un’occasione da sogno
e, senza accorgersene, era andata oltre? Per quanto ci pensasse, non le
sovveniva niente del genere. Neanche un’occasione interessante, di cui
stranamente non si sarebbe accorta, niente oltre ai ricordi di gioventù.
Per qualche momento continuarono a mangiare, in silenzio. Non erano
molti gli argomenti che potevano condividere.
«Col tennis? Continui?» chiese Kazumi.
«Gioco a tennis sull’erba tre volte a settimana. Giusto per divertirmi. E
tu?».
«Io sono troppo occupata». Kazumi scosse la testa. «Anche tuo marito
gioca a tennis?».
«È il suo unico hobby. Peccato che ultimamente abbia così tanto da fare
che non prende neanche in mano la racchetta».
«Lui è giovane?».
«Che domanda è?».
«No, nulla…». Kazumi non riusciva a pensare che un uomo giovane e
benestante scegliesse come moglie Asako, tutt’altro che avvenente,
cicciottella e dal colorito leggermente olivastro. Con un pizzico di
malignità, la immaginava piuttosto la moglie di un vedovo anzianotto,
arricchito e proprietario terriero.
«Però, com’era bello a quei tempi, quando eravamo studentesse! Niente ci
preoccupava e pensavamo solo a giocare a tennis» disse Asako ridendo.
Kazumi ravvisò nella risata qualcosa di infelice; con buone probabilità il
marito manteneva due o tre amanti. Poverina, pensò.
«Sì, ci siamo davvero divertite!». Kazumi toglieva una lisca dalla
sogliola, assecondando il tono ilare. «Ti ricordi i nostri appuntamenti a
quattro?». Asako annuì.
«Be’, devo chiederti scusa per allora». Kazumi prese a parlare con
l’intonazione dei tempi dell’università.
«Scusa? Per che cosa?».
«Per quel tizio strano e appiccicoso».
«Sono sorpresa».
«Scusami davvero, Asako. Non pensavo potesse interessarti uno come lui,
ma in fondo non era un cattivo ragazzo».
«È vero».
«Era comunque molto insistente, alla fine per compassione decisi di
uscirci; ti ricordi che con i tacchi ero più alta di lui? Poi aveva un
atteggiamento da vero provinciale».
«Però giocava bene a tennis».
«Sì, me lo ricordo. Era comunque la sua unica qualità. Per il resto era
proprio un campagnolo».
«In effetti, veniva dalla campagna».
«Sì, mi pare da Nagano, o da quelle parti».
«Da Gunma».
«Che memoria che hai!». Kazumi si mostrò molto stupita.
«A Gunma il padre possedeva diversi appezzamenti in montagna».
«Davvero? Non ne sapevo nulla». Kazumi allungò la mano verso il calice
e prese un sorso di vino ghiacciato. «Ma ora che ci penso, sì, ricordo che mi
fece una proposta di matrimonio. Mi portò in un ristorante pessimo, gli dissi
che era una cosa assurda, che non avevo intenzione di sposarmi con
nessuno». E in effetti non si era poi sposata con nessuno.
«Kazumi, forse è stato allora che le nostre vite si sono scambiate».
«Cioè?». Kazumi prese fiato. «Non è possibile!».
«Invece, sì – annuì Asako. – Il campagnolo di quel tempo ora è mio
marito».
«Non ci credo! Un tipo come lui…».
«Era spiantato, a quell’epoca. Dopo il tuo rifiuto era sotto shock, mi
faceva una gran pena. Così ho cercato di consolarlo».
«Ed è andata avanti fino a decidere di…».
«Più o meno».
«Sapevi che era ricco?».
«Naturalmente no. Quando ci siamo sposati non avevamo ancora nulla.
Dopo tre anni il padre è morto, ed è arrivata l’eredità. Lui aveva cominciato
acquistando articoli originali dall’estero a basso prezzo e poi aveva messo
su una ditta di import-export».
Kazumi sentì un grande vuoto, una voragine, aprirlesi in petto. Qualcosa
che non c’era modo di recuperare e che era perduto per sempre.
«Allora, Asako, non l’hai fatto per interesse? Sei perdonata, sì, ti
perdono» disse deliberatamente, placida.
Subito l’espressione di Asako si rabbuiò. Improvvisamente Kazumi prese
il conto e alzandosi disse: «Scusami, ho una conferenza sul progetto alle
13:30». Sentiva che non avrebbe retto un minuto di più.
«Ferma! Faccio io. Ti ho invitata io» si agitò Asako.
«No… va bene così». Kazumi era disagio. «Tu sei una casalinga, vero?
Non hai un tuo reddito, giusto? Nonostante le apparenze, io sono una donna
che lavora, con un ottimo stipendio, quindi lascia fare a me». Fu il colpo di
scena dell’ultima fandonia.
«Però…» mormorava ancora sottovoce Asako, ma Kazumi si era già
avviata alla cassa. Mentre pagava il conto, qualcosa in più di 10.000 yen,
pensava che sarebbe stato l’equivalente di circa venti dei suoi pranzi. Ma, al
contrario di come era entrata, ora usciva dal ristorante a schiena dritta e
mento basso, solenne. Non appena fu certa di essere del tutto fuori dal
campo visivo di Asako, di colpo, la sua espressione andò in frantumi.
Vigilia di Natale

Sarebbero andati a cena insieme quella sera. Kazuko ci pensò un momento


e lo chiamò. Lui rispose subito.
«Meno male che sei ancora lì, pensavo fossi già uscito» disse Kazuko
mentre si aggiustava il vestito sulla schiena, specchiandosi a figura intera.
«Avevo giusto la mano sulla porta» rispose freddino Ryūichi.
«Temevo di non trovarti!».
«Che succede, hai cambiato idea?».
«No, però… mi aspetti a casa? Vorrei passare prima un momento da te».
«Va bene, ma di che si tratta?». Kazuko poteva immaginarlo a fare
spallucce.
«È che devo portarmi dietro una cosa. Dai, a tra poco». Ryūichi rispose
con un incerto «Ok», e lei riattaccò.
Si posò sulle spalle la giacca di visone, che aveva comprato l’anno
precedente con un acconto della tredicesima, e si infilò i tacchi alti.
Nell’ingresso c’era un pacco avvolto nella carta natalizia, abbracciò la
grande scatola con estrema cura e uscì di casa.
Metà del bonus di fine anno appena ricevuto se n’era andato nel contenuto
di quella scatola, l’altra metà sarebbe svanita con la cena a base di tacchino,
poi c’era il vino, e probabilmente lo champagne. Ryūichi quasi mai aveva
con sé denaro contante.
Era un fotografo freelance e aveva i suoi introiti, ma tutto quello che
guadagnava immediatamente se ne andava nell’acquisto di nuove
apparecchiature. Come se non bastasse, collezionava ogni sorta di macchine
fotografiche, nuove o vecchie che fossero; il denaro entrava da una tasca e
usciva dall’altra. Il suo vestiario era irrisorio, indossava sempre e solo jeans
e un bomber da top gun americano, usato.
Dato che la serata era da Maxim’s, non che fosse capace di presentarsi
con quel giubbotto di pelle, ma era meglio controllare il suo abbigliamento
prima di incontrarsi direttamente al ristorante. Di solito disdegnava i locali
eleganti come Maxim’s, ma Ryūichi aveva detto che una volta nella vita
poteva anche metterci piede. «E sia, proviamo la cucina francese classica
per la vigilia di Natale», aveva concesso.
Quando Ryūichi voleva fare una cosa, Kazuko pensava sempre che fosse
giusta. Durante l’anno era sempre in giro per lavoro, non avevano molte
occasioni per stare insieme. Lavorava spesso in luoghi particolari, andava
all’estero di frequente; in totale, per oltre due terzi dell’anno non era a
Tokyo. Al massimo riuscivano a vedersi tre volte al mese.
Incontrarsi solo tre volte al mese, per i desideri di una donna di ventisei
anni, era dura, ma se si fossero visti cinque o sei volte, il suo portafoglio
non avrebbe consentito la cena in programma.
Lui era più grande di lei di quattro anni e guadagnava molto di più, ciò
nonostante quando si vedevano era sempre lei, donna, a pagare il ristorante
o altro; può darsi che anche lui lo considerasse inusuale, ma proprio non gli
dava peso. Avevano appena cominciato a frequentarsi, quando Ryūichi le
aveva detto chiaramente: «Io non ho soldi». Lei aveva affermato che non le
importava, la volta che li avesse avuti avrebbe pagato lui. Di fatto, da quel
«non ho soldi» e fino ad allora, per nove mesi, a pagare ristoranti, hotel, bar
e altro, era stata sempre Kazuko. Ma le andava bene anche così. Nel
rapporto tra un uomo e una donna ci sono tante sfaccettature. Se si fosse
sentita insoddisfatta, avrebbe potuto rifiutare e interrompere la loro
relazione.
Se gli avesse detto: «Non è possibile continuare con te», lui si sarebbe
limitato a un’alzata di spalle, senza chiedere spiegazioni. Ryūichi era quel
tipo d’uomo. E forse proprio per questo lei ne era affascinata. Kazuko si
ripeteva: «Lui non è pazzo di me, in qualsiasi momento può semplicemente
darsela a gambe», ed era proprio questo a scatenare in lei un forte
attaccamento.
Però, quando stavano insieme, lui era il migliore degli amanti. Ryūichi le
faceva sentire di essere lì solo e tutto per lei. A letto era adorabile,
appassionato ed esperto.
Kazuko, proteggendo la scatola del regalo tra le braccia, alzò la mano per
fermare un taxi.
L’abitazione di Ryūichi era in un condominio, un semplice monolocale
con cucinotto, toilette e vasca da bagno. C’era un letto e due sedie, ricoperte
di velluto blu di Persia, che aveva comprato da un rivenditore di pezzi rari
d’antiquariato occidentale. Nella piccola zona soggiorno c’era un tavolo,
che fungeva da piano di lavoro. Quanto alla mobilia, c’era solo un armadio
a muro, oltre a un’infinità di macchine fotografiche e strumenti di lavoro
ammucchiati in uno spazio ristretto. Il regalo che Kazuko aveva custodito
tra le braccia fu posato sul piano da lavoro di vetro del soggiorno.
«Ma perché? Non ce n’era bisogno». Ryūichi imbarazzato si grattò la
testa. «Io non ti ho comprato niente».
«Non importa, ci sono abituata». Kazuko abbozzò un sorriso, ma dentro
di sé era profondamente delusa. Sarebbe bastata una sciarpa, o anche solo
una rosa, si aspettava almeno una dimostrazione di buona volontà.
Comunque non lasciò trapelare le sue aspettative deluse, non disse nulla e
continuò con voce gaia: «Allora, prova almeno ad aprirlo…».
«Mi dispiace». Senza mostrarsi in alcun modo dispiaciuto, poggiò le mani
sui nastri dorati e argentei. «Ho comprato una macchina fotografica tedesca
e sono rimasto proprio al verde».
«Immagino». Non riusciva a ricacciare indietro il disappunto. Era come se
un forellino le si fosse aperto in petto. Le donne sono animali strani, se la
prendono per cose da nulla, ma non ricevere niente dall’uomo che si ama, a
Natale, dà un senso di vuoto. Ryūichi tolse la carta da regalo, aprì la scatola
e ci infilò la mano. «Fiuuu!». Per la sorpresa simulò un sibilo di flauto e tirò
fuori dalla scatola il contenuto.
«Ma sono bicchieri Orfeo!». A Kazuko bastò l’espressione e la voce di lui
per spazzare via ogni disappunto. «A dirti la verità, questi li volevo da
morire!» esclamò sbracciandosi compiaciuto. «Come facevi a sapere che mi
piacevano tanto?».
«Intuito, mio caro» rispose Kazuko mentre lo aiutava a tirarli fuori dalla
scatola uno a uno. Erano bellissimi, un grado di trasparenza eccezionale e il
bordo tanto sottile da mozzare le dita.
Solo due mesi prima, mentre stavano andando in un caffè nella galleria di
un hotel, all’improvviso Ryūichi si era bloccato davanti a una vetrina e
guardava dentro incuriosito. Era una cristalleria di articoli nordeuropei, lo
sguardo di Ryūichi si era posato su un calice da vino a forma di tulipano
estremamente delicato; se lo mangiava con gli occhi.
«Bello» mormorò Kazuko, che guardava lo stesso bicchiere sbirciando da
dietro la sua spalla.
«Ma hai visto quanto costa?» disse Ryūichi con un’alzata di spalle,
allontanandosi dalla vetrina. In quel momento lei decise quale sarebbe stato
il regalo di Natale per lui. Tenne il segreto di quel presente nel cuore. Ora
quella trasparenza azzurrina riluceva nelle mani di Ryūichi.
«Delle cose belle non ci si stanca mai, li terrò con cura per tutta la vita».
«Per questo te ne ho comprati sei».
«Grazie». Mentre prendeva in mano uno a uno i bicchieri, le carezzò la
schiena, poi l’attirò a sé.
All’istante, per Kazuko il vago rimpianto di aver dissolto metà del suo
bonus in quei bicchieri era svanito. Era felice.
«Senti, dovrebbe essermi rimasto in frigo un bianco che ho aperto ieri
sera. Facciamo un brindisi con quello!».
Ryūichi ritirò il braccio dalla schiena di Kazuko e andò verso il cucinotto.
In quel momento Kazuko si accorse che non indossava i soliti jeans, ma un
pantalone grigio di buona fattura, e si tranquillizzò. Notò anche una giacca
dello stesso tessuto appoggiata alla spalliera della sedia. Guarda guarda, si
è messo in tiro per andare da Maxim’s, pensò Kazuko.
Ryūichi tornò con la bottiglia di bianco piena per un terzo. «L’ho aperto
ieri sera, forse il gusto si sarà un po’ perso. Comunque, dai, beviamone un
sorso». Con i suoi denti bianchi e regolari tolse il tappo di sughero dalla
bottiglia e Kazuko si affrettò a lavare due calici.
«Buon Natale!». Il bordo dei loro bicchieri si sfiorò appena. L’orlo del
calice sulle labbra dava la sensazione di una lamina di ghiaccio.
«Uhm, è buono» commentò Kazuko.
Valutò che si trattasse di un vino decisamente discreto. Suo padre
collezionava vini e, grazie all’influenza paterna, lei era piuttosto esigente
nei gusti. Prese in mano la bottiglia e ne esaminò l’etichetta: era uno
Chablis Grand Cru Le Clos del 1979.
«Non è un vino da tutti i giorni, questa è una bottiglia che costa». Le
parole le vennero spontanee e senza retropensieri, ma non aveva finito di
dirlo che ne sentì il riverbero sulla propria pelle.
«Dici che costa?». Ryūichi si finse sorpreso.
«È naturale. Te ne intendi, questo lo sai di sicuro».
Quanto a vini, Ryūichi non era meno esperto di lei. Se aveva speso 7000,
8000 yen, non era pensabile che non fosse riuscito a comprarle un piccolo
presente. L’ansia di poco prima tornò a invaderla. Passi per tutte le altre
volte, ma era la vigilia di Natale!
«Allora, che dici, andiamo?». Ryūichi sollevò appena il polsino della
camicia per controllare l’orologio. «La prenotazione non è per le 19?
Faremo tardi». L’orologio non era il suo solito sportivo, ma uno sottilissimo
e molto elegante.
«Che bello! È la prima volta che lo indossi, fammelo vedere». Con vera
curiosità Kazuko sollevò il polsino di Ryūichi. «Da dove viene? Te lo sei
comprato, o è un regalo?».
Si vedeva chiaramente che Ryūichi era in imbarazzo nel decidere quale
delle due opzioni. Dopo alcuni secondi di silenzio, rispose: «No, è che
quando sono stato in Svizzera per lavoro l’ho comprato in aeroporto, al duty
free, pagato una sciocchezza». Non sembrava un orologio che si compra per
poco. Sul quadrante era inciso «Leroy». Kazuko allontanò le dita dal
polsino.
Non poteva evitare che il dubbio riaffiorasse: se può permettersi di queste
cose, perché sono sempre io a pagare per il ristorante? Kazuko, poco
convinta di quelle spiegazioni, prese la sua giacca di visone dalla spalliera
della sedia e avviandosi alla porta stava per prendere anche quella di lui.
«Thank you» disse Ryūichi, tendendo la mano, ma in quel momento
l’occhio di Kazuko finì sull’etichetta; lesse: Armani. Giacca e pantalone di
Armani, quanto possono costare? Più o meno poteva immaginarlo. Si
rabbuiò, di nuovo tormentata dal dubbio.
«Allora? Che ti succede? Sbrighiamoci».
Ryūichi alzò la testa per guardarla in faccia. «Ti senti male? Non hai un
bel colorito».
«Infatti… è così. Mi sento uno schifo» disse Kazuko con la voce rotta.
Nell’ingresso si vedeva l’interno della scarpiera, aperta a metà. Lui, che di
solito era tipo da jeans e sneakers, aveva sui ripiani cinque paia di scarpe di
ottima fattura, in pelle morbida e dalla forma ricercata. Ryūichi si accorse
dello sguardo indagatore di Kazuko e, disinvolto, la chiuse.
Mentre lui era in attesa, Kazuko sbirciò di nuovo tutta la stanza, senza
fretta. Non vedeva niente di anomalo. Oltre alla bottiglia vuota di Chablis.
Nient’altro che il monolocale di un fotografo squattrinato. D’un tratto,
l’armadio attirò la sua attenzione. Con decisione, vi si diresse. Dietro di lei
Ryūichi brontolava qualcosa, ma intimargli di tacere e aprire un’anta
dell’armadio fu un tutt’uno: a occhio e croce, dentro c’erano appesi almeno
dieci vestiti da uomo di marca, una giacca in pelle di daino e un cappotto di
cachemire. Sentì gli occhi bruciare, come trafitti da aghi conficcati nelle
tempie.
«Mi spieghi che significa?» chiese voltandosi a guardare Ryūichi. Lui,
insopportabilmente impassibile, era lì in piedi che sbatteva le palpebre,
spiazzato.
«Ma tu, piuttosto, che cavolo fai! All’improvviso vai a ficcare il naso
nell’armadio degli altri…». L’impassibilità di Ryūichi svanì in un lampo.
«Se hai i soldi per comprarti tutta questa roba, potresti pure tirarli fuori
per pagare almeno l’hotel!» disse in tono tagliente Kazuko. «Uno di questi
costa sui 200.000 yen, o no?». Tirò fuori una gruccia con appeso un
completo marrone e lo gettò sul letto.
«Come uso i soldi che risparmio sono affari miei!» la redarguì Ryūichi,
cambiando del tutto atteggiamento.
«Un uomo che fa pagare a una donna la stanza dell’hotel è il peggio del
peggio!». Kazuko continuava a scrutare la stanza mentre le saliva il sangue
agli occhi.
«Allora perché ti sei messa con uno come me?».
«Perché pensavo che fossi al verde, ma che facessi del tuo meglio per
guadagnare e poterti comprare il materiale fotografico. Questo avevi detto,
e io ti ho creduto!». I calici Orfeo poggiati sul tavolo di vetro entrarono
nella sua visuale. «Le cene, i drink nei bar, gli alberghi, si sono bevuti più
della metà del mio stipendio. E nonostante questo…». La rabbia di Kazuko
aumentava, e con occhi di fuoco andava da una parte all’altra della stanza.
«E nonostante questo, veniamo a te, e a tutto quello che sei stato capace di
comprarti: vestiti di Armani, cappotti di cachemire, scarpe italiane…». La
mano di Kazuko si tese verso uno dei bicchieri; lo afferrò.
«Ferma!!!» gridò Ryūichi, stridulo: troppo tardi, il calice volava in aria,
Ryūichi lo vide arrivare mentre, ancora pronto per uscire con le scarpe
indosso, urlava: «Sei proprio una stupida! Fermati!».
Kazuko afferrò con tutte e due le mani gli altri cinque bicchieri e con tutta
la forza che aveva in corpo li scagliò contro la parete. I calici andarono in
mille pezzi e i frammenti si disseminarono in ogni dove di quello spazio
angusto.
«Che donna stupida» riuscì a dire dopo un po’ Ryūichi, in tono trattenuto.
«Ora che l’hai fatto, che cosa cambia?».
«Cambia che mi sento sollevata» mormorò Kazuko con lo sguardo perso
tra i frammenti di vetro sparsi. Si sentiva sollevata, sì, ma il vetro,
polverizzatosi in infinite schegge sottili, sembrava aver trafitto ogni angolo
del suo corpo.
«Le donne, io non le capisco» sentenziò Ryūichi mentre prendeva la
giacca appoggiata sul letto. «Se fossi stato uno squattrinato sarebbe andata
bene, se anche avessi i soldi che cosa cambierebbe? Siamo stati bene
insieme. Abbiamo mangiato bene, abbiamo fatto l’amore alla grande.
Mettiamo che tu non avessi avuto soldi e avessimo pagato tutto con i miei,
mi spieghi quale sarebbe la differenza? Non cambierebbe niente, o no?».
«Non è così. Non me ne importa dei soldi. È qualcosa che tu non capisci».
«Ah sì? E sarebbe? Siamo stati bene insieme, sì o no?».
Sì, erano stati bene, se l’erano goduta. E avrebbero potuto trascorrere
ancora giorni piacevoli.
«Non posso fare a meno di pensare che stasera mi sarebbe bastato un
semplice pensiero da parte tua, anche solo una rosa». Disse a mezza voce
Kazuko mentre si buttava sulle spalle la giacca di visone. «Una rosa ti
sarebbe costata neanche un decimo dello Chablis che hai stappato ieri sera».
Kazuko si fermò, la mano sullo stipite della porta.
«Con ciò vuoi dire che è finita tra noi? È l’ultima volta?» risuonò alle sue
spalle la voce di Ryūichi.
«Non credi sia il caso?» rispose lei senza voltarsi. Ryūichi sospirò e infine
disse: «Mah… che possiamo farci. Comunque io pensavo che stasera
avremmo mangiato fuori e… il frigo è vuoto».
Ascoltandolo, a Kazuko improvvisamente scappò da ridere: lei gli stava
dicendo che era finita, e lui pensava agli scomparti vuoti del frigorifero.
«A quest’ora ce ne sono ancora di supermercati aperti» disse sorridendo;
nell’aprire la porta una folata gelida le sferzò il viso.
«Ma io non ho soldi».
«Allora puoi portare un Armani al banco dei pegni». Kazuko torse il
busto per voltarsi, per strappargli un ultimo sguardo.
«Il banco dei pegni, dici. Farò così». In cuor suo sentì che lui si trovava in
un’impasse, ma gli si leggeva in volto il dispiacere e, contemporaneamente,
da Ryūichi spirava un’aria di positività. Proprio come la prima volta che le
aveva detto spensieratamente: «Io non ho soldi».
«Va bene. Hai vinto, andiamo!».
«Cosa?».
«Se andiamo subito, facciamo in tempo per la prenotazione da Maxim’s».
In quell’istante Kazuko vide il volto di Ryūichi rasserenarsi e aprirsi in un
sorriso sincero.
«Ok» annuì, prendendo la giacca del completo. Poi infilò la mano nella
tasca dei pantaloni e tirò fuori un po’ di spiccioli. «Direi che con questi una
rosa riesco a comprarla».
Uno di fianco all’altra, come due innamorati felici, si diressero verso le
luci della vigilia di Natale, per mangiare insieme un’ultima volta.
L’orecchino di giada

