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Il libro

I n un mondo sconvolto dal mutamento climatico e definitivamente avvelenato dagli uomini, in un futuro non troppo lontano, un morbo
si è diffuso fino a diventare una vera pandemia: la chiamano “malattia del vuoto” ed è l’incapacità di riprodursi, la sterilità.
Per avere un domani, l’umanità è costretta a ricorrere in forme sempre più pesanti alle biotecnologie. La società si divide in due
fazioni contrapposte che si combattono furiosamente: da una parte ci sono gli “uomini della scienza”, dall’altra gli “uomini della vita”. Ma
le donne da che parte stanno?
In mezzo al Mediterraneo c’è un’isola conosciuta fin dall’antichità come l’Isola delle madri, e su questo lembo di terra sorge la Casa
della maternità, un posto speciale che non è solo una clinica come tante altre, ma anche un centro di ricerca dove si tenta di sconfiggere
la malattia del vuoto e in cui prende forma un nuovo modo di spartirsi i tradizionali ruoli familiari. Livia, Mariama e Kateryna hanno storie
profondamente diverse e sono cresciute in paesi lontani, ma ognuna di loro – chi per lavoro, chi per mettersi al riparo da una guerra, chi
spinta dall’onda lunga dell’emigrazione – è destinata ad approdare sull’isola. Una volta sbarcate,
le loro vite si intrecciano inevitabilmente, anche grazie all’intervento di Sara, la direttrice della Casa della maternità. Perché tutte e
quattro devono fare i conti con lo stesso problema: la possibilità o l’impossibilità di essere madri. E i tanti modi di esserlo e di diventarlo.
Romanzo visionario e terribilmente realistico al tempo stesso, L’isola delle madri è una riflessione necessaria sui cambiamenti che il
surriscaldamento globale e le biotecnologie riproduttive provocheranno negli uomini e nelle società, ma è anche un luminoso inno alla
vita, che ripone ogni speranza nella capacità delle donne di parlarsi, unirsi, lottare e costruire insieme.

L’autrice

Maria Rosa Cutrufelli è nata a Messina, ha studiato a Bologna e attualmente vive a Roma. Ha
pubblicato otto romanzi, tre libri di viaggio, un libro per ragazzi e numerosi saggi. Fra i romanzi
ricordiamo: La donna che visse per un sogno (finalista al premio Strega nel 2004), Complice il
dubbio (da cui è stato tratto il film Le complici) e Il giudice delle donne (tutti pubblicati da
Frassinelli). Il suo ultimo saggio è Scrivere con l’inchiostro bianco (Iacobelli). Ha curato antologie di
racconti, scritto radiodrammi, collaborato a riviste e quotidiani nazionali. Ha fatto parte della
redazione di “Noi Donne”, fondato e diretto la rivista “Tuttestorie” e insegnato Scrittura creativa
all’Università La Sapienza di Roma. I suoi libri hanno vinto diversi premi e sono stati tradotti in una
ventina di lingue.

Sommario

Copertina
Illibro
L’autrice
Sommario
Frontespizio
L’isoladellemadri
1. Unostranosilenzio
2. Kateryna
3. Livia
4. Mariama
5. L’isoladellemadri
6. Kateryna
7. Livia
8. Chidàechiprende
9. Mariama
10. Ilpostodellemeduse
11. Sara
Piccolanotaamargine
Copyright
Maria Rosa Cutrufelli

L’ISOLA DELLE MADRI


Romanzo
L’isola delle madri

A Rachel Carson che, per prima,


ci ha spiegato perché tacciono
le voci della primavera
Ritorna, ritorna, oh, mamma,
dalla follia o dalla morte
o dalla nostra memoria danneggiata…

E tu sarai là, con la tua vestaglia di cotone,


stringendo una molletta di legno
tra i denti, mentre il bucato sventola
sulla corda con cui una volta hai pensato per un istante di impiccarti

ma dimenticalo! Tu sarai là,


intonando una canzone della tua giovinezza come se
il tempo non fosse passato,
e noi potremo essere di nuovo spensierati, e
vergognarci di te,
e ignorarti come facevamo una volta,

e i buchi nel mondo saranno riparati.

MARGARET ATWOOD, Microfiction,

Lasciate tranquilli quelli che nascono!


Fate posto perché vivano!
Non gli fate trovare tutto pensato,
non gli leggete lo stesso libro,
lasciate che scoprano l’aurora
e che diano un nome ai loro baci.

PABLO NERUDA, Stravagario,


1
Uno strano silenzio

Non so bene come funzionasse il mondo prima di me, né qui sull’isola né altrove. Però Irena, la vecchia ostetrica in servizio
alla Casa di maternità, sostiene che nel suo lontano passato le cose erano molto più semplici. Soprattutto più naturali, nel
senso che la vita si riproduceva per conto suo, senza bisogno di troppi interventi esterni e senza scomodare i signori della
scienza. Era naturale che le donne rimanessero incinte, di propria volontà oppure no. Era naturale che partorissero due o tre
figli, a volte anche di più. E veniva naturale chiamare “madre” la donna che ti aveva partorito.
Io invece sono nata nel tempo del Grande Vuoto, dentro una confusione esasperante di ruoli, compiti e appellativi, perciò
ho dovuto riordinarli e aggiustarli un po’ per fare largo a me stessa. Con quale risultato, ancora è presto per dirlo.
Sia come sia, questa è la mia storia e, al pari della storia di chiunque altro, comincia molto prima della mia nascita. Non è
semplice come vorrebbe Irena, ma così me l’hanno raccontata e così ve la racconto.

Dunque.
Immaginate una strada al di là del mare, sul continente. Una lunga strada di terra battuta, asciutta come una pista in mezzo
al deserto.
Immaginate un convoglio di camion e tre gipponi militari che lo scortano, avanzando tra la polvere sollevata dalle ruote.
Dopo ore e ore di marcia, i veicoli hanno preso il colore della strada. Un grigio sporco, sabbioso, che però ogni tanto si
accende sotto il sole. Allora il convoglio si riveste di mille puntini luminosi che danzano a tre metri dal suolo, e le gobbe del
terreno, il rettifilo della strada, i camion fluttuano dentro l’orizzonte come fantasmi. Perdono la loro pesantezza. Poi il riverbero
si spegne e torna il grigio, torna il pulviscolo fitto che intorbida la vista. Ma a tratti il vento cambia direzione e soffia contro gli
automezzi militari spazzando le fiancate. Una raffica più forte le pulisce e, per un attimo, riemerge il verde di un’insegna
nascosta sotto la patina terrosa.
Un tempo c’era del verde anche là attorno. C’erano frutteti, campi coltivati, siepi e fiori selvatici. I lecci mantenevano il loro
fogliame d’estate e d’inverno. C’erano case di contadini, aziende agricole e vie asfaltate. Adesso tutto questo non c’è più.
L’asfalto spunta ancora a isole, a macchie rigonfie che rammentano il dorso di un’antica grattugia. Ma il verde è solo un colore
dentro una bandiera dipinta sulla fiancata di un veicolo militare.
Ora immaginate una donna alta che cerca invano di snodare le gambe, nella cabina di uno di quei camion con la scorta. Ha
un bel nome biblico, Sara, e un sorriso lento, che ho imparato a riconoscere. Definirlo “sorriso” magari è un tantino azzardato
da parte mia. È piuttosto qualcosa, un palpito, che le affiora negli occhi a poco a poco e spesso muore lì, come se non avesse
il tempo di arrivare alle labbra. Forse per colpa del lavoro che Sara ha scelto per sé e che non le permette di sorridere con
spensieratezza. O troppo di frequente.
Il convoglio procede nell’ordine stabilito: un gippone davanti e gli altri due in coda, a chiudere il corteo. Sono i soldati a
decidere i tempi e a imporre il ritmo all’intera carovana. Rallentando, accelerando. I camion tuttavia non appartengono
all’esercito, ma a una società privata. Trasportano personale volontario, composto perlopiù da giovani impegnati in azioni di
soccorso, e derrate alimentari raccolte da quegli stessi giovani. Sono partiti prima dell’alba, ma ormai il sole è alto e negli
abitacoli, nonostante i condizionatori d’aria, si comincia a sudare.
Sara sposta indietro il sedile, abbassa l’aletta che filtra la luce esterna, si agita. Ma non è il caldo a darle fastidio: è la
presenza dei militari, una novità che non le piace. La fa sentire a disagio. Lei è un medico, interviene nelle zone a rischio e si
occupa di logistica sanitaria: cos’ha a che fare, questo, con l’esibizione di fucili e mitragliatori? Le armi non aiutano a curare.
Le armi creano il nemico e, nel migliore dei casi, generano allarme e sospetto. Impediscono a gente come lei di lavorare in
tranquillità.
Vorrebbe discuterne con qualcuno, ma l’unico a disposizione in questo momento è Tonio, l’autista. E Tonio usa le parole
con parsimonia, anzi con tirchieria, benché le cose le veda con più chiarezza di chiunque altro. «Be’, eccoci arruolati», aveva
borbottato prima della partenza, quando un giovanotto della sua età, ma in divisa, gli aveva controllato i documenti. Però poi
era salito al suo posto, dietro il volante, e non aveva più aperto bocca.
Al contrario di Sara, che non riesce a calmarsi.
D’altronde mai, in precedenza, la sua organizzazione aveva accettato scorte armate. Oggi invece l’ha fatto, ha detto sì agli
ordini di un ufficiale dell’esercito e di uno Stato lontano perfino nel verde delle insegne, un colore che da queste parti non
attecchisce. «Nuove regole», si era giustificato il capoconvoglio. «Nuove disposizioni. Ne parliamo al ritorno, d’accordo?» Un
voltafaccia che a ripensarci adesso, oltre a farla infuriare, la preoccupa: perché cedere a un’idea di forza estranea ai principi e
all’etica del loro lavoro? E perché farlo proprio ora? Non stanno attraversando un paese in guerra o devastato da bande di
predoni. Questa è l’Europa, dopotutto. L’Europa del Sud, la fortezza del Mediterraneo, con i piedi a mollo nel Canale d’Africa.
Qui l’unica devastazione è quella prodotta dalla
siccità. Anche se bisogna ammettere che la parola “siccità” è perlomeno inadeguata a rendere la dimensione del disastro che
ha davanti agli occhi.
Il mondo, là fuori, sembra uscito da un gigantesco incendio, dalle fiamme di un rogo che, nel ricordo, fa ancora rabbrividire i
pochi alberi superstiti. Più che alberi, sono tronchi morti e arbusti secchi su cui sta crescendo un’abbondante fioritura di
plastica. La plastica è ovunque. In alto, infilzata ai rami, dove sacchi e sacchetti al minimo soffio d’aria diventano banderuole.
In basso, dove si formano mulinelli più pesanti e le bottiglie vorticano assieme a tutto il resto. Pezzi di vetro, stracci, brandelli
di carta e ammassi di rifiuti in quantità. Li porta il vento, dalle discariche all’aperto. E annunciano l’avvicinarsi di un abitato
umano provvisorio.
Sara lo sa per esperienza: è questo che fa il vento attorno a ogni tendopoli o alloggio temporaneo, semina plastiche e
immondizie. Accade nei campi profughi, nei centri di raccolta o nelle baraccopoli dei clandestini, ma anche nei ricoveri allestiti
in fretta e furia per chi fugge da un terremoto. Quando la vita diventa precaria, lo diventa da diritto e da rovescio. In ogni sua
piega quotidiana.
Se non fosse per le donne… Sono ben ostinate, le donne, pensa Sara. È difficile che si arrendano. Sono capaci d’inventarsi
mille espedienti pur di mantenere una parvenza di decoro domestico e di pulizia. E come sono svelte a organizzarsi, anche
nelle situazioni più disperate! Tutte a correre, ad arrabattarsi e a pulire, pulire e pulire di nuovo.
Quante volte, si chiede Sara, sarò entrata in un campo profughi? O in una tendopoli di rifugiati, dopo un’alluvione, una frana
o una tromba d’aria? Tante di quelle volte da non contarle più. Ma sempre, all’arrivo, il primo segno di attività umana che vede
sono le corde tese da una baracca all’altra, con il bucato messo ad asciugarvi sopra. E anche nelle circostanze peggiori, nei
luoghi più difficili, sono le donne a venirle incontro, assieme ai bambini.
I bambini, sospira Sara tra sé e sé. Nelle città è come se fossero spariti, sono piante rare, preziose, da custodire
gelosamente fra quattro pareti.
Lì, invece, te li ritrovi sempre fra i piedi. Spesso malridotti. Magri, con le spallucce rachitiche e il fiato corto. Ma non c’è
verso di fermarli. Si rincorrono fra le tende a piedi nudi, le bambine con le trecce sfatte, i bambini con le braghe che scendono
di traverso sulle ossa del bacino. E s’infilano sotto i camion, esplorano ogni buco e ridono, si sgolano, urlano con le loro
vocette acute. Oppure si aggrappano alle madri e piangono e si dimenano fra le braccia dei medici e degli infermieri. Giocano
raccogliendo sassi e pezzetti di legno per scambiarseli dopo complicate trattative, ma non appena i volontari cominciano a
svuotare i container, si affollano attorno a loro, dai più grandi ai più piccoli, maschi o femmine che siano, con la stessa identica
eccitazione negli occhi. Due cose non mancano mai, neppure nel più miserabile dei campi profughi: la pazienza delle donne e
la curiosità dei bambini.
Sara scrolla la testa, come per liberarla da un velo di spossatezza. Intanto il convoglio rallenta, avanza piano, a passo
d’uomo, e infine si ferma davanti a una recinzione presidiata da quattro militari in tuta termica.
«Ci siamo» dice allora ad alta voce, e Tonio annuisce.

Eccoli arrivati, dunque.


Questa è la meta: non una tendopoli o un accampamento, bensì un villaggio per sfollati, ossia un insieme di casette
prefabbricate disposte in fila, l’una contro l’altra. Alloggi di fortuna, tirati su di corsa e in economia per tamponare un’infelice
contingenza.
Prima c’era stata la siccità, ricorda Sara. Erano seccati i boschi, le piantagioni e gli orti. Si erano prosciugate perfino le
radici delle querce e la campagna faceva spavento, solcata com’era da una ragnatela di fenditure che la spaccavano fin giù
nel profondo. Sembrava il ritorno di un’antica maledizione: “il Signore darà al tuo paese sabbia e polvere, in luogo della
pioggia”… Invece le piogge continuavano a cadere e su quel terreno sterile, incapace di ricevere l’acqua e di assorbirla,
provocavano alluvioni, frane, smottamenti. Intere contrade si erano svuotate perché le famiglie scappavano alla ricerca di un
tetto o di un rifugio sicuro, per quanto transitorio.
Il villaggio era nato per loro, e all’inizio, nelle intenzioni delle autorità, dei costruttori e degli stessi sfollati, non doveva durare
più di tanto: in fondo, era solo un asilo temporaneo per far fronte nell’immediato ai bisogni di chi fuggiva lasciandosi alle spalle
fiumi di fango.
Insomma, si trattava di un’emergenza.
Così almeno avevano creduto per qualche tempo.
Ma l’uomo propone e dio dispone, come si usa dire. Infatti le piogge, sempre più rare ma sempre più intense, ci avevano
messo un attimo a trasformarsi in nubifragi, e in quel ruotare continuo di alluvioni e siccità l’emergenza ben presto era
diventata la norma quotidiana. E i prefabbricati erano rimasti ad accogliere, una stagione dopo l’altra, i nuovi profughi di un
cataclisma che si ripeteva e si ripeteva, senza tregua.
«È grande» constata Sara, mentre fa scorrere lo sguardo sul paese di legno oltre lo sbarramento militare. «Non pensavo
che in questa zona ce ne fossero ancora, di così grandi.» Lo dice e subito si zittisce, perché sa bene che ovunque è la stessa
storia: ormai lo straordinario ha preso il posto dell’ordinario in maniera definitiva, e tutto ciò che doveva essere provvisorio ha
mutato natura, raggiungendo una specie di variabile perennità. Nessuno più si stupisce se le tendopoli e i villaggi di legno,
invece di ridursi, crescono come erba cattiva, moltiplicandosi di giorno in giorno insieme col numero degli sfollati. Gente che
non vuole o non può trasferirsi altrove, soprattutto da quando hanno introdotto i lasciapassare perfino per spostarsi da una
regione all’altra.
Che stranezza, riflette Sara. Salvacondotti, pedaggi, permessi di transito: quando lei aveva dieci anni, provvedimenti del
genere facevano parte di un passato remoto, erano cose che si leggevano a scuola sui libri di storia. Ma ora che ne ha trenta,
sono tornate di attualità.
Due decenni.
In due decenni è andato tutto sottosopra: interi paesi sono stati evacuati, chi viveva in montagna è sceso a valle e chi stava
a valle, dopo le esondazioni, si è spostato verso le colline. E magari è per questo che hanno raddoppiato i controlli e introdotto
le scorte: per paura dei migranti interni, ben più pericolosi degli altri, perché hanno la memoria fresca di quanto hanno perso.
A un tratto Sara si sente stanca e un po’ irritata: ha passato troppe ore chiusa nella scomoda cabina di un automezzo, a
respirare aria finta! E ancora non può scendere per via delle ispezioni e delle verifiche che le paiono più lunghe del solito,
macchinose. Nemmeno la presenza della scorta serve a sveltire le procedure d’ingresso. I minuti si trascinano in un torpore
piatto, pesante, finché non arriva il loro turno e la sbarra si alza per dare il via libera al camion di Tonio.
Pochi metri e sono dentro.
«Fammi scendere» grida Sara. Ha voglia di sentire la terra immobile sotto i piedi e, perché no, anche di lasciarsi
impolverare dal vento.
Salta giù e, mentre cammina, si guarda attorno.
Negli slarghi destinati ai container è già in corso la distribuzione, i volontari scaricano la farina, la pasta e le altre derrate, i
soldati sorvegliano la lunga coda che si va formando. Una fila irrequieta di uomini che si contendono lo spazio, che
chiacchierano, si spazientiscono e fanno battute col vicino, ciascuno in attesa della propria razione di alimenti. Ma una volta il
cibo lo producevano e lo smerciavano
loro. Erano contadini, bottegai, panettieri. Adesso cosa sono?
Cammina ancora, finché non scorge la tensostruttura del presidio sanitario, una cupola di tela bianca sorretta da cavi e
tiranti in acciaio zincato. Là sotto c’è un’altra fila, ma di donne. Ed è chiaro che stanno aspettando il medico o almeno le
medicine, quei farmaci essenziali che ogni convoglio porta in dono: antibiotici, disinfettanti, antipiretici.
Non sono lontane: due passi e potrebbe raggiungerle. Invece si ferma, prende tempo. Osserva le case di legno, tristi, senza
grazia, e porge l’orecchio ai rumori che riempiono la strada, sente le voci dei volontari che si alzano in richiami insistenti, il
frastuono delle ruote, il fracasso dei pacchi sbattuti a terra. Suoni che conosce bene, perché accompagnano da sempre il suo
lavoro. Ci ha fatto l’abitudine, ormai.
Eppure oggi… Sì, oggi c’è qualcosa di diverso.
Qualcosa che stona. O che manca.
Ma non capisce cosa.
Forse è quel silenzio sotterraneo che avverte a tratti, quando l’attività rallenta e le voci cadono. Allora ha l’impressione che
il ronzio vivente del villaggio sia attraversato da una potenza contraria, da un flusso muto che scorre nel verso opposto. Da un
fiume di silenzio che sale senza preavviso e s’infiltra nei suoi pensieri associandosi ad altre immagini, ai tronchi morti, anneriti
dalla siccità, alla polvere, al sibilo del vento dentro i sacchetti di plastica.
“Il cielo sarà di rame sopra il tuo capo e la terra sotto di te sarà di ferro”… I versetti biblici si accendono di colpo nella sua
memoria. Sono parole antiche, di un tempo dimenticato, ma le risuonano dentro come un presagio, l’annuncio di una
catastrofe che deve ancora venire, che verrà immancabilmente: “maledette saranno le tue ceste e la tua madia, maledetto
sarà il frutto del tuo suolo, genererai figli e figlie, ma non saranno tuoi”…
Per un attimo, Sara chiude gli occhi.
Quando li riapre, il suo sguardo torna a posarsi sulle donne che l’aspettano laggiù, sotto la cupola del presidio sanitario.
Se ne stanno raggruppate in un angolo. Una fruga dentro un cestello di plastica, un’altra strofina le mani sopra un
grembiule allacciato in cintura, come per pulirsi o asciugarsi, un’altra ancora butta indietro la testa mostrando l’arco della gola.
Sara le fissa una per una, le scruta con attenzione crescente, le studia, le esamina. E all’improvviso sa cosa manca e qual
è la natura di quel silenzio irreale che preme contro le sue tempie: i bambini! dove diavolo sono finiti tutti i bambini?
2
Kateryna

La prima ad arrivare sull’isola fu Kateryna. Livia e Mariama sbarcarono in un secondo momento e Sara, quando giunse l’ora,
fu la colla che le mise assieme. Ma su questo tornerò a tempo debito. Dunque la prima fu Kateryna.
Veniva dalle grandi pianure dell’Europa orientale, un territorio immenso dai confini incerti e sempre rosicchiati da questo o
da quel gruppo di separatisti. C’era chi combatteva per una repubblica indipendente e chi sognava di ricongiungersi alla
Madre Russia. C’era chi voleva la secessione e quindi si arruolava in una milizia privata e chi, al contrario, entrava
nell’esercito nazionale per tenere unita la Grande Patria. Forse non erano vere e proprie guerre, tuttavia ci assomigliavano
terribilmente.
Un Paese di cattedrali, monasteri e soldati, tanti soldati: ecco da dove veniva Kateryna e da dove se n’era andata, portando
con sé il figlio. Petro, mio cugino.
Non proprio cugino, in realtà. Mi hanno insegnato a chiamarlo così per semplificare la faccenda, dato che il nostro albero
genealogico, a forza di innesti e trapianti, è cresciuto in maniera piuttosto arruffata. D’altro canto le genealogie non significano
più quello che significavano in passato, quindi “cugino” va benissimo. Come tutti i cugini, abbiamo alcune cose in comune e
altre che ci distinguono: lui, per esempio, è stato concepito in un letto, io no.
Ma sono andata già troppo avanti, perciò mi fermo e cedo il passo.
Ora spetta a lei. A Kateryna.

È curioso come la politica sonnecchi per mesi, addirittura per anni, e in un attimo si risvegli buttando all’aria le certezze, reali o
presunte, di un’intera nazione. Adesso è uno di quei momenti, fra poco scadrà il mandato presidenziale e la febbre delle
candidature è diventata isteria, raggiungendo vertici mai toccati in precedenza. IL PAESE CERCA LA SVOLTA, dicono i cartelloni
elettorali. I nazionalisti, i social-popolari, il partito degli Uomini Giusti, tutti vogliono il cambiamento: basta con la corruzione,
basta con il terrorismo
e gli attentati, basta con la povertà, con le industrie che scappano in Russia, con l’inquinamento, con i piani di sviluppo
sbagliati che strozzano l’agricoltura e generano carestie.
Eh sì, basta, pensa Kateryna.
Lei non si occupa di politica, però ha occhi e orecchie e presume di conoscere i problemi dei suoi concittadini. Le fa piacere
che la città sia tappezzata di buoni propositi e ottimi programmi, ma come fidarsi di chi ti promette il paradiso? E come
scegliere l’uomo (o la donna) che dovrebbe condurti dritto dritto nel migliore dei mondi possibili?
Seduta sull’autobus, dal lato del finestrino, osserva le foto dei candidati che si alternano sui manifesti: tre o quattro ufficiali
in divisa grigioverde (non per niente l’esercito è la prima industria nazionale), un pugile con i guantoni e il naso schiacciato, un
oligarca in giacca e cravatta e Mama Katianka, un tempo infermiera come lei, praticamente una collega. Negli ultimi mesi ha
cambiato mestiere e, per adeguarsi agli altri concorrenti, si è fatta fotografare mentre imbraccia un Kalashnikov che dalla
spalla le arriva al ginocchio.
«Guardala» dice a sua cognata. «Ma guardala! A questa qua deve scorrere più veleno che sangue, dentro le vene.»
«Oddio, fra l’armamentario e quel muso ingrugnito… Non è che abbia un aspetto molto rassicurante, ci conviene tifare per il
pugile» scherza Hannah, spingendosi dietro l’orecchio una ciocca indisciplinata. «Ma ora alzati, che dobbiamo scendere.» Ha
la stessa età di Kateryna e, parentela acquisita a parte, è la sua migliore amica dal primo giorno delle elementari. Quando la
madre di Kateryna era emigrata all’estero per guadagnarsi il pane, avevano dormito fianco a fianco, nel lettino di Hannah, fino
al suo ritorno. Andriy aveva un anno più di loro e dormiva per conto suo, all’altro capo della stanza.
«Su, sbrigati, dobbiamo scendere!»
La precede, come al solito, e balza giù in fretta appena l’autobus si ferma. Non è in ritardo, ma ha un carattere impaziente,
Hannah, deve muoversi, non può aspettare.
Tutte le mattine, quando i turni di Kateryna lo consentono, le due cognate si ritrovano sotto casa per fare un pezzo di strada
assieme. Ormai è un’abitudine, una maniera morbida di aprire la giornata. Prendono l’autobus, dopo quattro fermate
smontano e proseguono fino all’incrocio con il lungolago. Lì si salutano: una va a destra, l’altra a sinistra. Hannah corre a tirare
su la serranda del suo negozio di parrucchiera, Kateryna svolta verso il lago. O meglio, verso ciò che ne resta. Anni addietro
era ampio, profondo, attraversato dagli uccelli di passo. Poi l’acqua si era ritirata, un metro dopo l’altro, e le tivù locali si erano
precipitate a intervistare gli esperti del settore, geologi, idrologi e altri specialisti. La diagnosi era stata unanime e concisa:
secca di stagione. «È già successo altre volte.» In seguito, gli stessi signori avevano ribadito dagli schermi della televisione
nazionale: «È un fenomeno passeggero, smettiamola con gli allarmismi e con questa panzana del caos climatico». Però
dovevano aver sbagliato i calcoli, e di grosso, perché le stagioni sono passate, ma l’acqua non è tornata a crescere e al suo
posto, per almeno duecento metri dalla sponda, c’è una fanghiglia giallastra, una melma che ribolle di moscerini
e appesta l’aria. La BioCompany, il centro medico dove lavora Kateryna, è abbastanza arretrato, distante dalla riva, ma
spesso nel cortile si avverte un sentore di palude.
Comunque in strada, questa mattina, c’è solo puzza di macchine, tanfo di polvere e di cibo cotto e riscaldato. È presto,
molte saracinesche sono abbassate, ma i bar sono aperti e stanno già servendo la colazione ai loro clienti. Piccole ciambelle
senza ripieno. Panini fritti. La scelta è ogni giorno più limitata, perché la campagna non produce, i raccolti sono dimezzati e, se
manca il grano, manca pure la farina. Nei supermercati scarseggiano perfino le patate, e le poche che si trovano sono di
pessima qualità a causa della pioggia, che viene giù a singhiozzo e poi ristagna e fa marcire i tuberi.
«Sai quanto ho girato, ieri, per rimediare due verze?» dice Kateryna. «Dai campi non arriva più niente.» «Può darsi» ribatte
Hannah. «Ma al mercato nero, con i quattrini, si può acquistare di tutto.» Hannah non crede alla carestia. È convinta che
sia un’invenzione delle aziende agricole per speculare
sui prezzi e che sarebbero sufficienti due o tre arresti per avere di nuovo la scodella piena. Nemmeno la madre di Kateryna ci
crede, ma, essendo una donna d’altri tempi, preferisce pensare che sia una punizione del Signore. Per rimettere in ordine le
cose, secondo lei, bisognerebbe inginocchiarsi e chiedere aiuto a san Michele, patrono della città.
Il sole è un disco pallido dietro un sipario di smog e Hannah cammina veloce, come per sfuggire ai vapori che le chiudono
la prospettiva. Va avanti e un attimo dopo rallenta, cercando di controllare il passo. Con una mano fa dondolare la borsa e con
l’altra continua a lisciarsi certi ciuffi arrabbiati che le crescono sulle tempie, in un disordine che per la verità non si addice
molto al suo mestiere.
Ogni volta che affonda le dita nei capelli, a Kateryna sembra di rivedere Andriy: anche lui aveva quei ciuffi ispidi, testardi,
anche lui li tormentava con la stessa foga bellicosa. Un ricordo che le taglia il respiro. Quando pensa alla loro storia, ancora
sente una fitta di rabbia e di nostalgia: un lampo! tanto era durato il loro matrimonio. E non per disamore, ma per colpa di una
pallottola, di una dannata pallottola che poteva essere evitata, se lui avesse fatto la scelta giusta.
Ma qual era, poi, la scelta giusta?
A ripensarci, è evidente che su questo punto non si capivano più. Immaginavano di capirsi, ma non era vero, e a ingannarli,
pensa Kateryna, forse era stata proprio la facilità con cui erano cresciuti insieme. Da bambini avevano condiviso i giochi, la
scuola e pure il sonno, perciò era stata la cosa più semplice del mondo, quando erano diventati ragazzi, passare alla fase
successiva e considerarsi una coppia. La coppia perfetta. E invece come marito e moglie erano durati poco, giusto il tempo di
mettere in cantiere un figlio. Lei si era appena iscritta all’università, al corso quadriennale d’infermieristica, mentre lui era
ancora incerto sulla direzione da prendere. Però aveva in tasca la tessera del Partito nazionalista, non si perdeva nemmeno
una riunione e alla fine, dopo qualche marcia e svariati inni marziali, aveva fatto la sua scelta: si era arruolato in un battaglione
di volontari e tre settimane più tardi, da bravo patriota, era partito per difendere i Sacri Confini della Nazione.
Non erano più ragazzi: a lui gli alti ideali, a lei il figlio.
«E va bene così» dice a se stessa. Non scambierebbe mai l’una cosa con l’altra. Anche se quel bambino le spezza il cuore,
quando la tiene stretta e piange per impedirle di uscire.
All’improvviso le arriva alle narici un odore di fango: il lago è vicino. Alza lo sguardo e in quel momento si accorge di essere
rimasta indietro, Hannah procede a passi lunghi, senza curarsi di lei, e Kateryna di colpo ha l’impressione di galleggiare nel
vuoto. Allora scatta in avanti, la raggiunge e si aggrappa al suo braccio con un impeto che, per qualche secondo, la sbilancia.
«Ehi.» Nella voce dell’altra la sorpresa lascia subito spazio a una nota di apprensione. «Oggi sei strana, qualcosa non
va?»
Kateryna non risponde. Accorda l’andatura a quella della cognata e sospira, abbassando il capo. «Petro»
ammette, dopo un po’.
Deve pur dirlo a qualcuno che quel bambino comincia a preoccuparla: è troppo attaccato a lei, la vorrebbe sempre a sua
disposizione e ogni santa mattina, proprio quando le tocca uscire di casa, si sveglia e piange nascondendo la testa sotto il
cuscino. Un cucciolo abbandonato.
«Mia madre non ce la fa più a calmarlo» dice. Sospira di nuovo e d’un tratto, agli angoli della bocca, le compaiono due
increspature aguzze, come due piccoli tagli simmetrici. «Finché c’era la scuola giocava con i compagni e si divertiva, ma ora
che l’hanno chiusa…»
«Be’, se nessuno protesta…»
«Cosa vuoi protestare» s’inalbera Kateryna. «Ormai la situazione è quella che è.» Nessuno ha provveduto per tempo,
quando ancora si poteva intervenire, e adesso è inutile battersi il petto, il granaio d’Europa si è disseccato e in tutto il Paese
non cresce più niente, non c’è frutta, non ci sono patate. E nemmeno bambini. Anche loro sono diventati merce rara, distribuita
col contagocce, e di conseguenza le scuole chiudono, compresa quella di Petro: non conviene tenerla aperta per quattro
alunni.
Quattro di numero, non per modo di dire.
«Stanno tentando di accorpare le classi, ma intanto lui si annoia, mi sta incollato addosso e quando non ci sono si dispera e
fa impazzire mia madre. Insomma, ieri ho dovuto fargli un discorsetto.» Gli aveva spiegato che anche a lei dispiaceva lasciarlo
solo in casa con la nonna, ma che doveva lavorare, era obbligata a farlo per procurarsi i soldi che servono a comprare il tè, il
latte e le frittelle. «Costano, sai?» L’argomento lo aveva impressionato e lei era stata svelta a rincarare la dose: «Ti piace la
zuppa, vero? E il pesce affumicato, il telefono, la luce…».
«Come» l’aveva interrotta lui, allargando gli occhi, «si compra anche la luce?»
Hannah sorride: «Somiglia a suo padre. Anche lui da piccolo era nervoso, irrequieto… eccitabile. Piangeva senza motivo,
per il gusto di piangere. Non te lo ricordi? Sì…» dice, «sì, ha lo stesso carattere di
suo padre».
Mah, pensa Kateryna. Si può avere il carattere di una persona mai conosciuta? Di un padre che vive soltanto nei discorsi
degli adulti? La genetica è una scienza e lei l’ha studiata, nel suo corso era una materia obbligatoria: la trasmissione dei geni,
le variazioni, quei ritocchi, per così dire, che determinano le caratteristiche ereditarie, la fisionomia, il colore della pelle, la
tendenza allo sviluppo di certe patologie. In un caso o nell’altro, impronte fisiche. Ma si può ereditare un’indole o un
temperamento, un gesto o una specifica sensibilità? È il dilemma degli scienziati. Lei ritiene che al più si possano imitare e
che, nel bene o nel male, si trasmettano per suggestione. Da un essere vivente all’altro.
E comunque Petro ha i suoi capelli: lisci, biondi, sottili.

È bello a vedersi, nel suo insieme. Un aggregato di edifici chiari, composto da tre padiglioni e una struttura centrale bassa, a
due piani, con i tetti di ardesia e grandi bow window. Sembra un complesso alberghiero di lusso, invece è un centro medico.
Una clinica privata, nota per l’eccellenza del personale,
delle attrezzature e della strumentazione sanitaria. Lavorare lì dentro viene considerato un privilegio. Il sole ha sconfitto la
nebbia del mattino, l’aria è calda e Kateryna se ne sta in piedi, nel cortile interno, ad aspettare l’arrivo di Julija. Deve fare un
prelievo di sangue a domicilio e ha bisogno del suo supporto professionale.
Anche Julija è una dipendente della BioCompany, ma non è una semplice infermiera, come Kateryna. Lei non maneggia
fiale, siringhe o divaricatori vaginali, la sua specialità sono le lingue. Ne parla almeno sei o sette e, con il suo piglio sciolto e i
tailleur impeccabili, è la traduttrice ufficiale delle coppie straniere più importanti, quelle che acquistano il “pacchetto VIP” e
hanno diritto ai servizi di un assistente, di qualcuno che faccia da tramite con i medici e la burocrazia e li segua per l’intera
durata del programma. Ossia finché non se ne vanno con un bambino in braccio, perché è questo che fa la BioCompany: dà
un figlio a chi lo desidera.
La luce del giorno manda scintille sulle vetrate e Kateryna socchiude gli occhi guardando le costruzioni che si snodano
attorno a lei, in un intreccio di linee convergenti. Ogni dettaglio è armonioso, studiato con cura. I viali si diramano seguendo un
disegno circolare per ricongiungersi all’entrata, là dove si concentrano i visitatori prima di essere smistati dagli addetti alla
vigilanza. Proprio in quel punto si è formato un piccolo assembramento e una coppia è intenta a parlottare con le guardie.
L’uomo tiene un braccio attorno ai fianchi della compagna, lei si appoggia alla sua spalla. Devono aver chiesto informazioni,
perché uno dei sorveglianti sta indicando il pilastro con le frecce segnaletiche, sormontato da una targa che annuncia: UNITÀ
TECNICA PER LA FECONDAZIONE E LA RIPRODUZIONE UMANA . Una scritta pratica. Funzionale. Non dovrebbe intimorire. Eppure la donna,
nel leggerla, ha un sussulto involontario e abbassa il mento, come per nascondersi dentro il bavero del giubbotto.
Kateryna spia le sue mosse corrugando le sopracciglia. Chissà. Forse è una di quelle che, pur chiedendo aiuto ai medici e
alla scienza, si vergognano di non poter avere un figlio naturale… E pensare che una volta, in epoche neanche troppo remote,
accadeva l’esatto contrario! Allora “figlio naturale” stava per “figlio illegittimo”, di seconda categoria, ed era questo a essere
fonte di vergogna!
Come fa presto a cambiare, il senso delle parole. E delle cose.
Perfino le leggi che regolano la vita e la tramandano possono scivolare via da un momento all’altro e franarti sotto i piedi,
come dune di sabbia.
Oggi abbiamo paura del vuoto, riflette Kateryna, ma appena ieri, quando lei frequentava l’università, il nemico numero uno
del pianeta era ancora la sovrabbondanza, l’eccesso di popolazione. “Siamo in troppi, moriremo di fame” era il pronostico
universale. Infatti il governo, per scongiurare la minaccia, varava programmi di pianificazione familiare e, di nascosto,
sterilizzava le donne rom. O le immigrate (“troppi”, in ultima analisi, sono sempre gli altri). Lei, quando l’aveva scoperto, era
stata sommersa da un’ondata di panico retrospettivo ed era corsa a vomitare dentro un cesto della carta straccia, nel corridoio
dell’università: sua madre veniva da fuori, da un paese ballerino che entrava e usciva dai confini nazionali a seconda di chi
stava al comando.
Comunque sia, erano tutti ciechi in quel periodo. Pianificavano, programmavano e non si accorgevano che era l’ombra
della sterilità ad allungarsi sul mondo e ad avvolgerlo da un polo all’altro. Non avevano coscienza del pericolo. O non volevano
averla, perché i segnali c’erano e molto evidenti, oltretutto: l’oligospermia, le alterazioni cromosomiche, gli effetti
dell’inquinamento sulla capacità riproduttiva, che calava, calava, calava. Tant’è vero che la BioCompany era già in piena
espansione per questo motivo e il suo professore, in quegli stessi anni, durante il corso di biologia diceva a chiunque volesse
sentirlo:
«Questo è solo l’inizio. La terra ha la memoria lunga: noi inquiniamo oggi e lei si vendica domani. Noi la nutriamo col veleno e
lei lo infiltra nei geni, lo regala a chi non è ancora nato».
Sì, i segnali c’erano e, anche a volerli ignorare, parlavano chiaro: la popolazione a livello globale aumentava, d’accordo, ma
il tasso di fertilità diminuiva ovunque. E per capirlo era sufficiente leggere i dati demografici, in particolare quelli del loro Paese.
Lei lo aveva fatto per la sua tesi di laurea. Ora non potrebbe più farlo, perché il ministro degli Interni ha deciso di nascondere i
numeri e di negare l’accesso alle statistiche. Da un giorno all’altro le ha trasformate in documenti top secret, da tenere sotto
chiave per non spaventare il popolo.
Kateryna solleva l’orlo della manica e controlla l’orologio: è tardi, ma di Julija non c’è traccia. Intanto la coppia che era là in
fondo, all’entrata, ha imboccato il viale che conduce ai padiglioni e lo percorre lentamente, perché i tacchi di lei affondano
nella ghiaia. A distanza ravvicinata, si rivelano per quello che sono: due ragazzi disorientati. Intimiditi. Fanno tenerezza nel
loro ingenuo spaesamento e
Kateryna, per rincuorarli, li saluta con un veloce buongiorno e un cenno della testa. Li capisce. Pure a lei capita di sentirsi
un’intrusa in mezzo a quegli edifici di vetro, legno e pietra chiara, disposti ad arte. Un’architettura moderna, razionale. Tutto è
rigorosamente razionale, in quel luogo. Perfino le targhe segnaletiche, che paiono innocenti nella loro neutralità e invece
turbano e suscitano risonanze profonde, smuovendo qualcosa di oscuro anche dentro il suo petto. Sono trascorsi parecchi
anni da quando ha
lasciato l’ospedale pubblico per entrare alla BioCompany, ma la verità è che ancora non riesce ad ambientarsi.
Era stata proprio Julija a procurarle il posto, a convincerla. Qualche giorno dopo la nascita di Petro, le aveva suonato il
campanello e si era presentata. Bella, energica, elegante. Un lieve tratto di matita sulle palpebre. Si era chinata a guardare
Petro che dormiva con il visetto sudato e, scostando la coperta per alleggerirlo, aveva detto: «Il figlio di Andriy». Kateryna non
la conosceva e quel tono troppo disinvolto, che simulava una familiarità inesistente, le aveva dato fastidio, ma poi
conversando si era ammorbidita. Quella giovane sconosciuta aveva un accento sincero, anche se parlava a nome del Partito
nazionalista e lei detestava il nazionalismo, perché si era portato via Andriy e perché le sembrava un sinonimo di chiusura e di
violenza. Alla fine, prima di congedarsi, Julija l’aveva informata che in quel momento, alla BioCompany, c’era carenza
d’infermiere specializzate. «Il direttore è un patriota, sa chi era Andriy e chi sei tu… Sarebbe felice di assumerti.»
«Ho già un lavoro» aveva risposto Kateryna.
«Pagano il doppio rispetto all’ospedale. Pensaci.» E, per delicatezza, non aveva aggiunto altro. C’è un gran viavai nel
cortile, a quest’ora. Finisce il turno di notte e inizia quello del mattino. Passano medici, infermiere, addetti alle pulizie, ma Julija
ancora non si vede.
Non importa, prima o poi arriverà.
In due falcate Kateryna raggiunge il muro di recinzione e vi si appoggia contro. Il sole è tiepido e i muscoli si distendono, la
mente si rilassa, il corpo è più leggero. Kateryna fatica ad ammetterlo perfino con se stessa, ma è un sollievo potersi
arrendere per qualche istante e lasciarsi vivere dentro una specie di smemoratezza, senza doveri immediati, senza cannule o
provette da ispezionare, senza il pianto di suo figlio che la insegue: sospesa in un limbo. Le accade così raramente di
potersene stare da sola, all’aria aperta, con le guance che pizzicano e la schiena poggiata contro una parete calda di sole,
benché sia novembre…
Autunno. Sì, ormai è autunno inoltrato.
In questa stagione, quando era bambina, la temperatura scendeva già sotto lo zero e i primi geloni cominciavano a
tormentarla. Le spuntavano sulle dita e sulle orecchie, sotto forma di orribili chiazze violacee: quanto li aveva odiati! E
d’inverno era ancora peggio. Perfino il naso, il suo bel naso dritto, ogni tanto si trasformava in una grossa bolla lucida e
pruriginosa. Crescendo era diventata più resistente al freddo, ma nel frattempo era cambiato anche il clima, la temperatura era
salita di anno in anno, il vento
gelido che veniva giù dalla Siberia aveva perso il suo vigore e alla fine ecco il risultato: a novembre ci si scaldava al sole!
Non era certo una buona cosa, in via generale.
Eh no, pensa, questo non è un buon sole. Eppure, malgrado tutto, il suo calore è piacevole e le tiene compagnia. Ma il
riposo è finito: la figura snella di Julija sta avanzando lungo il viale. A poco a poco, controvoglia, Kateryna riemerge dal suo
tiepido limbo. Sposta il peso del corpo in avanti, scostandosi dal muro. Agita un braccio per richiamare l’attenzione di Julija, lo
abbassa ed è come se avesse impartito un ordine: un gran vocio che sembra scaturire dal nulla la investe da ogni lato e, di
punto in bianco, si ritrova dentro una girandola di persone in fuga. Il piazzale antistante l’ingresso, un attimo prima silenzioso e
tranquillo, ora è un mare di confusione. Guardie con le pistole in pugno. Uomini che urlano ordini a destra e a manca.
Inservienti che corrono con gli estintori. I cancelli si chiudono e una sirena prende a suonare a intermittenza, fischi acuti che
penetrano nelle tempie, punteruoli roventi che scavano solchi di dolore. Julija si è rannicchiata accanto a un pilastro, le mani
sulle orecchie. Kateryna è ancora lì, vicino al muro, e osserva smarrita. Le sue gambe rifiutano di muoversi, mentre il cuore,
viceversa, salta e picchia ostinatamente, quasi volesse farsi largo e salire in superficie. Poi li vede: venti, trenta uomini che
trascinano bidoni infuocati verso le guardiole della vigilanza lasciandosi dietro una scia di fumo. Indossano una sorta di
uniforme, una cappa bianca che vola, ondeggia e batte sugli stinchi.
Dunque, sono loro. I soldati di San Michele, il braccio armato degli Uomini Giusti. Non li ha mai incontrati prima, ma è
impossibile sbagliarsi: sono i guerrieri bianchi che passano all’offensiva contro i Santuari della Scienza. È il loro modo di fare
politica, in attesa delle elezioni.

«Dammi retta, figlia mia!»


Quando la chiama “figlia mia”, Kateryna sa che c’è una discussione in arrivo. Oggi no, prega in silenzio. Oggi è domenica e,
dopo la giornata di ieri, almeno la colazione vorrei farla in santa pace. Preme il ventre contro il ripiano di acciaio e finisce di
riempire il bricco del tè, ma non lo porta in tavola. Resta in piedi accanto ai fornelli, senza voltarsi, la cuccuma calda fra le
mani.
«Ascoltami, per una volta» insiste l’altra. «Sei un’infermiera, giusto? Il lavoro non ti mancherà né adesso né mai, non è
necessario che t’immischi con certa gente. Sei ancora in tempo, tirati fuori da questo guaio.»
«Quale guaio? Non vedo guai» replica lei, rivolta alle piastre dei fornelli. Però poi si gira lentamente per guardarla in faccia.
«È un posto pericoloso, non dovresti lavorare là dentro.»
«È ben protetto, mamma, sta’ tranquilla. Abbiamo tre guardiani all’ingresso, sensori elettrici ovunque, controlli continui,
cosa vuoi di più? E se il tuo santone…»
«Non è un santone, è un uomo di Dio. Un prete.»
«Bene, un prete. Se questo prete la smettesse di aizzare contro di noi tutti i fanatici della città, non ci sarebbero problemi.»
«Lascia perdere padre Semion… Tu piuttosto. Hai avuto un figlio naturale, tu! Come puoi faticare dalla mattina alla sera in
quel postaccio?»
«Postaccio? Adesso sarebbe un “postaccio”? Quel postaccio, mamma, è un eccellente centro medico e per me e per il mio
lavoro rappresenta un bel passo avanti, non lo capisci? Credimi, la BioCompany è un’ottima clinica. La migliore.»
L’altra scuote la testa. «Figlia mia… Io le sento le chiacchiere dei nostri vicini! La tua clinica, per la gente comune, non è
quello che dici tu, non è una vera clinica.»
«E cosa sarebbe, allora?»
«Una fabbrica. La fabbrica della carne, ecco cosa.»
Kateryna raddrizza le spalle di scatto, ma serra le labbra e tace.
In fin dei conti, non è una fantasia di sua madre, le ha sentite anche lei quelle voci. E non soltanto per le scale del suo
palazzo. Le ha sentite per strada, nei negozi, e le sente ogni giorno sul marciapiede davanti alla clinica, dove c’è sempre
qualche esagitato che innalza cartelli di protesta: FERMATEVI! DIO NON VUOLE! LA VITA È SUA! E ieri non si limitavano a gridare…
Di colpo il bricco del tè è diventato pesante, le ingombra le mani. Adagio, con studiata lentezza, si avvicina al tavolo e lo
sistema sulla tovaglia. Mentre versa il liquido caldo nelle tazze, pensa alla nursery, ai lettini bianchi tutti uguali, ai neonati con
gli occhietti chiusi e a quelli che già li spalancano per scrutare il mondo. Quando è in mezzo a loro, non ha più paura:
l’infertilità lì non esiste. La malattia del vuoto non può attecchire. E, per come la vede lei, quei bambini sono una benedizione
del Signore al pari di suo figlio.
«Non angosciarti inutilmente, mamma» dice in tono sommesso, per spezzare il silenzio. Non sopporta la tensione che si è
creata fra di loro, così prova ad allentare il nodo di tristezza che le soffoca la voce e abbozza un sorriso conciliante. Avrebbe
una gran voglia di domandarle: ma perché le cure ti fanno più spavento della malattia? Se la natura ha smesso di regalarci i
figli, perché la scienza non dovrebbe cercare un rimedio? E perché non dovrebbe applicarlo, quando infine lo trova? È sua
madre, le piacerebbe ragionare con lei, controbattere, far valere i propri argomenti. Ma teme che sia uno sforzo inutile. Un po’
come chiedere a un uomo, uno che ha scelto di arruolarsi, a cosa servono le guerre, di questi tempi: non è sufficiente il vuoto
delle culle? Bisogna per forza aggiungervi un altro vuoto, quello prodotto dalle armi, patriottiche o scissioniste che siano?
Domande che non portano da nessuna parte. Perciò Kateryna non dice nulla. Si stringe una sciarpa attorno al collo ed esce
sul balcone, a sorbire il tè e guardare i tetti della città, la curva del fiume e le colline lontane che piegano verso il confine russo,
dove Andriy, il padre di suo figlio, era andato a morire da miliziano.

