Fiabe di letto
Fiabe di letto è un tributo postumo a Mori Yōko. Nel 1978 con Fame
d’amore (Jōji), il lungo racconto che apre questa raccolta, tracciò un solco,
che fu poi seguito e ampliato da quante intuirono il valore della sua
autenticità, umana e letteraria.
Vorremmo che fosse ancora qui a dispensare fiducia e ironia, ma
prematuramente se n’è andata, nel 1993. Le chiediamo scusa per il ritardo
nel dare forma al progetto di introdurla ai lettori italiani. Al suo imprinting
vorremmo ora restituire il dovuto, suggerendo a chi legge di
contestualizzare il Giappone di Mori Yōko.
Yōko scriveva nell’era pre-digitale, pre-blog, pre-social, parlava da
cornette di telefoni ormai scomparsi, descriveva luoghi e abitudini che il
XXI secolo ha trasformato, ma ha vissuto ed è diventata popolare alla
velocità di un tweet. Cercheremo di darne conto nei cenni biografici e negli
«Appunti di lettura» in chiusura di volume.
Le traduttrici
Fame d’amore
Per quanto il rimpianto possa essere tangibile, è il tempo, infine, che porta
inevitabilmente a dimenticare. O magari continuerò a imprimere il mio
dolore tra le righe delle pagine del libro che rigiro tra le dita, intrise dei miei
dubbi.
Ma lui… Lane?
Mi veniva la nausea a immaginarlo in quel momento nella sua stanza di
Aoyama, dove non soffia un vento dolce che lenisce la rabbia, in balìa di un
senso di libertà misto a disprezzo e amarezza, a causa mia. Nella mia
mente, il sorriso beffardo e sprezzante di Lane, che avevo imparato bene a
conoscere, mi strozzava lo stomaco nel dolore.
Le lacrime avevano lavato via dal mio volto la tristezza, trasformandola in
sofferenza fisica. I miei occhi, privi di espressione, mi fissavano allo
specchio. Mentre mettevo il rossetto e mi strofinavo il mascara colato sotto
gli occhi, il peso di cui mi ero liberata era solo una magra consolazione.
Un venerdì di fine giugno. In quella sera di caldo afoso, mio marito aveva
in programma di andare insieme a nostra figlia Erika poco lontano, nella
casa di villeggiatura di Akiya. Quel sabato a mezzogiorno dovevo ritirare
un nastro da tradurre, così ci eravamo accordati che li avrei raggiunti il
giorno dopo.
«Lo sai, cerco sempre di evitare di prendere lavori di sabato, se possibile»
dissi a mio marito mentre era di spalle e caricava le buste della spesa nel
portabagagli dell’auto. «Stavolta si tratta di un radiodramma americano.
Quando mi hanno detto che si trattava di un giallo, mi è venuta una gran
curiosità. Mi spiace, ma devo assolutamente occuparmene».
«Va bene. Non è la prima, e non sarà l’ultima volta. Comunque, hai messo
il caffè nel thermos?».
«Sì, l’ho messo, Paul. Ho preparato anche del pollo freddo e una torta al
cioccolato. Falli mangiare a Erika in macchina».
«Grazie. Bene, noi andiamo. Perché stasera non passi a trovare tua
madre?».
«Sì, forse». Quella sera non avevo la minima intenzione di andare a casa
di mia madre a Seijō, così risposi vagamente: «O potrei andare a mangiare
da qualche parte fuori…».
In quel momento mi venne in mente il volto di Nishiwaki Shunsuke.
Mio marito mi diede un bacio in fronte. Gli lanciai uno sguardo per
salutarlo, i suoi occhi con la luce del sole avevano assunto una tonalità
verde intenso. Lui e nostra figlia si allontanarono; Erika, seduta sul sedile
posteriore della Crown, saltellava leggera canticchiando come un uccellino
e, agitando la mano bianca, mi salutava.
In casa era già calata la sera, simile a un profondo torpore. In
quell’oscurità, per un attimo, mi sentii serena. Il modo in cui avevo
mandato via mio marito, mutando la freddezza del mio cuore in un sorriso,
in una recita estremamente naturale, mi fece pensare a una messa in scena
sgradevole e dozzinale. Ma in questo sapevamo di essere complici, e il suo
far finta di nulla era un tentativo di andare d’accordo senza mostrare i denti.
Ormai ci eravamo abituati a questo, eppure, ancora nell’ombra, tra le
pieghe di qualche luogo dell’anima, ciò che assomigliava a insoddisfazione
e rabbia andava trasformandosi in nervosismo, che non poteva essere
cancellato, e continuava a bruciare.
Incrociai le braccia al petto e per un momento rimasi immobile, quasi
stordita, tenendomi stretta.
Poi telefonai a Shunsuke.
Una lunga notte di venerdì, il senso di colpa di non trascorrerlo insieme a
mio marito e a mia figlia improvvisamente svanì, e nella malinconia ubriaca
che genera la notte, vidi una fredda fiamma divampare in fondo al cuore.
Come una pianta rampicante si avvinghiava tra le articolazioni e in breve
mi scaldò il sangue, straripando, allungandosi dalla mano fino alla cornetta,
quasi strattonandomi.
Eppure tentennai, esitando a lungo; mi assaliva sempre un senso di
avversione verso il telefono nel momento in cui stavo per comporre il
numero.
Quell’apparecchio nero, rannicchiato, senza carattere, poteva trasmettere
al mio interlocutore, non sapevo mai fino a che punto esattamente, la mia
voce e i miei sentimenti. Tutto ciò mi generava sempre ansia, dover parlare
attraverso quell’oggetto tanto scivoloso quanto inquietante quasi mi
terrorizzava.
Non parlavo con Shunsuke dalla fine di settembre dell’anno precedente.
Avevamo mantenuto una fragile amicizia dopo esserci laureati, sentendoci
al telefono o vedendoci due, massimo tre volte l’anno, per scrutarci a
vicenda e poi far ritorno alle nostre vite ormai separate.
Nishiwaki Shunsuke, iscritto come me all’Università di Belle Arti, al
corso di architettura, era un ragazzo dal corpo flessuoso e dall’espressione
attenta come quella di un falco. Io mi stavo specializzando, senza successo
in verità, in violoncello, presso la Facoltà di musica dello stesso ateneo.
Quando ci incontrammo davanti alla recinzione rotta del cortile, ero una
ragazza che non conosceva il mondo, e il solo fatto che avesse spalancato i
suoi occhi color nocciola mi mandò in estasi, mi innamorai. Dopo una
fanciullezza trascorsa senza nessuno, mi ritrovai a sperimentare un’intensa
tempesta di emozioni. Finita l’università, gli amici credevano che ci
saremmo sposati, e così si aspettavano i nostri genitori, ma tradimmo tutti,
rompendo una relazione che durava da tre anni.
Shunsuke, una volta laureato e libero da tutto ciò che aveva a che fare con
la vita universitaria, era pronto per un mondo nuovo. Per cogliere le
possibilità che il suo talento gli offriva, partì da solo per Harvard,
voltandomi le spalle, quelle spalle esili sulle quali, per un momento, sembrò
quasi farsi carico delle mie sofferenze passate. Ciò che vedevo, mentre le
sue spalle si allontanavano sempre più, era la decisione non edulcorata di un
perfetto sconosciuto, che opponeva un rifiuto netto al passato, barattandolo
con una sicura libertà.
Anch’io, di colpo, mi ritrovai sgombra da sentimenti di complicità,
indolenza, diffidenza e amara gelosia. All’inizio, in quel vuoto inafferrabile,
provai un brivido di terrore per aver perso il mio futuro a causa di
un’illusione di gioventù, non sapevo nemmeno come occuparmi di me
stessa. Non sapevo che fare delle mie braccia, se abbassarle o sollevarle, se
mi desse sollievo tenerle immobili, o se mi fosse di aiuto stringermele al
petto. Alla fine, non mi restava altro da fare che sbatterle, continuando a
colpire le pareti bianche della stanza più forte che potevo, ogni giorno.
Mi liberai in fretta del pensiero di Shunsuke soltanto per proteggere il mio
orgoglio. Dalla sofferenza di quei giorni imparai a non legarmi troppo
all’amore, ovviamente, ma neanche alle persone, agli amici, alle arti, e in
generale a ogni espressione del genere umano.
E quando, poco dopo, giunsi alla decisione di provare a spiccare il volo
con le mie piccole ali, come prima cosa smisi col violoncello. C’erano
limiti evidenti alle mie capacità, e detestavo essere sempre relegata in un
angolino dell’orchestra. Fu soprattutto papà a stupirsi della mia decisione,
ma lo convinsi a forza, nonostante non volesse arrendersi, che avrei badato
a me stessa.
Perciò, quando finalmente potei cambiare ruolo, mettendomi dal lato di
chi ascolta un’esecuzione musicale, tirai un sospiro di sollievo. Una vita di
musica durata diciassette anni, che si erano accatastati con caparbietà fino a
quel momento. Un mondo fatto di esercitazioni fino quasi a sputare sangue,
se soltanto ci ripensavo. Erano uno strazio quegli esercizi ripetitivi, la
musica a un certo punto aveva finito col fagocitarmi al suo interno, come
fossi un guscio di carne: rompere quel guscio trasparente comportò quasi
una sofferenza fisica. La sensazione di stanchezza dopo aver cambiato
pelle, più della sensazione di libertà che Shunsuke mi aveva procurato, fu
per me un grandissimo motivo di sollievo.
Ripresi i contatti con lui soltanto dopo tre anni, quando gli annunciai il
mio matrimonio.
Quell’uomo, con l’aria di essere arrivato per caso, era fermo a fissare rapito
la ressa all’interno del pub, poi fece una smorfia. Lasciò vagare lentamente
lo sguardo attraverso il locale, per fermarsi di colpo su David. Si fece
rapidamente strada tra la folla proseguendo sempre dritto, fino a dove
eravamo noi. Quando si avvicinò, mi accorsi dei suoi capelli mossi, neri e
folti, e dei suoi occhi blu, dello stesso colore del mare al tramonto. Quegli
occhi incorniciati da lunghe ciglia nere.
A dispetto della mia età, quasi mi mancò il fiato. Fui irrimediabilmente
attratta da quello straniero, e mi vergognai un po’. Mi sentii inquieta.
«C’è un casino pazzesco, vero?» disse quasi senza muovere le labbra,
mentre David lo salutava con la mano. La sua voce aveva un timbro basso e
vagamente malinconico.
«Come ogni venerdì» rispose in maniera scontata David, che con voce
cristallina lo accolse cordialmente.
L’uomo, sorridendo, distolse lo sguardo da David e si rivolse agli altri
clienti abituali seduti ai loro tavoli. Si guardò attorno, indugiando con
attenzione su ogni viso, e annuiva sorridendo alle persone che conosceva,
mormorando tra le labbra «Ciao», «Come va?», «Ma dai?».
Capelli come seta nera e occhi blu come inchiostro. Quell’uomo senza
dubbio doveva possedere anche una bella dose di arroganza, tipica di quelle
poche persone al mondo benedette da una tale combinazione di tratti
meravigliosi.
Persone del genere, abituate fin dall’infanzia a essere costantemente
lodate per la loro bellezza, sviluppano una straordinaria fiducia in loro
stesse. Un fascino così straripante talvolta può dare l’impressione di una
bellezza vitrea, da cui sembrano quasi scaturire fiamme fredde.
Eppure, quell’uomo di fronte a me chiaramente era già stato ferito, e
un’espressione cinica e diffidente pareva emergere dalle sue crepe. Sotto il
suo contegno colto e raffinato, adatto all’età, ai suoi abiti casual,
nascondeva la sua lascivia e la sua intelligenza, peraltro evidenti, con
accortezza. Nell’istante in cui ci incontrammo per la prima volta la notai,
quella sottile ferocia che si insinuava nei suoi bei lineamenti duri. Sembrava
aver già bevuto parecchio, e nei suoi occhi aleggiava un’espressione
sfrontata, di sfida. Il suo sguardo si fermò su di me. David ci presentò.
«Yōko, non conosci Lane, vero? Lane Gordon. Aggiungo, per rispondere
alla tua curiosità: trentacinque anni, americano, single». Poi si rivolse a
Lane: «Yōko si occupa in maniera artistica di traduzioni pessime».
Gli tesi la mano destra, sferrando un calcio a David prima che
aggiungesse altro. «Piacere di conoscerti».
Lane prese lentamente la mia mano e la strinse, chinando leggermente la
testa; mentre me la stringeva con forza, rivolse lo sguardo a David, che era
accanto a me, con un enigmatico, nonché terribilmente affascinante, sorriso,
poi di nuovo spostò i suoi occhi azzurri e freddi su di me. Il suo sguardo,
fisso su di me, d’improvviso si abbassò dolcemente, e lento scivolò giù dal
mio viso sul collo, e poi fino al mio seno: pensai si stesse attenendo a uno
schema collaudato e, nonostante l’intimo disprezzo e il fastidio che ciò mi
provocava, rimasi immobile, come paralizzata, riconoscendo un che di
sensuale nel sorriso che indugiava sul volto di quell’uomo, quasi oscurato
dal desiderio che si leggeva nel fondo del suo sguardo.
«Poter incontrare una donna così affascinante rende sopportabile persino
il folle trambusto del venerdì sera». Così dicendo, si allontanò dal nostro
tavolo per prendere da bere al bancone, mormorando qualcosa tra i denti, in
maniera un po’ scortese. Vidi i suoi capelli neri, attorcigliati sulla nuca
disegnando morbide onde, passare sopra le teste delle altre persone.
«Che sfacciato, quello, un vero maleducato» osservai, e David,
guardandomi, scoppiò a ridere.
«Piantala Yōko, che assurdità! Ehi, non ti è piaciuto come ti ha guardata?
Se, al contrario, non ti avesse guardata in quel modo, l’avresti preso come
un affronto!».
«Be’, mio caro David Hall. A quanto pare, mi conosci bene. Allora
dimmi, per favore, cosa pensi che succederà?».
«Facile. La maschera della fredda e stoica Yōko si scioglierà per
l’eccitazione e gli ormoni, e ciò che apparirà sarà soltanto nudo desiderio.
Tipico di una donna come te».
«L’onestà eccessiva non sempre è apprezzata, David. Per stavolta ti
perdono, ma solo perché hai bevuto un po’ troppo, ok? Però cerca di essere
più gentile».
David mi diede un bacio sulla guancia e ci riconciliammo. Vedendo Lane
che tornava al tavolo con birra e whisky su un vassoio, David mi bisbigliò
sottovoce: «Non per insistere, ma non è il tipo perfetto per il tuo
“passatempo”?».
«Il mio passatempo?».
«Capelli neri. Occhi blu. E poi quell’espressione sofferta sul suo
bellissimo viso».
«Ti ho forse mai raccontato dei miei gusti?».
«Lo hai fatto. Vuoi che ti ricordi quando?».
In quel momento Lane si intromise: «Scusate il disturbo, questi ve li offro
io», porgendo a me il whisky e a David una birra.
«Grazie, Lane» dissi educatamente, e David mi bisbigliò all’orecchio:
«Un’estate fa. Nel tuo letto».
Mi morsi il labbro inferiore. Poi i nostri sguardi si incontrarono, e David
chinò il capo sorridendomi.
Lane, girando attorno, venne vicino a me e, appoggiandosi al tavolo, mi
guardò. «Vieni spesso qui?».
«Ogni tanto».
«Non ti avevo mai vista prima».
«Magari ci siamo visti, senza notarci».
«Non penso, in tal caso ci conosceremmo già da un pezzo. Non avrei mai
potuto ignorarti».
E di sicuro neanch’io, Lane.
«Quindi traduci. E cosa, di bello?».
«Principalmente da nastro. Trascrivo e traduco. Ultimamente ho ricevuto
diversi audio di interviste e conferenze del movimento femminista».
«Interessante?».
«A dir la verità, non particolarmente. In realtà mi piacerebbe tradurre
racconti di satira o opere di black humour. Come quelle di Roald Dahl, hai
presente? Però quel tipo di lavoro non va, purtroppo».
«Peccato» disse Lane giocherellando col bicchiere, poi restò per un po’ in
silenzio. David allora intervenne: «Sai, anche lui scrive storie».
«Davvero? Allora mi piacerebbe proprio leggere qualcosa di tuo. Che
genere di storie scrivi?».
Lane, balbettando maldestramente, replicò: «A me non interessano
granché cose come la satira, il black humour o il femminismo; a me,
semplicemente, interessano le storie. Raccontare l’umanità. Vorresti venire
a vedere?».
Ignorai quel suo ultimo commento lanciato con disinvoltura. Eppure,
continuava a risuonarmi sorprendentemente nelle orecchie, come fosse
animato da una propria volontà: «Vorresti venire?», «Vorresti venire?»,
«Vorresti venire?».
Continuando a tacere, Lane mi osservava di sottecchi, lo sentivo. Poi
riprese a parlare in un tono amichevole.
«Sei una donna che veste molto sexy». A queste parole, ripensai alla
conversazione di poco prima con David e mi sentii a disagio. D’un tratto lo
sguardo gli cadde sul mio seno, così mi accorsi che in controluce si
vedevano i capezzoli. Lane, allo stesso tempo, notando che me ne ero
accorta, si affrettò a distogliere lo sguardo.
«Conosci Jane Birkin?».
«Quella del movimento No-Bra?».
«Allora sai di chi parlo». Ne fui sorpresa.
«Ne ho letto molto per lavoro. Soprattutto gossip e scandali».
«Meno male allora che non sono famosa».
Lane rise divertito a gran voce, e si portò alla bocca il bicchiere quasi
vuoto, scolando d’un fiato gli ultimi sorsi di birra. Incantata da quel gesto
virile, gli domandai: «Lavori nella stampa?».
«Qualcosa del genere. Collaboro con la rivista “NW”. Sono uno scrittore
freelance».
La conversazione si spostò nuovamente su Jane Birkin.
«Lei non ha proprio seno, se fosse per me non la farei nemmeno rientrare
nella categoria “donne”».
«Quindi non rientra nei tuoi gusti, che peccato!» replicai un po’ delusa.
«Fortunatamente, al mondo c’è anche chi ritiene sexy un seno piccolo».
Lane, allora, sbirciando di proposito il mio, dichiarò: «Be’, è un po’ meglio
di quello di Jane». Poi scoppiò a ridere, battendosi la mano destra sulla
fronte. Venne da ridere anche a me. Mentre ridevo, mi chiesi cosa ci fosse
di così buffo, e questo mi fece ridere ancora di più, tanto da farmi uscire le
lacrime.
David ci guardava con l’aria di chi volesse chiederci che diamine
avessimo da ridere, poi scrollò le spalle.
«Lane» ridendo lo chiamai a gran voce, «mi ha appena detto che sono un
po’ meglio di Jane Birkin». Lane sembrava stesse morendo dalle risate.
David, sorridendo amaramente, chiese: «Meglio in che senso?».
«Conosci Jane Birkin?».
«Veramente no».
«Allora ok, lasciamo perdere!».
David si strinse nelle spalle e, borbottando che eravamo entrambi
ubriachi, guardò l’orologio. Poi si voltò in direzione di Jill, lei alzò gli occhi
e lo guardò. Nonostante le spalle e le teste delle persone nel locale, i loro
sguardi si incrociarono; Jill fece un cenno e si alzò. Diede un colpetto con le
sue mani bianche sulla spalla di Anne e le sussurrò qualcosa, poi si congedò
e si incamminò nella nostra direzione.
«Torni già a casa, darling?».
«Tra un po’. Domani mi alzo presto».
«È vero, hai l’aereo alle nove. Ti accompagnerei, ma ho del lavoro da
sbrigare».
«Non preoccuparti» rispose David gentilmente, stringendo Jill a sé.
Fui sorpresa. «Dove vai David?».
«A Hong Kong, per lavoro. È una storia complicata».
«Non ne sapevo nulla. Per quanto tempo? Starai via molto?».
«È una cosa lunga. Quando tornerò avrò i capelli bianchi. O forse tinti,
chissà» così dicendo, diede un bacio in fronte a Jill. «Però stanotte dormi
con me, vero?».
«Ma certo, caro».
«Allora David, quanto a lungo resterai via?» gli rivolsi la stessa domanda
una seconda volta.
«Un mese. Durante la mia assenza mi penserai un po’, Yōko?».
«Sarà noioso venire qui senza di te. Certo, ti penseremo tutti con
malinconia».
«Mi fa piacere. Hai sentito, Jill? Grazie, Yōko. Anche se non è vero, mi fa
piacere lo stesso sentirmelo dire!».
David, facendo un giro intorno al tavolo, ci salutò. «Stammi bene»,
«Good luck, Lane!», «È stato un piacere conoscerti»… Così dicendo, si
avvicinò e mi bisbigliò all’orecchio: «Hai visto le mani di Lane? Sono lisce
come quelle di una donna, vero?» facendomi il solletico sulla pancia. Con
la punta delle scarpe gli mollai un calcio sullo stinco. Poi, ricevendo svariati
«Buon viaggio» e «Good luck», si apprestò a uscire con passo malfermo.
«Che tipo» mormorò Lane, come se parlasse da solo.
Si stava facendo ormai mezzanotte al pub, ma c’erano ancora alcuni
clienti.
«Be’…» cominciò Lane con un tono imbarazzato. «Hai intenzione di
passare qui tutta la notte? Oppure andiamo da qualche altra parte? Non hai
fame?» continuava a chiedermi.
«Non ho particolarmente fame, ma va bene. Qui ci si annoia. Se vai a
mangiare qualcosa, ti faccio compagnia».
«Perfetto, andiamo» così dicendo, Lane mi afferrò per il braccio. E
uscimmo dal locale.
Dei miei undici anni di vita coniugale, gli ultimi tre sono stati quelli in cui
ho avuto più relazioni con uomini diversi. Poco dopo aver compiuto
trentatré anni cominciai a sentire che non ero più giovane e questo pensiero
si impadronì di me. Di tanto in tanto, mentre lavoravo, prendevo a fissare il
mio volto allo specchio, sempre di più, sempre più a lungo. Non importava
che lo specchio potesse restituirmi la migliore delle espressioni, o che non
sostenessi la vista del mio volto in lacrime; a volte mi piacevo, a volte mi
irritavo, di fatto non avevo modo di contrastare quell’immagine che
rifletteva l’età, il passare degli anni. La giovinezza si allontanava a poco a
poco dalla carne e ne sentivo forte la minaccia, perdevo l’allerta dei sensi.
In più, a dimostrazione di quel che sentivo, era accaduto qualcosa; era stato
come un pugno allo stomaco, nell’estate di tre anni prima, una sera, al
tramonto, in riva al mare. Mi crogiolavo nel crepuscolo, intingendo la punta
delle dita nel rosso violaceo: in un istante imprecisabile, la mia anima ne fu
travolta, e fu bellissimo. Ma all’improvviso, mentre guardavo il sole
abbassarsi, mi resi conto di aver perso il tepore della commozione profonda.
Percepivo, senza volerlo, il calar del sole come una funzione della grande
natura, un mero evento a cui ormai cominciavo ad abituarmi; quella sera,
che avrei dovuto celebrare, mi ritrovai immobile come un palo, per
l’incredulità, l’ansia, la paura. Piansi e fui invasa dalla tristezza, quella sera,
quella dopo e dopo ancora e per sempre; solo molto più tardi fui certa che
da quel momento molte altre toccanti espressioni di vita mi avrebbero
abbandonato. Che mi sarebbero state precluse.
In tal senso, il mare fece lo stesso con me l’anno seguente,
abbandonandomi: era stato intimo testimone della mia inquietudine, della
malinconia, dell’allegria.
Il mare. Quel mare che mi placava, mi sommergeva, mi lasciava osservare
il mondo nel suo mistero, quell’anno all’improvviso mi ripudiò. Era luglio
inoltrato, eppure l’acqua del mare non si scaldava, e in piena estate non mi
attirò a sé neppure una volta. Poco a poco, ma sempre di più, mi diventava
indifferente, insomma che cosa avrei potuto fare verso quel mare che
continuava a respingermi a quel modo? Così, poiché il legame tra me e il
mare, tra un uomo e una donna o, portato all’estremo, tra me e mio marito,
sembravano molto simili, la lontananza sopravvenuta mi riportò al mio
corpo che perdeva la gioventù, e questo mi ferì con doppia crudeltà. Ma, al
contrario, più sentivo che la gioventù mi veniva strappata via, più
aumentava il mio desiderio e la fame di sesso. C’è stato un periodo in cui
ero nella tensione continua di fare sesso, fino a vomitarlo, e il desiderio di
quel vomito non mi abbandonava un solo momento. La passione non nasce
con uno schiocco di dita, e pensai fosse inevitabile che mio marito non mi
soddisfacesse mai abbastanza. Lui si dedicava completamente al lavoro,
questo lo capivo. Mi sembrava persino accettabile che nel fine settimana
lasciasse me ed Erika nella nostra casa al mare, per andarsene col suo yacht.
Questo potevo perdonarlo. Quel che non potevo più sopportare era la sua
arrogante noncuranza nel pensare che si potesse continuare come se niente
fosse, con un marito ignaro delle ansie e dei desideri della moglie. Nel giro
di pochi anni gli uomini avrebbero smesso di girarsi a guardarmi, quanto
tempo mi restava fino al momento in cui il loro sguardo non si sarebbe più
soffermato sul mio volto? Nella vita di una donna c’è un apice, in cui
raggiunge il massimo di raffinatezza e completamento; quel momento era lì,
mentre scoprivo di non suscitare più alcun interesse in mio marito e che non
avrei potuto tenerlo legato a me. Piansi, e piansi. Poi, alla fine di giugno,
incontrai David Hall.
David era uno degli amici di mio marito, lo conoscevo di vista forse da più
di un anno; non avevo mai pensato a lui come a uno con cui avere una
storia.
David aveva tre anni meno di me, era inglese come mio marito, lavorava
in partnership con una ditta nippo-britannica di import-export.
Un fine settimana mio marito, come suo solito, non era a Roppongi, dove
io, dopo una riunione di lavoro protrattasi fino a notte fonda, per consolarmi
pensai di andare al Chalcot House. David era lì.