Era piccolo, ma autentico. Una gemma che faceva pensare al verde


profondo di un lago. Aveva la forma allungata di una lacrima. La montatura
era in oro finemente lavorato, una volta messo all’orecchio dondolava senza
sosta.
«Devi farti i buchi, altrimenti lo perderai!» era l’esortazione di tutti. Ma
Yōko non ne aveva nessuna voglia. La madre le ripeteva da sempre che la
buona sorte l’avrebbe abbandonata dileguandosi attraverso i buchi, ma che
ciononostante doveva farseli.
«Il tuo signor nonno, prima della guerra in Cina, aveva accumulato un
patrimonio. Tutto quel che resta è quella giada» diceva, aggiungendo che
era colpa della nonna, che le aveva fatto fare i buchi per gli orecchini. Forse
non era stata colpa dei buchi, piuttosto la loro sorte si era ribaltata a causa
della guerra e delle fluttuazioni della borsa.
Il fatto è che la madre di Yōko aveva trascorso la sua gioventù a
Shanghai, servita e riverita, vivendo nel lusso; non lo aveva mai
dimenticato e attribuiva la colpa di tutto alla nonna. Quegli orecchini
andarono a Yōko al compimento dei suoi vent’anni. La madre non avrebbe
avuto la fortuna di godere di quel verde prezioso nell’ultima parte della sua
vita. Al tempo in cui era incinta di Yōko, il padre si era fatto un’amante. La
madre affrontò la situazione a viso aperto e, come risultato, lui se ne andò,
senza più farsi vivo per alcuni anni. Poi il padre si stancò dell’amante, o
forse avvenne il contrario; di certo, all’improvviso, lui tornò a casa, ma
aveva già il cancro, e nel giro di tre mesi trapassò, a soli trentacinque anni
circa. La madre di Yōko, senza versare una lacrima, disse che era tornato
solo perché provvedessero al suo funerale. Desiderava accompagnare la
figlia almeno fino alla cerimonia della maggiore età1, ma anche lei se ne
andò che aveva poco più di quarant’anni.
In sostanza, lasciò alla figlia solo quegli orecchini di giada della nonna.
Yōko immediatamente li fece rifare, a forma di cerchio e da fissare con una
vitina. Poiché la nonna li aveva acquistati nel pieno della prosperità in una
gioielleria di Shanghai, le gemme erano piccole, ma di grande valore; aveva
saputo dall’orafo che rifece la montatura che, se le avesse vendute, ne
avrebbe ricavato un ammontare pari alla caparra sufficiente per comprare
un appartamento. Per quanto piccole – più o meno quanto l’unghia di un
mignolo –, l’attaccatura e il contorno erano in oro a 18 carati, quindi una
meraviglia di orecchini, che indossati saltavano agli occhi. Yōko li metteva
solo in occasioni particolari.
«C’è una persona che voglio farti conoscere, ci tengo tanto a fartela
incontrare, Yōko» la implorò Kazue con voce squillante. Dal tono, Yōko
capì che si trattava di un futuro marito.
«Che notizia, complimenti! Com’è questa persona?».
«Basterà che la incontri, e capirai. È l’occasione che aspettavo da
sempre» l’eccitazione di Kazue correva sul filo del telefono e si trasmise a
Yōko.
«Appena l’ho visto ho pensato: è lui! Sono nata perché prima o poi ci
incontrassimo. Mi credi?».
«Certo che ti credo». Nel risponderle, Yōko sentì aghi infilzarlesi nel
petto, e poi dolore. Provava invidia per l’amica che aveva appena preso
all’amo la felicità, e l’invidia la faceva sentire come se fosse rimasta lei
sola, l’ultima. Ma scuotendosi da quel pensiero e imprimendo forza nella
voce, disse: «Sarò felice di incontrarlo, grazie. Penso sia proprio una bella
cosa, no?».
«Sì, infatti. Sai, anch’io ho già ventisette anni, mi salvo sul filo di lana!».
La Kazue di sempre non si sarebbe lasciata sfuggire quel modo di
esprimersi. Non si era curata di poterla ferire, forse perché ebbra delle
future gioie?
«Veramente anch’io ho ventisette anni» rimarcò intenzionalmente
spiritosa Yōko.
«Scusami, non l’ho detto apposta». Ma Yōko non ne era affatto convinta.
«Vedrai, troverai anche tu la persona giusta» continuò Kazue allegra. «La
prossima volta sarà il tuo turno, e io verrò a conoscerlo per te».
«Sì, ci conto» disse piano Yōko, ma nel frattempo era già stata sopraffatta
dalla mestizia e da un pesante disagio. Non c’era nessuno in vista per lei, né
un uomo che potesse considerare un amante. La possibilità di un o-miai,
come era stato per Kazue, era fuori discussione per una come lei, orfana e
ormai considerata zitella; ma questo preferiva non dirlo. I tradimenti del
padre l’avevano profondamente segnata; con gli uomini stava sulla
difensiva, nutriva un certo scetticismo e non era tipo da gettarsi anima e
corpo in un amore. Non poteva confessarlo a chicchessia, ma alla sua età
non era mai ancora stata con un uomo. Naturalmente non lo aveva detto
neppure a Kazue. Insinuante, raccontava invece di aver avuto esperienze
con quattro, cinque uomini diversi, come sarebbe stato normale.
«Mah, un paio di candidati ci sarebbero…». Yōko, cambiando tono, le
rifilò la bugia attraverso la cornetta. «Non c’è fretta, credo».
«Esatto, è così. Io penso che, quando meno te l’aspetti, tra quelli che
incontrerai ci sarà chi ti farà sentire la scossa e diventerà tuo marito, sai?».
«Ma certo, andrà così» si sforzò di dire spensieratamente Yōko, ma
invece le era uscito un sospiro e, ferita dal suo stesso tono, chiuse la
telefonata.

Era il giorno stabilito e, appena l’ufficio chiuse, Yōko si precipitò in bagno


a rifarsi il trucco con maggior cura del solito. Le donne invitate al banchetto
di nozze dell’amica sono sempre più in tiro della sposa, si dice, e forse
anche lei aveva qualcosa in comune con quello stato d’animo malizioso;
tirò fuori dal piccolo portagioie gli orecchini di giada e li indossò, non
poteva evitare di pensare a quel detto.
Sul suo incarnato, per natura vicino a una leggera abbronzatura, appena
dorato, il verde profondo delle gemme stava d’incanto: lo specchio
restituiva una Yōko raggiante. Soddisfatta, roteò leggermente la testa due o
tre volte per vedere gli orecchini dondolare. Un orecchino che dondola
esalta la femminilità, pensò. Perché sono arrivata a quest’età e gli uomini
mi hanno messa da parte? Non ci posso credere.
In men che non si dica, non la tristezza, ma una rabbia furiosa
s’impadronì di lei. Perché non mi vogliono? Perché i loro sguardi non si
fermano su di me? Perché sono stata lasciata indietro, io, sola? Perché
Kazue ha trovato un uomo, e io no?
Nello specchio, le pupille di Yōko erano schegge incendiate.
Kazue e il fidanzato erano già nella hall dell’hotel prescelto. Lui lo
vedeva seduto di spalle, in diagonale rispetto a Kazue, ma tra loro era
palpabile una profonda complicità. Non sembrava proprio che si fossero
appena conosciuti in un incontro combinato, l’atmosfera era quella che
contraddistingue due innamorati.
«Scusate, ho fatto tardi!» disse Yōko, in piedi, quasi a sfiorare il fianco
dell’uomo, di fronte a entrambi. «È da molto che aspettate?».
Lui sollevò lentamente lo sguardo su Yōko. All’istante, lei ebbe la
sensazione inequivocabile che una scossa elettrica la percorresse dalla punta
dei piedi alla cima dei capelli. Sentì che stava tremando, tanto che appoggiò
la mano su una sedia lì accanto per sorreggersi. Questo è il mio uomo!
Dubitava di essere riuscita a non far trapelare il suo shock agli occhi della
coppia. Non riuscendo ancora a dominare il tremore, sprofondò nel divano
davanti a loro.
«Allora, facciamo le presentazioni» esordì Kazue con un sorriso studiato
per la circostanza. «Lei è la mia cara amica Enami Yōko; e ora, Yōko, ti
presento Kawai Soichirō-san».
Gli occhi freddi dell’uomo la fissarono senza incertezze. «Ho sentito
molto parlare di lei». Yōko, facendo appello al residuo di respiro che la sua
ansia le consentiva, aveva cercato di riprendersi e replicare mostrandosi
cool.
«Potrei dire lo stesso» disse Soichirō chiaro e diretto, «so molte cose di
lei».
«Che cosa mai Kazue le avrà raccontato di me?» lo incalzò Yōko garrula
e stridula, benché ascoltandosi dubitasse persino che quella fosse la sua
voce. Scosse leggermente la testa, sapeva che gli orecchini avrebbero
dondolato.
«Mi ha parlato di una donna meravigliosa» nel tono di Soichirō non vi era
traccia di adulazione. «Tra donne, non è usuale che una dica di un’altra che
“è meravigliosa”».
«Spero che incontrare l’originale non la deluda».
«Neanche un po’! – sorrise Soichirō. – Penso che corrisponda al vero».
Le parole dell’uomo arrivarono a Yōko come un fiume di coccole. Sentì il
sangue rifluire dalla base del collo e fino alle gote.
Quest’uomo deve essere mio! Ripeté di nuovo a sé stessa, percependo
l’eco delle proprie parole. Non di Kazue, mio! Anch’io ho ventisette anni e
sono vissuta fin qui al riparo del destino per poterlo incontrare oggi.
L’uomo che adesso ho di fronte è il mio uomo.
«Appena ieri ci siamo scambiati i doni di nozze» disse all’improvviso
Kazue. Yōko, con gli occhi umidi, la lingua fastidiosamente attaccata al
palato, sopportò a stento la vista dell’amica, che ora appariva più donna. Poi
tutto le si oscurò.
Per la prima volta in vita sua aveva incontrato l’uomo che doveva essere
suo, e Kazue tentava di portarglielo via. Anzi, glielo aveva già portato via.
Era una logica ingiusta, ma l’ingiustizia diventa giusta quando è amore.
L’unico amore a prima vista della sua vita.
Non lo sto rubando a Kazue. Poiché lui appartiene a me da sempre, è
Kazue che me lo sta rubando. Deve restituirmelo, a ogni costo!
Gli orecchini di Yōko oscillavano senza tregua.
I due le fecero compagnia fin dopo cena, poi pensarono che avrebbe
intuito fosse arrivata l’ora di lasciarli da soli e salutarsi, ma assolutamente
non poteva finire così. Yōko propose di andare in un bar, insomma la tirò
per le lunghe. Tuttavia, i due fidanzati, nello stato di grazia che l’amore
elargisce, riuscirono a essere molto magnanimi.
Sentendo in cuor suo che la situazione era un po’ imbarazzante, pur senza
darlo a vedere, Soichirō disse: «Prego, ti accompagniamo» aprendo a Yōko
la portiera posteriore dell’auto.
«Non devi fare complimenti» aggiunse Kazue mentre saliva davanti, al
posto del passeggero. Assistendo a tutto questo da dietro, Yōko sferzava
occhiate di odio e stilettate di gelosia verso il sedile del passeggero,
ritenendo a tutti gli effetti un abuso quello di Kazue: si era seduta lì di
diritto; ma quello è il mio posto, pensava Yōko, continuando ad agitarsi sul
sedile posteriore.
«Lasceresti prima lei, per favore?» chiese Kazue a Soichirō, con una dose
extra di dolcezza nella voce. A Yōko sembrò una lusinga eccessiva e
insopportabile.
«Non se ne parla! – disse da dietro. – Diventerebbe un giro lunghissimo.
Lasciamo prima Kazue, poi andiamo verso casa mia, per favore» si espose,
senza lasciare loro possibilità di replica, un sì, un no. All’interno dell’auto
calò una nebbia fitta.
«Pensateci, sono già le undici e mezza» aggiunse Yōko, tentando come
poteva di alleggerire il tono. «Domani questo prezioso fidanzato deve
lavorare, no?». Poi si rivolse direttamente a Kazue: «Se lascia prima te,
all’una o poco meno sarebbe a casa sua. Non è meglio se facciamo così?».
«Be’, in effetti…» rispose Kazue, rassegnata ma riluttante.
Scendendo dall’auto, Kazue scherzò: «Yōko, non provare a sedurre il mio
fidanzato, intesi?».
«Mah… vediamo, non lo so» rispose ridendo Yōko.
Poi Kazue rivolse uno sguardo colmo di fiducia e certezze a Soichirō:
«Allora, a domani».
«Mi raccomando, guarisci in fretta da quel raffreddore. Il tuo corpo, ora,
non è più solo tuo». Kazue lo salutò con un grande sorriso, si sentiva
orgogliosa e vincitrice. Yōko in quel momento, per la prima volta in vita
sua, odiò un’amica.
L’auto ripartì, e appena girato l’angolo: «Ferma!» ordinò. «Per darti
indicazioni è meglio se mi siedo davanti». Conquistato il posto del
passeggero, ribadì a sé stessa che quello doveva essere il suo posto. Le
arrivò una folata dell’acqua di colonia da uomo che usava Soichirō.
Sapeva di non avere tempo per il suo piano e già da un po’ era in tumulto.
Non sapendo come riprendere il discorso, chiese: «Che effetto ti fa aver
scelto la donna della tua vita?».
«Mah, ho pensato che fosse ora».
«Cioè? Ti sei tolto già tutti gli sfizi che volevi?».
«Più o meno, come tutti gli uomini».
«Ma sì, più o meno, è lo stesso per le donne» buttò lì Yōko, e fu come
tiragli all’improvviso uno straccio fradicio.
Mancava ancora un po’ per Awashima Dōri. Soichirō fece una smorfia per
lo straccio fradicio che lo aveva colpito.
«Spiegati, che vuoi dire?».
«Dai, non importa, cose di poco conto» disse Yōko ravviandosi i lunghi
capelli. «Quello che una donna può aver fatto, di norma, fino ai ventisette
anni».
La smorfia di Soichirō restava, ma si era concentrato sulla guida. Yōko,
così vicina a quel profilo commovente, era emozionata: voleva avvicinarlo
a sé, accarezzarlo e stringerlo al petto, ma doveva resistere al desiderio
represso.
«Una donna di ventisette anni, di norma, che esperienze avrebbe fatto?»
chiese lui in tono volutamente distaccato.
«Dipende anche dalle persone, no?». Se avesse dato una risposta
sbagliata, si sarebbe tirata la zappa sui piedi. Cercò di essere cauta. «Dici
nel caso di Kazue?».
«Mah, così, per esempio» rispose Soichirō mentre sorpassava una
macchina.
«Vuoi sapere di Kazue? Quanti uomini ha avuto?».
«…». Soichirō non rispose.
«Non meno di cinque. Ha l’aria di una santarellina, ma con gli uomini sa
il fatto suo. Le persone non sono quello che sembrano. Ma questo non sarà
un problema per te, dico bene?».
«E per quanto ti riguarda?». Soichirō non aveva risposto alla domanda,
ma chiese di lei, rigido e con un indecifrabile stupore nella voce. «Di’ un
po’, sei vergine?».
«Ti sembra che lo sia?».
«Naturalmente non si vede, ma le persone non sono quello che sembrano,
no? Secondo la tua spiegazione».
«Un po’ più avanti, gira a destra» disse Yōko.
«Ci siamo, fermati davanti alla terza palazzina».
Soichirō parcheggiò dove le aveva indicato. Silenzio.
«Se ti va, potresti salire…».
«… Lasciamo stare». Soichirō le rispose guardando il lobo dell’orecchio,
dove dondolava l’orecchino.
«Non credi sia scortese rifiutare l’invito di una donna?».
«Che tipo di invito?» fu la replica improvvisa e tagliente di Soichirō. «Mi
stai per caso invitando a venire a letto con te?».
«E se fosse?».
«…».
«Io ti amo!» dichiarò Yōko inaspettatamente. «Ti ho visto e ti ho amato,
subito» le tremava la voce. «Se tu avessi incontrato me prima di Kazue…
solo di questo non mi do pace e per questo ti sto pregando».
Dopo un lungo silenzio, Soichirō riprese a parlare: «Mettiamola così, se
mi fossi fidanzato con te e dopo avessi incontrato Kazue… bene, tra voi due
avrei scelto Kazue, e avrei anche rotto il fidanzamento con te».
«E il contrario? Non può essere il contrario? Non puoi rompere il
fidanzamento con lei?» disse senza più argini Yōko, mentre aveva voglia di
piangere.
«Assolutamente no».
«Sono così poco attraente, io?».
«Se intendi fisicamente attraente, per un uomo lo sei più tu di lei».
«…».
«Ma io preferisco una donna capace di dire che la sua amica “è una donna
meravigliosa”; una donna meschina capace di diffamare, per esempio e
nella realtà, un’amica, non mi piace, e di lei non mi fiderei».
«Ho capito» mormorò Yōko, mentre, facendo finta di niente, si toglieva
un orecchino dal lato in cui lui non poteva vederlo.
Se lui non sarà mio, neanche Kazue lo avrà.
«Non mi vorresti neanche come amica per una notte?».
L’uomo la fissò. Più che lei, fissò l’orecchino di giada che le dondolava a
destra.
«Amica per una notte?». Soichirō sembrava cominciare ad animarsi.
«Onestamente è difficile opporre resistenza». La sua voce era ormai scesa
di un tono. «Se solo tu non fossi un’amica di Kazue…».
«Io sono una che non parla. Le donne, contrariamente a quanto si pensa,
per queste cose hanno la bocca cucita».
Gli occhi dell’uomo, fissi sull’orecchino, cominciarono a farsi pesanti,
come ipnotizzati.
«Piuttosto il pericolo sei tu, che col tuo cuore tenero, preso dai rimorsi di
coscienza, finirai col confessare tutto».
«Non voglio dirle bugie» disse lui, ormai totalmente confuso.
«Non sarà una bugia». Le parole di lei lo titillarono come una carezza. «È
solo che non le dici la verità, dire una bugia è tutta un’altra cosa».
Yōko, scrutando il fondo dei suoi occhi, capì che l’idea gli piaceva.
Spinse la portiera per scendere dall’auto. Mentre lui dall’altro lato stava
chiudendo, Yōko, con destrezza, lasciò scivolare un orecchino nello stretto
spazio tra il sedile e la portiera. Dal lato del guidatore era impossibile
vederlo, ma chi si fosse seduto dal lato del passeggero lo avrebbe visto
subito, senza difficoltà, anzi, avrebbe attirato occhi indagatori.
Dopotutto sono una vergine, si dette la sua giustificazione Yōko. Quello
era il suo risarcimento: ferire tutti e due. Anche se lei non avesse mai
parlato, anche se Soichirō avesse fatto l’innocente e mantenuto la bocca
chiusa, l’orecchino avrebbe eloquentemente raccontato tutto a Kazue.

1
All’epoca in Giappone si era maggiorenni a vent’anni. Con la riforma del codice civile, approvata
nel 2018, la maggiore età è stata abbassata a diciotto.
Scorci di felicità

Una volta sistemati i volumi nella libreria a muro che occupava un’intera
parete, avrebbe potuto mettersi tranquilla. Il verde lucente del tappeto
erboso era visibile attraverso i passamano bianchi della veranda, nuovi di
zecca. Il giardino era un fazzoletto di terra di circa 70 metri quadrati,
appena 20 tsubo.
Nel mio giardino… arrivano i raggi del sole! Questo pensava Reiko con
ancora i libri in mano, e lo sussurrò a mezza voce a sé stessa. Le mie
stanze… la mia libreria… la mia camera da letto… la mia casa! Tutto,
proprio tutto, era nuovo.
In tutta la casa si sentiva l’odore della vernice, del linoleum sul
pavimento, della colla per la carta da parati, e dal tessuto delle nuove tende
proveniva l’odore della formalina. Naturalmente la casa non era solo di
Reiko. L’avevano tirata su in due, il marito Yotarō e lei. Per essere precisi,
Yotarō aveva chiesto un prestito fiduciario alla banca e si era fatto anche
anticipare la liquidazione, e quando finalmente avevano avuto i soldi a
disposizione avevano comprato il terreno, 60 tsubo, circa 200 metri
quadrati, e costruito la casa nuova.
Avere quella casa, a cui la pittura bianca dava un aspetto coloniale, più
che di Yōtaro, era stato il sogno irrinunciabile di Reiko. In realtà si erano
allontanati dal centro di molto. «A soli 90 minuti da Ginza» recitava una
réclame, e si riferiva al tempo necessario per raggiungere il centro una volta
saliti sul treno. Non considerava quanto ci volesse per arrivare a salire su un
treno. Prima c’erano 15 minuti abbondanti di autobus, più l’attesa del
mezzo, una decina di minuti. In definitiva, dall’uscio di casa fino all’ufficio
di Marunouchi e al timbro del cartellino ci volevano 120 minuti. Due ore.
«Col tempo, compreremo una macchina usata, così verrò a prenderti e ti
accompagnerò alla stazione» aveva cercato di rabbonirlo Reiko.
«Una macchina, e chi la comprerebbe?» commentò Yōtaro con un sorriso
amaro. «Per pagare i prestiti devo già farmi in quattro, non abbiamo un solo
yen da sperperare».
«Infatti ho detto col tempo».
Intanto, chi si faceva quel tragitto per andare e tornare dal lavoro era
Yōtaro, non Reiko. Lei era un po’ in pena ma, quantunque fosse la moglie,
non arrivava a mettersi al suo posto e a provare realisticamente la fatica
dell’andirivieni dal lavoro. Del resto non poteva che augurarsi che col
tempo si sarebbe abituato e che quello sforzo non diventasse troppo
gravoso. Comunque, e nonostante tutto, lei era felice. Non stava nella pelle
nel sentire quella felicità pervaderla. Era un giorno di maggio e i raggi del
sole rifulgevano. La brezza che entrava dalle finestre era carica di ozono e,
forse per il suo umore, lei vi percepiva qualcosa di lacustre. La baia di
Sagami non era distante. Reiko era avvolta dall’odore di buono della nuova
casa, ed era lì, da sola. Si sentiva traboccante di riconoscenza e d’amore per
il marito.
I figli sarebbero tornati da scuola solo alle tre del pomeriggio, fino ad
allora quello sarebbe stato il suo castello, tutto per sé.
Con ancora i libri in mano, uscì nella veranda e dette uno sguardo al
giardino tutt’intorno; i mattoncini rilucevano leggermente, lì intendeva
sistemare un piccolo barbecue con il relativo occorrente, infine un gazebo
in ferro dipinto di bianco con sedie e tavolo da giardino. Con ciò, il suo
sogno sarebbe diventato pura realtà. Rientrò, si accinse di nuovo a sistemare
i volumi nella libreria a muro.
Mancava poco a mezzogiorno, i libri erano al loro posto e la cucina era
pulita a dovere. La teiera, le pentole, le salse erano tutte riposte. La cucina
era linda, sembrava uscita da una rivista occidentale. Reiko andò in salotto
con una tazza colma di caffè, poi ci ripensò e tornò in sala da pranzo;
giammai che una goccia di caffè macchiasse il tappeto nuovo. Si sedette su
una sedia della sala e si accese una sigaretta. Fu un attimo, il suo sguardo
finì assorto nel fumo che emetteva. Spense la sigaretta nel portacenere che
era sul tavolo. Era uno di quelli che aveva appena lavato, sparsi in tutta la
casa. Nello spegnerla, l’aveva schiacciata ad angolo acuto. Quel mozzicone
e la punta nera del cerino usato la irritavano, le rovinavano la vista
d’insieme. Prese il portacenere e andò in cucina a lavarlo.
Per il momento non c’era nient’altro da fare. La casa era tirata a lucido, le
cose giuste erano al posto giusto. Inevitabilmente, i bambini tornati da
scuola avrebbero lasciato in giro un mucchio di roba, ma fino a quel
momento tutto sarebbe stato in ordine. Fino ad allora non c’era altro da fare,
se non rimirare la stanza compiacendosi, quanto voleva.
Reiko sospirò. Camminava lentamente da una stanza all’altra, spesso si
fermava, assaporando la felicità; sedette di nuovo sul divano e accese
un’altra sigaretta. Non lo guardava, ma nella sua visuale entrava il manto
erboso del prato. Il giardino visto dal pianoterra sembrava un po’ più grande
che dal primo piano. Ora i raggi del sole erano più intensi, la terra riscaldata
sprigionava vapori ondeggianti nell’aria. In quella pace avvertì una vaga
sonnolenza. L’odore di nuovo dei materiali edili della casa rifinita di fresco
traspirava ovunque, una felicità incontenibile le stringeva il cuore.
Mi sento triste, pensava Reiko. Quel pensiero divenne un suono articolato
appena tra le labbra, cogliendola di sorpresa. Aveva ottenuto tutto quel che
desiderava, non aveva più nulla di cui preoccuparsi, ormai. Il castello
sarebbe stato suo per l’eternità. Anche se, una su mille, fosse mai accaduto
qualcosa a Yōtaro, avrebbe potuto onorare i debiti con l’assicurazione sulla
vita stipulata a suo favore. Questo la faceva sentire un po’ in colpa, ma del
resto era la verità.
Il futuro non era più un problema: possedeva una casa, l’aria tutt’intorno
sprigionava la fragranza della nuova costruzione, il giardino era baciato dal
sole, poteva lasciarsi andare a un piacevole torpore, il cuore le scoppiava di
felicità. Allora perché mai sentiva una vena di tristezza?
Forse mi sono concessa troppo, si disse piano. Compatirsi per essere
troppo felice, no; doveva pur porre un limite al suo atteggiamento. Tuttavia
sentiva una commistione di tristezza inscindibile dalla felicità. Scorse con
lo sguardo tutta la stanza in perfetto ordine. Questo è il mio mondo. È tutto
il mio mondo. Era chiusa dentro una scatola quadrata nuova fiammante. In
un breve lasso di tempo aveva perso tutto quello che c’era prima: sogni,
occasioni, vaghe opportunità? Sì, tutto finito, pensò.
Con questo, in un certo senso la mia vita è conclusa. Non mi resta che
lasciar sfilare i miei anni dentro questo contenitore, e un po’ alla volta
vedermi sfiorire. Eppure ho solo trentasei anni…
… Non desidero occasioni illimitate e al momento non penso neppure di
voler cambiare la mia vita. Inoltre non sarebbe assolutamente possibile per
me lasciare questa casa, ma se, e dico se, avessi voglia di un cambiamento,
vorrei poter assaporare quella sensazione.
… Mi sento come prigioniera in questa casa nuova, mentre il mio tempo
si allontana; potrei a un certo punto accorgermi che mi spuntano le vene
blu sulle mani, o le borse scure sotto gli occhi. Non lo sopporterei. In
definitiva, quello che non ho fatto prima non lo farò mai nella mia vita
d’ora in avanti, è molto probabile. Avere una casa non è tutto.
Sì, essere arrivata ad averla è importante. Ma la passione?
L’eccitazione? Non secondo i canoni stabiliti, ma quell’eccitazione che ti
travolge, un tocco che ti scuote, quel tipo di eccitazione? Deve essere ora, o
è qualcosa che non accadrà per il resto della mia vita, ne sono certa.
Reiko era divorata dalla bramosia, nel contempo sentiva qualcosa pesarle
sulla coscienza, come se un pensiero gelido la opprimesse. Si cinse con le
mani il petto, stringendosi forte.