Che razza d’autunno! La temperatura oscilla, va su e torna giù di colpo, pur senza calare sotto lo zero. Piove, questo sì, ma
nemmeno la pioggia ce la fa a cadere normalmente. Ogni volta è un nubifragio, una bufera che si scatena a capriccio,
trasformando le strade in torrenti di montagna e il lago in una furia
d’acqua torbida. Lungo la riva, gli spruzzi di melma raggiungono le finestre delle case. «Tra poco avremo le carpe che nuotano
in cucina» si lamenta Hannah. È stufa di passare le giornate a limarsi le unghie nel negozio deserto, svuotato dal maltempo.
Kateryna ha riesumato un paio di vecchi stivali alti fino al ginocchio e con quelli va al lavoro. Quando arriva se li toglie, sfila
dalla borsa le scarpe di ricambio, le infila, ripone gli stivali dentro il suo armadietto e lo chiude a chiave. Non è un’operazione
complicata, ma lo può diventare se c’è un servizio da svolgere all’esterno, in uno degli alloggi che la BioCompany utilizza per i
clienti che vengono da fuori. In tal caso, l’interrogativo è sempre lo stesso: dove lasciare quei benedetti stivali sporchi di
fango? È un’infermiera e ci tiene a presentarsi in ordine e con le scarpe pulite. Lo considera un suo preciso dovere
professionale.
Per ovviare all’inconveniente, nei giorni scorsi si è sbizzarrita con borsoni, borselli e contenitori di plastica, ma da stamani il
tempo ha di nuovo cambiato umore e per fortuna gli stivali non sono necessari. Il cielo è terso, le strade si stanno asciugando
e Kateryna non ha difficoltà ad aggirare i rigagnoli che ancora serpeggiano lungo i bordi del marciapiede.
È sola, senza Julija. La coppia che l’aspetta nell’appartamento assegnato dalla BioCompany viene da una città vicina, parla
la sua stessa lingua e non ha bisogno d’interpreti.
Prima di uscire, ha letto le loro schede.
È un caso dei più comuni. Lei, la moglie, ha trentaquattro anni, scarsa riserva ovarica e ovociti di bassa qualità, non idonei
a iniziare o portare a termine una gravidanza. Dopo undici trattamenti falliti, ha deciso di ricorrere a un’ovodonazione: sarà una
madre gestante, non genetica. Lui di anni ne ha cinquantadue, ma sarà il padre genetico. Se tutto andrà bene e se
l’inseminazione avrà esito positivo, perché il successo non è garantito… Dipende. E non solo da fattori medici. La clinica offre
servizi differenziati: chi compra il
“pacchetto VIP” ha un numero illimitato di tentativi a sua disposizione, mentre il “pacchetto Standard” vale per due trattamenti e
chi ripiega sul “pacchetto Economy” può tentare la sorte una volta sola. Non hai soldi? Allora ti vendiamo una speranza, al
massimo due. Li hai? Buon per te, non ti lasceremo con le
braccia vuote. È triste, ma, gira e rigira, alla fine si casca sempre lì, nella solita, vecchia storia dei ricchi e dei poveri.
La coppia di oggi ha scelto il “pacchetto VIP”, perciò deve essere ricca. E lui probabilmente è un qualche notabile, perché
sulla scheda, al posto del nome, c’erano le iniziali. Inoltre Viktor, il caporeparto amministrativo, nell’assegnarle l’incarico si era
raccomandato: «Puntualità, eh! Sono clienti speciali». «Dimmi quand’è che non sono stata puntuale» lo aveva rimbeccato
Kateryna.
“Clienti speciali”! Un’espressione che ha un suono odioso alle sue orecchie: un’impresa commerciale, il negozio di Hannah
può avere “clienti”, ma una clinica per aspiranti genitori?
«Per te, dentro l’ambulatorio, sono “pazienti”» le aveva spiegato Viktor, al suo primo giorno di lavoro. «Ma quando entrano
nei nostri uffici… acquistano servizi legali, firmano un contratto: per noi, sono clienti.» La BioCompany è un’azienda, non
un’opera pia o filantropica, anche se negli opuscoli pubblicitari c’è scritto: “La nostra clinica è un Santuario” … Un Santuario
della Scienza, che chiede a ogni dipendente
“professionalità, rispetto e riservatezza”.
A mano a mano che si addentra nel cuore della città, i marciapiedi diventano più affollati, i negozi più invitanti. Qui le vetrine
sono ampie, luminose, espongono cappelli alla moda, giacche, perfino abiti da sera, ma Kateryna li sfiora con occhi distratti e
fila via. Si ferma solo quando arriva sulla piazza della cattedrale: la vista delle tredici cupole verdi con le guglie d’oro le dà
sempre un brivido di stupita ammirazione.
Le apre la porta una governante che non conosce (tutti gli alloggi della BioCompany sono gestiti da una governante).
Quella di prima era una ragazzetta che chiacchierava volentieri. Questa è di poche parole, ma, quando parla, ha una forte
cadenza russa.
La casa è arredata in maniera discutibile, a giudizio di Kateryna. Con un grande spreco di velluti, nappe e stucchi dorati che
tentano invano di rivaleggiare con le guglie della cattedrale. Un lusso pretenzioso. Ma ai clienti piace, a quanto pare.
Nell’ingresso, dove di norma non c’è nessuno, l’attende una sgradevole novità: tre uomini con la giacca sbottonata e la
pistola in cintura. Kateryna aggrotta la fronte. “Professionalità, rispetto e riservatezza”… Non immaginava che sarebbe stato un
impegno così difficile da mantenere, nel suo lavoro. Con brevi gesti misurati si toglie il soprabito, spiana un rigonfio sulle
maniche del vestito e passa oltre, simulando indifferenza.
La coppia “speciale” è nell’ultima stanza, in fondo al corridoio. Lei siede sul divano. Ha una carnagione perfetta, pallida,
quasi trasparente, illuminata dalle collane e dai numerosi anelli che le riempiono le dita. Ogni minimo movimento è una scintilla
e ogni scintilla grida che quella donna è la legittima consorte di un uomo ricco, che ama esibire la propria ricchezza.
Lui è alla finestra, di spalle. Dorso robusto. Gambe impazienti. Ma quando si volta, Kateryna scopre perché Viktor era tanto
preoccupato: dinanzi a lei c’è davvero un cliente d’eccezione. C’è l’uomo che vede ogni mattina sui cartelloni elettorali.
L’oligarca.
Dal vivo, il contrasto fra i lineamenti affilati e le grandi sopracciglia che scendono a velargli lo sguardo spicca in maniera
sorprendente.
«Ci vorrà molto?» le chiede subito, senza preamboli.
«Dieci minuti» risponde secca. Chissà perché gli uomini hanno sempre fretta, quando il loro tempo dipende dal lavoro di
una donna. È vero che qui si tratta di un caso fuori dell’ordinario e che ogni istante è prezioso per un uomo in campagna
elettorale, ma come gli è venuto in mente di sovrapporre le due cose? Se il protocollo della BioCompany era già avviato,
com’è probabile, avrebbe dovuto interromperlo o rinunciare a candidarsi. Ma tutt’e due le cose assieme! Deve credersi
onnipotente.
«Si accomodi e metta il braccio là sopra.» Gli indica una sedia con i braccioli, poi tira fuori il kit per il prelievo del sangue e
allinea sul tavolo le provette, il laccio emostatico, la garza, il cotone. Si disinfetta le mani con l’apposito gel e, mentre infila i
guanti sanitari, gli indirizza un’occhiata interrogativa: l’uomo non si è mosso. È ancora immobile accanto alla finestra e la
scruta con il suo sguardo velato. Non gli piace ricevere ordini, evidentemente. Di nessun tipo.
«La prego, si sieda. Mi sbrigo in un secondo.» “Rispetto, riservatezza, professionalità.” Essere professionali significa essere
gentili anche quando non ne hai voglia. «Purtroppo è indispensabile» cerca di spiegare, come se lui non lo sapesse. «Il
medico deve conoscere il gruppo sanguigno del padre genetico, prima di autorizzare la donazione.»
Lui si avvicina alla sedia, finalmente, ma la donna, la moglie, si riscuote di colpo con un guizzo nervoso. «Il gruppo
sanguigno! E ce lo dite ora? Noi l’abbiamo già scelta, la donatrice! Ci avevano garantito che nel pomeriggio avremmo potuto
incontrarla… Mio marito sta sacrificando il suo tempo, non può aspettare i vostri comodi.»
«La incontrerete. È tutto pronto» la rassicura, mentre con l’indice traccia la vena. «Ma il medico non può procedere se non
eseguo il prelievo.»
La donna annuisce, senza molta convinzione. Si trastulla un po’ con i suoi anelli girandoli attorno alle dita e infine mormora,
quasi parlando a se stessa: «Che almeno abbia i miei colori! Voglio vederla, prima di andare avanti. Nelle foto mi somiglia,
però non sempre le foto…».
La frase resta in sospeso, ma Kateryna ha capito ugualmente.
Allora è questo, pensa. L’ossessione della somiglianza. Non che sia una cosa insolita… L’aspetto, le caratteristiche fisiche
della donatrice o del donatore sono fonte d’infinite discussioni: “sì, no, quello somiglia a te, questa somiglia a me”, è un tiro
alla fune. Soprattutto quando nella coppia c’è un genitore biologico e l’altro, che non lo è, ritiene di essere in credito, perché
nessuno gli dirà mai: “questo bambino! è il tuo ritratto”. E così interviene la recita delle somiglianze… Può essere un gioco
consolante, ma può
anche annientare.
Il prelievo è finito. Kateryna ha già riposto gli strumenti e chiuso la borsa, quando la donna le chiede bruscamente: «Lei ha
figli?».
Una domanda aggressiva, che esclude la confidenza e copre a malapena una traccia di ostilità. «Ho un
bambino» risponde altrettanto bruscamente.
«E chi l’ha aiutata ad averlo, la sua azienda?»
«No, signora. Me lo sono fatto da sola.»
“Da sola” ripete dentro di sé in una sorta di crescente stupore: una vanteria così stupida, così grossolana! Non può credere
di essere stata proprio lei a farsi scappare di bocca una sciocchezza del genere.

I fantasmi preferiscono la notte, questo si sa.


Nel buio Andriy è coricato di nuovo al suo fianco, un gomito sul cuscino, e parlando la tiene sveglia, le impedisce di
dormire. Ma stanotte il suono della sua voce sfuma rapidamente e, nell’oscurità, appaiono due occhi che lampeggiano
attraverso la velatura delle sopracciglia.
Kateryna rabbrividisce sotto le coperte.
Quello sguardo… Autoritario. Imperscrutabile. Lo sguardo di un uomo ben più potente di un semplice patriota, ben più
ambizioso di Andriy. E tuttavia quell’uomo non aveva messo suo figlio al secondo posto nella scala delle priorità. Non si era
sottratto con la scusa dei supremi interessi nazionali e anzi, pur di diventare padre, si era sottoposto alle regole e aveva
obbedito ai medici e anche alle infermiere, come un paziente qualsiasi.
Avrebbe fatto lo stesso qualche anno fa, prima della grande paura? si chiede Kateryna voltandosi e rivoltandosi senza
pace. Siamo cambiati tutti, da quando la terra risputa dentro le nostre viscere il veleno che ha assorbito, ma gli uomini più
delle donne. Sarà la paura del vuoto, però un cambiamento c’è stato. E non da poco, se perfino un uomo arrogante e pieno di
sé ha scoperto che i figli sono preziosi, che hanno un valore. O perlomeno un costo, a differenza di prima.
Dal lettuccio più in là le arrivano a intervalli regolari i piccoli sbuffi che suo figlio emette nel sonno. Per ascoltarli, trattiene il
respiro. Cos’è questo, un lamento? Si alza e in punta di piedi va a controllare. Povero Petro. In effetti, lui a suo padre non era
costato niente.

Alla BioCompany hanno rafforzato la vigilanza. Da qualche giorno le guardie sono raddoppiate e i visitatori, così come gli
ospiti, entrano solo dopo aver ricevuto un apposito tesserino. Sia i clienti che il personale talvolta vengono fatti passare dal
retro, perché i discepoli di padre Semion e i guerrieri in cappa bianca di San Michele si danno il cambio e ostruiscono
l’ingresso con i loro cartelli: IL FRUTTO DEL GREMBO È DONO DEL SIGNORE. LA VITA È SCRITTA NEL LIBRO DI DIO . Nemmeno la polizia riesce a
disperderli.
«Non è un modo di lavorare» protesta Kateryna, mentre si abbottona il camice nello spogliatoio. Oggi è di turno in
ambulatorio. Julija invece si sta preparando per andare dai suoi assistiti, è allo specchio del lavabo e si lucida le labbra con un
rossetto d’importazione, omaggio di qualche raffinata e riconoscente straniera.
«Porta pazienza, dopo le elezioni si calmeranno» dice.
«A meno che non vincano loro.» Padre Semion ha promesso che, in caso di vittoria, chiuderà la BioCompany e metterà al
bando tutte le cliniche del settore.
«Sono soltanto un pugno di fanatici, come possono vincere? E poi s’illudono. Cosa credi, è facile gridare contro, ma anche i
loro seguaci, se vogliono un bambino, devono abbassare la voce e mettersi in fila qua davanti.»
Un ultimo ritocco, il lampo di un sorriso e Julija se ne va di corsa con il suo indomabile ottimismo. A sua volta, Kateryna si
guarda allo specchio: occhi inquieti, bocca contratta. La distanza fra lei e Julija non potrebbe essere più marcata. È logico che
sia così: Julija lavora con le parole, lei con i corpi. E il linguaggio del corpo è un ponte minato su cui si cammina alla cieca,
cercando di non saltare per aria. Finisce di allacciarsi il camice e si avvia verso il suo reparto.
Il lungo silenzio dei corridoi, l’odore leggero del disinfettante, l’illuminazione fredda, senza ombre, allontanano i rumori della
strada e hanno il potere di tranquillizzarla. Non per molto, però.

La cosa buona, nonostante la gravità dell’incidente, è che non ha bisogno di sforzare la memoria per ricostruire l’accaduto.
Ricorda tutto. O quasi.
Ricorda di essere uscita a sera inoltrata, quando i riflettori erano già accesi. Ricorda che l’ingresso principale era chiuso,
perciò si era fermata davanti alla guardiola assieme ad alcune colleghe. I fari gettavano fasci di luce dietro le recinzioni,
frugavano nel buio e, passando e ripassando sul marciapiede, svelavano un ondeggiare di mantelle bianche: i soldati di San
Michele erano ancora accampati di fronte all’entrata e non intendevano togliere l’assedio. «Cosa aspettano» aveva borbottato
una vecchia infermiera, «che la collera divina si abbatta su di noi?»
Ricorda che gli uomini della vigilanza le avevano indirizzate verso un cancello secondario e che sul viale aveva incontrato
Viktor. Anche lui stava rincasando. Avevano ragionato un po’ sulla situazione e su quanto fosse insopportabile lavorare in
quell’atmosfera carceraria, circondati dalle guardie. «Armate… guardie “armate”» aveva sottolineato Viktor. «Neanche fossimo
in guerra.»
Però, a pensarci bene, è proprio una guerra, si era corretto subito dopo. E di vecchia data. Quando mai i bambini sono nati
senza interferenze, così come viene? I governi, le chiese, c’è sempre qualcuno a dettare le regole… E l’aborto sì e l’aborto no,
e se fai figli, bravo! ti diamo lo sconto fiscale più la benedizione divina e poi no, contrordine! guai a te se li fai, legati le tube,
prendiprendij la pillola… Un giorno si combatte per svuotare i reparti di maternità, il giorno successivo per riempirli. E anche i
guerrieri di San Michele con le loro ridicole mantelle sono forse una moda degli ultimi tempi? No davvero! Mantella a parte, ci
sono sempre stati. Prima buttavano bombe ed esplosivi contro le cliniche dove le donne andavano ad abortire, ora si sono
aggiornati e se la prendono con la BioCompany e con chi i bambini li vuole, ma è il rovescio della stessa medaglia.
«Bah» aveva concluso. «Se questa non è guerra, che cos’è?» E si era passato una mano sulla faccia, lentamente.
Parlando, erano rimasti indietro. Da soli. Poi il lampo di un riflettore gli aveva messo a nudo il profilo asciutto, la gobba del
naso in risalto, e a Kateryna erano venute in mente le chiacchiere che si facevano su di lui, sul fatto che viveva da solo e che
in casa sua le donne non duravano più di un giorno o due. Chiacchiere da corridoio, che non si era curata di approfondire.
Non era nel suo carattere. Tuttavia ricorda di aver pensato: com’è che stasera si spreca tanto con le parole? Non era mai
stato così loquace con lei.
Ma forse non era Viktor a essere strano, erano le circostanze, perciò aveva continuato ad ascoltarlo mentre si sfogava.
«Ormai lo sappiamo» diceva, «tre coppie su cinque non sono fertili, ma in un modo o nell’altro possono avere un figlio, e
l’avranno. Non sarà certo la maledizione di quel prete, come si chiama, a fermarli! Eh no, non basteranno le sue prediche e
nemmeno le minacce dei soldati di San Michele… Anche se loro, disgraziatamente, un risultato l’hanno già ottenuto.» E infatti
alcune donne, per paura d’incontrarli davanti ai cancelli della BioCompany, avevano rinunciato al controllo medico. Una
donatrice di ovociti, tanto per dire, aveva preferito somministrarsi da sé i farmaci per la stimolazione ovarica. Avevano dovuto
ricoverarla d’urgenza a causa di un’infezione che stava virando in peritonite. «Se continua così, dovremo intensificare i
trattamenti a domicilio: un inutile costo in più… Che follia! E i danni alla salute, indovina a chi toccherà ripararli… A noi, per la
miseria! A chi lavora e si prende gli sputi.»
Parlava adagio, spezzando il discorso, ma nell’intervallo tra una frase e l’altra le sue labbra non smettevano di muoversi,
come se dovesse masticare la voce prima di riuscire a buttarla fuori. Arrivati al cancello, gli aveva teso la mano in segno di
congedo, ma lui evidentemente era in vena di lamentele, perché aveva ignorato il suo gesto, continuando a parlare. «È tardi»
gli aveva fatto notare Kateryna. Allora Viktor si era accostato, le aveva preso la mano e l’aveva tenuta fra le sue in un modo
che lei, lì per lì, non aveva saputo interpretare. Più che altro, goffo. Si era tirata indietro e in quell’istante preciso, mentre le sue
dita si liberavano dalla stretta, una sagoma bianca era apparsa in mezzo al varco. Ricorda l’eco di un boato, un’improvvisa
arsura in bocca e il corpo di Viktor che si piegava in avanti e crollava sul suo trascinandolo giù, verso il basso. Era caduta di
schianto, ma non aveva avvertito alcun dolore. Solo un tonfo dentro la testa, come di una saracinesca che si chiudeva
scagliandola nella più completa oscurità.
Quando si era svegliata, aveva visto le sue braccia incerottate, il risvolto di un lenzuolo, l’asta di una flebo. Una stanza
d’ospedale.
Piano piano, insieme all’odore familiare del disinfettante, era tornato a galla tutto quanto: l’assedio, l’uscita secondaria, la
sua mano fra le mani di Viktor. Però le immagini ancora andavano e venivano senza fermarsi, erano onde mosse da una
corrente sconosciuta. Il lenzuolo, la flebo, ogni cosa le appariva reale eppure sfocata, come se la vedesse attraverso la
lontananza di un sogno.
Aveva richiuso gli occhi. E mentre li teneva chiusi, aveva colto un ticchettio veloce di passi che si avvicinavano. La porta si
era aperta sbattendo contro la parete, Hannah era entrata alla svelta con i ricci scompigliati e la Terra, assestandosi, aveva
ripreso a girare attorno al suo asse.

Julija non abita in un normale appartamento ma in una palazzina singola, di proprietà del Partito nazionalista che l’affitta ai
suoi funzionari o ai loro amici. È una bella costruzione d’altri tempi, a un solo piano, schiacciata purtroppo dalla mole
sovrastante dei caseggiati popolari, sorti in epoche successive e disposti in fila lungo la strada che costeggia il lago. All’interno
è spaziosa, benché sia ripartita in più vani, come usava quando le famiglie traboccavano di bambini. Ha un’ampia stanza
matrimoniale, dove dorme Julija, altre due stanzette (vuote) e una di media grandezza, occupata in questo momento da
Kateryna.
È appena uscita dall’ospedale, dove l’hanno trattenuta più a lungo del previsto: un trauma cranico è una faccenda seria e il
suo ematoma si riassorbiva, è vero, ma con lentezza. Da principio soffriva di continui capogiri, cefalee, un persistente ronzio
alle orecchie, e proprio non capiva perché tutti si ostinassero a ripeterle quanto fosse fortunata. Alla fine avevano dovuto
dirglielo che il suo caporeparto, quel povero Viktor… E per di più erano stati costretti a seppellirlo in quattro e quattr’otto, alla
spiccia, per timore di scontri o di altri incidenti. Insomma era morto, mentre lei era viva, anche se attaccata a una flebo.
Adesso però sta meglio, i medici l’hanno dimessa e il suo più grande desiderio sarebbe di tornarsene da suo figlio e da sua
madre. Invece non può, gliel’hanno proibito, e questa è una privazione a cui non sa rassegnarsi.
«Bontà divina! Ora devo chiedere il permesso anche per stare con mio figlio? Perché mi impedite di vederlo?» aveva chiesto
all’ufficiale di polizia che seguiva il suo caso e l’aveva interrogata a varie riprese. Era un pezzo d’uomo grande e grosso. Un
patriota, con la spilla del Partito nazionalista appuntata sulla giacca dell’uniforme e l’immancabile enfasi dei patrioti. Scandiva
le parole usando lo stesso tono vibrante
di Andriy ma, come lui, non era tipo da perdersi in sentimentalismi. «Suo figlio? Lo vedrà più avanti, per ora ci vuole
prudenza» le aveva risposto. «Gli animi sono eccitati.» E il rischio era che si eccitassero ancora di più. La comunità di San
Michele e il partito degli Uomini Giusti, infatti, si dichiaravano estranei all’attentato e anzi lo consideravano una provocazione
dei loro avversari, un complotto in vista delle elezioni. I fabbricanti di bambini, secondo loro, avevano trasformato una banale
vendetta privata in un assassinio politico, pagando Kateryna (“l’infermiera delle menzogne”) perché li infamasse con una falsa
testimonianza. E poiché avevano diffuso online la sua foto, corredandola con nome, cognome e indirizzo, non era da
escludere che a qualcuno potesse venire l’estro di mettersi a cercarla per completare l’opera. «Perciò stia alla larga da casa
sua.»
A questo consiglio si era poi aggiunto quello del direttore della BioCompany, che le aveva telefonato di persona per
suggerirle e infine ordinarle esplicitamente: «Si prenda tutto il riposo necessario, le diremo noi quando rientrare in servizio.
Nessuno vuole un’altra tragedia». Non aveva nominato Viktor ma era come se l’avesse fatto, e Kateryna si era sentita cadere
di nuovo… cadeva, spinta da quel corpo che pesava addosso al suo…
E così, dopo l’ospedale, aveva accettato l’ospitalità di Julija. Per pochi giorni, si era ripromessa. Lo stretto indispensabile, il
tempo di recuperare le forze.
Ma ormai non è più in convalescenza e benché la casa sia comoda, accogliente, e Julija un’amica generosa, a Kateryna
manca l’aria e ogni tanto smania: non è giusto che sia lei, la vittima, a doversi nascondere. Una cosa assurda, intollerabile. Un
sopruso.
«Non ne posso più» si lamenta con Hannah, che le ha portato la biancheria di ricambio e la sta aiutando a sistemarla. «Mi
sembra di essere agli arresti domiciliari!»
«Non cominciare con queste storie» la rimbrotta l’altra. «Credi di potertene andare in giro come niente fosse? C’è il caos, là
fuori.»
«Non per colpa mia.»
«La colpa è sempre di chi ci capita in mezzo.»
«E brava» fa Kateryna. «La voce del buon senso.» Ripiega calze e mutande e, mentre le infila in una cassettiera, ripensa
alle ultime parole di Viktor: a chi tocca riparare i danni? a chi lavora e si prende gli sputi.
«Non c’è rispetto» mormora.

Succede più tardi, quando Hannah se ne va e la lascia sola.


Kateryna è un’infermiera, riconosce subito i sintomi, ma riconoscerli non significa contenerli: a un attacco di panico non si
comanda. È in cucina, ha acceso il bollitore per prepararsi un tè ed ecco, la tazza le sfugge di mano, cade a terra, e lei trema,
suda, si piega in due come se le avessero sferrato un calcio all’addome.
È paura, lo sa. Ma è una paura nuova: guarda i cocci sparpagliati sul pavimento e per la prima volta ha la percezione netta
di vivere in un mondo fuori controllo. Un mondo di culle vuote, capace di riprodurre soltanto la violenza.
È una visione lucida, che tuttavia sale dalle viscere. Immagini di distruzione e abbandono si affollano, incalzano e la
invadono assieme ai timori più inconsulti. Teme di non riavere indietro il suo lavoro. O addirittura di perdere suo figlio, di non
vederlo più. La pancia le duole come se glielo avessero strappato via di lì, tutt’intero, con le scarpe ai piedi e lo zainetto della
scuola appeso alle spalle. Ah no, dice a se stessa. Questo no, questo non avverrà né ora né mai.
Spegne il bollitore, raccoglie i cocci, li butta nell’immondizia. Quando ha finito di pulire, va alla finestra e incrocia le braccia
sul davanzale, flettendo il dorso.
La casa è silenziosa, grande, buia, immersa nell’ombra soffocante di quei palazzoni che incombono dall’alto. Ma la finestra
della cucina dà sul lungolago, una strada che le ricorda i giorni di festa, perché era qui che veniva ad amoreggiare con Andriy.
Ancora non era una strada, ma un sentiero che fiancheggiava la riva e, al termine del sentiero, c’era un canneto che
accoglieva le comitive dei cacciatori. Mangiavano, bevevano e aspettavano gli uccelli di passo. Poi un bel giorno si era
scoperto che gli stormi arrivavano da un’area contaminata, l’area degli esperimenti nucleari, e il sindaco, senza pensarci due
volte, aveva steso sul canneto una coperta di cemento. Era convinto, così facendo, di ridurre i rischi da contaminazione, e
Andriy si era arrabbiato moltissimo. «Stupido incompetente, crede di salvarci con una ruspa e una betoniera!» Ma che altro
poteva inventarsi quel poveretto se ci volevano migliaia di anni per smaltire gli effetti delle radiazioni? Almeno ventiquattromila,
prestando fede ai calcoli dei siti web e dei telegiornali.
Kateryna non riusciva proprio a raffigurarseli, ventiquattromila anni, mentre le risultava di gran lunga più comprensibile la
mossa del sindaco: era l’istinto di rammendare, di ricucire gli strappi. Quel medesimo istinto che le aveva fatto scegliere il
corso d’infermieristica.
Comunque adesso è l’ora del tramonto, gli stormi e i cacciatori non sono che un ricordo e i moscerini trionfano. Sono loro i
padroni del lago. Salgono dalla melma a spirali, in vortici che appaiono e scompaiono all’orizzonte come tornado in miniatura.
Uno spettacolo conturbante. Kateryna fissa lo sguardo e non lo stacca fin quando la voce di Julija non risuona da qualche
parte nella stanza.
«Kateryna… Dio benedetto! Ma che ci fai, al buio.»
Una lampada si accende, la cucina s’illumina e lei si volta, togliendo le braccia dal davanzale. Dopo una giornata di lavoro,
l’aspetto di Julija è ancora un miracolo di compostezza: i capelli raccolti in un nodo intatto, la gonna ben tesa sui fianchi e la
lunga collana di ambra gialla che dondola tra i risvolti
della giacca. Però il trucco è un po’ sbavato. E dal fondo delle sue pupille trapelano bagliori inquieti, come gocce di ansia.
Sarà colpa mia? si chiede Kateryna. Forse è rimasta in quella casa troppo a lungo, dimenticando di essere un’ospite
ingombrante. Pericolosa. Dovrebbe andarsene, e non abusare della generosità di un’amica.
«Che cosa faccio… Guardo! Quei moscerini sono impressionanti. Non avevano promesso di bonificare la zona?»
«Le promesse, come no» risponde Julija in tono critico. Ma poi, con qualche sforzo, cerca di ripescare il suo ardore
patriottico: «Per pulire la città dobbiamo innanzi tutto ripulire la politica, non sei d’accordo?». Kateryna non si pronuncia. Dice
soltanto: «Peccato. Prima che il lago morisse, doveva esserci un bel panorama, da qui».
L’altra emette un borbottio indistinto attraverso il naso. «Il panorama, ma certo». Sembra stanca. Ha depositato sul tavolo la
borsa della spesa da cui sta estraendo con mano fiacca, sacchetto dopo sacchetto, cartone dopo cartone, la cena già pronta:
pesce affumicato, patate in salsa acida, due porzioni di torta con glassa all’arancio. Più una bottiglia di vodka speziata. Un
bendidio, per i tempi che corrono. Ma Julija ha i suoi fornitori, i suoi canali segreti e un buon numero di amici influenti. Hannah
ha ragione, pensa Kateryna. La carestia? la penuria di cibo? Vista da lì, pare quasi un espediente per stuzzicare l’appetito. Un
pensiero non proprio benevolo, che si affretta a rimuovere dalla coscienza. Julija però ha captato il suo turbamento e lo
fraintende. «Sapessi quanto ero stufa di vivere come vivevo!» si giustifica tutt’a un tratto. «Il panorama… Sì, il degrado non è
piacevole, ma credimi, un monolocale con il bagno dentro la cucina può essere davvero deprimente.»
Lo sfogo ha l’effetto di restituirla a se stessa. In due secondi finisce di svuotare la borsa, con tocchi rapidi sistema il cibo in
bell’ordine, al centro del tavolo, e altrettanto rapidamente stappa la bottiglia. Quindi afferra due bicchieri e ne porge uno a
Kateryna: «Tieni, dobbiamo brindare!». Mentre versa la vodka, la sua collana tintinna contro il bottone della giacca. «Domani ti
chiameranno dai nostri uffici, la tua reclusione è finita.»

Essere nuovamente a casa sua, con suo figlio e con sua madre, non le regala il sollievo che aveva immaginato.
Non c’è conforto nella luce che entra dal balcone o nel tè che beve dalla sua tazza, osservando il profilo delle colline.
È un momento di pace, non c’è dubbio. Però si tratta di una pace transitoria, e perfino gli oggetti familiari che la circondano
non sono più tanto familiari, dato che fra non molto dovrà abbandonarli. Perché è questa la soluzione che le ha proposto la
BioCompany: il trasferimento in una struttura associata. Lontana, molto lontana, in un’isola all’altro capo del continente. Per
toglierla (e per togliersi) dai guai non
hanno trovato di meglio, e con l’incertezza che una simile prospettiva si porta dietro, è difficile coltivare la fiducia nelle proprie
forze. O nella propria capacità di giudizio.
Ha fatto bene o ha fatto male ad accettare? Ma per quanto se lo chieda, la risposta non cambia: quell’offerta rappresenta
per lei una resurrezione, la via d’uscita da una trappola che le stava confiscando l’esistenza. Ed è questo che conta, per ciò
che la riguarda. D’altronde, per compensare il disagio, nella nuova struttura l’attende un posto più importante di quello che ha
occupato finora, un posto da caporeparto. «L’azienda ti offre un’opportunità» aveva detto Julija. E Kateryna aveva annuito:
messa in quel modo…
Eppure adesso, nella cucina minuscola ma luminosa, davanti a sua madre che passa e ripassa il ferro da stiro sui panni
lavati di fresco, la sua determinazione vacilla.
Ascolta il suono asciutto delle mani che graffiano la tela, mentre stirano, e pensa: è troppo vecchia, troppo debole per
lasciarla sola. Più che dimagrita, dà l’impressione di essersi ristretta… Ma quando è accaduto? Da quando sua madre è
diventata così fragile, ossuta, senza polpa? È sempre stata così evanescente?
No, non sempre.
Conficcata nella mente di Kateryna c’è un’immagine diversa, tanto nitida che potrebbe dipingerla. L’immagine di una
giovane donna, i capelli biondi arricciati attorno a un ovale pieno, che le sorrideva dietro il vetro di un pullman. Lei stava fuori,
sotto la pensilina (quanti anni avrà avuto? cinque? sei?), ed era incerta se fare ciao con la mano o mettersi a piangere.
Era partita così: giovane, bionda e sorridente. Ed era tornata con le rughe attorno alla bocca. «Com’era laggiù, cosa facevi»
le aveva chiesto mille volte, divorata dalla voglia di sapere. E ogni volta sua madre rispondeva, stringendosi nelle spalle: «La
signora era gentile». Cos’altro c’era da sapere? Se n’era andata per lavorare, lei, mica per divertirsi! Il paese oltretutto era
piccolo e non offriva distrazioni. A parte la messa della domenica, a cui partecipava con il cappello in testa e la borsetta al
braccio per non sfigurare davanti a nessuno. Dopo la chiesa, faceva il giro del paese (mezz’ora, più o meno) e, quand’era
arrivata all’ultima casa, si voltava, rifaceva la strada all’inverso e se ne tornava nella sua stanza a contemplare il soffitto. Era
una donna sola, laggiù.
E fra poco anche qui, a casa sua, sarà una donna sola, pensa Kateryna.
Non è un bel pensiero.
«Lascia stare» le dice, girando attorno all’asse da stiro per andarle vicino. «Riposati, finisco io.» «Perché? Ci sono
abituata. Avrò tutto il tempo di riposare quando non ci sarete.» Petro fa capolino da sotto il tavolo, dove si è nascosto per
giocare con certi suoi compagni immaginari. Le guarda brevemente con un visetto ostile, aggrondato, quindi torna nel suo
rifugio.
«Farò di tutto per procurarti un visto, mamma. Non preoccuparti, aggiusteremo ogni cosa.» «Eh, figlia mia… I vecchi non li
vuole nessuno, i visti sono per i giovani che hanno braccia e cervello! Ma se è questa la volontà del Signore, così sia, non è
per me che sono preoccupata. È per te. Ora scappi, e poi? Ci sarà sempre qualcuno che ti darà il tormento, se continui a fare
quello che fai… un lavoro che offende il Signore…»
«Magari è proprio questo che Dio vuole da noi, che salviamo la sua creazione! Ci hai mai pensato?» mormora piano
Kateryna. Ma sua madre sbuffa dilatando le narici: «Non bestemmiare». Appoggia il ferro da stiro sulla griglia di zinco e si
ferma a riflettere. Con le spalle curve, come se faticasse a reggere perfino il peso del grembiule. Dopo un po’ si rianima,
estrae dal mucchio dei panni il lenzuolo di Petro, un lenzuolino celeste con una fila di orsetti stampati sul bordo, e lo spiana
sull’asse. «È la terza volta che lo lavo, in una settimana. Mentre eri via, ha ripreso a bagnare il letto.» Alza il ferro, lo abbassa
e in quell’istante il bambino sbuca come una furia da sotto il tavolo. «No!» grida, voltandosi ora verso l’una ora verso l’altra.
«No, non è vero! È una bugia, non sono stato io.»
«Chi è stato, allora?»
«Ma tu, nonna.» E corre a nascondere la faccia contro il suo grembiule.

Non è più sotto il tavolo. Quando va a cercarlo, lo trova steso sul suo lettino, intento a leggere un libro. Il suo primo e unico
libro di carta, una fiaba illustrata, con tanti personaggi e figure colorate. Kateryna lo aveva scovato, per caso, mentre rovistava
tra le cianfrusaglie di una bancarella e gliel’aveva comprato senza neanche contrattare: fra tanti aggeggi elettronici, almeno un
libro di carta ci voleva! Petro si era messo a sfogliarlo immediatamente, ma, abituato al digitale, con il pollice e l’indice faceva il
gesto di allargare le immagini. «Non puoi» gli aveva spiegato. «I disegni sulla carta non si possono ingrandire.» «Oh, restano
sempre uguali?» La sua aria sbigottita l’aveva fatta ridere, ma lui aveva alzato il faccino guardandola severamente, quasi con
sdegno: pretendeva una risposta seria. I bambini sono implacabili nella loro ansia di capire.
Ora è lì che volta le pagine, andando un po’ avanti e un po’ indietro. «L’hai letto tutto?» s’informa Kateryna, spostando la
coperta per sedersi accanto a lui.
«Tutto.» Con impazienza spinge di lato i capelli che gli cadono sulla fronte sudata. Poi chiede, esitando: «È vero quello che
dice la nonna?».
«E cosa dice?»
«Che dove lavori tu i bambini non hanno l’ombelico.»
«Petro, la nonna scherza!» E non dovrebbe, geme fra sé e sé.
Lui fa un piccolo sorriso, manda indietro un’ultima ciocca e chiede di nuovo, con una vocina via via più spaurita: «Mamma,
se dobbiamo partire, a me sta bene, però mi prometti che non andiamo nel bosco?». «Nel bosco?» trasecola Kateryna.
«Nel bosco di Pollicino.» Le indica il libro aperto sul guanciale e Kateryna finalmente capisce: mamma e papà che
abbandonano i figli nella foresta, tra gli alberi neri, nel cuore della notte, i fratellini smarriti… e l’orco…
«Dio mio, Petro, no! Non andremo nel bosco, ma in un bel posto, dove potrai frequentare la scuola e giocare con i
bambini.»
«Ci saranno i bambini?»
«Sì» mente Kateryna, e lui, in un attimo, sguscia fuori dalle coperte e balza in piedi sul letto. Le molle cigolano sotto il peso
di suo figlio che salta e urla, pazzo di felicità: «Bambini, bambini! Andiamo dai bambini!». Ma d’un tratto le ricade accanto e fa,
in tono dubitativo: «Bambini con l’ombelico, vero?».
3
Livia

Petro una volta mi ha chiesto: «Cos’è che ti manca di più?». La domanda era un po’ vaga ma a suo modo pertinente, perché
mio cugino dà per scontato che a tutti manchi sempre qualcosa, o qualcuno. A lui la nonna, per esempio. Ancora ha nostalgia
di quando era piccolo e si addormentava sulle sue ginocchia. «E a te cosa manca?»
Ci ho pensato su e ho detto: «La voce di Livia».
Non quella ufficiale, che conosco bene. L’ho sentita e risentita nei video e nei filmati delle conferenze che teneva ovunque,
con notevole successo. Era una studiosa del mondo antico e recitava a memoria poemi scritti in lingue morte e sepolte, che
raccontano drammi interminabili: “catena di colpe e vendette, ecco la vita”…
Ogni parola, ogni oggetto che sapesse di antico l’attirava irresistibilmente. D’altronde era nata in una città millenaria, al
centro di quella penisola cosparsa di ruderi che dall’arco delle Alpi va a sfrangiarsi nel Mediterraneo. Da lì studiava il passato.
Poi lo proponeva al suo uditorio con una bella voce sonora, evocativa. Ogni tanto inforcava un paio di occhiali tondi con la
montatura in titanio, di un sofisticato colore avana. Quando li toglieva, il suo viso appariva spoglio. Senza difese.
So tutto del suo modo di mettersi e togliersi gli occhiali.
Quello che non so è come diceva buongiorno, buonanotte e passami il sale. O come pronunciasse il mio nome: Nina.
Eppure è stata lei a sceglierlo per me e a offrirmi, insieme al nome, un posto nel tempo e nello spazio. Una radice.
Se non lo avesse fatto, questa storia non sarebbe mai cominciata e io non sarei qui.

Dunque, Livia.
A trentanove anni è magra e svelta come un’adolescente, con riserve di energia altrettanto inesauribili: la fatica per lei è
un’astrazione. Ha già pubblicato due tomi grossi così (ma in digitale fanno meno effetto) sulle religioni arcaiche del
Mediterraneo, con diffusi ragguagli sulle divinità femminili e le Grandi Madri primordiali. È molto apprezzata in ambito
accademico, all’università tuttavia insegna con un contratto triennale, rinnovabile. Ha un marito avvocato, Giacomo, e un cane
pastore, Febo.
Agli studenti piacciono le sue lezioni e le seguono volentieri, ma per la laurea si rivolgono altrove, perché è chiaro che con
l’archeologia e la storia antica si mangia poco e male. Livia capisce le loro ragioni e non se ne duole troppo. Ciò che la
sorprende, semmai, è l’assidua presenza in aula di un attivista come Giko, un allievo fuori corso che dirige il giornale online di
un’associazione studentesca e, invece di pensare alla tesi, si dedica anima e corpo alla causa dell’ambiente. Non sono molti
gli attivisti che si appassionano alle sue materie, alquanto futili secondo i più. Ma Giko (nome d’arte, per così dire) almeno
all’apparenza non è di questo avviso e, quando è l’ora, arriva con la sua piccola corte di sostenitori, si siede e ascolta.
Anche oggi è in prima fila.
Dietro di lui, qualche faccia nuova e un continuo agitarsi di magliette colorate, spalline sottili, braccia nude e pantaloni
larghi, in tessuto termico. L’aria condizionata non funziona o forse è spenta per risparmiare, i ragazzi hanno aperto le finestre
e ogni soffio caldo che entra da fuori porta con sé una polvere granulosa che irrita la pelle. Quando sosta il vento, si addensa
un odore di corpi giovani e sudati.
Nell’aula si è formata una bolla di calura e Livia, perfino lei, puntella il gomito sul ripiano della cattedra, colta da un leggero
senso di spossatezza. Più che giustificato, per la verità, considerando che è appena tornata da un viaggio di lavoro
abbastanza snervante. Tanto per cominciare, ci ha messo sei o sette mesi a organizzarlo, perché spostarsi non è semplice da
quando si sono moltiplicate le frontiere interne e i controlli sono diventati uno strazio quotidiano. Per via della sicurezza,
naturalmente. Ma tra permessi di soggiorno, accrediti, tessere elettroniche e visti che cambiano da una regione all’altra,
addirittura da una città all’altra, è il trionfo della burocrazia.
La sicurezza! sbuffa Livia, tirando giù il gomito. Non si parla d’altro, è l’ossessione nazionale. Quando aveva l’età dei suoi
studenti, era facile prendere un treno, un traghetto o una macchina e attraversare il Paese in lungo e in largo con la sola carta
d’identità o la patente di guida. Ora non è più possibile. Nel giro di pochi anni, il Paese si è frantumato in mille centri di potere
che controllano chi va, chi viene, chi ha diritto di transito e chi di residenza e, di controllo in controllo, l’orizzonte si è ristretto
trasformandosi in una barriera invalicabile. Ma i cittadini sono contenti perché l’ordine è garantito e, con l’ordine, la sicurezza,
anche se le piogge acide continuano a cadere e a infettare il suolo, il cibo, i polmoni e lo stomaco della gente. Le piogge,
ahimè, non si possono recintare.
Comunque lei, al momento, è soddisfatta dell’esito della sua missione, e pazienza se ha dovuto faticare per raggiungere il
cantiere di scavo sulla costa meridionale, nell’estremo Sud: ne è valsa la pena. È un cantiere importante, uno dei pochi
superstiti nell’area del Mediterraneo. Sia in terraferma che sulle isole li hanno chiusi a decine, uno dopo l’altro, perché tenerli
in piedi costa e nessuno ci vuole rimettere: ricomporre il passato, riattaccare i cocci del tempo che fu, non è un’attività
redditizia, i soldi seguono
percorsi meno accidentati.
Neppure l’università è generosa in questo campo, ma se non altro le consente di lavorare nel settore di sua competenza e
di fare ricerca, di quando in quando.
Il suo corso quest’anno prevede lo studio degli scrittori e dei poeti greci del quinto secolo avanti Cristo e, dato che nel tempo
si può viaggiare liberamente e con chi ci pare, la sua guida sarà Eschilo. I ragazzi non si annoieranno, di questo è più che
certa. Non è possibile annoiarsi leggendo la trilogia di Oreste, il matricida. Un racconto di vendette incrociate, con un padre che
uccide la figlia per ingraziarsi gli dèi, una madre che per vendicare la figlia uccide il marito e l’altro figlio, Oreste, che a sua
volta uccide la madre per ritorsione. Ma solo Oreste avrà un processo, con tanto di accusa, difesa e giuria. E l’accusa
naturalmente sarà rappresentata dalle vecchie dee, “senno dei secoli”. La difesa invece da Atena, dea dei tempi nuovi, che
afferma con orgoglio riferendosi a se stessa: “Non c’è madre che m’abbia dato la vita… io sono figlia soltanto del padre, il mio
favore va sempre alla parte maschile…”. Chi meglio di lei potrebbe difendere un uomo che ha ucciso la madre per vendicare il
padre?
Insomma, un testo con tutti gli ingredienti che servono, da Eschilo in poi, per conquistare il pubblico. Livia si alza, accende
un dispositivo portatile e inizia a leggere staccando le parole, con pause a effetto, ben dosate.
“Rivolo di sangue materno non si recupera! ahi! troppo è il dolore… come alleviare l’angoscia? come avere la pace?… una
fame implacabile… gli uomini hanno nel sangue una fame implacabile di felicità…” La stessa fame che le sembra di scorgere
nello sguardo dei ragazzi, concentrato su di lei. Brilla di passione, quello sguardo, di un interesse che oscilla tra un fervore
impavido e una cauta voglia di conoscenza. Be’, pensa, ci voleva un poeta nato tremila anni fa per farli sentire vivi e
commossi, finalmente. Livia avverte l’intensità della loro emozione e prova un assurdo moto d’invidia per quell’uomo che ha
saputo raggiungerli attraverso i millenni. Un’impresa che non potrà essere mai più uguagliata, se è vero che si è ristretto
anche il futuro, oltre a tutto il resto, e che nemmeno i poeti potranno contare sui “posteri”.
Per un attimo la sua voce si spegne. Il suo sguardo passa in rassegna l’aula, si trattiene sul cranio rasato di Giko (moda?
segno di appartenenza a una comunità? tentativo di mascherare una calvizie precoce?), dopodiché torna a posarsi sullo
schermo.
“Basta con questo groppo di lacrime… Oreste non sconterà la pena del suo agire”, promette Atena, la nuova dea, colei che
è “nata di solo padre”…
Eccolo. Ecco il filo che corre nel dramma di Oreste e lo connette al presente. È per questa connessione che Livia l’ha
scelto, perché i ragazzi capiscano che il mito è come una lava che ribolle sotto la crosta: se la crosta si rompe, il mito invade la
realtà, brucia la vita quotidiana e la capovolge.
“Padre senza madre è possibile” conferma allora il Coro. “Atena, la figlia di Zeus, non crebbe nel cavo ombroso di un
seno… nessuna madre, nessuna donna fece fiorire il suo germoglio”… Il vento è fermo, l’afa ristagna tra i banchi, preme sulle
palpebre e corrode il respiro. Livia ha la gola secca e le guance sudate. Finisce la strofa, poi si asciuga con il dorso della
mano e chiude il lettore elettronico.
«Ora tocca a voi, sentiamo cosa avete da dire.»
Ma ricordatevi, aggiunge, che a dispetto di Eschilo, di Atena e perfino delle nostre mirabolanti tecnologie, ci vuole ancora
una donna, il “cavo ombroso di un seno”, per partorire un figlio.

Come d’abitudine, Febo la attende dietro la porta. Appena la vede si dimentica di non essere più un giovanotto e piglia lo
slancio, cercando di saltarle addosso. Balza su a orecchie tese, ma ricade subito sullo zerbino e da lì uggiola in maniera
patetica e la rimprovera e protesta perché ha fatto tardi.
«Solo con me te la prendi?» fa lei chinandosi per grattargli la pancia. «E Giacomo, eh? Con lui non ti lamenti.»
Quell’accoglienza amorosa tuttavia la lusinga, perché in effetti Febo è il “suo” cane. Gliel’aveva regalato Francesca in un
periodo molto triste della sua vita. Senza chiedere il suo parere, è ovvio, perché Francesca, pur essendo più piccola di lei, è
per vocazione una sorella maggiore: protettiva, premurosa, in famiglia si prende cura di tutti. Però a modo suo. Come aveva
ampiamente dimostrato il giorno in cui Livia era uscita dalla clinica – quattro anni fa, all’incirca – e, per distrarla, Francesca
aveva pensato bene di offrirle un cane. Un dono ingombrante. Francesca aveva spesso idee di questo genere, ma stavolta
Livia si
era ribellata, opponendo la più animosa delle resistenze: «No e poi no. Non posso badare a lui». Era già fin troppo impegnata
con se stessa e non voleva e non poteva occuparsi d’altro. Tanto meno di un cane. Però quel cane, nello specifico, possedeva
un pelo luminoso e dorato come il carro del sole in un poema greco, come la tunica di Febo, lo splendente: Francesca era sua
sorella, li conosceva da sempre i suoi punti deboli.
Per farla breve, il cane era rimasto. E quando Livia si metteva in poltrona a piangere per tutto quello aveva perso, l’utero, le
ovaie e il bambino dei sogni, lui arrivava zitto zitto e le poggiava una zampa sulle ginocchia.
Adesso Livia non piange più ma, in compenso, ha ripreso a fumare. Di nascosto, per evitare discussioni. Febo nel
frattempo è diventato vecchio, il suo bel mantello biondo si è scolorito e per strada, invece di strapparle di mano il guinzaglio,
arranca lentamente, brontolando.
«Vieni, è l’ora della passeggiata» lo blandisce. «Arriviamo fino all’angolo, ti va?» Quando escono, il sole è al tramonto. La
luce si restringe fra i grandi pini mediterranei, attraversa gli archi di marmo e disegna semi di fuoco sul marciapiede.
Costeggiano il parco archeologico che termina accanto alla fermata della metropolitana, oltrepassano i resti di un anfiteatro
che svolge la funzione di spartitraffico e continuano così, camminando fra il nuovo e l’antico. Questa è la sua città: un luogo
dove i secoli convergono.
Se fossi nata altrove, si chiede Livia, avrei fatto il lavoro che faccio?
È ineluttabile, quasi fisiologico, innamorarsi della storia se la vedi ovunque, se ne scorgi i segni sulla facciata della tua
stessa casa o sulle pietre che calpesti ogni giorno, se la ritrovi nel sovrapporsi delle costruzioni, stile su stile. O negli edifici
moderni che si appoggiano alle colonne di una lontana epoca imperiale: frammenti del passato che sostengono il presente.
Le piace la sua città, anche se ormai va in malora.
In aggiunta alla solita sfilza di problemi, da qualche settimana c’è pure da combattere con il razionamento dell’acqua. I
rubinetti restano vuoti per gran parte della giornata, e se per sbaglio li lasci aperti emettono sibili inquietanti, finché l’acqua non
irrompe gorgogliando dentro i tubi. Arriva a orari fissi, ma né lei né Giacomo se ne rammentano e spesso e volentieri si
ritrovano a secco. Ogni volta Livia si ripromette d’incollare un promemoria sul frigorifero o sullo specchio del bagno, mentre
Giacomo, puntualmente, s’indigna: «E questa sarebbe la capitale di un Paese ricco e civile? Fra poco puzzeremo peggio di
una baraccopoli».
Ma Livia lo ha già nelle narici, quell’odore. Quando è fuori con Febo, lo fiuta, proprio come fa lui. Stasera lo sente
all’imbocco di ogni vicolo, lo annusa nell’aria, nell’ombra che è scesa, densa e umida, e non attenua la calura.
Il traffico si è calmato e le strade sono vuote, a parte le camionette militari a presidio delle piazze. A quest’ora e in questa
zona, la città dalle mille cupole cambia faccia e popolazione. Sul sagrato della Basilica Maggiore sono spuntati come per
miracolo i giacigli notturni dei senzatetto, disposti con metodo, in formazione da caserma, un paravento di cartone dietro l’altro.
Medioevo, pensa Livia. Siamo tornati a quei tempi, ai bisognosi che si raggruppano attorno alle chiese – attorno, non
dentro – per trovare riparo e soccorso.
Ma il sagrato oggi non basta a contenerli. Livia deve camminare in mezzo alla strada, perché l’intero marciapiede si è
trasformato in un dormitorio a cielo aperto. Ognuno ha la sua cuccia, contrassegnata da qualche oggetto personale: un
fornelletto, una pentola. Più una stravagante accozzaglia di reperti inutili messi in mostra, si direbbe, a scopo decorativo. La
voglia di esercitare la fantasia non muore mai,
evidentemente, e per sopravvivere si attacca agli oggetti più strani. Un cestino rosa da picnic. Un telefono a disco, una vera e
propria rarità, con un avanzo di filo nero che si arriccia sul mattonato. Febo sta seguendo certe sue tracce promettenti e Livia
allenta il guinzaglio e lo lascia fare, finché non si accorge dove sta puntando. Allora stringe la presa. «Non ti azzardare!» Lui
abbassa le orecchie, ma non la zampa: è troppo tardi per impedire il disastro. Lo schizzo di urina va a segno. Un uomo
impreca ed emerge di scatto da un guscio di cenci che gli frana attorno, rivelando una canottiera e una spalla tatuata. Livia
avvampa dalla testa ai piedi. «Mi dispiace» balbetta. «Mi dispiace.» Si vergogna per non aver saputo controllare il cane, ma
soprattutto per essere entrata con lo sguardo sotto quelle coperte, dentro un’intimità che non le appartiene, benché sia
esposta in mezzo a un marciapiede. «Domani cambiamo percorso» annuncia a Febo, mentre riprendono la via di casa. È
calato il buio. Il cane le va appresso zoppicando, ansima a fauci spalancate e il suo ansito produce nei vicoli un suono lungo,
raschiante. Sembra che, per castigo, debba trascinarsi dietro tutto il peso dell’oscurità.