«E Paul?» aveva chiesto. Non appena gli risposi che era andato al mare,
disse divertito: «Bene! Allora stanotte è la nostra occasione, eh, Yōko? O
non c’è possibilità?».
Quella notte osservai David come se lo vedessi per la prima volta. Questo
ragazzo inglese, capelli castani, occhi marroni profondi, ricambiò il mio
sguardo con un’espressione di tenera insicurezza. Lo incalzai, ordinandogli
come un funzionario di tribunale: «Allora, forza, presentati!».
«David W. Hall. Trent’anni. Scapolo, nazionalità britannica. Curriculum
coniugale, assente».
«Ottimo, Mr. Hall. Hobby? Almeno uno?».
«Andare a letto con una donna».
«Meraviglioso passatempo, David. Allora, fammi dare un’occhiata alle
tue mani, mostramele». Se in quel momento le sue mani non mi fossero
piaciute, tra noi non sarebbe mai accaduto nulla. David me le tese. Due
mani pesanti, grandi come quelle di un operaio, ma nervose e intelligenti.
«David, promosso!».
«Meno male… fiuu!» disse buttando fuori un gran sospiro. A quel punto
brindammo, cominciammo a ridere e a parlare ad alta voce come se non
fossimo lì, ma altrove. Poi, quell’estate, David Hall divenne il mio amante.
A metà luglio di quell’anno, mia figlia e io eravamo a Karuizawa, nella
villa dei miei genitori. Mio marito veniva a trovarci nei fine settimana.
David nei giorni feriali, anche in presenza di mia figlia che aveva dieci
anni, veniva almeno una volta alla settimana: appena finito il lavoro
prendeva al volo il treno dalla stazione di Ueno e arrivava a Karuizawa alle
nove. Al mattino, evitando di farsi vedere da mia figlia, riprendeva il treno
delle sette, direzione Ueno. Quell’estate solo una volta si prese due giorni di
ferie e li trascorse con noi. A mia figlia lo avevo solo presentato come Mr.
Smith, un missionario. Di missionari a Karuizawa ce n’erano a iosa.
A Karuizawa era da poco passato un mezzodì scintillante di luce,
avevamo pranzato ed ero davvero felice. L’aria era profumata e mossa da
una brezza leggera. Uno scoiattolino sbucò nell’ampio giardino e corse via,
ne ridemmo sorpresi. Mia figlia non c’era, era andata a giocare a tennis.
«Chissà per quale karma…» disse David sospirando «alla mia età devo
sottopormi a questi ritmi serrati».
«Lo so io perché, a David piace Yōko!».
In un istante fu in ginocchio davanti a me, e spalancando esageratamente
le braccia, esclamò: «Esatto. È così, io sono il tuo servitore. Se mi ordinassi
di prendere lo scudiscio e sferzare il tuo bel corpo, tra le lacrime, lo farei.
Oppure, vuoi essere tu a colpirmi? O se mi ordinassi di prendere tra le
labbra il tuo meraviglioso piede, ugualmente lo farei, così…» mostrandomi
come leccava un dito del mio piede nudo.
«Oh, Dave, piantala! I tuoi passatempi da vizioso!».
«Ne sono grato» gridò alzandosi di scatto e stringendomi a sé con tutta la
forza delle sue braccia giovani. «Tu mi piaci. Mi sento molto fortunato a
essere stato scelto da te». Poi, come se qualcosa gli tornasse in mente
all’improvviso: «Di’, ma quella volta al Chalcot, quando mi hai ordinato di
mostrarti le mani, ti ricordi? Dopo che mi avevi subissato di domande…».
«Come potrei averlo dimenticato?».
«Mi sono domandato se per caso sulle mie mani si fosse depositata
polvere d’oro. O se fossero mani rispondenti ai tuoi gusti, insomma che
suscitassero un che di peccaminoso».
«Che antipatico!».
«Allora perché?».
«Perché una donna, prima che vada a letto con uno qualsiasi, pone delle
condizioni, Dave. Per esempio, che non sia grasso, che non ti vengano i
conati di vomito al vedere i peli che spuntano dalle orecchie, oppure che
abbia il petto villoso o che sia glabro. Io, infine, guardo le mani. Se sono
troppo delicate, un po’ da donna, o se il palmo è bianco e molliccio, o
stranamente troppo affusolate per un uomo, ecco, io rabbrividisco al
pensiero che mani di quel genere mi tocchino».
«Io, a dire il vero, pensavo di avere delle mani affusolate…».
«Sì, è vero. Affusolate e virili. E poi sono grandi, ossute. Sono bellissime,
quindi…».
«Oh, Yōko, come donna sei proprio pazza! Di uomini rudi al mondo, con
le mani grandi, ossute e virili, ce ne sono una marea».
«Già, Dave, come te».
«Esatto, come me. Ma, Yōko, parlo sul serio, tu sei pazza, chissà che cosa
gira in quella tua testa, sembra tu non sappia parlare di uomini che con un
vocabolario minimo… però sei bella, e quelle tue espressioni fredde, il tuo
seno a cui non so resistere, mi fanno perdere la testa e sono pazzo di te».
«Sai, Dave, ho fatto una cernita degli uomini con cui sono stata in base
alle loro mani, e non mi sono mai sbagliata».
«Quindi quanti? Un elenco…».
«Allora, innanzitutto mio padre. Ovviamente, nel giusto senso, Dave.
L’ho amato molto, mio padre. Aveva bellissime mani. Poi mio marito.
Infine te».
«Solo questi? Forse ometti qualcuno nel mezzo, anche solo il tuo partner
dell’anno scorso, e quello prima, e poi?».
«No comment. Inoltre, mi hai appena dato della pazza. Dimmi che non lo
pensi sul serio… Comunque per questa volta ti perdono. In cambio,
andiamo a letto e facciamo ancora l’amore?».
«Sei una lussuriosa, a parte fare sesso con gli uomini e scrivere cose
improbabili, non c’è altro che ti interessi».
Improvvisamente David si fece serio. «Allora, dai, qui, adesso. Togliti
prima gli slip».
«Qui?».
«Esatto, qui, adesso. Salimi sulle ginocchia. Anche se per caso arrivasse
qualcuno, non si accorgerebbe mai che sotto la tua gonna svolazzante
stiamo facendo sesso».
Ridendo, restai seduta e mi tolsi gli slip. David di colpo mi sollevò la
gonna. Le mie gambe non avevano più scampo.
«Non mi piace, Dave. Che intenzioni hai?».
«Tranquilla, Yōko, stenditi lì. Non c’è anima viva, pure Gesù Cristo
chiuderebbe un occhio. Distesi all’ombra di questo grande albero non si
vede nulla. Dai, va bene così… E ora pensa di essere in paradiso».
«In paradiso? Quindi insieme a Mr. Smith, il missionario?». Ridemmo
insieme sommessamente, dopo un attimo chiusi gli occhi e mi distesi.
David spinse con le ginocchia tra le mie gambe, facendomele aprire.
«Non mi piace. Non farmi fare queste cose, Dave, ti prego».
«Ma di notte a letto fai anche di peggio, no?».
«Non dire cattiverie! Alla luce del sole non mi va. Mi metti alla tua
mercé, disarmata, e non sono tranquilla».
«Questo è il tuo istinto femminile. Tranquilla, Yōko. Ora ci pensa il
maschio reverendo Mr. Smith a proteggerti».
«Però Dave, così no, smettila».
«Dai, per favore! Ci sono solo io, e il sole». Quel suo tono di voce privo
di ansia mi scosse. Rassegnata, rilassai i piedi, e le mie gambe si lasciarono
aprire assaporando i raggi del sole che mi penetravano. Provai una
sensazione dolce, calda, pura. Il tempo scorreva lento.
«Mi sento davvero bene!».
«Certo. Tu in questo momento ti mischi col sole! Una lingua di luce
solare sta umettando le tue più profonde pieghe nascoste. Allora? Che te ne
pare, ti dà piacere, no?».
«Senti un po’, tu hai stoffa per scrivere versi molto sensuali, Dave. Sei
stato capace di allontanare da me ogni pudore».
«Perché non c’è nulla di tanto abietto da provocare inutile pudore».
Il vento soffiava dall’altopiano; e il fruscio misterioso dei milioni di foglie
di quercia sopra le nostre teste sembrava non finire mai. Il sole che filtrava
tra gli alberi si spandeva come neve su di noi.
«Dave».
«Sì».
«A cosa stai pensando?».
«Ti guardo».
«Uhm…? E cosa senti? Prova a dirmelo».
«Be’… vediamo. Innanzitutto, qui è il paradiso. Ci sei? Dagli alberi sacri
ci inonda un’infinita messe di foglie intrise di luce. Sotto gli alberi c’è un
angelo senza macchia. Certo, non è più nel pieno della gioventù, ma mostra
la lingua come una bambina e riposa. Quella sei tu».
«Sei poco carino».
«Non prendertela, ascolta e taci. Io sono un figlio di Dio, sono il
missionario Smith. Sotto questa patina di stoico pallore, qualcosa mi
tormenta. Lo capisci? Mi segui, Yōko? E questa è una dura prova alla quale
Dio mi sottopone. Quella cosa che è lì, tra le gambe lascive dell’angelo che
riposa, in realtà è una cosa bella, e mi sta chiedendo se sono capace di
contemplarla solo come tale; o, al contrario, è un misterioso antro senza
fine, dall’interno caldo e bagnato, profumato del muschio del folto della
foresta. E non è forse la caverna della perdizione che stimola l’istinto
animale?».
«Tu che ne pensi?».
«Chi? Io? O Mr. Smith?».
«Tu, David W. Hall».
«David Hall pensa che sia un bel vedere». In questa sua risposta la voce si
era incupita. Per un momento regnò il silenzio tra noi. Poi, in tono
sommesso, chiesi ancora: «E invece il missionario?».
«Eh, già, Smith» riprese con un tono volutamente seccato. «Per lui, la
cosa dorata che l’angelo ha tra le gambe è una cavità oscena. Questo vede.
Ora è prostrato di fronte a quell’istinto animale che avrebbe dovuto
disdegnare, ha voltato le spalle a ogni dio».
Tuttavia, nei suoi occhi non ardeva la fiamma del desiderio. Nelle sue
pupille nocciola ora più chiare affiorava tenerezza; il suo sguardo era
malinconico e quieto. Poi quel pomeriggio restammo a lungo a fissarci l’un
l’altra.
Erano le quattro, l’ora del tè; noi lo prendevamo all’inglese, mettendo
nella tazza prima latte stiepidito, poi versandoci sopra molto tè denso e
bollente.
«Non c’è niente che batta un tè di prima scelta preparato all’inglese» disse
David con aria felice.
«Guarda, ho anche gli scones!».
«Sono quelli originali?».
«Esatto! Proprio come quelli della nonna. Li ho fatti io».
«Cosa? Tu in cucina! Questa sì che è una sorpresa. Proprio non riesco a
immaginarti che armeggi diligente in cucina, tutta infarinata. Comunque,
ok, approfitto degli scones!».
«Te li scaldo?».
«No, va bene così. Ci metto un bel po’ di burro e marmellata di
albicocche, ne prendo un paio».
Mentre prendevamo il tè, Erika tornò dal tennis.
«È ancora qui?» bisbigliò guardando David di sottecchi, mentre in un
lampo allungò le lunghe braccia dorate dal sole, prese uno degli scones di
David e ne fece un boccone.
«Ma che modi sono! Senza neppure lavarti le mani. E poi, rivolgersi a Mr.
Smith con “è ancora qui” è molto scortese!».
«Scusatemi» si arrangiò Erika da brava ragazza, senza alcuna soggezione.
«Mr. Smith» ripresi sforzandomi inutilmente di mantenere un’espressione
seria «questo pomeriggio è rimasto a lungo con la tua mamma per farla
pregare».
«Davvero, mamma? E come?».
Sentendomi in difficoltà, guardai David. Lui, togliendomi d’impaccio,
rispose: «Ci siamo rivolti a Dio, agli angeli».
«Allora può farlo fare anche a me, no, Padre Smith?». Poiché Erika si era
rivolta a David con quel tono, la sgridai facendola sgattaiolare dentro casa.
«Dopo che ti sarai spazzolata gli scones in cucina, esci di nuovo, giusto?
Bene, prima portamene qui uno per Mr. Smith».
«Capito, mamma».
David sul prato si rotolava dal ridere.
«Ma pure tu, il missionario Smith…» disse David mentre con la nocca si
asciugava una lacrima all’angolo dell’occhio.
«Perché con un missionario non c’è pericolo. Ad esempio, se Erika se ne
uscisse raccontando al padre che c’era un missionario, un tale Smith, mio
marito condividerebbe, ho pensato».
«Al contrario di quanto pensi, io non credo che un missionario non
costituirebbe un pericolo, Yōko…».
«Per favore, non dirlo ad alta voce, Dave. Qui accanto vive la famiglia di
un missionario tedesco».
«Ho capito, ho capito. Però, Yōko, pensaci. Un tempo costoro furono un
pericolo per le sensuali e solari genti d’Africa, imponendo la croce sulle
loro scintillanti fronti scure, o no?».
«Ecco, ci risiamo con i tuoi sofismi arguti. Ti prego, abbassa la voce,
Dave».
«Ok, Yōko. Comunque so per certo che alle Hawaii i più ricchi, i
possidenti delle zone più ambite, guarda caso sono i missionari».
«Sei sicuro di quello che dici?».
«Sicurissimo! Sono loro che si sono insediati in quel paradiso
incontaminato, e cos’hanno fatto? Hanno radunato lì il peggio del peggio
della volgarità del mondo intero. Ora l’isola degli dèi è ridotta a un luogo
che puzza di vizio».
«Mah, David, non saprei. Le Hawaii non sono il luogo di perdizione che
dici».
«Ah no? Oh Yōko, Yōko! Dio, ti prego, sembri aver già abbandonato
questa donna ingenua. Quelle stesse bocche che sostengono che tutti gli
esseri umani sono uguali davanti a Dio, più di qualunque altra, mangiano
carne tenera e bevono vino francese di qualità superiore. Mentre nel mondo
ogni giorno muoiono di fame cinquantamila, che dico, cinquecentomila
bambini, capisci? E loro, gli stessi che predicano, non provano neanche a
fare qualcosa! Si preoccupano solo delle loro terre, del proprio benessere e
l’amore che invocano, inoltre, è sorprendentemente rivolto solo al loro Dio,
mentre non fanno alcuno sforzo di avvicinarsi a noi esseri umani!».
«Sei così dogmatico. Difficile accettarlo. Ti ucciderebbero, David, lo sai?
Smettila. Per quanto riguarda l’amore di Dio, forse è perché non sei pronto
ad accettarlo, questo mi viene da pensare. Comunque, non sono in vena di
discuterne».
«Non importa» disse lui zittendosi all’improvviso, come un malato a cui
la febbre sia scesa di colpo. «È solo che appena penso a quei tizi mi viene
da vomitare».
L’estate volgeva alla fine; una sera, una settimana prima del mio rientro a
Roppongi, a Takahara, nel caldo umido dei muri, si approssimava
l’autunno. Fuori pioveva, noi guardavamo il piccolo fuoco del camino.
Quella sera David intavolò l’argomento della nostra separazione.
«Noi, a questo punto, è meglio se smettiamo di vederci».
«Tu credi?» dissi con un tono di voce che avrei voluto più pacato.
«… a Tokyo, incontrarci senza dare nell’occhio è difficile. Che sia al
Chalcot o all’R&B, passi per la prima volta, ma la seconda chiunque
dicesse di aver visto Yōko e Dave insieme ci ricamerebbe su».
«Ma soprattutto sarebbe impossibile, no?».
«A Tokyo finiremmo per incontrarci di soppiatto in un luogo sconosciuto
a tutti, ma se anche lì qualcuno ci vedesse una sola volta? Sarebbe il
capitolo uno della fine» disse mimando il gesto di una testa da mozzare.
«Inoltre, tuo marito, lo sai bene, è un mio amico. Ciò detto, non possiamo
spingerci oltre».
David incrociò le mani sul petto, continuando inconsciamente a
massaggiarsi il cuore per un tempo infinito, come se provasse dolore lì. «In
tutta franchezza, penso che piuttosto che provocare una ferita alla mia
amicizia con Paul, sia meglio perdere te. È questa la mia conclusione».
Le parole di David mi erano chiare da far male, ma quella sua espressione
oltremodo schietta mi fece davvero infuriare.
«Sostieni di non voler ferire Paul, David. Sii sincero, non vuoi invece
salvarti la faccia e uscirne indenne tu?».
David restò in silenzio a fissarsi le mani poggiate sulle ginocchia, poi
disse: «Una bella donna non si spinge a osservazioni così taglienti. E anche
se lo fa, non dovrebbe dirle ad alta voce, Yōko. Questo è il mio ultimo
consiglio. Per il resto, la risposta è sì, è come hai detto».
David tese le mani e, sollevandomi dal tappeto sulle sue ginocchia, mi
abbracciò, reclinando la testa pesante sulla mia spalla.
«Io potrei stare una settimana senza mangiare, o senza andare a letto con
una donna, e sopravvivrei, ma se sapessi di aver perso anche un solo amico
che mi vuole bene, allora credo che non resisterei per un solo giorno in
questo paese!» e mi strinse forte tra le braccia. «Yōko, darling. Mi piaci da
impazzire. Ma adesso, rimpianti a parte, dobbiamo lasciarci, conserveremo
il ricordo di quei momenti di intensa felicità». Poi aggiunse velocemente:
«Sono affezionato a Paul, quanto a te».
Per la prima volta sentii di poterlo perdonare.
«Quindi è finita, giusto?».
«Giusto. È la cosa migliore».
«E io che farò? Hai pensato a me, a come starò?».
«Tu starai bene, vedrai. Lasciandomi, la sola a non restare ferita sarai tu».
Ero affezionata al suo corpo, ai suoi tanti gesti sensuali, al suo modo di
vezzeggiarmi, ero profondamente attaccata a lui.
Quelle parole sconce che a mio marito non avrei mai osato dire,
l’atteggiamento sfacciato, i ghiribizzi, le mie pretese… da quel momento
ero libera, potevo rilassarmi da tutto. Anche da David, che da me
pretendeva una quantità di performance eccessive: era sempre stato
impaziente, implacabile con me. Oltre a quello, gli piaceva molto che mi
comportassi come una navigata prostituta parigina. Separarsi non mi
lasciava l’amaro in bocca, ma di sicuro traspariva sul mio volto un senso di
solitudine profonda.
«Non fare quella faccia triste, Yōko! Tu mi piaci da morire. Questo lo sai,
no?».
«Già, però non mi ami».
David mi fissò a lungo, rivolgendomi uno sguardo profondo, poi riprese:
«Innanzitutto, Yōko, non è quello che vuoi. Per quanto mi riguarda, io ti
amo, credo. E tu? Tu, Yōko, sii onesta, non mi ami. Non è così?».
La risposta era no, in tutta onestà. Abbassai lo sguardo, a capo chino.
David ostentò un gesto di rassegnazione, poi accennò un risolino sotto i
baffi alla Clark Gable.
«Allora, a posto così».
«Sì, tutto a posto».
Accennai anch’io un sorriso, decretando la fine di un amore estivo. Restò
l’amicizia.
Rividi Lane sette giorni dopo il nostro primo incontro. Il giovedì mio marito
era partito col suo yacht, andandosene in crociera verso Shimada e Ōshima,
e sarebbe rimasto sull’Oceano Pacifico fino a domenica sera. Per me era
finalmente giunta l’occasione di andare all’R&B ad Akasaka. Ero certa che
quella sera Lane sarebbe stato lì. E infatti c’era. Spinsi la porta di ferro ed
entrai; sorpresa, immediatamente mi trovai di fronte il suo sguardo pesante.
Nell’istante in cui le sue pupille scintillanti mettevano a fuoco il mio corpo
dalla testa ai piedi, esitai e fui presa come da un impulso di fuga.
Era appoggiato coi gomiti sul bancone, l’aria annoiata, ma i suoi occhi
avevano una strana luce e mi fissavano come a volermi trafiggere mentre
mi avvicinavo. Poi con voce ferma mi salutò. «Ciao, Yōko, tutto bene?».
Ignorai con disinvoltura lo stupore denso di sarcasmo nella sua voce,
limitandomi a rispondere: «Sì, grazie. Io sto bene. Tu? Sembri stanco».
I bordi delle ciglia di Lane, troppo lunghe per un uomo, sembravano scuri
e unti.
«Vedo che stai bene, sembri brillare. Sei sempre più abbronzata. Com’è
andato il fine settimana? Io ti aspettavo».
«Questo fine settimana sono stata a casa di amici. Non te l’avevo detto,
forse? È proprio sul mare, è lì che mi sono abbronzata».
In quel pub di Akasaka c’erano volti conosciuti. Vidi un amico di mio
marito, che mi si avvicinò facendo un segno di vittoria, così sorrisi nella sua
direzione.
«Conosci tanta gente, eh?» mormorò Lane sprezzante. Poi disse
improvvisamente: «Usciamo».
«D’accordo. Esci prima tu?» chiesi con nonchalance, e Lane, senza
nascondere un’espressione evidentemente seccata, si precipitò fuori.
Mi avvicinai alla tavolata del mio conoscente, unendomi alla loro
conversazione. L’uomo, che avevo visto al massimo due o tre volte,
continuando a chiacchierare, fece per alzarsi nella maniera più naturale
possibile e mi sussurrò: «Da sola? Vuoi un po’ di compagnia, Yōko?».
Lanciai uno sguardo fugace al suo volto cinereo e replicai con freddezza:
«Per fortuna, no. A proposito, il mio nome non è Yōko». Ferito nel suo
orgoglio, si fece scuro in volto. Colsi l’occasione per salutare il gruppetto e
uscire, fuori Lane stava fumando con aria irritata.
Subito intrecciai le mie braccia intorno alle sue, facendo scivolare le mani
nelle sue e, scusandomi dolcemente, lo invitai: «Vuoi andare a mangiare
qualcosa?».
Pallido, tenendosi la tempia con le dita, Lane replicò seccato: «Perché, ti
interessa cosa voglio?».
«Non dire così, Lane».
«Mi dispiace» scusandosi, strinse con forza la mia mano. «Da quella sera,
ti ho aspettato tutte le sere all’R&B. Quando si facevano le otto e non ti
vedevo, provavo anche al Chalcot House, a Roppongi».
«Ho avuto tanto lavoro» mormorai come giustificazione. Sentii la lingua
seccarmisi in bocca.
«Anche la sera?».
«Già. Di sera lavoro meglio».
«E nel fine settimana sei andata a casa di amici, giusto?».
«Sì, è così».
Camminammo per un po’ in silenzio. Poi Lane, cercando di alleggerire
l’atmosfera, mi chiese: «Che vogliamo fare ora?».
«Sei ancora arrabbiato?».
Lane per un po’ non rispose alla mia domanda, continuando a camminare,
serrando tra le labbra una Seven Star. «Non sono arrabbiato. Non so come
fare con te. Sei una donna incredibilmente misteriosa».
In realtà sono solo una bugiarda, Lane. «Per riappacificarci, vogliamo
andare a ballare? Ti piace il rock?».
«No. Cosa c’è di divertente nel vedere un uomo che balla?».
«Che assurdità. Io mi diverto tantissimo a ubriacarmi e ballare come una
matta!».
«Allora mi spiace, non sono il partner adatto per la serata».
«Che cattivo! Sei proprio un vecchio pigrone!».
«Ah, e così io sarei un vecchio pigrone. Eppure questo mi pare che non
sia del tutto vero. Dopo te lo ricorderò, Yōko. Non ti perdonerò per tutta la
notte».
In quel momento nel mio petto sentii affiorare il mare di Akiya. Chissà
per quale ragione. Avvertii, prepotente, come un impulso improvviso, il
desiderio di portare Lane nella casa che io e Paul avevamo costruito a bordo
scogliera, sulla costa. Mio marito era per mare, e mia figlia al sicuro a casa
dei nonni.
«Vogliamo prendere la macchina?».
«Per andare dove?».
«Al mare. A casa dei miei amici. Che ne pensi?».
«Va bene. Con quale macchina? Prendiamo il mio vecchio catorcio?».
«Ok!».
Così mettemmo in atto quel piano senza esitare. L’umore di Lane migliorò
e, mentre mi stringeva al petto, ci dirigemmo verso il suo appartamento,
dietro Aoyama, per andare a prendere l’auto.
La Cedric usata di Lane mi fece subito tornare alla mente il suo
appartamento. Sui sedili posteriori erano gettate alla rinfusa buste di carta
spiegazzate, lattine vuote di bibite e t-shirt appallottolate, così mi sedetti
accanto a lui. Mi allacciai come d’abitudine le cinture di sicurezza, e vidi
Lane accanto a me ridacchiare prendendomi in giro, poi accese il motore.
Com’era diverso da mio marito Paul. La macchina di Paul brillava sia
dentro che fuori, e non mi permetteva assolutamente di gettare cartacce, o
di farmi sedere sul sedile del passeggero senza cintura. E anche lui guidava
sempre e solo con la cintura allacciata.
Ingranata la marcia e afferrato il volante, Lane assunse un’aria
concentrata e partì. Entrati nella Daisan Keihin, si spinse a una velocità di
90 chilometri all’ora, poi si rilassò e, senza distogliere gli occhi dalla strada,
cominciò a scherzare con una battuta dopo l’altra, facendomi ridere. In quel
momento la musica che si sentiva in sottofondo alla radio attirò la mia
attenzione, così Lane alzò il volume. Si trattava di una versione rock della
Primavera, dalle Quattro stagioni di Vivaldi. Subito Lane fece per spegnere
la radio, schioccando la lingua. Lo fermai: «Ehi, vorrei sentirla, grazie!».
Quel movimento infinitamente allegro inondò l’auto. Il tono fumoso
dell’assolo di flauto rendeva quella scena di primavera vagamente triste,
come se una goccia di profondità opaca fosse caduta nella vivace luce del
sole. Eppure, la batteria che continuava a risuonare in sottofondo era così
sensuale che sentii la pelle d’oca in tutto il corpo. Alzando ancora un po’ il
volume, esclamai: «È stupendo, Lane! Poter ascoltare le Quattro stagioni,
così semplici, e così meravigliose!».