«Ehi, qual buon vento?». Tamura riesumò quell’espressione trita, dopo sette
anni che non si vedevano.
«Non dire banalità». Erano in un bar del centro di Tokyo. All’ora di
pranzo, come prevedibile, non c’erano giapponesi a bere, ma solo pochi
stranieri.
«Dicevi che hai comprato una casa? Ti è andata bene, mollando me e
prendendo lui come marito».
«Infatti. Sono stata lungimirante».
Arrivò il drink, di lì a poco ne ordinarono un altro. Il bar intanto si era
svuotato.
«E…?» disse Tamura alzando lo sguardo.
Reiko fissò per qualche istante gli occhi dell’uomo, poi abbassò
insistentemente lo sguardo sulla bocca. Tornò agli occhi di Tamura: era un
codice tra i due, inequivocabile e comprensibile solo a loro.
«Ti dico qualcosa di bello» sussurrò Reiko con voce roca. «Sei in debito
con me di seimila volte di “quella cosa”» disse come se stesse leggendo un
copione.
«Seimila? Come saresti arrivata a questo calcolo?» rise Tamura.
«Pare che, dopo sposati, sia il totale delle volte che si fa tra moglie e
marito, in tutta la vita».
«Che faccia tosta, dopo che tu mi hai piantato!».
«Io? Quello che tergiversava e rimandava le nozze non eri tu?».
«Sì, ma intendevo per poco».
«Acqua passata». Reiko distolse lo sguardo. «Piuttosto… invitami a
letto».
Tamura si fece serio all’improvviso, con un cenno di assenso ingollò
l’ultimo goccio di whisky e si alzò in piedi.

Scostando le tende, una fioca luce pomeridiana rendeva la stanza in


penombra.
«Non essere troppo gentile con me» mormorò Reiko mentre tirava giù la
lampo sul retro. «La gentilezza non è quel che voglio» continuò togliendosi
l’abito.
Lasciò cadere gli slip accanto al letto e scivolò tra le lenzuola.
«Che hai? Sei insoddisfatta? Non sei felice?» chiese Tamura tendendole la
mano. Lui era un po’ in ansia.
«No, non è questo» sussurrò Reiko rispondendo alle carezze di lui. «Anzi,
sono felicissima. Ho una casa con un pezzo di terra in un posto carino in
periferia. Tu ti stai facendo una donna di mezza età baciata dalla buona
sorte».
«Non capisco. Una donna baciata dalla buona sorte… allora perché?»
abbozzò Tamura, ormai di peso su di lei.
«Proprio perché è baciata dalla buona sorte». Lui riuscì solo a rantolare
un sì, ma non poteva già più dire altro. Era totalmente preso dal fare
l’amore con lei. Anche lei lo era, voleva con tutta sé stessa ricevere e dare
tutto.
Poco dopo lui si scostò, Reiko emise un sospiro e si alzò.
«Mi devi ancora 5999 volte, ricorda».
«Va bene, un paio posso dartele subito» rise Tamura sotto i baffi.
«Non se ne parla. Adesso non ho tempo» rispose Reiko raccattando gli
slip.
«Vai proprio di fretta, eh?».
«Hai questa impressione?».
«Non è così?».
«Mettiamo che dicessi: “Non mi va di andare, voglio restare qui con te,
così”. Saresti imbarazzato, tu. O sbaglio?».
Tamura chiuse gli occhi: «Sì, credo che lo sarei».
«Ecco perché fingo di avere fretta di tornare a casa. Capito ora?».
Tamura allungò la mano e le accarezzò i capelli. Quel gesto fu il più
tenero che ebbe per lei in tutto il giorno.
«Tanto ci vediamo ancora, vero Reiko?».
«Sì, certo. Non so quando».
«Che vuol dire non so quando? Stabiliamo un giorno. Una volta alla
settimana voglio vederti».
«Non mi piace che sia un’abitudine».
Comunque, in ogni caso sarebbe diventata un’abitudine, una volta alla
settimana. Reiko sentiva che il suo desiderio di sottrarvisi potesse
trasparire. «La tua proposta non è per incontrare me, ma per farlo con me. È
così. O forse mi sbaglio?».
«Hai proprio lo stesso tono di un tempo» disse Tamura leggero, con una
sfumatura di nostalgia per il passato. «Sì, è così. Voglio di nuovo andare a
letto con una di mezza età, che ha un marito, che vive in periferia, dove si è
costruita una bella casa. Lo trovi sbagliato?».
«No, non è questo» replicò Reiko virando verso il tono leggero di lui, ma
non era quello che lei desiderava. «Ti chiamo io» concluse aggiustandosi
l’abito indosso.
«Sei sicura di non volermi far restituire un paio di volte oggi stesso?» la
stuzzicò ancora Tamura dietro di lei.
«Certo che lo sono» fu la replica di Reiko, senza neppure voltarsi. «Tra un
paio d’ore devo avere l’espressione di una mamma con i bambini. Poi tra
quattro, cinque ore, quella di una moglie premurosa». Un velo di tristezza si
era insinuato nella sua voce, non poteva evitarlo. Come avrebbe
riconquistato con naturalezza quei ruoli, se nelle sue parti basse fosse
rimasto a smuoversi l’equivalente dello sperma di tre amplessi?
«Ciao1».
Reiko uscì furtivamente dalla stanza dell’hotel.
Il mattino seguente Reiko salutò sull’uscio la famiglia, poi, finito di bere
il suo caffè, prese l’aspirapolvere e tirò a lucido la casa. Non ci volle molto
e non restava tanto altro da fare. Se fosse andata in autobus al supermercato
di fronte alla stazione a fare la spesa, avrebbe ammazzato il tempo per due,
tre ore al massimo. Non aveva alcuna voglia di scrivere lettere o telefonare
ad amici. E nella libreria non trovava nulla di attraente da leggere.
Pensava spesso a Tamura. Chiamarlo appena dopo un giorno era fuori
discussione.
Una settimana? Si chiese sospirando. Sentiva di essere rimasta impigliata
nella trappola che lei stessa aveva costruito. In quel momento non le
riusciva proprio di pensare a sé stessa come a una donna felice.
Le tornò in mente la risposta confezionata la sera prima per il marito, che
le aveva detto: «Sei stata fuori un bel po’». Lei senza batter ciglio aveva
replicato: «Scusa, mi hai cercata?».
«Sì, avevo pensato di chiederti se ci fosse qualcosa da comprare mentre
tornavo a casa» aveva spiegato Yōtaro. «Uscire per fare la spesa è
scomodo. Dov’eri andata?».
«Sono andata ai grandi magazzini a vedere i mobili da giardino». Per
Reiko mentire fu molto facile, ne restò sorpresa.
«Allora hai tutto il denaro che serve». Il marito non dubitava
minimamente di lei.
«Ho scelto il pagamento a rate, naturalmente. Dodici. Non è una grande
cifra». Reiko pensò che dopo questa sfacciata dichiarazione doveva recarsi
a comprare tavolo e sedie.
A una settimana da quel dialogo, tavolo e sedie furono consegnati. Già
che c’era, aveva acquistato anche il barbecue e gli accessori. Di primo
acchito tutto le sembrava sottile, ma le sedie in ferro erano decisamente
pesanti. Erano quattro. Una per ciascun membro della famiglia. Il tavolo era
uno, rotondo. Reiko vi poggiò sopra il bicchiere con il caffè freddo, poi
sedette sulla sedia nuova.
Con ciò il suo sogno aveva trovato piena realizzazione. Trascinò la
prolunga del telefono fino a posarlo sul tavolo.
Era stata una lunga settimana, non si era mai potuta staccare dalla
cornetta. I raggi del sole picchiavano, lasciò che le sue braccia scoperte si
abbronzassero.
Le tremava l’indice nel comporre il numero. Dall’altra parte dava libero, e
rispose direttamente Tamura.
«Sono la signora Shibaki» esordì Reiko usando il cognome da sposata.
«Scusi, chi…?».
«Reiko».
«Ah… sei tu» seguì un breve silenzio.
«Avevo detto che ti avrei chiamato, no? L’ho fatto».
«Certo, certo. Me ne ero completamente dimenticato».
Io invece non ti ho dimenticato un solo momento. Ti ho pensato tutti i
giorni e tutti i giorni avrei voluto chiamarti, avrei dovuto trovare la strada
maestra per raggiungerti.
«È che, sai, dando uno sguardo al calendario mi sono resa conto di quanto
sia passata in fretta più di una settimana».
«È una mia mancanza» seguitò Tamura senza perdere il tono da travet.
«Questa settimana mi sembra difficile ricavare uno spazio».
«Accipicchia… ma non fa niente, assolutamente non preoccuparti».
«Penso possa andar bene la settimana prossima…».
«Anche per me è meglio! Ho diversi impegni e giusto mi chiedevo come
avremmo potuto fare».
«Bene… allora ci risentiamo».
Con poche, stringate parole, la telefonata fu chiusa, di fretta.
Reiko alzò le spalle, gli uomini quando sono al lavoro sono sempre
bruschi. Se capitava che chiamasse il marito in ufficio, riceveva la stessa
brusca accoglienza. Reiko non si scompose. Magari la settimana prossima
non lo chiamo, pensò. Si sentì infinitamente triste, ma, d’altro canto,
leggermente sollevata.
Il ghiaccio tintinnava nel bicchiere. Da qualche parte un passerotto
cinguettava. I bordi del prato brillavano inondati di sole. Abbagliata dai
raggi, perlustrò con lo sguardo tutta la casa. La mia casa, si disse. Il piacere
tornò a pervaderla.
In lontananza si udiva l’abbaiare di un cane. Ecco quel che ci vuole: un
cane da crescere, un white terrier! Ebbe il lampo di genio, i suoi occhi
vedevano già il cane di piccola taglia saltellare in giardino. La graziosa casa
in periferia. Il giardino curato e il prato verde. Il mobilio bianco da esterni e
il barbecue. Un marito premuroso. I figli. Infine un cane che corre in
giardino. La mappa della felicità era tracciata per intero. Alzò il bicchiere,
rivolta al cielo imitò un brindisi. Il caffè si era un po’ annacquato.

1
In italiano nel testo.
Il sogno di Cleopatra
Calici da vino

Una primavera che sapeva quasi di inizio estate.


La decisione improvvisa di andare lontano. Un fine settimana a Kyoto. Da
sola.
Consultando di tanto in tanto un ritaglio di giornale, aveva girato due o tre
locali tranquilli anche per donne sole, poi aveva fatto ritorno in hotel. Erano
soltanto le dieci. Per una donna giovane e bella come lei, sarebbe stato fin
troppo squallido andare a letto così presto. Così Yuko fece un salto al bar
dell’hotel. Oltre ad alcuni uomini e donne, presumibilmente turisti stranieri
che bevevano in silenzio, non c’erano molti altri clienti. Non era
esattamente un viaggio in cerca di avventure.
In realtà, era ormai tutto pronto, fra tre settimane avrebbe sposato quello
che era il suo fidanzato da oltre due anni. E giusto la settimana prima,
appunto perché si sposava, si era licenziata dall’azienda per cui aveva
lavorato fino ad allora. In un certo senso, non aveva mai assaporato la
fortuna di essere nata donna. Le quattro settimane di preparativi della
cerimonia erano trascorse freneticamente e in maniera concitata tra le varie
formalità. Si sentiva felice, perciò aveva voglia di farsi un viaggio da sola.
Come gli uomini trascorrevano la loro ultima notte da single andando a bere
con gli amici, Yuko sarebbe andata fuori per una sola notte. Così, senza
preavviso.
«Cosa desidera?» chiese il barista dietro il bancone.
«Un brandy, grazie» rispose Yuko. Poi aggiunse: «Un Hennessy riserva
speciale». Pensò che poteva concedersi un simile lusso.
Un paio di uomini di mezza età se la stavano mangiando con gli occhi.
Entrambi sembravano la versione ringiovanita del Colonnello Sanders del
Kentucky Fried Chicken.
Yuko, che non aveva alcun interesse né per il pollo fritto, né tantomeno
per i due zii Sanders, tirò fuori le cartoline che si era portata dalla camera.
Si trattava di quelle cartoline che di solito si trovano negli hotel. Una era
una panoramica notturna dell’albergo, l’altra invece era una veduta di
Arashiyama. Le donne, quando sono in viaggio e si ritrovano a bere e a
mangiare da sole, utilizzano alcuni trucchetti utili sia a mantenere un certo
contegno, sia a tenere lontani gli uomini: cose come aprire un tascabile, o
mettersi le cuffiette nelle orecchie. Non è fondamentale leggere veramente,
né ascoltare la musica. L’importante è che una donna sola non abbia l’aria
triste o annoiata. Anche le cartoline rientravano tra questi espedienti. Così,
per sottrarsi alle attenzioni dei due vecchietti stile Kentucky, Yuko tirò fuori
la penna e cominciò a scrivere, indirizzando la cartolina al suo fidanzato,
col quale si sarebbe sposata fra tre settimane.

Chissà come, ora sono a Kyoto. Ho visto un solo tempio, ho camminato per le rive del fiume a
Shinbashi e ho fatto un giretto tra i negozi di antiquariato. Ho trovato due calici da vino Bristol,
li compro per commemorare il nostro evento, e torno. Sono così felice da aver quasi paura.
Grazie al viaggio l’ho capito. Torno domani, Yuko.

A pensarci bene, sarebbe arrivata a Tokyo prima lei che la cartolina.


Sorseggiando il suo brandy, dette un’occhiata all’altra. Il panorama notturno
dell’albergo le fece tornare in mente quanto era accaduto una settimana
prima.
I colleghi avevano organizzato una piccola cena in onore di Yuko per le
sue dimissioni. Non c’erano più di sette persone, tra uomini e donne.
Quando poi si erano spostati in un altro locale per continuare la festa, erano
rimasti in quattro, e quando anche lì avevano finito, erano rimasti solo in
due, Yuko e Nishizaki Ryōji. Era stato del tutto casuale. Di solito non si
frequentavano granché. Non che le dispiacesse, ma non era neanche il tipo
per cui perdere la testa.
«Beviamo un altro bicchiere!» la invitò Nishizaki.
Entrambi erano già piuttosto brilli.
«Tanto è l’ultima volta, no?».
«Già» acconsentì Yuko.
Probabilmente non lo avrebbe più rivisto. Al bar successivo, Nishizaki
disse: «Ho voglia di fare l’amore con te questa sera!».
Yuko si domandò se stesse scherzando.
«Non ci resta che un’ultima volta, no?» ripeté Nishizaki.
Yuko non capì il perché, ma sentì il cuore in subbuglio. Non era la
presenza di Nishizaki, ma qualcosa in lei stessa l’agitava. Si era appena
licenziata dall’azienda per la quale aveva lavorato sei anni, rinunciando così
alla sua carriera. Poi pensò al matrimonio col suo fidanzato che si
avvicinava sempre di più. Il suo cuore era colmo di gioia e aspettative. Si
sentiva felice e malinconica al tempo stesso. E questa sua malinconia
rafforzava la sua felicità. Il cuore di Yuko fu in subbuglio per un solo
istante, quell’attimo in cui si realizza che qualcosa sta finendo, e qualcosa
di nuovo sta per cominciare. L’alcol la scaldò.
«Va bene» rispose Yuko.
Chissà, magari il diavolo ci ha messo lo zampino, pensò nella penombra
del bancone del bar dell’hotel di Kyoto. Oppure era stato per colpa
dell’alcol. No, non era così. In quel momento era pienamente consapevole
del suo desiderio. Era malinconica, e questo la eccitava. E allo stesso tempo
era al colmo della felicità, e anche questo la eccitava. Pensò che voleva far
sapere tutto questo a Nishizaki. Così decise di mandare una cartolina anche
a lui.

Ora sono a Kyoto – cominciò a scrivere di getto –, non sono in viaggio per cercare di
dimenticare quanto è successo quella sera. In realtà, l’ho già dimenticato. Ma non provo alcun
rimorso. Anzi, penso sia stato stupendo. È stato come aver ricevuto un enorme mazzo di rose da
un perfetto sconosciuto. Ero stupita, ma felice. Ti scrivo solo per dirti questo. E questa è davvero
l’ultima volta. Yuko

Yuko rilesse quelle parole, buttando giù il suo brandy. Poi si alzò in piedi
e lasciò il bar. Gli sguardi dei due vecchietti Sanders le strisciavano
addosso, dai polpacci alle cosce fin su ai glutei. Quasi da provocarle dolore.
Alla reception estrasse la rubrica e scrisse gli indirizzi su ciascuna cartolina.
Poi d’un tratto ci ripensò, e visto che la cartolina di Nishizaki aveva
l’indirizzo dell’azienda, decise di metterle dentro le buste da lettera
dell’hotel. Comprò i francobolli e andò a imbucarle.
Qualche giorno dopo ricevette una telefonata da Nishizaki.
«Grazie per la cartolina» disse lui esitante, «ma penso ci sia stato un
fraintendimento a proposito dell’altra sera».
«Eh…?». Yuko si domandò se avesse fatto bene a spedirgli quella
cartolina.
«È stato carino da parte tua comprare i calici da vino, ma dopotutto si è
trattato solo di quella volta».
«Calici da vino?».
«Be’, sai, anch’io tra poco mi sposo. Forse sarebbe meglio finirla qui».
Yuko riattaccò il telefono, bianca in volto. Aveva confuso le due cartoline!
Ora che ci pensava, dal suo fidanzato nessuna notizia…
Carta d’ingresso

Volo 643 Thai Airways.


Una business class che fa pensare all’accogliente hall di un albergo. Sakai
Shunsuke, abituato a viaggiare, riteneva che non ci fosse compagnia
migliore della Thai Airways per il viaggio di nozze, aerei garantiti al 100%.
È proprio come dice lui, pensò la neo sposa Yōko mentre, sprofondata
nella comoda poltrona, osservava il lusso tutt’intorno. Le hostess
indossavano eleganti completi thailandesi, e gli steward erano bellissimi.
Sfoderavano con discrezione ampi sorrisi, e il loro servizio era impeccabile.
Yōko sorseggiava lo champagne ambrato, pensando che la tensione e la
stanchezza del ricevimento fossero ormai acqua passata. Ripeteva a sé
stessa: «La felicità è adesso». Oltretutto, aveva finalmente trovato un uomo
come non avrebbe mai osato sperare. Bellissimo, sportivo, un uomo
brillante, laureato in un’università pubblica, con tanti interessi, e anche di
buona famiglia.
Si trattava di un matrimonio combinato ma, dopo numerosi appuntamenti,
entrambi avevano cominciato a nutrire un sentimento d’amore. Yōko,
portando alla bocca un secondo sorso di champagne, si domandò se tutta
questa felicità fosse meritata. Non conosceva uomini così affascinanti e
«perfetti» come Shunsuke. Era in grado di condurre con estrema
disinvoltura conversazioni intellettuali, citando il pensiero di autori come
William Faulkner.
«Faulkner pone questa domanda: se dovessi scegliere tra la sofferenza e la
vacuità, cosa sceglieresti?».
«Eh, già…».
A Yōko brillavano gli occhi, estasiata.
«Per esempio, tu cosa sceglieresti?».
«Io?». Yōko si concentrò. Pensava che la vacuità fosse qualcosa di
veramente orribile. Per quanto si possa soffrire, non è sempre comunque
meglio di una vita priva di emozioni? Quindi rispose: «Io la sofferenza».
«Anche per Faulkner era così» disse Shunsuke laconico. «Ma… – riprese
prontamente – secondo quanto dice Jean-Luc Godard, la sofferenza non è
altro che il frutto di un compromesso».
«Ah…». Yōko dubbiosa su chi fosse mai questo Godard, restò in silenzio,
piena di ammirazione dal più profondo del cuore. Anche quando erano
andati a vedere il film girato a New York, Hannah e le sue sorelle,
Shunsuke disquisì su Woody Allen con estrema disinvoltura.
«Woody interpreta un personaggio maschile impacciato e
sconclusionato… Si potrebbe pensare che lui stesso sia così, no?».
«Perché, è diverso?» domandò Yōko.
«Ovviamente è diverso. Cambia qualcosa di sé a seconda della sorella».
Era questo il tipo di cose per cui Yōko provava profonda ammirazione.
Shunsuke era talmente bravo a giocare a tennis da far impallidire
qualunque allenatore, e guidava come un pilota provetto. Quando andavano
insieme a teatro, o al ristorante, a causa della sua bellezza, Yōko veniva
trafitta dagli sguardi di invidia delle altre donne, tanto da star male. Un
uomo del genere era lì, sereno, seduto accanto a lei.
«Allora, Bangkok che posto è?».
«Be’…» rispose Shunsuke buttando giù l’ultima goccia di champagne del
bicchiere. «Sarà una metropoli simbolo del caos dell’Asia, in senso buono».
Yōko rimase interdetta, non era sicura di aver capito bene.
«L’Hotel Oriental, dove soggiorneremo, viene considerato il migliore al
mondo. È un punto di ritrovo frequentato da scrittori famosi che arrivano da
ogni dove».
Continuò con la solita disinvoltura: «Sedie bianche di vimini. Piante
tropicali ornamentali. Il Khlong che scorre davanti l’albergo. Personaggi
importanti da ogni parte del globo. Sceicchi arabi, Elizabeth Taylor, scrittori
premi Nobel inglesi, militari olandesi in pensione, nobili e arricchiti. Ricchi
di tutti i tipi, ospiti dell’Hotel Oriental».