«Hai un allievo che si fa chiamare Giko?»


«Sì, perché? Che ha combinato?»
Giacomo ride: «Bella fiducia… Non ha combinato niente, si è solo presentato al mio studio dicendo di essere un tuo allievo.
Voleva che lo ricevessi personalmente, l’ha detto per questo, immagino». Sul tavolo ci sono ancora gli avanzi della cena, ma
né lei né Giacomo hanno fretta di sparecchiare: è il loro momento, l’oasi che si ritagliano a fine giornata.
Non è sempre stato così.
All’inizio del loro matrimonio, lo spazio delle confidenze non era la cucina, bensì il letto. Erano molto giovani, due cuccioli
che si ritrovavano e si riconoscevano giocando sotto le lenzuola. Era quello il loro territorio. Se non che, dopo l’operazione,
Livia aveva cominciato a temerlo, il letto. Non era più un rifugio, non le regalava il piacere e nemmeno il riposo. Di notte,
quando giaceva immobile, il capo affondato nel cuscino, i segnali interni le arrivavano con maggiore chiarezza e si ampliavano
a dismisura, occupandola per intero: il sangue accelerava la sua corsa, le tachicardie diventavano tamburi di guerra e le
vampate le salivano al cervello per frugarlo con il loro fiato, rovente al pari dell’insonnia.
Aveva attribuito quei disturbi alla sofferenza psichica, ma la sua ginecologa li aveva ricondotti al corpo: menopausa
precoce, causata dall’isterectomia. Le aveva prescritto una terapia ormonale sostitutiva per via transdermica che,
obiettivamente, aveva funzionato.
Sì, i farmaci le avevano restituito il suo corpo, però diverso, mutato: estraneo a se stesso. Un Paese straniero.
Sono passati quattro anni e Livia ancora non si è liberata dall’imbarazzo che le procura questo corpo che non è più il suo. A
volte stringe i pugni, involontariamente, come per difendersi da uno squilibrio così profondo da farla vacillare. Non saprebbe a
chi o a cosa appoggiarsi se non ci fosse la tavola apparecchiata ogni sera, la condivisione del cibo, l’attenzione di Giacomo.
«E quindi? Cosa vuole da te, il ragazzo?»
«Quello che vogliono tutti… Un consiglio da avvocato» risponde in tono astratto. Con la punta
dell’indice picchietta sulla tovaglia, come se stesse valutando se proseguire o no. Poi apre il pugno e liscia piano la stoffa.
«Sai…» inizia a dire. E si ferma di nuovo, pensoso, scrutandosi le dita.
«Sai, mi ha raccontato una storia davvero interessante.»
Una storia che aveva scoperto per combinazione, mentre lavorava per il suo giornale. Ma quando se l’era ritrovata fra le
mani, essendo un ragazzo sveglio, aveva compreso immediatamente che poteva essere una maledetta rogna o un colpo di
fortuna. O tutt’e due assieme.
In ogni modo, e senza alcun dubbio, era un caso difficile. Una faccenda che sicuramente non era in grado di gestire da solo
o con l’aiuto degli altri redattori, tre praticanti di buona volontà. Per non impelagarsi in un mare di guai, gli occorreva
l’assistenza di un avvocato esperto in materia. «E il mio studio si è già occupato di casi del genere… Non tanto io, a essere
sincero, quanto la mia socia.»
La sua socia, pensa Livia. La sua bella socia dagli zigomi alti e l’aria volitiva, che guarda le altre donne (e lei in particolare)
come fossero trasparenti.
«Di quali casi stai parlando?» si spazientisce. «Posso saperlo o è un segreto professionale?» «Frode scientifica» fa lui.
Aziende che manipolano i dati delle ricerche pur di ottenere un brevetto o la licenza necessaria a immettere sul mercato i loro
prodotti. «Sai com’è.» Ma l’azienda in questione… «Be’, non è proprio un’azienda qualsiasi, il tuo studente è caduto sopra un
bel vespaio.» Anzi, per la precisione, sopra un ordigno esplosivo, essendo inciampato nella Food&C, il colosso dei pesticidi, la
multinazionale dell’agrochimica.
«Caspita» fa Livia, ostentando un pizzico di sarcasmo. «Ma ancora non vedo il collegamento.» «Ci arrivo
subito.»
Abbassa gli occhi sulle molliche sparse intorno al piatto, poi li rialza.
Il succo della storia, dice, è che la Food&C ha in fase di produzione un nuovo diserbante, il che comporta un bell’impegno
economico. L’investimento frutterà, è ovvio, ma in futuro, dato che il prodotto per ora è al vaglio della Commissione europea,
quella che rilascia le licenze, e quindi non è in commercio. Non si può vendere, ma la sua innocuità è attestata dai ricercatori
dell’azienda e con questa garanzia la lavorazione può andare avanti. È la prassi. Dunque l’attività ferve e tutto procede
regolarmente, o così pare, fino a qualche settimana fa. Poi, chissà come, il diavolo riesce a metterci la coda e cosa succede?
Che una rivista scientifica se ne viene fuori con uno studio monografico, molto dettagliato, di un biologo. Un professore
universitario, che smentisce i ricercatori della Food&C e dimostra che il prodotto è tossico.
«Tossico?»
«Un autentico veleno.» Oh, continua, è una denuncia isolata… E la ricerca non ha grandi sponsor. Però ha dalla sua il
prestigio dell’accademia e questa, be’, è una carta in grado di scombinare il gioco. O, quantomeno, di far slittare i tempi del
nulla osta commerciale, con grave danno per l’azienda. Così non passano neanche ventiquattr’ore e… altro colpo di scena! Il
direttore della rivista, senza un perché,
sconfessa lo studio, pubblicato peraltro con il suo beneplacito, e lo ritira dalla circolazione. Con tante scuse, ma senza
spiegare il motivo del provvedimento. Un modo di agire anomalo, a dir poco, nel mondo scientifico.
«E qui torniamo a Giko.» Perché, secondo il ragazzo, ce n’è più che a sufficienza per una bella indagine giornalistica che
parta dal ritiro ingiustificato della monografia per poi passare all’attività della Food&C e ai suoi metodi di lavoro. Un’inchiesta
approfondita, da offrire all’opinione pubblica ed, eventualmente, anche a un tribunale. «Anzi, direi che l’obiettivo è proprio
questo, portare la Food&C davanti a un giudice. Con l’accusa di frode scientifica.»
Livia lo fissa, incredula. «Ho capito bene? Mi stai dicendo sul serio che Giko con il suo giornaletto, il notiziario online di
un’associazione studentesca, vorrebbe avviare un’azione legale contro la Food&C? L’avrai sconsigliato, spero.»
Tutt’a un tratto lo guarda con curiosità: «Tu, l’avvocato più prudente della nazione… Non dirmi che gli hai promesso il tuo
sostegno!»
«Ma ti pare» ironizza lui. «Davide contro Golia? Non sono pazzo! Forse, se avessimo qualche appoggio consistente, un
retroterra più solido di quattro studenti e dei loro amici…»
«Insomma hai rifiutato.»
«Non proprio.»
«Non proprio?»
«Prima devo verificare un paio di dettagli… E magari parlarne in studio.»
Certo, pensa Livia. Certo. Con la tua bella socia altezzosa, madre di due figli. Una donna insopportabile. Si tira su
d’impulso e, a labbra strette, comincia a riordinare. Dopo un attimo di sconcerto, Giacomo la imita alzandosi a sua volta e,
andando avanti e indietro, ripone il cesto del pane, scuote la tovaglia dentro il lavello.
È un uomo robusto, compatto, eppure si sposta con leggerezza. Le gira attorno con volteggi morbidi, da ballerino. Sembra
impegnato in una buffa danza di corteggiamento e, di fronte a quell’assedio, il malumore di Livia svanisce. Sorride tra sé e sé,
anche se non è sicura – non più – che quella danza sia destinata a lei. Al suo corpo guasto senza rimedio.
Forse Giacomo danza inseguendo altri corpi. Altre fantasie. Forse.
Livia infila la mano nella tasca dei jeans e tocca il pacchetto di sigarette che sta là dentro a sciuparsi inutilmente. Lo sfiora,
lo tasta, lo sgualcisce. La tentazione di tirarlo fuori è forte, ma si accontenta di strusciarvi sopra le dita.
Non intende litigare con Giacomo. «Se vuoi farti del male, sei libera di farlo» le aveva urlato contro appena l’altro ieri, con
un accento che sottintendeva il contrario. «Puoi fumarmi pure in faccia, se ti va.»
Una provocazione inutile, dato che non ha mai fumato e mai fumerà in sua presenza e lui sa il perché. Fa finta di non
saperlo, ma è troppo accorto, troppo attento per non sapere cosa la trattiene: la paura di mettere a repentaglio quell’intima
ricchezza che lei ha perso e lui possiede tutt’intera. Perché Giacomo può ancora procreare.
Per sé, ma anche per lei.

Il teatro ha sede in un palazzo del diciannovesimo secolo che ingloba una serie di elementi più antichi: le pietre dell’architrave,
la meridiana sulla parete esterna, il mosaico che tinge di ocra e di blu il pavimento del cortile.
Una sede prestigiosa per un piccolo teatro amatoriale, dove gruppi di amici organizzano a turno serate di musica o di prosa
(un’attività tornata di moda negli ultimi anni, tanto che qualcuno parla di “risveglio” – altri di “riscossa” – della cultura cittadina).
La solenne scalinata di marmo, costruita per durare, sfocia in un corridoio carico di stucchi e bassorilievi. Fiori, foglie,
insetti, il catalogo di un vecchio mondo agreste sfila davanti a Livia. Un’ape regina con l’addome appuntito. Una formica alata:
anch’essa una regina, pronta al volo nuziale.
Il teatro invece è deludente. Del resto non è un teatro vero e proprio, ma una sala qualsiasi, arredata con una certa
approssimazione: sedie di legno piuttosto scomode e una semplice pedana a delimitare lo spazio del palcoscenico. Ciò
nonostante il pubblico è numeroso, allegro ed eccitato. Nelle prime file non c’è nemmeno un posto libero, e Livia è costretta a
tornare verso l’uscita e a sedersi fra due signori. Uno in doppiopetto, l’altro in giacca sportiva, di velluto a coste. Due maniere
diverse di interpretare l’avvenimento.
Livia stringe le mani in grembo, appoggia il dorso contro la spalliera di legno nudo e con la coda dell’occhio controlla la
porticina laterale che conduce dietro le quinte: fra poco sua sorella entrerà da quella porta e canterà dinanzi all’intera platea.
Non si esibisce da tempo immemorabile. Forse addirittura dagli anni dell’accademia, da quando si era diplomata ed era salita
sul palco per il saggio di fine corso. Di recente tuttavia si è iscritta a un club musicale, dove si esercita a cantare arie
operistiche («Non è il mio genere, però mi diverto»). Nessuno in famiglia si aspettava questo improvviso ritorno d’interesse per
la musica e il canto, nemmeno Livia. Finché una domenica pomeriggio, sul tardi, Francesca non era arrivata assieme alla
bambina: «Me la puoi tenere? Stasera ho le prove e mamma e papà sono fuori, sai, il solito pokerino. Me la tieni tu, per
piacere?».
La piccola aveva battuto le mani con entusiasmo: «Sì, zia, ti prego!». E si era precipitata ad abbracciarle le gambe
piantando in asso sua madre. Francesca ne aveva approfittato per svignarsela a passi furtivi, e nelle sue spalle leggermente
ripiegate, quasi a difendersi dalla sua stessa fuga, Livia aveva visto la ragazza che era stata. Una giovane donna che si alzava
dal tavolo della colazione per correre in accademia, con lo spartito sottobraccio e negli occhi un’ambizione timida e incerta,
come i fili d’erba che si affacciano dalle crepe dell’asfalto.
Anche Livia aveva l’abitudine di fare colazione con un libro aperto sul tavolo. In fondo non erano così diverse, lei e sua
sorella, solo che la vita di Francesca da un certo momento in poi aveva preso un altro verso. Dal momento, per l’esattezza, in
cui aveva annunciato la sua gravidanza all’intera famiglia chiamata a raccolta per l’occasione. All’epoca non aveva fidanzati o
accompagnatori ufficiali, circostanza che in parte giustificava (a parere di Livia) l’esclamazione stupefatta di sua madre: «Ma
com’è successo! Non per intromettermi…». E Francesca: «Giusto. Non intrometterti». Da quel momento, era andata avanti per
tappe forzate: aveva chiuso con il canto, aveva avuto la bambina e, nel giro di un anno, aveva trovato lavoro presso uno
studio dentistico, in qualità di segretaria. Aveva fatto come le regine del formicaio, che dopo il volo di accoppiamento si
strappano le ali.
Ma ci sono scelte che a volte s’impongono da sé.
In ogni modo, con le ali o senza, Francesca non è tipo da compatirsi. Sembra più incline, semmai, a compatire gli altri, una
caratteristica non proprio accattivante: a nessuno piace essere compatito, no? Così almeno la pensa Livia, che tuttavia non ha
mai dubitato della generosità di sua sorella, soprattutto nei suoi confronti. È sempre stata comprensiva, sollecita: la più
amorevole delle sorelle. Dopo l’operazione, l’aveva accompagnata a tutte le visite di controllo, ed era in ambulatorio con lei
anche quel giorno, quando l’infermiera le aveva chiesto: «Lo vuole, il dépliant?».
Una domanda di prammatica, che suonava impersonale. Innocua. Ma non per le orecchie di Livia. Il dépliant, in sé, non
aveva nulla di respingente. Era solo un opuscolo. Stampato in carta patinata, conteneva una lista di cliniche specializzate in
procreazione assistita e veniva distribuito dal sistema sanitario pubblico al preciso scopo di arginare la crescita selvaggia, e
spesso abusiva, delle cliniche private. Un intento lodevole. Inoltre era di facile consultazione e per ogni clinica veniva indicato
l’indirizzo, lo staff medico, i servizi offerti e le modalità di accesso ai servizi stessi. Ben segnalati in grassetto quei centri dove
anche le donne dal ventre guasto come il suo potevano sperare d’avere un figlio. Per interposta persona e grazie alla scienza.
Non era uno di quegli orribili manuali per aspiranti genitori, ma un dépliant informativo che diceva chiaro e tondo cosa era
fattibile e cosa no. Dopodiché ciascuno veniva lasciato alle proprie scelte: la medicina e la scienza offrivano soltanto un
indirizzario.
Un elenco, in definitiva. Ma talmente lungo da dare a Livia l’impressione che in tutto il Paese non ci fosse più nessuno
(tranne sua sorella) in grado di procreare alla vecchia maniera, come natura comanda. “L’abbraccio fra l’uomo e la donna è
destino”… Così aveva scritto Eschilo (o un suo epigono?) millenni fa, ma nel mondo di oggi, nel mondo in cui lei vive, queste
parole non hanno più senso. Da tempo l’abbraccio
fra un uomo e una donna non è più necessario per concepire un figlio. Non è più un destino. «Lo vuole?» le aveva chiesto di
nuovo l’infermiera. E lei si era domandata ancora una volta: lo voglio? Non ne era affatto certa. Forse per colpa del velo di
depressione che l’aveva seguita fin lì e che stava diventando sempre più pesante, un panno ruvido che le copriva la vista.
Ma proprio a quel punto era intervenuta Francesca. Le aveva stretto il braccio con forza e, accostando la bocca al suo
orecchio, aveva bisbigliato: «Te lo regalo io, un bambino. A te e a Giacomo». Un regalo. E d’un tratto, in quell’ambulatorio,
Livia si era ricordata delle scatole di caramelle, ben infiocchettate, che lei e Francesca si scambiavano a ogni compleanno.
Piccole caramelle rotonde, verdi, rosse, di tutti i colori, da far sciogliere adagio fra la lingua e il palato. Ma era questa dolcezza
che sua sorella le stava offrendo? O una scatola piena solo di oscurità?
In conclusione, non le aveva detto né sì né no. Comunque ne aveva parlato con Giacomo e anche lui non aveva detto né sì
né no, ma si era morso il labbro inferiore, torturandolo a lungo prima di obiettare: «Non lo trovi un po’… come dire, un po’
incestuoso? Mentalmente, intendo. Psicologicamente. Siete così legate, voi due!». E con ciò avevano troncato il discorso.
In sala, la pedana è ancora vuota. L’impazienza serpeggia tra gli spettatori, qualcuno batte le mani e il signore in
doppiopetto si alza a metà, quindi ripiomba sulla sedia, ma di sghimbescio. Infine si china verso Livia per confidarle sottovoce:
«Il pianista è mio nipote».
«Oh» fa lei, educatamente.
Nel contempo, le luci si attenuano. Il brusio del pubblico si quieta, il signore in doppiopetto raddrizza la schiena ed eccola,
sua sorella. Le braccia abbandonate lungo i fianchi, il collo teso nella pienezza del canto. Ha una voce scura, da contralto.
Senz’altro più profonda della sua.

Anche stamani c’è un vuoto in aula.


Giko manca per la terza volta consecutiva, ma nessuno ha occupato il suo posto e quel banco libero spicca come un
richiamo in mezzo alla ciurma irrequieta degli studenti. Dall’alto della cattedra si nota ancora di più, e a Livia torna in mente
quello che le aveva detto Giacomo a proposito del ragazzo e della sua crociata contro la Food&C. Un resoconto
approssimativo, come al solito. Ma anche lei è in difetto, per essersi accontentata di due parole spicce e aver lasciato cadere
l’argomento. Perciò, dopo la lezione, ferma una ragazza del gruppo, una delle seguaci di Giko, e le chiede se sa per quale
motivo il suo amico non frequenta più il corso.
«Si è stufato di Eschilo?»
La ragazza, una morettina con un anello d’oro all’ombelico, è sinceramente stupita. Possibile che Livia, una professoressa,
non sappia quello che sanno tutti, ossia che Giko è diventato una specie di celebrità? O meglio «un eroe», dice arrossendo in
maniera visibile, malgrado il colore scuro della pelle. Forse alla professoressa è sfuggito il nesso, perché a forza di chiamarlo
Giko chi se lo ricorda il nome vero?, ma è lui il giornalista che ha incastrato gli avvelenatori della Food&C. Un caso tosto, come
sicuramente saprà.
«Uhm» bofonchia Livia. Ma quando la ragazza si allontana, sale all’ultimo piano, si chiude nella sua stanza, apre il
computer da scrivania e va al motore di ricerca.
“Food&C.” Trenta milioni di risultati.
Orientarsi in quel labirinto richiederebbe troppo tempo (e troppa pazienza), meglio consultare direttamente il sito del
giornale. Dopo qualche tentativo a vuoto lo scova e subito, nella sezione INCHIESTE, vede una foto in primo piano. Giacomo e il
ragazzo. Li hanno ripresi davanti alla cancellata che chiude il quartiere dei tribunali, una città dentro la città, con vie, piazze e
schiere di fabbricati che radunano gli uffici giudiziari, il tribunale ordinario e varie sezioni penali. Stanno sorridendo e Giacomo
tiene la mano
sulla spalla del ragazzo, come farebbe un padre con il figlio.
Livia legge, poi torna alla pagina principale, clicca sull’archivio, cerca gli articoli precedenti e, quando ha finito, ha davanti a
sé il quadro completo della situazione.
Come l’aveva chiamata, Giacomo? Una frode? Una truffa? A lei sembra una follia distruttiva. Non saprebbe come altrimenti
classificare quella storia di ordinaria avidità, rimbalzata da un giornaletto online su tutta la rete e sui network più importanti. La
storia di un’azienda agrochimica, leader nel settore dei pesticidi, che vuole vendere ai contadini un diserbante cancerogeno,
pur sapendolo tale, e che a questo fine corrompe commissioni di controllo, biologi e scienziati. I quali a loro volta, pur di
guadagnare, firmano qualsiasi cosa: falsi attestati di compatibilità ambientale, ricerche contraffatte, studi riscritti dai consulenti
e dai ricercatori interni dell’azienda. In cambio di una firma ricevono soldi, molti soldi, e che importa se il pane che
mangeranno in futuro sarà appestato a causa delle loro stesse menzogne! Sono uomini pure loro e si allarmano solo per il
male che vedono, non per quello che deve ancora venire: è una caratteristica della natura umana, a quanto pare,
infischiarsene del pericolo se non è immediato.
Ma a volte anche un fuscello può mandare in tilt una macchina potente e ben oliata. E a mettere il primo fuscello tra gli
ingranaggi della Food&C era stato il biologo che aveva accertato la tossicità del prodotto (non tutti sono prestanome affamati
di denaro). La sua ricerca era stata seppellita in un batter d’occhio, però un giornaletto senza appoggi politici e senza quattrini,
sotto la direzione di uno studente fuori corso, l’aveva tolta dal sepolcro e lanciata in rete. Corredandola con una serie
d’inchieste, alcune firmate per esteso, altre soltanto “Giko” (opportuna abbreviazione del nome vero, in effetti pieno di gutturali
impronunciabili, di evidente origine straniera).
Livia apre di nuovo la rassegna stampa e scorre i titoli, fermandosi ogni tanto. Legge qualche frase qua e là, come in un
ripasso veloce: “… un ragazzo, un giornalista improvvisato… un dilettante privo di esperienza… ha dalla sua qualche
professore, le agenzie e i notiziari indipendenti…”.
Ma poi è un crescendo: “… il malaffare della scienza al servizio dell’agro-industria… coraggiosa inchiesta di un sito
online… milioni di contatti… un fortissimo danno d’immagine… la Food&C denuncia per diffamazione un giornale
studentesco…”.
E finalmente: “… una vergogna… lo scandalo è arrivato anche nelle aule parlamentari e due o tre politici l’hanno preso
molto sul serio…”.
Tanto sul serio da costringere la Commissione europea a sospendere il procedimento per la concessione della licenza
d’uso, in attesa di nuovi pareri scientifici: “… è in programma un’ulteriore valutazione del prodotto…”.
Una svolta clamorosa, strillano i giornali.
Riepilogando: stampa, opinione pubblica, politica e istituzioni, il clamore adesso è generale. Ma nel frattempo Giko è finito
sul banco degli imputati. Per diffamazione. E quella che prima era una scaramuccia tra la Food&C e gli studenti, si è
trasformata in una vera e propria battaglia, combattuta da due squadre contrapposte di avvocati. La squadra della Food&C è
folta e abbondante, l’altra (quella di Giacomo) più risicata. Molto più risicata.
Con un clic Livia ritorna alla foto iniziale e la ingrandisce: Giko riempie lo spazio con il suo cranio tondo e quel modo
baldanzoso di sporgere il bacino in avanti, bilanciandosi sulle gambe. Giacomo, rispetto al ragazzo, è leggermente arretrato.
Gli posa la mano sulla spalla come se volesse trattenerlo, mentre il suo viso si apre in un sorriso fiero e protettivo al tempo
stesso. Paterno, pensa Livia. Non c’è altro aggettivo.
Resta immobile per un po’, gli occhi fissi sull’immagine che occupa tutto lo schermo e brilla di una luce sfocata che le fa
male alla vista e sì, anche al cuore. Si gratta il polso, scostando l’orlo della blusa (è allergica ai tessuti sintetici, ma le fibre
naturali sono rare e fuori commercio). Poi fruga nella tasca della giacca e tira fuori una sigaretta.
Fumare all’interno dell’università è severamente proibito, ma nella stanza è sola e le finestre sono spalancate. Certo, è
un’infrazione, un gesto incivile che vorrebbe evitare, però ha un’urgenza disperata di aggrapparsi a qualcosa, fosse pure una
sigaretta. E in ogni caso non sta uccidendo nessuno, lei. A parte se stessa. Accende e aspira a pieni polmoni. Socchiude le
ciglia, espira e cerca di non pensare a nient’altro se non al gusto del fumo.

«Allora avete ceduto. Tu e la tua socia… Immagino che il ragazzo sarà felice di essere rappresentato da voi, ma perché non
me l’hai detto?»
«Non credevo che t’interessasse, non mi hai chiesto più niente.»
L’erba è una sterpaglia bruciata. Il parco soffre per mancanza d’acqua e di cure, ma i pini resistono e la loro ombra
scherma il sentiero, lo protegge. Giacomo e Livia passeggiano appaiati e Febo li segue riluttante, scuotendo il suo testone
giallo.
«Sostenevi che è una causa persa.»
«Non ho cambiato parere.» Siamo sempre Davide contro Golia, dice, e certe storie finiscono bene unicamente nei libri,
sacri o profani che siano. Ma non si sa mai, può anche succedere che Golia si ritrovi con la testa tagliata, a volte la forza non
è una buona consigliera.
«Davide, Golia… Se magari ti allungassi fino ai nostri giorni, potrei capire meglio di cosa stiamo parlando.»
«Non hai torto» ride Giacomo, ma lei lo rimbrotta: «Che c’è da ridere, non mi sembra divertente che i ruoli si siano invertiti».
Non è bello che la Food&C sia diventata l’accusatrice e il ragazzo l’accusato. «No, un momento» fa lui, arrestandosi in mezzo
al sentiero. «Ragiona, i fatti bisogna vederli nella loro completezza.» A partire dall’inizio, dice, riprendendo a camminare. E
all’inizio cosa abbiamo? Il giornale di un gruppo studentesco che, basandosi sulla monografia – peraltro introvabile – di un
biologo, comincia a scavare negli affari nascosti della Food&C. Un azzardo. Una bravata, a dirla tutta. «Proprio così»
conferma. «Una bravata. Non per nulla ho esitato prima di accettare l’incarico.» Ma poi, a fargli cambiare idea, ha provveduto
la stessa Food&C. E infatti questo titano, questa multinazionale ricca di uomini e di mezzi, come reagisce alla provocazione?
Passando all’attacco, però in una maniera eccessiva. Fuori misura. Insomma strafà e, per salvaguardare la sua immagine,
intenta una causa. Mette in moto la macchina giudiziaria, ma per difendersi da chi? Da un giornaletto studentesco! Un elefante
in guerra contro un moscerino… Non era sufficiente una smentita? Ogni reazione sproporzionata rivela una debolezza, e
questo è già un risultato. Un punto a nostro favore. «In altri termini, ha scoperto il fianco offrendoci un varco.»
«Ssh» fa Livia, sollevando una mano. «Li senti?»
In lontananza, da qualche parte, un verso rauco rompe la canicola. Corvi. Livia li detesta, divorano tutto, non si lasciano
sfuggire né un seme né un nido, distruggono ogni altra specie. Hanno sempre fame, una bramosia di cibo che li costringe ad
affondare il becco nelle carogne.
Giacomo si concede una breve pausa distratta. Poi spazza l’aria con un gesto ruvido, come per allontanare i corvi e la loro
voracità. «I signori dell’agroindustria» sogghigna. «Si erano illusi di poterci stritolare, pensavano di buttarci giù con un solo
dito, zac zac e via, eliminato il disturbo! Invece siamo ancora qui e quando in tribunale ci faranno le loro domande, noi gli
faremo le nostre.» Li inchioderemo alla loro ricerca, spiega. Quella che hanno depositato, con tanto di grafici e allegati, per
ottenere l’approvazione della Commissione europea… quella inutilmente contestata dal biologo… «Ma ora, in tribunale,
dovranno illustrarcela riga per riga.»
«Sì? E perché dovrebbero.»
«Perché non è verificabile. E una ricerca che non può essere verificata per noi equivale a carta
straccia.» Anche se gli studi ci sono, ammette, certo che ci sono. I ricercatori interni della Food&C avevano lavorato sul
prodotto per più di due anni, testandolo su quattrocento topi. «Ma le analisi, prova un po’ a dire dove le hanno fatte? Nei
laboratori di proprietà della stessa Food&C!» Provengono dai loro laboratori privati, di conseguenza sono coperte dal segreto
commerciale e le agenzie indipendenti non possono controllarle. «Con questi presupposti… liberi d’imbrogliare, no? E di
corrompere. Possono spendere, e infatti spendono… Ecco perché ogni causa contro di loro finora è stata una causa persa.»
Parla con una foga che Livia non gli conosce. Non che sia un uomo freddo, anzi, ha un carattere fin troppo impulsivo. Con
le parole però ci va piano, abituato com’è ai tatticismi della sua professione, a quelle infinite astuzie da avvocato che legano la
lingua. Ma oggi non sta lì a riflettere prima di aprire bocca. È acceso, irrefrenabile. Livia ha infilato il braccio sotto il suo e lui,
sempre camminando, le carezza leggermente il polso, la pelle arrossata dall’eritema (maledetta allergia!). Si affida a lei, vuole
la sua complicità e lei è ben contenta di dargliela, ma non può fare a meno di stuzzicarlo.
«Tutto questo fervore da parte tua… Da quando in qua ti piacciono le cause perse?» Giacomo ammutolisce e Livia sente,
sotto i polpastrelli, i suoi muscoli che diventano rigidi, corde pronte a scattare.
«No che non mi piacciono, le cause perse» sbotta alla fine. «Sono un avvocato!»
Vero: lui appartiene per definizione alla classe dei vincenti. Lui e la sua bella socia, che affronta i figli e le riunioni di lavoro
con la stessa invidiabile efficienza.
«Sono un avvocato» torna a ripetere Giacomo, «ma porco Giuda! Qualcuno deve pur fare qualcosa! Quel diserbante è
molto… è…» Si libera dalla stretta di Livia e schizza avanti, pallido di rabbia. Procede da solo per qualche metro, quindi
recupera l’autocontrollo e si ferma ad aspettarla.
«È genotossico» dice, schivando il suo sguardo. «Ho letto il rapporto del biologo.» “Genotossico” significa che si tratta di
una sostanza capace di danneggiare l’informazione genetica all’interno di una cellula. Significa che provoca stress ossidativo,
ossia che rompe il normale equilibrio fisiologico e può causare malattie degenerative di ogni tipo. In altre parole, è un prodotto
altamente patogeno che intossica l’intera catena alimentare e ha ricadute negative sulla fertilità degli animali. E della stirpe
umana. «Capisci? Non abbiamo bisogno di un altro diserbante come quello, ne abbiamo già usati in abbondanza, per la
miseria! Stiamo diserbando le nostre stesse viscere!»
“Nostre”? pensa Livia. Perché dice “nostre”? Anche Giacomo ha paura di avere qualcosa di guasto dentro di sé? Non
dovrebbe, se c’è un uomo sano e in pace con il suo corpo è proprio lui. Sono io che… Il sole ha invaso il sentiero. I pini sono
alle loro spalle e da destra e da sinistra, da ogni lato, arriva un crepitare di sterpaglie. Un suono secco che si mescola ai
rumori più lontani della città. È colpa mia, si accusa Livia, mentre un filo di sudore le riga la guancia. Sono stata io a
contagiarlo. Prima con la malattia, poi con l’incertezza, i dubbi, i tentennamenti. Sono io che gli impedisco di mettersi alla
prova e di avere un figlio, è ora di finirla. Per lui e pure per me. Non ne posso più di chiedermi: lo voglio o non lo voglio? Un
bambino che è mio senza essere mio… Lo voglio o non lo voglio? Non è più neanche il desiderio di un figlio, è una
persecuzione. Un assillo continuo. Ma se lo voglio, perché non riesco ad accettare il regalo di mia sorella? Devo avere il
coraggio di sciogliere i fiocchi, come facevo da bambina, e aprire la scatola. Che trappola può mai nascondersi in un dono? È
vero che la riconoscenza è un peso, ma sono forte abbastanza da non lasciarmene schiacciare.
Con un colpo di tosse si schiarisce la gola.
«Giacomo» chiama, perché si è staccato di nuovo da lei e la precede, questa volta fingendo un goffo tentativo di ginnastica.
«Giacomo! Fermati, per piacere.»
Lui ruota appena la testa e le lancia una rapida occhiata esplorativa.
«Giacomo… Ieri ho visto Francesca» butta là in un fiato, per evitare ripensamenti. «Ne abbiamo discusso e… Insomma, è
sempre della stessa idea.»
Qui s’interrompe, perché la voce le trema e non osa andare avanti.
Immobile, in pieno sole, Giacomo la scruta stringendo le palpebre, ma quello che vede sembra essere di suo gradimento,
perché il viso gli si rischiara e tutto d’un colpo diventa un altro uomo: allegro, scherzoso. Giocherellone. Non le chiede
spiegazioni, non si avventura più in là, ma ricomincia a saltellare con movimenti più fluidi e convinti. Quindi si gira verso Febo
e fischia, improvvisando una corsa. «Dai, seguimi, ce la puoi fare!» Febo però borbotta e agita appena la coda, giusto per
fargli capire che apprezza
il suo zelo, benché non lo condivida. Giacomo ride come se non avesse più un pensiero al mondo e Livia viene attraversata
da un fremito di piacere. “Umana felicità”… Ah, scherza con se stessa, questa sì che è deformazione professionale! Che
c’entrano adesso i versi di Eschilo? Eppure c’entrano… “umana felicità, se matura e cresce, non dilegua infeconda”… E
finalmente si scioglie e ride anche lei, senza trattenersi, ride mentre guarda Giacomo che non si dà per vinto e saltella e
fischia a Febo, ancora e ancora, tranciando l’aria con le braccia.
È così leggero, nel suo corpo massiccio.
La Federazione degli studenti ha indetto un’assemblea per rafforzare la battaglia del suo giornale, ma il rettore non ha
concesso l’aula magna. Non vuole e non può farlo. In certi casi la prudenza è d’obbligo, e il rettore non è tipo da giocare
d’azzardo. Qualcuno d’altronde si è premurato di ricordargli che gestire un’università, per quanto pubblica, equivale a gestire
un’azienda e guai a scontentare il consiglio
d’amministrazione.
Di conseguenza, l’assemblea si tiene in un’aula del dipartimento di biologia, con il permesso del
preside. «Gli studenti?» aveva detto, quando l’avevano interpellato. «Ma sì, ben vengano. Alla fin fine di cosa si tratta? Di
difendere un biologo, un collega, dall’affronto subito per le indebite pressioni di una multinazionale! Ne va della reputazione di
tutti noi.»
Non proprio di tutti, a ben vedere. E infatti i professori delle facoltà umanistiche, poco propensi a immischiarsi in beghe che
non li riguardano, si sono tenuti alla larga: per ora, dentro quell’aula, Livia è l’unica rappresentante della categoria.
Prima di entrare è stata perquisita al pari degli altri, come impone il nuovo regolamento. Anche dentro l’università, anzi
soprattutto dentro l’università, ormai i controlli fanno parte del trantran quotidiano e, dato che non si possono aggirare, Livia
cerca di sopportarli senza innervosirsi. Ciò che conta è che infine sia dove voleva essere: in mezzo agli studenti riuniti in
assemblea.
Studenti che però non sono i suoi, che non la conoscono e forse la scambiano per una di loro, con quei capelli corti, i jeans
e la giacchetta striminzita. La strattonano senza riguardi, la spingono a destra e a sinistra, finché una ragazza non strilla a
gran voce: «Prof!».
È questione di un attimo, poi la morettina con l’anello all’ombelico la prende sotto la sua protezione e “prof di qua”, “prof di
là”, la sistema accanto a sé, al riparo dalla calca.
Livia non ha amici a biologia, non è mai stata in visita al dipartimento, perciò inforca gli occhiali e osserva con una certa
invidia le lavagne luminose, gli strumenti e gli apparecchi elettronici ultimo modello. Ma anche qui i condizionatori sono spenti
e al calore dell’aria si aggiunge quello dei corpi, talmente intenso da dare le vertigini.
Sta parlando il preside, un uomo lungo e secco con una barbetta bianca filacciosa. Nessuno ha soldi, dice. Il governo non
ha soldi, l’università non ha soldi, però tutti ne hanno bisogno. Anche la ricerca, come potrebbe avanzare senza finanziamenti
e donazioni? Il problema è che ad avere soldi sono soltanto le multinazionali, e le multinazionali i soldi li adoperano ai loro fini
per esercitare influenza e guadagnare ancora di più. «Noi siamo pochi e non abbiamo grandi risorse» conclude. «Ma
lavoriamo sodo e non ci va che il nostro lavoro venga screditato. Perciò siamo con voi.»
Gli studenti applaudono disciplinatamente.
Dopo il preside, interviene il segretario della Federazione, un bel ragazzo con un lungo ciuffo scuro che gli fluttua sul naso.
Mentre va alla cattedra, si arrotola le maniche della camicia scoprendo le braccia a poco a poco, con flemma studiata. Un
tantino maliziosa.
«Fico» dice la morettina.
Al microfono però si trasforma in un militante professionale. Presenta l’ordine del giorno senza troppe verbosità, quindi
espone le ragioni per cui la Federazione ha deciso di indire l’assemblea: «Stiamo giocando una partita fondamentale per il
nostro futuro, perciò il web non basta. No, amici, non basta: dobbiamo discutere faccia a faccia! Senza filtri. E adesso attenti,
perché ci sono delle novità… e non le saprete da me, ma da una persona ben più informata… Eccolo! Ecco il giornalista che
fa paura alla Food&C, ecco il direttore del nostro giornale!»
L’annuncio scatena una tempesta di «Bravo!», «Bene!», «Evviva!» e centinaia di piedi battono all’unisono sul pavimento
provocando un rimbombo da terremoto. Dopodiché la folla, quella folla giovane ed entusiasta, si apre beccheggiando per far
passare un Giko in versione eroica, il cranio incerottato in maniera vistosa.
Livia strizza gli occhi, dietro le lenti.
«Santiddio, che gli è successo?»
«Menato di brutto.»
Ma non è stata un’aggressione, si affretta a precisare la ragazza. Solo sfortuna. All’uscita da una vineria era finito in mezzo
a una lite, due ubriaconi che distribuivano pugni alla rinfusa. E lui, con quel cranio nudo… «Ha presente Eschilo?» fa di punto
in bianco. «Ce l’ha raccontato lei che era calvo e che il suo capoccione attirava i guai: lustro com’era, dall’alto sembrava un
sasso, no? E così un’aquila, per rompere il guscio di una tartaruga, pum! gliel’ha schiantata sul cranio.» Morto sul colpo,
povero Eschilo. In quanto a Giko… Non c’è da preoccuparsi, lui se l’è cavata senza troppi danni.
«Santiddio» ripete Livia. «Santiddio.»
Giko intanto attraversa l’aula con una spavalderia che contraddice le bende da vittima e i cerotti sulla sommità del capo.
Quando è alla cattedra, poggia il portatile, lo accende e va diretto su PowerPoint. «Sono qui per condividere con voi una
grande notizia», esordisce, rivolgendosi all’assemblea. «Oggi il tribunale ha ordinato alla Food&C di rendere pubblici i suoi
documenti interni, comprese le mail. È una novità di straordinaria importanza. Perciò permettetemi di ringraziare l’uomo che
l’ha resa possibile. Il nostro avvocato.» E sullo schermo compare l’immagine di Giacomo.
«Forte» esclama la morettina.
«Ora veniamo ai documenti. Voglio mostrarvene qualcuno in anteprima, così vi accorgerete come, grattando la crosta,
venga fuori il pus.»
Il volto di Giacomo sparisce e cominciano a scorrere parole.
Sono stralci di rapporti aziendali, notifiche, lavori commissionati a collaboratori esterni, comunicazioni, mail scambiate fra
dirigenti interni. Uno scrive: “Ho sentito un membro della Commissione europea, è sicuro di aver portato la maggioranza dalla
nostra parte”… Un altro tranquillizza il responsabile del comitato scientifico dell’azienda: “Ho controllato personalmente le
conclusioni degli esperti esterni e ho
corretto quello che c’era da correggere”… Poi suggerisce, per il futuro: “Potremmo ridurre i costi se il testo lo scrivessimo noi
e loro si limitassero a firmarlo”.
«Sapete chi sono questi signori?» chiede Giko, rivolgendosi all’assemblea. «Sono i più grandi produttori di semi
geneticamente modificati.»
Li avete sentiti, dice. Stanno allestendo una strategia aziendale per ottenere la licenza d’uso del loro nuovo diserbante. Un
pesticida che ha una potenza superiore a qualsiasi altro. Efficace al cento per cento, si può usare anche dopo la semina,
stermina ogni cosa, ma ai semi modificati non fa un baffo. E ora, se la Commissione darà il nulla osta, potrà essere smerciato
pure in Europa.
Non che questo faccia una grande differenza, ragionando in termini di lungo periodo. In altre parti del mondo infatti è già in
vendita, e se avveleni la catena alimentare in un punto, la avveleni ovunque. Viviamo in un sistema chiuso, purtroppo per noi.
Ma accogliere in casa il nuovo pesticida, amici miei, sarebbe come aprire le porte al nostro assassino per facilitargli il compito.
Pensate al grano, dice. Alla soia. Al mais. C’è stato un tempo in cui sembrava conveniente modificarne i semi per renderli
più produttivi, e al diavolo gli effetti collaterali! Venivano considerati semi miracolosi che avrebbero sfamato il mondo, ma
ormai sappiamo cosa hanno prodotto: una terra malata che ci fa ammalare. E adesso dovremmo permettere alla Food&C di
aggredirci con un veleno ancora più potente? Di regalarci altre anomalie cromosomiche, altre mutazioni genetiche? Pensate
alle piante. Agli animali. Agli esseri umani. Pensate a quando tutto verrà sommerso da un fiume di sterilità.
«Vi riesce difficile immaginarlo? Allora mettiamola così: ciò che hanno fatto con i semi dei cereali, lo stanno facendo a noi.
Anche noi stiamo diventando semi geneticamente modificati. Semi che in futuro non produrranno altri semi.»
Complimenti, commenta Livia fra sé e sé. Due frasi ben congegnate (retorica a parte), e il ragazzo è riuscito a farle vedere
quello che ancora non aveva visto. O che non aveva osato vedere. Perché le donne della sua generazione erano state le
prime a essere travolte dal vento globale della sterilità, ma non tutte si erano ammalate. E non tutte in modo irreversibile,
com’era accaduto a lei. Mentre per queste ragazze e per questi ragazzi, per tutti loro, dal primo all’ultimo, qual è la
percentuale di rischio?
Si toglie gli occhiali, li depone in grembo, e smette di guardare.

«No.» Livia sterza bruscamente per evitare una buca. «No, il test fai-da-te non va bene.» Giacomo punta un dito sul tablet.
«Ma senti cosa scrivono: l’unico test casalingo di fertilità maschile “equivalente” alle analisi di laboratorio… Equivalente,
capisci?»
«Però in clinica non lo accettano, a che ti serve? È uno spreco di tempo.»
«Ma senti: “Tutto in trenta minuti, tutto nella privacy di casa tua, spedizione gratuita, consegna in pacco neutro – neutro,
senza etichette o marchi che i vicini possano riconoscere – entro quarantotto ore”… È un risparmio di tempo, altro che
spreco!»
«No, gli esami devono essere fatti in clinica.»
«E chi lo dice?»
«Il protocollo che hai sottoscritto, te ne sei scordato?»
Un protocollo standard, che prevede una serie di test preliminari, indispensabili per accedere ai servizi dei centri per la
procreazione.
Non si scappa: è la procedura e anche Francesca, a tempo debito, avrà il suo protocollo. Ma Giacomo, intanto, deve
sottoporsi a una prima raccolta dello sperma per il test di fertilità (che nel gergo medico si chiama “spermiogramma”). Non è
poi questo grande sforzo! L’unica noia riguarda certi calcoli un po’ imbarazzanti, dato che è necessaria l’astinenza per non
meno di quarantotto ore (facilita la concentrazione degli spermatozoi), ma da non più di cinque giorni (altrimenti diminuisce la
motilità).
Un fastidio, ma tollerabile a giudizio di Livia. E le analisi di laboratorio, oltre a essere un obbligo, sono una garanzia, anche
se Giacomo non è più di questa idea e continua a insistere: «A casa sarebbe meglio». «Ma perché?»
«Perché, perché…» le fa il verso, con un’irritazione astiosa che gli altera la voce. «Perché non è simpatico mettersi in fila
con un contenitore di plastica in mano, mentre tutti ti guardano, e andarsi a chiudere in una squallida celletta, poco più di uno
sgabuzzino, per fare quello che il prete, una volta, chiamava “atto impuro”! È umiliante.»
«In effetti» conviene Livia, tanto per non contrariarlo. «Ora che ci penso… Ma ormai siamo qui. È assurdo cambiare
programma proprio adesso che siamo arrivati.»
Scala una marcia, entra nel parcheggio della clinica e s’infila nel primo posto libero. «Vuoi perdere l’appuntamento? Vai,
su. Leviamoci questo pensiero. Se preferisci, ti aspetto al bar.» Giacomo la fissa con due occhi umidi, gli occhi di Febo
quando viene sgridato. Poi inghiotte la saliva,
contrae il viso come se fosse sul punto di soffocare e, con un rantolo, tira fuori dal profondo il suo spavento più vero: «E se
non ci riesco?».

Una settimana non è una lunga attesa. In ogni caso, è il tempo che ci vuole per ottenere il referto dalla clinica.
La domenica se ne va così, con un pranzo familiare e la bambina di Francesca che si rimpinza di biscotti per rigurgitarli,
con aria di sfida, sul divano di sua madre. Nessuno le ha detto niente, ma ha capito che ci sono novità in arrivo e reagisce
d’istinto.
Lunedì è un giorno positivo per Giko e il suo giornale: un rappresentante dell’Unione Europea, intervistato, si pronuncia
contro la licenza d’uso per il diserbante della Food&C. Una “prima crepa in un muro di omertà”, esulta il notiziario online.
Martedì, una collega di Livia bussa alla porta del suo studio. Antonia. Una donna sempre indaffarata. È ormai prossima alla
pensione, ma non ha perso l’amore per il suo lavoro e vuole l’aiuto di Livia, che ha
studiato il tema, per organizzare un seminario internazionale sulle divinità femminili del Mediterraneo. Le Grandi Madri. Il loro
potere. L’intento è una revisione del mito in chiave moderna, con un approccio interdisciplinare. Livia dice: «Grazie per il
coinvolgimento. Vedremo, se posso…».
Mercoledì e giovedì, gli studenti organizzano sit-in e cortei per fare pressione sul parlamento europeo. Basterebbe il voto di
cinque Paesi per bloccare il prodotto della Food&C in Commissione e non farlo più uscire da lì. I ragazzi corrono, gridano
slogan e appendono striscioni, ma le forze dell’ordine non intervengono e pure questo è positivo.
Venerdì si chiude la settimana lavorativa. Venerdì è il giorno in cui Giacomo va a ritirare il referto con l’esito degli esami.
Quando torna a casa, le porge una busta e, con le mascelle serrate, fa un cenno che significa: leggi! Lei ubbidisce. Prende la
busta ed estrae quattro fogli, quattro lunghi fogli di carta, ma non ha bisogno di leggerli: conosce già il responso. Giacomo, con
quella mossa brusca, le ha già detto l’essenziale, ossia che anche lui è un uomo guasto. Avariato.
Qualcosa si raggruma dentro il suo petto e diventa un piccolo nodo pungente, ma è la sensazione di un attimo.
All’improvviso, e con sua grande meraviglia, tutto viene spazzato via da un sollievo così forte da darle il capogiro.
Mentre la busta plana sul pavimento, Livia stringe i pugni. Un gesto che stavolta non le serve per affrontare il dolore, ma
questa nuova, strana eccitazione mista a paura.
È libera. Libera. Con una voglia irrefrenabile di precipitarsi fuori a calpestare i rassicuranti, corrosi sampietrini della sua
città. Come se si fosse sbarazzata di quella catena di colpe che, secondo Eschilo, imprigiona la vita.
4
Mariama

Di tutte le fate madrine che si sono affollate attorno alla mia culla, Mariama è la più giovane. È anche quella che ci ha messo
più tempo per arrivare sull’isola: quasi tre anni.
A scanso di equivoci, va detto subito che non era stata una partenza volontaria, la sua. In circostanze normali a Mariama
non sarebbe mai saltato in mente di allontanarsi dal suo paese, malgrado fosse un modesto villaggio di pescatori e contadini.
Un posto quieto in riva all’Atlantico, con un porticciolo, qualche casa coloniale dipinta in tenui colori pastello e una fortezza,
dove secoli addietro attraccavano le navi
negriere per rifornirsi di schiavi africani. Fuori dall’abitato avevano costruito da poco un aeroporto che teneva i collegamenti
con la capitale, facilitando un traffico di soldati, funzionari governativi e uomini d’affari.
Un paese remoto, dunque, ma non troppo. Non in termini assoluti, poiché la lontananza e la vicinanza dipendono dai mezzi
di trasporto che hai a disposizione. Ma lei, a quanto sembra, aveva solo i suoi piedi nudi.
Mariama non parla volentieri del viaggio che l’ha portata fin qui. Parla di ciò che ha lasciato, della partenza e dell’arrivo,
della vita nuova e di quella vecchia, però è restia a parlare del viaggio. Se viaggio si può chiamare la sua fuga senza fine, i
camion, le barche, le soste obbligate e l’inerzia accecante, simile a un sogno confuso. Uno di quei sogni che all’alba non vuoi
rammentare, altrimenti non ti alzeresti più.
Lei invece si alzava e riprendeva il cammino.
Forse a piedi nudi e forse no, perché non è chiaro se questa storia sia una leggenda familiare o corrisponda a un dato di
realtà.
Quello che so per certo è che Mariama, per abitudine o per inclinazione, non ama le scarpe e pure quando va per strada
preferisce le ciabatte. Possibilmente infradito di plastica che a ogni passo sbattono contro la pianta del piede, producendo un
rumore che somiglia a un susseguirsi di piccoli schiaffi. Ciac ciac, ciac ciac. Ciac ciac, ciac ciac. Un ritmo secco e cadenzato
che potrei definire come la mia personale colonna sonora, considerando che mi accompagna da ancor prima che nascessi.
Piedi nudi, dunque.
È così.
Piedi battaglieri che hanno camminato tanto, e, anche se Mariama non vuole, sono loro, sono questi piedi che la
costringono a ricordare e a ripercorrere la via, tappa dopo tappa.