In cerca di approvazione, mi voltai verso Lane, ma lui fece una smorfia,
affondando nel sedile. Tutto il suo corpo sembrava contrariato. Poi ribatté,
senza peli sulla lingua: «Assolutamente senza senso. Chiunque abbia
pensato di fare una versione rock delle Quattro stagioni andrebbe ucciso!
Non è altro che rumore. Per piacere, abbassa il volume, Yōko, prima che
prenda a pugni la macchina!».
Feci come mi aveva chiesto, e mi ringraziò.
«Dopotutto, la musica va ascoltata con le orecchie, non come se venisse
sparata da un cannone nella pancia» si mise a farmi la predica. «Se non
sapessi che un tempo eri una musicista, dubiterei fortemente dei tuoi gusti
da ignorante. E ti butterei fuori dalla macchina!».
«Non c’è bisogno di prenderla così, Lane! Ciò che conta è godersi la
musica. L’esecuzione di Vivaldi da parte di un’orchestra d’archi è senza
dubbio magistrale. Però che problema c’è con un arrangiamento rock, con
flauti e batteria? Il punto, semplicemente, è che può piacere o non piacere.
Sul volume poi, proprio tu che ascolti Bach e Mozart così forte da rompere i
timpani. Alla fine, un colpo di cannone allo stomaco è fatale quanto un
infarto. E a me questa versione rock piace».
«A me no. Peccato, non siamo d’accordo. Rimango fedele a Mozart».
«Capisco. Io no. Tutta qui la differenza». Così finimmo di discutere.
In quello stesso momento l’auto aveva appena superato Fujisawa e
continuava a correre lungo la strada costiera. A destra potevo vedere il mare
nero della notte, agitato dal vento che soffiava sulle creste; le onde
correvano lambendo la superficie del mare verso la terraferma, come
innumerevoli mani bianche. Raggiungendo la spiaggia, le loro delicate e
schiumose dita lattee raccoglievano la sabbia, trascinandola poi indietro
nelle profondità marine e scomparendo. Chissà ora Paul dove starà
navigando. Una volta mi disse: «Il mare della notte è scuro oltre ogni
immaginazione».
Dopo un lungo silenzio, Lane chiese, pensieroso: «Yōko, mi stai
nascondendo qualcosa?».
Per un attimo restai senza parole e fissai il mare buio. «Non credo di
averti detto tutto di me…».
La mia voce tremò. Tentai di eludere abilmente il senso della domanda di
Lane. «Per esempio, Lane, sapevi che mi piacciono i dipinti di Braque?
Chissà se ti ho detto di Chausson e Franck… E del fatto che sono
appassionata di oroscopi e psicanalisi? Se è questo il senso della tua
domanda, allora forse sì, ho ancora dei segreti. Ah, la cosa più importante:
forse non sai che sono una fantastica cuoca! Mi darai la chance di
dimostrartelo?».
«D’accordo. E cosa mi prepareresti?». La voce di Lane sembrava ancora
dubbiosa.
«Cucina giapponese, o cinese».
«Ho mangiato cucina cinese per sette anni, direi che ne ho avuto
abbastanza».
«In effetti. E l’agnello arrosto? Che ne pensi? Ti piace? Ok, allora è
deciso. La prossima settimana ce ne andiamo da Kinokuniya a fare la spesa,
e compriamo dei cosciotti di agnello surgelati».
«Bella idea. Non mangio agnello arrosto da anni, ormai!».
«Bene. Da te c’è il forno?».
«No, purtroppo. Nella cucina di un single trovi soltanto pollo e fagioli in
scatola, zuppe Campbell’s e forse del Nescafé».
«Vorrà dire allora che lo preparo da me e poi ti raggiungo in taxi».
«Che bello! Allora, quando?».
«Direi il prossimo venerdì sera».
Ben fatto, Yōko. Sei riuscita a evitare il pericolo approfittando delle
debolezze di un uomo e distraendolo con la cucina.
Lane, mentre imboccava lo svincolo per Hayama, come gli avevo
indicato, pretese una conferma: «Promettilo».
«Mi impegnerò» gli risposi con profonda attenzione. Promettere era
facile, ma non volevo deluderlo ancora. I piani di venerdì sera dipendevano
da mio marito. L’idea di usare di nuovo con lui la scusa del lavoro per
rimanere a Roppongi mi dava un senso di oppressione. Lane, cavillando
sulle mie parole, mi rimproverò: «Che significa che ti impegnerai? Non
riesci nemmeno a organizzarti?».
«Ma perché ti arrabbi subito, Lane? Voglio dire, anche tu, se la prossima
settimana ti capitasse un colpo di Stato in qualche paese del Sudest asiatico,
voleresti a raccogliere notizie senza nemmeno avvisarmi. O sbaglio?».
«Non mettere sullo stesso piano le tue questioni personali col mio lavoro.
Inoltre, se non voglio andare, non vado. Ho la libertà di scegliere cosa
scrivere nel mio lavoro. Tu continui a ripetere lavoro, lavoro, ma fammi
capire, il tuo lavoro è indissolubilmente legato ai colpi di Stato, o ai divorzi
e ai nuovi matrimoni di Liz Taylor?» sbottò Lane irritato, e premette con
forza il piede sull’acceleratore. La macchina sobbalzò vibrando e aumentò
di velocità.
«Ehi, è solo la seconda volta che ci vediamo e già litighiamo come una
coppia sposata da tre anni, ti pare normale?».
«Se per te una coppia sposata da tre anni è così, allora adesso capisco
molte cose, Yōko». Poi Lane cambiò tono di voce. «D’accordo, la smetto»
aggiunse.
«A proposito – riprese, – di chi è questa casa di Akiya?».
Non mi ero preparata una risposta per questo e, maledicendomi, replicai:
«Dovresti conoscerlo». Poi, pensandoci, aggiunsi: «Sono una coppia mista
giapponese-inglese, hanno una figlia».
Mi tornavano in mente la gigantesca mappa dell’Inghilterra appesa alla
parete del soggiorno e la cameretta di Erika.
«Uhm, come si chiama?».
«E perché, Lane? Non devi preoccupartene».
«Hai detto che forse lo conosco. Chi è?».
«McBright…».
«E il suo nome…?».
«Paul».
«… No, non lo conosco».
A quel punto Lane iniziò a rallentare. Si sentì d’improvviso l’odore del
mare. Il mare che era lì davanti, ma non si vedeva, avvolto dall’oscurità. Il
nostro viaggio in auto stava finendo. Perché avevo fatto il nome di mio
marito? Non sarebbe stato meglio dire un nome falso? E se Lane si fosse
spinto oltre, chiedendo come si chiamasse la moglie di Paul McBright, il
nome di chi mi sarei fatta sfuggire? Tremai leggermente e,
mordicchiandomi nervosamente le unghie accanto a Lane, fissai il buio
fuori dal finestrino.
La macchina entrò nel piccolo villaggio di pescatori affacciato sulla baia;
guardando a destra c’era il vecchio peschereccio e, proseguendo un po’ più
avanti, la strada convergeva su una collinetta e poi, di colpo, terminava. Lì
davanti si vedeva casa mia e di Paul. Scendemmo dalla macchina e
camminammo nella quasi totale oscurità, tenendoci per mano. Salimmo
diversi gradini in pietra di Ōya. La chiave era nascosta sotto la lanterna da
giardino, accanto alla porta.
Entrando in casa, ci investì l’aria calda soffocante e umida dell’interno.
Mi affrettai a spalancare le imposte, per far entrare un po’ di brezza marina.
Lane, decisamente incuriosito, cominciò a gironzolare per la casa, dove
elementi giapponesi si mescolavano a uno stile occidentale. La lanterna di
Isamu Noguchi, accesa accanto al camino in mattoni, che mio marito aveva
costruito nell’arco di diversi fine settimana, creava un’atmosfera
accogliente.
Diedi un’occhiata al frigo, c’erano una dozzina di birre di mio marito,
prosciutto e formaggio. Presi una birra, riempii il bicchiere e lo portai a
Lane; poi presi del ghiaccio dal freezer e lo aggiunsi al whisky, insieme
all’acqua. Tirai fuori un po’ di prosciutto e del formaggio cheddar, e li
preparai con dei cracker. Sprofondai nella poltrona di pelle nera accanto alla
finestra, dove ero andata a sedermi, e sorseggiai il mio whisky. La tensione
lentamente iniziò a sciogliersi.
«Vuoi sentire un po’ di musica?».
«Se ci fosse la Partita per violino solo di Bach, sarebbe meraviglioso».
«La seconda?».
«Sì, la Ciaccona».
«Ah, mi spiace!».
Nello stereo sopra il caminetto c’era un disco di Danielle Licari già
iniziato, forse messo da mio marito, così lo accesi. Si trattava di un
arrangiamento jazz di un Concerto per clavicembalo di Bach.
«Nemmeno i pezzi di Danielle ti piacciono? Un arrangiamento jazz di
Bach è troppo per i tuoi gusti? Devo spegnere?».
«No, va bene. Finché parliamo di una cosa del genere, non è un gran
problema. Non voglio discutere con te. Piuttosto, Yōko, vieni qui».
Lane stese le sue lunghe braccia, mi strinse al petto prendendomi tra le
sue mani, e affondò la testa tra i miei capelli. Rimanemmo a lungo così,
senza muoverci. La voce di Danielle si spense, e sentimmo solo il brusio del
mare, il rumore del vento.
La sera di venerdì, mio marito pensò che i due cosciotti di agnello che
avevo preparato fossero per Erika. Io gli avevo detto di avere una cena di
lavoro con un editore. A tavola, con mio grande stupore, mio marito disse
proprio ciò che avrei voluto proporgli io stessa, se non mi avesse anticipato.
«Il caffè dopo cena vado a prenderlo al Chalcot House. Visto che è
venerdì sera saranno tutti lì, penso. Così anche tu puoi uscire prima, e
tornare prima a casa».
Per qualche strano motivo, non ne fui affatto felice in quel momento.
Pensai che non fosse un bene che mio marito fosse così comprensivo. Fui
sul punto di dirgli tutto, che lo stavo ingannando, e che stavo andando a
cena dal mio amante. Poi che avrei fatto l’amore nel letto di quell’uomo.
Tale fu l’impeto brutale di confessare ogni cosa, da farmi tremare in tutto il
corpo.
Mio marito uscì di casa portando con sé Erika, che rimaneva a dormire da
mia madre a Seijō. Io avvolsi nella carta d’alluminio la cena che avevo
preparato e versai la salsa in un contenitore ermetico, poi misi tutto dentro
una grande cesta, e andai subito a farmi una doccia. Dopo indossai un abito
Jurgen Lehl blu navy, mi avvolsi un tessuto dello stesso colore in testa e mi
feci un piccolo chignon basso.
Quando raggiunsi l’appartamento di Aoyama, vidi Lane pallido.
«Che brutta cera, Lane. Tutto bene?».
«Che ne dici? Strano ma vero, sono ancora sobrio, sarà per quello. Ho
rispettato quello che mi avevi chiesto e non ho ancora toccato un goccio
d’alcol, hai visto?».
«Bravo bambino. Come ricompensa per aver fatto come ha detto mamma,
eccoti un bel bacio». Diedi un bacio a Lane, e poi gli passai la nostra cena.
«Hai preso il vino?».
«Sì, è sul tavolo».
La tavola era apparecchiata per la cena. Sul tavolinetto quadrato erano
raccolti dei piccoli crisantemi bianchi, messi in semplici tazze da caffè.
C’erano poi due grandi tovaglioli di carta blu scuro, accuratamente piegati a
quadrato, posti uno di fronte all’altro, due piatti per la carne e una bottiglia
di vino rosso insieme a due calici, forse appena comprati per l’occasione.
«È bellissimo!».
Misi l’arrosto avvolto nella carta di alluminio in padella, e accesi il
fornello a gas del cucinotto.
«Che ne pensi del mio vestito, Lane?».
«Ti direi bello, ma ti preferisco senza niente addosso, lo sai?».
«Ehi! Non è un gran bel complimento in questo caso. E nessuno me lo
aveva mai detto».
Mentre scaldavo la salsa e le verdure, Lane mi porse il vino. Stavamo per
cominciare la nostra cenetta intima, noi due soli. Lane indossava un paio di
pantaloni di cotone bianchi e una maglietta nera. Ebbi l’impressione che il
nero gli stesse fin troppo bene.
«Vuoi sentire un po’ di musica da tavola?».
«No, per favore» replicai un po’ freddamente. Davanti al suo sguardo
interdetto, mi spiegai meglio: «Amo mangiare, quindi preferisco
concentrarmi soltanto sul cibo. Ancora non riesco a sentire la musica solo
come sottofondo».
«Oh, poverina!» mi canzonò Lane.
«Ma ti prego, non dispiacerti. In fondo, si dice che neanche Menuhin
permetta di ascoltare musica durante i pasti. Da buongustaio qual è, sembra
che faccia fermare la musica persino nei migliori ristoranti del mondo. A
quanto pare, fa un’unica eccezione soltanto per il violino gitano».
«Allora a te che tipo di musica serve per mantenere l’appetito?».
«Se proprio devo scegliere, scenderò a un compromesso per la chitarra
flamenca. Però tieni il volume basso, Lane. Se non si sente, meglio».
Lane mise un disco borbottando qualcosa tra sé.
«Che hai detto ora?».
«Dicevo che, per quel che riguarda la musica, sei estremamente volubile.
Io, fino alla morte, resterò fedele alla mia musica barocca».
Posai sul tavolo le patate e l’agnello al forno dorati, dall’aria deliziosa.
Poi, carote al burro bollite e bacon fritto con fagioli. E la salsa, color bruno
rossastro. Sistemai infine un contenitore di salsa a base di menta piperita.
«Saranno almeno dieci anni che non faccio una cena così familiare».
«Ma va, che esagerato!».
«È vero. L’ultima volta me l’aveva preparata mia madre».
«E la tua ex moglie ti faceva mangiare soltanto cucina cinese?».
«Non è tanto quello, piuttosto non si può dire che fosse una donna “di
casa”».
Mentre Lane tagliava abilmente la carne, io presi la verdura. Misi la salsa
sulla carne e sulle patate, e poi guarnii il tutto con l’altra salsa alla menta.
In quel momento l’attenzione di Lane fu catturata dal contenitore di salsa
che avevo in mano.
«Quella è proprio tipica della cucina casalinga britannica».
«Come?».
«In America non utilizziamo granché la salsa alla menta. Da noi si usa più
frequentemente la gelatina di menta».
«Ah sì? Non lo sapevo».
Lane infilzò con la forchetta un pezzetto di agnello e se lo portò alla
bocca.
«È delizioso. Davvero ben arrostito… Sai, anche questo metodo di cottura
è tipicamente britannico».
Rimasi un momento in silenzio mentre mangiavo, poi bevvi del vino.
Sarebbe stato meglio non aver chiesto di abbassare il volume della chitarra
flamenca…
Quando aveva quasi finito il piatto, Lane riprese: «Sono proprio curioso
di sapere come hai imparato a preparare un piatto così perfetto della cucina
tradizionale britannica…».
Sentii un freddo nodo al petto, foriero di sentimenti di rabbia. «Immagino
che avrei fatto meglio a preparare un perfetto cibo americano, invece di un
perfetto cibo britannico, Lane! Chissà, forse avresti preferito che riempissi
l’arrosto d’aglio fino a farti storcere il naso, oppure che cuocessi la carne
cospargendola di rosmarino? Oh, ma forse non avrei dovuto farla ben cotta,
ma lasciarla cruda, e magari utilizzare quella dolce e immangiabile gelatina
di menta come dessert, così, forse, avrei suscitato il tuo entusiasmo?».
Lane proruppe con veemenza: «Non è così, Yōko. Non fraintendere. Era
tutto delizioso. Mia madre era di origine irlandese, quindi non posso che
apprezzare la tua cucina. Quello che volevo dire, in realtà…».
Rimasi in attesa, alzando le spalle.
«Mi domandavo chi ti avesse insegnato a cucinare così bene. Cioè, non
può che essere stata una persona inglese a insegnarti, no?». Poi posò la
forchetta, unì le dita sotto il mento, massaggiandolo col dorso della mano.
«Non fraintendermi, non ti sto accusando di nulla. Non ne ho alcun diritto.
Semplicemente, sono molto curioso».
«Ne vuoi ancora? O sei pieno?».
«Sì, grazie» rispose Lane, e riempii il suo piatto con un’altra porzione di
carne e verdure. Per un po’ sembrò che fosse assorto, impegnato solo a
mangiare. Poi d’un tratto esclamò: «David!».
Nella sua voce, più che biasimo, c’era un sereno stupore. Posò con tale
forza il bicchiere di vino da far traboccare tutto il contenuto fuori. Mentre
ripuliva attentamente con un tovagliolo, Lane sogghignò.
«È così, allora! Tu e David? Ma certo! È logico!».
Giusto. Se do la colpa a David, riuscirò a sopravvivere ancora un po’.
Ma fino a quando? Presto o tardi saprà la verità, e sarà una vera
catastrofe.
«Allora, è David?» chiese ancora Lane.
«Sì».
«Quando?».
«La scorsa estate».
Lane si portò alla bocca un pezzo di carne e, masticando lentamente,
cominciò a parlare a ruota libera, come in un monologo. «Quel David. Non
ne ha fatto parola con me. Pessimo. Provaci a tornare da Hong Kong, ti farò
confessare tutto. Tuttavia, dal momento che ti ha insegnato a preparare un
piatto così delizioso, non potrò farlo fuori. Ma almeno gli lascerò un bel
livido nero sugli occhi».
«Non scherzare, Lane. È già finita da un pezzo».
Lui, con un sorrisetto sfacciato, alzò il bicchiere di vino, mimando un
brindisi. «E per quale motivo avete rotto, tu e David?».
«Non ti so dire il perché. Forse pensavamo che fosse meglio così per
entrambi».
«Quando?».
«Sempre lo scorso anno, alla fine dell’estate».
«Non vai più a letto con lui?».
«No».
«Quindi…» mentre parlava, l’espressione sul suo volto, guardandomi, si
incupì terribilmente. «Con chi stavi prima di lui? Qualcun altro che
conosco? E dopo esserti lasciata con David, con chi sei andata a letto? E
ora? C’è qualcun altro oltre a me?».
«Sei orribile, Lane, orribile».
«…».
«Io non mi sono nemmeno sognata di chiederti con chi fossi stato dopo il
tuo divorzio, se avessi avuto altre donne».
«Se proprio ci tieni a saperlo, ti racconterò di tutte».
«No, non mi interessa». Ci sono così tante cose al mondo che non sai,
Lane, ed è meglio così. «E comunque, non c’è niente di peggio dell’essere
gelosi di un qualcosa che appartiene al passato».
Tacemmo, come per riprendere fiato.
«Scusami – disse poi. – Se è finita, va bene. Hai ragione, ti chiedo scusa,
Yōko».
Quando la nostra penosa cena finì, erano già passate le dieci. Appena dissi
a Lane che quella sera non potevo fare tardi, i suoi occhi si infiammarono.
«Ma è venerdì sera».
«Sì, ma stasera non posso. Avevo promesso a mia madre che sarei passata
a trovarla».
«Tua madre! Sei una bugiarda. Non ci credo nemmeno un po’!».
«Be’, non posso farci nulla».
«Tua madre, è una bugia! Come il lavoro tutte le sere, e il weekend al
mare a casa di amici. Tutte menzogne. Tutto ciò che esce dalla tua bocca,
Yōko, non è altro che una sfilza di bugie. Cosa diavolo fai le sere in cui non
ci vediamo, eh, Yōko? E non dirmi che lavori!».
«Non lavoro. Me ne vado al mare con altri uomini a divertirmi. Sei
contento, così?!».
Oh, Lane, perdonami. Quanto sarebbe più semplice dirti tutta la verità.
Ho un marito e una figlia, non sono così giovane come pensi. E ti amo.
«Lane, darling. Ci siamo appena conosciuti. E da un agnello arrosto ti sei
messo a fare deduzioni sul mio passato, neanche fossi Sherlock Holmes. E
oltretutto, vorresti farmi confessare cose della mia situazione attuale, o
addirittura cose del futuro ancora non accadute. No, mio caro. Io sono
un’adulta. Perché semplicemente non ci divertiamo a letto insieme?».
«Come con David Hall?».
«Sì, come con David. Ed esattamente come hai fatto tu con le altre donne
con cui sei andato a letto».
Senza volere, scoppiai a piangere. Lane, imbarazzato, mi si avvicinò e mi
strinse, cullandomi dolcemente. Poi, come se stesse consolando un bambino
piccolo, mi sussurrò: «Va bene, Yōko. Facciamo come vuoi tu, non c’è
problema».
Poi facemmo l’amore, malinconicamente. Mi alzai, pensando che volevo
morire, e mi rivestii. Lane, rimasto sdraiato a letto, fissava il soffitto, lo
sguardo perso nel vuoto.
«Non andartene, Yōko».
«Scusami» risposi, infilandomi le scarpe.
«Grazie per la cena. Era deliziosa».
«…».
«Yōko, puoi perdonarmi?».
«Certo».
«Ti chiamo allora».
«Ok».
Feci per andarmene, quando fui trattenuta dalle parole di Lane: «Yōko, ti
amo». Non riuscii a voltarmi. Pensai che il volto di una donna di
trentacinque anni che piange non fosse un bello spettacolo. Chinai la testa, e
una lacrima cadde per terra.
«Anch’io» mormorai, ma la voce non mi uscì. Ci provai ancora.
«Anch’io, Lane» tentai di dire, ma la voce non venne fuori. Poi lasciai il
suo appartamento.
Quando tornai a casa, quella notte, si era ormai fatto tardi e mio marito, già
rincasato, era a letto a leggere un libro.
«Non è un po’ tardi? Hai bevuto?».
«Un po’. Sono molto stanca».
«Hai una brutta cera. Non avrai esagerato col bere?».
«No, Paul, sono solo stanca».
Mentre mi svestivo nell’ombra, mio marito dal letto mi fece una
domanda: «Conosci un uomo che si chiama Lane Gordon? C’è Jacques che
mi ha detto di averti vista insieme a lui».
«Al Chalcot? Lì ci sono sempre tante persone…».
«Hanno detto di avervi visto camminare insieme anche ad Akasaka».
«Sempre Jacques Melans? Lo sai che si diverte a mettere in giro certe
voci, Paul, no?».
«No, non è stato Jacques».
«Uhm, non ricordo. Mi avranno scambiata per qualcun’altra. Caro, sono
davvero stanca, vorrei dormire».
In realtà ero ferita, esausta, a pezzi. Non riuscivo più a dire nemmeno una
parola.
Mi stesi accanto a mio marito, che mi scivolò vicino cercando di
toccarmi, allungando la sua mano pesante. Mi sorprese a tal punto che mi
irrigidii, rifiutandomi di farlo. Poi lo sentii parlare, sembrava esanime.
«Yōko, se non ti sento dalla mia parte, non so davvero come fare. Ti ho
sempre lasciato del tempo libero per il lavoro, ma che tu sottragga il nostro
tempo insieme per altri motivi non lo posso proprio tollerare».
Oh, tu! E la nostra indifferenza reciproca, invece? Quella è la nostra colpa
comune che non possiamo più espiare. Ma lo sai che di notte vado in giro,
vagando per Roppongi come una gatta randagia in calore? Non ti sei
nemmeno accorto che ho fatto cose che non avrei mai fatto con te, e mi
sono messa in bocca parole che mai avrei detto a te, trattenendo il fiato. Sei
stato indifferente, come acqua. Almeno, così mi sembrava. Nemmeno hai
notato l’odore di un altro, o le cicatrici dell’eros, rimaste sul mio corpo.
Guarda, Paul! Guarda il mio corpo sotto la camicia da notte. Guarda il
corpo di tua moglie, sanguinante e ricoperto di ferite, Paul!
Ero sfibrata come cotone, non riuscivo né a parlare, né a muovermi. Mio
marito proseguì.
«Yōko, sarai dalla mia parte d’ora in poi?».
Sono sempre stata dalla tua parte. D’ora in poi sarà lo stesso.
Mi sforzai più e più volte di assentire. Ma mi resi conto che la mia testa
non rispondeva alla mia volontà, come in un incubo quando, nonostante gli
sforzi disperati, non si riesce a liberare mani e piedi, sopraffatti dalla paura.
In silenzio, piansi sul petto di mio marito e mi addormentai.
La mattina successiva mi telefonò Lane. Nel sentire la sua voce, il mio
cuore tremò.
«Anche stavolta te ne sei andata di nascosto, Yōko». Il suo tono era
rassegnato, più che arrabbiato. «Allora, quando ci potremo rivedere?».
«Stasera. Ci sarai al Chalcot House? Torna Dave da Hong Kong.
Sicuramente si farà vedere anche lui. Beviamo qualcosa tutti insieme?
Verrai, Lane?».
«Certo. E gliela farò vedere a quel tipo…». Ma dal suo tono di voce si
percepiva che ormai non ne aveva più voglia.
«Allora a stasera. Grazie per la telefonata, Lane». Entrambi riattaccammo.
1
Rivista satirica britannica [questa e le successive note a piè di pagina sono a cura delle traduttrici].
Fiabe di letto
Carta di credito
La prima cosa che fece Utako fu accendersi una Camel, aveva a malapena
aperto gli occhi. Benché nessuno dei suoi comportamenti meritasse una
lode, Utako sapeva che l’abitudine di accendersi una sigaretta di prima
mattina, ancora attorcigliata alle lenzuola, era di gran lunga la peggiore.
Non era poi esattamente prima mattina, di rado si alzava prima di
mezzogiorno. Inconcepibile per una donna sposata. Fumare a letto,
dopotutto, era solo uno dei suoi piccoli vizi. Il marito era a New York da sei
mesi, e la suocera, che abitava sotto lo stesso tetto nelle proprie stanze,
difficilmente si avventurava fin lì a disturbarla. Praticamente nessuno nei
paraggi controllava se fumasse a letto di prima mattina, tantomeno che si
alzasse, se si alzava, a mezzodì.