Business class del volo 643 della Thai Airways. A renderla accogliente
come la hall di un albergo era il fatto che, eliminando i finestrini su un lato,
era stata creata un’intera parete su cui era dipinto un affresco molto esotico.
Ora i pensieri di Yōko erano rivolti alla Thailandia. A Bangkok.
«Comunque, pur avendo soggiornato in diversi alberghi di diversi paesi,
ritengo l’Hotel Okura di gran lunga il migliore».
Dopo aver detto questo, Shunsuke chiamò lo steward: «Excuse me!».
E ordinò un altro drink. Era raffinato anche quando parlava inglese. Yōko
pensò di nuovo a quanto amasse il marito, e prese un’altra coppa di
champagne.
Comparve la hostess con in mano il modulo della carta d’ingresso e lasciò
un foglio per ciascuno. Shunsuke tirò fuori la penna a sfera dal taschino e
lentamente cominciò a compilare il foglio.
«Non capisco molto bene quello che c’è scritto, è in inglese!».
Yōko dette un’occhiata di sottecchi a ciò che stava scrivendo il marito.
«Aspetta, appena ho finito di compilarlo te lo passo, così lo usi come
riferimento».
Poco dopo Shunsuke aveva finito di scrivere e passò il modulo alla
moglie.
«Grazie, mi sarà sicuramente utile!» disse Yōko prendendo in mano la
penna.
Nel riquadro in alto scrisse Yōko in stampatello maiuscolo. Nel riquadro
sotto scrisse Sakai. Mentre scriveva un carattere alla volta il cognome del
marito, pensò con malinconia al proprio matrimonio. Poi l’età. Ventisei
anni. Quattro anni di differenza con il marito. Il riquadro successivo era il
sesso. Lei era donna, quindi scrisse F. Fin qui tutto bene. Poi, lanciando uno
sguardo alla carta d’ingresso del marito, Yōko rimase per un attimo senza
parole.
Sotto il riquadro «Sex», Shunsuke con una grafia precisa aveva scritto:
Five times a week. Cinque volte alla settimana.
«No! Non è possibile!» esclamò Yōko senza volere, tappandosi subito la
bocca.
«Cosa…?». Shunsuke avvicinò il volto.
«Ma qui, proprio qui!».
Yōko indicò il punto in cui c’era scritto «Sex» sul modulo.
«Ah, quello? – sghignazzò Shunsuke. – Be’, in altre parole, la settimana
corta!».
«Tu… non ci posso credere…» replicò Yōko, basita. «Pensi forse che
questo indichi il numero delle volte in cui fai sesso?».
«Perché, non è così?».
In quell’istante Shunsuke osservò sconcertato il volto della neo moglie.
Di colpo, Yōko assunse una strana espressione e scoppiò a ridere. Rise fino
alle lacrime, ma, dopo, rimase in lei una strana sensazione di vacuità,
piuttosto opprimente.
Tampax

Yōko, una donna famosa per dare grande importanza all’aspetto fisico, si
era sposata. Il marito non era, come ci si sarebbe potuti aspettare, un uomo,
come dire, particolarmente avvenente. Per farla breve, apparteneva alla
categoria dei «brutti».
Le amiche pettegole avevano invaso la casa della neo sposa proprio allo
scopo di sciogliere quell’enigma. L’abitazione, a una rapida occhiata,
sembrava appena decente. Quindi non pareva trattarsi di un matrimonio di
convenienza. La curiosità delle donne era stuzzicata da quell’atteggiamento
così poco consono a Yōko, che era solita dire: «In un uomo, ciò che conta
prima di tutto è l’aspetto, poi i soldi».
«Allora, Yōko…» si fece avanti una di loro con impazienza, «ma perché
proprio Jirō?».
«Eh, già, che ne è stato di Osamu della ditta di import-export M.?» la
incalzò un’altra.
«Ma soprattutto, cos’era che non andava con quel bel tipo del Ministero
delle Finanze?».
«Dunque…» rispose lentamente Yōko disponendo di fronte a loro il
nuovissimo servizio di tazzine da caffè, «è stato per via dei Tampax».
«Cosa?!». Le donne si guardarono l’un l’altra, allibite.
«È andata così…». Yōko cominciò a raccontare.
Accadde il giorno in cui erano usciti insieme. Lui, il bel tipo del
Ministero, a detta di tutti era destinato a diventare in futuro Ministro delle
Finanze, o il John Kennedy giapponese. Aveva un portamento così elegante,
che non ti aspetteresti da un impiegato ministeriale, ed era il classico tipo
che ci sa fare con le donne. Lui, fluente in inglese e francese, e Yōko, di
ottima famiglia, avrebbero sicuramente formato una bellissima coppia.
Stavano andando alla brasserie situata al piano inferiore dell’Imperial
Hotel. Yōko era rimasta incantata da un poster di Cebu, nelle Filippine,
esposto in una vetrina. Pensava che fosse il luogo ideale per la luna di
miele, quando si scontrò con un tizio che stava venendo dall’altra parte. La
borsetta cadde a terra e si rovesciò tutto il contenuto. Capita, no?
In un baleno, il nostro futuro John Kennedy si era chinato a raccogliere il
contenuto sparso a terra, rimettendo tutto a posto nella borsetta di Yōko. Un
gesto da perfetto galantuomo.
Fazzoletti, rossetto, portacipria, calze di ricambio, portamonete,
portafogli, portachiavi e… gli occhi di Yōko e del bel tipo del Ministero si
bloccarono. Eccoli lì, due Tampax. Proprio davanti a loro.
E lui, impeccabile e senza scomporsi, la vera reincarnazione di un
Kennedy, aveva tirato fuori dal taschino un fazzoletto bianco e aveva
coperto con delicatezza il «corpo del reato», poi lentamente lo aveva preso
con il fazzoletto e lo aveva riposto al sicuro nella borsetta.
«Be’, un vero signore» sospirarono le amiche nel sentire queste parole.
Un vero uomo di mondo, candidato di certo a un futuro brillante.
«E perché l’hai respinto?» era il loro legittimo dubbio.
«La sua galanteria è stata la sua rovina. Immaginate che noia un marito
del genere?».
«Eh, in effetti…» sospirarono le donne con complicità.
«E Osamu della ditta import-export M.?».
«Lasciamo stare. Quello mi ha proprio fatto venire il nervoso!» rispose
Yōko, alterata solo a ripensarci, poi iniziò a raccontare.
Accadde il fine settimana che erano andati a Hakone. Avevano trascorso
la notte del venerdì nella camera con vista sul lago in modo piuttosto
eccitante, quando la mattina successiva…
«C’è un problema…» mormorò Yōko.
«Cosa?» chiese Osamu.
«Mi sono venute! Con una settimana di anticipo».
«Ho capito. Tu aspetta qui, io scendo al negozio a comprarti gli
assorbenti».
Fin qui tutto bene. Davvero un gesto premuroso. Poi, quando Yōko vide
quello che Osamu aveva acquistato, perse la testa. «Ma che diavolo hai
comprato?».
«I Tampax, no?».
«Questo lo vedo. Ma sono giganti!».
Insomma, aveva preso la taglia più grande! Yōko, un’evidente small,
rimase sconcertata.
«Perciò abbiamo rotto» spiegò alle amiche.
«Certo, certo» annuirono loro all’unisono.
«È proprio seccante un uomo che corre a comprarti gli assorbenti senza
che tu glielo abbia nemmeno chiesto» dissero serie le sue amiche.
Ed era finalmente il turno di Jirō: perché alla fine aveva scelto proprio
lui?
«Non dirmi che c’entrano ancora i Tampax» disse sghignazzando una
delle sue amiche.
«Be’, mettiamola così» rispose Yōko con un sorriso amaro, «ho sempre
avuto il ciclo irregolare. Non riesco mai a prevederlo. Ho incontrato mio
marito durante una riunione di lavoro. Non era esattamente il tipo a cui
avrei mai dato un appuntamento».
Jirō era un manager addetto al settore vendite, e spesso si recava nella
ditta PR, dove lavorava Yōko. Finita la riunione, una volta fuori avrebbero
dovuto prendere strade diverse, uno a destra e una a sinistra. Ma entrambi
dovevano prendere la stessa linea della metro, così si erano ritrovati a
camminare uno a fianco dell’altra, una situazione imbarazzante.
«… e all’improvviso ti sono venute?» si intromisero nel racconto le sue
amiche.
«Be’, certo, non ti mandano mica il preavviso – ribatté Yōko. – Ero nel
panico. E, per di più, indossavo una gonna bianca».
Yōko si era guardata intorno, in cerca di una farmacia.
«Che succede?» domandò Jirō.
«Mi chiedevo, non c’è una farmacia da queste parti?».
«Ha mal di testa?» domandò Jirō, cercando qualcosa nel taschino. «Ho
del Saridon, se vuole».
«Ehm, no, non è quello di cui ho bisogno» disse Yōko con un’aria
imbarazzata, «in realtà mi è venuto il ciclo. Ho assolutamente bisogno di
una farmacia» proseguì, pensando fosse meglio fare una figuraccia di fronte
al solo Jirō, anziché macchiare la gonna bianca.
«Eh, già, è un bel problema» disse lui arrossendo.
Era nervoso, poverino, si guardò intorno, a destra e a sinistra, poi le
indicò la direzione e l’accompagnò, camminandole davanti. Aveva la fronte
imperlata di sudore. Dopo due semafori, sulla destra, ecco l’insegna della
farmacia. Tese la mano destra a indicargliela.
«Allora io vado. Stia bene» così dicendo, Jirō svoltò in fretta a sinistra e
sparì tra la folla.
«Ho trovato adorabile il suo nervosismo in quella situazione» disse Yōko
ripensandoci, «è timido, ma mi ha aiutato lo stesso a trovare la farmacia…».
Così il timido e goffo Jirō conquistò il cuore di Yōko.
In quel momento si sentì il rumore della chiave nella toppa, Jirō era
tornato a casa. Nel vedere il suo volto, le donne, senza volerlo,
cominciarono a sghignazzare, e Jirō, che non capiva il motivo di quella
ilarità, arrossì e sbatté le palpebre.
Gitanes

Aprì la porta della toilette delle signore e si trovò di fronte una donna
rivolta verso lo specchio, intenta a mettersi il rossetto. Color rosso fuoco.
La donna indossava un vestito un po’ spento, a motivi neri su sfondo grigio,
perciò il rossetto era così sfavillante da abbagliare.
Nel passarle accanto, sentì un leggero odore di fumo. Yōko di riflesso
aggrottò le sopracciglia. Poi, un momento dopo, si ritrovò a pensare per
quale motivo lo avesse fatto. Ma i suoi pensieri furono interrotti dal rumore
dello sciacquone proveniente dal bagno occupato, dal quale uscì un’altra
donna.
«Oh, niente male il colore del tuo rossetto! S’intona al vestito!».
Le due sembravano amiche.
«Allora, che si dice? Ti vedo tutta in tiro. Hai un appuntamento?» chiese
la donna appena uscita dal bagno, lavandosi le mani. Yōko si diresse verso
la toilette in fondo, che era libera.
«L’appuntamento è già bell’e finito».
Sentì una voce ammiccante attraverso la porta del bagno.
«Ah, è stata una cosa veloce! E che appuntamento sarà stato mai?».
«Una tresca da pausa pranzo!» disse la donna ridendo fra sé e sé.
«Finiscila! Non ci credo!».
«Non ti prendo mica in giro. Per che cosa pensi abbiano inventato le
pause pranzo?».
«Non per mangiare?».
«Sì, per mangiare, ma cose stuzzicanti».
«E che tipo di cose stuzzicanti, scusa?».
«Quel tipo di cose di cui non si può parlare. Ci siamo capite, no?».
«Parliamo di quello che penso?».
«Ovvio!».
«Che depravata! E fai certe cose alla luce del sole?».
«Be’, non siamo mica gli unici. I love hotels durante la pausa pranzo sono
affollati di salary men e office ladies».
«Il tuo lui è un salary man?».
«È l’art director del nostro studio di design».
Tirando lo sciacquone, Yōko uscì dal bagno e cominciò a lavarsi le mani.
Le due sembrarono ignorarla completamente.
«Ed è single, questo tuo art director?».
«Ha appena compiuto trentasei anni. Ha moglie e figli».
«Ma allora hai una relazione clandestina?! Che invidia! Anch’io una volta
vorrei averne una!».
Yōko si insaponò lentamente le mani, aprì l’acqua calda e sciacquò via la
schiuma. Guardando fissa il proprio volto allo specchio, estrasse dalla borsa
il necessario per il trucco. Aveva un appuntamento con il marito Yusuke
nella hall dell’hotel alle 18:30. Quel giorno era il loro settimo anniversario
di matrimonio, così avevano deciso di andare a cena fuori. E visto che lo
studio di design in cui era impiegato il marito si trovava a Roppongi, si
erano dati appuntamento al vicino Hotel Okura.
«E dimmi, dimmi: che tipo è?».
«Difficile da descrivere. Ma, in quello, è straordinariamente bravo».
«Bravo in che senso?».
«Pensi forse che possa spiegarlo a parole?» disse la giovane donna
davanti allo specchio sistemandosi i capelli. Poi sghignazzò tra sé e sé,
come se le fosse venuto in mente qualcosa.
«Che c’è? Cos’è che ti fa ridere?» chiese l’altra dandole di gomito.
«Niente, niente. Certo che lui è strano, sai. Sua moglie non glielo fa fare
con la luce accesa. Pensa che una volta glielo ha pure chiesto: “Yōko, ti
scongiuro, puoi fidarti di me, sono tuo marito! Te lo prometto, non lo dirò a
nessuno. Fammelo fare una volta con la luce accesa!”. Quando ho sentito
questa storia, non riuscivo più a trattenere le risate!».
«Sua moglie si chiama Yōko?».
«Chissà, se l’è fatto sfuggire. Non è particolarmente importante, che sia
Yōko, o Masako o chissà che altro. Non ha niente a che fare con me».
Finito di sistemarsi, le due donne cominciarono a dirigersi verso l’uscita.
Yōko finì di mettersi il rossetto stringendo con forza le labbra per
uniformare il colore. Il volto inespressivo.
«Di solito dove ti vedi con lui?».
Si udì ancora la voce della giovane donna.
«A Shibuya. Visto che il suo ufficio è a Roppongi, non possiamo
allontanarci troppo, e nei dintorni di Roppongi è pieno di sguardi indiscreti.
Il suo unico difetto è quello di essere un fumatore accanito» disse la donna
aprendo la porta. «Fuma ovunque, in taxi, nella camera d’albergo… Inoltre,
le sue sigarette preferite sono le francesi Gitanes. Che fastidio, quella
dannata puzza di fumo che mi si impregna nei vestiti».
«Lasciano davvero una puzza tremenda, quelle!».
Chiusa la porta, le voci delle donne si interruppero bruscamente. La hall
dell’Hotel Okura era piena di gente per via dell’ora di punta. Yōko cercava
con lo sguardo la sagoma del marito. Mentre lo cercava, camminava
lentamente nella hall. D’un tratto sentì l’odore di fumo cui era avvezza.
Riconobbe il marito di spalle.
«Oh, in perfetto orario!» disse lui spegnendo il mozzicone di sigaretta nel
posacenere. Poi alzò gli occhi verso la moglie, stupefatto. «È bello vederci
anche fuori, ogni tanto. Sei bellissima stasera».
La moglie aveva un’espressione truce in volto, il marito la guardò con
un’aria perplessa. «Che cos’hai? Per caso non ti senti bene?».
«Dove sei stato oggi in pausa pranzo?».
Yusuke fissò la moglie con aria interrogativa. «Dove vuoi che sia andato,
a mangiare».
«Dove?».
«In un ristorante nei dintorni, ovviamente!».
«Giapponese? Occidentale? Cinese?».
«… uno di soba!» rispose Yusuke di getto.
«Cazzate! Sono tutte cazzate, la soba, il ristorante. Anche essere andato a
mangiare è una cazzata colossale!».
«Che ti prende? Hai un’aria furiosa! Che diamine pensi abbia fatto?».
«Tradirmi! In un albergo a Shibuya! Con una donna che indossava un
vestito grigio e nero, e una bocca rossa da seduttrice!».
Il volto di Yusuke cambiò colore.
«È una pugnalata in pieno petto, eh?».
«Ma… tu… come…». Yusuke boccheggiò come un pesce fuor d’acqua.
«Sei un verme! Le hai persino detto come mi chiamo! Le hai spifferato i
nostri segreti più intimi… Certo, di donne di nome Yōko ce ne saranno a
bizzeffe! E anche le donne che non vogliono fare sesso con la luce accesa
saranno sicuramente tante. Ma quanti potranno mai essere gli art director di
trentasei anni di uno studio di design a Roppongi, sposati con una donna di
nome Yōko che non vuole fare sesso con la luce accesa? Per di più,
fumatori di Gitanes? Te lo dico io, ci sei solo tu! La prossima volta che mi
tradisci, sceglila meglio la tua amante! Non fartela con donne che poi
sparlano delle loro tresche da pausa pranzo nelle toilette! Sempre che ci sia
una seconda occasione di tradirmi…».
Yōko, dopo aver pronunciato queste parole, se ne andò, lasciando lì il
marito, spiazzato. Che fosse il caso di passare alle Mild Seven1?

1
Marca storica di sigarette giapponesi, le più vendute nel paese. Nel 2012 cambiarono nome in
Mevius.
Carta igienica

«Ultimamente ho letto un libro interessante sul matrimonio» esordì


improvvisamente la donna dell’o-miai dopo aver aspettato il momento
appropriato, appena finite le presentazioni e i saluti di rito.
«Che libro è?» chiese Saida Takai provando un forte interesse per lei, che
assomigliava molto a Ōhara Reiko1.
«Parla degli uomini che chiedono “dov’è il burro”».
Saida si batté le mani sulle ginocchia, pensando che prometteva bene. Fin
lì era andato a ben ventisette o-miai, e tutte le donne, senza alcuna
eccezione, avevano iniziato la conversazione parlando di oroscopo e gruppo
sanguigno.
«Allora, tu di che segno zodiacale seiiih?!».
Anche questo cantilenare le iih finali, simili al nitrire di un cavallo, era un
elemento comune a tutte le donne che aveva incontrato finora.
«Sono di maggio, quindi dovrei essere dei Gemelli».
Dal momento che né il loro nitrire, né la loro incapacità di parlare d’altro
se non dell’oroscopo, suscitava in lui alcuna simpatia, Saida finiva col
disinteressarsi del tutto a loro.
«Ah, Gemelli?» dicevano le donne tutte allo stesso modo, con aria
soddisfatta. «Sembra che abbiamo un’ottima compatibilità!».
Dicevano così anche le donne nate sotto il segno dello Scorpione, con le
quali era assolutamente impossibile andare d’accordo.
Se sei un uomo di buona famiglia, di gran classe, dai lineamenti marcati,
alto e snello, e da aprile hai ottenuto una promozione con trasferimento a
New York, non puoi non avere un certo successo tra le donne.
«E di che gruppo sanguigno seiiih?».
«AB».
«Allora, sei dei Gemelli, gruppo AB… sembri proprio un carattere
difficileee!».
Sospiravano a quel punto le donne.
Non sono complicato, piuttosto sono un uomo dai gusti sofisticati, pensò
Saida. Non riusciva a tollerare le cose su cui gli uomini normalmente erano
in grado di sorvolare. Perciò era rimasto single fino a trentatré anni.
«Il burro di solito è nel frigo, no?» disse Saida allegro, sporgendosi
leggermente con il corpo.
«Eh, già, è così…» sorrise dolcemente Mukai Mariko, la donna dell’o-
miai che era la copia vivente di Ōhara Reiko.
Lui non aveva mai creduto ai colpi di fulmine e a cose di questo tipo.
Anzi, li disprezzava, considerandoli meri istinti animaleschi, una sorta di
impulso sessuale. Be’, sembrava proprio che dovesse ricredersi. E che
avesse intenzione di abbracciare con gioia il nuovo credo.
«Bene, visto che mi sembra andiate molto d’accordo…» intervenne la
moglie dell’amministratore Yamada che aveva organizzato l’incontro,
alzandosi, «vi lascio un po’ da soli, con permesso». Così dicendo uscì,
lasciando i due in salotto.
«Di solito è così – riprese Mariko, – ma in realtà quando gli uomini
sposati chiedono “dov’è il burro”, non gli interessa davvero saperlo.
Praticamente, quello che intendono dire è “prendimi il burro”. Allo stesso
modo, quando chiedono “dov’è la mia maglietta”, quello che vogliono dire
è “prendimi la maglietta”» disse Mariko con una voce dolce e nasale, e allo
stesso tempo vivace. «Quindi, se una neo moglie rispondesse “il burro è nel
frigo”, questo significherebbe l’inizio di una crisi coniugale».
Aveva un’ottima oratoria, Saida ne rimase affascinato. Così forse la vita
matrimoniale non sarebbe mai stata noiosa.
«Gli uomini, controvoglia, guarderebbero nel frigorifero, per poi dire
inevitabilmente: “Ma non c’è da nessuna parte!”. Insomma, una volta
sposati gli uomini devono essere soggetti a gravi problemi alla cornea, per
non riuscire a vedere neanche le cose che sono davanti ai loro occhi, in
bella mostra».
«Ma sai, anch’io ultimamente ho letto qualcosa – replicò Saida. –
Sembrerebbe che le donne, una volta sposate, tradiscano tutte le aspettative
dei mariti».
«Per esempio dicendogli “cercati il burro da solo”?».
«Sì, è così. Dicendo cose di questo tipo, per esempio» disse Saida
allegramente. «Ho l’impressione che andremo molto d’accordo».
«Be’, stavo proprio pensando la stessa cosa».
«Sei la prima donna che a un appuntamento non mi parla di oroscopo e
gruppo sanguigno».
«E tu sei il primo uomo che non mi dice che somiglio in qualche modo a
Ōhara Reiko».
«E se tralasciassimo tutte le fasi preliminari?».
«Dici che possiamo decidere così avventatamente?».
«Credo di essere in grado di giudicare le donne».
«Dall’alto dei tuoi ventisette o-miai?».
«No, no. Non sono cose che si apprendono in seguito a un certo numero
di casi negativi. So giudicare le donne per natura».
I due, che erano subito entrati in sintonia, decisero quindi di festeggiare il
piacevole incontro con una cena fuori e champagne, non appena usciti dalla
casa della moglie dell’amministratore Yamada.
«Aspetta un momento!» disse Mariko, ed entrò nel bagno di casa Yamada
con la scusa di andarsi a rifare il trucco.
In poco tempo si era risistemata, appariva radiosa. Ci sono donne, oggi,
che sembrano proprio non avere alcuno stimolo ad andare in bagno, anche
se è meglio averli certi stimoli, almeno così pensava Saida.
«Vado in bagno anch’io».
Questo si trovava accanto all’ingresso di casa Yamada, ed era in stile
occidentale. La metà era occupata da un semplice lavandino. Vi aleggiava
ancora il profumo di Mariko.
Ci sono donne che con trascuratezza fanno cadere a terra vicino al
lavandino un po’ di capelli e la cipria, ma ovviamente Mariko era perfetta.
Non aveva fatto cadere neanche un capello.
Mentre faceva quello che doveva fare, Saida si guardò intorno senza
osservare nulla di particolare. Poi i suoi occhi si fermarono sul portarotolo
di plastica bianco. La carta igienica che ne usciva aveva l’estremità a forma
di triangolo. Fissò il triangolino di carta accuratamente ripiegato. Mentre
guardava, sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «No!» mormorò
Saida, alzando la voce senza accorgersene. Non poteva, era più forte di lui,
non riusciva proprio ad accettare che una donna facesse una cosa del
genere. Non c’era un vero motivo per cui lamentarsi, visto che non aveva
fatto niente di male, e sicuramente il suo gesto era volto a facilitare la
persona che avrebbe usato il bagno in seguito.
Tuttavia, pur senza una ragione particolare, perse l’entusiasmo. Finché è
una cameriera a fare certe cose nel bagno di una stanza d’albergo, va bene.
O anche se lo fa una hostess di Ginza. Ma non può farlo la donna che
diventerà mia moglie. Non va bene una donna che piega l’estremità della
carta igienica a triangolo.
Pensando che anche un amore lungo cent’anni potesse dissolversi in un
secondo, Saida si lavò le mani e uscì dal bagno.
La donna gli rivolse un’espressione sorridente, davvero somigliante a
quella di Ōhara Reiko. Con quel bel viso, come ha potuto farmi una cosa
così stupida, ormai irrimediabile?
Saida era deluso nel più profondo del cuore. Poi, pensando
malinconicamente a come avrebbe potuto troncare la conversazione,
cominciò a infilarsi le scarpe.