Per il momento è ancora là. A casa di suo padre. Nel suo villaggio di fronte all’oceano. Ma non ha più tempo per scendere in
spiaggia a cercare i ciottoli levigati dalle maree.
Ormai è grande, Mariama, e da quando non frequenta più la scuola, il centro del mondo si è spostato. Dalla voce severa di
un maestro alle chiacchiere della buvette, dagli schiamazzi dei suoi compagni al brusio della radio sempre accesa, dal
monotono grattare di una penna allo schiocco festoso delle lattine di birra, un cambiamento che non le dispiace. Ha quindici
anni, è una donna, e tutto quello che ha studiato
può trovare, finalmente, un utilizzo pratico. Perciò lavora con impegno nella buvette della seconda moglie di suo padre: tiene
in ordine i conti, si occupa della merce in entrata e in uscita e inoltre, quando occorre, serve ai tavoli e spazza per terra.
Dentro, il locale è angusto, ma all’esterno, nel cortile, lo spazio è tutt’altro che scarso e, per mantenere la pulizia, bisogna
faticare.
La seconda moglie è più alta di lei, con un corpo lungo e vigoroso che la mette in soggezione. Ha una fronte ampia,
coronata da una breve frangia di treccine, chiuse da lacci colorati che danno luce alla pelle. Suo padre l’ha sposata alla morte
della prima moglie – la madre di Mariama – sperando che gli desse altri figli, ma anche questo mese i suoi tamponi si sono
imbevuti di sangue.
«Che fai lì imbambolata» la sta ammonendo proprio adesso. «In cortile protestano… Svelta, porta fuori il televisore e
attenta ai fili!»
Prima di eseguire l’ordine, Mariama sbircia attraverso la tenda tintinnante di perline: è una soddisfazione vedere i tavoli al
completo, contrariamente al solito.
Oggi è un giorno particolare. Il figlio del sindaco è tornato dalla capitale con un diploma di laurea e la prospettiva di un
incarico governativo, perciò il padre ha voluto festeggiarlo invitando a cena amici e parenti. Ma ha esagerato un po’ con gli
inviti e ora in cortile c’è mezzo paese, ospiti importanti e gente qualsiasi venuta a salutare. I capifamiglia si distinguono per i
loro boubou di cotone sintetico, mentre i giovani indossano pantaloni larghi e casacche a mezza manica, un compromesso fra
tradizione e modernità. Le donne fanno gruppo a sé, insieme ai bambini. Qualcuno riposa accovacciato sui propri talloni.
Qualcun altro appoggia la schiena contro il tronco del baobab, senza preoccuparsi dei pipistrelli
che pendono dai rami a testa in giù.
L’albero dai mille semi, lo chiama la seconda moglie. I suoi frutti fanno bene alle donne che vogliono rimanere incinte. È lo
spirito buono del cortile.
Mariama sistema il televisore in modo che possano vederlo anche dai tavoli più lontani. Il buio non è ancora sceso a
oscurare il cielo, sullo schermo guizzano immagini sbiadite, indecifrabili, e un ragazzetto
s’inquieta: «È lui?». Mariama lo rassicura: «Ma no, per lui c’è tempo».
Lui è il profeta Samuel, un pastore evangelico africano come loro, però molto famoso. Le sue prediche televisive
rimbalzano di continente in continente grazie al canale satellitare della Chiesa dei Popoli e attirano milioni di spettatori.
Appunto per questo Mariama ha trascinato fuori l’apparecchio della tivù, perché stasera verrà trasmesso un suo messaggio e
nessuno se lo vuole perdere. È un avvenimento che emoziona e tocca la coscienza di tutti, non solo quella dei suoi seguaci,
che qui peraltro sono una minoranza poco influente.
Sia come sia, il sindaco vuole seguire la trasmissione e tanto basta per darsi da fare. Il padre di Mariama in un primo
momento si era dichiarato contrario a mischiare il sacro con il profano, a sporcare le parole di un profeta (non importa di quale
Chiesa) con il chiasso di una buvette. «Non mi sembra opportuno» aveva detto alla seconda moglie. Ma lei era stata
perentoria: «Il sindaco paga. E se vuole assistere allo spettacolo… be’, non saremo noi a dirgli di no. Dio ci perdonerà, non gli
manchiamo mica di rispetto!». Era alla cassa e, per dare un peso maggiore alle sue parole, l’aveva chiusa con un tonfo: «Qua
i conti non tornano».
Sicuro, aveva pensato Mariama. I conti non tornano. Era lei a mettere i numeri in colonna, ogni sera, e quindi sapeva come
stavano le cose e di quanto si erano indebitati con i fornitori. Non per incapacità della seconda moglie.
Da principio aveva avuto questo sospetto, a dire il vero. Però, lavorando, si era resa conto che gli uomini non venivano alla
buvette per bere, ma per stare in compagnia, e che, pur di non spendere, erano capaci di dividersi un’aranciata in tre. Non si
comportavano così per avarizia: semplicemente, non avevano soldi. Un problema che nessuno poteva risolvere (nemmeno lei,
nonostante la scuola e l’abilità con i calcoli, cosa di cui andava molto fiera).
E poi non si trattava solo dei clienti della buvette. I soldi non mancavano soltanto a loro, la gente per guadagnare era
costretta ad allontanarsi dal villaggio che infatti, a poco a poco, si stava svuotando. Un gocciolio lento e continuo. Intere
famiglie partivano senza preavviso, dirette verso chissà quale destino, portandosi appresso pentole, coperte e animali. Le
case restavano abbandonate a se stesse, più vuote e deserte dei tavoli che Mariama allestiva nel cortile.
Insomma, niente girava per il verso giusto da quando erano cominciati gli espropri e i cinesi si erano insediati vicino alla
fortezza, ecco il punto.
L’anno scorso era andata via anche Amina, la sua compagna di banco. Si era trasferita nell’interno, perché la sua famiglia,
come tante, non poteva più coltivare la terra che aveva sempre coltivato. Non aveva le carte in regola. Mariama, che ancora
frequentava la scuola, aveva chiesto al maestro: «Quali carte?» E lui aveva risposto, con un corruccio che si addensava tra il
naso e la bocca: «Carte che prima non esistevano». Attestati di proprietà. Nessuno li aveva mai avuti, ma all’improvviso ci
volevano. E dato che nessuno era in grado di presentarli, il governo aveva confiscato la terra (che era dei loro padri e dei padri
dei loro padri) per darla in concessione a un’impresa straniera, che poteva sfruttarla sopra la superficie e sotto.
Accaparrandosi l’acqua e cambiando le coltivazioni.
Dopo di ciò erano arrivati i cinesi.
Ora sono numerosi quanto i vecchi residenti. Hanno le loro abitazioni, i loro negozi e alla buvette della seconda moglie non
mettono mai piede.
Tranne il cinese nero. Ma lui è un caso a parte: è nato da una donna del villaggio, perciò è uno del luogo. Tuttavia non lo è
veramente, e infatti traffica con gli altri. Con i pallidi compaesani di suo padre. Anche lui, come il figlio del sindaco, ha studiato
nella capitale e stasera, benché non sia fra gli invitati, siede accanto ai capifamiglia, ma un po’ in disparte, a un tavolo tutto
suo, dove prendono posto a turno gli uomini che hanno bisogno di un favore. Un consiglio. Un suggerimento. Un contatto con
gli stranieri. Mariama è indaffarata con i clienti, però fa in modo di passargli davanti tutte le volte che può, e a ogni passaggio
s’informa se per combinazione non desideri un’altra birra o una Coca-Cola o una manciata di noccioline… Magari un sorso
d’acqua fresca?
Ogni tanto si ferma dietro la tenda per ammirarlo di nascosto e godersi la vista in tranquillità. Lo trova bellissimo: ha
un’ossatura sottile, capelli appena ondulati con riflessi lucidi e occhi stretti. Lo incontrava spesso a scuola, perché è amico del
maestro, e, a ogni incontro, il suo sguardo obliquo le attraversava il petto come il lampo di un coltello.
La notte ormai è scesa e il baobab è soltanto una sagoma possente più buia del cielo. Il televisore invece brilla di luce
intensa.
«È lui, è lui» grida di colpo il ragazzetto.
Allora anche Mariama interrompe per un attimo il suo andirivieni fra i tavoli.
Sullo schermo appare un uomo corpulento, avvolto in un boubou azzurro con la passamaneria dorata intorno al collo. Baffi
e barba, tagliati corti, si saldano in un cerchio perfetto attorno alle labbra. Quando le apre, sembra che dia fiato a una tromba.
“Venite, venite, alleluia! Venite, questo è l’anno in cui dovrete battervi… dovrete battervi per sopravvivere… Venite, questo è
l’anno in cui i vostri figli dovranno sedersi ai vostri piedi e imparare… Spartite con loro la vostra esperienza… Venite, alleluia!”
La sua voce crea una risonanza che trasmette un’energia oscura, vagamente minacciosa. “Gloria, gloria, alleluia! Il tempo
della fede è il nostro tempo… ma non c’è fede e non c’è tempo se priviamo il Signore dei suoi figli… Uomo! Guarda la donna
sterile, guarda la donna senza figli! Il suo ventre ti disonora… Donna! Guai a deludere il Signore… Non abbiamo tempo, se non
abbiamo fede… Venite, venite al Signore!”
Mariama ascolta con un piccolo tremito interno.
Poi lentamente, piano piano, il profeta indietreggia ed esce dal campo visivo, mentre la sua voce continua a echeggiare in
lontananza.
“Il tempo della fede è il nostro tempo… Gloria, gloria, alleluia!”
Alleluia, ripete una voce d’uomo nel cortile e tutti riprendono a mangiare: la predica è finita. La seconda moglie scuote le
treccine, come se si stesse svegliando in quell’istante, e fa il giro dei tavoli per controllare che non manchi nulla. Invece di
seguirla, Mariama cincischia con il grembiule a testa bassa: ma che voleva dire, il profeta? Il senso di quella predica le sfugge.
Che c’entra la fede con i figli? Non le piacciono le cose che non capisce.
Passa qualche minuto e il cinese nero tutt’a un tratto si alza per pagare la cena e tornarsene a casa sua: non resta mai a
lungo in un posto, è un uomo insofferente. Mariama sente un affanno dentro il petto, un battito imperioso, e gli corre dietro
senza esitare: vuole esserci lei, alla cassa. Conta i soldi adagio per trattenerlo ancora un po’ e lui pazienta, con un sorriso
appena accennato. Prima di andarsene, le punta addosso quei suoi occhi stretti: «Tu, perché non vai più a scuola?».
Il cuore le balza di nuovo in gola, ma stavolta per la collera: deve proprio dirglielo che ormai ha quindici anni? Non lo vede
da sé? Le gambe le diventano rigide come pali, però mormora con dignità: «Non sono una bambina».
Non sa se essere più offesa o addolorata.

Tempeste di polvere così terribili non si erano mai viste.


L’aeroporto è chiuso e i pescatori non escono in mare da settimane, solamente i contadini si avventurano sui campi.
Procedono in fila indiana, piegati in avanti, le facce coperte da pezzuole che ormai hanno lo stesso identico colore, il rosso
bruno della campagna spazzata dal vento. Quando la violenza della tormenta li respinge indietro, resistono curvandosi fino a
sfiorare il suolo.
Per Mariama, che li osserva da lontano, sono figure senza volto. Si abbassano, si torcono, si raddrizzano contro un
orizzonte sporco e in movimento. Una lotta che ha qualcosa di sovrannaturale. È come assistere all’irruzione delle maschere
cerimoniali durante un matrimonio o una sepoltura. È un corteo sacro, mosso da una forza che va oltre la sua stessa forza…
Chi si nasconde in realtà dietro quei fazzoletti incrostati di polvere? Dei semplici contadini o lo spirito combattivo della terra?
Dritta sulla soglia della buvette, Mariama si gratta un piede con il calcagno dell’altro. Un vortice caliginoso sale dal fondo
della strada e la seconda moglie le grida dall’interno: «Entra e chiudi l’uscio!». È un ordine: non vuole che se ne stia all’aperto
a respirare veleno e a farlo respirare agli altri. Perché è questo che porta il vento, quando si abbatte sul villaggio dopo aver
raschiato la terra dei nuovi insediamenti. Semina veleno e mal di stomaco, lo sanno tutti. In paese dicono che è colpa degli
espropri, perché da quando i vecchi coltivatori se ne sono andati la terra non serve più a far mangiare gli uomini, ma ad
alimentare le macchine. Il mais non si trasforma in farina e poi in polenta, ma in combustibile. Lo dicono pure gli amici del
padre di Mariama, quelli che vengono a chiacchierare e a scolarsi una birra a credito. Bevono e se ne infischiano dei conti
della buvette, però di campi e di semine hanno antica esperienza.
Del resto anche Mariama ha visto gli elicotteri cinesi solcare il cielo per giorni e giorni, lasciandosi dietro lunghe scie
grigiastre che il vento ha diffuso ovunque. E ora nei nidi degli uccelli le uova sono fredde, senza vita, mentre le piante
sviluppano rigonfiamenti mostruosi attorno alle radici. Perfino le mosche sono grandi il doppio di quanto erano prima, e
particolarmente aggressive.
«Sì, dannazione! chiudi l’uscio» sbraita il padre di Mariama, fissando la schiuma della sua quinta birra. È solo al tavolo
interno. Di malumore. «Ci hanno tolto pure l’aria» dice. «Il governo…» «I cinesi» ribatte la seconda moglie.

I pescatori hanno ripreso la loro attività e il mercato del pesce ha riaperto, sulla spiaggia davanti alla fortezza.
L’oceano è ancora plumbeo, con sfumature terrose. La furia delle onde ha buttato a riva pietroni enormi che scivolano sotto
il piede, ma il sole fa luccicare il legno delle barche. Mariama si toglie le ciabatte di plastica, appesantite dalla sabbia, e si
dirige verso le donne che attorniano i banchetti per contrattare il pescato. Sotto la veste, incastrati fra la pancia e l’elastico
delle mutande, tiene i soldi che le ha affidato la seconda moglie.
La luce piena le mette addosso una sorta di euforia, una voglia di correre che le tende i muscoli. Ma poi la raggiunge
l’ombra dei bastioni e un brivido freddo le ghiaccia il sudore.
La fortezza le dà sempre una sensazione di gelo.
C’è gente che odia la fortezza e gente che ci viene in pellegrinaggio (o piuttosto ci veniva, quando le frontiere erano
aperte). C’è gente che la ritiene un’inutile reliquia del passato e gente che ci va a pregare, come in chiesa o alla moschea. Il
maestro di Mariama appartiene a quest’ultima categoria. Una volta, in classe, aveva fatto ascoltare una canzone molto triste,
che rievocava il tempo in cui le navi negriere salpavano da quei bastioni con il loro carico umano.
“Su questi gradini piangevano i nostri padri…
Su questi gradini singhiozzavano le nostre madri…
Su questi gradini morivano le nostre sorelle…”
Un’altra volta aveva guidato la scolaresca nel labirinto sotterraneo, dentro le viscere di pietra. «Questa è la cella delle
vergini, questo il cubicolo dei recalcitranti, questa la fossa dei bambini. E quello il varco, il
valico interno che conduceva gli schiavi direttamente sulle navi.» Una fenditura illuminata dal riflesso dell’oceano. La porta del
non ritorno, aveva detto il maestro.
Mariama rabbrividisce di nuovo. Più di ogni cosa la spaventa il ricordo di quello spacco luminoso, battuto dalle maree.
Sotto le mura, l’ombra è fitta e la sabbia umida le si appiccica ai piedi. Ma la seconda moglie le ha assegnato un compito
preciso, perciò si ferma al primo banchetto e, dopo aver fatto la sua parte contrattando fieramente, compra un bel trancio di
barracuda e lo infila dentro un sacchetto di plastica. Mentre torna verso la fortezza, il pesce le sgocciola sulle caviglie e allora
si china per asciugarsi con l’orlo della gonna. Poi si rialza e d’improvviso la testa le va a fuoco: di fronte a lei, a due passi di
distanza, c’è il
cinese nero.
«Ehi tu, peperoncino selvaggio!»
È seduto sopra un fazzoletto steso proprio là, su quei gradini dove singhiozzavano le madri, ma non ha un’aria mesta. Anzi
sorride, le fa cenno di avvicinarsi e intanto seguita a canticchiare quel motivetto alla moda: «“Peperoncino selvaggio, olà!
Peperoncino che deve sempre correre! Correre da quando si leva il sole…” Fermati, su! Vieni a sederti accanto a me».
Accanto a lui? pensa Mariama. Ma non se lo fa ripetere due volte. Non è tipo da imbarazzarsi, lei. Però non osa guardarlo e
se ne sta seduta con la schiena dritta, impalata, stringendo il sacchetto del pesce che adesso goccia per terra.
«Bene» fa lui. «Devo chiederti scusa per l’altro giorno. Lo vedo, eh sì, lo vedo che non sei più una bambina… Ma il tuo
maestro sostiene che sei molto intelligente, che eri la sua allieva migliore, perché hai rinunciato alla scuola? Me lo vuoi
spiegare?»
Mariama solleva il mento: «Alla mia età, lavorano tutte».
«Mmm» fa lui. «Mmm… Non tutte, sai?»
Estrae dalla manica un altro fazzoletto, voluminoso quanto il primo, e si asciuga la fronte. Resta in silenzio per un po’,
quindi ripiega la pezza e la sospinge dentro la manica. «Ma sì, cambiamo discorso.» E attacca a parlare del profeta – il
predicatore dello schermo, dice, il santone delle telecamere – e vuole sapere da lei perché suo padre aveva organizzato
quella pantomima in cortile. «È un suo seguace?»
«No, ma il sindaco voleva sentire la predica.»
«Il sindaco, capisco. E a te è piaciuta?»
«È piaciuta a tutti i clienti…» Si vergogna a esprimere i suoi dubbi, teme che a lui possano sembrare sciocchi, fantasie di
una ragazza ignorante che non ha finito la scuola. Però alla fine si decide: «Era una bella predica, d’accordo, ma che voleva
dire? Che le donne e gli uomini sono gusci vuoti e non possono più avere figli perché offendono il Signore?».
«È l’ignoranza che offende il Signore» risponde lui, sbrigativo, come se si fosse pentito della sua insistenza. E non dice più
niente.
Anche Mariama tace. Pensa alla seconda moglie, che ogni mese precipita in un cupo scoramento. Pensa a suo padre. Un
uomo all’antica. Che tuttavia, dopo due birre, perde qualsiasi ritegno ed è pronto a raccontare a chiunque la sua pietosa storia
di uomo senza figli. Perché averne solo uno, per di più femmina, è come non averne. E infatti, ai suoi tempi, nessuno chiedeva
alle donne “se” avevano figli, era ovvio che ne avessero, la cosa all’epoca andava da sé. La domanda non era “se” ma “quanti”
ne avevano, perché un figlio solo era inimmaginabile, una disgrazia per la famiglia.
Una disgrazia e una vergogna, pensa Mariama. Perciò era morta sua madre. Per avere un figlio in più. Quello che già
aveva non era sufficiente, costituiva una prima prova, per così dire, un tentativo di famiglia. «Non ero abbastanza, nemmeno
per mia madre.» Ma se l’avesse partorita ora e non quindici anni fa, forse si sarebbe accontentata di lei. Perché la maledizione
di ieri è la benedizione di oggi: questo è il tempo dei veleni, delle uova fredde dentro i nidi, e non c’è chi non renda grazie al
Signore se ne
spunta fuori almeno uno, di uccelletti. O di figli.
Si è alzato un vento gentile che ripulisce l’aria, l’oceano si è calmato e i colori cominciano ad accendersi. L’ocra della
spiaggia, il bianco abbagliante delle mura.
L’ombra della fortezza si è attenuata e Mariama non ha più brividi. Avverte sulla pelle la presenza dell’altro, del suo corpo
vicino e sconosciuto, e allarga le narici per catturarne l’odore. Una traccia sottile di olio di karité, un misto di cocco e vaniglia.
Lo raccoglie tutto nel suo petto, quel grumo di dolcezza, quel grano di felice serenità, perché duri e si conservi.

La seconda moglie crede alla malasorte. Se la raffigura come uno spirito maligno, che perseguita gli esseri umani e li tortura
per il proprio divertimento.
Nel segreto del suo animo, Mariama la compatisce: non essendo andata a scuola, non può sapere che la sorte ognuno se
la fabbrica da sé, come le ha insegnato il suo maestro. La iattura, il destino avverso, la malasorte per l’appunto, non è che
un’invenzione pericolosa. Uno spettro agitato da vecchi stanchi e senza desideri per giustificare il loro fatalismo.
Eppure la seconda moglie non è una donna che si rassegna con facilità e non è nemmeno vecchia. Stanca sì,
probabilmente. Stanca di aspettare ogni mese una gravidanza che non si realizza mai, stanca di debiti, di fornitori arrabbiati e
di clienti che non pagano o che traslocano nei caffè dei cinesi, dove la birra costa di meno. Una stanchezza che certi giorni le
fa dire: «Qua la fortuna se n’è andata». Ma ciò che le manca davvero è la fiducia in se stessa e nella sua capacità di
negoziare con il mondo. Ha consumato le sue energie, ecco tutto.
Mariama, al contrario, si sente ardere come… sì, come un peperoncino selvaggio. Brucia d’impazienza.
Il mondo le appare colmo di opportunità, di occasioni imprevedibili e sorprendenti. Non è più, se mai lo è stato, uno scenario
troppo grande per lei. È soddisfatta, è orgogliosa di essere Mariama, e neanche quando scopre ciò che suo padre ha in serbo
per il suo futuro, dubita di sé.
D’altronde è la voce di suo padre ad annunciarle il futuro e dunque cosa c’è da temere? Il pomeriggio è sul finire e lei gli ha
appena piazzato davanti la prima birra della sera. Con delicatezza, senza far rumore, perché sembra assopito sulla sedia. Ma
proprio mentre Mariama si sta girando per rientrare in cucina, lui si risveglia e le intima: «Aspetta!». Alza il bicchiere freddo,
ben ghiacciato, e lo preme sulle labbra, se lo strofina contro la guancia. Quindi lo riappoggia sul tavolo e dice: «Mi ha
telefonato Fanta».
Fanta è una sua cugina che abita nella capitale e l’ha chiamato perché cerca una ragazza fidata, in grado di aiutarla alla
buvette. E chi potrebbe essere se non Mariama, che ha esperienza e corrisponde in tutto e per tutto alle giuste pretese di
Fanta, che alle ragazze chiede bravura e serietà? In cambio, la cugina è disposta a pagare quanto si conviene. «Così»
conclude suo padre, «potrai spedire a casa il
denaro e darci una mano.»
La capitale…
Quanto sarà distante da qui? si domanda Mariama. Pur avendolo letto sui libri di scuola, non se lo ricorda.
Suo padre riafferra il bicchiere, ma non beve nemmeno stavolta. Se lo porta alla tempia e guardando lontano, oltre le spalle
di lei, la informa che un loro cliente è in procinto di trasferirsi in città con l’intera famiglia, moglie, suoceri, zii e nipoti. «Ti
accompagneranno loro.»
All’improvviso Mariama ha in bocca un sapore acido, cattivo.
Partire da sola… Peggio, con una famiglia che conosce appena. Intrufolarsi come una mosca indisponente, molesta, che le
altre donne scaccerebbero volentieri con una ventola… Ma la capitale! La capitale… Quando tornerà, il cinese nero dovrà
guardarla in modo diverso. Sì, dice, anche se suo padre non le ha chiesto niente, tanto meno un parere. Sì. Certo. Andrò.
Tornando in cucina, passa accanto al baobab, pieno di frutti dal gambo lungo che pendono verso il basso, alla maniera dei
pipistrelli. Attraversa il cortile e, mentre si avvicina all’entrata, un ultimo sprazzo di luce fa brillare i fili di vetro, le perle
tintinnanti della tendina. Sono grigioverdi, con venature azzurre che sbiadiscono, colpite dal sole. Hanno lo stesso chiarore
della marea che laggiù, nei sotterranei della fortezza, batte contro la porta del non ritorno. Lo stesso malinconico balenio.
Mariama però non crede ai presentimenti.

Dunque è questa, la capitale.


Palazzi di vetro scintillante e pozzanghere sterminate, laghi di fango battuti da una pioggia inesorabile. Terra nera, non
rossa come quella del villaggio. Afa ossessionante. Case di mattoni grezzi, stinti dal sole. Tetti di lamiera ondulata, rugginosa.
Mercati dove si vendono bacinelle di plastica e parrucche di nylon. Un fermento continuo, un’eterna agitazione.
Arterie dritte, asfaltate, e confusi grovigli di vicoli e viuzze fetide, che si moltiplicano all’infinito. È complicato ritrovare la
strada in quell’intreccio di passaggi e di snodi. E infatti Mariama nei primi tempi non si fida ad avventurarsi là fuori, se non in
compagnia della cugina.
Fanta è molto diversa dalla seconda moglie. Intanto conosce più cose… Perché vive nella capitale, è logico, ma soprattutto
perché ha frequentato per due anni le scuole secondarie. Il terzo anno l’avevano bocciata e allora si era messa in affari e
aveva costruito un suo piccolo regno nel bel mezzo di un quartiere popolare. Fra una chiesa evangelica dipinta di giallo e le
arcate di ferro del mercato centrale.
È una donna imponente, la cugina del padre di Mariama. Ha grandi cosce, una grande pancia e grandi seni soffici su cui
suo figlio dorme tutto ripiegato come un ranocchietto. Un bambino buono, che non dà fastidio quando sua madre deve
lavorare. E Fanta lavora molto perché, fra l’altro, affitta tre camere sopra la buvette e ha sempre un viavai di gente.
Con Mariama è gentile, nonostante i modi spicci. La comanda come una padrona (quale del resto è), ma con giustizia. E
altrettanto fa con la sguattera, una ragazzetta più giovane di Mariama, che viene dalla boscaglia e che tutti chiamano Dodici
Letti. Fanta le ha affibbiato questo nomignolo perché, al suo arrivo, salutava le altre donne come si usa al suo villaggio. «Che
il Signore ti dia buona salute» diceva. «Buona salute e dodici figli, così che tu possa dormire in dodici letti.» Perciò adesso i
clienti della buvette la chiamano Dodici Letti.
Di “letti”, ossia di figli, Fanta per il momento ne ha solo uno. Ma per lei non è una disgrazia, come per il padre di Mariama, o
una sciagura irreparabile. È soltanto una condizione transitoria, dato che ha l’età giusta, è in buona salute e non dispera di
avere presto un’altra opportunità e un altro figlio. Da chi dovrebbe averlo, tuttavia, non è chiaro.
Per cominciare, non è sposata e di mariti non ne vuole proprio sapere. Inoltre il padre del suo bambino, l’uomo che abitava
con lei, nella sua casa, e si sfamava alla sua tavola, è sparito un anno fa. Una mattina, verso mezzogiorno, era andato al
mercato centrale con i soldi della cassa e non si era più visto. Scomparso, inghiottito dalle bancarelle e dalla gonna di una
qualche venditrice.
Quel giorno nessuno aveva pranzato, alla buvette.
Ma ormai è acqua passata. Anche se Fanta, quando si sfoga con le donne che lavorano per lei, ricorre a un linguaggio
ancora troppo velenoso. Ancora troppo ferito. «Quel fannullone! Quel buono a nulla! Non lo voglio più tra i piedi… Mi cercherò
un altro padre per i miei figli.»
Su quest’ultima faccenda non scherza: è decisa ad ampliare la famiglia. Batte di continuo
sull’argomento e le donne attorno a lei annuiscono: sì sì, è giusto. Ma non le danno retta. Tranne un’ostetrica dell’ospedale,
una delle sue affittuarie, che la incoraggia e le offre consiglio. Anche stasera, dopo aver mangiato il fufu, la polenta di manioca
preparata da Mariama, cominciano a chiacchierare. L’ostetrica si raccomanda: «Non essere precipitosa. Se vuoi un bambino,
devi scegliere un uomo capace di farli, non uno qualsiasi». Non è come prima, dice, quando bastava un’occhiata per rimanere
incinte. Oggi, per avere risultati certi, è meglio farsi aiutare dall’ospedale. «Come no! Adesso mi serve l’ospedale anche per
andare a letto con un uomo!»
«Ma vuoi un uomo o un bambino? Se è il bambino che vuoi, l’ospedale può servirti eccome!» ribatte l’ostetrica, con la sua
aria da esperta del mestiere. E rivela in un bisbiglio, quasi fosse un segreto o una sconcezza da riferire a bassa voce, che i
medici del suo reparto sono molto preoccupati: la sterilità maschile è cresciuta oltremisura e la media dei figli per ciascuna
donna, che nel nostro Paese era alta, più alta che altrove, negli ultimi anni ha subìto un crollo rovinoso. In alcune zone pare
sia scesa addirittura a uno virgola cinque.
Mariama smette di rimestare con le dita dentro la sua ciotola di fufu. È perplessa. Ma non fa in tempo a chiedere
chiarimenti, perché Fanta scoppia a ridere, facendosi scudo alla bocca con il dorso della mano. «I medici! Sono peggio dei
predicatori!» dice continuando a ridere. «Ci mancavano pure loro, i profeti dell’uno virgola cinque! Si è mai sentita una
provocazione del genere? Ma in ogni caso io ci conto su quella virgola, eh?»

Ed ecco che una mattina all’alba il padre del primo e unico figlio di Fanta, il traditore che era sparito con i soldi della cassa,
così come se n’era andato fa ritorno.
Indossa una tuta mimetica e sfoggia due pistole, una per fianco. Come se non bastasse ha un coltello assicurato al
polpaccio e, con questa bardatura, va in camera di Fanta e si chiude là dentro con lei. A metà mattina lei esce dalla stanza, da
sola, e si dirige verso la buvette che a quest’ora è chiusa al pubblico.
Una sciarpa leggera le fascia le spalle. Ma la gola è scoperta, e Mariama, che sta sciacquando i bicchieri, si chiede cos’è
quel respiro agitato che le gonfia il collo. Gioia o amarezza? Compiacimento o timore? E quanto di questo, eventualmente, e
quanto di quello? Non riesce a interpretare le ombre che si muovono sul viso largo e mobile di Fanta, ma l’istinto le dice che
quel corpo, quel grande corpo florido e
maestoso che le aveva ispirato fiducia, d’ora in avanti non potrà essere un riparo. Il suo piccolo mondo, le sue aspettative, lei
stessa, niente è più al sicuro con la cugina di suo padre.
Senza un vero perché, Mariama si sente abbandonata, sola in una città dove la gente non si ferma mai. Dove tutti si
muovono come fossero inseguiti da una muta di cani e anche le parole vanno di corsa, volano sopra la tua testa e chi le
afferra è bravo. In città le parole ti attraversano e ti lasciano la mente vuota. O avvolta in una specie di torpore lanuginoso che
ti permette di capire le cose solo da qui a lì, non oltre. È dura quando devi farti maestra di te stessa.
Ma, per quel che la riguarda, non permetterà a nessuno di fargliene una colpa: è la città a essere straniera, non lei.
Lei è sempre Mariama. E questo è un fatto indiscutibile.
Così pensa. Intanto la cugina di suo padre attraversa la buvette, sale sulla pedana della cassa (il suo podio abituale) e
batte le mani, palma contro palma, per chiedere attenzione. Le inservienti interrompono il lavoro e si raccolgono attorno alla
padrona pigolando come pulcini attorno alla chioccia.
«Aprite bene le orecchie! Fra poco avremo degli ospiti speciali, un gruppo di ragazzi appena arruolati dal padre di mio figlio.
Il Paese ha bisogno di loro… Avete sentito la televisione, no? Avete visto la pazzia che si è scatenata nei villaggi… assalti ai
mercati, contadini che bruciano i campi… Gli danno fuoco assieme al raccolto e questa, secondo loro, sarebbe una protesta
contro il governo!»
«Embè?» borbotta una donna sottovoce. «È il governo che gli ruba la terra.»
«E tu la bruci? Bel ragionamento! Comunque sia, questi ragazzi vanno a riportare l’ordine. Sono di passaggio e in caserma
non c’è posto, ma da noi sì. Perciò pulite e fate spazio per i materassi.» Le donne si disperdono immediatamente e Fanta
rientra nella sua stanza, sventolandosi con un ventaglio di rafia.
Anche Mariama si appresta a tornarsene al lavoro, ma, prima, dà un colpo di gomito a Dodici Letti, ancora ferma incantata
davanti alla cassa. Ha un’aria così giovane! Sottile, il seno appena accennato ma un corpo sodo. Resistente. Mariama con lei
si trova a suo agio. Tranne quando assume quest’espressione stordita, da ragazza della boscaglia, e allora la detesta, perché
le sembra lo specchio della sua stessa storditaggine. E come la nota lei, la somiglianza, possono notarla anche gli altri.
«Svegliati, su!»
Con durezza, le affonda le dita nell’avambraccio e Dodici Letti sussulta, ma non si sposta. Serra le mandibole, deglutisce a
vuoto e dice lentamente:
«Quelli… Ma quelli, a chi vogliono fare la guerra?»

“Quelli”, all’inizio, sono soltanto in cinque.


Cinque uomini. Cinque soldati, che tuttavia non appartengono all’esercito regolare, ed è per questo, in realtà, che non
dormono in caserma. Ciò nonostante la loro uniforme è impeccabile, dal berretto ai galloni alle armi lustre e ben tenute, niente
da eccepire. La stranezza è che girano a piedi scalzi. Non per abitudine, come Mariama, ma perché glielo impone la loro
religione.
A quanto dice la cugina, è in questo modo che il padre di suo figlio si guadagna da vivere. Reclutando soldati tra i fedeli
della Chiesa della Rinascita, una setta che ha la sede principale al di là dell’oceano. Negli Stati Uniti d’America. Lui va ad
assoldarli nei villaggi, perché sono molto convenienti. Non possono bere alcol, non possono fumare o assumere droga, ma
possono fare la guerra. Vanno dove l’esercito non vuole o non può andare e, in cambio, si prendono tutto quello che trovano.
Lui li seleziona, li addestra, li organizza e li affitta per una montagna di soldi. Fino a poco fa era un buono a nulla, ora è un
uomo riverito e temuto, perché tratta con i generali e perfino con il ministro della Difesa. Alla buvette beve senza risparmio, a
differenza dei suoi soldati, e tiene banco sottolineando le frasi rilevanti con grandi manate sulle cosce. Quando c’è lui, non è
necessario accendere la televisione o sbirciare il computer della cugina: con l’alcol diventa un parlatore. Bene informato, per di
più, dato che a causa del suo lavoro sa sempre quello che accade e dove accade. Inoltre i suoi racconti non passano sopra la
testa della gente, ma entrano nelle orecchie e arrivano al cervello nella maniera più diretta. Perciò Mariama gli riempie il
boccale, ascolta e sta zitta come non è mai stata in vita sua.
«Il punto di equilibrio politico?» l’ha sentito dire. «La capitale. Finché regge, siamo salvi… noi, la nazione e il nostro
presidente… Ma se nei quartieri s’infiltra il disordine, eh! signori miei, vi consiglio di preparare i bagagli. Anzi, se volete sapere
come la penso, vi conviene prepararli fin d’ora e tenerli pronti.»
In effetti c’è un’agitazione diversa da quella di prima, nella capitale. Più folla, più traffico del solito. Più rumore, pensa
Mariama.
È in fila al posto di blocco sulla via del mercato e, per svagarsi, segue con lo sguardo le manovre degli elicotteri militari. Si
abbassano, volano rasoterra, si sollevano con le ali di sbieco e le pale vibrano spargendo una frenesia che entra nel corpo e
lo fa tremare.
La loro presenza è un’assoluta novità: non c’erano elicotteri, ieri. Il cielo era sgombro. E i posti di blocco non impedivano
l’accesso al mercato.
Mariama ha premura, perché la farina di manioca alla buvette è finita e, se arriva tardi, teme di non trovarne più nemmeno
ai banconi delle venditrici. E allora mancherà il cibo e la cugina si lamenterà: «Sei lenta».
Forse.
Sì, forse è lenta, ma soltanto perché il suo animo è pieno di dubbi e di inquietudini. Non ha voglia di correre per quei soldati
dai piedi scalzi e i fucili pesanti. Un tempo era un peperoncino selvaggio che correva da un tavolo all’altro per essere notata
da un paio di occhi stretti, ma ora è stanca. Esattamente come il peperoncino della canzone.
“E che, devo sempre correre!
E che, correre da quando si leva il sole!
Piuttosto torno a casa mia!
Piuttosto me ne vado!”
Comunque la lentezza non dipende da lei, in questo momento. Sono i soldati – soldati dell’esercito regolare, con gli
scarponi ai piedi – a decidere: tu sì, tu no. Quando scartano qualcuno, lo spingono indietro con la canna del fucile. Un gesto
iroso e assieme impersonale. A Mariama fa venire in mente la noncuranza dell’Atlantico, quando trascina le pietre del fondo
per sbatterle contro la costa.
Finalmente un soldato le fa cenno di passare. E di sbrigarsi. «Via, via!» Ma lei non se ne cura e avanza a piccoli passi
insolenti, strascicando le ciabatte nella polvere nera della capitale. “E che, devo sempre correre!
E che, correre da quando si leva il sole!”

Il tetto di zinco risuona sotto la tempesta. L’acqua scroscia e picchia col fragore di cento tamburi. Timbri bassi che si
allargano, timbri alti che colpiscono come proiettili.
La notte è squassata dal battito assordante dei tamburi d’acqua e Mariama non riesce a dormire. Si rannicchia nel suo
giaciglio, la faccia contro il muro, e ripensa alle tempeste secche del villaggio, alla furia del vento che voltava e rivoltava la
terra avvelenata. Qua almeno piove, anche se le piogge sono velenose quanto il vento e non portano alcun beneficio. Non
dissetano la città e formano pantani di melma putrida, mentre l’acqua da bere, ahimè, quella continua a costare più della
manioca.
Mariama attende con pazienza che il ritmo dei tamburi rallenti. Ma dopo un ultimo rovescio, quando la bufera si placa, in
mezzo al picchiettare sordo delle gocce affiora un suono contrapposto. Più debole e prolungato. Un lamento che potrebbe
uscire da una gola umana come da quella di un animale. Somiglia al gemito sommesso di un cagnolino. O alla protesta
rassegnata della capretta che la seconda moglie lavava in mare a forza di spinte, tenendola per la coda.
Ma il mare è lontano dalla capitale e, nel quartiere, non ci sono capre.
Lesta, decisa, Mariama si tira su. Il suo cuore ansioso batte con la stessa acuta insistenza di quel lamento. Perciò si
allaccia la camiciola sul petto, esce dalla stanza e seguendo il suono scende a pianterreno. Procede a tentoni, perché le luci
sono spente. Tranne la lampada esterna, che resta accesa tutta la notte a guardia della casa. Il suo alone giallastro si insinua
dentro la buvette, rischiara la cucina e si posa nell’angolo dove dorme Dodici Letti.
Ma neanche lei dorme, stanotte. È seduta sul suo giaciglio, nuda, le braccia attorno alle gambe piegate contro il ventre. Si
dondola piano, come una bambina che si consoli per conto suo, e intanto dalla bocca le esce quel lungo, estenuante mugolio.
Sembra non essersi accorta della presenza di Mariama, ma, quando lei fa per avvicinarsi, il mugolio diventa un grido di
allarme.
«Sono io! Io» la rassicura Mariama. «Che hai? Ti senti male?»
Prova ancora ad accostarsi e, nel farlo, vede un paio di mutande ridotte a brandelli e sul lenzuolo, sporco e strappato, due
macchie di sangue. Le vede e capisce ogni cosa con una chiarezza che la sgomenta.
«Chi è stato?» urla. «Dimmelo! Uno di quelli? Un soldato scalzo? Chi?»
Negli occhi della ragazza, un po’ folli, un po’ stravolti, si accende un lampo di terrore che raggiunge Mariama e la colpisce
con l’intensità di una scossa elettrica. Allora fa un passo indietro. Esita, poi si volta di botto e si precipita su per le scale. Nei
polmoni le manca l’aria, ma dentro di sé supplica e chiama: cugina! cugina!
E Fanta è lì, sul pianerottolo.
Mariama cerca affannosamente di ritrovare la voce. Non si domanda come mai a quell’ora di notte la cugina non sia nella
sua stanza, a riposare tranquilla: quell’apparizione è la risposta alle sue preghiere e lei deve soltanto calmare il respiro e dare
forma alle parole. Tenta di farfugliare qualcosa, ma l’altra la frena scrollando il capo e con un viso molto, molto serio, le porge
il cellulare.
«Tuo padre» dice.
Mai e poi mai Mariama avrebbe immaginato che suo padre potesse piangere. Una fantasia che non l’aveva mai sfiorata,
nemmeno in sogno. E invece stavolta piange così tanto che la seconda moglie è costretta a interromperlo e a parlare al suo
posto.
Le telefonate non sono gratis, perciò viene subito al dunque.
«Abbiamo dovuto chiudere l’attività» la informa. «Oltre alla terra, hanno requisito anche le case del villaggio e ci
trasferiscono tutti al Nord. Ti faremo sapere dove.»
Resistere non è possibile, perché l’esercito incendia le abitazioni delle famiglie che rifiutano di spostarsi. E i contadini, da
parte loro, incendiano le postazioni militari: ci giocano tutti col fuoco, è il nuovo sport nazionale. Qualcuno ha dato alle fiamme
perfino la scuola, che non dava fastidio a nessuno e insegnava a neri, bianchi e gialli. «Quel povero maestro era dentro»
racconta la seconda moglie. «Non ha fatto in tempo a fuggire ed è morto insieme al suo amico, che per caso si trovava con
lui.»
Il suo amico?
«Il cinese nero.»
L’uomo dagli occhi stretti, che non stava né con gli uni né con gli altri.

È un’alba lattiginosa, opprimente, e già adesso l’afa impedisce di pensare.


Pazienza. Per Mariama non è un problema: tanto, ormai ha pensato tutti i pensieri possibili sul suo presente e sul suo
futuro.
Cosa c’è per lei, nella capitale? Solo fatica e tristezza. Nient’altro. E il fuoco le ha tolto quella voglia che aveva di tornare
indietro, gliel’ha strappata via dal cuore.
“Olà, peperoncino selvaggio…
Peperoncino che corre dalla mattina alla sera…”
D’altronde la casa di suo padre non esiste più e lei, be’, lei è troppo giovane per rimanere chiusa dentro i rimpianti.
Non le resta che andare più lontano.

Il minibus ondeggia come ubriaco. Per evitare i posti di blocco, l’autista si è addentrato in un labirinto di stradine, viottoli
sterrati, sentieri che costituiscono le arterie invisibili, le vene nascoste della città. Avvallamenti. Sassi. Baracche con un
corredo di corvi in processione sui tetti.
È un minibus per sedici persone, ma ne contiene cinquanta. I passeggeri occupano ogni spazio disponibile, sono
accovacciati sul pavimento, nel corridoio, in ogni buco, l’uno sull’altro. Non c’è aerazione. I sedili emanano una puzza stantia
di sudore e di vomito.
Mariama non può muovere nemmeno un dito, schiacciata contro il finestrino, il fagotto dei suoi averi sulle ginocchia («non ti
separare mai dal tuo bagaglio» si era raccomandata la cugina). Sotto l’elastico delle mutande, come al solito, i soldi. Più un
biglietto con l’indirizzo di un cugino della cugina, che traffica e s’ingegna oltre confine. Sarà lui a procurarle un passaggio
verso un Paese che possa offrirle lavoro e sicurezza. Uno di quei luoghi fortunati al di là del deserto, al di là dell’oceano. Ma
prima ci sono frontiere, dogane, sbarre e controlli militari da schivare.
Mariama guarda le ultime baracche che si dileguano, una per una. Guarda i baobab secolari, giganti che si appiattiscono
contro l’orizzonte. Fra i loro rami abitano gli spiriti dei cantastorie, custodi della memoria, e a lei piacerebbe accostare
l’orecchio alla base di un tronco e ascoltare i loro sussurri. Il minibus però non si ferma.
Lo fa molto più tardi, nel bel mezzo di una pietraia sbiancata dal sole, dove li aspettano un camion e un altro conducente.
«Scendete e salite là sopra» ordina l’autista del minibus. «Di corsa, di corsa!»
I passeggeri obbediscono ma correre è impossibile, dopo tante ore d’immobilità. Anche Mariama, che è giovane e agile,
barcolla e cade, tradita dai suoi muscoli. Quando si rialza, aggrappata al suo bagaglio, il sudore le corre lungo la spina
dorsale, tra le natiche e giù, fino all’incavo delle ginocchia. Il rotolo di soldi sotto le mutande è diventato molle come uno
straccio bagnato.
Il camion è alto, immenso, una montagna di riflessi metallici, sarà dura scalarlo. I compagni di viaggio le passano davanti
senza uno sguardo, senza una parola. Il caldo si confonde con il silenzio e Mariama,
per la prima volta in vita sua, si sente fuori posto: non è più la città, non sono più gli altri, è lei a essere straniera. E a questo
punto, per un attimo, qualcosa si dissolve dentro la sua testa, qualcosa che lei sa di sé e che fin qui l’ha protetta. Una
consapevolezza. Un forte senso della sua indiscutibile esistenza.
Ma è mai possibile rinunciare a se stessi? Si può forse rinunciare alla capacità di piangere e di ridere? Si può smettere di
guardare l’orizzonte e respirare?
No, si ribella, stringendosi al suo bagaglio come a una cintura di salvataggio. No! Comunque vada, io sono sempre io. Sono
sempre Mariama.
5
L’isola delle madri

Uno di quei filosofi che Livia cita continuamente nelle sue video-conferenze dice che siamo come rane che gracidano e
saltellano attorno a uno stagno. Perché il Mediterraneo, secondo lui, non è altro che questo: uno stagno infestato da
ranocchie, rospi e raganelle.
Il filosofo di Livia, per chi non lo sapesse, si chiama Platone e se millenni orsono il nostro mare gli sembrava piccolo, mi
chiedo cosa gli sembrerebbe oggi. Una pozzanghera?
A me fa tutt’altra impressione. Sarà perché non l’ho mai attraversato, ma per me è una presenza temibile, altro che stagno!
Occupa tutto il mio orizzonte da quando sono nata e mi sbarra il cammino, m’impedisce di andare oltre: è un ostacolo, e forse
una minaccia. È la frusta che usava il dio degli antichi profeti contro i figli ribelli: “al soffio della sua ira si accumularono le
acque, si alzarono le onde come un
argine, si rappresero gli abissi”…
No, non è affatto rassicurante questo vecchio mare chiuso che ci assedia da tutti i lati. Noi, a ogni modo, lo guardiamo dalla
terraferma. Al riparo, perché l’isola è lunga e larga e ha catene montuose, vallate e perfino un vulcano (la Montagna, per gli
isolani) che ogni tanto si tinge di rosso. Il Mediterraneo le scorre intorno, ma di notte, dalla sponda opposta, s’intravede il
riflesso delle nostre luci e c’è chi esclama: ecco! si è accesa l’isola delle madri.
Le hanno dato questo nome per via della sua Casa di maternità, che è conosciuta ovunque e che per tanti rappresenta una
meta, il compimento di un desiderio. Come il Centro medico di cui fa parte, che non è più soltanto un luogo di cura, ma un
famoso istituto di ricerca. Un polo d’attrazione per gli scienziati di tutto il mondo. Un faro puntato sul futuro (così lo definisce
Sara quando è in vena di ottimismo).
Comunque, benché l’appellativo sia recente, questa è sempre stata l’isola delle madri. O della madre. Infatti in epoche
lontane, lontanissime, in ere arcaiche, quando ancora si parlava la lingua del mito, era conosciuta come l’isola di Demetra, la
Grande Madre: al singolare.
Demetra era signora della vita e dei viventi, ma veniva sempre raffigurata in coppia con Persefone, sua figlia. Persefone era
signora dell’oltretomba e, al contrario di Demetra, assicurava il ricambio delle generazioni tramite la morte: in un certo senso,
era la madre dei defunti.
Storie vecchie come il nostro mare… Ma io ne vado pazza. È la voce registrata di Livia che mi ha insegnato ad amarle e
quindi le considero un suo lascito legittimo: sono l’eredità della mia cosiddetta “madre giardiniera”.
Dividere le madri in tre categorie è un vezzo delle infermiere di qui, perciò abbiamo le mamme uovo, le mamme canguro e
le mamme giardiniere, per l’appunto.
Livia era la mia giardiniera, cioè colei che si era assunta il compito di crescermi. Doveva potare i miei rami e rafforzare le
radici. Non ne ha avuto il tempo, purtroppo, ma è stata lei a immaginare la mia esistenza. A inventarmi. E, nell’inventarmi, mi
ha trasmesso la sua passione.
Sara invece è un caso a sé. Non mi ha fornito l’uovo né la pancia, e non posso neanche dire che mi abbia voluto (non alla
maniera di Livia). Però mi ha preparato la culla.
D’altro canto è un’incombenza che le spetta: è Sara a dirigere la Casa di maternità. Un lavoro scomodo, che fa storcere il
naso a molti. E che tuttavia le è congeniale, perché richiede concretezza e gusto per le sfide. Più una buona dose di coraggio.
Credetemi, non è agevole per lei farsi carico di un’impresa che la rende simile a Demetra. Signora della vita.