Il sapore acre della sigaretta che si spandeva in bocca disgustò Utako. La
spense con l’indice, tirò a sé il telefono sul letto e cominciò a comporre il
numero senza accostare l’orecchio alla cornetta.
Una voce rispose.
«Sono io – bisbigliò lei. – Ce la fai a essere qui per le 13?».
L’uomo rispose a bassa voce: «Ok».
Un tempo, Utako avrebbe premesso: «Non ho fatto che pensare a te», o
«Sono così felice di sentire la tua voce…» e altre carinerie. Lui,
normalmente, col respiro corto, replicava in sintonia: «La tua voce mi
eccita», o «A tra poco, aspetta solo un po’ e ti farò impazzire» e cose del
genere.
«Ok. A dopo» rispose invece Utako senza traccia di emozione, e
riagganciò. Quando l’approccio tra un uomo e una donna ha raggiunto lo
scopo, i convenevoli frizzanti, inevitabilmente, vanno a farsi friggere. Ci
era passata così tante volte, pensava, che ormai tutto questo la irritava.
Poco dopo Utako chiamò la nipote di suo marito, Asako, per costruirsi un
alibi.
«Facciamo un tennis, oggi? O un pranzo insieme?». Asako andò subito al
sodo, in tono cospiratorio.
«Visto che a pranzo siamo andate ieri, oggi facciamo un tennis» rispose
Utako.
«Ci date sotto, voi due! Due giorni di fila…» la incalzò Asako.
«Più brucia, più si brucia in fretta» replicò Utako come parlando a sé
stessa.
«Senti, Utako, se ti stanchi di lui, passamelo! Il tipo non è affatto male».
«Piantala. A te non piacciono le cose di seconda mano» disse Utako
pacata. In realtà avrebbe voluto dirle che quello non era un uomo con cui lei
doveva avere a che fare; si limitò a dire che l’avrebbe richiamata e
riattaccò.
Si fece una doccia, e si stava infilando un abito della Maison Alaїa,
quando sentì bussare alla porta. La domestica veniva tre volte alla settimana
e non era uno dei suoi giorni, quindi non poteva essere che la suocera.
Utako la fece aspettare un bel po’ prima di aprire la porta.
«Che sorpresa, Mamma! Viene così di rado!». La accolse con un grande,
affettuoso sorriso.
«È proprio necessario chiuderti a chiave in camera da letto?» esordì
ironica la signora Takakura, sgusciando decisa con il suo corpo esile oltre la
soglia aperta appena.
«Ero sotto la doccia» disse Utako continuando a tamponarsi i capelli
bagnati.
Un’occhiata repentina colse il letto in disordine, poi lo sguardo ispezionò
tutta la stanza.
Utako si accigliò, pensando che non avrebbe potuto ricevere dalla suocera
un’accoglienza più fredda, manco se si fosse presentata alla porta nuda
come un verme.
«Esci di nuovo, oggi?» chiese la suocera osservando l’abito Alaїa di
Utako.
«Sì. Tennis. Vado a giocare un doppio con Asako e le sue amiche».
«Se vai a giocare a tennis, quell’abito è un po’ eccessivo…» disse l’altra
soffermando lo sguardo sulla vita attillata e la scollatura profonda.
«Che cosa c’è, Mamma, non starà dubitando di me!?».
Utako spalancò eccessivamente i suoi grandi occhi. La signora Takakura
non rispose, ma palesemente insofferente accarezzò l’enorme anello di
giada che portava al medio della mano sinistra. Quel grande anello faceva
sembrare le sue mani ancora più sottili.
«Può anche non credere a me che sono sua nuora, Mamma – proseguì
Utako, – ma non vorrà dubitare di sua nipote Asako, spero» fu il suo
affondo su una nota dolente. All’inizio era stata proprio la suocera a
metterle alle calcagna la nipote, allo scopo di tenere d’occhio la neo sposa.
Poiché c’era una discreta differenza d’età tra il marito di Utako, Ichirō, e la
sorella maggiore, tra nuora e nipote correvano solo un paio d’anni; per
questo, data la vicinanza d’età, a un certo punto Asako si era confidata con
Utako per un problema di cuore e in varie occasioni le aveva chiesto di
coprirla con un alibi. Quando Utako si era sentita sicura di potersi fidare di
lei, aveva iniziato a chiederle lo stesso tipo di favore. Naturalmente la
suocera era all’oscuro di tutto e non sospettava che fossero in combutta.
«Sai, mi fido di mia nipote» bisbigliò in difficoltà la signora Takakura,
poi soggiunse andando al punto: «Il fatto è che… non mi è facile dirlo, ma
il tuo modo di usare il denaro, Utako, all’improvviso mi è apparso
scriteriato. Spendi molto di più rispetto a quando Ichirō era qui. Sì, certo,
c’è ancora il lascito di suo padre e i dividendi delle azioni ereditate che gli
vengono corrisposti eccetera, ma tu sai qual è il salario mensile di Ichirō,
nevvero? Guadagna quel che prende un impiegato qualsiasi. Non è
tollerabile che una giovane moglie usi ogni mese la carta di credito fino al
limite consentito, lo capisci, no?».
Se Ichirō fosse stato un impiegato qualsiasi con uno stipendio fisso, non
lo avrei mai sposato, pensava Utako, trattenendosi a stento dal dirlo. Non
fosse stato per la consistente eredità del padre, non avrebbe mai pensato di
sposarlo.
Innanzitutto non le garbava stare con uno più basso di lei, ma si era presa
tutto il pacchetto, inclusa la suocera, pensando alla grande casa in un
quartiere residenziale come Meguro, e anche alla parte di proprietà della
suocera che un giorno sarebbe stata loro. Solo per questo aveva assecondato
i desideri della signora Takakura, restando a Tokyo e accettando che il
marito andasse da solo a New York.
«Quella carta di credito mio marito l’ha fatta appositamente per me prima
di partire».
«Lo so. Ichirō ha fatto una cosa saggia stabilendo un limite d’uso mensile.
Quel che mi preoccupa è che tu possa dimenticare che il concessionario
della carta addebita automaticamente ogni mese l’importo sul conto che il
mio defunto mio marito ha lasciato a Ichirō».
«Mi è chiaro» replicò Utako imperturbabile. «La distinta della carta di
credito arriva a lei tutti i mesi, è ovvio che le basta un’occhiata per sapere
dove, quando e quanto ho speso, no?».
«Mi è impossibile controllare nel dettaglio una lista tanto lunga».
«Allora potrebbe darmi del contante, Mamma. La distinta delle spese si
accorcerebbe di un terzo».
«Darti il contante è fuori discussione. Così ha deciso Ichirō, e io
approvo».
«Le avrebbe detto “non dare contanti a Utako”?» chiese lei furibonda.
«Il contante in buona parte non sarebbe tracciabile».
«Indubbiamente. Invece con la carta risulta tutto. Deve essere una gran
fatica per lei controllare una a una tutte le voci fino a farsi venire il sangue
agli occhi».
«Non faccio il lavoro da spia di cui parli» disse col mento retratto,
facendosi seria.
«Suppongo che per lei, Mamma, sia faticoso. Ma anche per me non è
facile. Per comprare un pacchetto di fazzolettini di carta da cinquanta yen
devo girarmi uno a uno i grandi supermercati. Lei ha un’idea di quanto sia
scomodo vivere senza un centesimo in tasca? Per esempio, tutti i mesi,
quando arriva il ciclo. Se non me ne accorgo prima di uscire, non posso
neanche precipitarmi nella prima farmacia che trovo. O se pure invito delle
amiche a prendere un tè, è una fatica cercare un locale che accetti la carta di
credito. Inoltre mi vergogno a usare la carta per importi minimi, ogni volta
mille yen o poco più. Finisce che sono loro a pagare per me o che devo
chiedere io un prestito».
«Usi quella carta a tuo piacimento, eppure te ne stai lamentando?».
«Non me ne sto lamentando, le sto solo dicendo che è scomodo. E credo
lo sia anche per lei dover scorrere uno a uno gli importi, come e dove li ho
spesi, in una lunga lista».
«Oltre al fatto che la distinta viene recapitata qui a me, dopo devo inviarla
a Ichirō, come stabilito. È ovvio che debba prima dare uno sguardo». Alla
fine la verità era venuta fuori.
«Eccoci, come pensavo!» disse Utako battendo le mani, fiera del suo
piccolo successo. «Era incerta se dirmelo, Mamma, vero? Ma guardi, se
fossi stata al suo posto, un’occhiata furtiva a come la nuora usa il denaro
l’avrei data anch’io».
«Furtiva, non mi piace il tuo modo di esprimerti» replicò lei con una
smorfia. «Non mi metto mica sulle tue tracce a controllare ogni singolo
movimento».
«Se le fa piacere, si accomodi».
«Mi chiedo se sarebbe giusto» e nel dirlo ebbe un bagliore negli occhi che
a Utako ricordò quello del marito.
«Al suo posto, c’è già Asako che controlla da vicino le mie mosse. Sono
certa che avrà da lei un dettagliato resoconto».
«Eh, sì, e quando lo fa sembra quasi vi siate messe d’accordo, tanto i
contenuti coincidono».
«Ma come, Mamma, non si fida di sua nipote Asako?».
«Mi fido di lei più o meno quanto mi fido di te» aggiunse con naturalezza.
«In realtà mi fido solo di quanto posso constatare con i miei occhi». Guardò
diretta la nuora e il suo volto sottile incipriato di bianco, forse a causa del
naso un po’ alto e affilato, fece venire in mente a Utako una volpe. Era il
volto di una perfetta aristocratica.
Utako, con il cuore che le batteva forte, sostenne decisa lo sguardo,
indirizzandosi a quel volto pallido.
«Devi sapere, Utako, che più che per te, per Ichirō e per me è un
problema quello che la neo sposa di casa Takakura pensa, complotta, fa, le
sue strane frequentazioni, ed è tutto sorprendentemente evidente; salta agli
occhi, basta controllare uno a uno gli importi della distinta della carta di
credito».
«Quindi? Che cosa mi starebbe passando per la testa?».
«Forse una relazione» disse gelida la signora Takakura. «E intravedo un
uomo».
«Lei è proprio una chiaroveggente!» replicò Utako con una risata isterica.
«Allora supponiamo, giusto per ipotesi, che la sua fantasia abbia un
fondamento: che tipo di persona si è immaginata?».
«Senti, Utako» disse con enfatica ironia la signora Takakura, «ribadire
che il mio sia un problema ipotetico rende assurda la situazione e ti fa
apparire un’attrice scadente».
Utako non riusciva più a padroneggiare le gravi menzogne. La suocera si
sforzò di abbozzare un sorriso tremulo mentre il volto impallidiva
leggermente.
«Mamma, sta immaginando quindi che io mi veda con un uomo di
nascosto da mio marito?».
«Non lo immagino, è così, inutile negarlo. Un giovane gigolo».
Le parole le uscirono di bocca come se sputasse fuori qualcosa di sporco.
«Vuole dire che mi ha fatta sorvegliare?» disse Utako cambiando tono.
«Intendi da un detective? Incredibile» rise la suocera arricciando il naso.
«È stato sufficiente vedere dove hai fatto spese, si capisce che eri in
compagnia di un uomo, probabilmente giovane, e anche di che tipo d’uomo,
cara Utako. Con mio marito ho accumulato una discreta esperienza a
riguardo. Bastava sbirciare la distinta della carta di credito per capire una a
una con quali donne se la facesse; era un campione, pagava con la carta tutti
gli hotel dove passava la notte in compagnia, smascherarlo è stato molto più
facile che con te. Almeno tu sei stata di sicuro più accorta» continuò la
suocera inchiodando con lo sguardo la nuora che sbiadiva in volto. «E,
comunque, come hai pagato gli alberghi?».
«Ammesso e non concesso che sia come lei dice» attaccò Utako fingendo
di cadere dalle nuvole, «in quei casi è l’uomo a pagare, no?».
«Parli come se non ti riguardasse» fu il commento della suocera con un
sorrisetto gelido.
«Infatti, non mi riguarda. La sua, Mamma, è una mera supposizione,
frutto di fantasia nel ricontrollare le singole voci della carta di credito, visto
che ha tanto tempo libero da impiegare».
«Utako-san, per favore non fraintendere» disse la suocera ammorbidendo
d’improvviso il tono. «Il fatto che qualche volta tu ti veda con un uomo, al
momento, non è un problema». Utako sbatté le palpebre perplessa. La
suocera continuò: «Queste cose accadono di frequente. Sono stata testimone
con i miei occhi di tanti esempi simili. Sai, mio marito aveva due, tre
donne. C’è stato un momento nel mio passato in cui non potrei dire neanche
di me stessa di essere stata una persona onesta e del tutto disinteressata» si
lasciò andare leggera nel dichiarare una cosa impensabile. «Il problema
vero è far sì che la reputazione della famiglia Takakura non ne sia in alcun
modo intaccata. La società, la cerchia di persone di cui facciamo parte, tiene
gli occhi bene aperti su di noi. Più di ogni altra cosa bisogna evitare lo
scandalo di un divorzio. Per preservare il matrimonio, sia per il marito che
per la moglie, è meglio non privarsi di una persona dell’altro sesso, per
quanto assurdo sia. Ichirō a New York si starà facendo gli affari suoi, credo
te ne sia accorta anche tu, perfino quando era qui flirtava con una o due
donne».
«Con ciò, Mamma – si inserì Utako, – che intende dire?».
«Va bene, sarò chiara» riprese la suocera sistemandosi al centro della
sedia. «Vorrei che smettessi di rivendere ad amiche e conoscenti quello che
compri con la carta di credito per racimolare abbastanza da pagare l’hotel».
Utako, a testa china, si mordeva il labbro inferiore.
«Sbaglio in quel che dico? Tu compri borse di Vuitton e Céline per
rivenderle a qualcuno alla metà o a un terzo, in modo da mettere insieme il
contante per pagare l’albergo». La suocera emise un profondo sospiro. «È
penoso a dirsi. Ti sei lasciata abbindolare da quel tipo di gigolo? Potevi
almeno sceglierne uno che fosse in grado di pagare un hotel e altro per una
donna, di tasca sua».
«Io… sì, pensavo di troncare» mormorò Utako con un filo di voce, pronta
alla resa.
«Nella decisione di Ichirō di limitare la tua libertà a usare contanti e carta
di credito era insito un freno. Ma siamo andati ben oltre con questo tuo
imprevedibile commercio che mette a rischio l’onore dei Takakura. Voglio
che tu smetta. E se proprio devi pagare un hotel, fallo con la carta di
credito. Scusami, ma almeno così lo saprò solo io e non il mondo intero».
La suocera chiuse il discorso e si alzò dalla sedia. «Ti ho detto quanto
dovevo. Comunque stavi uscendo, vero?».
Utako rimase seduta e disse: «Mamma, se penso che lei possa contare le
volte che vado in hotel, non so, mi passa davvero la voglia…».
«Anche questo era il mio scopo» chiosò l’anziana, saggia, signora
aristocratica, sorridendo teneramente.
Il mattino seguente Utako fu destata dal telefono.
«Allora ieri che è successo? Prima mi chiami per incontrarci e poi mi
pianti in asso come un babbeo?».
«Sono andata a giocare a tennis».
«Che vuoi dire?».
«Voglio dire che ci ho ripensato e non mi andava più».
«Uhm… capito. Fa niente. Comunque ho venduto tutto e ti chiederei di
fare nuove scorte».
«Ah, è questo, allora…» rispose Utako mentre rifletteva. «Senti, ho
pensato di smetterla con questa storia».
«… Cosa? Ci sei? Smetterla hai detto?» replicò lui sconvolto. «Perché? I
contanti ci servono!».
«No, non servono più».
«Perché?!».
«Perché ho la carta di credito».
«E per pagare l’hotel come facciamo?».
«Ho la carta, anche per quello».
«Ma così ti scopriranno!».
«Mi hanno già scoperta».
«E io, però, sono nei guai!» confessò lui, all’altro capo del telefono. «Io
non ho soldi! Per te è facile, hai la carta, io non ho niente del genere!».
«Ti ho comprato più o meno tutto quel che volevi» lo fermò Utako fredda
e tranquilla, con tono molto paziente.
«Ma non posso andarci a piedi all’hotel per incontrarti, ho bisogno dei
soldi per il taxi e per qualche altra cosa».
«Se veramente volessi incontrami, dovresti fartela pure a piedi».
«Dici all’improvviso cose strane: intendi che uno come me dovrebbe
spostarsi in autobus o in treno?».
«Se uno non ha denaro per il taxi, mi pare l’unica soluzione».
«Mi stai prendendo in giro?!» urlò adirato il giovane con voce stridula.
«Chi dovrebbe fare una cosa del genere?».
«Allora basta, non c’è soluzione».
«Aspetta» continuò lui nella confusione totale. «Vuoi forse mollarmi
così?».
«No» rispose Utako calma. «Volevo solo dirti che d’ora in avanti pagherò
solo ed esclusivamente con la carta di credito, per qualsiasi cosa».
«Vuoi dire quindi che i nostri traffici sono finiti?».
«Eh, sì».
«Lo sapevo, vuoi mollarmi».
«Sei tu che la stai prendendo così» proseguì Utako con una fitta al petto.
«Ho il mio orgoglio, io! Mi offende che una donna provveda a ogni mia
esigenza con la carta di credito! E comunque io ho lavorato, sono andato in
giro con le mie gambe a piazzare tutto e a mettere insieme il gruzzolo. Con
quello ho portato la mia donna negli hotel!».
«Bene. Mi sfuggiva questo punto di vista» fu il commento di Utako,
meravigliata. Sentì un gelo totale in quel momento, e sarebbe rimasto.
«Allora ci salutiamo qui» arrivò all’orecchio di Utako.
«Non vuoi proprio smetterla, tu» rispose lei con lo stesso tono distaccato.
Le rimbombava in petto una sorta di sollievo e un velo di tristezza.
Dopodiché guardò l’orologio, era ancora presto e pensò di rimettersi giù.
Ma, invece di dormire, sollevò il busto a metà sul letto e allungò la mano
verso il pacchetto di Camel lì accanto. Ne prese una, diversamente da
sempre non la strinse tra le labbra: con drastica decisione scese dal letto.
Andò a farsi una doccia, poi cominciò a comporre il numero di Asako:
questa volta non per costruire un alibi, ma davvero per una partita a tennis.
Bloody Mary
Il bar del piano interrato dell’hotel aveva appena aperto, per questo c’erano
pochi sparuti avventori. Come di consueto nei bar degli alberghi, le luci
erano basse e soffuse, l’ambiente pulito e tranquillo. Tre clienti in tutto. Al
bancone sedevano a distanza, ognuno per conto suo, un uomo e una donna.
Nel separé aveva trovato il suo posto un signore più attempato. Il barman,
un tipo sgarbato che si dava pure delle arie, continuava a lucidare il ripiano
in mogano con mano esperta. Prima si era dedicato ai bicchieri da brandy,
che ora scintillavano.
«Un altro, per favore».
La donna, che seguiva con lo sguardo i movimenti del barman, beveva
tranquilla da sola a un angolo del bancone e aveva ordinato il bis.
«Era un Bloody Mary?» chiese per pura formalità il barman, fermando la
mano sul panno, senza mutamento alcuno della sua piatta espressione. Alla
domanda intempestiva, la donna rispose gelida, alzando appena il
sopracciglio destro. Stava consumando davanti a lui quello che lui stesso
aveva preparato solo dieci minuti prima, era impensabile che non fosse
capace di distinguere i clienti e quello che ordinavano. La donna, però, non
disse nulla. Al suo assenso silenzioso, lui rispose senza parole, questa volta
indirizzandole uno sguardo di avvenuta ricezione.
«C’è una storia, non so se la conosci». La donna, d’improvviso, cominciò
a parlare tranquilla. «È un aneddoto che si narra a proposito dell’Hotel O.,
quello che ogni anno viene menzionato al secondo, terzo posto della
classifica tra i migliori al mondo. Ne hai mai sentito parlare?».
Il barman abbozzò a fior di labbra una smorfia adulatoria che voleva
somigliare a un sorriso.
All’angolo del bancone, disegnato come una L maiuscola, sedeva un
uomo, sì e no sulla trentina, che stringeva tra le mani un bicchiere alto con
del bourbon, spostando distrattamente lo sguardo dal barman alla donna.
«Si direbbe che non ne sai nulla, è così?» proseguì lei portandosi alle
labbra una Camel.
«Io sì, ne ho sentito parlare» si levò dall’angolo del bancone a L la voce
del cliente; la donna rispose con cenno di piacevole sorpresa, chinando
appena il collo.
«È la storia di quell’americano in Giappone per affari che dopo due anni,
più o meno, tornò al bar dell’Hotel O., giusto?».
La donna annuì con la testa.
«Bene, il barman lo accolse senza esitazione dicendo: “Non la si vedeva
da un po’, Mr. Golding”, o un nome del genere; e continuò dicendo: “La
trovo bene”. Andò più o meno così».
«Direi che ha un’ottima memoria, rammenta persino il nome, che
comunque non era uno di quelli facili da ricordare, tipo Smith o Seller» lo
seguì la donna nello stesso tono.
«Niente di sorprendente» proseguì il cliente buttando giù un sorso di
bourbon mentre guardava il barman. «Non è tutto, il barman aggiunse
anche: “Gradisce sempre un Martini con vodka?”, che fu la ciliegina sulla
torta perché si rivolse a lui con il suo vero nome, non qualcosa come Mr.
Smith, ma Mr. Golding! Tanto di cappello!» concluse l’uomo dal punto più
lontano del bancone, carpendo da oltre le spalle del barman lo sguardo della
giovane donna.
Quest’ultimo, demoralizzato, mescolò il succo di pomodoro con la vodka
e lo porse alla cliente di fronte a sé.
«Non è una frottola. Certo, non è che chiunque sia in grado di ricordare
uno per uno i clienti e le loro preferenze – aggiunse l’uomo. – Ma è
qualcosa a cui un professionista di prima categoria può arrivare».
«Signore, c’è molta severità nelle sue parole» tagliò corto il barman,
allontanandosi con un sorriso dimesso per andare a prendere l’ordine del
cliente nel separé.
L’uomo si mosse in direzione della donna alzando leggermente il
bicchiere verso di lei, che rispose con lo stesso gesto, appena accennato.
«Aspetta qualcuno?» chiese lui con disinvoltura, lo sguardo oltre il
bicchiere.
«No» rispose lei distaccata.
«Allora, se non disturbo, posso sedermi?». Senza attendere la risposta, si
era già seduto.
Lei pensò che quando quel tipo di approccio proveniva da un uomo che
sapeva farlo, non era né sgraziato né affettato, e a poco a poco si stava
diffondendo anche in Giappone.
«Possiamo farci compagnia solo fino alle sei e mezza» disse lei cortese,
prevenendo un assalto.
«È sufficiente, va benissimo – sorrise lui soddisfatto. – È un lasso di
tempo che offre molte possibilità. Per esempio, è abbastanza per un altro
paio di Bloody Mary, o, se si ha un tascabile, si riesce a leggere un racconto
o due. Ma si può anche fare jogging da qui alla stazione di Shinjuku e
ritorno; dipende dalle circostanze». Allusivo, prese un respiro. «Oppure si
può andare alla reception dell’hotel, prenotare una stanza e farsi una doccia,
anche fare sesso alla grande è possibile… dico per dire, ovviamente» lanciò
il suo gancio.
«Non mi interessa alcuna di queste possibilità – replicò lei secca. – Non
credo mi vadano due Bloody Mary e, quanto alla lettura, i racconti
finiscono subito senza lasciarmi emozionata, non mi piacerebbe. Poi,
jogging ha detto? Lo detesto. Correre è di una noia mortale. Si va per
ipotesi, ovviamente».
«E l’ultima che ho elencato?».
«Come idea, al momento, mi sembrerebbe la migliore» commentò lei
senza scomporsi. «A prescindere che la si metta in pratica o meno».
«Se fosse un quesito realistico, ti andrebbe?». Mentre le inoltrava l’invito,
sorrideva attraverso il bicchiere alto.
«Spiacente».
«Vuoi dire che non sono il tuo tipo?» continuò per nulla intimorito.
Lei gli lanciò un’occhiata di comoda indagine: esattamente come fa di
solito un uomo quando con lo sguardo valuta una donna. «Non è
esattamente questo» disse per lasciarlo in sospeso. «Comunque, ti spiace
cambiare discorso?».
L’uomo, poco convinto, disse: «Ok».
«Per parlare d’altro, tu vieni spesso qui per un drink?».
«Non penso mi andrà di venire qui una seconda volta» rispose lei
sottovoce mentre guardava il barman tornato dietro al bancone. «Posso
sopportare un barman dai modi discutibili, ma non una raffica di domande
inopportune».
«Sei davvero una difficile!».
«Pago per bere una cosa, voglio potermela bere in pace».
«Ti va ancora un drink? Offro io». Fece segno al barman.
«Se insisti» accettò lei, scuotendo la testa. «È che ho da fare, dopo».
«Cose importanti?».
«Forse».
«Un uomo?».
«Così vestita, che ci andrei a fare se dovessi incontrare delle amiche».
Sbirciò l’altro con uno sguardo ironico.
Lui intanto la squadrava ben bene, soffermandosi infine sul suo adorabile
completo Chanel.
«Posso dirti una cosa?» le chiese.
«Di’ pure».
«Ti fa sembrare ingessata, come per un incontro a scopo di matrimonio,
un o-miai1».
«Davvero? Tu credi?».
«E vorrei aggiungere» disse lui con un sorriso gentile «che proprio non si
addice a una come te».
«Scusami tanto!» replicò la donna, ma senza essere davvero infuriata. «E
quale sarebbe la mise adatta a me?».
«Staresti bene con un Junko Shimada, o un Alaïa da donna navigata,
qualcosa di vagamente casual e aggressivo, da far pensare che hai avuto una
quantità di uomini, tanti quante le stelle».
«Sei un esperto in materia?».
«Di vestiario?».
«Non solo, di quello e di donne».
«Più o meno quanto te in fatto di uomini».
«Insomma vuoi darmi un aiuto, superfluo, su uomini e abiti» replicò lei,
seccata.