1
Ōhara Reiko (1946-2009), celebre attrice giapponese.
I leoni di Mitsukoshi1

Jirō levò lo sguardo sui leoni di marmo all’entrata della sede centrale di
Mitsukoshi, a Nihonbashi, pensando alla donna che avrebbe incontrato di lì
a poco. I leoni, nel loro grigio scuro levigato, mettevano un po’ di
soggezione. Non c’era un motivo, ma quei grandi magazzini gli
procuravano quasi nostalgia di casa. Certo, vi si recava spesso, sia perché la
ditta dove lavorava era nei pressi, a Kyōbashi, sia perché andava a farci
spese, o a mangiare, o a incontrare qualcuno per un appuntamento. Per Jirō,
i due leoni assolvevano alla funzione di un barometro, rilevando il suo
stato, fisico e mentale. A volte, quando sembravano familiarmente complici
del suo buon umore, gli davano una carica positiva; accadeva quando si
sentiva disponibile. In quei casi emanavano un misterioso riverbero su di
lui, anima e corpo, perché in realtà mutavano, con espressioni sempre
diverse.
I leoni quel giorno… non sapeva perché, ma erano pressanti e lo
guardavano con sufficienza. Forse appariva loro incerto? Jirō si incupì.
La donna che andava a incontrare quel giorno, per la prima volta di
persona, sarebbe stata la sua partner di un o-miai. Aveva posto delle
condizioni, Jirō: l’incontro sarebbe stato informale e il luogo, per sua
esplicita richiesta, un ristorante al settimo piano della sede centrale di
Mitsukoshi, alle 14.
Forse era un po’ triste, stava per mettere definitivamente un punto alla sua
vita solitaria da scapolo. Inoltre aveva avuto notizie da Niigata, dove viveva
la madre affetta da una cirrosi epatica allo stadio terminale. Nel migliore dei
casi, sarebbe sopravvissuta sino a fine anno. La madre aveva un solo grande
desiderio: che il suo unico figlio maschio trovasse una moglie e, con l’aiuto
della buona sorte, arrivare a vedere il visino del suo primo nipote, prima di
morire. La supplica che la madre gli aveva rivolto non specificava che la
donna doveva anche essere disposta a metter su famiglia immediatamente,
perciò aveva provveduto a inviargli da Niigata una candidata possibile, che
quel giorno stava appunto per incontrare.
Aveva trentasei anni e, per vari motivi, nonostante l’età, non si era ancora
sposata, era scritto nella lettera spedita a Jirō dalla madre. Per un caso,
anche Jirō aveva trentasei anni, e la madre aveva scritto chiaro e tondo di
non lamentarsi visto che erano sullo stesso piano. L’età, in fondo, non
conta, basta che sia gioviale e che abbia un fisico sano, si era detto Jirō. La
donna che sarebbe diventata la madre dei suoi figli doveva essere generosa,
anche di bacino; questo era il problema. Un tipo ben proporzionato dal
busto in giù, un po’ in carne sui fianchi. In ogni caso, purché non fosse
proprio brutta di viso, avrebbe assecondato con pietà filiale le ultime
volontà della madre e, se lei l’aveva scelta per lui, lui l’avrebbe sposata,
pensava.
Il momento era vicino. Passato da poco il pienone dell’ora di pranzo, il
ristorante era quasi vuoto. Come stabilito, si sarebbero incontrati nella sala
d’attesa all’entrata del ristorante. La candidata dell’o-miai era già lì, seduta
spalle al muro. Poiché aveva visto una sua foto, la riconobbe subito. Era più
giovane che nella foto e davvero bella. Aveva spalle rotondette e un po’
spioventi, un incarnato candido, tipico dei luoghi dove nevica, bei
lineamenti regolari che ispiravano buon umore. Jirō sentì un chiaro tuffo al
cuore.
«Grazie per essere venuta appositamente». Dopo essersi presentato, Jirō
le fece strada all’interno del ristorante. Comportandosi da gentiluomo, le
cedette il passo verso un tavolo vicino. Da dietro, non scorto, sbirciò il
bacino, considerevolmente largo: era l’ideale.
«Che cosa preferisce mangiare?» chiese Jirō non appena si furono
accomodati.
«Io» disse lei senza indugi «gradirei cucina occidentale».
Non si direbbe, ma sono molte le donne che si defilano con un: «Per me
va bene qualsiasi cosa». In quei casi gli uomini, inevitabilmente, si sentono
messi alle corde. Le donne capaci di esprimere chiaramente i propri gusti,
senza peraltro essere invadenti, sono adorabili!
«Il potage qui è eccezionale!» fu il consiglio di Jirō.
«Ah sì?» replicò educatamente lei.
«Però il potage ha molte calorie… Io, come zuppa, prendo un consommé.
Crede che possa andare?».
«Naturalmente». Farti sentire importante, senza pose, con tanta
delicatezza, è pressoché impossibile per le donne di ventitré, ventiquattro
anni. Aumentava così la sintonia con la partner di questo o-miai.
«Non ha l’accento delle nostre parti».
«Neanche lei, mi pare».
«Be’, io sono qui da quando mi sono trasferito per frequentare le
superiori».
«Io ho conseguito qui la laurea breve, poi sono rimasta per lavoro, dieci
anni presso una ditta di import-export».
«Come mai è tornata a Niigata?».
«Mia madre si era ammalata, così sono stata richiamata a casa. L’ho
assistita per cinque anni, poi l’anno scorso ci ha lasciati».
Quindi è questo il motivo, pensò Jirō annuendo.
«Mia madre le avrà detto chissà che cosa, con le sue pretese
irragionevoli…».
«No» rispose la donna scuotendo la testa. «Se devo essere sincera, a volte
l’ho sentita più materna della mia vera mamma».
«Questo mi tranquillizza, davvero» commentò Jirō con un tono di sincera
gratitudine.
«Però io non sono più giovane, e non sono tanto sicura di piacerle. Inoltre
sua madre le avrà fatto molte raccomandazioni».
«Capisco. E mi scuso per lei. Mia madre è fatta così. Se comincia… può
andare oltre. Le avrà creato dei problemi, temo».
«No, assolutamente – sorrise la donna. – Venire a Tokyo per incontrarla
mi pare sia stata una buona idea».
In fondo, dalle sue parole scaturiva buona fede e onestà d’intenti.
«Sì, lo credo anch’io».
I loro sguardi si incrociarono in un guizzo di tacito assenso; imbarazzati
guardavano ciascuno dentro al proprio bicchiere, colmo d’acqua e con il
ghiaccio che galleggiava. Jirō non aveva sete, ma portò ugualmente il
bicchiere alla bocca e bevve. Poi, come colto da un pensiero improvviso, lo
alzò: «Alla nostra» sussurrò. Anche lei sollevò con delicatezza il bicchiere e
lo accostò appena a quello di Jirō; ebbe la sensazione che qualcosa di caldo
le si spandesse in petto.
Ci siamo quasi, è ora di tirare le somme, si diceva Jirō, e non gli
dispiaceva, anzi. Era sorpreso e al tempo stesso sollevato.
Improvvisamente, alzando gli occhi, fu colpito dai capelli della donna. Lei
aveva leggermente abbassato la testa. Aveva un’acconciatura con delle
morbide onde. Tra i capelli neri ne spuntava uno solo, bianco. In una
frazione di secondo, dentro Jirō si levò un urlo, che represse, ma che lo
straziò. Compassione e tenerezza lo inondarono, ma contemporaneamente
provò un disgusto senza pari. Un solo capello bianco gli aveva sfilacciato il
cuore.
La donna guardò Jirō con aria interrogativa. Lui, profondamente turbato,
distolse gli occhi da quel capello bianco. Il gorgoglio di gioia si era inaridito
d’un tratto, svanito per sempre. Lentamente, lasciò posto alla rassegnazione
nei suoi pensieri.

1
Questo racconto ha un titolo (三越百貨店 Mitsukoshi hyakkaten, «I grandi magazzini Mitsukoshi»)
in cui i leoni non compaiono, ma hanno un ruolo importante. I «leoni di Mitsukoshi» sono
un’istituzione, un luogo d’appuntamento, un po’ come la statua di Hachiko a Shibuya. Le statue in
bronzo furono collocate all’entrata della sede principale di Mitsukoshi, a Nihonbashi, nel 1914,
realizzate su modello dei leoni di Trafalgar Square di Edwin Landseer, poi replicate e poste
all’entrata di altre importanti filiali di Tokyo. Mitsukoshi ha avuto molte filiali anche in Europa, e
l’ultima a chiudere i battenti, nel 2021, è stata quella di Roma, che dal 1975 era stata un riferimento
per i giapponesi in transito e per gli italiani legati al Giappone. Dedichiamo questo racconto ai
rappresentanti in Italia della proverbiale ospitalità giapponese.
Senza rancore
Dopo la festa

La festa stava per finire.


I partecipanti, a uno a uno, cominciavano ad andarsene. Anch’io pensavo
che fosse ora di levare le tende, così cercai con lo sguardo gli organizzatori
della festa.
Incrociai gli occhi di un uomo che stava in un angolo di quella sala non
troppo grande. Ci eravamo conosciuti lì, e avevamo scambiato qualche
parola.
Sorrideva. Sorrisi anch’io. Mentre il sorriso gli si spandeva sul volto, mi
venne incontro. In quel momento immaginavo già come sarebbe andata a
finire.
Mi inviterà a bere… poi forse cercherà di portarmi a letto…
«Andiamo a bere qualcosa?». Fui io stessa, improvvisamente, a
chiederglielo, non lui. Le parole mi erano uscite di bocca all’improvviso;
intravedendo un possibile sviluppo, avevo sentito come l’esigenza di
cambiare il corso delle cose, piuttosto che lasciarle accadere in modo
naturale. Sarà stato istinto femminile, o forse soltanto la mia indole.
«Stavo per proporti la stessa cosa» sogghignò lui. Mi offrì il suo braccio
sinistro e io, senza esitare, mi ci appoggiai.
Poi ci dirigemmo verso l’uscita, offrendoci ai sorrisi e alle occhiate dei
non pochi ancora rimasti alla festa a chiacchierare amichevolmente.
Quando un uomo e una donna si scambiano sguardi alle feste e poi se la
svignano quasi contemporaneamente, destano sospetti e sembra proprio che
abbiano qualcosa da nascondere. Se invece escono solennemente
sottobraccio, come degli amici che si conoscono da vent’anni o come
marito e moglie, la cosa apparirà in maniera completamente diversa. Noi,
una volta fuori, con molta naturalezza, disgiungemmo le braccia. Non
eravamo così intimi da rimanere sottobraccio anche quando eravamo soli.
«Dove andiamo? – chiesi. – Ti va un locale che conosco?».
«La prossima volta. Stasera lascia fare a me» rispose lui.
Usciti dalla festa a Hibiya, quando scendemmo dalla sua auto dopo circa
venti minuti di strada, eravamo in un vicolo che sembrava di un quartiere
residenziale in periferia. Non avendo senso dell’orientamento, non avevo
assolutamente idea della zona di Tokyo in cui si trovasse quel locale. In
fondo al vicolo c’era un passaggio stretto, e lui fece strada verso l’entrata.
C’erano cespugli di rose bianche su entrambi i lati, ed emanavano un
odore dolcissimo nell’aria umida della notte.
Il locale era pieno di fiori dappertutto, e dava l’impressione di essere
un’abitazione privata. In ogni angolo, l’arredamento, sia nel tavolo che
nelle sedie, differiva per stile ed epoca. In pratica non c’era uno stile ben
definito, era un posto senza pretese.
Di mia iniziativa mi sedetti su un divano dall’aspetto morbido situato al
centro della sala, visibile a chiunque da ogni punto.
«Stai prendendo precauzioni». Lui contrasse appena un angolo della
bocca e abbozzò un sorriso ironico.
Avvicinammo leggermente i bicchieri senza brindare a nulla in
particolare.
Indossava un completo informale bianco, creato dalla bizzarria di uno
stilista. Dato che, senza che me ne accorgessi, si era sbottonato la camicia
fino al terzo bottone, era ben visibile il suo torace abbronzato. Non
indossava la catenina d’oro.
A parte questo, portava scarpe bianche che sembravano di tela, senza
calze.
«Sarò diretto – disse lui, – mi diresti francamente come sedurre una
scrittrice?».
«Non avendo esperienza in merito, non saprei dirti come» risposi,
rovinando un po’ l’atmosfera. «E se ti ingegnassi tu stesso?».
Lui guardava fisso il cubetto di ghiaccio nel bicchiere, ma poco dopo alzò
gli occhi. «Voglio farlo con te».
Stavo per sputare il whisky che avevo in bocca.
«Un approccio del genere potrebbe funzionare in certi casi, ma non è
detto che vada bene con tutte» dissi trattenendo le risa. «Su di me non fa
alcun effetto».
«Ah…» fece lui, perplesso. «Allora… io stasera sarei lusingato di poter
condividere l’alcova con lei».
«E io no».
«Non dormi con me?».
«Non sono ancora dell’umore adatto».
«Io ti desidero».
«Non se ne parla».
«Sono disperato, dammela!».
«Dev’essere uno scherzo».
«Voglio farlo con te».
«Il tuo vocabolario è davvero misero».
«Sii la mia donna».
«Non è possibile».

Era incredibile, da esattamente due ore continuava a corteggiarmi, ora


prendendomi la mano, ora facendo moine, ora con le parole; io, dal canto
mio, mi difendevo a spada tratta.
Lui era tutto sudato; io mi massaggiavo le spalle indolenzite. D’un tratto
vide il movimento della mia mano e disse: «Ti faccio io un massaggio».
«Grazie» e gli rivolsi le spalle.
«Non qui. Te lo farò come si deve in un posto dove potrai sdraiarti».
«Dovrò togliermi i vestiti?».
«Puoi anche metterti lo yukata».
«Sono quasi tentata» sussurrai massaggiandomi la spalla.
«È l’idea del massaggio a stuzzicarti, non è così? L’attrazione sessuale nei
miei confronti non c’entra, vero?».
Diedi un’occhiata fugace al suo torace attraverso il colletto aperto. Non so
perché, ma mi disturbava. Mi resi conto del fatto che, se fosse stato
abbottonato fino al collo, l’effetto sarebbe stato completamente diverso.
Con noncuranza, distolsi lo sguardo.

Quando guardai l’ora, erano quasi le 23:30.


Pensai che, se mi fossi sbrigata, avrei fatto in tempo a prendere il treno
notturno delle 23:54. La mia famiglia, compresi il cane e il canarino, stava a
Karuizawa dall’inizio di luglio. Io ero andata a Tokyo per la festa, ma avevo
pensato che, a seconda delle circostanze, sarei potuta tornare dai miei in
giornata oppure fermarmi nella casa di Tokyo.
«Dove siamo?».
«A Yotsuya».
«Da qui, correndo, con la macchina, quanto ci vuole per Ueno?».
«Con la mia auto, un quarto d’ora».
«Allora accompagnami».
Lui mi fissò per qualche istante, poi disse: «Ok» e si alzò.
Come promesso, arrivammo a Ueno in meno di quindici minuti, ci
stringemmo la mano e ci congedammo. In quel momento dissi: «Ti
telefono».
«Se mi chiamerai, sarà solo per uno scopo. Quando vorrai farlo con me,
fatti sentire».
«Va bene, farò così» dissi correndo verso il binario.
Il treno era un espresso. I sedili erano duri. Dei giovani con le racchette da
tennis, fumando, avevano reso l’aria all’interno della carrozza irrespirabile.
Io ero stanca morta e, mentre osservavo il mio volto pallido riflesso sul
finestrino, mi figuravo in un morbido letto insieme a quell’uomo.

Quando scesi alla stazione di Karuizawa erano quasi le tre del mattino.
Inspirai a pieni polmoni l’aria tipica della notte di Karuizawa.
Di colpo mi accorsi che le cose che mi ero prefigurata a quella festa erano
andate a finire esattamente come previsto. Mi ero immaginata che sarei
arrivata a Karuizawa senza intoppi, e respiravo a pieni polmoni.
In un angolo della mia mente mi era sempre rimasto quel treno delle
23:54. Se la festa finiva alle nove, il primo treno per Karuizawa sarebbe
stato quello.
Serviva un passatempo fino a quell’ora. Non ero stata invitata in maniera
casuale, ma avevo calcolato tutto. La cosa divenne perfettamente chiara
solo alle tre.
Tuttavia, nel mostrare interesse nei suoi riguardi non avevo finto. Lui era
davvero un uomo affascinante. Non capivo dove e in che modo le cose
avevano finito per cambiare.
I fidanzati delle amiche

«Se ci siete, la prossima volta ve lo presento» disse la nostra giovane amica


follemente innamorata, arrestando d’un tratto la forchetta. Era un pranzo tra
amiche, eravamo in quattro o cinque.
«Sicuro, faccelo conoscere» rispondemmo all’unisono.
«È che… ho paura del vostro sguardo spietato sugli uomini» disse lei un
po’ preoccupata.
«Ma che dici! Se piace a te, sarà senz’altro affascinante» concordarono le
altre.
Così, qualche sera dopo, si presentò accompagnata dal suo fidanzato. Lei
aveva un aspetto fiero e al contempo intimidito e preoccupato; proprio
come un agnellino, gli sedeva accanto tranquilla. Sembrava ormai un’altra
persona, addomesticata.

«Noi andiamo» dissero, alzandosi dopo aver bevuto un solo bicchiere.


«Prego, andate pure a divertirvi!» li congedammo noi.
Ecco cosa accadde dopo.
«Incredibile quanto sia tenera…».
«L’hai vista? Aveva un’aria così incantata».
«Non l’avevo mai vista in versione così dolce».
«Di solito ride sguaiatamente, con la bocca spalancata, oggi faceva
risatine composte. Davvero deliziosa. L’ho rivalutata».
Fecero questa serie di commenti, fin qui tutti positivi.
«E di lui che ne dite?» chiese una. Non aspettavano altro, e così tutte
insieme si misero a spettegolare.
«Lui sembra Toshirō Mifune nella pubblicità della birra Sapporo1».
«Però parlava a monosillabi: “Sì”, “No”, “Be’”… sarà mica stupido?».
«Comincia pure a metter su pancia, avete notato?».
«E le mani, con quella pelle bianca e molle? Mi farebbe ribrezzo se mi
toccassero!».
«Però di viso non è male, dai, anche se non è il mio genere…».
«Ma gli avete visto il colore delle calze? Erano abbinate al fazzoletto del
taschino».
«Che finezza! Proprio uno snob».
«Ad ogni modo» disse una di noi per concludere il discorso, «non è il
nostro uomo, quindi che ce ne importa».
«Sono d’accordo. Meno male che non è il nostro uomo».
Parlavamo liberamente, dicendo tutto quello che ci passava per la testa.
Trapelava tutta l’invidia di chi vorrebbe avere un compagno ma non ci
riesce.

Un altro giorno, sempre la stessa amica chiese tutta preoccupata l’opinione


delle altre.
«Allora, che ve ne pare?».
«Affascinante. Un bell’uomo!».
«Un vero uomo, di poche parole. Come ti invidio!» ebbero il coraggio di
rispondere tanto sfacciatamente. È in tali momenti che bisogna tenere a
mente di non fidarsi mai delle amiche.
Tuttavia, pericolo scampato, voto scordato, e la prossima volta toccherà a
un’altra dire: «Vorrei farvi conoscere il mio fidanzato». E, come da
programma, le amiche risponderanno: «Certo, va bene», «Ci piacerebbe
davvero incontrarlo».
Poi le cose procederanno in maniera pressoché simile. E il partner di
turno verrà spietatamente stroncato.
«La voce, per essere quella di un uomo, è stridula».
«Non aveva neppure il colletto pulito, dava un senso di sporco».
«E poi, avete visto? Portava il Rolex d’oro! L’ostentazione dei nuovi
ricchi è proprio sgradevole».
«Non è il nostro uomo, quindi…».
Persino l’amica accompagnata dall’«uomo che beve la birra Sapporo»
infierisce dicendo che ha le gambe un po’ corte.
In questi casi, perché le donne non si mettono mai nei panni altrui? Se si
sta assistendo alla critica del fidanzato delle altre, perché la logica
femminile non arriva a capire che di sicuro saranno state dette cose orribili
quando è toccato a loro presentare il proprio?
Se ci si arrivasse, imparando dagli errori altrui, non si farebbe conoscere il
proprio uomo alle amiche. Invece, a riprova, un’altra amica ancora è venuta
accompagnata. Ovviamente, di nuovo, tutte hanno sparlato a volontà di lui,
dopo.

E tutte, a poco a poco, hanno cominciato a guardarmi male.


«Tu ancora niente?». Cioè, niente ragazzo, mi hanno chiesto.
«È che non ci sono uomini interessanti» ho risposto.
«Quindi quello del racconto era una bugia?».
«Sì, perché la scrittura è pura invenzione» ho detto.
«Quando leggiamo un tuo romanzo, sembra che tu abbia una decina di
relazioni extraconiugali, anche quelle sono tutte fantasticherie?».
«Proprio così».
A quel punto, le mie amiche dal cuore gentile mi hanno indirizzato uno
sguardo compassionevole.

Anche se avessi un compagno, penso che non glielo presenterei, neanche


morta. Tanto, anche se fosse bello come Julio Iglesias, loro lo
stroncherebbero in ogni caso dandogli del presuntuoso.
Oppure decreterebbero precipitose: «Presto o tardi la scaricherà, è solo
questione di tempo». Per le donne sposate avere un amante è come
aggiungere un altro capo alla propria collezione di pellicce: vorrebbero
possederne una più bella di quelle delle altre, per farne sfoggio.
Se le donne non parlano mai bene dei fidanzati delle altre, è perché sono
gelose. E pure invidiose. Quelle che hanno solo una pelliccia corta di
procione ardono dal desiderio di possederne una lunga di volpe argentata.
Con gli uomini è lo stesso. Così le altre penseranno: «Guardatela, chi crede
di essere con quella roba addosso? Non le sta per niente bene!».
D’altro canto, mi lascia perplessa anche l’uomo che accetta incautamente
proposte del tipo: «Ti presento alle mie amiche». Che lo faccia per eccesso
di spavalderia, o che approfitti della situazione per conoscere un’altra, non
riesco a entrare nella psicologia di quel tipo d’uomo. Dal mio partner vorrei
sentirmi dire: «Per carità! Un gruppo di sole donne, non fa per me!».
Mi piacerebbe trovare una persona del genere. Poi, se invece del procione
o della volpe argentata, mi accaparrassi il pregiato zibellino siberiano, allora
non ci sarebbe altro da dire.

1
Negli anni ’70, in Giappone, andava in onda uno spot televisivo in cui il celebre attore Toshirō
Mifune beveva la birra Sapporo senza dire nulla. Incarnava l’uomo taciturno e affascinante, perché i
giapponesi considerano un uomo chiacchierone poco virile. Lo slogan pubblicitario, 男は黙ってサ
ッポロビール («L’uomo che beve in silenzio birra Sapporo»), è noto a tutti i giapponesi.
Innamorarsi

«Mi sono trovata un fidanzato» disse un giorno, all’improvviso, la giovane


donna.
«Eh? Ma non ti sei appena lasciata con l’altro?» esclamarono le amiche,
un po’ sorprese.
«Sì. Ma ora ne ho uno nuovo, che posso farci?» disse lei raggiante.
«Che tipo è?».
«Ha un bel viso».
«È alto?».
«Certo, un metro e ottanta».
«Ed è un rampollo di buona famiglia?».
«È il tipo che veste solo Armani».
Che fosse un rampollo di buona famiglia solo perché vestiva Armani,
questo non potevamo dirlo, ma sicuramente doveva essere ricco.
«E allora, fin dove siete arrivati?». Le amiche della giovane donna non
riuscivano a trattenere la curiosità.
«Ovviamente fino al letto».
«Dal primo appuntamento?».
«Stupida! Non sono mica in svendita! Dal secondo».
«Be’, è comunque presto» sospirò l’amica.
«Ma che dici! Se lo respingi sia la prima che la seconda volta, non sarai
invitata a un terzo appuntamento! O perlomeno, dal “signorino Armani”
non lo saresti di certo».
Un’amica stava per dirle che, più che un fidanzato, si trattava
semplicemente di un amante occasionale, ma si fermò.
A ben pensarci, rimango esterrefatta dal numero incalcolabile di donne
attorno a me che scambiano l’amante per una specie di fidanzato.
Che cos’è l’amore? Che cosa significherà amare?
Che l’amore sia una cosa divertente? Ovunque le coppiette ridono
spensierate. Si stuzzicano come gatti in calore senza temere le occhiate
della gente.
Si incontrano, mangiano, bevono, vanno a letto insieme, e si separano con
un «Alla prossima, ciao1!». Poi si rivedono, mangiano, vanno a letto
insieme…

Accadde però che, un giorno, lui le disse: «Credo che non ci vedremo mai
più».
«Eh? Perché?» chiese dubbiosa la giovane donna. «Era così divertente.
Mangiavamo, bevevamo e andavamo a letto insieme. Perché adesso
dobbiamo lasciarci?».
«Perché io mi devo sposare. I miei non fanno che ripetermelo».
«Oh…». Per un istante la donna guardò lontano. «Allora è inevitabile»
disse, e si strinse nelle spalle.
«Come farai?» chiese lui un po’ preoccupato.
«Io?». Lei, invece di guardarlo, fissava la parete alle spalle di lui.
«Vediamo… potrei sposarmi anch’io».
Finì così. Forse le scappò una lacrima, ma la separazione ebbe luogo
senza un accenno di emozione. Non disse cose del tipo: «Ho sacrificato per
te i miei anni migliori, rendimeli». Di conseguenza, la rottura non si
trasformò in una scena straziante.