L’impresa è cominciata tanti anni fa.


In questo modo.
Dunque, immaginate un litorale di sabbia fine, una striscia di case, una strada parallela alla costa e, sullo sfondo, una fuga
di torri e torrette, cilindri e serbatoi di acciaio sfavillante sotto il sole. Uno scenario di laboriosa e quieta serenità se lo si guarda
a distanza, dal finestrino di una macchina in corsa. Come sta facendo Sara.
È atterrata da poco sull’isola con un aereo di linea e ad attenderla, dopo l’affollamento della dogana, ha trovato Tonio.
Puntuale come sempre. Indossava una delle sue solite camicie a maniche corte, ma la mascella era incorniciata da un’inedita
barbetta nera che l’aveva incuriosita. “Che genere di barba sarà?” si era chiesta andandogli incontro. Positiva o negativa? La
coltivava per nascondere o per affermare qualcosa?
Non vedeva Tonio da quando si era sposato. La moglie era una ragazza esile e ossuta, con una sua grazia un po’
stralunata. Faceva parte della truppa delle infermiere che, a mesi alterni, veniva da fuori per un tirocinio gratuito. Le ragazze si
addestravano operando sul campo, sotto la direzione di questo o di quel medico, e poi se ne tornavano da dove erano venute.
E infatti anche lei, finito il corso di formazione, era tornata indietro. Ma insieme a Tonio.
Il loro matrimonio aveva colto tutti di sorpresa: “Non sapevo che si conoscessero… non fino al punto di…”.
Tonio era un ottimo autista, esperto, affidabile. Ma negli affari di cuore, a giudizio dei suoi colleghi,
lasciava alquanto a desiderare. Burbero e taciturno com’era, scoraggiava le ragazze. Inoltre era ben nota la sua dedizione
assoluta a Sara. Lavoravano assieme da più di dieci anni per la stessa agenzia, seppure con ruoli differenti: Sara dirigeva,
Tonio eseguiva. Però, durante le emergenze, viaggiavano per giornate intere seduti l’uno accanto all’altro, asserragliati
nell’abitacolo di qualche automezzo, e in quello spazio ristretto le responsabilità e le decisioni tendevano a confondersi. Anche
se i ruoli restavano immutati. Lei organizzava il soccorso medico, lui guidava l’ambulanza o il camion. Lei si preoccupava per
le scarse risorse a loro disposizione, lui si preoccupava per lei.
Palesemente. E inutilmente.
Sia come sia, formavano una squadra. Un duo affiatato che, per comunicare, non aveva bisogno di ricorrere
all’intermediazione delle parole. A loro bastava un gesto. Lo spasmo di un muscolo. E infatti Sara, a differenza degli altri,
aveva notato subito lo scatto colpevole – e ripetuto – che gli smuoveva in su e in giù il pomo d’Adamo non appena la figuretta
dell’infermiera si profilava davanti a una tenda da campo. Il matrimonio non l’aveva stupita, ma il trasferimento… Ah, questo
no, non rientrava nelle sue previsioni.
Era stata la prima a saperlo, è vero, ma anche lei dopo la cerimonia nuziale, durante il brindisi con i colleghi. Tonio l’aveva
presa in disparte e senza perdersi in convenevoli (tanto per non tradire il suo stile) aveva detto: «Lascio l’organizzazione,
intendo cercarmi un altro lavoro».
Un annuncio stringato, impersonale, che l’aveva sprofondata in un vuoto improvviso. Perché un altro lavoro? E perché non
aveva ritenuto opportuno consultarsi con lei? Era così disorientata che, per un attimo, aveva rivisto dentro di sé la ragazzina di
un tempo. La ragazzina troppo alta che in classe sedeva nell’ultimo banco, esclusa da quel flusso di bisbigli segreti che
passavano da orecchio a orecchio senza raggiungerla mai.
Non che da Tonio volesse confidenze, ma… Dov’era finita la loro reciproca fiducia, la familiarità cresciuta negli anni,
alimentata dai disagi che avevano condiviso e affrontato in coppia? Perché in questo senso erano una coppia. O no? Si era
portata la mano al collo e, prima di rispondere, aveva cincischiato un poco con le maglie della catenella.
«Credevo che lavorassi bene con noi.»
Con me, avrebbe voluto aggiungere, ma suonava troppo intimo e si era trattenuta. «Non è
questo» era insorto Tonio.
«E allora cos’è?»
«È che non ne posso più d’inseguire le emergenze. Il mondo casca a pezzi e noi, sì, noi cosa facciamo? Ci limitiamo a
tappare i buchi! Ma che razza di lavoro è?»
«Un lavoro necessario.»
Necessario, aveva ribadito con durezza, perché sulla bontà del suo lavoro Sara non faceva concessioni e non ammetteva
critiche. Tanto più se venivano da Tonio, il suo compagno di squadra. L’altra metà della coppia. Ma lui aveva contratto il viso
in una smorfia d’insofferenza.
«Ho speso anni e anni della mia vita a rincorrere disastri d’ogni tipo, e per cosa? Per appiccicare toppe! Una qua, una là,
senza un’idea di futuro, rappezzando senza costruire… Ora vorrei correggere il tiro, se possibile.»
«Già, le toppe. Dimenticavo.» Quel sarcasmo stonato non le apparteneva, ma era come se le uscisse di bocca per conto
proprio. «E dove avresti intenzione di cercarlo, questo lavoro costruttivo?» Un’ombra d’insicurezza gli aveva attraversato lo
sguardo: «Vedremo. Ci penserò… Purché non debba più occuparmi di profughi o sfollati». Poi, a bassa voce: «Se ti ho messo
in difficoltà, mi dispiace». Si rigirava la fede all’anulare, meccanicamente. D’un tratto aveva allargato le dita e, guardando
l’anello, aveva borbottato: «Be’, almeno questa è fatta».
Se si riferiva al matrimonio, non era la cosa più romantica da dire, ma detta da lui valeva quanto un proclama.
Sara aveva fissato a sua volta l’anello. Infine aveva sorriso: «Hai ragione, questa è fatta». Tonio aveva
sorriso anche lui.
Dopo le sue dimissioni non si erano sentiti spesso, ma avevano mantenuto i contatti. Lei aveva continuato a correre dietro
alle emergenze, mentre Tonio aveva assunto un incarico organizzativo (responsabile della sicurezza interna) presso un centro
di natalità. «Qui almeno guardiamo avanti. Vediamo il futuro» le aveva detto in una delle loro rare telefonate. Così, quando
Sara aveva ricevuto un invito e una proposta di lavoro proprio da quel centro, lo aveva chiamato.

Ed eccoli di nuovo insieme, all’interno di una macchina. Lei sul sedile dei passeggeri, lui su quello dell’autista. Una specie di
ritorno al passato che le dà un piacere inatteso.
Tonio guida in maniera rilassata, appoggiando l’avambraccio sul volante. Con la sinistra le indica lo stabilimento, le torri, i
serbatoi che riflettono la luce e le ciminiere pulite, senza fumo. Sara non è mai stata sull’isola prima d’ora, quel panorama per
lei è nuovo. Ma sa, perché glielo sta dicendo Tonio, che ciò che vede è un’illusione: non sta guardando una fabbrica in
funzione, un polo industriale attivo. Se le ciminiere non sputano fumo è perché sono spente. E se Tonio parcheggiasse e
scendessero in spiaggia imboccando una qualsiasi viuzza laterale, non troverebbero operai indaffarati attorno ai macchinari.
Solo mura diroccate, magazzini vuoti e capannoni dismessi. Vedrebbero tettoie pericolanti. Rifiuti. Depositi di bidoni circondati
da filo spinato. E onde sporche, gonfie di morchia, che si riversano sulla sabbia fine.
Il paesaggio pacifico e industrioso che si distende laggiù, lungo la riva, non è che un inganno ottico. Ma Sara “vuole” essere
ingannata. Almeno un po’. Almeno per qualche momento.
Benché non osi confessarlo neppure a se stessa, anche lei è stanca di catastrofi e gente disperata, stanca di ferite
profonde che nessuno è in grado di curare. E se un medico non può offrire una cura, o almeno un palliativo, il suo lavoro cosa
diventa? Cupezza e frustrazione. Perciò ben venga l’allegria momentanea di un paesaggio che da lontano ha un che di
accattivante. Ben vengano quei cilindri luminosi che lievitano fra terra e mare, dentro un cielo surriscaldato. Sia benedetta la
linea candida dei magazzini, che attira l’occhio come una promessa.
Sì, è una visione bugiarda, ma a questo penserà dopo.
Nell’immediato preferisce occupare la mente con problemi spiccioli, di ordine pratico: funzionerà il collegamento in rete, nel
suo albergo? potrà mangiare qualcosa, al suo arrivo? e che effetto le farà il dottor Weaver, Jamie Weaver, l’uomo che in un
prossimo futuro potrebbe diventare il suo datore di lavoro? Ma il dottor Weaver non è un “problema spicciolo”.
A dire le cose come stanno, è un pensiero fisso e la sua offerta un’incognita che la tenta e la turba al tempo stesso.
Per molti versi, Sara è lusingata dal suo invito. E come potrebbe non esserlo? Il dottor Weaver è un biologo famoso, lo
scienziato che aveva fatto includere la sterilità nell’elenco mondiale delle pandemie. Una bella vittoria, perché all’epoca essere
sterili era ancora considerato un infortunio personale, una faccenda che ciascuno doveva risolvere per conto proprio, con o
senza l’aiuto di una clinica. Ma grazie al dottor Weaver anche la sterilità, entrando nell’elenco, era stata promossa a malattia.
Finché il Grande Vuoto non aveva spazzato la terra, allora era diventata la malattia e, per curarla, erano intervenuti scienziati
di ogni grado e formazione, bioingegneri, biologi, embriologi, e chi più ne ha più ne metta. Così i confini della natura si erano
spostati, era subentrata la biotecnologia e mentre una volta, per generare, ci volevano due corpi, adesso è sufficiente qualche
cellula.
Qualche cellula e un micromanipolatore.
Un salto che a Sara, quando si ferma a rifletterci, dà le vertigini.
Ma se accettasse la proposta del dottor Weaver, continuerebbe ad avvertire quel senso di squilibrio? O se ne scorderebbe,
presa dalla routine quotidiana del suo lavoro e dall’entusiasmo per i risultati raggiunti?
Se lo chiede con una punta d’inquietudine. Intanto ascolta le spiegazioni di Tonio e guarda le ciminiere senza fumo lungo la
costa. Non inquinano più, ma è una buona notizia? E fino a che punto lo è? A suo tempo gli operai e le loro famiglie, tra la
fame e il cancro, avevano scelto di morire con la pancia piena. Poi era arrivata la chiusura delle fabbriche. Ora forse hanno
superato la crisi e ritrovato il pane e il lavoro,
ma la capacità di riprodursi? Certi danni genetici non si riparano. Il fumo non c’è più, ma è come se le ciminiere continuassero
a fumare.
È a questo paradosso che pensa, mentre le sfere lontane dei serbatoi si rivestono di luce. A questo e, in verità, anche alla
moglie di Tonio, l’infermiera. Dentro la sua mente c’è pure lei, una figuretta esile e aggraziata che vaga attorno ai margini degli
altri pensieri.

Al contrario del sito industriale, l’albergo non smentisce la sue promesse. È come si presenta: confortevole, arredato in
maniera sobria ma elegante, con stanze ampie che sfociano in piccoli balconi panoramici. I servizi funzionano a dovere e Sara
ha tutto ciò che le serve, anzi molto di più e perfino qualcosa di troppo: una piscina.
Le piscine non dovrebbero esistere in un mondo assetato, in cui la gente si scanna per un sorso d’acqua potabile. In un
Paese civile andrebbero vietate. Quanto meno per decenza. Se non fosse ospite del dottor Weaver, Sara andrebbe volentieri
a cercarsi un altro albergo.
«Ce ne sarà uno come dico io!»
Non ha ancora aperto i bagagli. Tentenna accanto alla valigia, esaminando la camera con occhi inquisitori: le fotografie in
bianco e nero alle pareti, la poltrona, la scrivania d’angolo. Avanza di un passo, poi un altro. Il sole di mezzogiorno riverbera
potente dalla portafinestra che dà sul balconcino e il suo calore si somma alla stanchezza del viaggio.
Sara chiude le persiane, si stende sul letto, fresco, morbido, immacolato, e si addormenta.
«Questo è il Colosseo.»
Tonio è piantato a gambe larghe di fronte a un enorme edificio rotondo, circondato da palazzi moderni, disposti a raggiera.
«Per restaurarlo… eeh, considera le dimensioni! Ci hanno investito una montagna di soldi.» Il fatto è, dice Tonio, che in
origine era stato pensato – e finanziato – per ospitare una serie di servizi governativi. Però poco dopo, in seguito a una
tormentata campagna elettorale tesa a ridurre la spesa pubblica, il nuovo governatore ne aveva cambiato la destinazione
d’uso e l’aveva ceduto a un consorzio, perché ne ricavasse degli appartamenti da affittare a privati cittadini. Ma per colpa della
zona in cui si trovava, all’epoca abbastanza isolata, l’edificio era rimasto com’era: sfitto. Diventando in breve un covo di
spacciatori e di bande che la notte si sfidavano a colpi di fucile. Un Colosseo, per l’appunto. Un’arena per combattenti.
Finché, un bel giorno, non era apparso il dottor Weaver, che aveva comprato tutto. Con i soldi della Società Mondiale per la
Riproduzione Umana, di cui è socio e presidente onorario. «E guarda cosa ne ha ricavato!»
Prima c’era solo il Colosseo, un mostro che faceva la cuccia in mezzo a campi abbandonati, sassi e
sterpaie. Il dottor Weaver l’aveva rimesso in piedi e il mostro aveva mutato pelle, convertendosi in un efficientissimo Centro
biomedico, specializzato in fecondazione, procreazione e scienze della natalità. Grazie alla sua presenza, il luogo aveva
acquistato valore e lì dove non c’era niente adesso vive un quartiere ricreato di sana pianta.
«Il nome però è sempre quello: Colosseo era e Colosseo è per tutti, indigeni e stranieri.» Forse perché le battaglie dentro le
sue mura non sono finite, dice Tonio, anche se oggi sono di tutt’altro genere e i gladiatori vestono camici bianchi e non usano
fucili, ma bisturi e sonde. O magari, più banalmente, continua a chiamarsi così perché la forma esterna dell’edificio non è
cambiata e ha mantenuto il suo stampo circolare. È la parte al chiuso che ha subito una ristrutturazione radicale, è all’interno
che le pareti sono state abbattute e lo spazio completamente riorganizzato e diviso in tre unità. Una raccoglie gli ambulatori e i
reparti medici e infermieristici, un’altra le postazioni di lavoro informatico e di ricerca, l’altra ancora gli uffici e i servizi.
«In uno slargo del cortile, fra poco lo vedrai, hanno costruito due annessi che ospitano vari laboratori: embriologia,
seminologia, crioconservazione.»
Con apparecchiature e macchine che sono quanto di più sofisticato e all’avanguardia si possa desiderare. Un investimento
notevole. E non è tutto, perché il dottor Weaver sta progettando d’incrementare il lavoro di ricerca e di concedere più
autonomia, almeno per quanto riguarda l’organizzazione, alla Casa di maternità.
«Per questo ti ha convocato, perché nella logistica sanitaria sei la migliore. Il dottor Weaver non gioca mai al ribasso»
commenta Tonio. Ma la sua voce oscilla tra un’ammirata deferenza e un tocco di perplessità che fa dire a Sara: «Però c’è
qualcosa che non ti quadra».
Tonio si passa le unghie dentro la barba, pensosamente.
«È che… Io amo le macchine, lo sai, ma a queste non ho ancora fatto il callo. Non le capisco.» Per fortuna, dice agitando le
mani come per scacciare una tentazione, non sono io a doverle capire. È un compito che tocca ad altri. Sono macchine
sensibili, che rimettono in moto quei meccanismi del corpo che noi, nella nostra incoscienza, abbiamo rotto… D’altronde, dopo
aver stravolto la natura, bisogna pur correre ai ripari! Perciò è giusto che il dottor Weaver pretenda una struttura adeguata,
all’altezza della posta in gioco. E in un Centro come questo, finalizzato alla natalità, non si possono ottenere buoni risultati
senza una tecnologia avanzata, un’organizzazione rigorosa e un personale attentamente selezionato.
Da noi, prosegue con orgoglio, entrano solo i migliori e tutti devono tenersi aggiornati, medici o tecnici che siano. Perfino le
donne delle pulizie sono obbligate a frequentare un corso di addestramento professionale. Sì, anche loro, perché devono
scordarsi dei vecchi arnesi del mestiere e imparare a muoversi in un ambiente asettico: in laboratorio i rischi di
contaminazione sono elevatissimi, non è certo il
caso di scherzarci sopra. La responsabilità è enorme, tant’è che ogni mobile, ogni oggetto, ogni attrezzo, perfino l’inclinazione
dei tavoli (l’inclinazione!), ogni minimo particolare è progettato apposta per facilitare il lavoro della pulitura. E guai a introdurre
materiale cartaceo! Rilascia polveri contaminanti, perciò è bandito.
«Un progetto grandioso» riassume, abbracciando il Colosseo con un moto ampio della mano. «E tu hai
fiducia in questo progetto.»
«Ci sono alternative? Non lo dico per convincerti a restare con noi, ma…»
Si volta e indica a Sara il lontano profilo degli stabilimenti chimici lungo la costa. «Li hai visti, no? Sono chiusi da un pezzo,
eppure continuano a produrre malattie su malattie in un effetto a catena, senza via d’uscita.»
Ci sono processi, dice, che una volta avviati non si possono arrestare. «Tu sei medico, lo sai meglio di me.»
Ha la barbetta lucida di sudore e seguita a ravviarla ficcandoci dentro le unghie, come fossero un pettine o un rastrello.
«Quello che voglio dire… Insomma, guarda quest’isola! Per secoli è stata una riserva demografica. Quando mancava la
manodopera, il continente la prelevava da qui. Prendeva, prendeva… Poi il veleno è entrato nel sangue delle donne e
nessuno, nemmeno il dottor Weaver, è riuscito a cavarlo via, così oggi è rimasto ben poco da prendere. A parte quello che
offre il Colosseo.»
Lascia cadere il braccio lungo il fianco, con una certa pesantezza.
«Ma vieni, andiamo dentro. Ti faccio vedere i locali. Quelli aperti al pubblico» chiarisce subito. «Perdonami, ma non posso
fare un’eccezione nemmeno per te, fino a nuovo ordine sei una semplice visitatrice e il tuo cartellino consente l’accesso solo
ad alcune aree. Domani, dopo il colloquio con il dottor Weaver, spero di farti vedere il resto. È domani il vostro appuntamento,
no?»
Sara conferma inclinando la testa.
Nel piazzale non c’è un filo d’ombra e dall’asfalto sale un odore di catrame che stordisce. Da quella prospettiva ravvicinata,
il Colosseo ha l’aspetto di un fortino ripiegato su se stesso, protetto da un imponente apparato di sicurezza. Ci sono due
uomini a guardia di ogni entrata, telecamere, cavalli di frisia e dissuasori mobili per impedire il passaggio dei veicoli.
«Perché tanti ostacoli, l’isola non è sicura?»
Tonio s’incupisce e sulla fronte gli appare un taglio netto, verticale.
«Precauzioni. Non tutti in paese ci apprezzano, sai come vanno queste cose…» Per molte coppie il dottor Weaver è come
l’angelo del Signore: dopo aver ascoltato il suo annuncio, accettano a occhi chiusi il dono e gli mostrano riconoscenza. Per
altri, al contrario, è un ciarlatano o un diavolo dell’inferno. Un demonio tentatore, perché è Dio, e Dio soltanto, ad aprire e
chiudere il grembo, così come apre e chiude le cateratte del cielo. Ma non è stato il Signore a trasformare le torri industriali in
architetture funebri e
monumenti alla sterilità. Non è stata una maledizione divina, dico bene?
«In ogni caso» conclude con un sospiro, «non è facile prevedere le reazioni della gente. Dobbiamo premunirci e stare
all’erta, se non vogliamo che il Colosseo torni com’era, un’arena per gladiatori. Tanto più che il dottore viene da fuori, è uno
straniero, e non ci vuole molto per tramutare uno straniero in un nemico.»
«Anche tu sei straniero» gli ricorda Sara.
«Però mia moglie è di qui.»
«E questo cosa significa? Che agli isolani non importa da dove vieni?»
«No, significa che non sanno come trattarmi. Per loro sono una strana bestia: metà uomo, metà forestiero.»
Ride, ma con un certo imbarazzo, e lei lo ricambia con un sorriso dei suoi. Lento, misurato. Un sorriso che sembra affiorare
da complicate negoziazioni interne.

Per Sara nessuna notte è uguale all’altra. È abituata a dormire in luoghi diversi, in letti diversi, ma ogni volta per ritrovare il
sonno deve capire in quale notte è andata a perdersi.
Questa, osservata dal balconcino della camera d’albergo, è una notte chiara. Leggera. Alla sua destra, la sagoma del
vulcano. Un fragile fumo esce dalla sommità della Montagna e viaggia senza fretta sopra l’isola.
Più in basso, alla sua sinistra, il profilo compatto degli stabilimenti chimici, sovrastato dalle ombre strette e battagliere delle
torri. Pronte, in apparenza, a ridestarsi per scagliare fuoco e fiamme contro il cielo.
Ma è un inganno dell’occhio, ormai lo sa. Una falsa visione, anche se non sembra, perché in questi giochi di prestigio l’isola
è maestra. Li confeziona e li dispensa con la stessa disinvoltura con cui Sara cambia letto.
Certe mattine, così le ha raccontato Tonio, è capace di trasformare l’orizzonte in uno schermo su cui proietta fantastiche
immagini di capannoni industriali, fabbriche e ciminiere gigantesche che sputano nuvole incandescenti. Come se stesse
recuperando una memoria sotterranea e la lanciasse a monito di quanti vivono sulla riva continentale, sull’altra sponda del
vecchio mare. O, viceversa, come se volesse attrarli e sedurli con la magia del suo richiamo.
Sì, l’isola fabbrica miraggi che attirano e respingono al tempo stesso. Un po’ come il Colosseo del dottor Weaver, aveva
osservato Tonio con un piccolo ghigno. «Benvenuta nell’isola della fata Morgana.» L’isola delle illusioni.
6
Kateryna

Secondo Kateryna, è bene che tutti siano in grado di rintracciare la propria fonte. Il proprio inizio. Purtroppo nel suo Paese non
è possibile, ma da noi sì, perché sull’isola, da quando c’è un governo autonomo e indipendente, vige il principio della
trasparenza.
Non è un obbligo di legge, nel senso che le famiglie sono libere di comportarsi nel modo che ritengono più opportuno.
Possono dire o possono tacere, come meglio credono. Del resto, anche volendo, nessuno sarebbe in grado di controllarle,
poiché la maggior parte di loro arriva dal continente e in continente se ne tornerà dopo la nascita del bambino. Ma i nomi di chi
offre il seme e di chi lo riceve sono iscritti all’anagrafe. Perciò chiunque, se lo desidera, può risalire alle proprie origini.
Certi segreti qui non sono ammessi, perché hanno sempre degli echi, degli strascichi ingombranti. E non da ora… Vi
ricordate il povero Edipo? Se gli avessero detto chiaramente di chi era figlio, senza tormentarlo con stupidi indovinelli, non
avrebbe finito con lo sposare sua madre e non si sarebbe accecato per la disperazione. Poi Sofocle, a nostro conforto, ha
preso la storia e l’ha trasformata in un’opera che,
dopo millenni, non ci stanchiamo di applaudire (ma si sa che una tragedia a teatro fa tutt’altro effetto). Insomma, non c’è
dubbio che certi segreti siano nocivi, oggi come ieri e l’altro ieri ancora. Tant’è che la banca del seme, collegata al Centro del
dottor Weaver, non accetta donatori anonimi. Non più.
Li accettava in passato, quando il seme maschile era anonimo per definizione e tutti i donatori avevano una scheda
sanitaria, ma non un nome e un cognome. Le donatrici, al contrario, venivano identificate accuratamente, una per una. Non ho
mai capito il motivo – il motivo “logico” – di quella diversa procedura. E quando l’ho chiesto a Kateryna, lei mi ha risposto che,
in effetti, non c’era un motivo. Era un semplice adeguarsi al senso comune, dato che gli uomini, dal tempo dei tempi, erano
abituati a spargere il loro seme dove capitava e con la massima spensieratezza. «Adesso che è cambiato tutto, anche loro ci
stanno più attenti.»
Io comunque sono nata troppo presto, perciò rientro nel novero di quelli che devono accontentarsi di una cartella clinica. Le
uniche tracce dell’uomo che mi ha donato il suo seme sono racchiuse là dentro. E questo è il mio punto cieco.
Il punto che segna un’ulteriore distanza fra me e Petro, perché neppure lui ha mai passeggiato mano nella mano con suo
padre, ma almeno sa chi era. Per via indiretta, attraverso i ricordi di famiglia, ma sa com’era fatto e quali idee gli giravano per
la testa. Se volesse, potrebbe ricavarci un romanzo, dalle vicende della sua vita. Mentre io di cosa potrei parlare, del suo
gruppo sanguigno? Delle allergie?
Petro ha una storia, io una scheda sanitaria.
Però, in compenso, ho gli stessi capelli di mio cugino: lisci, biondi. Petro li ha ereditati da sua madre, e io pure. Sono il
regalo che è venuto fuori dall’uovo di Kateryna, l’impronta fisica che ci accomuna. Ormai ho quasi diciotto anni e altri bisogni,
ma da bambina questa somiglianza mi sembrava importantissima. E quindi ogni tanto, per confermarla, mi strappavo un
capello e chiedevo a Petro di farmelo confrontare con i suoi. Lui si adattava alla mia statura piegando le ginocchia (ha sette
anni più di me ed è sempre stato piuttosto alto) e mi lasciava armeggiare fra ciocca e ciocca. «Sì» constatavo alla fine, mentre
il sollievo mi allargava il cuore. «Sono identici ai tuoi.»
In quel periodo avevo un solo obiettivo: diventare come lui. Cercavo di imitarlo in tutto e per tutto, nei gesti, negli
atteggiamenti. Se stringeva le labbra in un “no” improvviso e ostinato, le stringevo anch’io, facendo perdere la calma a quanti
ci stavano attorno. Perfino a Irena, la vecchia ostetrica della Casa di maternità, che ci ammoniva alzando l’indice: «Fossero
soltanto i capelli! È per la prepotenza che siete uguali».
Nelle sue intenzioni, era un rimprovero. Per me, una grande soddisfazione.

Irena viene dall’Est, dalla stessa città di Kateryna, ma era qui ben prima di lei. Prima ancora del dottor Weaver, del restauro
del Colosseo e dell’apertura della Casa di maternità.
Nonostante il diploma in ostetricia, il suo lavoro all’epoca consisteva nell’accudire una coppia di anziani. Non per scelta, ma
per forza di cose: con il calo delle nascite le ostetriche erano in sovrannumero e altri lavori, al momento, non se ne trovavano.
Né in patria né altrove. A meno che… C’erano pur sempre le agenzie matrimoniali e le donne dell’Est erano molto richieste,
perché avevano fama d’essere romantiche. Il che, tradotto nel linguaggio delle agenzie, significava: con poche pretese.
Perfette per vedovi e scapoli invecchiati senza una famiglia o una donna qualsiasi che si prendesse cura dei loro acciacchi.
Ma Irena non aveva attraversato un intero continente per fare la serva a questo o a quello, le sue ambizioni erano altre.
Perciò, non appena il Colosseo era risorto convertendosi in un Centro di medicina riproduttiva, aveva inoltrato domanda
d’impiego. Era stata assunta e assegnata, in seguito, alla Casa di maternità.
Per anni aveva lavorato sodo con la speranza di ottenere la qualifica di caporeparto: un riconoscimento
dovuto, per meriti professionali e per anzianità. Stava nell’ordine delle cose e presto o tardi sarebbe successo, di questo era
più che certa. Finché un bel giorno, in maniera del tutto imprevista, ecco piombarle addosso una sconosciuta…
Le piomba fra capo e collo in una rara mattina di sole tenero, che intiepidisce ma non brucia. La temperatura è così mite
che nell’infermeria le imposte sono socchiuse, l’aria condizionata spenta. Lei è seduta al tavolo e sbuffa, china sul registro
dell’accettazione. Chi la capisce, la burocrazia! Il materiale cartaceo è bandito dai laboratori, ma, per legge, gli ingressi in
clinica vanno ancora immatricolati su carta. Documenti su documenti che ingombrano gli uffici e pure certe infermerie, come la
sua.
A poco a poco la mattina cresce e il sole s’infiamma, ma lei se ne accorge a malapena, catturata da quell’assurda
complicazione di calcoli e controlli incrociati. È lì persa dentro i conteggi, quando qualcuno bussa ed entra, senza attendere il
suo “avanti”.
«Sei impegnata?»
«Macché, mi riposo» biascica fra i denti. Non le va di essere interrotta mentre lavora, anche se a farlo è la direttrice. Sara
“piede lungo”, la chiama fra sé e sé, con un pizzico d’invidia per quei piedi saldi che poggiano a terra con tutta la pianta. I suoi
invece sono minuscoli, sproporzionati, ed escono a stento dal gonfiore delle caviglie costringendola ad antipatici esercizi di
equilibrio.
«Vieni» fa. «Venite», perché Sara è in compagnia di una giovane donna dalla pelle chiara e un bel naso dritto, leggermente
arrossato dal sole.
Lì per lì Irena pensa a una nuova ostetrica: ne avrebbero bisogno, Dio sa quanto! Ormai sono tutte dottoresse o infermiere
specializzate in questo e quest’altro, ma in sala parto quello che ci vuole è sempre e comunque una buona ostetrica. L’ha
detto e ridetto un’infinità di volte e ora, forse, chissà… se Sara le ha portato questa ragazza…
Ma Sara dice: «Kateryna è appena arrivata, le sto presentando il personale. Da domani sarà il vostro caporeparto».
Il viso d’Irena si rattrappisce bruscamente. D’istinto, chiude il registro e vi pigia sopra la mano, come per non lasciarselo
sfuggire. I muscoli delle braccia s’irrigidiscono, le dita premono contro la carta. Resta attonita per uno o due secondi, poi
allenta la morsa.
Embè, si rimprovera, cosa credevi? Hanno preferito una giovanotta… ti sembra strano? Quando mai per qualcuno conta
l’esperienza…
Nella stanza è calato un silenzio imbarazzante.
Anche Sara tace, spostando lo sguardo dall’una all’altra. Il solco stizzito tra le sopracciglia di Irena. La piccola vena azzurra
che pulsa sulla tempia della nuova arrivata.
«Siete connazionali» arrischia infine, rivolgendosi all’ostetrica. «Perché non l’aiuti ad ambientarsi?»

Ogni giorno, a tarda sera, Kateryna telefona a sua madre.


Un po’ per nostalgia, un po’ perché la inquieta saperla sola e un po’ perché sente di aver peccato di crudeltà nel portarle
via il bambino.
«Me lo porti via?» Era proprio questo il verbo che aveva usato, con la voce spezzata dei vecchi, mentre le dava una mano
a preparare il bagaglio. «Allora è deciso, me lo porti via?» e Kateryna aveva annuito. «Lui viene con me.» Non poteva fare a
Petro quello che sua madre aveva fatto a lei: non poteva lasciarlo e andarsene per ritornare dopo anni e anni, con gli occhi
stanchi e la bocca cancellata dalle rughe.
Ma non riesce a dimenticare quell’accusa. Così le telefona all’orario stabilito e chiacchiera con lei a lungo, più di quanto
fosse solita chiacchierare nella loro cucina, davanti ai fornelli. Le descrive la sua giornata lavorativa, quindi passa a fornirle
ampi ragguagli sulla casa che le hanno assegnato (grande il doppio del loro appartamento).
Stasera le tocca rassicurarla per quanto riguarda il cibo.
«Sì, in paese a volte è razionato, ma abbiamo il nostro spaccio interno, non ci manca nulla. Non è come alla BioCompany,
dove se ne fregano se mangi oppure no.»
La filosofia del dottor Weaver è molto diversa.
«Filosofia?» fa la voce di sua madre.
Voglio dire, spiega Kateryna, che il centro del dottor Weaver funziona in base a un’altra logica. Ad altre necessità.
Intanto perché si trova su un’isola, con tutti i limiti che questo comporta. I collegamenti, per esempio: oggi sono buoni, ma
domani? Già il posto ti costringe a essere lungimirante, se non vuoi mandare tutto a scatafascio.
Inoltre, a differenza della BioCompany, questa non è (non più) una semplice clinica, una delle tante sparse per il mondo,
fondata per soddisfare le richieste delle coppie con problemi di fertilità. Lo era all’inizio, quando esisteva un unico edificio, un
palazzo a pianta circolare, restaurato appositamente per ospitare un Centro di assistenza medica alla riproduzione. Ma
adesso… Adesso è una vera e propria cittadella scientifica, e accanto alla Casa di maternità, dove si nasce, ci sono laboratori
molto sofisticati, dove s’indaga sulla malattia del vuoto. Bioingegneria. Genetica. Ricerche che costano care, e ricercatori che
non sono certo a buon mercato… Ma gli scienziati (sia i locali che, a maggior ragione, quelli che vengono da fuori), be’, non
vivono di solo studio, hanno anche altre esigenze. Magari più terra terra, tipo mangiare tutti i giorni, avere acqua potabile e
una casa a disposizione. In sintesi: se il Centro vuole tenerseli, deve pur garantirgli una certa qualità di vita!
«E a te la garantisce?» chiede la voce di sua madre.
«A me? Oh sì! Mi ha levato la paura di camminare per strada, ti pare poco?» Da noi, dice, ci sono troppe
armi, e la gente, se appena appena le fai ombra, è pronta a scaricarti il fucile in mezzo alle costole. Per lei era un brutto
vivere. Sempre in tensione, spaventata. Ogni volta che svoltava un angolo, non sapeva cosa aspettarsi. Soprattutto dopo lo
sparo che aveva tolto la vita a quel poveraccio di Viktor… Da allora se l’era scordato il piacere di muoversi come una persona
normale, di uscire, andare al lavoro e tornare a casa senza doversi guardare alle spalle. «Ritrovare quel piacere… Ah, sapessi
che liberazione!»
Con tutto ciò, non è che sia andata a finire in un lembo di paradiso, per carità: santi non ne ha incontrati nemmeno qui,
finora. «Per non parlare del clima, che non è certo migliore del nostro.» Anche l’isola infatti ha i suoi guai, e se in continente i
laghi si trasformano in pantani, qua è il mare ad alzarsi ogni giorno di più e a cancellare strade, fabbriche e campi. L’erosione
delle coste è una vera e propria calamità pubblica.
«Ma tu sei al sicuro?»
«Sono al sicuro» taglia corto Kateryna.
«E Petro è contento?»
«Altroché: va a scuola, finalmente!» Studia, gioca e non è più solo, perché ha trovato quei famosi bambini che gli aveva
promesso. In maniera incauta, va detto, per dargli un contentino e addolcire la fuga. I bambini! Neanche qui sono un esercito,
ma ci sono. E Petro ha avuto il suo compenso. «Tra l’altro, ha smesso di bagnare il letto.»
Tutto bene, quindi.
A parte qualche piccola difficoltà iniziale con la lingua. O meglio, con la lettura, per via del passaggio dai caratteri cirillici a
quelli latini. Che sorpresa, povero Petro! Dopo la prima lezione al corso per stranieri, si era precipitato da lei gridando:
«Mamma, mamma! Mi hanno cambiato l’alfabeto!».
Malgrado ciò, aveva superato senza problemi gli esami di ammissione alla seconda elementare. Sia Petro che lei avevano
familiarizzato piuttosto rapidamente con la nuova lingua, grazie ai corsi speciali. Pagati dall’amministrazione del Centro.
Mah, sospira Kateryna dentro il telefono. Sotto certi aspetti, è comodo vivere all’ombra del Colosseo, come viene
comunemente chiamata la cittadella del dottor Weaver. Un luogo protetto e protettivo, con tutti i vantaggi che ne conseguono.
In quanto al Colosseo, quello vero, lei non l’ha mai visto né di persona né in fotografia. Però se lo immagina così, come un
fortilizio non molto dissimile dal loro. Un mondo a parte, con una sua tranquilla quotidianità che tuttavia emana un antico
sentore carcerario.

Si toglie la mascherina, il copricapo, le sovrascarpe. Si sfila l’uniforme monouso e butta ogni cosa nell’apposito contenitore.
«Sembriamo astronauti in visita su Marte» scherza entrando in infermeria.
Irena dà un’occhiata all’orologio sulla parete: «Scendiamo a prenderci un caffè?» È entrata con il turno delle sei e ha in
bocca una saliva ancora sporca di sonno e di risvegli faticati.
«Volentieri.»
Questo caffè proposto regolarmente, anche se a un’ora variabile del mattino, è ormai il simbolo dell’armistizio in corso fra
Kateryna e la vecchia ostetrica. Non equivale a una firma di pace, ma quasi. Kateryna del resto non ha motivo di esserle
ostile. Più che altro la trova buffa con quelle zampette corte, due piedini incongrui rispetto alla taglia, e la treccia fuori moda,
avvolta intorno al capo come un’aureola brizzolata. Una corona che in passato, nel loro Paese, ornava la testa delle contadine
e che adesso, su di lei, è soltanto un ingombro sotto la cuffia da infermiera.
Ma è brava, professionale, e Kateryna è tutt’altro che maldisposta nei suoi confronti. La rispetta, non le fa pesare il ruolo
che ricopre e ha verso di lei un atteggiamento sciolto, se non proprio amichevole. Da collega.
Irena invece è dubbiosa, ancora incerta se stare sulle sue o mettere a tacere l’orgoglio ferito. Da qualsiasi parte la giri, è
però perfettamente consapevole che non ha molto senso prendersela con una giovane donna sola, che oltretutto ha un figlio
da tirare su. Una compaesana, alla fin fine. E poi, vabbè, la carriera, il prestigio… cose da non sottovalutare… Ma diciamo la
verità, quando mai le mansioni di caporeparto le hanno scaldato il cuore? Fredde come sono. Noiose. In fondo, non è roba per
lei. Le partorienti, quelle sì che la riscaldano. Perfino quando la trattano male e la respingono perché non vogliono svuotare il
ventre e separarsi dal bambino. È curioso, ma per alcune donne, madri naturali o surrogate che siano, l’ideale sarebbe una
gestazione da elefante, lunga venti mesi o giù di lì. E a lei ci vuole del bello e del buono per convincerle che è arrivata l’ora…
Però mai una volta che si sia lasciata prendere dall’impazienza.
Il suo posto è in sala parto, decisamente. O, in alternativa, negli ambulatori dove può tenere sotto controllo l’intera trafila:
visite ginecologiche, test, pick-up e transfer, prelievi e impianti ovocitari. Là dentro è a casa sua. Là capisce subito chi ha le
mani leggere e chi no, e sa quali suggerimenti offrire ai medici per aiutarli a trovare un tocco delicato.
Suo padre. Eh sì, era stato lui a insegnarle la delicatezza, anche se Irena si guarda bene dal confessarlo a chicchessia.
Come potrebbe? Suo padre era un allevatore di bestiame e l’inseminazione artificiale la praticava sulle mucche.
Personalmente. Ne inseminava fino a cinquanta al giorno, tenendo in caldo sul suo corpo, nella tasca interna della tuta, la
pipetta inseminatrice. «Sono creature di carne e di sangue» diceva. «Reagiscono come noi.» Un fatto innegabile, ma chi
gradirebbe l’accostamento?
Irena ridacchia fra sé e sé, poi si giustifica con Kateryna: «Niente, niente. Cose mie». Al bar è l’ora della colazione. Un va
e vieni continuo, camici bianchi, camici scuri, qualche blusa,
qualche giacca e cravatta. Il consueto brusio da voliera. Ma l’ingorgo in prossimità del banco non è affatto usuale e Kateryna
ne scopre la causa un minuto più tardi, non appena si apre uno spiraglio in mezzo alla calca. Allora lo vede: il dottor Weaver,
circondato dagli uomini della sicurezza. Il fianco destro contro il bancone, una tazza sul ripiano d’acciaio.
Ah, pensa. Ecco.
Non capita spesso di vederlo al bar, il dottor Weaver. Anzi, per dirla come va detta, è raro vederlo da qualsiasi parte,
considerando che vive ritirato nei suoi laboratori e che distilla le apparizioni con il contagocce.
È un uomo affascinante, su questo non ci piove. Americano. Di origine asiatica da parte di madre, com’è evidente nel taglio
delle palpebre e nelle sfumature solforose della pelle. Ha avuto quattro mogli, ma un solo figlio (in prime nozze). Molti lo
ammirano, altrettanti lo temono e qualcuno lo giudica un invasato, disposto a qualsiasi azzardo in nome della scienza. Ne
circolano di chiacchiere sul suo conto! Si mormora perfino che non abbia esitato a sperimentare certi farmaci su se stesso.
L’avrebbe fatto, a quanto dicono,
perché vuole capire a ogni costo dove avviene l’interruzione dell’energia, di quella corrente vitale che serve al seme per
fecondare l’uovo. Ma, soprattutto, perché vuole scoprire come riaccenderla, quell’energia, dopo che si è spenta.
È un biologo, in fin dei conti, e come tale appartiene a una razza arrogante che non tollera divieti e limitazioni: la razza degli
scienziati. Perciò non arretra di un passo, sta curvo sui microscopi, verifica, ricerca, e, pur di raggiungere il suo obiettivo,
mette a rischio la sua stessa salute. Così dicono.
Sarà vero o è soltanto una chiacchiera? Kateryna propende per la prima ipotesi: di casi analoghi ne conosce fin troppi per
dubitare dell’autenticità di certe dicerie. Scienziati che si spalmano sul corpo prodotti nocivi, che ingeriscono cibi contaminati,
che provano cure mai sperimentate, e perché? Per registrarne gli effetti! Nella scienza, come nella religione, alberga sempre
un bel po’ di follia, c’è poco da fare.
Comunque lei si annovera fra le ammiratrici del dottor Weaver e, proprio perché lo ammira, in sua presenza si sente timida
e impacciata. Preferisce girargli alla larga, come sta facendo in questo preciso istante.
Irena si è ritirata all’estremità opposta del bancone, allontanandosi dalla calca, e lei la segue. Ha abbandonato l’idea del
caffè per una più familiare tazza di tè nero e, mentre lo rimescola col cucchiaino, ascolta le lagnanze dell’ostetrica. E la pasta
della focaccia che sembra colla, e la maleducazione del cameriere, e questo e quello e quell’altro ancora. Poi di botto si ferma
e con una fuggevole mossa del mento indica qualcuno: «Ha l’occhio lungo, il ragazzo!».
Kateryna alza la testa.
Il ragazzo in questione è una guardia della sicurezza, uno del gruppo raccolto attorno al dottor Weaver. Ha un bel viso
spavaldo e dal berretto gli escono dei ciuffi altrettanto spavaldi, neri e ricci come quelli che solleticavano le orecchie di Andriy.
La sta fissando apertamente, con insistenza, e Irena mugugna: «Sfacciato! So io cosa vuole, quell’aquilotto».
Kateryna scoppia a ridere, ma l’altra fa segno di no: «Non è come t’immagini». Quand’ero giovane, continua, allora sì
erano sempre a caccia di sesso. O di servizi. O di entrambe le cose, possibilmente. Gli uomini! «Ma ora, credi a me, non si
accontentano.»
La teoria di Irena è che, quando vanno a caccia (perché l’abitudine non l’hanno persa), ora puntano più in alto. Cercano
prede selezionate: donne capaci di fare razza. Non è che ragionano, dice. Vogliono soltanto illudersi che una donna fertile
possa compiere il miracolo, anche se loro hanno due sugheri al posto di… Vabbe’, sappiamo cosa. «E tu sei una madre
naturale, non dimenticarlo. Pensaci, prima di fidarti del primo che capita. Da’ retta a una vecchia.»
Ci manca solo che aggiunga: “figlia mia”. Magari con la stessa intonazione di sua madre. Per un attimo Kateryna teme
davvero di sentirglielo dire: “Dammi retta, figlia mia…”. «Ma dai» si difende, «non buttarla sul tragico.»
In barba alla malattia del vuoto, l’amore esiste ancora. E pure il sesso. O no?

Dormire è impossibile.
Glielo impedisce un malessere annidato da qualche parte, fra vertebra e vertebra, nel profondo del corpo, là dove i suoi
ricordi si sono impigliati e fanno resistenza. Nel dormiveglia però le immagini tendono a slittare l’una dentro l’altra e a
sovrapporsi, senza un ordine temporale: di chi sono quei ricci scuri che le sue dita stanno toccando? A chi appartengono
davvero?
Kateryna accende la luce, si alza, mette via i vestiti che aveva lasciato sulla sedia e torna a sdraiarsi. È in procinto di
spegnere la luce quando ci ripensa, allunga la mano e tira a sé la cornice digitale che sta sul comodino, come una sentinella.
Fa scorrere le foto.
Sua madre. Hannah. Julija. E Andriy, in cento versioni: con l’uniforme da volontario, in riva al lago, in piazza davanti alla
chiesa dalle guglie d’oro. Ancora in uniforme. Si è tolto il berretto e mostra un taglio da militare, di una severità mortificante.
I ricordi! Sono soltanto lo specchio della nostalgia, non aiutano ad andare avanti… Ma hanno la stessa consistenza di
quella glassa al limone che piace tanto a suo figlio: si fonde sul palato e scende giù con una dolcezza che corrode le viscere.
«Bravo» si complimenta Kateryna. «Hai imparato a rifarti il letto.»
Petro alza le spalle: «Che ci vuole a imparare».
Da qualche tempo risponde così, brusco, scorbutico.
«Volevo fare una sorpresa alla nonna.» Ma la nonna non verrà a trovarlo, perché le hanno negato il visto, e la delusione lo
rende irascibile. Un cucciolo scontroso.
«Glielo diremo per telefono. Sarà fiera di suo nipote, che si rifà il letto da solo.»
«Va bene, glielo dico.» Nella sua espressione c’è tuttavia un che di furtivo, come se volesse nasconderle qualcosa.
Che cosa? Cosa può voler nascondere a sua madre? E a un tratto il sospetto diventa certezza. «Aspettami
giù al portone, ti raggiungo subito.»
Lui esce e lei torna indietro, fino al lettuccio. Alza la coperta, guarda la macchia umida che si allarga al centro del lenzuolo
e dalle labbra le sfugge un sibilo smorzato.