«Per quanto cerchi di sembrare una comune brava ragazza, una del tipo
“non farei del male a una mosca”, ti è impossibile celare la tua vera natura».
«Sei sgradevole – lo apostrofò. – La mia vera natura? Che cosa intendi?».
«In questi casi, come si dice, “il silenzio è d’oro”». E immediatamente
con gli occhi fece cenno al barman di riempire i bicchieri. «Comunque, non
dirmi che stai andando a un o-miai tra poco!» disse in tono canzonatorio.
«Mi prendi in giro?» fu la replica enfatizzata da una risata. «Ti sembra
che una come me possa andare a un o-miai?». Poi ci pensò su. «Vedi, una
donna, fin quando le riesce, può atteggiarsi a brava ragazza allevata nella
bambagia, incapace di uccidere un insetto».
«Tu dici?» mugugnò lui, senza dare voce ai suoi dubbi.
«Certo. È che noi ci siamo incontrati in questo strano posto; fosse stato in
un altro luogo, dove poterti gestire al nostro primo incontro, saprei farti
tacere. So il fatto mio».
«Per esempio all’ultimo piano di questo hotel, allo Sky Restaurant, con un
tavolo apparecchiato di bianco e le candele accese: è in un luogo così che
intendi?».
«Diciamo di sì». Lei si strinse nelle spalle. «Lume di candela, il luccichio
delle stelle, oltre la finestra la città con il suo scintillio di luci, è molto
romantico. In una cornice del genere, per esempio, prenderesti rigido il tuo
posto a sedere… sarebbe comunque una messinscena. A quel punto arrivo
io, i capelli raccolti in uno chignon, i bottoni della blusa chiusi fino al
mento, un’orchidea Cattleya appuntata al colletto, mi vedi camminare a
occhi bassi… che ne diresti? Sulle guance e all’angolo degli occhi spunta
anche un rossore pudico… in queste condizioni ti metterei a tacere!».
«Parli con estrema autostima».
«Parlo per esperienza».
«Chissà a quanti uomini avrai fatto girare la testa finora».
«In ogni caso, fin qui, non ne ho trovato neanche uno che andasse bene
per me».
«È un peccato, per loro» lui fissò quel bel viso dai tratti impudenti.
«Comunque, poni condizioni alquanto rigide».
«Diciamo piuttosto che non mi lascio zittire facilmente. Uno con cui inizi
una relazione, che ha in mente solo il matrimonio come premessa
inderogabile, fattibile o no, per me è un uomo insignificante. Capisci?».
«Oh sì, capisco, capisco» assentì lui, mentre non riusciva a distogliere lo
sguardo dal punto più profondo dell’ultimo bottone aperto all’altezza del
décolleté. Cambiò discorso: «Vieni spesso in posti come questo?» ripetendo
una domanda che le aveva già fatto.
«Intendi nei bar degli hotel? Sì, ci vengo».
«Per incontrare un uomo con cui hai un appuntamento, o per
rimorchiarlo?».
«Se fosse un film straniero, a questo punto partirebbe un violento ceffone
a mano piena che lei dà a lui».
«Ti sei arrabbiata? Se è così, non volevo…».
«Alle tue domande fin troppo franche, risponderò con altrettanta
franchezza: yes! Yes in entrambi i casi».
«Non esiste uomo capace di sottrarsi a una come te, dopo averla
incontrata».
«Infatti! Fin qui non ce ne sono stati». La donna sembrò rammentarsi
all’improvviso di qualcosa e rise sommessamente. «Tempo fa ho incontrato
un tipo assurdo, uno straniero. Sembrava convinto che nessuno intorno
capisse l’inglese e sparava oscenità pesanti una dietro l’altra, cose del tipo
“voglio scoparti” o “voglio leccarti lì”, in modo disgustoso. Mi ha
veramente dato sui nervi e gliele ho cantate: “Ascolta, è meglio che stai
attento” gli ho detto, “sai qual è la mia cosa preferita? Tagliare a fette
spesse quel coso degli uomini, metterlo tra due pezzi di pane nero,
spalmarci su un bello strato di mostarda e addentarlo!”. Di solito basta
questo per farli battere in ritirata».
L’uomo, nel suo abito grigio-blu, per un attimo si sentì a disagio e si
allentò la cravatta con l’indice. La donna colse l’occasione per alzarsi,
scendere dallo sgabello e rimettersi in piedi. «Tra un istante devo andare».
«Non preoccuparti del conto qui, ci penso io».
«Stai complottando qualcosa?».
«No» rispose lui, correggendosi subito dopo. «Almeno, fino a quando me
lo hai chiesto un momento fa, non pensavo ad alcun complotto, ma…»
proseguì incespicando nelle parole «dopo il tuo impegno, quando sarai
libera?».
«Mah, non so». Lo guardò bene in faccia mentre cercava di tenerlo sulle
spine. «Se andasse per le lunghe, al massimo tra un paio d’ore».
«Perfetto. Allora ci vediamo qui con calma, tra due ore».
«Era a questo che pensavi?».
In lei rifluiva per la prima volta un desiderio di sesso. «Come passerai
queste due ore? Se resti qui e continui a bere, quando torno sarai ubriaco
fradicio, e non lo gradirei».
«Non faccio di queste stronzate, mi troverai sobrio al punto giusto».
Si scambiarono uno sguardo d’intesa e lei stava avviandosi, quando lui le
posò una mano sul braccio e veloce le bisbigliò all’orecchio: «Vado a
prenotare una camera». Lei, scostando decisa la mano dal braccio, lo salutò
dicendo: «Ottimo. Tra due ore qui».
1
O-miai è stato, e in forma attualmente ridotta ma non scomparsa continua a essere, il modo più
comune per far incontrare un uomo e una donna decisi a sposarsi. L’incontro, generalmente condotto
da un’intermediaria/o, avviene solitamente in un ristorante, o comunque in un luogo pubblico,
neutrale rispetto alle parti. Sia la donna che l’uomo hanno già ricevuto in precedenza foto e
informazioni sul partner. Quanto all’uso lessicale, la o di o-miai, cosiddetta onorifica, spesso precede
il sostantivo miai (incontro di persona), e talvolta viene omessa.
La venticinquesima ora
Al Marrakech Night Club era più che notte fonda quando alcune coppie in
abito da sera cominciarono ad arrivare, i soli trenta tavoli erano già al
completo.
Tra le fogge alla moda si mischiavano facce e nomi celebri, artisti,
produttori discografici, cantanti. L’ora era tarda, l’età media dei clienti alta,
cosicché l’atmosfera al Marrakech era quella da adulti in confortevole relax.
Che l’età media dei clienti fosse alta, non poteva addebitarsi solo all’ora
tarda. Sarebbe bastato dare uno sguardo all’arredo della toilette – solo in
quella era stato speso l’equivalente di quanto costerebbe a una persona
normale costruirsi senza pensieri una casa – per capire che si trattava di un
club esclusivo, non uno di quei locali da giovani universitarie col taglio alla
Farrah Fawcett, né un posto da ragazzi come i tipi che giravano su Mazda
sportive comprate da papà; in definitiva, un mondo con il quale loro non
avevano niente a che fare. In più, si trattava di una serata particolare: poiché
si sarebbe esibita una grande cantante degli anni ’50, famosa in tutto il
mondo e venuta apposta dall’America, per chiunque non l’avesse mai
ascoltata in quegli anni non avrebbe avuto senso; sarebbe stato come dare
perle ai porci.
Erano le 0:58 del mattino, appena due minuti prima che cominciasse lo
spettacolo, quando calpestò il red carpet dello scintillante Marrakech, scese
le scale ed entrò, accompagnata da un tipo di bell’aspetto e con qualche
anno meno di lei, Minami Aono.
Naturalmente l’attenzione di tutti i presenti fu attirata dalla famosa stilista
al braccio di un giovane uomo che assomigliava a Warren Beatty. I due che
avanzavano, preceduti dal cameriere che faceva loro strada verso l’unico
tavolo rimasto libero al centro della sala e vicino al palco, erano la vera
attrazione prima che avesse inizio l’evento. Assolvevano splendidamente a
quella funzione.
«Abito favoloso» mormora qualcuna. «Alla sua età potrebbe anche darsi
meno arie» le fa eco un’altra. «Conta molto sulle sue gambe, visto lo spacco
azzardato che si è concessa!». «Ma lui chi sarà? Ne cambia uno via l’altro,
e sono tutti fantastici!». «Da Minami Aono c’è da aspettarselo, il suo buon
gusto in fatto di uomini è ineguagliabile».
A volte i sussurri arrivavano più chiari delle parole gridate. Minami,
trionfante, catturava con lo sguardo i mormorii di invidia, di gelosia, delle
donne che affollano la sala. «Quello è uno nuovo – continuavano a
bisbigliare, – per lei gli uomini sono come gli accessori, li cambia
abbinandoli al vestito».
Le occhiate di Minami arrivavano all’indirizzo di quelle voci come
subdole scudisciate. Dopo, non mancava di prodursi in un sorriso alla
Vivien Leigh dei vecchi schermi, inarcando un sopracciglio e accennando
una smorfia ironica con gli angoli della bocca. L’uomo al suo fianco scostò
la sedia per lei. Minami, con movimenti fluidi e impeccabili, si accomodò.
«Non far caso a tutto questo» sussurrò all’orecchio di lui.
«Io?». L’uomo, per nulla turbato, la tranquillizzò: «Assolutamente. Tu,
piuttosto. L’importante è che non diano noia a te».
«Sono avvezza alle calunnie e alla malizia». Si guardò intorno sprezzante,
il mento in alto.
Le donne sono creature che provano gelosia pura nei confronti di quello
che un’altra possiede, che siano abiti, auto, gioielli, pellicce, o l’uomo che ti
accompagna.
Le luci si abbassano repentine. Il cameriere riempie i loro flûte di
champagne fino all’orlo e, con discrezione, si allontana. Sul palco,
l’orchestra di pochi elementi attacca un motivo di sottofondo. Le fiammelle
delle candele ondeggiano.
«Brindiamo!». Minami solleva il bicchiere.
«A cosa brindiamo?». Il viso dell’uomo avvolto dal lume giallognolo
della candela è di una bellezza esasperante.
«Vediamo… alla venticinquesima ora!».
«Grandioso! Alla venticinquesima ora!». I due cristalli si sfiorano in un
gradevole tintinnio.
Mischiata alle note dell’orchestra, si sente ancora una voce mormorare:
«Comunque lei è una spudorata, si direbbe proprio che ha una tresca con
quello e non si trattiene dall’esibirlo, di fronte a tutti, tanto che non si sa più
dove guardare, è inaccettabile».
«Oggi sono particolarmente scatenate» sorride amabile Minami. «È a
causa tua».
«A causa… mia?».
«Tu sei un uomo troppo desiderabile, le donne smaniano».
L’orchestra passa dalla melodia di sottofondo alle note di un brano
celeberrimo della grande cantante d’un tempo. Le quinte a sinistra si
aprono: la cantante bionda, avvolta in un abito di satin bianco candido
dall’orlo morbido, con uno spacco che si apre al suo avanzare, un sorriso
smagliante, entra in scena.
Scroscio di applausi in sala. Senza tradire l’emozione, comincia a cantare.
La voce è dolce e consumata. Gli ospiti, come innaffiati, la ascoltano assorti
in religioso silenzio.
Riflettori puntati sul busto. Pur volendo, sarebbe impossibile dire
benevolmente che è ancora giovane. Lo show business è spietato, pensa
Minami. Una donna normale a lume di candela riesce a contraffare
qualcosa, mentre le luci della ribalta non lasciano scampo ai ricatti dell’età.
Le borse scure sotto gli occhi che vede nella cantante le provocano dolore,
come fossero le sue. Innegabilmente, un tempo era stata una star. Residui di
polvere di stelle le volteggiavano intorno. Di sicuro, al culmine della
celebrità, quelle stelle scintillavano una per una; ora, in un cielo notturno
percorso da nubi, si distinguevano a fatica, disperse nella Via Lattea
rilucevano un poco, come vapori argentati. Ma la scintilla, quella c’era
ancora. I bei lineamenti di un tempo erano sfioriti con gli anni e il vigore
vocale era scemato di molto. A esserne consapevole, più di chiunque altro,
era lei, la cantante, che con intensità triste e gentile, rassegnata e quasi in un
pianto sommesso, continuava a cantare una canzone d’amore.
Quanto può mostrarsi iniquo il passare del tempo per una donna! Minami
aveva quarantatré anni e non pensava alla propria età. Riandò con gli occhi
lungo il profilo dell’uomo che le sedeva accanto. Era rilassato e sprigionava
un fascino ipnotico, che lo rendeva ancor più simile a Warren Beatty.
Invaghirsi di un uomo così significava soffrire di sicuro, dopo. Minami
distolse lo sguardo concentrandosi sul diamante che risplendeva al collo
della cantante. Le dava sollievo sapere almeno che il diamante era vero.
Chiuse gli occhi per preservare quell’immagine. La voce vellutata la fece
sentire in una culla, e si lasciò lentamente dondolare.
«A cosa stai pensando?» le sussurrò l’uomo all’orecchio. Sulla nuca le
arrivava il respiro umido e caldo di lui. Minami aprì gli occhi.
«A nulla in particolare. Ascoltavo la canzone». Non poteva dirgli che si
era immedesimata nella cantante e nell’età della donna, scivolando verso
amare riflessioni sulla vita. «E tu?» chiese di rimando.
Il primo brano era finito, la cantante incrociò le mani sul petto a mo’ di
preghiera, mentre prestava orecchio agli accordi del secondo pezzo. Il gesto
rivelò al pubblico un contrasto quasi grottesco tra il dorso delle mani,
scurito dal reticolo bluastro delle vene sporgenti e da piccole macchie, e il
candore dell’abito di satin.
«Intendi a cosa stavo pensando io?» replicò il giovane quasi sfiorandole il
viso. «Pensavo che lei è proprio nella venticinquesima ora» disse portando
il flûte di champagne alle labbra. «Che cosa triste» sospirò.
«Sì, a dire il vero è proprio triste».
La cantante spalancò le braccia, poi in un vero crescendo di
partecipazione, si appoggiò a sedere, leggera. Quel suo gesto accattivante
mise a nudo la sua malinconia. Ma il pezzo era bello. Era intrattenimento di
alta qualità, capace di emozionare.
Mentre canta, a passo di danza, scende lentamente in sala. I suoi occhi
color nocciola fissano il volto dell’uomo che accompagna Minami. Restano
su di lui fin troppo a lungo, inchiodati su quel volto, mentre continua a
cantare di un tenero amore. Minami, da donna, coglie al volo il desiderio.
Viene attraversata da un moto di gelosia, ma anche di orgoglio, al pensiero
che quello è il suo uomo. D’improvviso la cantante si discosta,
approcciando sinuosa un altro tavolo, come se stesse nuotando.
«Da giovane era di certo molto affascinante» sussurrò lui.
«Naturalmente a te non dà fastidio essere osservato, vero?».
«In questi casi è da arrogante, lo so, ma per la verità un uomo si chiede
una cosa sola».
«Che cosa?».
«In breve: con quella cantante attempata ci farei l’amore o no?».
«Gli uomini pensano subito a quello».
«Sì, è così. Per un uomo esistono solo due tipi di donne: quelle con cui
vuole andare a letto e quelle con cui non vuole. Tutto qua».
Minami si accigliò. Passò le dita sull’orlo del bicchiere di champagne. «E
tu potresti fare l’amore con lei?».
«Yes».
Per qualche assurdo motivo, quella risposta la tranquillizzò.
«Non è il suo corpo, in questo caso. Farei l’amore con un suo brano. O
con il suo nome famoso nel mondo».
Era cominciata la terza canzone, uno standard con un tempo1 vivace. Tutti
cominciarono ad accompagnarla battendo le mani.
«Devo dire che, se fosse una sconosciuta avanti negli anni a bere da sola
al bar dell’Imperial Hotel, non mi sognerei mai di attaccare bottone».
Minami ebbe un sussulto. Inconsciamente, tentando di calmarsi, si guardò
intorno a cercare qualcosa, fermando lo sguardo sul tavolo accanto.
Intercettò un uomo, i loro occhi si incrociarono. Vide il tipo in smoking
accostarsi all’orecchio della sua giovane compagna. Forse ubriaco,
blaterava ad alta voce: «Perché tra le stiliste non ci sono belle donne?». E
aggiunse: «Non ti pare che somigli a Sonia? Chi è Sonia? Sonia Rykiel, la
stilista francese che pare una strega, non la conosci?».
«Posso farti una domanda?» chiese d’un tratto Minami al suo
accompagnatore. «Se fossi io a bere da sola al bar dell’Imperial Hotel,
tenteresti un approccio?».
«Intendi con Minami Aono?».
«No, intendo un’altra cosa. Voglio dire se si trattasse di una donna di
quarantatré anni di nome Satō Etsuko».
Il silenzio durò qualche secondo più del previsto. Nel frattempo la
cantante era tornata sul palco, da dove elargì un sorriso a trentadue denti,
bianchissimi e perfettamente allineati; Minami pensò che fossero tutte
capsule.
«Non ha senso la domanda che mi hai fatto – rispose lui. – Tu non sei la
solita donna di mezza età, né una sconosciuta. Non conosco Satō
vattelapesca di cui parli, non conosco quella donna».
«Insomma, vale la stessa cosa che hai detto per la cantante» tentò lei di
sdrammatizzare, senza successo.
«Diciamo che questo ci riguarda entrambi. Tu non perdi occasione per
ribadire il nome di Minami Aono».
Lei accennò un sorriso, stentato e triste.
Lui fa l’amore con il nome di Minami Aono, con il suo prestigio sociale,
con il suo potere finanziario, con l’edificio su cui campeggia l’insegna di
lei, con la sua Porsche, con il look aggressivo del suo design. L’anima e il
corpo di Minami Aono non contano nulla. Ma del resto, questa non era una
nuova scoperta. Lo sapeva sin dall’inizio. Diversamente, un uomo giovane,
bello e affascinante come lui non si sarebbe mai accostato a una
quarantatreenne che somigliava a Sonia Rykiel.
A volte le capitava di aver paura che la sua immagine la sovrastasse
oltremodo, spazzando via la vera sé stessa. A lei Minami Aono non piaceva
per nulla: era arrogante e presuntuosa, cinica, si truccava pesantemente,
spendeva soldi a palate, era sposata e infedele al marito. Tutto ciò non era
che un’immagine virtuale, costruita ad arte. All’inizio aveva stentato ad
abituarcisi, ma poco alla volta e senza volerlo, lo strato di make-up
aumentava. Si truccava, si agghindava, si comportava da boriosa, spendeva
a piene mani; aveva la sensazione di aver preservato a malapena il suo vero
volto e il suo corpo, rispetto ai quali si era sempre sentita insicura.
La cantante si ritirò dietro le quinte per dieci minuti d’intervallo. Si
accesero le luci dei lampadari del Marrakech. Forse per un’illusione ottica,
in quell’istante fu Minami a sentirsi sotto i riflettori. Si alzò di scatto.
«Scusami un momento» lo avvisò e, a passo spedito, si diresse alla toilette.
Questa si trovava sul retro delle quinte. Nel corridoio angusto erano stati
approntati per l’occasione i camerini e le sedie degli orchestrali; c’era una
gran confusione. Alcuni di loro sostavano pensierosi, altri fumavano o
bevevano qualcosa di fresco da bicchieri di carta.
«Se sono inopportuno, le chiedo scusa». Minami procedeva verso il
fondo, molte signore in fila erano già entrate nella toilette. «Ma lei non è la
signora Satō?» la voce proveniva da una qualche direzione. Non realizzò
che si riferiva a lei finché non sentì un tocco sulla spalla.
«Eh sì, sei proprio Satō Etsuko!» disse l’uomo di mezza età togliendosi
gli occhiali e accostandosi al suo viso. «Non ti ricordi di me?». Aveva in
mano un sassofono che riluceva di un argento smorto. Lei non aveva
memoria alcuna di quell’uomo dall’aria smunta, magro, con qualche capello
bianco; ma all’improvviso ricordò uno che suonava il sassofono. Una storia
di venticinque anni prima. Ai tempi dell’università aveva avuto una
relazione di tre mesi con uno del Dipartimento di musica che suonava il
sassofono. Tre mesi, perché poi lei lo aveva mollato per uno studente di
architettura. Il nome del sassofonista proprio non lo ricordava, ma ricordava
come le parlava a letto e il tocco delle sue dita, ed ebbe un lampo di
memoria.
«Certo che mi ricordo» disse invasa da un senso di colpa. Con voce
metallica, lui le rammentò che era stato venticinque anni prima. Tutto le fu
chiaro: lui, con le labbra tremanti, violacee di rancore, le aveva detto: «Tu
cambi gli uomini come cambi vestito».
Minami lo fissò una volta ancora, aveva il torace sottile e sembrava
infreddolito. Non aveva detto tante volte che sarebbe entrato nell’orchestra
della NHK? La vita dell’uomo che aveva di fronte era cambiata per colpa
sua. Il suo aspetto aveva impressi i segni dei poco più di vent’anni trascorsi.
Lui la fissava in una sorta di smarrimento.
«Te la passi bene, sembra» disse impallidito e rigido, trattenendosi a
fatica.
«Che vuoi dire con “te la passi bene”?» replicò Minami facendo del suo
meglio per ammorbidire il tono.
«Che puoi permetterti di stare in un posto così, in abiti di lusso, nel cuore
della notte». Il sassofonista emise un breve fischio. «Fiumi di Dom
Pérignon e caviale russo all’una di notte, per noi, comuni mortali, è una vita
da sogno».
«Questo non avviene all’una di notte, accade nella venticinquesima ora».
«Ah! E quale sarebbe la differenza?».
«La venticinquesima ora è vacuità. È un lasso di tempo in cui nulla esiste.
È il raduno delle illusioni. È l’ora in cui regna l’inerzia. Non accade nulla di
nuovo. È solo la vita, che regala un extra».
«Sembra esattamente la mia vita, dopo che mi hai accantonato».
«Ti prego di non parlare a questo modo». Minami non riusciva più a
dissimulare il proprio turbamento.
«Ma è la verità! Mi hai prosciugato, poi, come un nulla, mi hai buttato
via. Non mi sono mai ripreso. Sarà stata la frustrazione per non essere
entrato nell’orchestra, ma poi per un periodo, alcol, droghe, sonniferi, mi
avevano ridotto uno zombie». L’uomo dimostrava anche più dei suoi anni e
il volto, su cui vagava un sorriso amaro, aveva un’aria esausta. «Satō
Etsuko, non ti ho dimenticata mai, neanche per un momento».
«Non sono più Satō Etsuko». Lei era sul punto di pronunciare il nome,
Minami Aono, ma all’ultimo si trattenne.
«Per me sei Satō Etsuko, e nessun’altra. Satō Etsuko!». Il viso sofferente
e contratto, come se avesse mal di denti, faceva apparire ancor più
rattrappito il suo torace esile.
«Potresti per favore dimenticarla? È passata un’eternità».
Minami capì a quel punto di essere in un vicolo cieco; si mise in salvo
oltrepassando il sassofonista in gran fretta e sgusciando all’interno della
toilette. Era un ambiente piccolo ma sontuoso, circondato da pareti a
specchio su tre lati. Davanti allo specchio sfavillavano allineate bottiglie di
profumo, oltre una decina di fragranze diverse, mentre di lato al lavabo
c’era un mucchio di salviette candide per asciugarsi le mani.
Una donna di mezza età, in divisa da inserviente, estrasse da un
contenitore, simile a uno sterilizzatore a vapore da studio medico, un o-
shibori caldo e lo porse a Minami. Lei lo prese distratta e si deterse la punta
delle dita.
«Quale fragranza usa di solito?» chiese la donna in divisa.
«Fidji» rispose Minami alzando gli occhi al cielo mentre posava lo o-
shibori sulla mensola di marmo dei trucchi. La donna prese la bottiglia
corrispondente, dandole due, tre spruzzate intorno alle spalle.
Minami tirò fuori dalla borsa il portacipria e picchiettò leggermente le
zone lucide del naso e della fronte.
«Signora, io sono una fan di Minami Aono» disse la donna in divisa
molto ossequiosamente. «Anche se gli abiti di Aono-san sono alquanto
costosi e assolutamente fuori dalla portata di quelle come me».
Minami osservò la donna riflessa nello specchio, pensò che molto
probabilmente aveva la sua stessa età.
«Se non la disturba, le dispiacerebbe farmi un autografo su un foglio
colorato?» e senza aspettare la risposta prese dallo scaffale un foglio
quadrato a colori, una penna per firmare e li porse a Minami. Lei accettò, e
di getto, com’era solita fare, firmò con gli ideogrammi di Minami Aono. Fu
come se vedesse i tratti di quel nome, che lei stessa aveva scritto, per la
prima volta; si soffermò a guardarli, poi restituì il foglio alla donna.
Uscendo, le caddero gli occhi su un cestino color argento: dentro c’erano
sicuramente più di una decina di banconote da 1000 yen, gettate lì alla
rinfusa. Erano mance. A ben guardare, c’erano anche tagli da 500 yen e
solo un paio da 10.000 yen. Le banconote da 10.000 yen erano in bella
vista; un’esca, pensò.
Tuttavia tirò fuori il portafoglio, ebbe solo un attimo di esitazione, e
lasciò lì una banconota dello stesso taglio. Non sapeva perché lo avesse
fatto. La donna sua probabile coetanea ebbe una luce di sorpresa in volto,
ma prima che riuscisse a proferire parola, Minami era già fuori dalla
toilette.
Nel corridoio non c’era ormai più nessuno. Sul palco avevano ripreso a
esibirsi. La famosa cantante anziana era lì, dietro le quinte, a testa china, da
sola, in attesa di tornare in scena. Pensando che nessuno la vedesse, era
esposta in tutta la sua fragilità. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono,
la cantante sollevò il viso e, raddrizzando la postura, sorrise a Minami. Era
un sorriso amichevole, uno di quelli in cui il volto contrae tutti i muscoli
formando mille rughe, un sorriso che sul palco non avrebbe mai osato
mostrare.