«Ci siamo lasciati» annunciò lei il giorno successivo, con aria


inaspettatamente imperturbabile, alle amiche.
«Sarà stato uno shock». Le amiche si mostravano empatiche.
«Ma va’! – rise lei. – Cominciavo ad averne abbastanza» disse
abbassando un po’ la voce. «In ogni caso, a letto era sempre la solita
minestra».
Passata meno di una settimana, se ne venne fuori così: «Ascoltate,
ascoltate! Ho trovato un altro fidanzato» disse raggiante.
In poche parole, lei non era innamorata. Era soltanto smaniosa. L’amore,
quello vero, è tutt’altra cosa.
Un giorno ho incontrato un’amica che non vedevo da circa sei mesi e ho
spalancato gli occhi. «Che cosa ti è successo? Come sei magra! Sei forse
malata?».
Sembrava un’altra persona da quella che conoscevo io: deperita, con le
guance infossate, onestamente aveva l’aspetto di chi fa fatica a reggersi in
piedi.
Mangiammo insieme ma, per quanto me la ricordassi come una buona
forchetta, ingoiò appena uno o due bocconi, tirò a fatica un sospiro
profondo e scostò il piatto.
«Che ti succede? Non sembri più tu. Davvero, stai male?».
Ero sempre più preoccupata.
«Uhm» fece lei scuotendo il capo. «Non ce la faccio più…».
«Eh?». La fissai per un istante. «Non è possibile… Non ti sarai
innamorata?».
Allora lei, chinando la testa, rispose con un filo di voce che le cose
stavano proprio così.
Io, stupita, anche se inopportuna, la guardai sfrontatamente. Quasi non
esistono donne innamorate che siano anche radiose.
«Non ce la faccio più…» mormorò ancora una volta, e incrociò le mani.
Dondolava il busto avanti e indietro.
«Ma cos’è che ti tormenta? Non sei corrisposta?».
«Noi due ci amiamo» rispose lei continuando a dondolarsi.
«Ho capito. Anche lui è sposato». Supponevo che fosse preoccupata per
questo amore nato da una relazione extraconiugale.
«Non è quello il problema – disse lei. – Entrambi abbiamo una famiglia
alle spalle, e la cosa non costituisce più un peso. È che noi…».
Alzò la testa, e mi fissò. Aveva il viso sciupato, eppure, in quel momento,
era bellissima. Alla fine dovetti riconoscere che di certo aveva l’aspetto di
un’innamorata. Ancora una volta, era un amore senza via d’uscita. Più che
innamorata, sarebbe meglio dire che aveva preso una vera e propria
sbandata.
«Insomma noi… non siamo ancora andati a letto insieme!» disse con voce
stridente, quasi come un grido. «Ormai sono più di sei mesi. Ci amiamo, ma
ancora non…».
La mia sensazione fu di aver ricevuto una gran botta tra capo e collo.
«E perché mai? Sarebbe naturale fra un uomo e una donna che si amano.
Sono forse le famiglie che avete alle spalle a preoccuparvi?».
Allora lei, di nuovo con voce stridula, dichiarò: «Quelle, in realtà, per noi
non hanno importanza».
Quando la guardai, le sue mani tremavano leggermente.
«Lo ami troppo, non è così?» mormorai.
«Forse – rispose. – Dormire insieme… una o due volte alla settimana…
poi come pensi che diventerebbe? Mi spaventa».
A quelle parole, mi fu tutto chiaro. Quei due tenevano davvero l’uno
all’altra. Si amavano sul serio.
Con la sua esperienza di donna adulta, lei lo sapeva. Ci si innamora, si va
a letto insieme, a poco a poco l’amore svanisce e, senza quasi che uno se ne
accorga, finisce. Se un uomo e una donna hanno rapporti sessuali, a meno
che non convolino a nozze, di sicuro prima o poi si lasceranno.
Tuttavia, non è detto che duri in eterno solo perché non si fa sesso. È
possibile che il sentimento che lega intensamente due persone finisca col
mutare in amicizia.
Che si dorma o meno con il partner, una relazione tra un uomo e una
donna è destinata alla rottura. Ma, forse, non è detto che non andare a letto
insieme faccia durare più a lungo una storia.

Il film americano Innamorarsi2 affronta questo tema.


Un giorno, una moglie domanda al marito: «Parla. Tu mi nascondi
qualcosa, vero?».
«No. Non ti nascondo nulla» risponde il marito.
«Ti prego. Ho avuto molto coraggio a chiedertelo, rispondi!». Lo guarda
fisso negli occhi. Quelle parole l’hanno colpito al cuore. Così lui confessa:
«In treno ho conosciuto una donna…».
E racconta in breve di come si sono innamorati.
«E poi?» chiede tranquillamente la moglie. Si rende conto del fatto che è
pronta a tutto, anche a perdonarlo.
«Non è successo niente. Non è nato niente fra noi» risponde il marito in
tono severo. «È finita sul nascere».
Segue un lungo silenzio. Poi un primo piano della moglie. Sul suo volto si
legge che non è più disposta a perdonarlo.
«Questo è molto peggio» dice la moglie. Poi di nuovo silenzio e,
all’improvviso, la sua mano che colpisce la guancia del marito.
Nonostante lui avesse dichiarato di non essere andato a letto con quella
donna, sua moglie aveva detto che, se le cose stavano così, era ancora
peggio. Una ragazza potrebbe mai comprendere lo stato d’animo di questa
moglie?

Andare a letto insieme è facile. Per un uomo e una donna finire a letto è
davvero una cosa da niente. Tuttavia, se due che si amano non lo fanno, è
perché si sentono profondamente legati. La moglie che, disperata,
mormorava che in quel caso era ancora peggio, lo sapeva bene. La scena di
quel film non era solo teoria.
Si pensava che i giovani avessero il monopolio dell’amore, ma in realtà
pare non sia così. Credo che i giovani che oggi si innamorano non
conoscano le pene d’amore; l’amore, per sua natura, molte volte fa soltanto
soffrire.
Tuttavia non riesco a condividere l’atteggiamento che hanno i ragazzi, il
loro volersi tenere alla larga dal «dolore». Da spettatrice, mi preoccupo e mi
chiedo: se da giovani non si prova il tormento insito in un amore, passando
attraverso e oltre il dolore, non si fa rotta, probabilmente, verso un’esistenza
di crudele aridità?

Tornando alla mia amica, qualche volta mi telefonò e, per farla breve, mi
confidò che alla fine erano andati a letto insieme.
«Dormire insieme è diventato facile, come dire una bugia – disse. – È
diventato facile, ma ogni volta che ci vediamo non è più come prima,
quando il cuore ci batteva fortissimo».
La consolai, dicendole che tanto, anche se non si va a letto insieme, il
batticuore un po’ alla volta svanisce comunque, e riagganciai.
Poco tempo dopo mi giunse voce che si erano lasciati.
1
In italiano nel testo.
2
Innamorarsi (Falling in love, 1984), di Ulu Grosbard, con Robert De Niro e Meryl Streep.
Dialogo tra marito e moglie

Era un paese delle nevi lontano, lontano da far perdere i sensi.


Il viaggio era cominciato all’aeroporto di Narita, da lì con Air France
andammo a Parigi sorvolando l’Alaska. A Parigi arrivammo di primo
mattino; dovendo aspettare il treno della sera con vagone letto, per mezza
giornata vagammo barcollanti e senza meta lungo gli Champs-Élysées,
trascinando da bravi turisti le valigie pesanti. Ammazzammo il tempo di bar
in bar, al passo sghembo del granchio; poi, con lo stomaco gonfio per il
troppo caffè, ci infilammo in un taxi per Gare de l’Est.
Saliti sul vagone, le cuccette, destinate a sei passeggeri, mi ricordavano
gli scaffali su cui si adagiano i bachi da seta. In tutti gli scompartimenti
c’erano già altri passeggeri a occupare i primi due letti in basso. Io e mia
figlia ci arrampicammo, con qualche fruscio, sul terzo letto in alto; fu un
viaggio notturno davvero terribile.
Nonostante ciò, per la stanchezza, senza neanche accorgermene finii per
addormentarmi, e quando fui svegliata dalla voce del capotreno avevamo
raggiunto l’ultima stazione. Erano le cinque del mattino. Scese dal treno, il
nostro respiro usciva dalla bocca come vapore biancastro; adesso ci toccava
un’ora di sballottamento sull’autobus per il paese delle nevi, la Val-d’Isère,
località sciistica rinomata per aver visto crescere Jean-Claude Killy.
Lasciata la mia casa a Tokyo, avevo finalmente raggiunto il paese delle nevi
a conclusione di una marcia forzata di ben 48 ore.
Era una località di montagna, al confine fra Italia e Francia. Fossi stata in
Giappone, avrei potuto raccontare di vapori bollenti che fuoriuscivano da
vasche di acqua calda, invece, purtroppo, non c’erano stazioni termali. Lì,
io e mio marito, che era passato per Londra con il resto della famiglia, ci
ricongiungemmo. Eravamo tutti e cinque in Val-d’Isère per l’ultimo
dell’anno.
Le persone convenute per festeggiare la vigilia di Capodanno, in
prossimità della mezzanotte, avevano cominciato a riversarsi per le strade
del paese. I petardi scoppiettavano ovunque, i fuochi d’artificio si levavano
in cielo, molti lanciavano grida di gioia, c’era una marea di gente a far festa.
La neve scendeva costante e silenziosa, faceva un freddo gelido. I giovani si
accodavano agli scozzesi che suonavano la cornamusa. Le campane della
chiesa rintoccavano incessantemente.
Non so come, ma io e mio marito perdemmo di vista le nostre figlie,
mentre sfilavamo nel corteo cittadino sospinti da quella marea umana.
Eravamo stanchi, così entrammo in un piccolo bar e ordinammo un
caffellatte caldo.
Più o meno di fronte al bar c’era una chiesa in pietra, molto antica.
Attraverso la porta d’ingresso una luce arancione si irraggiava sulla strada
innevata: creava in quel punto uno spettacolo insolito e tranquillo.
Nel bar faceva caldo, così mi tolsi la pelliccia appoggiandola alla spalliera
della sedia; poi accostai la fronte alla finestra. La fiamma della candela
tremolava, il locale era silenzioso. La gente attendeva l’arrivo della
mezzanotte. E anche noi, con tutti.
«Che fine avranno fatto le ragazze?» mormorai.
«Non ti preoccupare. Sono in giro a divertirsi» rispose mio marito, anche
lui con un filo di voce.
Rivolsi lo sguardo verso la luce arancione che risplendeva davanti alla
chiesa. Anche mio marito guardava fuori. La neve continuava a cadere.
Il caffellatte lo avevamo finito da un pezzo. Entro pochi minuti saremmo
entrati nel nuovo anno.
«A che pensi?» chiese lui improvvisamente, dall’altro lato del tavolo.
Tornai in me e mi strinsi nelle spalle. Non sapevo perché, ma mi sentivo in
colpa.
«A tante cose…» risposi.
«Hanno a che fare con quest’anno?».
«Sì. Ma, soprattutto, penso alle persone che non possono condividere con
me, ora, questo splendido paesaggio innevato di Capodanno».
«A chi ti riferisci?» mi chiese mio marito guardandomi fisso attraverso la
candela.
«Ad esempio… fammi pensare» presi tempo, pesando le parole. «Mia
sorella, i miei genitori, tuo padre, gli amici…».
«Quali amici?». Era tranquillo, eppure pronunciò questa domanda in tono
incalzante.
«Tutti quelli a cui tengo».
«Anche amici maschi?».
«Certo, amici e amiche».
A quel punto mio marito tacque.
«Che c’è?». Stavolta fui io a chiedere. «Tu non ci pensi ad amici e
parenti?».
«Mah, un po’ sì…» rispose lui alzando gli occhi. «Però io stasera non ho
bisogno di loro quanto te».
«Ho bisogno di loro? – obiettai sottovoce. – Vorrei soltanto poter mostrare
loro che al mondo esiste un così bel paesaggio innevato» dissi, mentre mi
venivano alla mente le persone con le quali avrei voluto condividere quel
momento, l’ultimo giorno dell’anno, in quel paese lontano.
«La famiglia non ti basta?» disse mio marito con sottile cinismo. «A me
rende sufficientemente soddisfatto e felice il fatto che la famiglia sia
riunita».
Ero turbata.
«Lo so – disse lui, – a te non basta. Per godere appieno di questo luogo e
di questo momento, io e le nostre figlie non ti bastiamo».
Non lo disse con tono di biasimo vero e proprio. Triste e rassegnato,
spostò lo sguardo fuori, verso la neve che cadeva costante.
«Non è che mi riferissi a qualcuno in particolare» dissi scrutando il suo
profilo. «Lo capisci?».
«Che sia qualcuno in particolare o una persona qualsiasi» disse mio
marito senza scomporsi, «tu già da tempo necessiti della presenza di altri
che non siano la tua famiglia, sia quando sei triste che quando sei felice».
«Però io non ti ho mai tradito». Da quant’è che non riuscivamo a parlare
in un tono così pacato?
«Dopotutto, non è come se lo avessi fatto? – disse lui. – Voglio dire, ad
esempio, che se ora in realtà nel tuo cuore albergano persone estranee alla
nostra famiglia, e tu senti fortemente la loro mancanza, allora secondo me
non c’è alcuna differenza tra questo e un tradimento» aggiunse mio marito
rompendo il silenzio di un attimo prima. «Noi membri della famiglia ci
sentiamo trascurati non soltanto quando pensi a qualcun altro, ma anche
quando, immersa nel romanzo che stai scrivendo, hai la testa fra le nuvole».

In quel momento il rintocco della campana annunciò la mezzanotte.


Entravamo nel nuovo anno. Il frastuono della folla, come uno tsunami,
irruppe nel bar dove eravamo seduti. I presenti si alzarono in piedi, ovunque
ci si abbracciava augurandosi buon anno. Solo noi due stavamo lì seduti,
accanto alla finestra, l’uno di fronte all’altra.
«È Capodanno» mi avvertì mio marito.
«Già» annuii.
Dopo un po’, la sua mano si posò piano sul dorso della mia, appoggiata
sul tavolo. Ci augurammo dolcemente «Buon anno», poi uscimmo dal bar
per cercare le nostre figlie.
Nel frattempo erano caduti altri tre centimetri di neve.
Da Jōji a furin

Quella che segue è una lunga nota dell’autrice a chiusura del volume
Senza rancore (Wakare jōzu), da cui sono stati tratti quattro dei titoli
presenti in questa raccolta. Poiché pedissequamente, talvolta in chiave
mordace, la produzione letteraria di Mori Yōko è stata associata al termine
furin, ci è sembrato che nulla meglio delle sue stesse parole potesse
veicolare quanto ingiustamente «persecutoria» e riduttiva sia stata
quell’etichetta. In traduzione si è cercato di rendere il senso di ciò che il
termine racchiude nei suoi sinonimi e nel lessico letterario, soprattutto per
districare la complicata matassa che Mori introduce sulla differenza tra
furin e love affair.
Qui vorremmo suggerire quello che filologicamente aiuta a entrare nella
comune accezione di furin (不倫): il composto ha due ideogrammi, il primo,
fu 不, è un privativo, il secondo, rin 倫, significa «morale, moralità»: senza,
o meglio fuori dalla, moralità, sono le relazioni che esulano da un vincolo
costituito, nella fattispecie quello coniugale1. Questa sembra la lettura più
vicina al termine tradotto alternativamente con «relazioni extraconiugali»,
«legami infedeli», «avventure», «scappatelle», «tresche», «storie» e altri
sinonimi. Se nei contenuti furin bungaku (不倫文学) corrisponde di fatto alla
letteratura rosa, va tenuto presente che la diffusione del termine furin è
antica e riferita a rapporti con implicazioni sessuali e non, in uso
certamente dall’epoca Meiji (1868-1912) e forse da prima.

Il mio romanzo Jōji (Fame d’amore), con cui ho vinto il premio Subaru nel
1978, voglio sottolinearlo, non era niente di più che una storia di legami
infedeli, furin.
All’epoca, un uomo mi disse chiaro e tondo: «In sostanza, ha scritto di
legami infedeli», e io fui estremamente compiaciuta di quel commento,
tanto che, da allora, ogni volta che mi fanno domande, taglio corto e
rispondo: «È solo una storia di furin».
È strano che sia io a dirlo, ma dieci anni fa Fame d’amore ha
rappresentato una svolta nel filone letterario furin, incentrato sul tema delle
relazioni uomo-donna al di fuori del matrimonio. Sempre un uomo affermò
che si trattava dell’inizio di una nuova dimensione letteraria, dal momento
che in quelle storie venivano messi da parte il senso di colpa e la gravità
associati alle relazioni extraconiugali.
Ne sono stati scritti fin troppi di romanzi d’amore sviluppati ampiamente
sul senso di colpa, del rimorso e del peccato. Quando si cerca di descrivere
l’amore fra marito e moglie, ci si concentra perlopiù sul conflitto che nasce
dal rimorso. Anche per questo, non era nei miei intenti inventare storie
sensazionali.
Volevo scrivere semplicemente di love story. Non ero interessata ad amori
sfrontati fra un uomo e una donna, come «gatti in calore su un tetto che
scotta».
Tra due giovani che si amano c’è lo stordimento dimentico degli sguardi
della gente, ma niente che colpisca o diverta. Essendo liberi, nessuno dice
loro nulla, nessuno li ferisce alle spalle, non danno un brivido caldo, né
freddo.
Solo quando le storie sono intrise di dolore e insorgono grosse difficoltà,
scaturisce l’interesse da parte dello scrittore. Per questo ho scelto amori tra
uomini e donne in cui ci fosse, almeno per uno dei due, un matrimonio in
piedi.
Fame d’amore ha provocato reazioni diverse, a seconda che il pubblico
fosse maschile o femminile.
Le donne, in generale, hanno detto: «So bene di che parla…». Gli uomini,
invece, hanno chiesto: «Perché?», con voci maschie e taglienti.
Le donne capiscono le ragioni per le quali la protagonista Yōko si tuffa in
un’avventura amorosa. Ha un marito, dei figli, un tenore di vita che le
consente di avere una seconda casa; è casalinga, madre, ha un lavoro part
time; si potrebbe definire la sua vita «il quadretto della felicità», quello in
cui prende forma un pensiero del tipo: «Visto che sono così felice, posso
amare anche un altro uomo».
È proprio questo che gli uomini non arrivano a capire. «Se è felice,
perché?» è il loro grido. «Dovrebbe amare il marito, no?». «Ma se è così,
allora perché…?». Sono increduli. Ci sono argomenti che vanno al di là
della loro comprensione.
Uno scrittore americano ha raccontato in maniera assolutamente lucida il
motivo per cui le donne rincorrono divagazioni furin, e in questa sede vorrei
citarlo. Il passo si riferisce a un dialogo fra una donna sposata e uno
scrittore.
«Io scopo con mio marito due volte la settimana».
«Sulla schiena?».
«Che altro? E allora lui me lo mette dentro e io so cosa devo fare per
farlo venire. Poi lui borbotta qualcosa sulle tette e sull’amore, e viene.
Allora io accendo la luce e mi giro sul fianco e accendo una sigaretta e
vado avanti col libro».
«Cosa fai per farlo venire?».
«Faccio tre cerchi in questo senso, e tre cerchi nell’altro, e gli passo
l’unghia lungo la spina dorsale, così: e lui viene».
«Fai sette cose, dunque».
«Esatto. Sette cose. E allora lui dice qualcosa sulle mie tette e
sull’amore, e viene. […] E sta diventando più duro. Quando sei sposata
pensi sempre: “Peggio di così non può andare…”, l’anno dopo è peggio.
È la cosa più odiosa che io abbia mai dovuto fare. […] Però una sera ho
creduto davvero di non poterne più. Ho messo giù il libro, ho spento la
luce e alla fine gliel’ho detto. Ho detto: “Dal nostro matrimonio è
scomparso qualcosa”. Ma lui, allora, stava già quasi russando. “Zitta –
mormora. – Shhh, dormi”.
«Non so che fare. Non c’è niente da fare. La cosa strana e la cosa
terribile e la cosa più inquietante è che mio marito, senza dubbio, è stato
il vero amore della mia vita e io, senza dubbio, sono stata il grande
amore della sua, e anche se non siamo mai stati felici, per una decina
d’anni abbiamo avuto un matrimonio appassionato e tutti i fronzoli,
salute, soldi, bambini, Mercedes, lavello con due vasche e case per
l’estate e tutto. Tanto infelici e tanto legati.
«E ora ho questi mostri notturni, tre enormi mostri notturni: niente soldi,
la morte e la vecchiaia. Non posso lasciarlo. Crollerei. E crollerebbe
anche lui. I bambini andrebbero fuori di testa, già abbastanza strambi
come sono. Ma io ho bisogno di un po’ di eccitazione. Ho trentotto anni.
Ho bisogno di qualche attenzione in più».2

Poi questa donna inizia una relazione extraconiugale con un giovane


italiano. Lui è bello e passionale, capelli foltissimi, molto selvaggio.

«Facciamo il bagno insieme. È divertente. Ma è un buon motivo per


smettere di essere madre e moglie? Quando i bambini perdono qualcosa,
chi glielo troverà? […]. Se uno cerca qualcosa, lo aiuto: le madri sono
qui per questo. […]
È così che mi sono innamorata di mio marito. La prima volta che ero nel
suo appartamento, da meno di cinque minuti, mi ha guardato e mi ha
chiesto: “Dov’è il mio accendino?”. E io mi sono alzata e mi sono
guardata attorno, e l’ho trovato. “Eccolo”. “Oh, bene”. Mi aveva
conquistato. Proprio così. Guarda, io non vivo che per i bagni che faccio
col mio ragazzone italiano e la sua zazzera e i suoi bicipiti di ferro… Ma
come posso lasciare queste persone e pensare che troveranno da sole le
cose che perdono?».3

La citazione è così lunga perché mi sta a cuore far comprendere la


complessità delle implicazioni in un rapporto. Il passo è tratto da La lezione
di anatomia di Philip Roth4. Ho omesso qualche parola, ma la sostanza è la
stessa.