La delusione è un sentimento di cui è difficile sbarazzarsi, ecco il problema. Non è come la rabbia, che quando esplode ti
toglie un peso. La delusione non se ne va. Si accumula dentro, strato dopo strato, e ti soffoca sotto una coltre di polvere.
Kateryna vorrebbe spazzarla via, scacciare dal visetto di suo figlio quel broncio involontario che lo intristisce. È
un’espressione troppo adulta. Troppo matura. In quel broncio c’è la presa d’atto che la vita gira nel verso che più le piace e
che la realtà è deludente ma inevitabile. Un sasso che nemmeno lei può rimuovere dalla sua strada.
È il giorno libero di Kateryna. Stanno passeggiando lungo la spiaggia e sono arrivati alla rete di contenimento, che delimita
e chiude la zona sicura, sgombra dai detriti. Una zona sorvegliata e ripulita, almeno in teoria, perché pure da questo lato della
barriera la sabbia è sporca, mista a pietrisco e materiali di risulta.
«Fermati» gli ordina. «Non possiamo spingerci oltre.»
Al largo, le onde si accavallano con una leggerezza invitante, ma i cartelli ingiungono: DIVIETO DI BALNEAZIONE.
Né lei né Petro hanno mai fatto un bagno in mare. Prima, quando abitavano sul continente, perché era irraggiungibile. Ora
che ce l’hanno dietro l’angolo di casa, perché trabocca di germi insidiosi. Peccato, pensa. Ma esiste un luogo, uno in tutto il
mondo, dove sia possibile bagnarsi senza rischiare una malattia? Un posto che non sia pericoloso per gli umani? Mah. A
quanto dicono gli esperti, solo i microbi e le meduse fanno la bella vita… E infatti si riproducono allegramente.
«Fermati! Non farmi urlare… Petro!»
Petro però non l’ascolta. Cerca di aggirare lo sbarramento, ma per farlo dovrebbe entrare nell’acqua che è subito alta,
limacciosa. Allora si aggrappa alla rete e schiaccia il naso contro le maglie. Non c’è odore di mare. Sul bagnasciuga il sole sta
disseccando un groviglio di meduse. Spumano, disposte ad arco come il bordo volteggiante di una gonna da ballerina.
«Bada a non graffiarti.»
La rete è corrosa dalla ruggine. Cambiarla spetterebbe al municipio, che però è in deficit perenne e non ha un soldo da
spendere per l’ordinaria manutenzione. Così la rete non si cambia, la vita quotidiana va in rovina e l’intera fascia litoranea è
tornata a essere un deposito di porcherie e rifiuti di varia natura. Kateryna, l’altra sera, ha visto un reportage girato
sull’estrema costa meridionale, dove sono affiorate antiche pozze di stoccaggio, con barili di acciaio sigillati. Nessuno sa che
tipo di scorie contengano, aveva detto il giornalista.
Li hanno scoperti a sud, quei barili, ma potrebbero esserci anche sulla loro spiaggia. Sotterrati alla meno peggio, magari
dentro un deposito clandestino.
No, pensa Kateryna, non è davvero il posto più idoneo per una passeggiata ricreativa. Petro però si era impuntato:
«Andiamo al mare, per favore, ti prego…» Alla fine si era arresa: «Un giretto veloce, eh?». «Sì, mamma. Sì.»
Invece lui non ha la minima intenzione di sbrigarsi e se ne sta appeso alla rete con entrambe le mani, quasi a sfidare la sua
pazienza. La maglietta gli si è arrampicata addosso scoprendo la schiena magra, con la spina dorsale in rilievo.
«Volevi scendere al mare e ti ci ho portato» gli fa notare Kateryna, tirandogli giù la maglietta. «Non sei contento?»
Petro gonfia le labbra in un muto diniego.
«Che c’è, sei arrabbiato?»
Silenzio.
«No? Allora sei triste?»
Petro stringe la rete fino a sbiancarsi le nocche, poi la lascia di colpo e si volta con uno sguardo cupo. Lo sguardo di un
recluso che aspira inutilmente, ma eroicamente, alla libertà.
«Voglio tornare dalla nonna. A casa nostra non ero sfortunato!»
«Sfortunato? Come sarebbe? Chi dice che sei sfortunato?»
«I bambini.»
Dopo di ciò, una parola alla volta, una frase a mezzo e una di corsa, viene fuori tutta la storia. E cioè che i bambini, ossia i
suoi compagni di scuola, si divertono a prenderlo in giro perché ha una mamma e basta.
«Petro, fammi capire…»
Sì, protesta suo figlio, i miei compagni ne hanno almeno due, di mamme, o addirittura tre. E conta sulle dita: mamma uovo,
mamma canguro, mamma giardiniera. Tre.
«Santa pace!»
Kateryna è senza fiato. Avverte un guizzo di panico incombente, ma tenta d’ignorarlo per mettere a fuoco il pericolo: «E
allora? È per questo che ti fanno i dispetti, perché hai solo una mamma?». Un manipolo di bambini coalizzati contro suo
figlio… È vero che nella sua classe Petro è l’eccezione e che soltanto lui è stato concepito all’antica, nel caldo di un grembo,
ma non sono tutti bambini allo stesso modo?
Già, pensa: allo stesso modo. E infatti diffidano delle eccezioni, come tutti i bambini: per loro è buono soltanto ciò che
costituisce la norma. La loro norma. Tutto il resto è fuori gioco. E anche Petro lo è. Una reazione assolutamente prevedibile,
Signore benedetto! Eppure lei non l’aveva messa in conto. Mai e poi mai avrebbe immaginato che potesse verificarsi un simile
“inconveniente”… Se è lecito chiamarlo così.
E ora? si chiede, mentre il panico seguita a inviare segnali confusi al suo cervello. Come devo comportarmi con mio figlio,
come posso fargli capire la situazione?
«Vieni qua» dice. «Ti ricordi di quei bambini senza ombelico che ti facevano tanta paura? Erano solo fantasie della nonna.
E anche questa cosa della sfortuna… Ascoltami bene, perché adesso te la spiego.»

C’è un prima e c’è un dopo.


Il prima, per Kateryna, è colorato di verde. Anzi, di mille tonalità di verde. La striscia di campagna che intravedeva dal
balconcino di sua madre, per esempio, era verde cromo. La fila di colline che digradava verso est, verde nebbioso. Verde
tenero il canneto dove Andriy faceva scivolare la mano sui suoi fianchi, prima che nascesse Petro.
Poi un sole inesorabile aveva tostato i colori.
Sono i vecchi a custodire il ricordo delle cose che non esistono più, e Kateryna, in effetti, si sente vecchia perché teme che
il verde – il “suo” verde – sia svanito per sempre. Al contrario della paura che torna puntuale, inutile negarlo. Torna perché sta
nei fatti, nelle reazioni imprevedibili dei bambini, nel broncio di suo figlio, in quella malattia che svuota il mondo e invece di
facilitare la convivenza, come dovrebbe, la rende più difficile.
Ma il verde, o almeno un suo riflesso, alla fine l’ha ritrovato: eccolo là.
Verde muschio, stabilisce Kateryna fra sé e sé.
È sola nella sala d’aspetto, in attesa di essere ricevuta dalla direttrice, e inganna il tempo osservando il mare dalla vetrata
che occupa un’intera parete. L’acqua è compatta sotto il peso della calura: un prato immobile, senza alberi e senza fiori.
Verde velenoso?
La direttrice è chiusa nel suo studio da un buon quarto d’ora assieme a un medico, uno arrivato di recente. Le pareti sono
sottili, non trattengono i rumori, e Kateryna per discrezione si sposta verso il fondo della stanza, ma le voci continuano a
seguirla.
Lui si sta lamentando di una delle sue pazienti. Single. Al quarto tentativo di fecondazione in vitro. È molto ansiosa, dice, e
questo si può comprendere. «Infatti finora ho sopportato.» Ma quello che proprio non può accettare è che scarichi tutta l’ansia
su di lui e per di più in maniera impropria, perseguitandolo senza alcun riguardo. È capace di telefonargli alle tre di notte solo
per chiedergli: “Ce la farò, dottore,
stavolta ce la farò?”.
«Sta diventando imbarazzante, me la devi levare di torno.»
«Ah sì?» fa la direttrice. «Devo?»
«Scusa. Ti chiedo scusa, ma…»
Ma è sempre la stessa solfa, dice, con le donne che non hanno un partner: confondono i ruoli. Scambiano la funzione del
medico con quella di… che so, un fidanzato, un marito, un compagno. «Per questi trattamenti, forse dovremmo accettare
soltanto le coppie regolari.»
Ahaaa, pensa Kateryna. E vieni a dirlo a una donna che è sola, ovvero single, da una vita? Sei indelicato, signor dottore.
«Coppie regolari… È un consiglio?» La direttrice reagisce con ironia, marcando il tono, ma un attimo dopo cambia registro:
«Noi non discriminiamo nessuno, né single né gay. È la politica della nostra azienda, te lo sei dimenticato? In accordo con la
legislazione locale. Se non vuoi trattare certi casi, o ti manca la pazienza, allora faresti meglio a rivolgerti altrove. A una clinica
più selettiva».
La conversazione ha preso una piega sgradevole. Kateryna ascolta perché non può evitarlo, ma più ascolta più si sente di
troppo. Non ha mai avuto simpatia per chi se ne sta dietro una porta a impicciarsi di faccende non sue, perciò che altro può
fare se non andarsene da quella stanza?
Guarda un’ultima volta il mare, al di là della vetrata. Una massa verde, corposa, che si va coagulando sotto il sole. Quindi
esce dalla sala d’aspetto e si allontana lungo il corridoio.
Ma sì, che fretta c’è? Deve soltanto discutere della riorganizzazione dei turni, non è una cosa urgente, può ben tornare fra
un quarto d’ora.

Per tornare, tornerà, ma non per consultarsi su questioni di lavoro. Infatti succede che appena rientra in reparto squilla il
telefono e, all’altro capo, c’è la maestra di Petro.
Una voce dal timbro vigile. Controllato.
La donna parla lentamente e con semplicità, senza tante ricercatezze lessicali, ma già dopo la prima domanda Kateryna
perde il filo. Non capisce più quello che l’altra le sta dicendo, come se tutto d’un colpo avesse scordato la lingua dell’isola. Le
parole, una per una, sono chiare e comprensibili, ma non si legano fra di loro. Non hanno un significato compiuto. Sono
soltanto dei suoni e Kateryna deve fare uno sforzo terribile per ricondurli a sé, metterli in ordine e trasformarli di nuovo in
parole.
Dov’è Petro. Ma che domanda è?
Comunque sia, cerca di rispondere a tono, imponendosi una calma che in realtà dura quanto un fiato, per essere subito
sostituita da un affanno crescente: «No, qui non c’è, perché mai avrebbe dovuto lasciare la scuola e venire da me… No, le
chiavi di casa a sette anni, certo che no! Allontanato? Chi l’ha allontanato? Ma Signore benedetto, che vuol dire “si è
allontanato”, non aveva nessuna ragione per “allontanarsi”… di nascosto, poi… per andare dove?».
Stringe la cornetta fino a farsi male, mentre l’agitazione diventa rabbia, collera furiosa: «Perché dovrei sapere io dov’è
andato, dovreste saperlo voi! Era a scuola, come fa un bambino a sparire dentro una scuola?».
Parla gridando, ma deve troncare il discorso a metà perché i suoi denti hanno preso a battere con un rumore che le riempie
la bocca. La sua stessa furia la soffoca come un bavaglio. O la museruola di un cane. Guaisce piano, mentre getta sguardi
impazziti qua e là per la stanza, chiedendo aiuto.
E allora Irena, che fino a quel momento aveva fatto da spettatrice, scrocchia le dita, tira su la schiena e in men che non si
dica assume il controllo e dà il via alle operazioni.

Oh, in quanto a efficienza nulla da ridire: l’allarme scatta immediatamente, arriva la polizia, si mobilita la sicurezza interna e il
capo, Tonio in persona, s’impegna da subito per coordinare le ricerche. Kateryna ha ritrovato una parvenza di calma e lo
ringrazia per la tempestività e la sollecitudine nei suoi confronti. È un uomo gentile, e la gentilezza non è mai scontata.
Comunque l’accaduto lo riguarda direttamente, dato che la scuola è di proprietà del Centro e lui ha – o avrebbe – il dovere
della sorveglianza.
Così il Colosseo diviene il punto di raccordo anche per i volontari che accorrono da fuori. Gli uomini che si presentano
vengono registrati all’ingresso e la giovane guardia dai ricci neri li smista nelle varie squadre. È molto compreso nel suo ruolo,
la nuca arrossata dalla tensione.
Nel frattempo Kateryna ha trovato rifugio nello studio di Sara.
La direttrice è uscita a chiedere informazioni, ma Irena è con lei. Non l’ha mai lasciata sola e Kateryna le è riconoscente.
Apprezza il suo appoggio, non è un’ingrata, però adesso vorrebbe che si zittisse, almeno per qualche minuto, Signore
benedetto! Avrebbe bisogno di riacquistare la sua lucidità e ragionare usando il proprio cervello, senza quel ronzio continuo
nelle orecchie. Ma Irena si è impossessata della poltrona girevole di Sara e da lassù continua a frastornarla con le sue
eruzioni verbali: «Dove vuoi che sia, lo troveranno in un battibaleno. Si è messo a disposizione anche Tonio, hai visto, eh!».
Vuole solo essere incoraggiante e alleggerire l’atmosfera, per carità. L’intenzione è buona. Kateryna potrebbe perfino
trovare conforto nel suo cicaleccio disordinato, se non fosse talmente esausta da non avere nemmeno la forza di ascoltarla.
Ha l’impressione di essere paralizzata, prigioniera di un tempo fermo, che non passa mai, e annaspa, annaspa, si dibatte in
fondo a una palude, tra la melma, si sbraccia per risalire in superficie e recuperare il corso normale del tempo. Se almeno
potesse puntellare i piedi a terra…
“Ma terra non ce n’è” diceva la canzone preferita di Andriy.
Davanti a lei, invece, c’è la giovane guardia della sicurezza.
È lui a chiederle: «Com’era vestito?». E Kateryna elenca: maglietta, pantaloni della tuta e cappellino. Rosso, con la visiera.
Più tardi, è ancora lui a riaccompagnarla a casa. Assieme a Irena che, giunti a destinazione, borbotta un mezzo saluto e gli
sbatte la porta in faccia («Uff, occhi di pepe!»).
Ma Kateryna ha già dimenticato la loro presenza. Va dritta in camera di Petro e siede sul lettuccio rifatto da suo figlio. Le
labbra serrate, le mani raccolte in grembo.
Resta immobile nel silenzio della casa, facendo la guardia ai pensieri perché non la travolgano. Nel suo petto si è formato
un grumo che va su, sempre più su, comprime la laringe e sale ancora, cercando di forzarle le labbra. Quando la pressione
diventa intollerabile, Kateryna apre la bocca e lascia che venga fuori un grido. E dopo il primo un altro. Un altro. E un altro.
7
Livia

Qualche tempo fa, una domenica, stavo in cucina ad aiutare Sara. E dopo aver affettato una cipolla, mentre mi asciugavo gli
occhi, ho notato una striscia di vapore al di là della finestra. Era il fumo del vulcano che si liberava dalla Montagna, puntando
verso il continente. Un sottile dito grigio che si tendeva, si allungava per toccare l’altra sponda.
Allora ho pensato: fra poco compirò diciotto anni e non mi sono mai mossa da qui. Resterò inchiodata a questo sgabello per
tutta la vita? E mentre me lo chiedevo, mi è venuto in mente quel proverbio che dice, grosso modo: se stai in paradiso ma non
puoi uscirne, be’, quello è l’inferno.
Non pensavo più solo a me, è chiaro. Piuttosto a Kateryna, a Mariama, a Sara. Alla stessa Livia. A chi non può partire e a
chi parte ma non può fare ritorno. Pensavo ai confini, ai muri, ai posti di blocco. A tutte le barriere disseminate per l’intero
pianeta e al fatto che anche sull’isola ne abbiamo tante, ma tante da non crederci. Appaiono da un giorno all’altro in mezzo a
una strada, fra due quartieri o addirittura fra due caseggiati e, se continua così, alla fine sarà più facile andare sulla luna che
dai vicini.
Ma la nostra specialità sono le transenne. Perché noi, invece di aggiustare, transenniamo: le aree inquinate, i distretti
industriali dismessi, le antiche miniere. Ogni cosa. Perfino i siti archeologici, abbandonati e inattivi da quando ho memoria.
Sono chiuse le necropoli preistoriche e protostoriche. Le rovine della città sacra a Demetra e a Persefone. Il tempio dove
Ulisse depose il suo elmo, in omaggio alle dee. Tutto il mondo di Livia, il mondo che lei amava, è chiuso e transennato e io
non l’ho mai visto. Posso solo immaginarlo, così come immagino Livia mentre lo strappa alla terra con le sue mani.
Era soltanto una ragazza, a quel tempo. Una studentessa alle prese con il primo scavo della sua vita. Ma aveva lavorato
con infinita pazienza, un frammento dopo l’altro, una terracotta, un blocco di marmo, un’avventura continua. E tuttavia,
malgrado i suoi meriti, aveva dovuto aspettare vent’anni per poter tornare. Dopo ben altre avventure e ben altre esperienze,
dopo essersi smarrita fra cliniche e ospedali, dopo aver sperato nelle analisi di Giacomo… Che invece andarono come sapete.

Dunque, ora è libera.


Se può chiamarsi libertà la mancanza, il venir meno di un progetto.
Ma è venuto meno? Quello che Livia può affermare con certezza è che non ne hanno più parlato. Non in maniera aperta.
Potrebbe anche dire, con la stessa certezza, che fino all’altro ieri avevano un progetto in comune e adesso non ce l’hanno
più. Ma non possono o non vogliono averlo? Era stato il referto medico o la reazione di Giacomo, e poi la sua, a cancellare
ogni prospettiva?
Quel gesto contrariato e insieme sbrigativo… La crudezza con cui, di ritorno dalla clinica, le aveva teso il referto: un papiro
lungo quattro pagine, con l’elenco dei test e i risultati delle analisi. E il modo con cui lei l’aveva preso, sfogliato e risfogliato.
Senza leggerlo davvero. Tuttavia notando, a ogni voltar di pagina, quell’aggettivo ricorrente, benché declinato in forme
diverse: patologia severa, alterazioni severe, danni severi. Il seme di Giacomo, in conclusione, non valeva più del suo. Era
stato a quel punto che un pensiero involontario le aveva attraversato la mente: quindi non è solo colpa mia… Ah, che sollievo!
Ma si trattava di un sollievo inconfessabile, che l’aveva lasciata più sola di prima.
E da allora è così che si sente: sola e spersa. Senza progetti.
C’è chi non ha una casa, a lei sembra di non avere un “io”, un senso di sé, a cui tornare. Le manca l’approdo.
Ciò nonostante, ogni mattina seguita a svegliarsi alla stessa ora. Prepara la colazione per Giacomo e il pranzo per Febo,
poi butta giù un caffè distratto e sale in macchina per recarsi al lavoro. Dai suoi studenti.

Dopo i giorni del grande trambusto, dopo le assemblee, i faccia a faccia con le forze dell’ordine e i cortei interni, l’università si
è quietata.
La battaglia contro i veleni della Food&C è tutt’altro che finita, ma si combatte altrove. Sulle reti mediatiche. Nelle stanze
della politica. Dentro le aule giudiziarie.
Si aspetta a breve il parere della Commissione europea: darà o non darà il via libera al pesticida della Food&C? Il parere in
ogni caso avrà un peso istituzionale e quindi ricadrà inevitabilmente sul processo che vede Giko imputato per diffamazione: è
il direttore del giornale, la responsabilità delle parole è sua. Intanto, per fronteggiare ogni evenienza, la Federazione degli
studenti si è mobilitata avviando una raccolta di fondi. E Giko, per tenere alto l’interesse del pubblico, ha moltiplicato le
edizioni del notiziario.
Livia, da parte sua, si aggiorna come può: non chiede a Giacomo, ma legge sul computer gli editoriali del ragazzo e scorre i
titoli degli articoli che escono attorno al tema. Tenendosi informata, ha l’impressione di partecipare. Di offrire la sua solidarietà
(e comunque ha versato un solido contributo sul conto corrente della Federazione).
Oggi però è tempo di esami, non c’è spazio per l’impegno sociale.
Nei corridoi il nervosismo tocca punte di isteria, ma davanti a Livia gli studenti si rilassano: ovvio! la sua è solo una materia
di contorno, facoltativa, perciò vada come vada. Una carenza di tensione che un po’ la indispettisce: non vuole essere temuta
dai ragazzi, ma non vuole nemmeno essere trattata come un’insegnante di ripiego. Una specie di accessorio decorativo e
innocuo, tipo quei gadget che si attaccano sul cruscotto della macchina per renderla più familiare.
In ogni modo procede come di routine e li interroga, uno per uno, attenendosi al programma (le tragedie di Eschilo fra mito
e storia, che altro?).
L’ultima a presentarsi è la solita morettina dall’ombelico scoperto.
Livia la sprona: «Su, si è fatto tardi».
Dal giorno dell’assemblea la ragazza si è affezionata e non fa che starle dietro e prendere appunti. Anche Livia l’ha in
simpatia, le consiglia gli autori da leggere e i testi più significativi. Ogni tanto si chiede come sarebbe avere una figlia con
piercing e tatuaggi: divertente? preoccupante?
«Da dove vogliamo cominciare, da Oreste?» Ma sì, da Oreste il matricida e da Atena che accorre in sua difesa facendogli
da scudo. Atena, “figlia di solo padre”, nata dal cranio di Zeus o dalla sua coscia uterina, a seconda delle versioni.
«Dunque Atena fa assolvere Oreste dal suo delitto. E lui… Ti ricordi con quali parole celebra il trionfo sulla madre?»
La ragazza abbassa lo sguardo e si morde a fondo l’unghia del pollice.
«“Il sangue”…» suggerisce Livia «“il sangue dell’assassinio materno è sopito, appassisce sul palmo… la mia lingua è
monda”… Ma dimmi, cosa rappresenta la sua assoluzione?»
La ragazza continua a rosicchiarsi l’unghia.
«Il debutto di un ordine nuovo!» Batte un dito impaziente sulla cattedra e recita: «“Così agiscono gli dèi del nuovo tempo,
reggono il cosmo varcando le soglie del giusto”… Oreste vince in nome del padre e questo segna il declino del primato
materno sui figli e sulla discendenza. È l’avvento dell’ordine patriarcale, se vogliamo dare retta ad alcuni studiosi… E tu
dovresti sapere quali. Hai letto i libri che ti ho consigliato?».
La morettina si concentra, facendo ballare il ginocchio sotto il ripiano della cattedra. Sulla sua pancia scura, l’anello manda
un bagliore oscillante. Passa un minuto, ne passano due e Livia si spazientisce: «Bada a non deludermi!».
Più che un monito è una minaccia, un avvertimento che suona esagerato alle sue stesse orecchie. Ma per una qualche
misteriosa ragione Livia si sente davvero delusa. Tradita nelle sue attenzioni. Vittima di un abbaglio (a meno che, a
confonderla, non sia proprio questo gran parlare di sangue materno e di figli assassini, che colpiscono a tradimento).
«Ho capito. Non li hai letti.»
La morettina finalmente la guarda, ma come se fosse lei la traditrice. Non prova nemmeno a giustificarsi, si alza con un
gemito strozzato e scappa via piangendo.
Colta alla sprovvista, Livia non sa come reagire. Inseguirla è senza dubbio poco dignitoso, perciò non si muove. Rimane in
cattedra, rigida e sconcertata, ad ascoltare i singhiozzi che si allontanano e diventano un suono neutro. Sempre più fievole.
Quando viene assorbito dal silenzio, si tira su anche lei.
Ormai nel corridoio non c’è più nessuno, perciò raduna le sue cose ed esce chiudendo a chiave la porta dell’aula (di
recente ci sono stati dei furti, lettori digitali trafugati, computer manomessi, piccoli atti di vandalismo). Gira la chiave nella
serratura, quindi si affretta verso la portineria. A testa bassa. Finché un richiamo non la costringe a sollevarla.
«Non correre! Accidenti se vai veloce.»
Antonia? Sì, Antonia. La sua collega di dipartimento. L’organizzatrice del seminario sulle Grandi Madri, che alla fine l’ha
raggiunta e parandosi di fronte a lei, senza riprendere fiato, una mano pigiata sul petto, reclama subito una decisione. «Non
per metterti premura, ma devo saperlo. Ci sarai o no? Sto chiudendo il programma.»
Livia per la verità aveva completamente dimenticato la richiesta di Antonia e la promessa che le aveva fatto: di rifletterci su,
di valutare… Un seminario sulle divinità femminili del Mediterraneo, le Grandi Madri dei primordi: non dovrebbe costarle un
impegno eccessivo, è la sua specializzazione. E tuttavia le sembra di non avere idee, i pensieri le frullano dentro senza
lasciare traccia. Inoltre, parlare in pubblico…
È sempre stata una brava conferenziera, non ha timori o timidezze. Semplicemente, non le va di esibirsi. E tanto meno di
cimentarsi in dibattiti accademici attorno alle madri, seppure in versione mitologica. Non in questo momento. Non con il
cervello ancora scorticato da quel maledetto referto medico.
L’altra nel frattempo ha recuperato il respiro. Abbassa la mano dal petto al fianco, spiana l’orlo della giacca, e, prima che
Livia possa avanzare un’obiezione qualsiasi, annuncia: «Ho una sorpresa per te». Ma non posso garantirti nulla, dice, se non
mi dai la tua disponibilità. Immediatamente. Considera che per i visti ci vuole tempo.
«Per i visti?»
«Se non vuoi che ti rimandino indietro…» Perché il seminario, ecco la sorpresa, si terrà sull’isola di Demetra. «Vicino al
tempio che conosci colonna per colonna, scheggia per scheggia, come dimostra la tua tesi di laurea.» Un lavoro enorme,
prova a lusingarla. Magistrale.
«Non esageriamo, era solo una tesi.»
Che è diventata un libro citato in ogni convegno, replica Antonia. Sarebbe un peccato se mancassi proprio tu, l’autrice dello
studio più completo sull’argomento.
«Mi dispiacerebbe moltissimo» insiste, sporgendosi con tutto il busto verso di lei. «Dimmi che sarai dei
nostri!»
Non è più possibile tergiversare, deve rispondere. Adesso.

«Perché no?» si stupisce Giacomo. «Perché non avresti dovuto accettare l’invito… Hai sempre desiderato tornare laggiù, non
è l’occasione che aspettavi?»
Non esattamente, pensa Livia.
Eh no, i desideri cambiano e pure le priorità e le aspettative.
Tuttavia… Tuttavia l’offerta di Antonia, malgrado una certa vaghezza, si accorda perfettamente con i suoi interessi
professionali ed è senza dubbio un’occasione: per muoversi, per non appassire. E che importa se ha la lingua gonfia di parole
trattenute e pensieri inespressi? Farà come sua sorella, che è maestra nel trasformare qualsiasi sentimento negativo in
un’azione positiva. Sua sorella. Una specialista nell’arte della resistenza, una che in mezzo alla bufera si rimbocca le maniche
e non smette di cercare la via di scampo («Un figlio? posso darvelo io.»). Non sarà male prendere esempio da lei, per una
volta.
«Sì» dice Livia. «È una buona occasione.»
Del resto, non ha mai rinunciato a un viaggio.
Andare da un luogo a un altro, dall’università a un’area di scavo, da uno scavo in corso a un sito ancora intatto, è sempre
stato il suo modo di recuperare lo slancio. Anche per questo ama il suo lavoro, perché le permette di spostarsi e di aggirare il
muro del presente. Da ragazza, non appena iniziava a riempire una valigia, sentiva già la polvere dei cantieri sulla pelle. E la
notte, nel dormiveglia, vedeva scorrere dietro le palpebre chiuse i versi di Omero: “Demetra, dea grande, incomincio a
cantare”…
Era una ragazza piena d’immaginazione. Poi aveva smesso di sognare e, a tenerla desta, erano intervenute le tachicardie
e i disinganni.
«Non starò via per molto» dice.
Guarda il cane che dorme ai loro piedi, sul tavolato della cucina. «E lui? Te ne occupi tu o lo affido a mia sorella?
Francesca lo terrebbe volentieri.»
«Scherzi? Febo resta con me!»
Sentendo il suo nome, Febo drizza le orecchie. Li scruta sospettoso, quindi torna ad accucciarsi con la testa fra le zampe.

Nei suoi ricordi c’erano campi di carciofi, pomodori e zucche. Orti in abbondanza. Ulivi e mandorleti. Certo, l’isola narrata da
Plutarco era sparita da millenni, i viaggiatori non calpestavano più magici tappeti di viole, narcisi e fiori tanto profumati da
stordire i cani da caccia. Però la campagna era viva.
Ora non sono passati neanche vent’anni e vede solo colture artificiali. Serre a non finire. Vivai protetti da teli termosensibili,
che dosano il calore. Capannoni piantati dentro una terra arida, sfibrata dal sole. Ma sotto quelle cupole di materiale plastico
almeno si produce, mentre lungo la costa le fabbriche giacciono nell’abbandono. Cilindri, cerchi, sfere sigillate: dei vecchi
stabilimenti è viva soltanto la geometria.
Ormai sull’isola c’è un’unica industria in grado di svilupparsi e prosperare. E quest’industria è il Centro medico per la
natalità.
Livia non è sicura che “industria” sia il termine più appropriato per un’impresa così speciale. D’altra parte, perché no? La
parola, di per sé, non ha implicazioni etiche, non è buona né cattiva, e il Centro funziona come un normale complesso
ospedaliero: offre assistenza a chi la chiede e intanto dà lavoro, genera reddito, muove l’economia. E non da oggi. Non è
un’industria recente: già vent’anni addietro lavorava a pieno ritmo.
Livia ricorda molto bene la grande struttura rotonda che tutti chiamavano – e ancora chiamano – Colosseo. Un fabbricato
moderno, che aveva in comune con il più grande anfiteatro dell’antichità soltanto la mole e l’idea di potenza che ne scaturiva.
Ecco perché l’aveva notato, anche se in quel periodo i suoi interessi (personali, non solo lavorativi) andavano in tutt’altra
direzione e non aveva motivo per trattenere quell’immagine nella memoria.
Comunque allora era un edificio solitario, adesso è il cuore di una vera e propria città satellite. Funzionale. Efficiente. Com’è
ovvio che sia, del resto, trattandosi della diretta emanazione di un’impresa che più di altre, per la natura del compito che
svolge, ha un decoro da mantenere. E degli obblighi sociali da rispettare. Infatti anche il palazzo in cui si tiene il seminario,
vecchio lascito di una famiglia
dell’aristocrazia locale, l’hanno restaurato con i soldi stanziati dal suo consiglio di amministrazione. Il palazzo è d’epoca
barocca, affacciato sul porto come un’elegante sentinella marina che vigila dall’alto dei muraglioni. Livia, prima di entrare, fa il
giro della terrazza coperta che lo abbraccia su tre lati. Uno scorcio di mare vertiginoso.
All’interno, pavimenti in maiolica policroma, quadri dove le ninfe danzano tenendosi per i polsi e una scala bianca, a fiocco
di nuvola. Nei saloni, il presente si mescola al passato, il bronzo delle statue si affianca ai più moderni materiali sintetici e le
spie elettroniche sorvegliano ceramiche e vasi istoriati che vantano secoli di vita. Livia si fermerebbe a tastarli uno per uno, se
potesse, perché nel suo lavoro si impara dagli oggetti. Dai manufatti di qualsiasi specie. E le dita spesso vedono meglio degli
occhi e in ogni attrito, in ogni tocco, scoprono le faglie del tempo e le sue correnti sotterranee.
Non ha più dubbi o incertezze: è contenta di essere qui. Nei luoghi dove ha imparato a interrogare la storia.
Ancora non è stata alla città sacra e al tempio (che non sono proprio sottomano, come spergiurava
Antonia), ma ci andrà fra qualche giorno, non appena entrerà in possesso dell’apposito lasciapassare. Il sito è abbandonato
da tempo, il museo chiuso, i reperti (le statue delle dee, l’elmo e la lancia di Ulisse, le lucerne, le grandi coppe sacrificali)
trasferiti in continente. Ma non contano solo i reperti. Conta anche il luogo. E Livia vuole tornare là dove, secondo Plutarco, la
Madre e la Figlia, le dee venerate in coppia, erano apparse ai contadini che aravano i campi. Vuole entrare di nuovo nel
sacello dove la Madre sussurrava agli adepti il segreto della vita che si riproduce in terra, in cielo, nelle acque salate e in
quelle
dolci. Vuole ritrovare il sapore del mistero più antico di tutti, quello che in ogni tempo fa battere il cuore degli esseri viventi.
Intanto, nell’attesa, si gode questo palazzo. Sala dopo sala.
Del seminario farebbe volentieri a meno, non crede possa offrirle granché, e inoltre diffida di Antonia e delle sue capacità
teoriche, oltre che organizzative. Insomma, è alquanto scettica. Ma ormai è tardi per tirarsi indietro. Perciò siede in prima fila
accanto agli altri relatori e si dispone a pazientare. Qualche saluto di circostanza. Brevi comunicati di servizio. Poi Antonia
comincia a parlare e, di lì a qualche minuto, la diffidenza di Livia vacilla.

All’inizio, nello scorrere l’elenco degli interventi, aveva arricciato il naso: un fritto misto, un ibrido senza capo né coda. Perché
mescolare discipline così distanti l’una dall’altra? Giurisprudenza e psicanalisi, storia e medicina, arte e scienze biologiche. Il
tutto condito da qualche spruzzo di archeologia. Inoltre dal titolo del convegno era scomparso ogni riferimento all’oggetto di
sua competenza: Demetra e il potere materno nell’area del Mediterraneo. Il tema si era allargato e la nuova formulazione, a
suo parere, aveva assunto un carattere piuttosto generico.
“Dalla Madre alle madri, un percorso storico.”
Sposta completamente l’asse del seminario, si era detta. Con un po’ di rammarico. Ma ora, ascoltando l’intervento
introduttivo di Antonia, tende a ricredersi. E più l’ascolta più le sembra di capire la sua proposta, nella sostanza e pure nel
metodo. Impegnare tutte le discipline, moltiplicare i punti di vista, farli incontrare e scontrare fra di loro. Usare tutte le facoltà
immaginative di cui si può disporre. Abbattere gli steccati fra la percezione e la conoscenza. Attraversare il mito per
raggiungere la concretezza del presente… Forse non è un sistema canonico, ma è senz’altro il migliore per affrontare quella
domanda impossibile, che fino a ieri era un nonsenso e oggi è un tormento: chi è una madre? che cos’è una madre? perché,
all’improvviso, è diventato così difficile definirla?
(E magari qualcuno dei presenti avesse una risposta! Livia non chiede di meglio: da troppo tempo ha queste domande
ficcate in gola come spine.)
«Ma alla teoria penserete voi» sta dicendo Antonia dal microfono del palco. Tiene davanti a sé, ben aperto, il palmo della
mano, come per allontanare ogni responsabilità a questo proposito. «Io voglio soltanto rammentarvi che le domande da cui
partiamo non sono meri quesiti accademici: sono terreno di combattimento. E poiché in battaglia è pericoloso distrarsi e
guardare più in là, oltre il nemico, non meraviglia che finora nessuno abbia trovato delle risposte convincenti. Ma ricordatevi
che noi siamo qui
proprio per tentare l’operazione inversa: mettere fra parentesi ciò che ci divide, le ideologie, la fede religiosa, le appartenenze
culturali, le specializzazioni disciplinari, per convergere sull’essenziale.» Sulla domanda per eccellenza.
È da quando la maternità si è frantumata, dice, da quando il concepimento e la gravidanza non avvengono più in un solo
corpo, che ci chiediamo: chi ha diritto al nome di madre? La donna che ha dato il suo ovulo, quella che ha accolto l’embrione
nel suo grembo oppure quella che crescerà il bambino? Le leggi sono come ci si aspetta che siano: tassative. Ma variano da
Paese a Paese, perciò, in sostanza, sono altrettanto vaghe delle suggestioni dei poeti. Ed è stato proprio un poeta, tanto
tempo fa, a suggerire: “Lasciate tranquille le creature che nascono, lasciate che scoprano l’aurora, lasciate che diano un nome
ai
loro baci”… Così ogni bacio avrà il suo nome e ogni nome sarà quello giusto.
«I poeti hanno sempre una soluzione… Ma se il nome non è più uno e uno soltanto, cosa accadrà all’Essere unico e
postulato in sé, come dicono i nostri amici filosofi, ossia alla Madre? A lungo andare, non si dissolverà nelle tante, troppe
maniere di nominarla? Anzi, la Madre non si è già persa nelle madri?»
Una pausa. Un’ultima sbirciata ansiosa verso le prime file degli ospiti, dopodiché raduna i fogli sparsi dei suoi appunti: «Un
interrogativo che consegno alla vostra riflessione».
Quando scende dal palco, la platea, per un attimo, si dimentica di applaudire.
L’aveva notata subito perché sedeva al posto d’onore, fra il sindaco e il responsabile del Museo archeologico regionale.
Portamento autorevole. Volto stretto e angoloso, ricco di chiaroscuri. Era stata lei a inaugurare i lavori portando i saluti del
Centro (che fra l’altro, e non a caso, è il principale sponsor del convegno). Antonia, nel darle la parola, l’aveva presentata
come la direttrice della Casa di maternità e allora Livia l’aveva esaminata con maggiore interesse: lunga lunga, di una
magrezza che il nero dell’abbigliamento contribuiva a esaltare.
Che buffa combinazione, si era detta. Una coincidenza, senz’altro. Difficile che fosse una scelta intenzionale… Perché
quella donna era vestita di nero, e il nero, nelle culture primordiali, è il colore della terra, umida e scura come il grembo
materno: è il colore della fertilità. Ma, intenzionale o no, la scelta risultava in perfetta armonia con il lavoro svolto da quella
magra signora. Curiosa consonanza, davvero. Così aveva pensato e, nel pensarlo, le aveva sorriso. Da lontano.
Però poi ecco l’intervallo del pranzo e, senza averlo preordinato, va a finire che si ritrovano fianco a
fianco.
«Sara» dice la donna in nero porgendole la mano e, come sempre succede in questi casi, iniziano a conversare. Sono in
fila per il buffet e, mentre aspettano il loro turno, Sara vuol sapere se è lei, se è Livia l’archeologa che ha condotto gli scavi
attorno al tempio di Demetra.
«Condotto… per carità, ero una studentessa agli ordini di un professore! Ho partecipato, tutto qui.» «Le sembra poco?
L’emozione… Ah! Dev’essere esaltante: il mondo dei miti che si ricompone davanti a te, un pezzo dopo l’altro!» E le confida
che all’università, durante il corso obbligatorio di psicologia, anche lei aveva familiarizzato un po’ con i miti, queste spie,
queste rivelazioni involontarie di ciò che avviene nell’inconscio.
Rivelazioni involontarie? Livia reprime a stento un sussulto: ma che modo è di accostarsi ai miti, d’interpretarli? Spie della
nostra psiche?! Bah. Però si morde le labbra e decide di sorvolare, di non addentrarsi in una discussione che si preannuncia
scivolosa. Ma poi, frugando negli occhi dell’altra, legge un’aspettativa e allora concede: «Forse». Sì, può darsi. Per chi lavora
nello studio di uno psicologo o per un analista magari si tratta di questo, di rivelazioni della psiche. Ma per chi scava in mezzo
alla polvere e ai sassi, per chi è legato alla terra, i miti sono il piedistallo della storia. Della vita materiale. Con i suoi sogni,
questo sì. Con le sue illusioni e i suoi misteri. Svelano ciò che può essere, anche se forse non è.
«In realtà è una questione di prospettiva» ammette infine, conciliante. Ma per gli uomini dei primordi… Be’, per loro un mito
non era più misterioso di quanto non sia per noi un manifesto elettorale. Sara batte le ciglia, ma ormai sono arrivate al buffet e
la conversazione viene rimandata. Dopo aver riempito il vassoio, cercano un tavolo dove riallacciare il filo del discorso. Non lo
trovano, perciò si separano, ciascuna riprende il posto che le è stato assegnato e l’incontro si chiude lì. Almeno per il
momento.

È un buon giorno per mettersi in macchina e partire. L’afa si è attenuata, le nuvole corrono alte sulle case e la loro ombra
ammorbidisce il terreno.
Il viaggio sarà breve: andata e ritorno, dalla mattina alla sera. Per arrivare al tempio ci sono quaranta, al massimo
cinquanta chilometri, non di più. Ma Livia dovrà farseli da sola, perché i suoi colleghi non hanno ottenuto il lasciapassare per
accedere al sito e quindi hanno perso interesse all’escursione. D’altronde là, sulla rocca, ci sono solo impronte sparse,
gradinate che salgono verso il nulla, e cosa può dire ai loro cuori moderni un tempio in rovina?
Dunque andrà da sola, a parte l’autista e un uomo di scorta: una compagnia che non è affatto di suo gradimento.
«L’autista posso accettarlo, ma la scorta no. Non la voglio», aveva protestato con Antonia che, fra le altre cose, si occupava
di tutti i loro spostamenti. Erano dentro un ufficetto messo a disposizione dei convegnisti e, per l’appunto, stavano
organizzando la visita di Livia al suo vecchio cantiere. «Che me ne faccio di una scorta? Non ho bisogno di guardiani o di
spie.»
«E perché mai dovrebbero spiarti?»
«Dicevo tanto per dire… Ma non vedo la necessità di una scorta se l’isola è tranquilla, come tutti mi hanno assicurato. Tu
stessa me l’hai ripetuto fino alla nausea, e ora che c’è, ti ricredi?» «Non è mia l’idea» si era difesa Antonia, sporgendo il labbro
inferiore in segno di disappunto. Era stanca, il convegno aveva assorbito tutte le sue forze e non voleva seccature all’ultimo
minuto. «È un ordine della polizia: non si può lasciare la città senza scorta.»
«E perché?»
«Perché ieri o l’altro ieri, non mi ricordo, è scomparso un bambino.» Il figlio di un’infermiera della Casa di maternità, le
aveva spiegato pazientemente. Stranieri entrambi, sia la madre che il figlio. Espatriati da poco. L’ipotesi era che il bambino
fosse scappato da scuola – per una bravata, un dispetto o una ripicca infantile, va’ a sapere! – e lo stavano cercando strada
per strada, da tutte le parti. Ma poteva anche trattarsi di un rapimento. Magari organizzato da qualche fazione in guerra contro
i centri di natalità…
Livia l’aveva interrotta: «Non mi risulta che sull’isola ci siano dei soldati di Dio. O di un santo qualsiasi.»
«Non ce ne sono» aveva confermato Antonia. «Quelli attecchiscono solo al Nord, sul continente.» Tuttavia, in compenso, si
erano formati dei gruppi “antinatalisti”.
«Mai sentiti, chi sarebbero?»
«Gente che vede l’umanità come un morbo, una peste che minaccia la Terra e le altre specie viventi.» Erano, in sintesi,
uomini e donne che consideravano immorale riprodursi, sia alla vecchia maniera che alla nuova, tramite la scienza. «In quanto
a questo, eh! sono laici e non fanno distinzioni.» Il labbro inferiore di Antonia si era sporto di nuovo all’ingiù, disapprovando.
«Non sono una vera e propria setta» aveva aggiunto, «anche se vivono riuniti in piccole confraternite, perlopiù
nell’entroterra.» Fino a poco tempo fa si occupavano esclusivamente dei fatti loro, ma alle ultime elezioni si erano risvegliati e
avevano scoperto la politica. Adesso facevano proseliti e chiedevano, anzi pretendevano, nuove leggi per vietare i
finanziamenti pubblici alle case di maternità. «Non vogliono contribuire, con i loro soldi, a tenere in vita una specie distruttiva
come la nostra.»
«Ah no? E tu come lo sai?»
«Ho parlato con l’ufficiale che ti ha assegnato la scorta.» La polizia aveva le sue fonti, naturalmente, e già da un paio di
mesi, se non di più, riceveva segnali allarmanti. Notizie di scontri interni alle confraternite, rapporti su certe frange estreme
che, pur di esercitare una pressione sul parlamento dell’isola, erano disposte a tutto. Anche a commettere un crimine, tipo la
cattura di un ostaggio o un’altra
pazzia del genere. E se davvero c’erano loro dietro la scomparsa del piccolo…
«Finché non viene accertata la cosa, è meglio se ti muovi con la scorta» aveva concluso.
La strada è in pessime condizioni. Lo era già vent’anni addietro e Livia non si aspettava certo un miglioramento, ma questa
trascuratezza, questo abbandono, la mettono di malumore. Com’è possibile, com’è pensabile che un’importante via di transito
(a pochi chilometri da una fortezza tecnologica, oltretutto) si trasformi in un percorso a ostacoli? Perché gli uomini hanno
abdicato alla loro funzione di cura?
Fissa la nuca dell’autista, a neanche un metro dal suo naso. Una pelle vecchia, a intagli e slabbrature. Sempre sul sedile
anteriore, ma dalla parte del passeggero, la guardia di scorta chiacchiera senza darsi tregua. Nemmeno lui è tanto giovane,
per essere una guardia. Tiene sulle ginocchia la pistola d’ordinanza e la lustra e la maneggia con la stessa inquietante
disinvoltura con cui fa andare la lingua. Lui parla, l’altro commenta e ogni tanto scoppiano entrambi in una risatina sarcastica,
da consumati conoscitori dell’andazzo del mondo.
Si stanno allontanando dalla costa, ma il mare si vede ancora. Un lungo bordo grigio che cinge la terra in un abbraccio
svogliato.
Poche le macchine che incrociano, perlopiù autocarri che trascinano rimorchi giganti. O camionette di pattuglia che
sbucano silenziose dal deserto dei campi.
Sovrappensiero, Livia rimesta dentro la borsa alla ricerca di una sigaretta, ma si blocca in tempo: non in macchina, per
l’amor di Dio.
Oltrepassano un ponte a due arcate che scavalca un fiumiciattolo fangoso e arrivano a un villaggio disabitato.
Nell’attraversarlo Livia riconosce la piazza dove ogni mattina, prima di raggiungere il cantiere, si fermava per un caffè e una
focaccia. Davanti al bar, gli uomini giocavano a carte. Le donne sbattevano i panni sui balconi o dalle finestre che si aprivano
direttamente sopra i tavoli dei giocatori. Sul retro, c’era un piccolo campo di calcio. Ora il bar ha la saracinesca abbassata e le
finestre sono vuote, con grosse sbarre di legno inchiodate agli infissi. Anche le porte delle case, da un lato e dall’altro della
via, sono sprangate da traverse di legno. È una parata di croci, una macabra processione che sfila e si perde alle loro spalle.
Livia si volta per un’ultima occhiata dal lunotto posteriore e, mentre il paese si fa sempre più distante, le viene da pensare:
ma quegli antinatalisti, di cosa si preoccupano? Devono solo aspettare che la malattia del vuoto finisca il suo lavoro e spopoli
il resto del pianeta. Quando non troveremo da nessuna parte una generazione di ricambio e pure i calciatori, oltre alle guardie,
avranno cent’anni per gamba, be’, il gioco sarà fatto.
Una curva.
Un tornante.
Comincia la salita verso le montagne, la strada si restringe e l’afa schiaccia contro il guardrail qualche brandello di foschia.
Infine, fra un cocuzzolo e l’altro, in lontananza, appare la rocca e, sulla rocca, il tempio: una chiostra di colonne bianche che si
alza a interrompere il nero fuligginoso della terra. Sembra emersa dalle nebbie del mito apposta per lei.
Livia batte una mano sulla spalla dell’autista: «Può accostare, per favore?» e l’uomo obbedisce, dopo aver completato
l’ennesima curva.
Sono a quattro, forse cinquecento metri sul livello del mare, ma non appena scende dalla macchina viene investita da un
soffio umido e caldo come il muso del suo cane. È senza occhiali, perciò ha difficoltà a mettere a fuoco il sacrario delle dee,
lassù in alto. Molto in alto. Piega il collo all’indietro e, nel farlo, sente correre lungo la schiena il solito, ben noto brivido di
apprensione: non riesce a dimenticare che il bianco, per gli antichi, era il colore delle ossa spolpate. Della morte. No, quello
che trionfa là in cima alla rupe non è il colore di Demetra. O del suo tempio. Sono i secoli, anzi i millenni, che hanno cancellato
il giallo originario, l’ocra, il blu, mettendo a nudo il pallore del marmo. È forse la rivincita del tempo – il Tempo che mangia i
suoi figli – sulla Grande Madre?
Livia raddrizza il collo, ma continua a guardare. E mentre guarda, vede formarsi sulla rocca, dietro e attorno alle colonne,
un alone rosato. Il cielo ha un tremolio, come se la luce si stesse sfaldando. Poi si tinge di mille strisce color sabbia, ruggine,
antracite, che si scompongono, si ricompongono, si fondono e all’improvviso s’innalzano attorcigliandosi su se stesse. Un
serpente che esce dal ventre della terra. Una spirale torbida, solcata da brevi archi fiammanti. Un incendio? Livia torna di
corsa alla macchina.

«Non sento, ripeti.» La guardia di scorta sta parlando al cellulare. «Da dove viene, ovest o sudovest? direzione?
Duecentoventicinque gradi, sì, ho capito.»
Ha le guance congestionate e mentre ascolta gli ordini che gli impartiscono dalla base, cerca di togliersi la giacca. Manovra
non semplice nello spazio di un sedile, con un cellulare attaccato all’orecchio. Poi chiude la comunicazione, si libera
dall’impiccio delle maniche e intima all’autista: «Parti, perdio! Dobbiamo tornare indietro».
«Perché?»
«Per evitare il fumo.»
«Ma dov’è l’incendio?»
«Sì» ribatte Livia dal sedile posteriore, «dov’è l’incendio?» Si sente defraudata della sua meta: era lì a portata di mano e
nel giro di un secondo è diventata irraggiungibile. Per sempre? O solo per il momento?
E che durata potrebbe avere questo “momento”? Ha il diritto di saperlo, ma la guardia sembra reticente e quel mutismo la fa
infuriare. Non tollera di essere esclusa dal cerchio delle informazioni a opera di un tizio qualsiasi, per quanto armato.
L’incendio non c’è, spiega finalmente la guardia. «Non lo vedete perché non c’è.» È piuttosto un rogo interno, una
combustione sotterranea. Secondo i suoi colleghi della base, è successo qualcosa dentro un deposito militare o dentro una
discarica interrata, ancora non si sa con precisione. E questo qualcosa alla fine è uscito dal camino di uno sfiatatoio.
A giudicare dal fumo, lui propende per la discarica. È la zona giusta, d’altronde. Tutte quelle collinette che punteggiano la
valle, ben recintate, quei monticelli squadrati alla perfezione, contengono milioni e milioni di metri cubi di rifiuti d’ogni tipo.
Soprattutto industriali. Le scorie militari sono (o dovrebbero essere) più a sud.
Livia è stupita: «Non lo sapevo. Hanno trasformato la rocca sacra in un immondezzaio?». «Oh, ma la
situazione è sotto controllo!»
«Infatti…» sogghigna l’autista, indicando, alla sua destra, il serpente di fumo sospeso in mezzo al cielo. «Infatti» mormora
Livia.
La strada è di nuovo diritta, senza curve, ma le buche sono quelle di prima e la macchina va avanti a strappi. Ecco un’altra
volta la fila delle croci di legno sulle porte chiuse, ecco il villaggio fantasma. Stanno passando davanti al municipio (la bandiera
è ancora issata sulla cornice del palazzotto), quando il cellulare della guardia torna a farsi sentire.
Pare che il vento abbia cambiato direzione e che spinga il fumo verso la costa. Non è sulla loro traiettoria, affermano dalla
base, ma è più prudente fermarsi e aspettare il cessato allarme. Così l’autista rallenta e finisce per parcheggiare in piazza,
sotto l’insegna del bar.
Dopo un po’, la guardia apre la portiera: «Scendo per un controllo». E Livia si affretta a dire: «Scendo anch’io».
Risoluta, affonda una mano dentro la borsa e, con l’altra, perlustra la tasca a caccia di un accendino: se deve morire
intossicata, tanto vale fumarsi una sigaretta.
All’aperto, tutto assume un aspetto più cupo: la luce è velata, le case sprofondano dentro una polvere rada, nebulosa,
mentre la spirale di fumo si va allargando dietro la montagna. Ormai è una nube grassa e informe, con un cuore turbolento.
Una struttura grandiosa, un gigantesco anfiteatro infernale.
Livia si accende la sigaretta e intanto, per sgranchirsi le gambe, va da un angolo all’altro della piazza. Dallo scheletro di una
panchina a un cartello stradale, dal palo ossidato del cartello a un muro cieco. Più in là non rischia. Gira in tondo senza
allontanarsi, ma in uno di questi andirivieni alla fine la vede: una figuretta raggomitolata su se stessa, che si nasconde nel
vano di un portone. Le ginocchia contro il petto, le braccia attorno alle ginocchia e i capelli calati sul viso come un sipario
protettivo, una barriera contro chissà chi o chissà cosa. Fra le gambe, la visiera sporgente di un berrettuccio rosso. Un
bambino? Sì, un bambino.
Livia guarda a destra, guarda a sinistra: la piazza è vuota, non c’è nessun altro. Solo quel bambino rincantucciato sotto un
portone, che copre la paura con una cascata di capelli. Allora si avvicina, cauta, molto cauta, misurando il passo per non
spaventarlo ulteriormente. «E tu? Da dove spunti…»
8
Chi dà e chi prende

C’è la versione ufficiale, per così dire, e c’è quella di Petro. Decisamente più eroica. Perciò, dovendo scegliere, da bambina
sceglievo la sua.
Mi piaceva immaginarlo, cavaliere solitario, mentre vagava per le campagne, pronto ad affrontare qualsiasi rischio,
qualsiasi nube o pioggia tossica, pur di tornare dalla nonna. Perché era questo il progetto. La sua idea, mi raccontava con
dovizia di particolari, era di raggiungere l’aeroporto, di nascondersi su qualche aereo già in pista, per poi atterrare, trionfante,
dinanzi alla porta della sua vecchia casa. E giurava che ce l’avrebbe fatta, presto o tardi, se Livia non si fosse intromessa. Con
le migliori intenzioni del mondo, questo è vero, perché era convinta che si fosse perso mentre lui, in realtà, si stava
semplicemente riposando. Né più né meno.
Gli credevo con tutto il cuore e con tutta la fantasia. Ma con qualche riserva, perché non mi bastava il suo eterno “io”, “io” e
“io”. Volevo una storia che andasse un po’ oltre.
E Petro lo sapeva.
Infatti, non appena mi stufavo e smettevo di dargli ascolto, correva ai ripari. Pur di riacciuffarmi, si svestiva dei panni
dell’eroe e, facendosi da parte, ampliava il racconto e mi riportava verso di lei. Verso Livia e la notte del loro comune
spavento.