Minami sentì un tepore diffondersi dentro di lei. Non mi dispiacciono
quelle rughe, si disse, e pensò anche che quel volto sorridente era bello.
Ancora una decina d’anni e quelle rughe, quell’espressione, quel volto sarà
il mio: non è poi così male invecchiare, rifletté.
Fece ritorno al tavolo.
«Ero preoccupato, pensavo che, infuriata, te ne fossi andata via».
«E perché mai avrei dovuto infuriarmi?» rispose lei con un sorriso
accogliente. «Mi sto godendo la venticinquesima ora!».
Il brano era cominciato. L’uomo posò la mano su quella di Minami e lei,
mentre lo assecondava nel gesto affettuoso, non guardava il profilo perfetto
del suo fascinoso accompagnatore, né la cantante attempata, né il
sassofonista amato per tre mesi in un’altra epoca. Ogni sua fibra era tesa a
osservare lo scorrere inafferrabile del Tempo.
1
In italiano nel testo.
Amiche
1
All’epoca in Giappone si era maggiorenni a vent’anni. Con la riforma del codice civile, approvata
nel 2018, la maggiore età è stata abbassata a diciotto.
Scorci di felicità
Una volta sistemati i volumi nella libreria a muro che occupava un’intera
parete, avrebbe potuto mettersi tranquilla. Il verde lucente del tappeto
erboso era visibile attraverso i passamano bianchi della veranda, nuovi di
zecca. Il giardino era un fazzoletto di terra di circa 70 metri quadrati,
appena 20 tsubo.
Nel mio giardino… arrivano i raggi del sole! Questo pensava Reiko con
ancora i libri in mano, e lo sussurrò a mezza voce a sé stessa. Le mie
stanze… la mia libreria… la mia camera da letto… la mia casa! Tutto,
proprio tutto, era nuovo.
In tutta la casa si sentiva l’odore della vernice, del linoleum sul
pavimento, della colla per la carta da parati, e dal tessuto delle nuove tende
proveniva l’odore della formalina. Naturalmente la casa non era solo di
Reiko. L’avevano tirata su in due, il marito Yotarō e lei. Per essere precisi,
Yotarō aveva chiesto un prestito fiduciario alla banca e si era fatto anche
anticipare la liquidazione, e quando finalmente avevano avuto i soldi a
disposizione avevano comprato il terreno, 60 tsubo, circa 200 metri
quadrati, e costruito la casa nuova.
Avere quella casa, a cui la pittura bianca dava un aspetto coloniale, più
che di Yōtaro, era stato il sogno irrinunciabile di Reiko. In realtà si erano
allontanati dal centro di molto. «A soli 90 minuti da Ginza» recitava una
réclame, e si riferiva al tempo necessario per raggiungere il centro una volta
saliti sul treno. Non considerava quanto ci volesse per arrivare a salire su un
treno. Prima c’erano 15 minuti abbondanti di autobus, più l’attesa del
mezzo, una decina di minuti. In definitiva, dall’uscio di casa fino all’ufficio
di Marunouchi e al timbro del cartellino ci volevano 120 minuti. Due ore.
«Col tempo, compreremo una macchina usata, così verrò a prenderti e ti
accompagnerò alla stazione» aveva cercato di rabbonirlo Reiko.
«Una macchina, e chi la comprerebbe?» commentò Yōtaro con un sorriso
amaro. «Per pagare i prestiti devo già farmi in quattro, non abbiamo un solo
yen da sperperare».
«Infatti ho detto col tempo».
Intanto, chi si faceva quel tragitto per andare e tornare dal lavoro era
Yōtaro, non Reiko. Lei era un po’ in pena ma, quantunque fosse la moglie,
non arrivava a mettersi al suo posto e a provare realisticamente la fatica
dell’andirivieni dal lavoro. Del resto non poteva che augurarsi che col
tempo si sarebbe abituato e che quello sforzo non diventasse troppo
gravoso. Comunque, e nonostante tutto, lei era felice. Non stava nella pelle
nel sentire quella felicità pervaderla. Era un giorno di maggio e i raggi del
sole rifulgevano. La brezza che entrava dalle finestre era carica di ozono e,
forse per il suo umore, lei vi percepiva qualcosa di lacustre. La baia di
Sagami non era distante. Reiko era avvolta dall’odore di buono della nuova
casa, ed era lì, da sola. Si sentiva traboccante di riconoscenza e d’amore per
il marito.
I figli sarebbero tornati da scuola solo alle tre del pomeriggio, fino ad
allora quello sarebbe stato il suo castello, tutto per sé.
Con ancora i libri in mano, uscì nella veranda e dette uno sguardo al
giardino tutt’intorno; i mattoncini rilucevano leggermente, lì intendeva
sistemare un piccolo barbecue con il relativo occorrente, infine un gazebo
in ferro dipinto di bianco con sedie e tavolo da giardino. Con ciò, il suo
sogno sarebbe diventato pura realtà. Rientrò, si accinse di nuovo a sistemare
i volumi nella libreria a muro.
Mancava poco a mezzogiorno, i libri erano al loro posto e la cucina era
pulita a dovere. La teiera, le pentole, le salse erano tutte riposte. La cucina
era linda, sembrava uscita da una rivista occidentale. Reiko andò in salotto
con una tazza colma di caffè, poi ci ripensò e tornò in sala da pranzo;
giammai che una goccia di caffè macchiasse il tappeto nuovo. Si sedette su
una sedia della sala e si accese una sigaretta. Fu un attimo, il suo sguardo
finì assorto nel fumo che emetteva. Spense la sigaretta nel portacenere che
era sul tavolo. Era uno di quelli che aveva appena lavato, sparsi in tutta la
casa. Nello spegnerla, l’aveva schiacciata ad angolo acuto. Quel mozzicone
e la punta nera del cerino usato la irritavano, le rovinavano la vista
d’insieme. Prese il portacenere e andò in cucina a lavarlo.
Per il momento non c’era nient’altro da fare. La casa era tirata a lucido, le
cose giuste erano al posto giusto. Inevitabilmente, i bambini tornati da
scuola avrebbero lasciato in giro un mucchio di roba, ma fino a quel
momento tutto sarebbe stato in ordine. Fino ad allora non c’era altro da fare,
se non rimirare la stanza compiacendosi, quanto voleva.
Reiko sospirò. Camminava lentamente da una stanza all’altra, spesso si
fermava, assaporando la felicità; sedette di nuovo sul divano e accese
un’altra sigaretta. Non lo guardava, ma nella sua visuale entrava il manto
erboso del prato. Il giardino visto dal pianoterra sembrava un po’ più grande
che dal primo piano. Ora i raggi del sole erano più intensi, la terra riscaldata
sprigionava vapori ondeggianti nell’aria. In quella pace avvertì una vaga
sonnolenza. L’odore di nuovo dei materiali edili della casa rifinita di fresco
traspirava ovunque, una felicità incontenibile le stringeva il cuore.
Mi sento triste, pensava Reiko. Quel pensiero divenne un suono articolato
appena tra le labbra, cogliendola di sorpresa. Aveva ottenuto tutto quel che
desiderava, non aveva più nulla di cui preoccuparsi, ormai. Il castello
sarebbe stato suo per l’eternità. Anche se, una su mille, fosse mai accaduto
qualcosa a Yōtaro, avrebbe potuto onorare i debiti con l’assicurazione sulla
vita stipulata a suo favore. Questo la faceva sentire un po’ in colpa, ma del
resto era la verità.
Il futuro non era più un problema: possedeva una casa, l’aria tutt’intorno
sprigionava la fragranza della nuova costruzione, il giardino era baciato dal
sole, poteva lasciarsi andare a un piacevole torpore, il cuore le scoppiava di
felicità. Allora perché mai sentiva una vena di tristezza?
Forse mi sono concessa troppo, si disse piano. Compatirsi per essere
troppo felice, no; doveva pur porre un limite al suo atteggiamento. Tuttavia
sentiva una commistione di tristezza inscindibile dalla felicità. Scorse con
lo sguardo tutta la stanza in perfetto ordine. Questo è il mio mondo. È tutto
il mio mondo. Era chiusa dentro una scatola quadrata nuova fiammante. In
un breve lasso di tempo aveva perso tutto quello che c’era prima: sogni,
occasioni, vaghe opportunità? Sì, tutto finito, pensò.
Con questo, in un certo senso la mia vita è conclusa. Non mi resta che
lasciar sfilare i miei anni dentro questo contenitore, e un po’ alla volta
vedermi sfiorire. Eppure ho solo trentasei anni…
… Non desidero occasioni illimitate e al momento non penso neppure di
voler cambiare la mia vita. Inoltre non sarebbe assolutamente possibile per
me lasciare questa casa, ma se, e dico se, avessi voglia di un cambiamento,
vorrei poter assaporare quella sensazione.
… Mi sento come prigioniera in questa casa nuova, mentre il mio tempo
si allontana; potrei a un certo punto accorgermi che mi spuntano le vene
blu sulle mani, o le borse scure sotto gli occhi. Non lo sopporterei. In
definitiva, quello che non ho fatto prima non lo farò mai nella mia vita
d’ora in avanti, è molto probabile. Avere una casa non è tutto.
Sì, essere arrivata ad averla è importante. Ma la passione?
L’eccitazione? Non secondo i canoni stabiliti, ma quell’eccitazione che ti
travolge, un tocco che ti scuote, quel tipo di eccitazione? Deve essere ora, o
è qualcosa che non accadrà per il resto della mia vita, ne sono certa.
Reiko era divorata dalla bramosia, nel contempo sentiva qualcosa pesarle
sulla coscienza, come se un pensiero gelido la opprimesse. Si cinse con le
mani il petto, stringendosi forte.
«Ehi, qual buon vento?». Tamura riesumò quell’espressione trita, dopo sette
anni che non si vedevano.
«Non dire banalità». Erano in un bar del centro di Tokyo. All’ora di
pranzo, come prevedibile, non c’erano giapponesi a bere, ma solo pochi
stranieri.
«Dicevi che hai comprato una casa? Ti è andata bene, mollando me e
prendendo lui come marito».
«Infatti. Sono stata lungimirante».
Arrivò il drink, di lì a poco ne ordinarono un altro. Il bar intanto si era
svuotato.
«E…?» disse Tamura alzando lo sguardo.
Reiko fissò per qualche istante gli occhi dell’uomo, poi abbassò
insistentemente lo sguardo sulla bocca. Tornò agli occhi di Tamura: era un
codice tra i due, inequivocabile e comprensibile solo a loro.
«Ti dico qualcosa di bello» sussurrò Reiko con voce roca. «Sei in debito
con me di seimila volte di “quella cosa”» disse come se stesse leggendo un
copione.
«Seimila? Come saresti arrivata a questo calcolo?» rise Tamura.
«Pare che, dopo sposati, sia il totale delle volte che si fa tra moglie e
marito, in tutta la vita».
«Che faccia tosta, dopo che tu mi hai piantato!».
«Io? Quello che tergiversava e rimandava le nozze non eri tu?».
«Sì, ma intendevo per poco».
«Acqua passata». Reiko distolse lo sguardo. «Piuttosto… invitami a
letto».
Tamura si fece serio all’improvviso, con un cenno di assenso ingollò
l’ultimo goccio di whisky e si alzò in piedi.
1
In italiano nel testo.
Il sogno di Cleopatra
Calici da vino
Chissà come, ora sono a Kyoto. Ho visto un solo tempio, ho camminato per le rive del fiume a
Shinbashi e ho fatto un giretto tra i negozi di antiquariato. Ho trovato due calici da vino Bristol,
li compro per commemorare il nostro evento, e torno. Sono così felice da aver quasi paura.
Grazie al viaggio l’ho capito. Torno domani, Yuko.
Ora sono a Kyoto – cominciò a scrivere di getto –, non sono in viaggio per cercare di
dimenticare quanto è successo quella sera. In realtà, l’ho già dimenticato. Ma non provo alcun
rimorso. Anzi, penso sia stato stupendo. È stato come aver ricevuto un enorme mazzo di rose da
un perfetto sconosciuto. Ero stupita, ma felice. Ti scrivo solo per dirti questo. E questa è davvero
l’ultima volta. Yuko
Yuko rilesse quelle parole, buttando giù il suo brandy. Poi si alzò in piedi
e lasciò il bar. Gli sguardi dei due vecchietti Sanders le strisciavano
addosso, dai polpacci alle cosce fin su ai glutei. Quasi da provocarle dolore.
Alla reception estrasse la rubrica e scrisse gli indirizzi su ciascuna cartolina.
Poi d’un tratto ci ripensò, e visto che la cartolina di Nishizaki aveva
l’indirizzo dell’azienda, decise di metterle dentro le buste da lettera
dell’hotel. Comprò i francobolli e andò a imbucarle.
Qualche giorno dopo ricevette una telefonata da Nishizaki.
«Grazie per la cartolina» disse lui esitante, «ma penso ci sia stato un
fraintendimento a proposito dell’altra sera».
«Eh…?». Yuko si domandò se avesse fatto bene a spedirgli quella
cartolina.
«È stato carino da parte tua comprare i calici da vino, ma dopotutto si è
trattato solo di quella volta».
«Calici da vino?».
«Be’, sai, anch’io tra poco mi sposo. Forse sarebbe meglio finirla qui».
Yuko riattaccò il telefono, bianca in volto. Aveva confuso le due cartoline!
Ora che ci pensava, dal suo fidanzato nessuna notizia…
Carta d’ingresso
Business class del volo 643 della Thai Airways. A renderla accogliente
come la hall di un albergo era il fatto che, eliminando i finestrini su un lato,
era stata creata un’intera parete su cui era dipinto un affresco molto esotico.
Ora i pensieri di Yōko erano rivolti alla Thailandia. A Bangkok.
«Comunque, pur avendo soggiornato in diversi alberghi di diversi paesi,
ritengo l’Hotel Okura di gran lunga il migliore».
Dopo aver detto questo, Shunsuke chiamò lo steward: «Excuse me!».
E ordinò un altro drink. Era raffinato anche quando parlava inglese. Yōko
pensò di nuovo a quanto amasse il marito, e prese un’altra coppa di
champagne.
Comparve la hostess con in mano il modulo della carta d’ingresso e lasciò
un foglio per ciascuno. Shunsuke tirò fuori la penna a sfera dal taschino e
lentamente cominciò a compilare il foglio.
«Non capisco molto bene quello che c’è scritto, è in inglese!».
Yōko dette un’occhiata di sottecchi a ciò che stava scrivendo il marito.
«Aspetta, appena ho finito di compilarlo te lo passo, così lo usi come
riferimento».
Poco dopo Shunsuke aveva finito di scrivere e passò il modulo alla
moglie.
«Grazie, mi sarà sicuramente utile!» disse Yōko prendendo in mano la
penna.
Nel riquadro in alto scrisse Yōko in stampatello maiuscolo. Nel riquadro
sotto scrisse Sakai. Mentre scriveva un carattere alla volta il cognome del
marito, pensò con malinconia al proprio matrimonio. Poi l’età. Ventisei
anni. Quattro anni di differenza con il marito. Il riquadro successivo era il
sesso. Lei era donna, quindi scrisse F. Fin qui tutto bene. Poi, lanciando uno
sguardo alla carta d’ingresso del marito, Yōko rimase per un attimo senza
parole.
Sotto il riquadro «Sex», Shunsuke con una grafia precisa aveva scritto:
Five times a week. Cinque volte alla settimana.
«No! Non è possibile!» esclamò Yōko senza volere, tappandosi subito la
bocca.
«Cosa…?». Shunsuke avvicinò il volto.
«Ma qui, proprio qui!».
Yōko indicò il punto in cui c’era scritto «Sex» sul modulo.
«Ah, quello? – sghignazzò Shunsuke. – Be’, in altre parole, la settimana
corta!».
«Tu… non ci posso credere…» replicò Yōko, basita. «Pensi forse che
questo indichi il numero delle volte in cui fai sesso?».
«Perché, non è così?».
In quell’istante Shunsuke osservò sconcertato il volto della neo moglie.
Di colpo, Yōko assunse una strana espressione e scoppiò a ridere. Rise fino
alle lacrime, ma, dopo, rimase in lei una strana sensazione di vacuità,
piuttosto opprimente.
Tampax
Yōko, una donna famosa per dare grande importanza all’aspetto fisico, si
era sposata. Il marito non era, come ci si sarebbe potuti aspettare, un uomo,
come dire, particolarmente avvenente. Per farla breve, apparteneva alla
categoria dei «brutti».
Le amiche pettegole avevano invaso la casa della neo sposa proprio allo
scopo di sciogliere quell’enigma. L’abitazione, a una rapida occhiata,
sembrava appena decente. Quindi non pareva trattarsi di un matrimonio di
convenienza. La curiosità delle donne era stuzzicata da quell’atteggiamento
così poco consono a Yōko, che era solita dire: «In un uomo, ciò che conta
prima di tutto è l’aspetto, poi i soldi».
«Allora, Yōko…» si fece avanti una di loro con impazienza, «ma perché
proprio Jirō?».
«Eh, già, che ne è stato di Osamu della ditta di import-export M.?» la
incalzò un’altra.
«Ma soprattutto, cos’era che non andava con quel bel tipo del Ministero
delle Finanze?».
«Dunque…» rispose lentamente Yōko disponendo di fronte a loro il
nuovissimo servizio di tazzine da caffè, «è stato per via dei Tampax».
«Cosa?!». Le donne si guardarono l’un l’altra, allibite.
«È andata così…». Yōko cominciò a raccontare.
Accadde il giorno in cui erano usciti insieme. Lui, il bel tipo del
Ministero, a detta di tutti era destinato a diventare in futuro Ministro delle
Finanze, o il John Kennedy giapponese. Aveva un portamento così elegante,
che non ti aspetteresti da un impiegato ministeriale, ed era il classico tipo
che ci sa fare con le donne. Lui, fluente in inglese e francese, e Yōko, di
ottima famiglia, avrebbero sicuramente formato una bellissima coppia.
Stavano andando alla brasserie situata al piano inferiore dell’Imperial
Hotel. Yōko era rimasta incantata da un poster di Cebu, nelle Filippine,
esposto in una vetrina. Pensava che fosse il luogo ideale per la luna di
miele, quando si scontrò con un tizio che stava venendo dall’altra parte. La
borsetta cadde a terra e si rovesciò tutto il contenuto. Capita, no?
In un baleno, il nostro futuro John Kennedy si era chinato a raccogliere il
contenuto sparso a terra, rimettendo tutto a posto nella borsetta di Yōko. Un
gesto da perfetto galantuomo.
Fazzoletti, rossetto, portacipria, calze di ricambio, portamonete,
portafogli, portachiavi e… gli occhi di Yōko e del bel tipo del Ministero si
bloccarono. Eccoli lì, due Tampax. Proprio davanti a loro.
E lui, impeccabile e senza scomporsi, la vera reincarnazione di un
Kennedy, aveva tirato fuori dal taschino un fazzoletto bianco e aveva
coperto con delicatezza il «corpo del reato», poi lentamente lo aveva preso
con il fazzoletto e lo aveva riposto al sicuro nella borsetta.
«Be’, un vero signore» sospirarono le amiche nel sentire queste parole.
Un vero uomo di mondo, candidato di certo a un futuro brillante.
«E perché l’hai respinto?» era il loro legittimo dubbio.
«La sua galanteria è stata la sua rovina. Immaginate che noia un marito
del genere?».
«Eh, in effetti…» sospirarono le donne con complicità.
«E Osamu della ditta import-export M.?».
«Lasciamo stare. Quello mi ha proprio fatto venire il nervoso!» rispose
Yōko, alterata solo a ripensarci, poi iniziò a raccontare.
Accadde il fine settimana che erano andati a Hakone. Avevano trascorso
la notte del venerdì nella camera con vista sul lago in modo piuttosto
eccitante, quando la mattina successiva…
«C’è un problema…» mormorò Yōko.
«Cosa?» chiese Osamu.
«Mi sono venute! Con una settimana di anticipo».
«Ho capito. Tu aspetta qui, io scendo al negozio a comprarti gli
assorbenti».
Fin qui tutto bene. Davvero un gesto premuroso. Poi, quando Yōko vide
quello che Osamu aveva acquistato, perse la testa. «Ma che diavolo hai
comprato?».
«I Tampax, no?».
«Questo lo vedo. Ma sono giganti!».
Insomma, aveva preso la taglia più grande! Yōko, un’evidente small,
rimase sconcertata.
«Perciò abbiamo rotto» spiegò alle amiche.
«Certo, certo» annuirono loro all’unisono.
«È proprio seccante un uomo che corre a comprarti gli assorbenti senza
che tu glielo abbia nemmeno chiesto» dissero serie le sue amiche.
Ed era finalmente il turno di Jirō: perché alla fine aveva scelto proprio
lui?
«Non dirmi che c’entrano ancora i Tampax» disse sghignazzando una
delle sue amiche.
«Be’, mettiamola così» rispose Yōko con un sorriso amaro, «ho sempre
avuto il ciclo irregolare. Non riesco mai a prevederlo. Ho incontrato mio
marito durante una riunione di lavoro. Non era esattamente il tipo a cui
avrei mai dato un appuntamento».
Jirō era un manager addetto al settore vendite, e spesso si recava nella
ditta PR, dove lavorava Yōko. Finita la riunione, una volta fuori avrebbero
dovuto prendere strade diverse, uno a destra e una a sinistra. Ma entrambi
dovevano prendere la stessa linea della metro, così si erano ritrovati a
camminare uno a fianco dell’altra, una situazione imbarazzante.
«… e all’improvviso ti sono venute?» si intromisero nel racconto le sue
amiche.
«Be’, certo, non ti mandano mica il preavviso – ribatté Yōko. – Ero nel
panico. E, per di più, indossavo una gonna bianca».
Yōko si era guardata intorno, in cerca di una farmacia.
«Che succede?» domandò Jirō.
«Mi chiedevo, non c’è una farmacia da queste parti?».
«Ha mal di testa?» domandò Jirō, cercando qualcosa nel taschino. «Ho
del Saridon, se vuole».
«Ehm, no, non è quello di cui ho bisogno» disse Yōko con un’aria
imbarazzata, «in realtà mi è venuto il ciclo. Ho assolutamente bisogno di
una farmacia» proseguì, pensando fosse meglio fare una figuraccia di fronte
al solo Jirō, anziché macchiare la gonna bianca.
«Eh, già, è un bel problema» disse lui arrossendo.
Era nervoso, poverino, si guardò intorno, a destra e a sinistra, poi le
indicò la direzione e l’accompagnò, camminandole davanti. Aveva la fronte
imperlata di sudore. Dopo due semafori, sulla destra, ecco l’insegna della
farmacia. Tese la mano destra a indicargliela.
«Allora io vado. Stia bene» così dicendo, Jirō svoltò in fretta a sinistra e
sparì tra la folla.
«Ho trovato adorabile il suo nervosismo in quella situazione» disse Yōko
ripensandoci, «è timido, ma mi ha aiutato lo stesso a trovare la farmacia…».
Così il timido e goffo Jirō conquistò il cuore di Yōko.
In quel momento si sentì il rumore della chiave nella toppa, Jirō era
tornato a casa. Nel vedere il suo volto, le donne, senza volerlo,
cominciarono a sghignazzare, e Jirō, che non capiva il motivo di quella
ilarità, arrossì e sbatté le palpebre.
Gitanes
Aprì la porta della toilette delle signore e si trovò di fronte una donna
rivolta verso lo specchio, intenta a mettersi il rossetto. Color rosso fuoco.
La donna indossava un vestito un po’ spento, a motivi neri su sfondo grigio,
perciò il rossetto era così sfavillante da abbagliare.
Nel passarle accanto, sentì un leggero odore di fumo. Yōko di riflesso
aggrottò le sopracciglia. Poi, un momento dopo, si ritrovò a pensare per
quale motivo lo avesse fatto. Ma i suoi pensieri furono interrotti dal rumore
dello sciacquone proveniente dal bagno occupato, dal quale uscì un’altra
donna.
«Oh, niente male il colore del tuo rossetto! S’intona al vestito!».
Le due sembravano amiche.
«Allora, che si dice? Ti vedo tutta in tiro. Hai un appuntamento?» chiese
la donna appena uscita dal bagno, lavandosi le mani. Yōko si diresse verso
la toilette in fondo, che era libera.
«L’appuntamento è già bell’e finito».
Sentì una voce ammiccante attraverso la porta del bagno.
«Ah, è stata una cosa veloce! E che appuntamento sarà stato mai?».
«Una tresca da pausa pranzo!» disse la donna ridendo fra sé e sé.
«Finiscila! Non ci credo!».
«Non ti prendo mica in giro. Per che cosa pensi abbiano inventato le
pause pranzo?».
«Non per mangiare?».
«Sì, per mangiare, ma cose stuzzicanti».
«E che tipo di cose stuzzicanti, scusa?».
«Quel tipo di cose di cui non si può parlare. Ci siamo capite, no?».
«Parliamo di quello che penso?».
«Ovvio!».
«Che depravata! E fai certe cose alla luce del sole?».
«Be’, non siamo mica gli unici. I love hotels durante la pausa pranzo sono
affollati di salary men e office ladies».
«Il tuo lui è un salary man?».
«È l’art director del nostro studio di design».
Tirando lo sciacquone, Yōko uscì dal bagno e cominciò a lavarsi le mani.
Le due sembrarono ignorarla completamente.
«Ed è single, questo tuo art director?».
«Ha appena compiuto trentasei anni. Ha moglie e figli».
«Ma allora hai una relazione clandestina?! Che invidia! Anch’io una volta
vorrei averne una!».
Yōko si insaponò lentamente le mani, aprì l’acqua calda e sciacquò via la
schiuma. Guardando fissa il proprio volto allo specchio, estrasse dalla borsa
il necessario per il trucco. Aveva un appuntamento con il marito Yusuke
nella hall dell’hotel alle 18:30. Quel giorno era il loro settimo anniversario
di matrimonio, così avevano deciso di andare a cena fuori. E visto che lo
studio di design in cui era impiegato il marito si trovava a Roppongi, si
erano dati appuntamento al vicino Hotel Okura.