È il racconto di una moglie americana, che trasmette con pathos e


schiettezza il motivo per cui ha bisogno di un amante. Si comprendono
inoltre perfettamente i motivi per cui non può abbandonare la famiglia e il
marito. La preoccupazione per i tre mostri notturni: niente soldi, la morte e
la vecchiaia.
La cosa davvero triste è la considerazione sul vero motivo per cui le
sarebbe impossibile mollare suo marito: lui non sa ritrovare da solo le cose
che ha perso.
Philip Roth è un uomo affermato, ed è una consolazione sapere che ce ne
sia almeno uno in grado di contemplare la necessità di una storia
extraconiugale.
Certamente, quel che Roth fa affermare alla moglie dà voce a tutte le
donne. Se ponessimo una domanda a tutte quelle donne che hanno relazioni
extraconiugali, in otto, nove casi su dieci otterremmo la stessa risposta.
Mentre fare sesso col proprio marito è un dovere coniugale,
contemporaneamente è certo che diventi quello più intollerabile. Farlo per
dieci anni con la stessa persona, inevitabilmente, ti annoia da morire. Se è
davvero tra i doveri coniugali il più intollerabile, quella donna necessiterà
di un conforto. Perché solo gli esseri umani devono adempiere a
quest’obbligo così pesante per tutta una lunga vita coniugale? Serve per
forza una via d’uscita.
Un tempo, la via di fuga potevano essere le chiacchiere tra donne. Poi
veniva l’educazione dei figli, stimolarli con parole severe era una specie di
diversivo. Oggigiorno si pensa ai furin.
Le chiacchiere e l’educazione severa dei figli non risolvevano affatto il
problema. Ad esempio, chi muore di fame non si riempie di certo la pancia
chiacchierando con le vicine. Il massimo che ottiene è che la fame
aumenterà, tante quante sono state le energie spese per conversare.
È un fatto che le donne sulla trentina siano sessualmente insoddisfatte. Ci
saranno mariti che obietteranno: «Non è così, mi sto impegnando a farlo tre
volte a settimana». Ma se anche in una settimana lo si fa sette giorni su
sette, quando la moglie lo sente come un dovere insopportabile, l’appetito
sessuale resta insoddisfatto.
Ci si potrebbe chiedere perché oggi sia «un’epoca di furin». Ebbene io
credo che le donne, con molta probabilità, abbiano cominciato a guardarsi
in faccia. Si scoprono dal di fuori e dal di dentro, ascoltano la propria voce,
riflettono in maniera profonda su come debba essere la loro vita.
Va considerato, come una delle spiegazioni possibili, il fatto che le donne,
un tempo con le mani legate fra marito e figli, adesso abbiano degli spazi
per occuparsi di sé stesse.
Le donne riflettono su molte cose, si auto-analizzano, e alla fine
approdano a certi pensieri: «Ci sarà qualcosa di meglio… sensazioni
migliori… uomini migliori… una vita migliore… del sesso migliore?!».
Può esserci del sesso meraviglioso, spinto, eccitante, con un estraneo, al
di fuori delle abitudini e degli obblighi. Dopo i cinquant’anni, è tardi.
Adesso io, donna quarantenne, sono ancora nel fiore degli anni e, se non lo
faccio ora, dopo non potrò perdonarmelo. Questa è l’idea.
Inoltre i mass media rimestano nel torbido. Parlano di «epoca di furin».
Anche i telefilm, le riviste femminili, i libri trattano tutti esclusivamente di
furin.
Il 90% delle telefonate che ricevo sono per chiedermi un’intervista sul
tema. «Perché lei crede che oggi si parli tanto di furin?» mi domandano
bruscamente nelle interviste telefoniche. «Possiamo avere un colloquio con
lei sugli intriganti furin?». «Che tipo di uomini e donne sono più facilmente
coinvolti in furin?». «Che futuro attende il genere furin?». «Mi dica la
verità: è attualmente coinvolta in una relazione furin?». «È disponibile per
un’intervista collettiva a cinque persone coinvolte in furin?». «Pensiamo di
bandire un concorso per i saggi che trattano di furin. Vorrebbe partecipare
come presidente della giuria?».
Poi è arrivata un’intervista da una rivista straniera.
«Vorrei farle alcune domande sul boom di furin che pare ci sia oggi in
Giappone. Innanzitutto, cosa sono questi furin?» accennava al telefono il
giornalista, in un giapponese stentato.
«Lasciamo un attimo il quesito da parte. Perché proprio a me un’intervista
dall’estero?». Ho risposto stupita alla domanda con un’altra domanda.
«Perché lei è famosa come scrittrice di furin».
«E chi l’avrebbe stabilito?» chiedevo ancora, piuttosto delusa.
«L’hanno decretato i suoi romanzi. Il suo primo romanzo, Fame d’amore,
non tratta forse di love affair? In altre parole, furin. Lei è una scrittrice che
ha debuttato scrivendo di furin, e anche in seguito ha continuato a scrivere
storie di uomini e donne coinvolti in “legami infedeli”; volendo, la si
potrebbe definire un’istigatrice di furin».
«Istigatrice di furin!». Ero senza parole. A questo proposito, proprio di
recente ho ricevuto la lettera di un lettore che usava le stesse parole. Dato
che ne ho parlato in un articolo pubblicato sull’edizione serale di un
quotidiano, forse qualcuno potrebbe esserne a conoscenza. La storia è la
seguente.
La moglie del lettore, cinque anni prima, era scappata con un giovane
uomo. Fra le cose che aveva lasciato, c’erano dei libri di Mori Yōko, tra i
quali Fame d’amore e Yūwaku [Tentazione]. Perciò lui non ce l’aveva con
la moglie, bensì con Mori Yōko, che l’aveva istigata alla fuga. Mori Yōko
istiga a relazioni extraconiugali. La moglie non lo aveva solo piantato in
asso, gli aveva lasciato anche due bambini. Lui, lavorando, aveva cresciuto
i figli. Dopo circa cinque anni, questi cominciavano a essere più autonomi.
L’uomo d’improvviso si decise a prendere in mano Fame d’amore. Quel
libro conteneva il motivo che aveva spinto la moglie a compiere il gesto
fatale, e lui voleva sapere di che si trattasse. Così lo lesse.
«Nel caso improbabile» aveva scritto alla fine della lettera, «che mia
moglie avesse letto davvero attentamente il libro di Mori Yōko, quasi
sicuramente non avrebbe agito così».
Vale a dire che quell’uomo, in quella stessa lettera, si correggeva e
sosteneva che «Mori Yōko non era un’istigatrice di furin». Avrei voluto
farne una copia per spedirla al redattore della rivista straniera di cui sopra.
«Quindi, tornando alla domanda, perché fra i giapponesi oggi ci sono
relazioni furin?» chiese lui.
«Le rigiro la questione: in America e in Europa non esistono furin?».
Ancora una volta, rispondevo alla domanda con un’altra domanda.
«Ci sono i love affair» disse il giornalista straniero in tono sarcastico. «Ce
ne sono tanti quante le stelle in cielo. Ma io credo che vengano consumati
nel silenzio. Perché non è qualcosa di cui ci si debba vantare, né tantomeno
darsi delle arie…».
«Ah, è così. Capisco. Si fa di nascosto e poi arriva il senso di colpa»
commentai.
«Voi vi sentite in colpa?» mi chiese il giornalista straniero. «Perché?
L’amore è amore. Amare qualcuno non è una cosa brutta, non è un peccato.
Sentirsi in colpa fa parte di una mentalità tipicamente giapponese – disse. –
I love affair cominciano nel silenzio sotto la responsabilità degli interessati,
e nel silenzio si concludono. Non vanno alimentati dalle dicerie esterne e,
anche se così fosse, i diretti interessati non dovrebbero prestarsi alle
chiacchiere».
«È come lei dice» capitolai io, chissà perché facendo inchini profondi a
un interlocutore che non vedevo.
«Perché proprio oggi sono di moda le relazioni furin?» insisteva.
«Quello che penso – dissi tentennando – è che le donne giapponesi
probabilmente hanno aperto gli occhi…».
«Quando questo accade, si danno ai furin?». Lui rideva sotto i baffi.
«Hanno cominciato a vivere assecondando i propri desideri. Una delle
forme – non l’unica – in cui questi desideri si manifestano viene definita
furin. Anche il lavoro è una di queste, ad esempio il movimento femminile
per ottenere un reddito proprio. C’è anche chi è entrata a far parte di attività
di volontariato, e chi ha creato gruppi di studio. Eppure, hanno finito per
trovarsi sotto i riflettori solo quelle che hanno frequentazioni furin». Mi
battevo, con tutte le mie forze, in difesa delle donne giapponesi.
«Interessante l’idea che le donne giapponesi si buttino in un rapporto
furin da quando hanno cominciato a vivere assecondando i propri desideri».
«Furin è solo uno dei desideri» sottolineai.
«Ma allora perché è un fenomeno attuale?» mi chiese di nuovo.
«Sono i tempi. Negli ultimi dieci anni più donne hanno cominciato a
lavorare fuori casa, la vita è migliorata per molti versi, c’è una maggiore
consapevolezza dell’uguaglianza con il sesso maschile…».
«È questa consapevolezza a spingere verso i furin?».
«Allora perché voi ricorrete ai love affair?» contrattaccai in tono un po’
isterico.
«È semplice. Perché è divertente. Non va bene?».
Era una risposta esplicita. Quanti in Giappone avrebbero il coraggio di
rispondere: «Perché è divertente» alla domanda: «Perché oggi ci sono i
furin?».
«È come uno sport» risi nella cornetta del telefono.
«In effetti, il sesso non è forse uno sport che si pratica a letto?» disse il
giornalista straniero lasciandosi andare a una risata.
«In questo siamo diversi. Se si potesse concepire il sesso come uno sport,
non si tratterebbe di furin, ma di love affair».
Dopotutto, al giornalista straniero che mi chiedeva perché oggi in
Giappone ci siano relazioni furin, non avevo saputo dare una risposta certa.
Alla fine, me la cavai consigliandogli di leggere il libro di Philip Roth per
conoscere lo stato d’animo delle donne che desiderano un uomo al di fuori
del matrimonio.
«Però è un discorso che vale per le donne americane. Per quelle
giapponesi è diverso, no?» chiese insoddisfatto il giornalista.
«Guardi, non sono diverse» risposi fiduciosa.
Trascorsa la metà degli anni che dovrebbe durare un matrimonio, vedere
il sesso come un dovere coniugale insopportabile non è affatto un’esclusiva
delle americane. Hanno dei figli, un marito, una vita moderatamente agiata,
amano marito e figli, sono felici, ma al contempo tristi; questo vale anche
per le donne giapponesi.
Per questo esistono relazioni furin.
Al termine del dialogo con il giornalista straniero, a fronte del fatto che le
mie risposte non lo avevano soddisfatto, riagganciai, delusa innanzitutto da
me stessa.
Dieci anni fa Fame d’amore era una semplice fiaba, niente di più. Oggi
quel che viene considerato furin sembra entrato a far parte della normalità.
Considerato che quanto è cosa di tutti i giorni presto stanca, col tempo il
termine furin potrebbe cadere in disuso.
Non so quale sarà la parola che lo rimpiazzerà ma, quando arriverà quel
giorno, forse avremo reso così indipendenti corpo e mente da considerare i
furin come uno sport. Li chiameremo allora love affair?
Vorrà dire che, così come nei dizionari di lingua inglese troviamo
samurai, sushi e kamikaze, forse anche furin si unirà alla compagnia, per
sopravvivere nei vocabolari americani.

1
Per una più esaustiva spiegazione in giapponese si veda: https://gogen-yurai.jp/furin/.
2
Philip Roth, La lezione di anatomia, traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2006 e
2007, pp. 98-100.
3
Ivi.
4
Philip Roth (Newark 1933 - New York 2018) scrisse La lezione di anatomia nel 1983.
Appunti di lettura

A cura di Giuliana Carli

Sono passati circa dodici anni dall’incontro con Dolly, fascino segnato dal
tempo e un sorriso dolceamaro, la donna che accudì fino alla fine Mori
Yōko in qualità di sua segretaria, amica, rifugio e factotum. Dolly, al secolo
Honda Midori, mi fece strada con discrezione verso i luoghi fisici e
dell’anima di Mori Yōko, in un momento in cui quel nome non aveva più il
potere di evocare un’epoca.
I luoghi fisici restano in parte riconoscibili, altri sono scomparsi o molto
cambiati, mentre il consistente lascito letterario conserva tutte le fenditure
di un’anima inquieta. Mori Yōko (1940-1993), quando ebbe i primi seri
sospetti di un cancro, decise di non lasciare spazio al male che l’avrebbe
fermata. Fin lì, e per quindici anni, la sua seconda vita come scrittrice era
stata un percorso a folle velocità. Aveva trentotto anni nel 1978, quando
sfidò la sorte con Fame d’amore (Jōji 情 事 )1, e di certo, Itō Masayo, così
all’anagrafe prima che assumesse il nome d’arte Mori Yōko, non aveva
previsto che scrivere sarebbe stata l’opportunità di una rinascita. Nel
momento in cui comprese che le restava solo la speranza e poco tempo, con
l’aiuto fattivo di Dolly mise insieme e pubblicò nel ’93, a soli pochi mesi
dalla fine, un titolo evocativo con sottotitolo in francese: Owari no bigaku
( 終 わ り の 美 学 ). L'esthétique de l’adieu [L’estetica dell’addio]. I detrattori
forse si aspettavano indicazioni estetico-filosofiche sulla dipartita
definitiva. Quelle non ci sono. Le pagine invece trasudano vitalità, ricordi,
viaggi – tanti e sul filo della sfida – che comunicano un’aumentata bulimia
di vita, senza spunti di riflessioni sull’ultimo addio: brevi storie redatte in
fretta, con forti accenti di «sono qui», partecipazione, emozione della
scoperta, incitamento a superare i limiti; limiti che solo chi sa di avere poco
tempo vuole ignorare e infrangere con strenua determinazione. È Dolly,
nella nota postuma in appendice alla ristampa del libro2, a descrivere
commossa «l’estetica» di un addio secondo l’eredità morale che Yōko le
affida, chiedendole di scegliere un hospice con precise caratteristiche: chi le
avesse fatto visita avrebbe dovuto godere del verde, dei fiori di stagione, del
sovrannaturale in natura e, andando a trovarla, respirare il bello, semplice,
della vita. Nessuna eco del glamour della bolla anni ’80, che si spegneva
con lei.
L’eredità letteraria, materiale, di Mori Yōko è corposa, oltre un centinaio
di pubblicazioni che spaziano tra narrativa, saggi, traduzioni, sceneggiature;
operare una selezione rappresentativa per introdurla ai lettori italiani non è
stato semplice. In questo volume abbiamo messo insieme tre raccolte, da
ognuna delle quali sono tratti alcuni racconti, oltre a Fame d’amore, il
premiato esordio letterario. A Jōji, nell’edizione adottata, segue un altro
lungo racconto, Yūwaku ( 誘 惑 ) [Tentazione], candidato nel 1979 al premio
Akutagawa3. Perché allora non tradurre quel solo best seller dal titolo
iconico, anziché accarezzare il ginepraio di una cernita rischiosa?
Innanzitutto perché il complicato assemblaggio si è rivelato un
sorprendente strumento di comprensione della poliedrica scrittura di Mori
Yōko, poi perché volevamo condividerlo: pubblicare solo gli esordi di
Mori, senza un assaggio della sua vena più matura e coinvolgente,
significava sottrarre all’autrice il dovuto e ai lettori la sorpresa del cambio
di passo. Così è nato Fiabe di letto.
In realtà, Fiabe di letto (Beddo no otogibanashi ベッドのおとぎばなし) è una
raccolta a sé che consta di due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1986 e
nel 1989, il cui titolo nell’edizione originale è proprio Fiabe di letto,
curiosamente scritto in italiano oltre che in giapponese. Per il potere
evocativo che la fiaba ha in ogni lingua e per i sogni che popolano la
narrativa di Mori, ci è sembrato il giusto titolo anche per questo libro. I
racconti qui tradotti sono solo 7 dei 34 contenuti nel primo volume. Pochi,
ma c’era dell’altro.
La seconda raccolta, Il sogno di Cleopatra (Kureopatora no yume クレオパ
トラの夢 , 1987), è un libriccino di storie in pillole, talmente brevi e leggere
che avremmo voluto inserirle tutte, perché graffiano, nei titoli e nei
contenuti. Tuttavia Il sogno di Cleopatra è già il disincanto, è un po’ di
gogna per gli uomini, è la vena sagace e talvolta amara di Mori, che strappa
un sorriso. Sa che scrivere non è un gioco, o se lo è, lei vuole giocare bene,
costruire un plot in poche pagine e lasciare spesso un finale aperto,
avvalendosi di una tecnica diffusa e derivata, possiamo presumere,
dall’abitudine giapponese di proporre pubblicazioni a puntate. In effetti, a
volte, ci piacerebbe leggere nell’ultima pagina «continua».
La raccolta proposta in chiusura, Senza rancore (Wakarejōzu 別 れ 上 手 ,
1986) collocandosi a metà tra il saggio e la narrativa, rientrava di diritto in
una prima pubblicazione che, con la scomparsa dell’autrice, diventasse una
cassa di risonanza per il carattere, la trasformazione, l’autoironia, attraverso
la sua voce vera. Nello scritto Da «Jōji» a «furin», Yōko sembra sfogarsi,
in una sintesi frettolosa di inciampi e successi inanellati dal debutto in poi.
Senza rancore introduce alla maturità, senza parafrasi e con scarsi, se non
assenti, abbellimenti stilistici. È una breve – solo pochi racconti sono stati
estrapolati – nuova galleria di donne: romanticismo azzerato, ingenuità
bandita, sono loro ora a gestire le avventure, a riconoscerne i limiti, e in
procinto di ricominciare dalle sconfitte. Ma il nucleo-perno-collante sociale,
che Jōji lasciava intravedere già e da cui qualsiasi scelta non può
prescindere, resta lo stesso: la famiglia, il vincolo, la responsabilità
dell’incolumità emotiva di chi ci è caro, che fanno la differenza tra furin e
love affair, almeno nel Mori Yōko-pensiero, espresso con qualche
incertezza.
Torniamo al 1978, a Jōji, un’esplosione di vita per il tramite della
scrittura. L’incipit è ormai famoso, annuncia una fine, la fine dell’estate, e
di un amore. La protagonista si chiama Yōko, come la scrittrice, ma il nome
è scritto sempre in katakana (ヨーコ), non con i kanji di Yōko (瑶子), ed ecco
instillato il dubbio intrigante della sovrapposizione: quanto corrisponde al
vissuto della scrittrice, quanto all’invenzione narrativa? Di fronte al mare
che non la accoglie più, di fronte allo specchio che le restituisce una donna
triste e già vecchia a trentacinque anni, Yōko si perde e vaga tra passato
lontano e recente. Nella realtà, il libro, come tutti i suoi altri, Mori lo redige
a mano, scrive come in un flusso di coscienza. Forse per questo lo sguardo
di Yōko, nel romanzo, si ferma su Joyce, tra i libri disordinatamente sparsi
nella stanza di Lane, come in cerca di una conferma che quell’aritmia di
scrittura sia la Via. Sobbalza la mano di Mori – ma anche di chi legge –
quando descrive l’atto o la «fame» di sesso, e quasi mai mente; con Jōji
introduce ritmi, temi, persino un lessico strutturalmente diverso e, a quel
tempo, del tutto originale, destinato a incoraggiare e influenzare gran parte
della letteratura femminile del decennio successivo, come vedremo più
avanti.
È certo che molto di quello che leggiamo in Fame d’amore ha spunti
autobiografici, Mori affermava di saper scrivere bene solo di quel che
conosceva, tuttavia non sposa mai del tutto la peculiarità giapponese della
narrazione in prima persona; è piuttosto essenzialmente sollecitata da una
smania di fermare i particolari, assaporarli, viverli e trasmetterli.
Jōji fu una svolta improvvisa, che non le dette neppure il tempo di
ipotizzare quante e quali conseguenze sarebbero venute dall’ansia di
infrangere le linee già demarcate a trentotto anni, da donna adulta e
socialmente arruolata in vesti consuete. Fu audace anche la giuria che nel
1978 le assegnò il premio Subaru: assunse che quella di Mori Yōko non
fosse una scrittura da donna – e i commentatori continuarono, su quella
falsariga, a essere affascinati non da un capolavoro, ma da una assoluta
novità4 –, che narrasse con ingenuità, ma che fosse animata da un
contagioso desiderio di decondizionamento e, soprattutto, che avesse fegato
nello smascherare l’ipocrisia dei legami sentimentali. La maggiore delle sue
tre figlie, Heather Brackin, racconta come tutto ebbe inizio:

Avevo dodici anni, e stavo per telefonare a un amico. «Non ora, aspetto
una telefonata importante», mi fermò mia madre. Di lì a poco la
telefonata arrivò: «Il libro che ha scritto mamma ha vinto un premio!»
mi disse andando via di corsa. A contattarla era stato un membro della
giuria del premio Subaru. Dopo fu sommersa dagli impegni; dismise il
nome Masayo Brackin e nel momento in cui scelse lo pseudonimo di
Mori Yōko avvenne una trasformazione. Tuttavia le parole di mio padre
furono: «Primo, sei la madre delle nostre figlie; secondo, sei mia moglie;
terzo, Mori Yōko viene dopo» e mamma le comprese a chiare lettere. La
mattina scriveva, nelle pause preparava l’occorrente per la cena. I giorni
festivi li trascorreva in famiglia. Non la sentivo diversa da una qualsiasi
altra mamma.5
Immaginiamo che da quel punto in poi, in realtà, Itō Masayo in Brackin,
cambiando pelle in Mori Yōko, divenne una donna contesa dai media e che
debba aver ricevuto l’aiuto e il sostegno di molti. Ma a Yōko mancò il più
importante, quello della famiglia, forse comprensibilmente: quale marito e
quale figlia leggerebbero di buon grado degli amplessi consumati dalla
moglie/mamma quasi sotto i loro occhi? Heather Brackin aggiunge anche di
essere la Erika di Jōji e di conoscere altri personaggi descritti nel romanzo.
Almeno per un po’, la comprensione e la complicità desiderata tardarono.
Così, nella donna generosa e volitiva – all’occorrenza cedevole e fragile su
molti fronti – ebbero spesso la meglio infiniti sensi di colpa. Molto è
cambiato, ma la pressione che una donna subisce nel momento in cui una
parte di sé si realizza fuori dalle mura domestiche, resta più o meno la
stessa, al pari delle dinamiche con cui contemporaneamente si insinua il
dubbio su quel che si è; la reazione, invece, ha variabili individuali. Yōko,
sempre in bilico su un equilibrio fragile, sentì di dover risarcire il marito,
più di chiunque altro: comprò per lui un’isola in Canada, uno yacht, una
Porsche, ma non bastava mai; provvide a risanare le sue fallimentari
iniziative finanziarie. Per farlo, comunque, occorreva guadagnare, sempre
di più, e instancabilmente, fino a stabilire quante pagine al giorno e quante
pubblicazioni in un anno servivano per tener dietro al tenore di vita, alto,
che la fama le aveva concesso e che lei voleva fosse lo stesso per i suoi cari.
Mori Yōko è stata talvolta indebitamente considerata una casalinga
improvvisatasi scrittrice: questo corrispondeva solo in parte a verità, ma lei
non sentì mai il bisogno di negoziare con la critica o con il pubblico il
proprio passato e presente. Yōko veniva dall’Università di Belle Arti di
Tokyo, fucina di talenti, dove aveva studiato violino – il violoncello in Jōji
–, ed era vissuta in una famiglia usa a ospitare studenti stranieri; era, la sua,
una mente aperta, da sempre. L’inglese e il francese le erano familiari, il suo
lavoro di traduttrice e autrice di script pubblicitari, anche se part time, lo
aveva sempre svolto. Paradossalmente, il matrimonio con un occidentale
finì per costringerla entro limiti imprevisti, generatori di inquietudine per
una sensibilità febbrile.
In apertura di questo volume abbiamo chiesto ai lettori di contestualizzare
il Giappone di Mori Yōko, o meglio un’epoca, quella che la vide
protagonista, dentro la cosiddetta bolla economica, tenendo presente non
solo i risvolti economici e l’assetto sociale – che muoveva i primi passi
verso quello attuale, alquanto diverso –, ma anche che il 1975 fu l’anno in
cui ebbe inizio il decennio dedicato all’avanzamento e all’emancipazione
femminile promulgato dall’ONU. In quel contesto, prima di arrivare alla
metà degli anni ’80, prima della graduale presa di coscienza delle donne –
la previsione di due lustri non era stata avventata – gli incontri a scopo di
matrimonio, o-miai, erano un istituto diffuso e socialmente funzionale alla
crescita del paese, perché un uomo e una donna che mettevano su famiglia
all’età canonica (considerata, a quel tempo, ottimale per le donne non oltre i
venticinque anni!) garantivano il buon funzionamento della filiera
economica: un giovane uomo sposato, sollevato dalle incombenze del
quotidiano, diventava più efficiente sul lavoro e poteva contribuire al
meglio alla crescita, all’epoca esponenziale, del paese. Le chat di incontri
erano del tutto futuribili, lontanissime. Ma dall’unione di due (quasi
sempre) sconosciuti, uno dei quali, per definizione l’uomo, trascorreva
molto tempo fuori casa, era facile preventivare un altro istituto parallelo:
quello delle relazioni extraconiugali, scappatelle o avventure, tresche, flirt,
amanti-passatempo come sfoggio di status accettate persino dalle mogli, o
«fiabe di letto» di una notte: questo e altro in giapponese esprime il
concetto di furin.
Sull’etimologia del vocabolo rimandiamo alla nota esplicativa di pagina
251. Qui è d’obbligo indagare sul binomio restrittivo e reiterato Mori Yōko-
furin bungaku ( 不 倫 文 学 文 学 , letteratura rosa), ovvero Mori-romanzo rosa.
Premesso che l’autrice non ne ha mai disconosciuto alcuni ingredienti, né si
è risentita per essere stata accomunata a un particolare genere letterario, ha
sempre scritto conscia del suo pubblico ampio e misto, consapevole di poter
spaziare, toccare corde aliene alla letteratura rosa, imponendo, in un certo
senso, anche nei racconti più frivoli, riflessioni prioritarie sui diritti e sulla
dignità delle donne. Scorrendo un centinaio dei suoi titoli, la metà conferma
comunque che l’equazione Mori Yōko = furin ha una ragion d’essere: Yōko
ha amalgamato spesso e volentieri temi e atmosfere della letteratura rosa, o
d’evasione; incontri proibiti, sentimenti inconfessabili, desideri inappagati,
fughe, sogni. Ma a questa metà probabile di una vasta produzione si
contrappone incisiva l’altra metà, e la cesura talvolta è puramente
funzionale alla querelle cara alla critica: quella metà che mette a fuoco e
svela cosa significhi in concreto scoprirsi scrittrice, dichiararsi affamata di
sesso, fare i conti con il tempo, l’età, i vincoli socialmente definiti,
rimanendo moglie e madre (nel suo caso di tre figlie), tornare a casa la sera
per preparare la cena, senza, nel caso di Mori, smettere mai di avere un
sogno per sé e per gli altri – per le altre, sarebbe più giusto dire.
La strettoia della qualità, dei generi, dei filoni e delle etichette letterarie,
di cui anche il lettore occasionale di narrativa giapponese ormai può,
volendo, dibattere, non interessava a Yōko, e disquisirne qui non
aggiungerebbe nulla alla lettura. Ma se proprio volessimo costringere Mori
Yōko entro un binario di genere, dopo aver esplorato la sua scrittura,
verrebbe da dire che sia stata una transgender della narrativa.
I suoi racconti, e i moltissimi saggi, parlano di donne pragmatiche,
disilluse, passionali, spigolose o insicure, freelance o casalinghe annoiate,
accomunate dalla ricerca di un’alternativa alla quotidianità che non le
appaga, o le svilisce, e non solo di trasgressioni e scappatelle. Mori sceglie
realtà complesse, di donne inquiete, messe al sicuro, o meglio ai margini,
dalla società perché madri e ultratrentenni! Ai parametri di anagrafe e stato
civile si affida il compito di sotterrare ormoni, obiettivi, individualità,
progetti di vita. Così, nel paese più longevo al mondo, una donna intorno ai
quaranta era già un’esclusa. Yōko parla di quelle donne, e a quelle donne,
che conflittualmente tentano di riprendersi il maltolto. Ma riflette, senza
risposte salvifiche, sul tempo inarrestabile, sull’età e le stagioni della vita:
pensiamo alla stilista e alla cantante della Venticinquesima ora, per scoprire
che l’accettazione cosciente di sé, a qualsiasi età, è l’unica via verso una
temporanea serenità.
I rapporti uomo-donna, di conseguenza, passano attraverso una
pericolosa, macroscopica lente di ironia e sagacia, mediante le quali Mori
cerca di costruire nei suoi racconti un modo e un mondo nuovo: Il sogno di
Cleopatra è il calco da cui partire, in cui affronta risoluta il rifiuto verso le
convenzioni del vincolo coniugale, smonta l’idea di donne mute e fredde,
racconta quanto diffuso sia il senso di negazione in un rapporto scontato. Le
sue protagoniste sono spesso relegate entro un ruolo predefinito, vivono
matrimoni fatti di agi e sicurezze apparenti, in cui i mariti latitano o restano
indifferenti. In Giappone così come nel resto del mondo, ci sentiamo di
aggiungere. Non a caso, in Da «Jōji» a «furin», Mori riporta il passo
emblematico di Philip Roth, ecumenico nel suscitare considerazioni in cui
cultura, luogo di nascita, censo si fondono e confluiscono in un identico
disagio di genere, femminile.
Si era comunque negli anni ’80, quelli in cui il benessere legato ai facili
guadagni in borsa crea anche per le donne inaspettate opportunità di lavoro,
e con esse nuove frequentazioni. Il numero delle donne che lavorano sale
vertiginosamente: introiti insperati sollecitano all’indipendenza e al
superfluo, a nuove relazioni, a incontri di meritata, seppur effimera,
pacificazione, a diversa consapevolezza di sé e di quanto sia possibile fuori
dalle mura domestiche.
È in quegli anni che proliferano le «avventure», furin (letteralmente
«amorale»), di cui Mori Yōko diventa inconsapevole portavoce. Non è
pienamente a suo agio nello spiegare la differenza tra furin e love affair;
forse perché sa che entrambe le dimensioni/culture le appartengono e si
contrastano. Ma Yōko è nata in Giappone e nulla di quel che ha respirato da
sempre può sovrastare i valori e la sensibilità acquisita già nel ventre
materno: l’unica differenza va riferita, forse, al senso di amoralità, diverso
in Giappone rispetto ad altre società. In un paese dove il tradimento o la
lealtà, in qualsiasi ambito, non riguarda mai il solo individuo ma si
ripercuote in cerchi concentrici sul «gruppo», il senso di amoralità può
essere più grave o richiedere inchini, e a volte risarcimenti materiali, più
profondi. Anche fumare in pubblico, adesso, può essere definito amorale, il
concetto di amoralità è quindi ampio, elastico, e nel contempo meno
schiacciante rispetto all’etica speculativa del mondo occidentale.
Ma, come già accennato, si esce dal cerchio di un legame in cerca di altro,
non necessariamente di un altro, talvolta di qualcosa, o di un luogo, fisico o
virtuale, che renda più reale possibile il sogno. Yōko, all’apice della
popolarità, intercetta, o viene intercettata, per creare cornici e oggetti da
sogno, acquistabili all’angolo, sotto casa. Diventa imprenditrice di sé stessa
e nasce, nel 1991, nel Department store Takashimaya, a Nihonbashi, il
Concept shop Mori Yōko.