La massa informe della nube è sempre là, schiacciata dietro la Montagna. A mano a mano che il buio si addensa e attenua le
linee di confine, diventa più inafferrabile. Indefinita. Ogni tanto il fascio di luce di un elicottero ne illumina i bordi o fruga dentro
il nucleo, alzando una tempesta di fiamme chimiche.
Livia è seduta accanto al bambino, sotto l’arco di un portone, nella piazza del villaggio spopolato. La volta di pietra, lucida,
bassa, grava sul loro capo formando un guscio protettivo che li isola dal resto della comitiva.
Il bambino è sporco, ha la maglietta stracciata e le unghie nere, come se avesse scavato nei campi in cerca di qualcosa,
magari un tubero o una radice da succhiare. Livia ha provato a pulirgli le mani con un fazzoletto di carta, ma lui, svelto, le ha
nascoste fra le ginocchia. Non vuole il suo aiuto. E dunque adesso siedono lontani, ai due lati del gradino d’ingresso,
sbirciandosi di sottecchi.
Poco più in là, sotto un altro portone, si è acquattato un cane randagio con le orecchie tremanti e una coda ossessiva, che
frusta e rifrusta la terra.
A notte fonda arriva infine l’autorizzazione e la guardia di scorta ordina al suo piccolo drappello di risalire in macchina:
«Possiamo rientrare».
«Anch’io?» chiede il bambino con un filo di voce. Non è la nube dei veleni a renderlo afono, ma la prospettiva di rimanere in
compagnia di quel cane che sferza la terra e scopre i denti contro i fantasmi. «Tu per primo! Fila dentro e zitto.»
La guardia sembra molto, molto arrabbiata e il bambino teme che sia per causa sua. Probabilmente non doveva dirgli quello
che ha detto, e cioè quanto era stato bello, quanto gli era piaciuto sentire tutte quelle persone che urlavano il suo nome al
megafono e lo ripetevano a ogni angolo di strada e oltre, fin sulla spiaggia. «Mi chiamavano tutti!» Ecco. Forse aveva
sbagliato a vantarsi, ma era la verità: tutti lo cercavano!
La notte nel frattempo si è animata. Auto di pattuglia e furgoni della polizia, un’ambulanza che procede in direzione
contraria alla loro, autopompe, uomini in giubbotto giallo e maschera respiratoria a un posto di blocco. Sulle loro teste, le
vibrazioni degli elicotteri.
Ormai sono in prossimità del lungomare. Il buio è meno fitto e Livia distingue nettamente la cittadella, l’ammasso scuro dei
suoi sobborghi, il baluginio fievole del centro e il Colosseo, ben distanziato, che splende come un faro. Diversi gradi di luce
per diversi gradi di ricchezza.
Accanto a lei il bambino, vinto dal sonno, ciondola di traverso sul sedile. A ogni oscillazione della macchina sobbalza
violentemente, senza svegliarsi, e slitta di fianco o in avanti. Livia non osa toccarlo per paura di essere respinta ancora una
volta: è un bambino, ma un bambino testardo, geloso della propria autonomia. All’ennesima scrollata però si decide e adagio,
con circospezione, lo attira verso di sé. Lui brontola a occhi chiusi ma non oppone resistenza, poggia la testa contro il suo
braccio e continua a dormire. Dorme in quella posa per qualche minuto, poi fa un respiro rilassato, scivola giù e le affonda il
viso in grembo.
Si abbandona sulle sue gambe e Livia avverte, attraverso la stoffa, il calore delle guance. Un contatto intimo, infantile. Così
inusuale, per lei, da darle un senso di stordimento. Ha i muscoli del collo in tensione. Percepisce il ronzio del sangue dentro le
orecchie, lo sente formicolare sui polpastrelli.
C’è una tale fiducia in quel sonno di bambino! La sua nuca disegna una curva sottile che va a rifugiarsi tra i capelli biondi,
bagnati di sudore. Livia glieli scosta con delicatezza e indugia a lisciarli, a sgranarli, a ravviarli ciocca per ciocca. Poi vi passa
dentro le dita, rapidamente. Quasi in un impeto di avidità.
Lavandino a pedale, lavaocchi, doccia: questo è tutto. La sala di decontaminazione è spoglia, senza orpelli inutili. L’ambiente
più disadorno che si possa concepire.
A Livia ricorda una cella di clausura: pochi oggetti essenziali, uno spazio chiuso, immobile, concentrato attorno a un corpo
da purificare. Ma questo non è un monastero d’altri tempi, dove si mortificava la carne per esaltare lo spirito. Al contrario, è un
luogo costruito per restituire il corpo a se stesso. Un reparto medico. Composto da due o tre camerini preparatori e altrettante
sale di decontaminazione, protette dalle normali regole di sicurezza sanitaria. Filtri particolari garantiscono il ricambio dell’aria
e lamine sintetiche isolano le pareti, il soffitto e il pavimento: materiali ad alta tecnologia. Come ogni attrezzo all’interno del
Colosseo.
È qui che li hanno ricoverati, in una struttura di pronto soccorso al servizio di tutti i cittadini (l’unica del distretto, peraltro).
Livia si lascia percuotere dall’acqua che dovrebbe scavare dentro i pori e portare via, goccia dopo goccia, ogni molecola di
veleno. A dire il vero dubita dell’efficacia di una simile procedura: è soltanto acqua, come può contrastare l’aggressione di
sostanze che s’infiltrano nella pelle e vanno dritte alle vene? Un’insensatezza. Comunque sia, fa ciò che deve fare,
attenendosi con scrupolo alle direttive delle infermiere in guanti di lattice e mascherina chirurgica.
È l’abituale prassi ospedaliera: decontaminazione più una serie di controlli e accertamenti clinici. Di solito, in contingenze
analoghe, è previsto anche un periodo di quarantena, ma il suo gruppo ha avuto fortuna. Grazie al continuo monitoraggio e al
tempismo della guardia di scorta (maleducata, ma tutt’altro che sprovveduta… e meno male che c’era!), sono sempre rimasti
sottovento. A distanza di sicurezza. Guidati passo per passo, hanno aggirato la nube. Che a sua volta li ha inseguiti, li ha
braccati da vicino crepitando, lanciando artigli di fumo, ma non li ha mai raggiunti.
L’acqua le scorre fra le scapole, s’incanala fra i seni. Livia guarda una goccia che oscilla e s’ingrossa, impigliata nel cavo
del braccio. Tanto limpida quanto la nube era fosca, tumefatta. Un gigante gonfio di miasmi chimici che però, malgrado tutto,
non è riuscito a soffiarle in faccia il suo alito malsano. E dunque l’isolamento non è necessario.
Si asciuga con calma e passa nello spogliatoio.
Antonia le ha portato i vestiti che le servono (quelli che indossava sono finiti nell’inceneritore) e ha insistito per darglieli di
persona. Vuole parlare con lei. Deve parlare con lei: è la sua capodelegazione, in fin dei conti! Perciò, non essendoci rischio di
contagio, il medico le ha concesso dieci minuti fra una visita e l’altra.
Livia la trova intenta a marciare su e giù per lo spogliatoio, terrea in viso e con un’aria di stanca preoccupazione che, alla
sua comparsa, si scioglie in un singulto nervoso: «Che nottata, amica mia!». Che nottata, e si fa avanti a braccia aperte. Ma le
abbassa subito, trasformando il suo slancio in un gesto d’impotenza: meglio evitare contatti, le ha detto l’infermiera. Così
senza ulteriori indugi, da persona pratica qual è e quale appare, dal fermaglio che le trattiene i capelli alle comode scarpe
sportive, passa a esporle il suo problema.
Il “nostro” problema, si corregge, con un imbarazzo vagamente colpevole. Perché Livia, ahimè, dovrà restare in clinica per
qualche giorno prima di essere dimessa, ma lei non può aspettarla. La sua delegazione è in partenza e per molti e svariati
motivi – visti, biglietti aerei, impegni personali – questa partenza non può essere rimandata. In breve: Livia resterà sola ad
affrontare il lungo iter degli accertamenti. Lei però non ha perso tempo e ha già parlato con la direttrice della Casa di maternità
(«L’hai conosciuta al convegno, rammenti?»). Una professionista affidabile, che si è messa a loro completa disposizione e ha
offerto il suo aiuto – il suo aiuto personale – per qualsiasi occorrenza. Fra l’altro, potrebbe sveltire le pratiche d’ingresso per
Giacomo, qualora volesse raggiungerla.
Livia ha una rapida visione di lui in maniche di camicia, mentre si affanna a spostare appuntamenti e a litigare con la sua
socia. Con la sua bella socia, di cui ha smesso di essere gelosa. Un sentimento che non le appartiene più, quasi fosse
diventato inutile. Superfluo, da quando ha scoperto che Giacomo è come lei. Fragile nella sua stessa misura.
«E perché dovrebbe raggiungermi? Per complicare la situazione? In ogni modo non darti pena, con Giacomo ci combatto
io.»
Finalmente rassicurata, Antonia si ammorbidisce. I lineamenti contratti si distendono, la mascella perde l’involontaria
rigidezza. «Povera me» si sfoga. «E pensare che mi angustiavo per quei pazzi! Come li chiamano, antinatalisti?» Non avevo
calcolato, dice, che la pazzia ormai è dappertutto, l’abbiamo seminata sotto ogni pietra… «Ma se non altro, avete riportato a
casa quel bambino.»
«Sì» annuisce Livia, «il bambino.»
Conserva ancora il suo calore sulle ginocchia.

È una sorta di regressione. Le sembra di essere tornata indietro, agli anni in cui era malata: le attese in ambulatorio, la
dipendenza dalle infermiere, gli orari assurdi, il tempo che gira su se stesso. E quell’odore che non è un odore e la segue
ovunque… asettico, impersonale, pericoloso: l’odore dell’estraneità. Del suo corpo che muta.
Il primo giorno lo trascorre a crogiolarsi dentro questo malessere retrospettivo, in un’apatia da convalescente.
È lo shock, si giustifica con se stessa. Mai sottovalutare uno shock.
Ma il giorno dopo già comincia a diventare più recettiva. La sua sensibilità si affina, si acuisce come una seconda vista, fino
a cogliere certe particolari sfumature dell’ambiente, materiale e umano, che la
circonda. L’infermiera che le infila l’ago in vena, per esempio. È vivace, ben truccata, e sorride senza sforzo. Non ha il
portamento sfinito di chi è a perenne contatto con la malattia. Ma solo quando si accosta alla finestra e vede passare in cortile
una donna palesemente, orgogliosamente incinta (da quanto non ne vedeva una!), solo allora Livia si rende conto sul serio,
fino in fondo, della natura del luogo in cui si trova. Il suo è un reparto speciale, isolato dagli altri, ma è pur sempre dentro il
Colosseo. Un posto dove non si muore, nonostante il malaugurio del nome, ma si nasce.
Passa il terzo giorno, passa il quarto e i controlli volgono al termine. Il quinto giorno, Sara la invita nel suo studio, alla Casa
di maternità: vuole farle incontrare la madre del bambino.

Una scrivania. Due tavolinetti rotondi. Qualche poltrona austera. Più una vetrata che fa da cornice al Mediterraneo.
Sara non c’è ancora, è dovuta uscire per qualche urgenza, ma Kateryna è già lì. Davanti alla vetrata panoramica.
Benché la porta non sia chiusa, Livia bussa piano, con le nocche, e Kateryna si gira a metà. I capelli le piovono di sbieco
sulla guancia e lei se ne libera buttandoli indietro, con lo stesso identico gesto di suo figlio. Sorride, poi addita il mare.
«Da quassù sembra innocuo.» Fermo, silenzioso, sempre con un tocco di verde. «Il verde!» sospira, ormai se ne vede più
in acqua che per terra.

Anche Sara è magra, perfino più magra di lei, ma non ha quell’andatura elastica, quell’agilità che permette a Livia di
confondersi tra i suoi studenti. Sara ha un passo più scoordinato. Forse perché è alta, molto alta, e si muove come se le sue
gambe non calcolassero con precisione la distanza dal suolo: la terra è troppo bassa per lei.
Eppure quando camminano assieme, come in questo momento, sembrano in totale sintonia. Non c’è squilibrio tra la fretta
nervosa dell’una e i piedi lunghi dell’altra: avanzano affiatate, con la medesima scioltezza.
Livia sta andando in amministrazione a ritirare le carte che le serviranno per superare i controlli sanitari, all’aeroporto. Sono
i suoi ultimi giorni di permanenza sull’isola, e Sara l’accompagna. Per scrupolo personale e dovere d’ospitalità, ma soprattutto
per una simpatia spontanea che in poco tempo si è trasformata in qualcosa di simile all’amicizia.
“Amicizia” è una parola impegnativa e forse sarebbe più esatto dire che si apprezzano a vicenda. Fra loro comunque corre
un’intesa fatta di somiglianze e diversità. Sara è incuriosita dal mondo di Livia, così distante dal suo. Mentre Livia, da parte
sua, è affascinata dal volto dell’altra, scavato agli angoli dai lampi di un’intelligenza vivida ma inquieta. Un volto enigmatico.
Come la maschera di Demetra, dalle orbite vuote e tuttavia penetranti. Però è anche una donna concreta, con una vasta
esperienza medica, e questo
piace a Livia. Le dà affidamento. E infatti, con quelle sue maniere discrete e insieme imperative, non ci ha messo molto a
tirarle fuori tutta la storia… La sua storia, quella che Livia ha sempre tenuto per sé, ma che aveva bisogno di condividere con
qualcuno, evidentemente, perché con lei ha parlato. Della sua sofferenza, che a volte somiglia a una follia (chi aveva scritto,
secoli addietro, che le donne sono pazze di maternità?). Del suo desiderio ambiguo, altalenante. E anche della proposta di
sua sorella e dei suoi dubbi al riguardo.
Erano nello studio di Sara. E proprio Sara, che fino ad allora aveva ascoltato senza emettere un fiato, qui era intervenuta.
«Se può confortarti, sappi che non erano dubbi infondati. Ne ho visti, di casi…» Non per niente, aveva detto, gli psicologi
sconsigliano la donazione in famiglia o fra amiche intime: dopo la nascita si rischiano continue interferenze che rendono
difficile il ruolo genitoriale. Tutte fanno a gara a chi è più mamma e le liti sono all’ordine del giorno. A scapito del bambino.
«Che non è un trofeo di caccia!»
Poi le aveva chiesto: «Ma perché hai rinunciato? Non c’è solo tua sorella».
Tutt’a un tratto Livia aveva colto nel suo tono una risonanza professionale. Fastidiosa. Come andare a sbattere contro uno
spigolo. Per un po’ era rimasta in silenzio. Ma alla fine aveva mormorato: «Se Giacomo, almeno lui…». Se Giacomo fosse
stato in grado di procreare, le cose sarebbero andate diversamente. Lui avrebbe potuto avere un figlio in una forma meno…
come dire, meno “tecnica”. E lei, grazie a Giacomo, non avrebbe avuto la sensazione d’essere una ladra, una che prende
dalle altre donne senza dare niente in cambio, se non una manciata di denaro.
«Il denaro, capisco.» Ma oltre al denaro, aveva obiettato Sara, ci sono le relazioni umane, e come si può tenere una
contabilità precisa, esatta e veritiera, delle relazioni umane? «Non c’è mai un semplice dare e un semplice prendere, il gioco
delle relazioni è più complesso.»
Dopo di ciò, chiuso il discorso, non l’avevano più riaperto. Ma ora, mentre camminano l’una accanto all’altra, Livia ripensa a
quelle parole e alle sue speranze perse una volta per tutte. Ma le ha perse davvero?
Stanno percorrendo la strada che conduce allo spiazzo del Colosseo, sotto un cielo arido come il cemento. Da una grata
escono i soffi furiosi di un condizionatore d’aria e Livia, per sfuggirgli, scende dal marciapiede. Quindi si ferma e chiede a
bruciapelo: «Secondo te, ho sbagliato a rinunciare? Dovrei insistere?».
Una domanda che Sara non gradisce, a quanto pare. La contrarietà le scava due grinze ai lati del naso, mentre accenna a
proseguire. Ma subito dopo si arrende e si ferma pure lei in mezzo alla strada, sotto il
sole a piombo.
«Cosa mi stai chiedendo, un consiglio?»
«Sì.»
«E come faccio a dartelo? Non posso.»
Anche se volessi, dice, me lo impedirebbe l’etica professionale. Lei, dopo avere ascoltato, può solo indicare un percorso e
prospettare le soluzioni, ma non può interferire con le scelte personali. Non può dire: sì, fallo. Oppure: no, non farlo. Sarebbe
inappropriato da parte sua: una cosa del genere, considerando il lavoro che fa, potrebbe essere interpretata come
un’ingerenza. Una pressione tesa a influenzare la libertà di scelta del singolo. E questa libertà, per lei, è un dogma.
«Ma c’è una cosa che posso dirti, se ti va di sentirla.»
«Certo che mi va.»
«Ieri è venuta da me Kateryna… Per inciso: da noi, nelle nostre strutture, è la donna a scegliere la coppia, o la persona, a
cui dare un figlio. Lo sai, vero?»
«Lo so.»
«Dunque è venuta Kateryna. Non è una donatrice. Però, per ragioni sue che non sto a spiegarti, è convinta che a suo figlio
farebbe bene uscire da un certo isolamento… L’hai visto anche tu, quel bambino…» Per un istante sembra in difficoltà con le
parole, ma è solo un istante. «Insomma, tutti i suoi compagni di scuola hanno qualche cuginetto sparso qua e là per il mondo,
perciò a Kateryna piacerebbe darne uno anche a lui.»
«Un cugino?»
Sara sorride. In epoche non tecnologiche, dice, l’avremmo chiamato con un nome meno gentile: fratellastro. O sorellastra.
Oggi è soltanto un bambino nato dallo stesso seme o dallo stesso uovo, senza suffissi peggiorativi iscritti nel nome.
«Ma Kateryna…»
«Kateryna» la interrompe Sara «è certa che questo allargamento della famiglia, diciamo così, sarebbe una buona cosa per
suo figlio. Inoltre sostiene di essere in debito nei tuoi confronti: sei stata tu a riportarglielo indietro. Perciò, se volessi… Ma ora,
per piacere, togliamoci da qui e andiamo all’ombra.»
Si avvia con impazienza e Livia, in un fulmineo ritorno di consapevolezza, avverte sulle spalle il peso schiacciante del sole.
Come ha fatto a non accorgersi finora di tutto quel caldo? S’incammina dietro a Sara e, intanto che va, nasconde nella tasca
della giacca la mano sudata, chiusa a pugno.
A cena, davanti a una fetta di torta con glassa al limone (il dolce preferito da entrambi, forse perché li riporta ai vecchi sapori
di casa), Kateryna affronta suo figlio.
«Senti, devo farti una domanda, sei pronto? Allora dimmi, ti andrebbe di avere un cuginetto? O magari una cuginetta.»
Il bambino s’immobilizza. Le lancia un’occhiata prudente, trattenuta, ma la diffidenza a poco a poco si stempera e si
trasforma in un riso interno che gli illumina gli occhi. Alla fine non resiste più. Con un’esclamazione di trionfo, lascia cadere il
cucchiaio dentro il piatto e ordina: «Voglio un cugino!». Ma per timore d’avere chiesto troppo, si affretta a concedere,
magnanimo: «Anche una cuginetta potrebbe andare… E starebbe in casa con noi? Mamma, starebbe con noi?».
«No, ma verrebbe a trovarci ogni tanto e ti farebbe compagnia.»
Il bambino si affloscia sulla sedia. Il riso interno si spegne.
«Ogni tanto, seeh. Non ti credo, magari se ne andrà via e ciao, non lo vedremo più.» Però si rianima immediatamente e
contrattacca, con occhi che adesso irradiano furbizia: «Ma nel caso… sì, insomma, quante volte al giorno verrebbe a
trovarci?».
Kateryna sorride dentro di sé: e bravo! siamo già alla contrattazione?

Livia e Giacomo hanno ricominciato a parlarsi di notte, come un tempo, quando la loro intimità era giovane e fresca. Con una
differenza: i loro corpi questa volta non si toccano. Ma non per disinteresse o per marcare un distacco. Più semplicemente,
non giacciono nello stesso letto.
Livia è ancora lontana, nella camera d’albergo dove si è trasferita dopo il periodo di permanenza obbligatoria in clinica. Fra
poco dovrà lasciare l’isola, ma non vuole partire senza aver preso una decisione.
Sara le ha schiuso una porta e benché si tratti appena di uno spiraglio, lei ci si è infilata dentro. Anima e corpo.
È come se avesse ottenuto la sospensione di una pena capitale: che gioia sentirsi ancora viva! Finalmente in grado, ora sì,
di radunare i pezzi sparsi e disarticolati del suo mondo, in attesa di ricomporli e di ritrovare se stessa. La sua stabilità. Perché
laggiù da qualche parte, al termine del percorso intravisto nelle parole di Sara, c’è un ancoraggio. Un approdo.
Eppure quel percorso, nonostante tutto, non può farlo da sola. Deve condividerlo con Giacomo: era questo il loro patto, fin
dall’inizio. E non sarà lei a tradirlo.
Perciò ogni notte, quando rientra in albergo, apre il cellulare e si collega con lui. Parlano.
Discutono.
Sullo schermo i loro volti tremano, un po’ deformati dalla ricezione imperfetta del segnale. Livia argomenta, Giacomo
dondola il capo: sì, certo, ma… Un “ma” che pian piano si dirada, cala di tono, retrocede. Finché una sera non sparisce del
tutto e rimane soltanto il “sì”: sembra fattibile, sì,
proviamo. Purché non ci siano impedimenti legali!

È stato allora?
Me lo chiedo spesso: è stato quello l’attimo in cui si è deciso della mia esistenza? È accaduto tutto in quel momento, cioè
quando l’idea di un figlio è tornata ad annidarsi nella testa di mio padre? Padre putativo, d’accordo. Ma padre per scelta.
D’altronde, è solo dentro i suoi pensieri che un padre (biologico o putativo che sia) può fare il nido per suo figlio, non è
così?
9
Mariama

Ricordo una grande camera e due tende lunghissime, illuminate da una striscia di sole. La mano scura di Mariama mi stava
allacciando un grembiulino: una divisa scolastica? Ricordo che smaniavo, non riuscivo a stare ferma e allora lei, per distrarmi,
si era messa a canticchiare in una lingua sconosciuta. Che tuttavia sapevo essere la sua lingua.
«Olà» cantava sussurrando, «olà».
Difficile comprendere da dove vengano le domande che affollano la mente dei bambini. È probabile che avessi associato il
canto a qualcosa che avevo sentito dire, sta di fatto che smisi di agitarmi per chiederle: «È vero che sei arrivata con la nave?».
Sì, disse. Con la nave.
«E prima? Come sei arrivata fino alla nave?»
«Uh! la bambina domandiera.» Poi, mentre mi allacciava l’ultimo bottone: «Ho camminato, mi sono fermata qua e là, ho
camminato di nuovo».
Una cronaca smilza che nel tempo non si è arricchita, tant’è che ancora oggi, circa il suo famoso viaggio, non ne so molto
di più (se Ulisse fosse stato come lei, il povero Omero avrebbe avuto ben poco da raccontare).
Dunque, tirando le somme, quello che risulta in maniera indiscutibile è che ha camminato per quasi tre anni.
Mille e novanta giorni.
Mariama li ha contati uno per uno (i numeri sono il suo talento) e ha continuato a contarli anche quando è salita sulla nave
che doveva portarla a destinazione. Ossia in Europa, sul continente, come le aveva garantito il cugino della cugina Fanta.
Invece il caso ha voluto che finisse da un’altra parte, sempre in Europa, ma nel bel mezzo del Mediterraneo: sulla nostra isola,
per l’appunto. Dove si è fermata, benché per sostarvi e ottenere riparo (gli isolani non sono più accoglienti dei continentali,
come si vocifera a torto) abbia dovuto dire una bugia.
Se una risposta incompleta, un’omissione, può rientrare nel novero delle bugie… Lei però non aveva intenzione di mentire.
In un momento d’imbarazzo, aveva semplicemente tagliato via una parte di verità perché, pur sforzandosi, non riusciva a
scioglierla in parole. Glielo impediva quella particolare sofferenza che si era impadronita di lei a un certo punto del viaggio,
quando era ancora a metà del cammino, in un campo di prigionia. Lì quel dolore si era attaccato alle sue calcagna con
l’ostinazione di un cane, muto, implacabile, e non l’aveva più mollata.
Così, una volta sull’isola, aveva detto solo quello che sentiva di poter dire.
In ogni caso, e comunque si voglia interpretare il suo silenzio, resta la verità di quei giorni contati uno per uno. Mille e
novanta, secondo i suoi calcoli. E questi calcoli ci dicono che alla sua ultima tappa, prima di salire sulla nave e sbarcare da
noi, Mariama aveva già camminato per più di mille giorni.
Da sola o in compagnia, aveva attraversato boscaglie, distese di terra secca, agglomerati urbani polverosi. Passo dopo
passo, ciac ciac, ciac ciac, fino all’ultima sosta: la boutique di quel lontano parente.

Sì, il cugino della cugina Fanta possedeva un negozio d’abbigliamento. Abiti maschili e femminili comprati a saldo nei
magazzini europei, giacche sportive e completi eleganti che si sposavano bene con la sua collottola grassa, strizzata in una
camicia all’occidentale.
Quando Mariama arriva da lui (e ormai sono passati due anni e nove mesi), i soldi infilati nell’elastico delle mutande sono
finiti da un pezzo. Si presenta così com’è, infradito di plastica, un fagottello in equilibrio sulla testa, e il cugino della cugina ha
un soprassalto. Tuttavia l’accoglie con buonagrazia: ha promesso a Fanta di aiutarla ed è pronto a mantenere l’impegno.
Purché paghi, beninteso, il vitto, l’alloggio e ogni altro disturbo. Come? Tenendo pulito il negozio e anche la casa, sotto la
direzione di sua moglie.
Il lavoro non è troppo gravoso e del resto a Mariama piace affaticarsi, perché mentre fatica può fare a meno di pensare al
suo segreto.
In realtà non vorrebbe che fosse tale, i segreti sono animaletti cattivi, roditori che finiscono per mangiarsi il corpo e lo
spirito, perciò preferirebbe di gran lunga potersi confidare con qualcuno, ma con chi?
A volte, quando proprio non ce la fa a dormire, s’immagina di avere accanto a sé la cugina Fanta o la seconda moglie e
parla con loro. Con Fanta, soprattutto. Si appoggia al suo grande seno accogliente, chiude gli occhi e apre il cuore. A lei può
dirlo di quel bambino che le era cresciuto dentro all’insaputa, un figlio della notte e della sofferenza, nato sulla coperta di un
campo di prigionia. Un figlio vero, perché non basta nascere per essere riconosciuti come figli: al suo paese, soltanto dopo
sette giorni un bambino smette di essere uno spiritello vagabondo per venire accolto nella comunità. È dopo sette giorni che
ha diritto a ricevere un nome. E lui aveva fatto in tempo ad averne uno, Yussuf, prima di essere sepolto nel cimitero del
campo: non proprio la sistemazione più adatta, però in compenso stava accanto a un baobab,
cioè alla dimora degli spiriti ancestrali.
Non l’aveva lasciato solo, quando se n’era andata.
E adesso eccola qua, a pulire, lavare e spazzare nella boutique del cugino di Fanta. Ogni tanto ripone il secchio e le scope
e, per riscattarsi da questa servitù, si trasferisce nel retrobottega, dove dà una mano a tenere in ordine i libri contabili. Un
doppio lavoro, ma quando la vita rischia di farti dimenticare chi sei, devi pur trovare un appiglio a cui aggrapparti! E lei, che è
stata a scuola e sa far di conto, si aggrappa ai numeri, la sua ancora di salvezza.
Un mese. Due.
Poi, allo scadere del terzo mese di permanenza, la moglie del cugino le allunga un paio di banconote e le ordina di
sbrigarsi, perché in strada c’è il suo accompagnatore. Un uomo tarchiato, che inveisce accanto a un minibus già pieno e, nelle
pause tra un’invettiva e l’altra, si rigira in bocca uno stecchino. Mariama esce e lui borbotta con indignazione: «Qua si dorme,
eh». Dopodiché va a sistemarsi dietro il volante.

I primi chilometri sono di costa alta, frastagliata. Il mare rotola tra rocce e faraglioni, riprende furia e va a schiantarsi sopra una
spiaggia formata da pietre grosse quanto il pugno di un gigante. Ma poco per volta, quasi insensibilmente, la riva si distende,
diventa dolce, sabbiosa.
I passeggeri scendono dal minibus. Il mare, davanti a loro, è piatto, pacato, senza increspature. Dev’essere per questo che
nessuno s’inquieta quando l’accompagnatore indica un cargo, una nave lunga e bassa, ormeggiata ad almeno due chilometri
di distanza dalla rada: «Il fondale è sicuro e l’acqua poco profonda, potete raggiungerla a piedi».
L’uomo parla una lingua bastarda. Di quelle che nascono a forza di attraversare i confini, là dove le parole si mischiano ed
entrano l’una nell’altra fino a formare un impasto dal sapore incerto. Le chiamano lingue “di contatto” e in effetti servono a farsi
capire.
«Veloci, veloci» li incita l’uomo. Pressante, mulinando in aria le braccia robuste.
Mariama esita perché non sa nuotare (quando mai ha avuto tempo per queste cose?), ma il ragazzo di fianco a lei grida:
«Avanti! Ormai siamo qui, ci siamo giurati di andare e allora andiamo!». È uno spilungone allampanato come i pescatori del
suo paese, che hanno le gambe più magre della pertica che usano per remare.
Mariama pensa: seh! tu l’hai giurato, ma io, io dove sto andando? perché mi trovo qui con te, chi l’ha deciso? sono stata
proprio io a scegliere il mare, la nave e questa traversata verso la fine del mondo? Un pensiero di cui si vergogna
immediatamente: lei è pur sempre Mariama, non un essere inutile, privo di volontà sua, che va dove gli altri lo spingono. Ecco
chi è: Mariama.
Così avanza.
Il piede, il polpaccio, la coscia, ma non appena l’acqua le arriva al petto un senso di asfissia la costringe ad arrestarsi.
Boccheggia, e tutti i suoi sforzi e i suoi propositi si riducono a un niente. È sul punto di voltarsi per tornare indietro, quando il
ragazzo l’afferra e la sorregge trascinandola con sé: «Avanti! Tutti insieme!».
La marcia continua. Faticosa sulla melma del fondo, fra alghe e sassi scivolosi. Mariama cade dentro pozze invisibili e si
rialza, mentre vortici e mulinelli la trattengono per le caviglie e gli infradito le segano la carne. Li calcia via, e all’improvviso il
mare si riempie di scarpe, sandali e ciabatte. Le onde gliele sbattono contro, dure, taglienti. Le piombano addosso insieme a
zaini, bottiglie e fagotti di ogni tipo, grandi, piccoli, di plastica, di stoffa, con i nodi che si sciolgono nell’acqua. È il bagaglio dei
suoi compagni di traversata: si alleggeriscono per proseguire. Mariama arranca in mezzo a loro, ma sembra che il cargo non
si avvicini di un passo.
Poi sente un tanfo di carburante, una scala instabile, rugginosa, le graffia la pianta dei piedi ed è sulla tolda.
«Da questa parte! Tutti insieme!» urla di nuovo il ragazzo.
Ora il ponte del cargo è pieno di gente che trema nei vestiti bagnati, malgrado ci sia un sole furibondo che infiamma la
pelle. Cento, duecento persone che tremano e bruciano a fasi alterne. Anche Mariama brucia, rabbrividisce, e un attimo dopo
torna a bruciare. C’è ancora qualcuno che sale, benché ormai siano schiacciati l’uno contro l’altro. Muoversi è impossibile e
Mariama avverte sull’anca il contrarsi rabbioso dei muscoli del suo vicino. Richiami. Esclamazioni. Uno strascicare di piedi che
cercano posto e, quando la scaletta viene ritirata, uno stridore acuto. Come il grido battagliero di un uccello.
Infine i motori si accendono, l’imbarcazione si avvia e a poco a poco la costa, già lontana, sparisce dietro l’orizzonte.
Navigano lenti, ma tranquilli. Finché, nello spazio di un fiato, le onde si gonfiano, assediano il cargo e cominciano a
sballottarlo su e giù, verso l’alto e di colpo verso il basso. Un odore di vomito riempie le narici di Mariama. E insieme all’odore
arriva un silenzio che si sovrappone al frastuono delle onde e impregna l’aria di una nuova paura: i motori si sono spenti.
Mariama gira pian piano il capo: a nord, a sud, da tutti i lati c’è solo il mare.
Intanto le onde spazzano il ponte, si riversano sui passeggeri e invadono la stiva. Il cargo ormai ha imbarcato una tale
quantità d’acqua da galleggiare a malapena, a filo della superficie marina. Il panico monta nella stessa misura dell’acqua, ma il
ragazzo, lo spilungone dalle gambe magre, comanda: «Pregate! Su, pregate!». E tutti pregano. Ciascuno si rivolge al proprio
Dio, chi al Cristo, chi ad Allah. Un
uomo che indossa un boubou bianco invoca a gran voce l’aiuto di Serigne Touba, il santo predicatore: «Salvami» implora, «tu
che sai come si fa! tu che saltasti nell’oceano con il tuo tappeto di preghiera! tu
che volevi inginocchiarti e quando i marinai francesi te lo vietarono, saltasti giù!». In mezzo a tante litanie confuse e bagnate,
Mariama sta zitta. Non riesce a pregare, forse perché le risuona in mente un’altra voce, un altro richiamo. Era da un’infinità di
tempo che non lo sentiva: “olà, peperoncino selvaggio, olà”…
Oh, pensa, è strano che lui sia morto per fuoco e io debba morire per acqua. Ma la tristezza di questo pensiero si attenua e
la rassegnazione svanisce, quando i motori si riaccendono e il cargo si rimette in moto. Faticosamente. Penosamente.
Navigano con la luce, con il buio e ancora con la luce prima che il mare lasci intravedere, fra un’onda e l’altra, la sagoma di
una montagna. È un segnale divino, cos’altro può essere dopo tutte quelle preghiere? Il comandante ne approfitta per
cambiare rotta e avvicinarsi alla costa, puntando verso un’insenatura deserta. Poi dice: «Ascoltate, ascoltate!». E li informa,
nella stessa lingua bastarda del loro accompagnatore, che la nave non ce la fa, perciò è costretto a sbarcarli lì. «Ma attenti!
Dovete rimanere nascosti sulla spiaggia fino a quando non avrò ripreso il largo. Altrimenti, se i soldati vi vedono, potrebbero
imbarcarvi di nuovo qua sopra e io dovrei riportarvi indietro, con tutto che il motore funziona un po’ sì e un po’ no ed è
probabile che vada in avaria. Perciò attenzione a non farvi scoprire! Restate calmi» si raccomanda. «Non agitatevi e vedrete
che non sarà difficile trovare un modo per raggiungere il continente.»
Ed è così che Mariama apprende di essere su un’isola.

La Montagna domina su tutto e ricopre con un velo d’ombra il mare e la riva. Il terreno pietroso. L’arenile di ghiaia grigia, dove
gli uomini discutono sulla direzione più conveniente per ciascuno. Si dividono in gruppi. Alcuni si avviano lungo la spiaggia,
altri verso la Montagna. Il gruppetto di Mariama si dirige alla volta di un pendio che sale, di balza in balza, fino a una cupola di
cemento: un bunker abbarbicato al suolo, residuo di una guerra dimenticata. Un rifugio.
La campagna intorno a loro è vuota. Il cielo, di un azzurro sterile. Non c’è traccia di vita da nessuna parte, se si esclude un
gabbiano che li fissa con i suoi occhietti immobili, senza scintille. Gli occhi di Mariama invece sono in fiamme e ardono dentro
le orbite per lo sfinimento. Allora striscia dentro il bunker, si rannicchia in un angolo e chiude le palpebre.
La sveglia il sole che batte con forza contro la feritoia. Mariama apre gli occhi e per un istante pensa di essere laggiù, al
suo Paese, nella fortezza dove attraccavano i negrieri. E questa dev’essere la porta del non ritorno, attraversata dal riflesso
minaccioso dell’Atlantico: una fessura chiara dentro l’oscurità. Chi l’oltrepassa, svanisce. Diventa un fantasma.
Mariama spalanca la bocca cercando l’aria in un respiro convulso. Prova un senso di soffocamento, come se stesse
annegando.
Di botto è in piedi, scavalca i suoi compagni che dormono stesi a terra, il corpo del ragazzo allampanato, il corpo dell’uomo
dai muscoli rabbiosi, poi si china e striscia fuori. Quando è all’aperto, balza su dritta e ricomincia a camminare.
Non ha una meta, non ha un progetto, ma non ha perso il conto dei giorni. Oggi sono mille e novanta e lei ancora cammina.
Sopra un terrapieno, sul ciglio di un viale dissestato, fino a un bivio. Lì si ferma perché, accampata sopra un moncone di
asfalto, c’è una pattuglia di militari.

Il posto dove la portano assomiglia a un campo di prigionia: si entra ma non si esce, se non a determinate condizioni. Tuttavia,
nonostante le guardie e la doppia rete esterna, ha un aspetto meno respingente dei campi che ha conosciuto finora (e ne ha
conosciuti un bel po’ in questi mille e novanta giorni, perché i camminanti come lei vanno sempre a finire lì).
Dunque è un carcere, a tutti gli effetti. Però pulito.
Inoltre, come primo gesto d’accoglienza, le assegnano subito un letto vero, con materasso e lenzuolo. Più qualche
indumento di ricambio. E non fa nulla se la camiciola è troppo larga per il suo busto prosciugato e le casca da tutte le parti,
l’importante è che sia ben lavata e ben stirata.
Nella stanza ci sono due bambini e altre cinque donne (ognuna, però, con il suo letto personale) e Mariama è contenta di
essere in loro compagnia. Sono sedute sull’impiantito grezzo, in cerchio, davanti a un fornelletto e a una cuccuma di tè. Si
stringono per accogliere anche lei e Mariama vorrebbe ringraziare, ma nessuna delle presenti, ahimè, parla la sua lingua o
quell’idioma bastardo che ha imparato durante il viaggio. Le parole restano a galleggiare fra lei e le altre come una schiuma
inerte, senza peso. Non è piacevole, anche se Mariama, per farsi capire, s’ingegna in tutte le maniere, a gesti e perfino a
mugolii, che d’altronde le escono dalla bocca con sospetta naturalezza: sta diventando muta, per caso?
Preme il palmo della mano contro la cintura, dove ha nascosto la lettera che il cugino di Fanta le ha dato per un altro cugino
che lavora in continente. Con lui almeno le parole ritroveranno il loro peso. Ma quanto è lontano il continente e quante navi ci
vorranno, quante, per completare il viaggio?
Interrogativi inutili, buoni soltanto a rendere più acute quelle fitte di stanchezza che le tormentano le ossa. È stremata, e
mentre le sue compagne continuano a bere conversando, va a stendersi sul giaciglio che le hanno dato all’arrivo. La faccia
contro il fresco della parete.
È ancora in questa posizione quando, più tardi, sente uno spiffero caldo sulla schiena e qualcuno entra nella stanza
producendo un certo scompiglio. Voci differenti si alzano in uno scambio di battute rapide. Incomprensibili. I bambini emettono
brevi versi eccitati. Un fruscio di vesti. Un picchiettare di scarpe con la suola dura.
Allora Mariama si scuote e, voltandosi sul fianco, vede due donne che prima non c’erano. Una indossa un camice
professionale, da infermiera. L’altra ha la pelle scura e i capelli coperti da uno spesso velo azzurro girato attorno al collo. Si
sta dirigendo verso il suo letto e, quand’è vicina, giunge le mani e piega leggermente il capo: «La pace sia con te». Un augurio
offerto nella lingua di Mariama. L’accento è raschiato e le vocali martellano invece di dondolare, ma la lingua è la stessa. E a
quel suono la sua mente appannata è di nuovo lucida e vigile: «Benedetta sia la pace!».
La donna dal velo azzurro dice di chiamarsi Aya e di essere un’interprete. Anzi, qualcosa di più: una mediatrice culturale.
Ma poiché Mariama inarca le sopracciglia, spiega con semplicità: «Questo è un campo di transito, sai quanta gente passa da
qui? Gente che viene da luoghi diversi, che ha usanze diverse… È difficile comunicare. Io assisto quelli che arrivano dal mio
Paese o dagli altri Paesi che conosco. Traduco documenti, inoltro domande di asilo, chiedo permessi. Insomma, il mio compito
è di facilitare le cose. E lo farò anche per te, da questo momento fino a quando sarai ospite del campo».
«Davvero lo farai?» si stupisce Mariama. «E perché?»
«È il mio lavoro.»
«Vuoi dire che ti pagano per prenderti cura di noi?»
«Mi pagano, certo.» Poi aggiunge, indicando l’infermiera: «E pagano anche lei… Deve esaminarti per verificare il tuo stato
di salute».
«Adesso? Davanti a tutti?»
«E quando, se no? È una normale precauzione, non vorrai che le altre si ammalino a causa tua!» «Ma io non
sono malata.»
«Meglio così. Ma lei deve visitarti.» E mentre ti visita, continua la donna di nome Aya, noi potremmo cominciare a riempire
qualche carta. «Hai un documento?»
Mariama abbassa la testa, perché si vergogna a dirle che ha solo la lettera del cugino di Fanta. La donna resta in attesa per
un lungo momento, si sistema il velo attorno alle guance e infine sospira: «Vabbe’, vediamo cosa si può fare».

I soldi, l’eterno problema.


Nel campo, per la verità, si mangia gratis perché ogni settimana arrivano gli aiuti internazionali. Ma qualche volta, e oggi è
una di quelle, capita una partita di cibo avariato e chi non ha denaro contante deve digiunare per il resto della settimana.
Mariama è abituata a saltare i pasti, ma i bambini si lamentano. Sono sempre affamati, i bambini. Stasera però devono
accontentarsi di una tazza di tè e di un pezzetto di pane ciascuno, da sbocconcellare adagio.
Anche Yussuf aveva sempre fame. La colpa era del suo seno sgonfio. Mariama glielo spremeva in bocca, lo strizzava con i
polpastrelli, perfino con le unghie, che erano diventate gialle come una papaya troppo matura. Spremeva, ma le uscivano solo
poche gocce amare e così se n’era andato, povero Yussuf, senza aver mai fatto una poppata che lo saziasse.
Mai una: è questo che Mariama non sopporta. E ora, per non vedere i suoi piccoli coinquilini che masticano e rimasticano lo
stesso boccone, non può fare altro che sgusciare via. Scappa fuori senza guardarli, poggia la fronte contro i solchi del muro e
spinge, lasciandosi graffiare.

Una mattina viene un uomo a prelevarla.


Le fa un cenno e Mariama si annoda un fazzoletto dietro le orecchie, infila ai piedi un paio di infradito (provvidenziale
omaggio dell’organizzazione del campo) e ciac ciac, ciac ciac, lo segue prontamente. A mano a mano che camminano, dalle
baracche sbucano altre donne che sbattono gli occhi alla luce del sole e si uniscono alla truppa: sono le sue compagne di
lavoro. Aya infatti ha mantenuto la parola, si è presa cura di lei e le ha procurato un permesso temporaneo, una carta che le
consente di uscire da lì per guadagnarsi il pane e sopravvivere mentre aspetta che qualcuno decida il suo destino. Oggi è la
sua prima uscita.
Dopo aver passato i controlli, l’uomo fa un secondo cenno e tutte salgono sopra un furgoncino in sosta davanti alla rete che
circonda il campo.
A Mariama sembra quasi un’evasione. Il naso pressato contro il vetro, osserva il rettifilo che taglia in due la campagna: una
precaria striscia di asfalto dai bordi corrosi e, ogni tanto, qualche toppa di bitume. Il terreno è asciutto. Non si vedono piante e
non si vedono case, a parte i resti di una fattoria diroccata e il biancheggiare lontano di una serra. Anche sul litorale, attorno
alle fabbriche, non c’è nessuno, né uomini né macchinari in movimento. Le ciminiere si specchiano luccicando sulla superficie
piatta del mare, ma non mandano fumo. E le torri si alzano silenziose, come minareti abbandonati dai loro muezzin.
Il furgone prosegue nella sua corsa solitaria. Ma qualche chilometro più avanti il panorama si ravviva, l’asfalto diventa
liscio, scorrevole, la strada mangia la campagna e, dilatandosi, si trasforma in un viale di città. Largo, trafficato. Con
marciapiedi, palazzi modernissimi, supermercati.
Un mondo che a Mariama appare come il rovescio di quell’altro, inospitale, devastato, che hanno appena attraversato. Due
mondi contrari e distinti. Eppure vivono gomito a gomito e la strada li unisce senza soluzione di continuità.
Tranne per i posti di blocco, dove ogni volta l’uomo del furgone deve mostrare una serie infinita di documenti.
Infine superano l’ultima barriera ed entrano in uno spiazzo che si apre davanti a una grande
costruzione rotonda, da cui si irradiano tante stradette contornate da palazzine e fabbricati più piccoli. Il furgone si ferma, le
donne smontano e, trascurando l’edificio grande, vanno spedite verso i raggi delle vie laterali. Una dopo l’altra, spariscono
dentro le palazzine, dove troveranno un grembiule da allacciare in vita e pavimenti da strofinare.
Mariama scende con loro, ma non si allontana. Per lei è il primo giorno di lavoro e deve attendere l’arrivo di Aya, che è la
sua garante e ha il compito di condurla a destinazione. «Tu non muoverti!» l’aveva avvisata. «E non preoccuparti se tardo di
qualche minuto. Accompagno a scuola mio figlio e sono subito da te.»
Mariama non sapeva che avesse un figlio. D’altronde si conoscono da poche settimane, non sono amiche, perché avrebbe
dovuto saperlo? Ma ora lo sa e questo cambia un po’ le cose. Come se si fosse aperto uno spazio familiare. Uno spiraglio
d’intimità.
Il furgone è ripartito e una macchina ha preso il suo posto. Mariama esplora il piazzale riparando gli occhi con la mano, poi
va a sedersi all’ombra di una tettoia. Si mette comoda e lascia vagare la mente. La smisurata costruzione rotonda, dinanzi a
lei, ha un nome strano che ha già dimenticato. In ogni modo, è un Centro di ricerca medica e alla cugina Fanta tornerebbe
utile, perché la sua attività principale (anche se non esclusiva) è far nascere i bambini. Là dentro ci sono laboratori pieni di
strumenti delicati, e questo significa che le donne del campo non possono entrarci, perché non basta saper maneggiare una
scopa. Prima di pulire un qualsiasi oggetto, bisogna addestrarsi e sostenere un esame. Nelle palazzine invece si può pulire
normalmente. Sono uffici o abitazioni private dove alloggiano i professori, i medici e gli studiosi del Centro.
Uomini importanti.
Magari gli stessi (perché no) che stanno passando davanti a lei, in questo preciso momento. Costeggiano il piazzale,
indaffarati, parlando al telefono, la giacca sbottonata che si apre e sventola sulla camicia candida. Assieme a loro vanno e
vengono gli autisti e le guardie, ciascuno con il proprio berretto di ordinanza. In giacca o in divisa, comunque tutti sono
benvestiti, tutti con le scarpe ai piedi, e tutti, nel passare, le posano addosso uno sguardo vacuo. Distratto. E più gli sguardi
sono leggeri, più le provocano una sgradevole pesantezza alla bocca dello stomaco… Ma lei li vede, oh se li vede! Più
chiaramente di quanto loro vedano lei, e questo non è forse un vantaggio? Una forza in più?
Con una mossa furtiva, senza chinarsi, si sfila le ciabatte di gomma e allarga le dita per assorbire l’energia che dalla terra
sale ai suoi piedi nudi.
Lei è Mariama, che gli altri la vedano oppure no.