«E dimmi, dimmi: che tipo è?».
«Difficile da descrivere. Ma, in quello, è straordinariamente bravo».
«Bravo in che senso?».
«Pensi forse che possa spiegarlo a parole?» disse la giovane donna
davanti allo specchio sistemandosi i capelli. Poi sghignazzò tra sé e sé,
come se le fosse venuto in mente qualcosa.
«Che c’è? Cos’è che ti fa ridere?» chiese l’altra dandole di gomito.
«Niente, niente. Certo che lui è strano, sai. Sua moglie non glielo fa fare
con la luce accesa. Pensa che una volta glielo ha pure chiesto: “Yōko, ti
scongiuro, puoi fidarti di me, sono tuo marito! Te lo prometto, non lo dirò a
nessuno. Fammelo fare una volta con la luce accesa!”. Quando ho sentito
questa storia, non riuscivo più a trattenere le risate!».
«Sua moglie si chiama Yōko?».
«Chissà, se l’è fatto sfuggire. Non è particolarmente importante, che sia
Yōko, o Masako o chissà che altro. Non ha niente a che fare con me».
Finito di sistemarsi, le due donne cominciarono a dirigersi verso l’uscita.
Yōko finì di mettersi il rossetto stringendo con forza le labbra per
uniformare il colore. Il volto inespressivo.
«Di solito dove ti vedi con lui?».
Si udì ancora la voce della giovane donna.
«A Shibuya. Visto che il suo ufficio è a Roppongi, non possiamo
allontanarci troppo, e nei dintorni di Roppongi è pieno di sguardi indiscreti.
Il suo unico difetto è quello di essere un fumatore accanito» disse la donna
aprendo la porta. «Fuma ovunque, in taxi, nella camera d’albergo… Inoltre,
le sue sigarette preferite sono le francesi Gitanes. Che fastidio, quella
dannata puzza di fumo che mi si impregna nei vestiti».
«Lasciano davvero una puzza tremenda, quelle!».
Chiusa la porta, le voci delle donne si interruppero bruscamente. La hall
dell’Hotel Okura era piena di gente per via dell’ora di punta. Yōko cercava
con lo sguardo la sagoma del marito. Mentre lo cercava, camminava
lentamente nella hall. D’un tratto sentì l’odore di fumo cui era avvezza.
Riconobbe il marito di spalle.
«Oh, in perfetto orario!» disse lui spegnendo il mozzicone di sigaretta nel
posacenere. Poi alzò gli occhi verso la moglie, stupefatto. «È bello vederci
anche fuori, ogni tanto. Sei bellissima stasera».
La moglie aveva un’espressione truce in volto, il marito la guardò con
un’aria perplessa. «Che cos’hai? Per caso non ti senti bene?».
«Dove sei stato oggi in pausa pranzo?».
Yusuke fissò la moglie con aria interrogativa. «Dove vuoi che sia andato,
a mangiare».
«Dove?».
«In un ristorante nei dintorni, ovviamente!».
«Giapponese? Occidentale? Cinese?».
«… uno di soba!» rispose Yusuke di getto.
«Cazzate! Sono tutte cazzate, la soba, il ristorante. Anche essere andato a
mangiare è una cazzata colossale!».
«Che ti prende? Hai un’aria furiosa! Che diamine pensi abbia fatto?».
«Tradirmi! In un albergo a Shibuya! Con una donna che indossava un
vestito grigio e nero, e una bocca rossa da seduttrice!».
Il volto di Yusuke cambiò colore.
«È una pugnalata in pieno petto, eh?».
«Ma… tu… come…». Yusuke boccheggiò come un pesce fuor d’acqua.
«Sei un verme! Le hai persino detto come mi chiamo! Le hai spifferato i
nostri segreti più intimi… Certo, di donne di nome Yōko ce ne saranno a
bizzeffe! E anche le donne che non vogliono fare sesso con la luce accesa
saranno sicuramente tante. Ma quanti potranno mai essere gli art director di
trentasei anni di uno studio di design a Roppongi, sposati con una donna di
nome Yōko che non vuole fare sesso con la luce accesa? Per di più,
fumatori di Gitanes? Te lo dico io, ci sei solo tu! La prossima volta che mi
tradisci, sceglila meglio la tua amante! Non fartela con donne che poi
sparlano delle loro tresche da pausa pranzo nelle toilette! Sempre che ci sia
una seconda occasione di tradirmi…».
Yōko, dopo aver pronunciato queste parole, se ne andò, lasciando lì il
marito, spiazzato. Che fosse il caso di passare alle Mild Seven1?
1
Marca storica di sigarette giapponesi, le più vendute nel paese. Nel 2012 cambiarono nome in
Mevius.
Carta igienica
1
Ōhara Reiko (1946-2009), celebre attrice giapponese.
I leoni di Mitsukoshi1
Jirō levò lo sguardo sui leoni di marmo all’entrata della sede centrale di
Mitsukoshi, a Nihonbashi, pensando alla donna che avrebbe incontrato di lì
a poco. I leoni, nel loro grigio scuro levigato, mettevano un po’ di
soggezione. Non c’era un motivo, ma quei grandi magazzini gli
procuravano quasi nostalgia di casa. Certo, vi si recava spesso, sia perché la
ditta dove lavorava era nei pressi, a Kyōbashi, sia perché andava a farci
spese, o a mangiare, o a incontrare qualcuno per un appuntamento. Per Jirō,
i due leoni assolvevano alla funzione di un barometro, rilevando il suo
stato, fisico e mentale. A volte, quando sembravano familiarmente complici
del suo buon umore, gli davano una carica positiva; accadeva quando si
sentiva disponibile. In quei casi emanavano un misterioso riverbero su di
lui, anima e corpo, perché in realtà mutavano, con espressioni sempre
diverse.
I leoni quel giorno… non sapeva perché, ma erano pressanti e lo
guardavano con sufficienza. Forse appariva loro incerto? Jirō si incupì.
La donna che andava a incontrare quel giorno, per la prima volta di
persona, sarebbe stata la sua partner di un o-miai. Aveva posto delle
condizioni, Jirō: l’incontro sarebbe stato informale e il luogo, per sua
esplicita richiesta, un ristorante al settimo piano della sede centrale di
Mitsukoshi, alle 14.
Forse era un po’ triste, stava per mettere definitivamente un punto alla sua
vita solitaria da scapolo. Inoltre aveva avuto notizie da Niigata, dove viveva
la madre affetta da una cirrosi epatica allo stadio terminale. Nel migliore dei
casi, sarebbe sopravvissuta sino a fine anno. La madre aveva un solo grande
desiderio: che il suo unico figlio maschio trovasse una moglie e, con l’aiuto
della buona sorte, arrivare a vedere il visino del suo primo nipote, prima di
morire. La supplica che la madre gli aveva rivolto non specificava che la
donna doveva anche essere disposta a metter su famiglia immediatamente,
perciò aveva provveduto a inviargli da Niigata una candidata possibile, che
quel giorno stava appunto per incontrare.
Aveva trentasei anni e, per vari motivi, nonostante l’età, non si era ancora
sposata, era scritto nella lettera spedita a Jirō dalla madre. Per un caso,
anche Jirō aveva trentasei anni, e la madre aveva scritto chiaro e tondo di
non lamentarsi visto che erano sullo stesso piano. L’età, in fondo, non
conta, basta che sia gioviale e che abbia un fisico sano, si era detto Jirō. La
donna che sarebbe diventata la madre dei suoi figli doveva essere generosa,
anche di bacino; questo era il problema. Un tipo ben proporzionato dal
busto in giù, un po’ in carne sui fianchi. In ogni caso, purché non fosse
proprio brutta di viso, avrebbe assecondato con pietà filiale le ultime
volontà della madre e, se lei l’aveva scelta per lui, lui l’avrebbe sposata,
pensava.
Il momento era vicino. Passato da poco il pienone dell’ora di pranzo, il
ristorante era quasi vuoto. Come stabilito, si sarebbero incontrati nella sala
d’attesa all’entrata del ristorante. La candidata dell’o-miai era già lì, seduta
spalle al muro. Poiché aveva visto una sua foto, la riconobbe subito. Era più
giovane che nella foto e davvero bella. Aveva spalle rotondette e un po’
spioventi, un incarnato candido, tipico dei luoghi dove nevica, bei
lineamenti regolari che ispiravano buon umore. Jirō sentì un chiaro tuffo al
cuore.
«Grazie per essere venuta appositamente». Dopo essersi presentato, Jirō
le fece strada all’interno del ristorante. Comportandosi da gentiluomo, le
cedette il passo verso un tavolo vicino. Da dietro, non scorto, sbirciò il
bacino, considerevolmente largo: era l’ideale.
«Che cosa preferisce mangiare?» chiese Jirō non appena si furono
accomodati.
«Io» disse lei senza indugi «gradirei cucina occidentale».
Non si direbbe, ma sono molte le donne che si defilano con un: «Per me
va bene qualsiasi cosa». In quei casi gli uomini, inevitabilmente, si sentono
messi alle corde. Le donne capaci di esprimere chiaramente i propri gusti,
senza peraltro essere invadenti, sono adorabili!
«Il potage qui è eccezionale!» fu il consiglio di Jirō.
«Ah sì?» replicò educatamente lei.
«Però il potage ha molte calorie… Io, come zuppa, prendo un consommé.
Crede che possa andare?».
«Naturalmente». Farti sentire importante, senza pose, con tanta
delicatezza, è pressoché impossibile per le donne di ventitré, ventiquattro
anni. Aumentava così la sintonia con la partner di questo o-miai.
«Non ha l’accento delle nostre parti».
«Neanche lei, mi pare».
«Be’, io sono qui da quando mi sono trasferito per frequentare le
superiori».
«Io ho conseguito qui la laurea breve, poi sono rimasta per lavoro, dieci
anni presso una ditta di import-export».
«Come mai è tornata a Niigata?».
«Mia madre si era ammalata, così sono stata richiamata a casa. L’ho
assistita per cinque anni, poi l’anno scorso ci ha lasciati».
Quindi è questo il motivo, pensò Jirō annuendo.
«Mia madre le avrà detto chissà che cosa, con le sue pretese
irragionevoli…».
«No» rispose la donna scuotendo la testa. «Se devo essere sincera, a volte
l’ho sentita più materna della mia vera mamma».
«Questo mi tranquillizza, davvero» commentò Jirō con un tono di sincera
gratitudine.
«Però io non sono più giovane, e non sono tanto sicura di piacerle. Inoltre
sua madre le avrà fatto molte raccomandazioni».
«Capisco. E mi scuso per lei. Mia madre è fatta così. Se comincia… può
andare oltre. Le avrà creato dei problemi, temo».
«No, assolutamente – sorrise la donna. – Venire a Tokyo per incontrarla
mi pare sia stata una buona idea».
In fondo, dalle sue parole scaturiva buona fede e onestà d’intenti.
«Sì, lo credo anch’io».
I loro sguardi si incrociarono in un guizzo di tacito assenso; imbarazzati
guardavano ciascuno dentro al proprio bicchiere, colmo d’acqua e con il
ghiaccio che galleggiava. Jirō non aveva sete, ma portò ugualmente il
bicchiere alla bocca e bevve. Poi, come colto da un pensiero improvviso, lo
alzò: «Alla nostra» sussurrò. Anche lei sollevò con delicatezza il bicchiere e
lo accostò appena a quello di Jirō; ebbe la sensazione che qualcosa di caldo
le si spandesse in petto.
Ci siamo quasi, è ora di tirare le somme, si diceva Jirō, e non gli
dispiaceva, anzi. Era sorpreso e al tempo stesso sollevato.
Improvvisamente, alzando gli occhi, fu colpito dai capelli della donna. Lei
aveva leggermente abbassato la testa. Aveva un’acconciatura con delle
morbide onde. Tra i capelli neri ne spuntava uno solo, bianco. In una
frazione di secondo, dentro Jirō si levò un urlo, che represse, ma che lo
straziò. Compassione e tenerezza lo inondarono, ma contemporaneamente
provò un disgusto senza pari. Un solo capello bianco gli aveva sfilacciato il
cuore.
La donna guardò Jirō con aria interrogativa. Lui, profondamente turbato,
distolse gli occhi da quel capello bianco. Il gorgoglio di gioia si era inaridito
d’un tratto, svanito per sempre. Lentamente, lasciò posto alla rassegnazione
nei suoi pensieri.
1
Questo racconto ha un titolo (三越百貨店 Mitsukoshi hyakkaten, «I grandi magazzini Mitsukoshi»)
in cui i leoni non compaiono, ma hanno un ruolo importante. I «leoni di Mitsukoshi» sono
un’istituzione, un luogo d’appuntamento, un po’ come la statua di Hachiko a Shibuya. Le statue in
bronzo furono collocate all’entrata della sede principale di Mitsukoshi, a Nihonbashi, nel 1914,
realizzate su modello dei leoni di Trafalgar Square di Edwin Landseer, poi replicate e poste
all’entrata di altre importanti filiali di Tokyo. Mitsukoshi ha avuto molte filiali anche in Europa, e
l’ultima a chiudere i battenti, nel 2021, è stata quella di Roma, che dal 1975 era stata un riferimento
per i giapponesi in transito e per gli italiani legati al Giappone. Dedichiamo questo racconto ai
rappresentanti in Italia della proverbiale ospitalità giapponese.
Senza rancore
Dopo la festa
Quando scesi alla stazione di Karuizawa erano quasi le tre del mattino.
Inspirai a pieni polmoni l’aria tipica della notte di Karuizawa.
Di colpo mi accorsi che le cose che mi ero prefigurata a quella festa erano
andate a finire esattamente come previsto. Mi ero immaginata che sarei
arrivata a Karuizawa senza intoppi, e respiravo a pieni polmoni.
In un angolo della mia mente mi era sempre rimasto quel treno delle
23:54. Se la festa finiva alle nove, il primo treno per Karuizawa sarebbe
stato quello.
Serviva un passatempo fino a quell’ora. Non ero stata invitata in maniera
casuale, ma avevo calcolato tutto. La cosa divenne perfettamente chiara
solo alle tre.
Tuttavia, nel mostrare interesse nei suoi riguardi non avevo finto. Lui era
davvero un uomo affascinante. Non capivo dove e in che modo le cose
avevano finito per cambiare.
I fidanzati delle amiche
1
Negli anni ’70, in Giappone, andava in onda uno spot televisivo in cui il celebre attore Toshirō
Mifune beveva la birra Sapporo senza dire nulla. Incarnava l’uomo taciturno e affascinante, perché i
giapponesi considerano un uomo chiacchierone poco virile. Lo slogan pubblicitario, 男は黙ってサ
ッポロビール («L’uomo che beve in silenzio birra Sapporo»), è noto a tutti i giapponesi.
Innamorarsi
Accadde però che, un giorno, lui le disse: «Credo che non ci vedremo mai
più».
«Eh? Perché?» chiese dubbiosa la giovane donna. «Era così divertente.
Mangiavamo, bevevamo e andavamo a letto insieme. Perché adesso
dobbiamo lasciarci?».
«Perché io mi devo sposare. I miei non fanno che ripetermelo».
«Oh…». Per un istante la donna guardò lontano. «Allora è inevitabile»
disse, e si strinse nelle spalle.
«Come farai?» chiese lui un po’ preoccupato.
«Io?». Lei, invece di guardarlo, fissava la parete alle spalle di lui.
«Vediamo… potrei sposarmi anch’io».
Finì così. Forse le scappò una lacrima, ma la separazione ebbe luogo
senza un accenno di emozione. Non disse cose del tipo: «Ho sacrificato per
te i miei anni migliori, rendimeli». Di conseguenza, la rottura non si
trasformò in una scena straziante.
Andare a letto insieme è facile. Per un uomo e una donna finire a letto è
davvero una cosa da niente. Tuttavia, se due che si amano non lo fanno, è
perché si sentono profondamente legati. La moglie che, disperata,
mormorava che in quel caso era ancora peggio, lo sapeva bene. La scena di
quel film non era solo teoria.
Si pensava che i giovani avessero il monopolio dell’amore, ma in realtà
pare non sia così. Credo che i giovani che oggi si innamorano non
conoscano le pene d’amore; l’amore, per sua natura, molte volte fa soltanto
soffrire.
Tuttavia non riesco a condividere l’atteggiamento che hanno i ragazzi, il
loro volersi tenere alla larga dal «dolore». Da spettatrice, mi preoccupo e mi
chiedo: se da giovani non si prova il tormento insito in un amore, passando
attraverso e oltre il dolore, non si fa rotta, probabilmente, verso un’esistenza
di crudele aridità?
Tornando alla mia amica, qualche volta mi telefonò e, per farla breve, mi
confidò che alla fine erano andati a letto insieme.
«Dormire insieme è diventato facile, come dire una bugia – disse. – È
diventato facile, ma ogni volta che ci vediamo non è più come prima,
quando il cuore ci batteva fortissimo».
La consolai, dicendole che tanto, anche se non si va a letto insieme, il
batticuore un po’ alla volta svanisce comunque, e riagganciai.
Poco tempo dopo mi giunse voce che si erano lasciati.
1
In italiano nel testo.
2
Innamorarsi (Falling in love, 1984), di Ulu Grosbard, con Robert De Niro e Meryl Streep.
Dialogo tra marito e moglie
Quella che segue è una lunga nota dell’autrice a chiusura del volume
Senza rancore (Wakare jōzu), da cui sono stati tratti quattro dei titoli
presenti in questa raccolta. Poiché pedissequamente, talvolta in chiave
mordace, la produzione letteraria di Mori Yōko è stata associata al termine
furin, ci è sembrato che nulla meglio delle sue stesse parole potesse
veicolare quanto ingiustamente «persecutoria» e riduttiva sia stata
quell’etichetta. In traduzione si è cercato di rendere il senso di ciò che il
termine racchiude nei suoi sinonimi e nel lessico letterario, soprattutto per
districare la complicata matassa che Mori introduce sulla differenza tra
furin e love affair.
Qui vorremmo suggerire quello che filologicamente aiuta a entrare nella
comune accezione di furin (不倫): il composto ha due ideogrammi, il primo,
fu 不, è un privativo, il secondo, rin 倫, significa «morale, moralità»: senza,
o meglio fuori dalla, moralità, sono le relazioni che esulano da un vincolo
costituito, nella fattispecie quello coniugale1. Questa sembra la lettura più
vicina al termine tradotto alternativamente con «relazioni extraconiugali»,
«legami infedeli», «avventure», «scappatelle», «tresche», «storie» e altri
sinonimi. Se nei contenuti furin bungaku (不倫文学) corrisponde di fatto alla
letteratura rosa, va tenuto presente che la diffusione del termine furin è
antica e riferita a rapporti con implicazioni sessuali e non, in uso
certamente dall’epoca Meiji (1868-1912) e forse da prima.
Il mio romanzo Jōji (Fame d’amore), con cui ho vinto il premio Subaru nel
1978, voglio sottolinearlo, non era niente di più che una storia di legami
infedeli, furin.
All’epoca, un uomo mi disse chiaro e tondo: «In sostanza, ha scritto di
legami infedeli», e io fui estremamente compiaciuta di quel commento,
tanto che, da allora, ogni volta che mi fanno domande, taglio corto e
rispondo: «È solo una storia di furin».
È strano che sia io a dirlo, ma dieci anni fa Fame d’amore ha
rappresentato una svolta nel filone letterario furin, incentrato sul tema delle
relazioni uomo-donna al di fuori del matrimonio. Sempre un uomo affermò
che si trattava dell’inizio di una nuova dimensione letteraria, dal momento
che in quelle storie venivano messi da parte il senso di colpa e la gravità
associati alle relazioni extraconiugali.
Ne sono stati scritti fin troppi di romanzi d’amore sviluppati ampiamente
sul senso di colpa, del rimorso e del peccato. Quando si cerca di descrivere
l’amore fra marito e moglie, ci si concentra perlopiù sul conflitto che nasce
dal rimorso. Anche per questo, non era nei miei intenti inventare storie
sensazionali.
Volevo scrivere semplicemente di love story. Non ero interessata ad amori
sfrontati fra un uomo e una donna, come «gatti in calore su un tetto che
scotta».
Tra due giovani che si amano c’è lo stordimento dimentico degli sguardi
della gente, ma niente che colpisca o diverta. Essendo liberi, nessuno dice
loro nulla, nessuno li ferisce alle spalle, non danno un brivido caldo, né
freddo.
Solo quando le storie sono intrise di dolore e insorgono grosse difficoltà,
scaturisce l’interesse da parte dello scrittore. Per questo ho scelto amori tra
uomini e donne in cui ci fosse, almeno per uno dei due, un matrimonio in
piedi.
Fame d’amore ha provocato reazioni diverse, a seconda che il pubblico
fosse maschile o femminile.
Le donne, in generale, hanno detto: «So bene di che parla…». Gli uomini,
invece, hanno chiesto: «Perché?», con voci maschie e taglienti.
Le donne capiscono le ragioni per le quali la protagonista Yōko si tuffa in
un’avventura amorosa. Ha un marito, dei figli, un tenore di vita che le
consente di avere una seconda casa; è casalinga, madre, ha un lavoro part
time; si potrebbe definire la sua vita «il quadretto della felicità», quello in
cui prende forma un pensiero del tipo: «Visto che sono così felice, posso
amare anche un altro uomo».
È proprio questo che gli uomini non arrivano a capire. «Se è felice,
perché?» è il loro grido. «Dovrebbe amare il marito, no?». «Ma se è così,
allora perché…?». Sono increduli. Ci sono argomenti che vanno al di là
della loro comprensione.
Uno scrittore americano ha raccontato in maniera assolutamente lucida il
motivo per cui le donne rincorrono divagazioni furin, e in questa sede vorrei
citarlo. Il passo si riferisce a un dialogo fra una donna sposata e uno
scrittore.
«Io scopo con mio marito due volte la settimana».
«Sulla schiena?».
«Che altro? E allora lui me lo mette dentro e io so cosa devo fare per
farlo venire. Poi lui borbotta qualcosa sulle tette e sull’amore, e viene.
Allora io accendo la luce e mi giro sul fianco e accendo una sigaretta e
vado avanti col libro».
«Cosa fai per farlo venire?».
«Faccio tre cerchi in questo senso, e tre cerchi nell’altro, e gli passo
l’unghia lungo la spina dorsale, così: e lui viene».
«Fai sette cose, dunque».
«Esatto. Sette cose. E allora lui dice qualcosa sulle mie tette e
sull’amore, e viene. […] E sta diventando più duro. Quando sei sposata
pensi sempre: “Peggio di così non può andare…”, l’anno dopo è peggio.
È la cosa più odiosa che io abbia mai dovuto fare. […] Però una sera ho
creduto davvero di non poterne più. Ho messo giù il libro, ho spento la
luce e alla fine gliel’ho detto. Ho detto: “Dal nostro matrimonio è
scomparso qualcosa”. Ma lui, allora, stava già quasi russando. “Zitta –
mormora. – Shhh, dormi”.
«Non so che fare. Non c’è niente da fare. La cosa strana e la cosa
terribile e la cosa più inquietante è che mio marito, senza dubbio, è stato
il vero amore della mia vita e io, senza dubbio, sono stata il grande
amore della sua, e anche se non siamo mai stati felici, per una decina
d’anni abbiamo avuto un matrimonio appassionato e tutti i fronzoli,
salute, soldi, bambini, Mercedes, lavello con due vasche e case per
l’estate e tutto. Tanto infelici e tanto legati.
«E ora ho questi mostri notturni, tre enormi mostri notturni: niente soldi,
la morte e la vecchiaia. Non posso lasciarlo. Crollerei. E crollerebbe
anche lui. I bambini andrebbero fuori di testa, già abbastanza strambi
come sono. Ma io ho bisogno di un po’ di eccitazione. Ho trentotto anni.
Ho bisogno di qualche attenzione in più».2
1
Per una più esaustiva spiegazione in giapponese si veda: https://gogen-yurai.jp/furin/.
2
Philip Roth, La lezione di anatomia, traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2006 e
2007, pp. 98-100.
3
Ivi.
4
Philip Roth (Newark 1933 - New York 2018) scrisse La lezione di anatomia nel 1983.
Appunti di lettura
Sono passati circa dodici anni dall’incontro con Dolly, fascino segnato dal
tempo e un sorriso dolceamaro, la donna che accudì fino alla fine Mori
Yōko in qualità di sua segretaria, amica, rifugio e factotum. Dolly, al secolo
Honda Midori, mi fece strada con discrezione verso i luoghi fisici e
dell’anima di Mori Yōko, in un momento in cui quel nome non aveva più il
potere di evocare un’epoca.
I luoghi fisici restano in parte riconoscibili, altri sono scomparsi o molto
cambiati, mentre il consistente lascito letterario conserva tutte le fenditure
di un’anima inquieta. Mori Yōko (1940-1993), quando ebbe i primi seri
sospetti di un cancro, decise di non lasciare spazio al male che l’avrebbe
fermata. Fin lì, e per quindici anni, la sua seconda vita come scrittrice era
stata un percorso a folle velocità. Aveva trentotto anni nel 1978, quando
sfidò la sorte con Fame d’amore (Jōji 情 事 )1, e di certo, Itō Masayo, così
all’anagrafe prima che assumesse il nome d’arte Mori Yōko, non aveva
previsto che scrivere sarebbe stata l’opportunità di una rinascita. Nel
momento in cui comprese che le restava solo la speranza e poco tempo, con
l’aiuto fattivo di Dolly mise insieme e pubblicò nel ’93, a soli pochi mesi
dalla fine, un titolo evocativo con sottotitolo in francese: Owari no bigaku
( 終 わ り の 美 学 ). L'esthétique de l’adieu [L’estetica dell’addio]. I detrattori
forse si aspettavano indicazioni estetico-filosofiche sulla dipartita
definitiva. Quelle non ci sono. Le pagine invece trasudano vitalità, ricordi,
viaggi – tanti e sul filo della sfida – che comunicano un’aumentata bulimia
di vita, senza spunti di riflessioni sull’ultimo addio: brevi storie redatte in
fretta, con forti accenti di «sono qui», partecipazione, emozione della
scoperta, incitamento a superare i limiti; limiti che solo chi sa di avere poco
tempo vuole ignorare e infrangere con strenua determinazione. È Dolly,
nella nota postuma in appendice alla ristampa del libro2, a descrivere
commossa «l’estetica» di un addio secondo l’eredità morale che Yōko le
affida, chiedendole di scegliere un hospice con precise caratteristiche: chi le
avesse fatto visita avrebbe dovuto godere del verde, dei fiori di stagione, del
sovrannaturale in natura e, andando a trovarla, respirare il bello, semplice,
della vita. Nessuna eco del glamour della bolla anni ’80, che si spegneva
con lei.