Negli anni ’80, quando il Giappone era in piena crescita economica,


Mori Yōko aveva pubblicato una serie di storie di donne incentrate su
uno stile di vita sensibile e sofisticato. Ha sempre avuto un occhio
attento ai cambiamenti e alle novità di un’epoca: lì si inseriva la vita da
sogno delle celebrità, descritta come un «piccolo mondo del desiderio»
che chiunque, a quel tempo, pensava di poter realizzare.
La pubblicità serale di Takashimaya realizzò un nuovo format: il
progetto prevedeva che Takashimaya selezionasse l’oggetto che
intendeva pubblicizzare e che Mori Yōko scrivesse un racconto con o su
quell’oggetto. Serviva una maestra della narrativa, e non sarebbe stato
possibile senza di lei. Negozi di lusso di tutto il mondo, dai francesi
Fauchon, Veuve Clicquot, Chanel, fino a Hickory, Stuben, Ludwigsburg,
Vetro di Murano e molti altri, ricorrevano nella vita dei personaggi, tutti
facoltosi, che andavano in luna di miele nel Pacifico meridionale,
vivevano al 21° piano di un grattacielo e ogni fine settimana giocavano a
golf, […] che ascoltavano musica classica, o visitavano Vienna per
apprezzare le opere d’arte, e parlavano di Hemingway conversando di
letteratura. Uno stile di vita, irrealizzabile senza ricchezza e cultura,
descritto in modo estremamente naturale nei racconti di Mori Yōko, che
lasciavano apparire il sogno, nella sua assurda mondanità, alla portata di
tutti. Una «fiaba» situata in un’epoca in cui tutti credevano che il
Giappone fosse una nazione in ascesa e che con un piccolo sforzo
sarebbe stato possibile entrare a far parte dell’alta società.6

Sorsero altre filiali a Tokyo, e quella di Kyoto era in procinto di aprire,


quando la morte improvvisa di Yōko, il 6 luglio 1993, fermò bruscamente
tutto e tutti.
Anche in questo caso, l’immagine e l’operato di Mori Yōko
sembrerebbero aver prestato il fianco al consumismo, all’appagamento del
possesso, celebrando il benessere materiale come porta d’accesso alla
felicità. Ma, a ben guardare, era stata lei la prima a demolire l’idea che agi e
sicurezze, il set da barbecue e la casa dei sogni, come in Scorci di felicità,
potessero supplire alla realizzazione del sogno vero, quello di un moto da
assecondare per sentire di non aver sprecato il tempo, a scadenza certa per
chiunque. La ricerca del superfluo talvolta colma il vuoto dell’essenziale;
crediamo che a Mori non sia sfuggito. D’altro canto, finendo mani e piedi
nel meccanismo di una corsa vorticosa, destinata purtroppo a coincidere con
l’ultima fase della sua vita, coerentemente non ha cercato giustificazioni.
Quanto ai luoghi, alle ambientazioni che la saggista Shimazaki, come
vedremo a breve, definisce «sfondi originali nella narrativa di Mori Yōko»,
ne ricorrono alcuni che parlano da soli, ma in trent’anni hanno
inevitabilmente cambiato linguaggio, del tutto o parzialmente, con qualche
eccezione. Karuizawa, cornice di più racconti, e il treno citato per
raggiungerla dalla stazione di Ueno con le canoniche due ore accettabili per
ogni giapponese, non sono cambiati. Karuizawa ha una natura e una storia
da preservare; tra gli aceri e all’ombra degli alberi bassi si celano molte
ville e case che hanno ospitato la storia della letteratura, da Arishima Takeo
(1878-1923) a Nogami Yaeko (1885-1985), da Akutagawa Ryūnosuke
(1892-1927) a Kawabata Yasunari (1899-1972), fino a Inoue Yasushi
(1907-1991), solo per citarne alcuni. La villa di Mori Yōko, già residenza
temporanea dell’ambasciatore americano Edwin Reischauer dal 1961 al
1964, è dal 2013 sotto la tutela dei Beni culturali come Patrimonio
materiale del paese. Ma il Giappone non smette mai di sorprenderci:
all’interno, restaurato, è stato ora aperto un ameno… Mori Cafe7! Non
sappiamo da chi.
Mori nacque a Itō, nella penisola di Izu, prefettura di Shizuoka, e dopo tre
anni in Cina, visse a Tokyo e, se escludiamo le tante parentesi di viaggio e
di villeggiatura, era Tokyo il suo habitat naturale, prima e dopo il
matrimonio, nei trasferimenti tra Roppongi, Higashi-Ikebukuro, Den’en
Chōfu, Shimokitazawa. Infine si fermò a Roppongi; inizialmente perché lì
si trovava l’ufficio del marito, l’inglese Ivan L. Brackin (che quando
incontrò Itō Masayo veniva da un viaggio in 43 paesi), poi perché divenne
in qualche modo il suo quartier generale, dove si sentiva a casa. Negli anni
’80 Roppongi, già nota per i locali, le discoteche e l’atmosfera
internazionale che vi si respirava, era, come tutti i quartieri di Tokyo, una
città nella città (in questo caso del distretto Minato-ku), ma stranamente a
misura dei tanti stravaganti avventori, giapponesi e non, che si muovevano
tra facciate dai colori improbabili ispirati a tutto il possibile che
l’architettura possa osare, vicino a edifici discreti e antichi, nessuno dei
quali si avvicinava all’altezza di un grattacielo. Locali, ristoranti, bar e
discoteche famose avevano l’entrata al livello della strada, molti altri erano
nei sottoscala e nei vicoli interni. Nel cuore della notte, per placare il grido
dei succhi gastrici, compariva il venditore di mochi arrostiti, quadratini di
pasta di riso che avevano il compito di dare una scossa agli occhi
annebbiati. L’appuntamento a Roppongi era sotto la tettoia di Almond, da lì
si attraversava nelle quattro direzioni per poi dileguarsi, riapparendo con
passo incerto a tarda notte. Quella Roppongi del Chalcot e dell’R&B non
esiste più: dal 2004 Roppongi Hills, un reticolo di uffici, abitazioni, negozi,
locali, dislocati su 55 piani, ne ha definitivamente cambiato l’estetica, e
naturalmente la «familiarità». In questo senso, con l’amore per i dettagli,
nonché l’affezione al luogo, le descrizioni di Yōko ci trasportano ancora
dove la Tokyo Tower era la bussola visibile da ogni punto.
Dei tanti viaggi di Mori è impossibile anche solo accennare in questa
sede, ma siccome il «brand Italia» viene introdotto in anticipo rispetto al
complesso della narrativa di quegli anni, viene da chiedersi perché.
Naturalmente design, moda, atmosfere italiane avevano già uno spazio in
Giappone, ma il mix di passione per i viaggi, ricercatezza, senso della storia
e una fondamentale curiosità, creò un legame spontaneo tra Mori e l’Italia.
Una risposta ulteriore l’abbiamo in Amiche: la descrizione della Fiat rosso
Italia decappottabile beige comunica quanto quel brand fosse, e sia rimasto
nel tempo, un oggetto del desiderio, nelle linee, nei colori e forse più nella
baldanza che nell’eleganza. I completi Armani appesi nell’armadio del
fotografo egoista di Vigilia di Natale, nel 1986, parlano invece di eleganza e
gusto, di cui certo Mori non difettava. Infine ci sorprende la Val-d’Isère – in
realtà una delle tante località sciistiche europee in cui si recava di frequente
– dove una moglie giapponese parla con il marito inglese in Dialogo tra
marito e moglie, trasportandoci dall’altra parte dell’obiettivo: siamo noi che
li guardiamo, chiedendoci cosa li abbia spinti ad attraversare il mondo per
augurarsi buon anno al rintocco delle campane.
Siamo ormai lontani da Fame d’amore, la penna di Mori aderisce sempre
più alla realtà dei rapporti di coppia, alla ruvidità delle incomprensioni
protratte nel tempo, delle frustrazioni crescenti. La galleria femminile si è
allargata a donne ora determinate a costruire una vita propria, e si fa strada
il superamento della necessità di avere un compagno per acquisire un ruolo
sociale. Le donne di Mori Yōko condividono sempre di più tratti comuni,
non mentono su un compendio di contraddizioni e imperfezioni, in cui
riconoscersi è facile. Senza scosse ideologiche, appare senza soluzione di
continuità l’intento di costruire spazi inclusivi di autodeterminazione al
femminile, in cui l’o-miai si allontana e cede lentamente il passo allo stato
di single per scelta, senza l’onta di aver tradito qualcosa o qualcuno.
Al culmine della popolarità, subissata di lavoro e corteggiata dai media,
con una fitta agenda di appuntamenti che la vedono impegnata in talk show
televisivi e interviste, Yōko va in analisi insieme alla figlia. Ne scriverà in
molti suoi racconti, in particolare nel romanzo breve Yogoto no yurikago,
fune, aruiwa senjō (夜ごとの揺り籠、舟、あるいは戦場) [Ogni notte culle, navi o
campi di battaglia, 1983], in cui il marito dell’io narrante si oppone
strenuamente alla scelta di madre e figlia, negandone l’efficacia, anzi
esprimendo la preoccupazione che, iniziate a una maggiore fiducia in sé
stesse, una loro ribellione sia dietro l’angolo.
Intanto la fama continua a crescere, insieme ai sensi di colpa. Il resto è
una ripida salita con qualche squarcio di sereno. Si dedica alla penna come
una forsennata finché ha forza; uno dei suoi ultimi e più importanti lavori è
la traduzione del romanzo americano Scarlett, di Alexandra Ripley; nel
1992 impegna per più di un anno anima e corpo perché il lavoro sia
perfetto, recandosi in loco, da Atlanta alla Scozia, senza risparmiarsi
un’estenuante tour promozionale in tutto il Giappone a pubblicazione
avvenuta.
Infine esce, nel maggio del 1993, la raccolta di 48 saggi autobiografici
Owari no bigaku, citata in apertura.
Oblio e fama hanno a volte la stessa velocità, e forse senza «Il cappello di
Mori Yōko», un vero hommage alla scrittrice e alla donna, pubblicato nel
2019 dalla saggista Shimazaki Kyōko8, almeno un paio di generazioni
confonderebbero il suo nome, che per assonanza richiama alla mente altri,
più o meno famosi, Mori. Il saggio di Shimazaki ha dato all’autrice nuova
eco e lustro letterario, grazie alla cura con cui sono state assemblate
testimonianze dal mondo dell’editoria, di scrittrici, scrittori, critici, che
entusiasti del progetto hanno contribuito in vario modo a ricostruire la
carriera e la vita di Mori, grati di averne potuto apprezzare generosità e
talento. Non meno prezioso è stato il contributo dei familiari, che, pur
schivi e riservati, hanno accettato di condividere il lato più umano e
nascosto di una donna di eccezionale tempra.
Il saggio è arrivato a noi traduttrici in corso d’opera, lasciandoci incredule
e deliziate per l’inattesa coincidenza dei tempi, dopo molti anni in cui di
Yōko nessuno si era più occupato. L’omaggio emozionante di Shimazaki ha
rigenerato il senso e le energie nel tradurre, adesso, Mori Yōko. Shimazaki
era alla ricerca di un soggetto che avesse caratterizzato gli anni ’80 e,
intervistata da NHK Radio, spiega:

Nel mio saggio «Il cappello di Mori Yōko» ho scritto di come vivono
ora le donne, ma volevo scrivere degli anni ’80, quelli che incarnano
l’era della bolla, a cui adesso si pensa a fatica, ma che restano un’epoca
che il Giappone ha vissuto. Quando ho capito che potevo farlo, l’unico
nome che mi è venuto in mente è stato Mori Yōko. Gli anni ’80
corrispondono a un periodo in cui la cultura del consumismo prosperava,
ma anche a un momento maturo per le donne. Fu in quelle circostanze
che Mori Yōko, la quale negli anni ’70 aveva cresciuto tre figlie come
casalinga a tempo pieno, mentre tutt’intorno il mondo gridava per
l’indipendenza delle donne, sentì di essere isolata dalla società.
Depressa, scriverà un romanzo, in fretta. Dopodiché, diventerà una
scrittrice popolare in ascesa, di pari passo con l’ascesa dell’economia
giapponese.9

Aggiunge Shimazaki in altra sede:

Attraverso le interviste, ho appreso delle vere battaglie di Mori.


L’equilibrio tra lavoro e famiglia, il tema dell’indipendenza delle donne,
la faida con il marito, il conflitto con la madre Kimie fin dall’infanzia
[…]; le ansie di Mori Yokō sarebbero state le stesse preoccupazioni delle
donne nel XXI secolo. […]. Ho scoperto che era stata lei a discuterne
come un «problema femminile» prima di chiunque altro.10

«Il cappello di Mori Yōko» è nato al tavolo di bar, a cui sedevano


Shimazaki, un editore e Yamada Eimi – fan, amica e, dopo l’esordio del
1985, collega di Mori –, la quale, interpellata dall’autrice sulla proposta che
fosse lei a scrivere un saggio su Yōko, rifiuta, specificando di saper scrivere
solo romanzi. Rimboccatasi le maniche, Shimazaki comincia le sue
interviste. Dopo la pubblicazione, è lei a rilasciarne molte ai media; ne
riportiamo alcuni stralci.
Il libro si basa su interviste a varie persone che hanno conosciuto Mori
Yōko. Prima di tutto, appare all’inizio la giovane scrittrice Yamada Eimi,
appena diciannovenne quando uscì Fame d'amore. Sembra che Yamada
abbia letto l’opera prima di Mori e inconsapevolmente l’abbia subito
fatta sua. Immagini quale indelebile impressione ne ebbe Yamada Eimi!
[…] I luoghi che fanno da sfondo ai racconti, come Roppongi o le ville,
sono costellati di paesaggi che non erano ancora mai apparsi nei romanzi
giapponesi, e lo stile di scrittura è molto elegante e asciutto. Anche
quando parla di sesso, non mi dispiace affatto, non è predominante e
appiccicoso, ma piuttosto fluido. È stato il primo romanzo a descrivere il
mondo che desideravamo, e penso che sia stato il più emozionante.
Yamada Eimi ha detto: «Fame d’amore ti tocca nel profondo. Ho
pensato significasse che c’era una donna con tutti i crismi, capace di dire
“voglio essere così”».11

In chiusura vogliamo menzionare Makoto Ueda, che con acume critico ha


inserito per la prima volta Mori Yōko in una raccolta letteraria in lingua
inglese, accanto a nomi imponenti della storia della letteratura giapponese,
in The Mother of Dreams – Portrayals of Women in Modern Japanese
Fiction, pubblicato da Kodansha nel 1986, innescando la curiosità di
saperne di più. Comparve poi nel 1993 la traduzione di alcuni dei racconti
di Beddo no otogibanashi a opera di Sonia L. Johnson, sempre per
Kodansha, e infine il lavoro del 2010, a tutt’oggi il più esaustivo in una
lingua occidentale, stilato da Diana Donath con infinita accuratezza e
affetto12.
Un ringraziamento sentito va alle figlie di Mori Yōko per aver approvato
la selezione, a prima vista stravagante, dei racconti inseriti in questa
edizione italiana, all’editore Lindau per la fiducia riposta in noi, e a Dolly,
senza la quale non saremmo arrivate qui.

1
Jōji 情 事 , qui liberamente reso con Fame d'amore, ha impegnato noi traduttrici a lungo.
L’alternativa più letterale di questioni/affari/fatti di cuore o sentimentali non aveva chance per
diventare un titolo rispondente al contenuto, che invece dichiara una «fame d’amore». Lo stesso
vocabolo ricorre in molti racconti, di volta in volta si è cercato di renderlo nel significato più aderente
possibile all’originale.
2
Cfr. Postfazione di Honda Midori, in Mori Yōko, Owari no bigaku. L’esthétique de l’adieu (終わり
の美学. L’esthétique de l’adieu), Kadokawabunko, Tokyo 1993, pp. 243-253.
3
Otterrà una seconda candidatura al premio Akutagawa nel 1982, con Kizu (傷) [Ferite]. Nel 1983
sarà candidata all’88° e 89° premio Naoki con Atsui kaze (熱い風) [Vento caldo] e Kaze monogatari
(風物語) [Storia nel vento].
4
Hayase Keichi, nota critica a Beddo no otogibanashi, Bungei shunjū, Tokyo 1989.
5
Tratto da «Nihon Keizai Shimbun», edizione serale, 10 gennaio 2017
(https://style.nikkei.com/article/DGXMZO11476970Q7A110C1NZBP00/).
6
http://syosaism.com/mori-yoko/2021, gennaio-marzo 2021. All’iniziativa seguì la pubblicazione di
un molto commerciale My Collection (マイコレクション), Kadokawa, Tokyo 1991.
7
Cfr. https://www.karuizawa.co.jp/suzunone/.
8
Shimazaki Kyōko, Mori Yōko no bōshi ( 森 瑶 子 の 帽 子 ) [Il cappello di Mori Yōko], Gentōsha,
Tokyo 2019.
9
Da un’intervista a NHK Radio del luglio 2019 (https://www.nhk.or.jp/radio/magazine/detail/my-
asa20190714.html).
10
Tratto dalla rivista giapponese «CREA», 2019.
11
Cfr. supra, nota 9.
12
Diana Donath, Female Issues and Relationship Constellations The Literary World of Mori Yôko
and Other Japanese Women Writers, Jagiellonian University Press, 2010.
Glossario

Hostess: termine che indica giovani donne che prestano servizio in locali di
vario tipo, il cui lavoro consiste nel servire da bere e intrattenere i clienti.
Kanji: caratteri impiegati nella scrittura giapponese, introdotti nel VI secolo
d.C. dalla Cina.
Love hotel: alberghi aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, diffusi in tutto il
Giappone e utilizzati dalle coppie per trascorrere momenti di intimità. Le
stanze sono spesso arredate a tema o con fantasie particolari.
Nigiri zushi: bocconcini di riso conditi con aceto di riso e con sopra fettine
di pesce crudo, da mangiare intinti nella salsa di soia.
Office lady: spesso abbreviato OL, è un termine che si riferisce alle
dipendenti d’ufficio, impiegate solitamente nel ruolo di segretarie o
amministrative.
O-miai: incontro combinato a scopo matrimoniale, richiesto spesso dalle
famiglie, nel quale è prevista di solito la presenza di un nakōdo, sensale che
svolge un ruolo di intermediazione tra le parti e assiste i due candidati.
O-shibori: piccolo asciugamano umido, caldo o freddo a seconda della
stagione, offerto solitamente agli ospiti di un locale per detergersi le mani.
Salary man: termine che indica un lavoratore dipendente di sesso maschile
impiegato nel settore terziario, colletto bianco.
San: suffisso onorifico che si pospone al nome o al cognome di una
persona. Si usa indifferentemente nei confronti di uomini e donne, ma non
riferendosi a sé stessi.
Sashimi: fettine di pesce crudo che solitamente si consumano intingendole
in salsa di soia e wasabi, una crema verde e piccante a base di rafano, usata
principalmente per insaporire il pesce crudo.
Shisomaki: snack estivo composto da involtini a base di foglie di shiso
(basilico cinese), ripieni di miso e ingredienti a piacere, fritti o cotti in
padella.
Soba: spaghetti di grano saraceno che possono essere serviti in brodo caldo,
oppure freddi, da intingere in una salsa a base di soia.
Tsubo: unità di misura tradizionale giapponese; uno tsubo è pari a circa 3,3
metri quadrati. Rappresenta l’area di due tatami standard, ed è ancora
comunemente utilizzato per trattare il prezzo della terra in Giappone.
Tsukune: spiedini a base di pollo o maiale, serviti in forma di polpetta,
glassati in salsa teriyaki (a base di soia), sake e zucchero.
Yakitori: spiedini di pollo alla brace imbevuti e arrostiti in una salsa a base
di soia e sake.
Yukata: kimono leggero in cotone non foderato, chiuso in vita da una
cintura di stoffa. È utilizzato tipicamente in estate, in situazioni informali o
nei luoghi di villeggiatura termali.
All’inizio degli anni ’80, mentre il Giappone è in grande ascesa grazie alla
bolla economica che sembra permettere a tutti di realizzare i propri sogni,
Mori Yōko assurge a icona del filone letterario che ha al centro le furin, le
relazioni «fuori dal cerchio». Nei suoi racconti, i ricchi e vivaci quartieri di
Tokyo fanno da cornice a tradimenti consumati o solo immaginari, a vite
segrete, a desideri frustrati o appagati clandestinamente. Ma soprattutto
emerge con forza, spesso drammatica, il bisogno di autodeterminazione che
anima le protagoniste, in un paese dove le donne erano ancora sottoposte a
rigide convenzioni e spesso intrappolate in matrimoni infelici.
Fiabe di letto ripercorre la parabola letteraria e stilistica della scrittrice,
contraddistinta da quella «fame d’amore» che dà il titolo al lungo racconto
che apre la raccolta. Nelle sue storie, spesso brevi ma di grande tensione
narrativa, Mori Yōko esalta la forza liberatrice dell’eros e indaga con uno
sguardo acuto e ironico i rapporti di coppia dentro e fuori dal matrimonio,
portandone alla luce le contraddizioni ma anche quegli squarci di libertà in
cui ogni donna può ricercare sé stessa.
Mori Yōko (1940-1993), scrittrice, saggista e traduttrice giapponese, si formò presso l’Università di
Belle Arti di Tokyo, dove studiò violino a lungo prima di dedicarsi alla scrittura. Ebbe un rapporto
precoce e prolungato con la cinematografia e la letteratura occidentali, che riecheggiano spesso nelle
sue opere. Esordì tuttavia solo a trentotto anni, ottenendo subito importanti riconoscimenti,
soprattutto per i suoi racconti incentrati su figure femminili alle prese con i propri desideri di
emancipazione.
Indice

Avvertenza
Nota introduttiva
Fame d’amore

FIABE DI LETTO
Carta di credito
Bloody Mary
La venticinquesima ora
Amiche
Vigilia di Natale
L’orecchino di giada
Scorci di felicità

IL SOGNO DI CLEOPATRA
Calici da vino
Carta d’ingresso
Tampax
Gitanes
Carta igienica
I leoni di Mitsukoshi

SENZA RANCORE
Dopo la festa
I fidanzati delle amiche
Innamorarsi
Dialogo tra marito e moglie
Da Jōji a furin

Appunti di lettura
Glossario

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