L’eredità letteraria, materiale, di Mori Yōko è corposa, oltre un centinaio
di pubblicazioni che spaziano tra narrativa, saggi, traduzioni, sceneggiature;
operare una selezione rappresentativa per introdurla ai lettori italiani non è
stato semplice. In questo volume abbiamo messo insieme tre raccolte, da
ognuna delle quali sono tratti alcuni racconti, oltre a Fame d’amore, il
premiato esordio letterario. A Jōji, nell’edizione adottata, segue un altro
lungo racconto, Yūwaku ( 誘 惑 ) [Tentazione], candidato nel 1979 al premio
Akutagawa3. Perché allora non tradurre quel solo best seller dal titolo
iconico, anziché accarezzare il ginepraio di una cernita rischiosa?
Innanzitutto perché il complicato assemblaggio si è rivelato un
sorprendente strumento di comprensione della poliedrica scrittura di Mori
Yōko, poi perché volevamo condividerlo: pubblicare solo gli esordi di
Mori, senza un assaggio della sua vena più matura e coinvolgente,
significava sottrarre all’autrice il dovuto e ai lettori la sorpresa del cambio
di passo. Così è nato Fiabe di letto.
In realtà, Fiabe di letto (Beddo no otogibanashi ベッドのおとぎばなし) è una
raccolta a sé che consta di due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1986 e
nel 1989, il cui titolo nell’edizione originale è proprio Fiabe di letto,
curiosamente scritto in italiano oltre che in giapponese. Per il potere
evocativo che la fiaba ha in ogni lingua e per i sogni che popolano la
narrativa di Mori, ci è sembrato il giusto titolo anche per questo libro. I
racconti qui tradotti sono solo 7 dei 34 contenuti nel primo volume. Pochi,
ma c’era dell’altro.
La seconda raccolta, Il sogno di Cleopatra (Kureopatora no yume クレオパ
トラの夢 , 1987), è un libriccino di storie in pillole, talmente brevi e leggere
che avremmo voluto inserirle tutte, perché graffiano, nei titoli e nei
contenuti. Tuttavia Il sogno di Cleopatra è già il disincanto, è un po’ di
gogna per gli uomini, è la vena sagace e talvolta amara di Mori, che strappa
un sorriso. Sa che scrivere non è un gioco, o se lo è, lei vuole giocare bene,
costruire un plot in poche pagine e lasciare spesso un finale aperto,
avvalendosi di una tecnica diffusa e derivata, possiamo presumere,
dall’abitudine giapponese di proporre pubblicazioni a puntate. In effetti, a
volte, ci piacerebbe leggere nell’ultima pagina «continua».
La raccolta proposta in chiusura, Senza rancore (Wakarejōzu 別 れ 上 手 ,
1986) collocandosi a metà tra il saggio e la narrativa, rientrava di diritto in
una prima pubblicazione che, con la scomparsa dell’autrice, diventasse una
cassa di risonanza per il carattere, la trasformazione, l’autoironia, attraverso
la sua voce vera. Nello scritto Da «Jōji» a «furin», Yōko sembra sfogarsi,
in una sintesi frettolosa di inciampi e successi inanellati dal debutto in poi.
Senza rancore introduce alla maturità, senza parafrasi e con scarsi, se non
assenti, abbellimenti stilistici. È una breve – solo pochi racconti sono stati
estrapolati – nuova galleria di donne: romanticismo azzerato, ingenuità
bandita, sono loro ora a gestire le avventure, a riconoscerne i limiti, e in
procinto di ricominciare dalle sconfitte. Ma il nucleo-perno-collante sociale,
che Jōji lasciava intravedere già e da cui qualsiasi scelta non può
prescindere, resta lo stesso: la famiglia, il vincolo, la responsabilità
dell’incolumità emotiva di chi ci è caro, che fanno la differenza tra furin e
love affair, almeno nel Mori Yōko-pensiero, espresso con qualche
incertezza.
Torniamo al 1978, a Jōji, un’esplosione di vita per il tramite della
scrittura. L’incipit è ormai famoso, annuncia una fine, la fine dell’estate, e
di un amore. La protagonista si chiama Yōko, come la scrittrice, ma il nome
è scritto sempre in katakana (ヨーコ), non con i kanji di Yōko (瑶子), ed ecco
instillato il dubbio intrigante della sovrapposizione: quanto corrisponde al
vissuto della scrittrice, quanto all’invenzione narrativa? Di fronte al mare
che non la accoglie più, di fronte allo specchio che le restituisce una donna
triste e già vecchia a trentacinque anni, Yōko si perde e vaga tra passato
lontano e recente. Nella realtà, il libro, come tutti i suoi altri, Mori lo redige
a mano, scrive come in un flusso di coscienza. Forse per questo lo sguardo
di Yōko, nel romanzo, si ferma su Joyce, tra i libri disordinatamente sparsi
nella stanza di Lane, come in cerca di una conferma che quell’aritmia di
scrittura sia la Via. Sobbalza la mano di Mori – ma anche di chi legge –
quando descrive l’atto o la «fame» di sesso, e quasi mai mente; con Jōji
introduce ritmi, temi, persino un lessico strutturalmente diverso e, a quel
tempo, del tutto originale, destinato a incoraggiare e influenzare gran parte
della letteratura femminile del decennio successivo, come vedremo più
avanti.
È certo che molto di quello che leggiamo in Fame d’amore ha spunti
autobiografici, Mori affermava di saper scrivere bene solo di quel che
conosceva, tuttavia non sposa mai del tutto la peculiarità giapponese della
narrazione in prima persona; è piuttosto essenzialmente sollecitata da una
smania di fermare i particolari, assaporarli, viverli e trasmetterli.
Jōji fu una svolta improvvisa, che non le dette neppure il tempo di
ipotizzare quante e quali conseguenze sarebbero venute dall’ansia di
infrangere le linee già demarcate a trentotto anni, da donna adulta e
socialmente arruolata in vesti consuete. Fu audace anche la giuria che nel
1978 le assegnò il premio Subaru: assunse che quella di Mori Yōko non
fosse una scrittura da donna – e i commentatori continuarono, su quella
falsariga, a essere affascinati non da un capolavoro, ma da una assoluta
novità4 –, che narrasse con ingenuità, ma che fosse animata da un
contagioso desiderio di decondizionamento e, soprattutto, che avesse fegato
nello smascherare l’ipocrisia dei legami sentimentali. La maggiore delle sue
tre figlie, Heather Brackin, racconta come tutto ebbe inizio:
Avevo dodici anni, e stavo per telefonare a un amico. «Non ora, aspetto
una telefonata importante», mi fermò mia madre. Di lì a poco la
telefonata arrivò: «Il libro che ha scritto mamma ha vinto un premio!»
mi disse andando via di corsa. A contattarla era stato un membro della
giuria del premio Subaru. Dopo fu sommersa dagli impegni; dismise il
nome Masayo Brackin e nel momento in cui scelse lo pseudonimo di
Mori Yōko avvenne una trasformazione. Tuttavia le parole di mio padre
furono: «Primo, sei la madre delle nostre figlie; secondo, sei mia moglie;
terzo, Mori Yōko viene dopo» e mamma le comprese a chiare lettere. La
mattina scriveva, nelle pause preparava l’occorrente per la cena. I giorni
festivi li trascorreva in famiglia. Non la sentivo diversa da una qualsiasi
altra mamma.5
Immaginiamo che da quel punto in poi, in realtà, Itō Masayo in Brackin,
cambiando pelle in Mori Yōko, divenne una donna contesa dai media e che
debba aver ricevuto l’aiuto e il sostegno di molti. Ma a Yōko mancò il più
importante, quello della famiglia, forse comprensibilmente: quale marito e
quale figlia leggerebbero di buon grado degli amplessi consumati dalla
moglie/mamma quasi sotto i loro occhi? Heather Brackin aggiunge anche di
essere la Erika di Jōji e di conoscere altri personaggi descritti nel romanzo.
Almeno per un po’, la comprensione e la complicità desiderata tardarono.
Così, nella donna generosa e volitiva – all’occorrenza cedevole e fragile su
molti fronti – ebbero spesso la meglio infiniti sensi di colpa. Molto è
cambiato, ma la pressione che una donna subisce nel momento in cui una
parte di sé si realizza fuori dalle mura domestiche, resta più o meno la
stessa, al pari delle dinamiche con cui contemporaneamente si insinua il
dubbio su quel che si è; la reazione, invece, ha variabili individuali. Yōko,
sempre in bilico su un equilibrio fragile, sentì di dover risarcire il marito,
più di chiunque altro: comprò per lui un’isola in Canada, uno yacht, una
Porsche, ma non bastava mai; provvide a risanare le sue fallimentari
iniziative finanziarie. Per farlo, comunque, occorreva guadagnare, sempre
di più, e instancabilmente, fino a stabilire quante pagine al giorno e quante
pubblicazioni in un anno servivano per tener dietro al tenore di vita, alto,
che la fama le aveva concesso e che lei voleva fosse lo stesso per i suoi cari.
Mori Yōko è stata talvolta indebitamente considerata una casalinga
improvvisatasi scrittrice: questo corrispondeva solo in parte a verità, ma lei
non sentì mai il bisogno di negoziare con la critica o con il pubblico il
proprio passato e presente. Yōko veniva dall’Università di Belle Arti di
Tokyo, fucina di talenti, dove aveva studiato violino – il violoncello in Jōji
–, ed era vissuta in una famiglia usa a ospitare studenti stranieri; era, la sua,
una mente aperta, da sempre. L’inglese e il francese le erano familiari, il suo
lavoro di traduttrice e autrice di script pubblicitari, anche se part time, lo
aveva sempre svolto. Paradossalmente, il matrimonio con un occidentale
finì per costringerla entro limiti imprevisti, generatori di inquietudine per
una sensibilità febbrile.
In apertura di questo volume abbiamo chiesto ai lettori di contestualizzare
il Giappone di Mori Yōko, o meglio un’epoca, quella che la vide
protagonista, dentro la cosiddetta bolla economica, tenendo presente non
solo i risvolti economici e l’assetto sociale – che muoveva i primi passi
verso quello attuale, alquanto diverso –, ma anche che il 1975 fu l’anno in
cui ebbe inizio il decennio dedicato all’avanzamento e all’emancipazione
femminile promulgato dall’ONU. In quel contesto, prima di arrivare alla
metà degli anni ’80, prima della graduale presa di coscienza delle donne –
la previsione di due lustri non era stata avventata – gli incontri a scopo di
matrimonio, o-miai, erano un istituto diffuso e socialmente funzionale alla
crescita del paese, perché un uomo e una donna che mettevano su famiglia
all’età canonica (considerata, a quel tempo, ottimale per le donne non oltre i
venticinque anni!) garantivano il buon funzionamento della filiera
economica: un giovane uomo sposato, sollevato dalle incombenze del
quotidiano, diventava più efficiente sul lavoro e poteva contribuire al
meglio alla crescita, all’epoca esponenziale, del paese. Le chat di incontri
erano del tutto futuribili, lontanissime. Ma dall’unione di due (quasi
sempre) sconosciuti, uno dei quali, per definizione l’uomo, trascorreva
molto tempo fuori casa, era facile preventivare un altro istituto parallelo:
quello delle relazioni extraconiugali, scappatelle o avventure, tresche, flirt,
amanti-passatempo come sfoggio di status accettate persino dalle mogli, o
«fiabe di letto» di una notte: questo e altro in giapponese esprime il
concetto di furin.
Sull’etimologia del vocabolo rimandiamo alla nota esplicativa di pagina
251. Qui è d’obbligo indagare sul binomio restrittivo e reiterato Mori Yōko-
furin bungaku ( 不 倫 文 学 文 学 , letteratura rosa), ovvero Mori-romanzo rosa.
Premesso che l’autrice non ne ha mai disconosciuto alcuni ingredienti, né si
è risentita per essere stata accomunata a un particolare genere letterario, ha
sempre scritto conscia del suo pubblico ampio e misto, consapevole di poter
spaziare, toccare corde aliene alla letteratura rosa, imponendo, in un certo
senso, anche nei racconti più frivoli, riflessioni prioritarie sui diritti e sulla
dignità delle donne. Scorrendo un centinaio dei suoi titoli, la metà conferma
comunque che l’equazione Mori Yōko = furin ha una ragion d’essere: Yōko
ha amalgamato spesso e volentieri temi e atmosfere della letteratura rosa, o
d’evasione; incontri proibiti, sentimenti inconfessabili, desideri inappagati,
fughe, sogni. Ma a questa metà probabile di una vasta produzione si
contrappone incisiva l’altra metà, e la cesura talvolta è puramente
funzionale alla querelle cara alla critica: quella metà che mette a fuoco e
svela cosa significhi in concreto scoprirsi scrittrice, dichiararsi affamata di
sesso, fare i conti con il tempo, l’età, i vincoli socialmente definiti,
rimanendo moglie e madre (nel suo caso di tre figlie), tornare a casa la sera
per preparare la cena, senza, nel caso di Mori, smettere mai di avere un
sogno per sé e per gli altri – per le altre, sarebbe più giusto dire.
La strettoia della qualità, dei generi, dei filoni e delle etichette letterarie,
di cui anche il lettore occasionale di narrativa giapponese ormai può,
volendo, dibattere, non interessava a Yōko, e disquisirne qui non
aggiungerebbe nulla alla lettura. Ma se proprio volessimo costringere Mori
Yōko entro un binario di genere, dopo aver esplorato la sua scrittura,
verrebbe da dire che sia stata una transgender della narrativa.
I suoi racconti, e i moltissimi saggi, parlano di donne pragmatiche,
disilluse, passionali, spigolose o insicure, freelance o casalinghe annoiate,
accomunate dalla ricerca di un’alternativa alla quotidianità che non le
appaga, o le svilisce, e non solo di trasgressioni e scappatelle. Mori sceglie
realtà complesse, di donne inquiete, messe al sicuro, o meglio ai margini,
dalla società perché madri e ultratrentenni! Ai parametri di anagrafe e stato
civile si affida il compito di sotterrare ormoni, obiettivi, individualità,
progetti di vita. Così, nel paese più longevo al mondo, una donna intorno ai
quaranta era già un’esclusa. Yōko parla di quelle donne, e a quelle donne,
che conflittualmente tentano di riprendersi il maltolto. Ma riflette, senza
risposte salvifiche, sul tempo inarrestabile, sull’età e le stagioni della vita:
pensiamo alla stilista e alla cantante della Venticinquesima ora, per scoprire
che l’accettazione cosciente di sé, a qualsiasi età, è l’unica via verso una
temporanea serenità.
I rapporti uomo-donna, di conseguenza, passano attraverso una
pericolosa, macroscopica lente di ironia e sagacia, mediante le quali Mori
cerca di costruire nei suoi racconti un modo e un mondo nuovo: Il sogno di
Cleopatra è il calco da cui partire, in cui affronta risoluta il rifiuto verso le
convenzioni del vincolo coniugale, smonta l’idea di donne mute e fredde,
racconta quanto diffuso sia il senso di negazione in un rapporto scontato. Le
sue protagoniste sono spesso relegate entro un ruolo predefinito, vivono
matrimoni fatti di agi e sicurezze apparenti, in cui i mariti latitano o restano
indifferenti. In Giappone così come nel resto del mondo, ci sentiamo di
aggiungere. Non a caso, in Da «Jōji» a «furin», Mori riporta il passo
emblematico di Philip Roth, ecumenico nel suscitare considerazioni in cui
cultura, luogo di nascita, censo si fondono e confluiscono in un identico
disagio di genere, femminile.
Si era comunque negli anni ’80, quelli in cui il benessere legato ai facili
guadagni in borsa crea anche per le donne inaspettate opportunità di lavoro,
e con esse nuove frequentazioni. Il numero delle donne che lavorano sale
vertiginosamente: introiti insperati sollecitano all’indipendenza e al
superfluo, a nuove relazioni, a incontri di meritata, seppur effimera,
pacificazione, a diversa consapevolezza di sé e di quanto sia possibile fuori
dalle mura domestiche.
È in quegli anni che proliferano le «avventure», furin (letteralmente
«amorale»), di cui Mori Yōko diventa inconsapevole portavoce. Non è
pienamente a suo agio nello spiegare la differenza tra furin e love affair;
forse perché sa che entrambe le dimensioni/culture le appartengono e si
contrastano. Ma Yōko è nata in Giappone e nulla di quel che ha respirato da
sempre può sovrastare i valori e la sensibilità acquisita già nel ventre
materno: l’unica differenza va riferita, forse, al senso di amoralità, diverso
in Giappone rispetto ad altre società. In un paese dove il tradimento o la
lealtà, in qualsiasi ambito, non riguarda mai il solo individuo ma si
ripercuote in cerchi concentrici sul «gruppo», il senso di amoralità può
essere più grave o richiedere inchini, e a volte risarcimenti materiali, più
profondi. Anche fumare in pubblico, adesso, può essere definito amorale, il
concetto di amoralità è quindi ampio, elastico, e nel contempo meno
schiacciante rispetto all’etica speculativa del mondo occidentale.
Ma, come già accennato, si esce dal cerchio di un legame in cerca di altro,
non necessariamente di un altro, talvolta di qualcosa, o di un luogo, fisico o
virtuale, che renda più reale possibile il sogno. Yōko, all’apice della
popolarità, intercetta, o viene intercettata, per creare cornici e oggetti da
sogno, acquistabili all’angolo, sotto casa. Diventa imprenditrice di sé stessa
e nasce, nel 1991, nel Department store Takashimaya, a Nihonbashi, il
Concept shop Mori Yōko.
Nel mio saggio «Il cappello di Mori Yōko» ho scritto di come vivono
ora le donne, ma volevo scrivere degli anni ’80, quelli che incarnano
l’era della bolla, a cui adesso si pensa a fatica, ma che restano un’epoca
che il Giappone ha vissuto. Quando ho capito che potevo farlo, l’unico
nome che mi è venuto in mente è stato Mori Yōko. Gli anni ’80
corrispondono a un periodo in cui la cultura del consumismo prosperava,
ma anche a un momento maturo per le donne. Fu in quelle circostanze
che Mori Yōko, la quale negli anni ’70 aveva cresciuto tre figlie come
casalinga a tempo pieno, mentre tutt’intorno il mondo gridava per
l’indipendenza delle donne, sentì di essere isolata dalla società.
Depressa, scriverà un romanzo, in fretta. Dopodiché, diventerà una
scrittrice popolare in ascesa, di pari passo con l’ascesa dell’economia
giapponese.9
1
Jōji 情 事 , qui liberamente reso con Fame d'amore, ha impegnato noi traduttrici a lungo.
L’alternativa più letterale di questioni/affari/fatti di cuore o sentimentali non aveva chance per
diventare un titolo rispondente al contenuto, che invece dichiara una «fame d’amore». Lo stesso
vocabolo ricorre in molti racconti, di volta in volta si è cercato di renderlo nel significato più aderente
possibile all’originale.
2
Cfr. Postfazione di Honda Midori, in Mori Yōko, Owari no bigaku. L’esthétique de l’adieu (終わり
の美学. L’esthétique de l’adieu), Kadokawabunko, Tokyo 1993, pp. 243-253.
3
Otterrà una seconda candidatura al premio Akutagawa nel 1982, con Kizu (傷) [Ferite]. Nel 1983
sarà candidata all’88° e 89° premio Naoki con Atsui kaze (熱い風) [Vento caldo] e Kaze monogatari
(風物語) [Storia nel vento].
4
Hayase Keichi, nota critica a Beddo no otogibanashi, Bungei shunjū, Tokyo 1989.
5
Tratto da «Nihon Keizai Shimbun», edizione serale, 10 gennaio 2017
(https://style.nikkei.com/article/DGXMZO11476970Q7A110C1NZBP00/).
6
http://syosaism.com/mori-yoko/2021, gennaio-marzo 2021. All’iniziativa seguì la pubblicazione di
un molto commerciale My Collection (マイコレクション), Kadokawa, Tokyo 1991.
7
Cfr. https://www.karuizawa.co.jp/suzunone/.
8
Shimazaki Kyōko, Mori Yōko no bōshi ( 森 瑶 子 の 帽 子 ) [Il cappello di Mori Yōko], Gentōsha,
Tokyo 2019.
9
Da un’intervista a NHK Radio del luglio 2019 (https://www.nhk.or.jp/radio/magazine/detail/my-
asa20190714.html).
10
Tratto dalla rivista giapponese «CREA», 2019.
11
Cfr. supra, nota 9.
12
Diana Donath, Female Issues and Relationship Constellations The Literary World of Mori Yôko
and Other Japanese Women Writers, Jagiellonian University Press, 2010.
Glossario
Hostess: termine che indica giovani donne che prestano servizio in locali di
vario tipo, il cui lavoro consiste nel servire da bere e intrattenere i clienti.
Kanji: caratteri impiegati nella scrittura giapponese, introdotti nel VI secolo
d.C. dalla Cina.
Love hotel: alberghi aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, diffusi in tutto il
Giappone e utilizzati dalle coppie per trascorrere momenti di intimità. Le
stanze sono spesso arredate a tema o con fantasie particolari.
Nigiri zushi: bocconcini di riso conditi con aceto di riso e con sopra fettine
di pesce crudo, da mangiare intinti nella salsa di soia.
Office lady: spesso abbreviato OL, è un termine che si riferisce alle
dipendenti d’ufficio, impiegate solitamente nel ruolo di segretarie o
amministrative.
O-miai: incontro combinato a scopo matrimoniale, richiesto spesso dalle
famiglie, nel quale è prevista di solito la presenza di un nakōdo, sensale che
svolge un ruolo di intermediazione tra le parti e assiste i due candidati.
O-shibori: piccolo asciugamano umido, caldo o freddo a seconda della
stagione, offerto solitamente agli ospiti di un locale per detergersi le mani.
Salary man: termine che indica un lavoratore dipendente di sesso maschile
impiegato nel settore terziario, colletto bianco.
San: suffisso onorifico che si pospone al nome o al cognome di una
persona. Si usa indifferentemente nei confronti di uomini e donne, ma non
riferendosi a sé stessi.
Sashimi: fettine di pesce crudo che solitamente si consumano intingendole
in salsa di soia e wasabi, una crema verde e piccante a base di rafano, usata
principalmente per insaporire il pesce crudo.
Shisomaki: snack estivo composto da involtini a base di foglie di shiso
(basilico cinese), ripieni di miso e ingredienti a piacere, fritti o cotti in
padella.
Soba: spaghetti di grano saraceno che possono essere serviti in brodo caldo,
oppure freddi, da intingere in una salsa a base di soia.
Tsubo: unità di misura tradizionale giapponese; uno tsubo è pari a circa 3,3
metri quadrati. Rappresenta l’area di due tatami standard, ed è ancora
comunemente utilizzato per trattare il prezzo della terra in Giappone.
Tsukune: spiedini a base di pollo o maiale, serviti in forma di polpetta,
glassati in salsa teriyaki (a base di soia), sake e zucchero.
Yakitori: spiedini di pollo alla brace imbevuti e arrostiti in una salsa a base
di soia e sake.
Yukata: kimono leggero in cotone non foderato, chiuso in vita da una
cintura di stoffa. È utilizzato tipicamente in estate, in situazioni informali o
nei luoghi di villeggiatura termali.
All’inizio degli anni ’80, mentre il Giappone è in grande ascesa grazie alla
bolla economica che sembra permettere a tutti di realizzare i propri sogni,
Mori Yōko assurge a icona del filone letterario che ha al centro le furin, le
relazioni «fuori dal cerchio». Nei suoi racconti, i ricchi e vivaci quartieri di
Tokyo fanno da cornice a tradimenti consumati o solo immaginari, a vite
segrete, a desideri frustrati o appagati clandestinamente. Ma soprattutto
emerge con forza, spesso drammatica, il bisogno di autodeterminazione che
anima le protagoniste, in un paese dove le donne erano ancora sottoposte a
rigide convenzioni e spesso intrappolate in matrimoni infelici.
Fiabe di letto ripercorre la parabola letteraria e stilistica della scrittrice,
contraddistinta da quella «fame d’amore» che dà il titolo al lungo racconto
che apre la raccolta. Nelle sue storie, spesso brevi ma di grande tensione
narrativa, Mori Yōko esalta la forza liberatrice dell’eros e indaga con uno
sguardo acuto e ironico i rapporti di coppia dentro e fuori dal matrimonio,
portandone alla luce le contraddizioni ma anche quegli squarci di libertà in
cui ogni donna può ricercare sé stessa.
Mori Yōko (1940-1993), scrittrice, saggista e traduttrice giapponese, si formò presso l’Università di
Belle Arti di Tokyo, dove studiò violino a lungo prima di dedicarsi alla scrittura. Ebbe un rapporto
precoce e prolungato con la cinematografia e la letteratura occidentali, che riecheggiano spesso nelle
sue opere. Esordì tuttavia solo a trentotto anni, ottenendo subito importanti riconoscimenti,
soprattutto per i suoi racconti incentrati su figure femminili alle prese con i propri desideri di
emancipazione.
Indice
Avvertenza
Nota introduttiva
Fame d’amore
FIABE DI LETTO
Carta di credito
Bloody Mary
La venticinquesima ora
Amiche
Vigilia di Natale
L’orecchino di giada
Scorci di felicità
IL SOGNO DI CLEOPATRA
Calici da vino
Carta d’ingresso
Tampax
Gitanes
Carta igienica
I leoni di Mitsukoshi
SENZA RANCORE
Dopo la festa
I fidanzati delle amiche
Innamorarsi
Dialogo tra marito e moglie
Da Jōji a furin
Appunti di lettura
Glossario