Quando ci ripensa, sorride di se stessa: era così timorosa, all’inizio, così diffidente! Aveva l’impressione che perfino i cani le
abbaiassero in una lingua straniera. Ma se Dio vuole è passato il tempo muto, il tempo in cui ogni cosa era diventata
inaccessibile: adesso capisce e si fa capire. E se a tutt’oggi risiede dentro il campo con le nuove arrivate, in compenso ha
cambiato lavoro. Non toglie più lo sporco e la polvere dagli angoli di un ufficio, ma quando è l’ora giusta indossa una
mascherina, proprio come le infermiere, e prepara i biberon alla Casa di maternità.
«Qua ho tante amiche» le aveva confidato Aya nell’accompagnarla. «Sono sicura che ti troverai bene.» E intanto si tirava
sulla fronte il velo, quel giorno color ruggine, che continuava a scivolarle all’indietro e a scoprirle l’attaccatura dei capelli.
Dunque adesso è in servizio alla Casa di maternità, un bel posto, nonostante sia un autentico labirinto. Quando ancora non
sapeva decifrare le scritte sulle frecce direzionali, Mariama ci si perdeva dentro (ottima scusa per ficcare il naso dappertutto).
È talmente grande, la Casa, da riempire un intero palazzo. A pianterreno c’è l’ufficio accettazione, all’ultimo piano lo studio
della direttrice e, in mezzo, i vari reparti. Ma lo spazio è ormai insufficiente a contenere tutti gli ambulatori, e infatti hanno
dovuto smistarne qualcuno in apposite succursali. In più, ci sono da gestire gli alloggi esterni per i genitori forestieri,
soprattutto madri e padri intenzionali. Che poi sono, in parole semplici, quegli uomini e quelle donne che vogliono un bambino
per il solo desiderio di vederlo crescere. E dato che non possono averlo, chiedono il supporto della Casa.
Mariama lo comprende questo desiderio di veder crescere un bambino. Che non è tuo figlio, ma che lo diventa giorno per
giorno. Può comprenderlo, lei che ha partorito un figlio della notte, che rimarrà eternamente bambino. O almeno crede di
poterlo comprendere, che è un po’ come comprenderlo davvero.
In ogni modo, il luogo dove sta più volentieri è quel piccolo ambulatorio accanto alla nursery, dove sterilizza i biberon e
arricchisce e dosa il latte artificiale: un lavoro di precisione. Indispensabile, oltretutto, dato che molte, moltissime donne, per
quanto siano grasse e ricche, hanno un seno inutile come il suo: lei non mangiava, perciò non aveva latte, queste invece ce
l’hanno, ma non è buono per via delle schifezze con cui ogni giorno s’imbottiscono lo stomaco, e dunque va buttato. Un
autentico spreco, con tutti quei biberon da riempire! E non si può utilizzare nemmeno il latte di mucca, perché anche qui la
terra e gli animali sono intossicati, proprio come al suo Paese. La colpa è delle sostanze inquinanti, le ha spiegato Irena, la
vecchia ostetrica che porta la treccia sul capo come lei porterebbe una ciambella di pezza. «Il cibo è inquinato, l’aria è
inquinata, tutto il nostro corpo è inquinato.»
Quindi non resta che il latte artificiale.
Una condanna, per come la intende Mariama.
Ciò nonostante, ogni volta che saggia la temperatura e fa cadere un goccio di quel latte sul dorso della mano, prova una
fitta di piacere. E quando infila il biberon nella boccuccia ingorda di quei bambini e li
vede rilassarsi a poco a poco, quieti e appagati, be’, si sente sazia anche lei.

«Sei svelta a imparare» si congratula Aya.


«Grazie. Ma se sono tanto svelta, perché non mi levano dal campo? Perché mi tocca sempre fare avanti e indietro?»
È giorno di riposo e Aya ha invitato Mariama a casa sua per pranzare assieme. In tavola c’è la loro pietanza tradizionale,
zuppa di pesce con polenta. Mariama però l’assaggia appena, di malavoglia. «Su, prendi» la incita Aya. «Non ti piace il mio
fufu? È farina di manioca, mica la polenta di qui!»
«A me piace» la consola suo figlio, un ragazzetto giudizioso e composto come un adulto. Ma poi sorride e gli incisivi
separati gli regalano, suo malgrado, un’aria impertinente.
«È ottimo» conferma Mariama.
Solo che non ha fame. È troppo angustiata: il suo permesso temporaneo è in scadenza e teme che non le venga rinnovato.
E se dovesse andar via, se fosse costretta a imbarcarsi di nuovo, dove potrebbe andare? All’indirizzo che le ha dato il cugino
di Fanta? Quando ci pensa, le si chiude la testa e l’assale una debolezza infinita, dalla nuca giù fino ai polpacci. Per quanto
tempo, quanto ancora dovrà camminare? Che peccato ha commesso per meritare un simile castigo?
«Voglio fermarmi» sbotta, continuando a rimestare nel piatto.
Non le sembra un’aspirazione stravagante. O un desiderio indecente, che merita d’essere punito. Né tanto meno il frutto di
un’improvvisa pigrizia: i suoi piedi stanchi sono pur sempre i piedi di una lavoratrice! Ma purtroppo, per potersi fermare, non
basta essere svelte nel lavoro e invisibili in strada: la fatica, l’umiltà, nulla sarà mai abbastanza. Su questo Mariama non ha più
dubbi.
Tuttavia, volendo, un sistema ci sarebbe… Quello già sperimentato da Aya, che viene da lontano come lei eppure ha
smesso di camminare. Anche Aya è salita sopra una barca e ha dovuto arrabattarsi e spingere in fuori i gomiti per proteggere
suo figlio. Ma ora è al sicuro e se mangia con gusto è perché finalmente – sì, finalmente! – ha ottenuto la cittadinanza.
Gliel’hanno concessa proprio l’altro ieri, ma non per le sue qualità professionali o umane, benché le une e le altre siano
indiscutibili. Mariama sa per quale motivo l’ha avuta… Perché è una mamma canguro, come la vecchia ostetrica dalla treccia
grigia chiama le donne che partoriscono per un’altra donna. Le mamme canguro hanno diritti che altre non hanno, compreso il
diritto di fermarsi sull’isola, dopo aver partorito.
«Non è così che funziona?»
Aya annuisce: «È un gesto di gratitudine». Il riconoscimento sociale di un debito che non potrà mai essere ripagato. Mai.
«Non c’è moneta che possa farlo.»
La guarda in tralice, corrugando la fronte. «Prima o poi lo capirai…» Sì, assicura, lo capirai anche tu: la gravidanza non è
soltanto un lavoro del corpo, qualcosa che si può quantificare. Non è solo fatica e travaglio, è molto, molto più di questo. È
ansia ed euforia, è condivisione profonda e segreta di sé. È una febbre dell’animo.
Mah, pensa Mariama. Per me è stata un pozzo buio… Vero però che nessuna gravidanza è uguale all’altra e che partorire
in un campo di prigionia non è come partorire alla Casa di maternità: alimentazione adeguata, assistenza medica e riposo,
tanto riposo. Un lusso.
«Tu l’hai fatto» medita ad alta voce. «E se l’hai fatto tu, posso provarci anch’io, non credi?» Aya si porta una mano al collo.
È svestito, libero dal velo nello spazio domestico, e lei ne approfitta per massaggiarlo ripetutamente, mollemente, mentre
riflette.
«No» finisce per dire. «Mi sa che tu non puoi.»
La legislazione locale è molto severa, malgrado le apparenze, e le norme applicative piuttosto complesse, difficili da
aggirare. Anche se gli avvocati, al solito, ci ingrassano sopra. Ma nel tuo caso, spiega Aya con la sua voce gentile, non ci
sono i presupposti di base. L’impedimento è insormontabile: l’articolo dieci della legge, al comma sette, stabilisce infatti che se
una donna vuole partorire per conto di un’altra, deve già avere un figlio suo. Almeno uno. Ma se ancora non hai avuto una
gravidanza, eh! ti manca il requisito fondamentale. E non è una cosa che si può nascondere, i medici se ne accorgerebbero
subito. Alla prima visita. «No» ribadisce. «Sicuramente tu non puoi.»
Mariama fissa il suo alluce nudo nella ciabatta. Apre la bocca, la chiude, esita, ma infine mormora che no, che va bene,
questo non è un ostacolo, perché lei un figlio ce l’ha.
«Ce l’hai?» salta su l’altra. «E dov’è.» Sul suo viso si alternano sconcerto, confusione, sospetto. «Sei arrivata da sola,
nessuna madre arriva da sola!»
Così dice e Mariama, in una frazione di secondo, torna indietro con la mente. Indietro, fino a ritrovarsi sotto il baobab dal
tronco cavo e dai grandi rami spogli, l’albero sacro ai griot, cantori di storie e di genealogie, l’albero dove dimorano gli spiriti
ancestrali che hanno in custodia suo figlio. Allunga istintivamente una mano, come per toccare l’argento lucido della corteccia,
poi la ritrae e bisbiglia: «Lui è
rimasto laggiù, nel Paese dei nostri antenati». E non aggiunge altro.
Ecco la bugia.
Ma era una bugia?
10
Il posto delle meduse

Oggi le ho viste.
Ero al vecchio porto, da tempo in disuso e seminterrato. Una volta era uno scalo importante per navi da carico e da
crociera, con un vasto bacino aperto verso oriente e due grandi moli a guardia del mare. Poi il mare era avanzato lungo
l’intera costa, modificando i fondali. Violente mareggiate avevano distrutto gli ormeggi e le banchine, l’alternarsi di secche e di
piene aveva reso difficile l’ingresso in porto ed era cominciata la decadenza.
Le pietre dei bastioni, però, sono rimaste ancorate al terreno e formano un sentiero alto e sconnesso, proteso verso il
Mediterraneo. Sulla sinistra, c’è l’aeroporto. A destra, un promontorio. Uno sperone roccioso che nasconde un susseguirsi di
insenature e baie deserte, dove continuano a incagliarsi le barche che arrivano dal continente o dalle coste africane. Nella mia
testa sono “le spiagge di Mariama”.
Oggi dunque ero lì e ho visto le margherite di mare.
Le ha portate un’onda lunga, che prima si è increspata, quindi si è distesa e dalle profondità marine è salita un’improvvisa
fioritura. L’acqua è scomparsa sotto una coltre di margherite. Un prato fitto, colmo di fiori dalla corolla gialla e petali bianchi
che palpitavano, luminosi. Era un’invasione di meduse (di quale specie non saprei davvero). Ed era uno spettacolo bellissimo
e spaventoso.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo da tutto quel fiorire, quando ho sentito il rumore di un aereo. Volava basso perché era
in fase di atterraggio. Ma invece di imboccare la pista, inaspettatamente ha virato e si è diretto di nuovo verso il largo. Ha
disegnato in aria un semicerchio ed è tornato ad abbassarsi fin quasi a lambire il prato delle meduse: sembrava che cercasse
un varco per atterrare in mezzo a quei petali che pulsavano e fremevano, invitanti.
Ha ripetuto più e più volte la manovra e io ho seguito tutte le sue evoluzioni, ferma sul molo. Lasciavo che il vento mi
gonfiasse le maniche e intanto osservavo il cielo diviso in due dal solco netto della scia. Finché non mi sono resa conto, con
un morso al cuore, che l’aereo stava sorvolando lo stesso spicchio di mare sorvolato da Livia nel suo ultimo viaggio. La scia
marcava la rotta con una linea senza sbavature, densa e nitida come un segnale. E allora ho immaginato che mi volesse
indicare qualcosa. Forse il punto dove tutte le mie radici si erano intrecciate e il cerchio si era chiuso.

Ma adesso non è ancora il momento.


Il cerchio deve ancora completare il suo giro e, in quanto a Livia, è appena scesa da un aereo che l’ha riportata indietro,
nella sua città. Dopo aver preso la decisione più combattuta della sua vita, ha detto arrivederci a Sara, a Kateryna e a
Mariama, l’ultima che si era aggiunta. Poi ha lasciato l’isola e ha fatto ritorno alla sua quotidianità.
Le lezioni in aula. Le passeggiate con Febo.
Vecchie abitudini dalla crosta dura, che ora però le scorrono addosso fluide come l’ombra sul sentiero del parco.
Per lei, questo è il tempo dell’attesa.
Aspetta di diventare madre, benché il suo corpo non sia mutato e si presenti magro e piatto com’era. Con la pancia
scavata.

«Te lo ricordi il sapore delle zucchine coltivate all’aperto?»


Francesca è al banco degli ortaggi, nel centro commerciale sotto casa. Mentre chiede, gira e rigira fra le mani, guantate di
nylon, una confezione di zucchine di serra, anch’esse avvolte nel nylon. Tutto molto igienico, pensa Livia. Tutto molto
plastificato. L’ambiente ideale per sua sorella, che diffida dei germi in agguato nei mercatini rionali. «Il sapore?» dice. «Non
me lo ricordo. Quelle in ogni modo sono fuori stagione, rimettile al loro posto.»
Ma l’altra insorge: «E perché mai, non ti sei accorta che le stagioni non ci sono più? Giugno o dicembre, non saranno due
zucchine in padella ad aumentare il danno».
Francesca non è mai stata un’ecologista. Non crede ai piccoli gesti virtuosi. Si muove con frettolosa indifferenza tra un
banco e uno scaffale, in mezzo a sacchetti di plastica, imballaggi di plastica, flaconi di plastica, cibo schiacciato dentro
pellicole di plastica. Ora è impegnata con le zucchine. Le tasta attraverso il velo di bioplastica degradabile (non dovrebbe farlo,
ma lo fanno tutti), verifica il prezzo (le verdure ormai costano più della carne) e le butta nel carrello.
«A lei non piacciono, naturalmente.» Ammicca verso sua figlia, ferma davanti al reparto dolci e merendine. «Mangerebbe
solo porcherie piene di additivi.» Una smorfia di allegro disgusto, quindi riporta lo sguardo su Livia: «Grazie di avermi
accompagnato».
Lo dice a mezza bocca, ma lo dice, e a Livia si allarga il respiro: dunque non sono in guerra? «Be’, ho colto al balzo
l’occasione! Da quant’è che non parliamo un po’, tu e io? Non ci vediamo più tanto spesso.»
Il rimprovero è scherzoso, ma non troppo: da quando è tornata, Livia ha l’impressione di essere in isolamento, sigillata
anche lei dentro una busta di polietilene. Nessuno, in famiglia, le fa domande. Nessuno s’informa. Nessuno si preoccupa del
suo stato d’animo. Come se avessero fatto già abbastanza dando la loro benevola approvazione e gli sviluppi della faccenda
non li riguardassero più. Perfino sua madre, dopo aver assimilato la novità, si era limitata a chiederle:
«Sei contenta?»
«Sì.»
«Allora lo sono anch’io.»
Fine del discorso.
Pudore? Paura di ferirla dicendo la cosa sbagliata? O è la sua pancia piatta che impedisce agli altri di vedere che c’è,
effettivamente c’è, un bambino in arrivo?
Comunque Livia non se la sente di biasimare sua madre. Quei silenzi, quelle reticenze che le fanno male non sono contro
di lei: sono il frutto di uno spaesamento collettivo, di un disagio che è di tutti. Anche suo. Perché fai presto a dire che la sterilità
non è la tua maledizione privata, bensì la malattia – anzi il flagello – del nostro tempo. Ma quello che è difficile da accettare,
da comprendere con la ragione e con il sentimento, è che non esiste più un ordine naturale. Se n’è andato e amen. Non c’è. Il
passato è ormai una leggenda e la maggior parte dei bambini, che lo si voglia o no, nasce in provetta. Dentro una culla di
vetro. La vita ha preso questa direzione e, come scriveva il vecchio Ovidio, “ciò che siamo stati e siamo, domani non lo
saremo”… Noi, singoli individui. Noi, specie umana.
Francesca ha finito con gli ortaggi. Si sta avviando verso la panetteria ma, prima di spostarsi, controlla dov’è sua figlia.
«Tu!» la richiama seccamente e, quando ce l’ha a portata di mano, le sistema la frangetta scompigliata. Con la punta delle
dita, quasi temesse di sciuparla.
La voce però mantiene l’accento autoritario: «Fammi il piacere di non sparire. Voglio sapere dove sei minuto per minuto,
anche mentre parlo con tua zia, hai capito? E non toccare niente». «Io?» La piccola si libera con uno strattone: «Non tocco
mai niente, io, sei tu che sei nervosa! Per colpa del nuovo fidanzato…». Un’occhiata di fuoco e si allontana correndo.
«Sì?» sorride Livia. «C’è un nuovo fidanzato?»
«Macché. Si è fissata con un tizio, un musicista che mi accompagna al pianoforte quando canto. Un amico…»
«Che ti fa arrossire.»
Francesca non commenta. Spinge il carrello, piano, sovrappensiero, rallentando a ogni passo. E infine si blocca, nel bel
mezzo della corsia centrale.
«Non capisco.» Parla dosando le sillabe, affilandole una per una prima di scagliargliele contro. «No, proprio non capisco.
Con tutte le cliniche che abbiamo in città… Ottime, peraltro. Mi spieghi perché hai scelto un posto lontano centinaia e
centinaia di chilometri?»
Il respiro di Livia torna ad annodarsi in fondo alla trachea: dunque la guerra è ancora in corso. La fama dei medici, replica
brevemente. La loro competenza.
Ma Francesca torce le labbra. «Non raccontare frottole!» Leva una mano dal carrello per premerle un dito contro lo sterno:
«Di’ piuttosto che non t’importa niente di chi ti sta vicino. Io… io mi ero offerta! In una maniera o nell’altra, con Giacomo o
senza, ero pronta, non puoi dire che non fossi pronta! Ma tu hai preferito delle estranee, delle perfette sconosciute, e non ti sei
fidata di me. Di tua sorella».
«Non esagerare, adesso.»
Ma sotto il peso del suo risentimento, Livia curva le spalle.
Non può non ammettere la sua parte di colpa: sì, avrebbe dovuto confidarsi con lei, quanto meno. Ma come spiegarle che
la sua presenza costante – la presenza troppo vicina, per l’appunto, troppo “prossima”, di una sorella – le avrebbe ricordato in
ogni momento il suo svantaggio? Davanti a lei, nel confronto continuo, sarebbe stata per sempre la madre dalla pancia piatta.
La madre di secondo grado.
È difficile confessare una cosa del genere, ma è sua sorella, avrebbe dovuto provarci. Invece si era comportata da
vigliacca. L’aveva esclusa dai suoi pensieri più intimi. L’aveva tenuta a distanza per poi metterla di fronte a scelte già compiute
e documenti già firmati. Prima aveva sottoscritto tutto quello che c’era da sottoscrivere – compreso il contratto privato fra le
parti, rivisto dallo studio di Giacomo – poi gliene aveva parlato.
Forse perché temeva d’essere indotta a cambiare idea? Era così fragile la sua decisione da non reggere un contraddittorio
con lei? Forse, sì, forse aveva avuto paura che, alla prova della confidenza, la sua scelta – la sua stessa libertà di scelta –
potesse rivelarsi un miraggio. Qualcosa che brilla, ma sfugge al tatto.
«Ora basta» implora. Finiamola qui, sta diventando una tortura. Ma Francesca ha già spinto via il carrello e l’ha lasciata
sola, a fissare una lunga, ipnotica fila di bottiglie di plastica.

Improvvisamente piove. Una pioggia disperata che corre giù dal cielo a precipizio, come se stesse scappando da una furia
divina. L’acqua si abbatte contro i vetri. Scura. Impenetrabile. «Anche il tempo ha dimenticato le mezze misure.»
Livia sospira fra sé e sé.
Niente faceva prevedere un simile diluvio: quando era uscita dal supermercato, dopo la discussione con Francesca, il cielo
brillava uniforme, senza una macchia. E adesso, il finimondo.
Ma ormai è al riparo dentro l’università. Nel suo studio, alla sua scrivania, ad ascoltare il rombo dell’acqua e a interrogarsi
sui suoi sensi di colpa.
Intanto gioca con un pacchetto di sigarette. Ne spezza una e cincischia con il tabacco, lo frantuma, lo
stropiccia, poi si porta al naso i polpastrelli e inspira: va bene smettere di fumare (fra poco arriverà in casa un bambino), ma
almeno l’odore!
Lo scroscio della pioggia è assordante e copre ogni altro suono, i passi nel corridoio, lo sciabordio di un paio di scarpe
bagnate davanti alla porta. Livia sussulta quando alza gli occhi e vede, incorniciato dallo stipite, il cranio nudo di Giko.
Una visita che la sorprende. Da quanti mesi il ragazzo ha smesso di seguire le sue lezioni? Tra la militanza e il lavoro al
giornale, non ha più tempo per Eschilo… Senza contare le giornate perse dietro quell’interminabile processo per diffamazione!
L’hanno rinviato mille e mille volte e gli pende ancora sul capo come una minaccia: la Food&C non molla. Ma nemmeno lui.
Comunque non è sparito del tutto. Ogni tanto fa una comparsa in aula, sebbene la sua presenza sia imprevedibile, saltuaria
e un po’ disamorata, con grande dispiacere della morettina. E anche suo, in realtà. Un allievo brillante è sempre una
soddisfazione.
«Vieni, entra. Ulisse è tornato a Itaca?» chiede ironicamente, mentre spazza le briciole di tabacco dalla scrivania.
Lui si dondola sulle gambe, fingendo disinvoltura. «Sono qui per scusarmi. E per un’altra questione…» «Prendi quella
sedia, sta lì apposta per voi. E ora sentiamo, di cosa vorresti scusarti?» «Delle mie assenze.»
Sì, afferma convinto, mentre accosta la sedia e vi si accomoda sopra, mani larghe sulle ginocchia e jeans sfilacciati alle
caviglie. Sì, sa di doverle delle scuse. Ma se ha trascurato il suo corso non è certo per disinteresse. «Ci tengo a precisarlo.» In
ogni modo non è venuto a giustificarsi. O ad accampare inutili pretesti. Come senz’altro saprà, quest’ultimo scontro con i legali
della Food&C si sta rivelando più impegnativo del previsto: «Non possiamo sbagliare nemmeno una virgola! Ma con l’aiuto di
suo marito non sbaglieremo».
«A quale scontro ti riferisci?» lo ferma Livia. «Non ne so nulla.»
«Suo marito non l’ha messa al corrente?»
«Non parliamo mai del suo lavoro.»
«Ah. Giusto.»
Ecco, spiega il ragazzo curvandosi verso la scrivania, credevamo d’essere a una svolta… Lui, gli altri redattori, la
Federazione degli studenti, lo studio di Giacomo, tutti avevano pensato: ci siamo. Perché era uscito il rapporto della
Commissione europea sul nuovo diserbante – ricorda? – e nelle conclusioni c’era scritto, nero su bianco: prodotto
genotossico.
Una vittoria? Sì e no.
Non voglio farla lunga, assicura il ragazzo, purtroppo è questa storia che va avanti, va avanti e non trova mai una
conclusione. Infatti anche stavolta la Food&C aveva reagito alla sua maniera, sostenendo che il rapporto era truccato e che
qualcuno (una “manina” misteriosa) aveva fatto sparire i pareri favorevoli. Gli investigatori aziendali si erano mossi
immediatamente e dopo un po’ la squadra degli avvocati aveva puntato il dito contro il segretario della commissione, citandolo
in giudizio. Secondo l’accusa, era un uomo tendenzioso. Di parte. Uno che aveva tradito i suoi doveri di pubblico ufficiale e,
durante un dibattito televisivo, si era permesso di dire che non si può combattere la sterilità se non si combatte l’inquinamento
da pesticidi. Così era montata una polemica, la Federazione degli studenti si era costituita parte civile e il giornale aveva
rimesso il caso Food&C in prima pagina. Lanciando, fra l’altro, una raccolta di firme autorevoli a sostegno dell’iniziativa.
«Ed eccomi qua a chiedere anche la sua.» Dopo di ciò si tira indietro sulla sedia e aspetta. Serio, con un
lieve fremito nello sguardo.
Un ragazzo che crede in quello che fa.
E Livia d’un tratto rammenta l’espressione di Giacomo nella foto che li ritrae assieme, di fronte ai cancelli della città
giudiziaria. Ripensa alla trafittura che aveva avvertito tra costola e costola. Era così evidente quel guizzo di orgoglio paterno
sul viso di Giacomo! Le era sembrato che rivelasse una voglia segreta, tutta maschile: la voglia di un figlio già adulto e
combattivo. Capace di uscire dalla testa (o dalla coscia) del padre armato di tutto punto. Come Atena.
Nella stanza ora c’è solo il respiro un po’ affrettato del ragazzo, nessun altro suono o risonanza esterna. Gli occhi di Livia
corrono istintivamente alla finestra: la pioggia, rapida com’era apparsa, se n’è andata.

È il nuovo rito quotidiano: prendere il cellulare e aprire l’applicazione di gravidanza. Una specie di diario interattivo,
costantemente aggiornato dalla Casa di maternità: foto, ecografie, movimenti, peso, battito cardiaco.
Livia lo controlla ogni sera, perlopiù con Giacomo, di tanto in tanto da sola. Ogni immagine è un’impronta. Non lascia segni
sul suo corpo, ma s’incide dentro di lei. È uno strano momento, sospeso fra concretezza ed emozioni.
Livia scrive qualche messaggio, intreccia dialoghi, chiede e scambia notizie.
Spesso (non tutti i giorni, sarebbe una persecuzione) cerca un incontro più diretto e compone un numero. Parla, ascolta.
Poi ne digita un altro. Le donne che compaiono sullo schermo sono lontane centinaia e centinaia di chilometri, proprio come le
aveva fatto notare Francesca, ma nell’immediatezza del confronto si avvicinano e diventano reali. Per il resto del tempo, Livia
le ha nella sua mente. Sono sempre lì: Kateryna, Mariama.
In questa successione. Che d’altronde ha una sua logica oggettiva, perché prima c’era stata l’una e quindi l’altra.
«È il nostro regalo» spiega Kateryna. «Non vuoi festeggiare la cuginetta?»
Petro fissa con aria meditabonda la culla ultramoderna, piena di pulsanti per attivare il dondolo o l’apertura delle sponde
laterali. Misura con lo sguardo il ripiano imbottito, minuscolo quanto basta a rendere l’idea, e borbotta rassegnato: mah,
speriamo che cresca alla svelta. Giocare con un bambino piccolo (una bambina, oltretutto) non dev’essere poi così divertente!
Si sfrega ben bene il naso, incerto se gli convenga aiutare sua madre e quell’impicciona di Irena ad allestire la stanza. Ma
Kateryna lo rimprovera: «Che fai? Conti le mosche? Fra poco arrivano gli ospiti…». E allora comincia a muoversi.
L’appartamento ha una camera in più e Kateryna l’ha offerta a Livia e a suo marito. Sono loro gli ospiti in arrivo: mancano
pochi giorni alla nascita e vengono per assistere al parto. Possono farlo, però con un permesso speciale, perché ancora non
sono genitori: lo saranno solo ed esclusivamente alla registrazione dell’atto di nascita. Non prima. Fin quando il bambino non
viene iscritto all’anagrafe, il riconoscimento di parentela è riservato alla gestante. Ai sensi della legge locale, il diritto di
decidere è suo fino all’ultimo secondo. È a lei che spetta l’ultima parola.
Il permesso per stare in sala parto va richiesto in loco, perciò Livia e suo marito hanno deciso di partire con un certo
anticipo. Non si sa mai, quando c’è di mezzo la burocrazia. Sono emozionati, forse anche impauriti, e Kateryna non vuole che
stiano in albergo o in un monolocale messo a disposizione dalla Casa di maternità, com’è di prammatica. Li vuole in casa sua.
«La direttrice è d’accordo? Sa che te li porti a casa?» s’informa Irena. Ha dato una mano a montare la culla e ora si riposa,
esaminando il risultato a braccia conserte.
«Perché non dovrebbe essere d’accordo? Diamine, non sono mica una coppia di estranei che non vedrò mai più! Sono
come parenti acquisiti.»
C’è un legame fra noi, dice, mentre ammucchia in un angolo dell’armadio una pila di asciugamani. Un legame scelto, e
anche sofferto. L’addome gonfio di medicine, i trattamenti ormonali, il rischio di disordini vascolari: l’ovodonazione non è una
scampagnata. Ma lei è un’infermiera, ha imparato a tenere a bada il corpo. Sono piuttosto i suoi pensieri a oscillare, e infatti a
volte il motivo della sua scelta le appare chiaro, a volte no. Non è agevole conciliare corpo e fantasie.
«Certo che la direttrice è d’accordo» ripete con forza, come se dovesse convincere Irena. È la politica della Casa di
maternità: facilitare e incentivare i rapporti. «Quante volte ce l’ha detto?» Quante volte proprio lei, la direttrice, ha ribadito che
la mancanza di una relazione fra chi dà e chi riceve è una sciagura? Un comportamento da irresponsabili, perché riduce le
donazioni a una semplice cessione di
materiale genetico. Che forse può salvare la specie, ma non l’umanità.
Kateryna chiude l’armadio e vi si appoggia contro rilassando la schiena.
«La clinica dove lavoravo un tempo, la BioCompany…» Sai, dice, là non hanno simpatia per le famiglie allargate,
scoraggiano i contatti e anzi, se possono, li impediscono. Fanno una politica divisiva: ognuno per sé e la BioCompany per tutti.
È probabile che ad alcune donne vada bene così: assolto il compito, ciascuno per la sua strada! Ma lei non è di questo avviso.
Irena alza un braccio per tastarsi la treccia, distrattamente. «Però…» mugugna «però nemmeno da noi…» Ma si ravvede
subito e chiude la bocca. Ha ritegno a dire certe cose, anche se non può impedirsi di pensarle. La condivisione! Ottimo
proposito, non lo mette in dubbio, però alla fine c’è sempre chi decide e chi no. Chi conta di più e chi di meno. E magari lei
sarà un tantino razzista, ma non le sembra affatto giusto che una donatrice, una sua connazionale pallida e bionda perfino
nelle ciglia, non abbia diritto all’ultima parola. Mentre l’altra, quella ragazzetta dalla pelle scura, se ne va a spasso con la sua
pancia presuntuosa… una pancia da cui uscirà una bambina bianca come un foglio di carta… Santa pazienza! Ditemi voi se è
giusto.

«Così non va. Devi prenderti cura di te.»


Aya è china su di lei e la scuote con mani dure, senza complimenti.
«Ma è quello che faccio!» protesta Mariama, sollevandosi sui gomiti.
«E come, sdraiata per terra?»
«Non per terra, sulla coperta!» Non riesco ad abituarmi, si giustifica, questo materasso è troppo morbido, ci sprofondo
dentro. Mi dà un senso di soffocamento, non mi permette di dormire e se non dormo come posso recuperare le forze? Ci
vuole molta forza per aiutare un bambino a sgusciar fuori.
Aya scosta le ciabatte di Mariama, aggira il suo giaciglio e va a sedersi sul letto. La lunga veste le ricade attorno alle
ginocchia, fino a terra. «Hai paura? Puoi dirmelo, non c’è niente di male. Tutte abbiamo paura quando si avvicina il momento.»
Mariama si solleva ancora un po’, poggia la testa contro il muro e da lì esplora il suo corpo con la curiosità di un’estranea.
Parte dai piedi, che mostrano le cicatrici del viaggio, e risale su, lungo le cosce e la cupola della pancia: un rincorrersi di linee
senza più spigoli, di curve che si distendono larghe, morbide ed elastiche. Farebbero invidia alla cugina Fanta.
Paura? E perché, ha la pancia tonda ma è sempre lei, è sempre Mariama, nessuno può toglierle la pienezza, la verità del
suo essere Mariama. La differenza da prima, semmai, sta nel fatto che i suoi piedi si sono fermati: il peperoncino selvaggio ha
smesso di correre dalla mattina alla sera.
Oltretutto l’hanno spostata e ora non alloggia più nel campo di transito, ma in una palazzina che appartiene al Centro
medico (al Colosseo, puntualizzano le infermiere) ed è gestita dalla Casa di maternità. Ha cibo in abbondanza e può dormire
quanto le pare, in attesa del futuro. Talvolta vorrebbe che l’universo intero si fermasse con lei e quell’attesa diventasse eterna.
Talvolta vorrebbe che il futuro fosse già arrivato. Ma intanto dorme, mangia, e per il momento non chiede altro.
Qui ha il suo tempo e la sua tranquillità.
Eppure sì, non può negarlo: è in ansia.
Non per se stessa, come crede Aya, ma per quella creatura che si muove dentro il suo ventre e che ha già un nome. È
questo che la preoccupa. Non è bene per una creatura avere un nome troppo presto, quando la sua anima vaga ancora
incerta fra gli antenati. Sette giorni a partire dalla nascita: tanto ci vuole perché l’anima si adagi nel petto e il bambino, maschio
o femmina che sia, entri nella vita. Solo
allora dovrebbe ricevere il nome che lo farà diventare quello che è.
Ma queste, secondo Aya, sono credenze irrazionali, superate, da lasciare ai vecchi. E la Mariama di una volta, la Mariama
che andava a scuola e che ancora resiste dentro di lei, non può che assentire. Si chiamerà Nina: è deciso.
Pigramente, con brevi mosse accorte, si alza e si massaggia le reni, sporgendo il ventre. Poi infila i piedi nelle ciabatte.
«Vieni con me? Ho la visita di controllo.»
Il giardino davanti alla palazzina ha più sassi che alberi, ma cosa mai può crescere sotto questo sole arrabbiato? Forse
solo i baobab, i giganti di casa sua, potrebbero resistere. Però qua, diversamente da casa sua, perfino le pietre sembrano
nuove e splendenti. La strada che porta all’infermeria non ha una crepa, scivola piana e uniforme sotto le suole di gomma.
L’intonaco degli edifici è impeccabile. E non ci sono immondizie lungo il marciapiede.
Quella che sta attraversando è senza dubbio alcuno una città ordinata, che lavora in pace. Mariama, tuttavia, ha
l’impressione di camminare dentro una menzogna. C’è qualcosa nell’aria che contraddice quell’apparente tranquillità. Un
senso di chiusura, scosso ogni tanto da un soffio greve, oppressivo, quasi un odore di guerra, che le rammenta il mondo
parallelo che vive non molto lontano da lì. Dietro una doppia rete metallica. Un mondo segregato. A parte. Mariama non lo
dimentica, quel mondo privo di strade e di certezze. Anche volendo, del resto, non potrebbe. A ricordarglielo ci sono i posti di
blocco, le sbarre, le recinzioni: la città non è per tutti.
«Là» bisbiglia Aya, mentre rialza leggermente la lunga veste che le intralcia il passo. «Guarda!» Fa un cenno furtivo verso
un gruppetto di uomini in camice bianco che le ha appena sorpassate. Uomini che occupano l’intero marciapiede e discutono
gesticolando, senza badare ad altro. «Quello nel mezzo… è il dottor Weaver.»
Il famoso dottor Weaver, temuto e riverito da tutti.
Temuto, principalmente.
Mariama non l’ha mai visto e anche ora lo vede solo di spalle. Una figura indistinta, con un camice uguale agli altri. Ma
poco più avanti, ecco, quella figura senza volto si gira e Mariama è invasa da un gran bollore sottopelle. Perché il dottor
Weaver è più pallido di Kateryna però ha gli occhi stretti. Come il cinese nero.
Al bollore subentra immediatamente il gelo, e Mariama, per attutirlo, si afferra a un lembo della veste di Aya. Procede
avvolta dall’onda di quella veste e nel frattempo, in silenzio, muove le labbra e prega. Invoca lo spirito degli antenati perché la
maledizione del fuoco non si ripeta e nessun malanno tocchi la creatura.

Qual è il momento più difficile per un padre? Per un padre che è tale grazie a una norma di legge? E che posto occupa il
desiderio dentro la gabbia di una legge? Come la modifica? E a sua volta, come ne viene modificato?
L’aereo è in fase di decollo. Giacomo allaccia la cintura di sicurezza e chiude gli occhi. Avverte accanto a sé la presenza di
Livia, tesa, contratta, ma non ha voglia di parlare. Nemmeno con lei. Nemmeno per rassicurarla.
È questo, pensa, il momento più difficile. Quando vai a prendere un figlio che sta dentro un corpo che non conosci.
Sono le dieci di un sabato mattina. Fra due ore arriveranno a destinazione, ma lui nel frattempo deve fare i conti con se
stesso.

È sabato e sono le dieci del mattino anche nello studio di Sara, alla Casa di maternità. «Non te lo posso impedire» sta dicendo
Tonio con insolita asprezza. «Ma se vuoi complicarmi la giornata, fa’ pure. Ti chiedo soltanto di attenerti agli ordini della
scorta.»
È in corso una riunione organizzativa e il motivo del contendere è presto detto.
Dunque. Il dottor Weaver è in partenza per l’assemblea annuale della società di cui è presidente, l’organismo mondiale che
finanzia il suo centro e che si occupa di tutti i problemi inerenti alla riproduzione umana. Tonio e i suoi uomini devono scortarlo
all’aeroporto, e fin qui niente di straordinario. Normale procedura. Ma Sara vorrebbe unirsi alla comitiva: ha delle questioni in
sospeso (urgenti, dice) che deve assolutamente discutere con lui. E il tragitto dal Centro medico all’aeroporto è l’unica
possibilità che le rimane.
Tonio, però, è contrario. «Lascia che ti spieghi.» Non si tratta di cattiva volontà da parte sua, assicura grattandosi la barba
(segno certo di nervosismo). «È un brutto momento, credimi. Se avessi più uomini per rafforzare la scorta… ma non li ho e la
situazione è a rischio, purtroppo, perché gli antinatalisti…»
«Gli antinatalisti?» gli fa eco Sara, incredula. «Sarebbero loro il “rischio”? Mi pare che stiamo drammatizzando! Già una
volta vi siete resi ridicoli con questa storia. Ti ricordi quando avete gridato “al lupo! al lupo!” e poi era soltanto una bambinata
del figlio di Kateryna?» Fino a prova contraria, gli
antinatalisti non sono pericolosi. O aggressivi. E come potrebbero esserlo? Sono degli infelici, gente che non ama l’umanità e
considera la malattia del vuoto come una grazia divina. Dei depressi, ecco cosa sono. Dei pessimisti che se ne stanno chiusi
nelle loro comunità di vecchi ad aspettare senza muovere un dito che arrivi la fine, il tempo in cui “il Signore chiuderà il cielo e
la terra diventerà sabbia e polvere”… Ma non sono violenti. D’altronde qual è il loro motto? “Mai distruggere una vita, mai
crearne una.” «Se la minaccia viene da loro, non mi agiterei.»
Tonio indurisce lo sguardo. «Questa volta è diverso, l’allarme è serio.» E gli antinatalisti non sono più quel gruppetto isolato
di misantropi che Sara continua a immaginarsi, ma una vera e propria organizzazione con un buon numero di proseliti collegati
in rete. Determinati e volenterosi, come tutti i nuovi adepti. Tant’è che, attraverso la rete, si sono dati appuntamento
all’aeroporto con un obiettivo preciso: impedire la partenza del dottor Weaver e sabotare, così facendo, l’assemblea della
Società mondiale.
«Lo dici per scoraggiarmi? Oppure adesso ti spaventano quattro manifestanti?»
«Mi spaventa il fatto che, per loro, il dottor Weaver è il diavolo in persona. O, nel migliore dei casi, il suo rappresentante
ufficiale.»
Sara sorride: può capire l’antipatia per il personaggio, ma perché scomodare addirittura il diavolo? «E me lo chiedi? Per le
cose che scrivono i giornali su di lui, sui suoi esperimenti… È appena dell’altro ieri quell’articolo…»
Tonio non specifica quale, ma non ce n’è bisogno. Sara l’ha letto, naturalmente. Più per dovere che per interesse: era una
cronachetta di taglio scandalistico – poco informata, soprattutto – sull’annosa questione dell’utero artificiale. “Si farà? Non si
farà?” Il giornalista accennava a finanziamenti occulti e ricchi brevetti, citando fra i beneficiari pure il dottor Weaver. Ma lui
aveva detto: «Carta straccia!» e, per non dare un’importanza immeritata all’articolo, non aveva voluto nemmeno smentirlo: «Lo
sanno tutti che mi sono sempre opposto a questa linea di ricerca. E ora sarei io, proprio io, a voler brevettare una cosa del
genere? Idiozie!».
È vero, Sara può testimoniarlo. Il dottor Weaver l’ha sempre predicato, dentro la loro cittadella e anche fuori, in ogni sede:
l’utero artificiale non serve a niente. Per cominciare, non aiuta a sconfiggere la malattia del vuoto. Non risolve il problema, da
un punto di vista medico. Socialmente, poi, è del tutto inutile, perché riprodursi con questo sistema sarebbe molto costoso e,
alla fin fine, chi potrebbe permetterselo? Un pugno di fortunati con una carta di credito più che sostanziosa. Insomma, al di là
di qualsiasi considerazione etica, si tratta di un investimento irragionevole e antieconomico. Meglio indirizzare altrove la
ricerca. E infatti lui, be’, lui pensa piuttosto a quando non ci saranno più gameti fertili… A quando la natura avrà esaurito tutte
le sue scorte e allora sì che vedremo entrare in sala parto l’ultima madre!
Anche nell’animo di Sara si affaccia ogni tanto quell’immagine. Non quando è in laboratorio o nel suo studio, ma quando
vede i campi deserti, dove gli steli che riescono a bucare la terra si ripiegano subito su se stessi. O quando calpesta quelle
pietraie che un tempo erano giardini di arance e limoni.
«Andiamo, su!» All’improvviso è in piedi. Il fascicolo dei documenti cartacei, il computer portatile, l’agenda elettronica, via!
tutto dentro la borsa. «Non mi faccio dettare il programma da un manipolo di pazzi disperati.»
In macchina, non è Tonio a guidare. Sono finiti quei tempi.
Il suo posto adesso non è al volante, bensì dietro il sedile del dottor Weaver, assieme a un’altra guardia. Entrambi hanno
un microfono incollato alla bocca o all’orecchio, ma Tonio comanda e l’altro obbedisce. In quanto a lei, fa quello che deve
fare: espone i problemi, ascolta i suggerimenti che le vengono offerti (oggi in maniera un po’ distratta) e li annota sul portatile.
I vetri sono oscurati, impenetrabili dall’esterno. Dall’interno, invece, la visuale è limpida. Senza ostacoli. E dunque Sara, a
mano a mano che la macchina si avvicina all’aeroporto, vede con grande chiarezza l’entità della folla che ostruisce i varchi:
Tonio non aveva esagerato affatto. Semmai, si era tenuto basso.
È una fiumana di uomini e donne (più uomini che donne) che si va stringendo attorno ai fianchi del veicolo. Alcuni tentano
di sbirciare dentro. Non sembrano minacciosi, ma i loro volti sono rigidi, respingenti. Altri sono seduti per terra e, al loro
passaggio, agitano i cartelli.
NON UNA VITA IN PIÙ!
LA TERRA HA SOPPORTATO ABBASTANZA!
IL TEMPO È L’UNICA MEDICINA!
Anche la rampa d’accesso è bloccata, perciò la macchina sterza e l’autista torna indietro, mentre Tonio sbraita dentro la
ricetrasmittente. Svoltano per una via laterale, rientrano cambiando carreggiata, imboccano un tunnel e si fermano davanti a
uno sbarramento presidiato da una squadra in divisa militare. Qualcuno esegue una manovra e le sbarre si alzano. La
macchina riparte, si ferma di nuovo e Tonio scende
di corsa. Fa uscire il dottor Weaver, quindi spinge Sara contro l’altra guardia: «Tu va’ con lui. E non muoverti finché non ti
vengo a prendere».

Il comandante ha già annunciato: venti minuti all’atterraggio.


Livia tiene in grembo gli occhiali e fissa il bianco delle nuvole al di là del finestrino. Un bianco tenue, trasparente, che si
sovrappone al velo della sua miopia. Visto così, fra un’evanescenza e l’altra, il mondo ha un aspetto più leggero.
Ma appena le nuvole si aprono, laggiù fra mare e terra spunta la Montagna. Il vulcano con i suoi bordi
neri. Luttuosi. Anche senza occhiali, Livia vede il fumo che gli oscura i fianchi e avverte un rimescolio dentro lo stomaco.
Ripensa alla nube chimica che l’aveva intrappolata, al santuario inaccessibile, al volto enigmatico di Demetra e a sua figlia
Persefone, signora delle ombre sterili. Pensa al seminario di Antonia e a quella domanda troppo complessa per essere
racchiusa in un’unica risposta: cos’è una madre?
Un interrogativo che d’un tratto le appare fuorviante. Mal posto. O posto in maniera troppo precipitosa, perché forse, prima
di chiedersi cos’è una madre, avrebbero dovuto chiedersi cos’è la maternità. Questo evento che attraversa il corpo delle
donne e va oltre. Che le possiede con una forza estranea eppure intima. Terribilmente intima, perché si nasce sempre in due.
Sempre e comunque. Si nasce in due, anche se poi si muore da soli.
Il bianco, al di là del finestrino, si è tinto di scuro.
L’aereo sobbalza, sprofonda, risale, sprofonda ancora.
Livia cerca in grembo gli occhiali. Ma non fa in tempo a inforcarli, perché viene travolta dalla nausea e, subito dopo, da uno
spasmo intenso, acutissimo, al basso ventre. Come se le stessero strappando l’utero per la seconda volta.

Sara è irritata, ma più con se stessa che con gli altri. Nessuno l’ha costretta, è stata lei a mettersi in una situazione che la
condanna all’impotenza.
Si sente inutile, e questo non le piace. Non è abituata a sentirsi così: inutile, impotente e spoglia di autorità. Prigioniera
della sua guardia di scorta.
Sono chiusi dentro un ufficio assieme all’equipaggio di un aereo di linea, tre donne e quattro uomini che avrebbero dovuto
dare il cambio ai colleghi in arrivo. L’aeroporto però è nel caos e al momento non si può atterrare e nemmeno partire. I
manifestanti sono riusciti a occupare una pista, la polizia si prepara allo sgombero, ma intanto è emergenza.
Dalla vetrata dell’ufficio si scorge l’ingresso di un hangar, sbarrato da un automezzo ingombrante. Dietro c’è il mare, oggi di
un biancore molle, saponoso. Più indietro ancora la Montagna, che fumiga dal cratere laterale. Da quell’angolatura sembra
vicinissima e immensa: un titano che emerge dalle acque, ammantato di vapori. È lì, davanti a Sara, ma un attimo dopo non
c’è più: una raffica di cenere e lapilli si è abbattuta contro la vetrata.
La luce elettrica ha uno sbalzo, diminuisce, torna a rafforzarsi, cala di nuovo. La guardia di scorta smette di parlare dentro il
suo microfono e allarga le braccia, come a dire: ci mancava anche questa. Un’emergenza che si aggiunge all’altra.
La raffica ha lasciato sul vetro una patina sporca, un sottile strato di polvere grigia. Attraverso questo filtro, Sara vede un
uomo che corre verso l’automezzo parcheggiato di fronte all’hangar. Indossa una divisa catarifrangente, ma non ha il berretto
e si protegge dalla pioggia di cenere con qualcosa che somiglia al cuscino di una poltrona. La Montagna erutta una seconda
scarica di lapilli e l’uomo stringe il cuscino con entrambe le mani e affretta la corsa, ma non ha ancora raggiunto il veicolo
quando il cielo viene squarciato da un rumore fortissimo. Come un tuono secco, ma più lungo di un tuono. Immediatamente
dopo, compare l’aereo. Sta scendendo in picchiata. Veloce. Luminoso. Una freccia che va a conficcarsi tra le onde.
Un muro d’acqua si alza, ricade, e Sara impietrisce.
Il suo corpo è un blocco di cemento, le braccia pendono snervate. Ma dentro la testa ha un turbine, un frenetico sovrapporsi
di preghiere che credeva di aver dimenticato, frammenti scomposti, relitti che affiorano da tempi sommersi: “Signore iddio!
Signore delle vendette… Soffiasti con il tuo alito e il mare li coprì”…
11
Sara

È un desiderio comune a tutti, credo: scoprire perché si esiste invece di non esistere, sapere se si è nati per caso, per scelta o
per chissà quale strana combinazione. E, per saperlo, tutti devono attraversare uno spazio vasto e sconosciuto, lo spazio delle
memorie e dei segreti familiari, non è così? Un passaggio obbligato, che vale anche per me.
Io però non vengo dal caldo delle lenzuola. Lo spazio che devo esplorare è più ampio, il percorso più lungo, e se non
avessi l’aiuto delle parole potrei smarrirmi facilmente. Potrei restare intrappolata in un vicolo cieco, a consumarmi di nostalgia
per le mie divinità immaginarie, per le cose che non so di loro: anch’io ho bisogno di un romanzo familiare! È una normale
esigenza umana, secondo Sara, perciò lasciatemi finire il mio racconto.
Perché ancora non è finito.

Dunque c’è Sara, questa donna autorevole, con un lavoro impegnativo.


Alla Casa di maternità ammirano la sua efficienza. La vedono all’opera, impavida, risoluta, e non sanno che da bambina
aveva due grandi crucci. Il primo riguardava l’altezza: in classe, la sua testa svettava sempre di un buon palmo sopra le altre e
questo la rendeva timida e insicura. Però crescendo aveva capito che guardare le persone dall’alto in basso ha i suoi
vantaggi, e l’insicurezza era svanita.
L’altro cruccio concerneva suo padre, un predicatore battista che usava l’ago e il filo della Bibbia per ricucire le crepe
dell’anima. Come padre non era molto presente, ma contribuiva alla sua educazione imponendole ogni giorno la lettura di un
versetto. Così Sara aveva imparato che il Verbo del Signore può essere tanto splendido quanto feroce… “e Dio mandò il
diluvio sulla Terra per distruggere ogni carne in cui era vita”…
Era un uomo severo, suo padre, e Sara teme di somigliargli un po’. L’ha contagiata, le ha trasmesso la sua stessa febbre, e
il risultato è che nemmeno lei può vivere senza una missione. Ma la sua fede, al contrario di quella di lui, è innegabilmente di
natura terrena. Si nutre dell’odore del mondo. Non a caso all’inizio c’erano stati i profughi, gli sfollati, le tendopoli, le baracche,
i centri di smistamento o di raccolta, gli ospedali da campo. Partiva con Tonio, il suo taciturno compagno di tanti viaggi, e
andava a rattoppare i buchi del mondo.
Va da sé che il compito era interminabile e, in quanto tale, frustrante. Ma era il suo compito e Sara lo svolgeva con impegno
assoluto: aveva scoperto la sua vocazione. O la sua debolezza. E Tonio una volta glielo aveva quasi rimproverato: «Non sei
stanca di correre dietro alle disgrazie? Io sì». Tutto ciò comunque era accaduto molti anni addietro.
Adesso Sara si occupa delle donne. Della miniera in via di esaurimento del loro grembo. Non è un lavoro tanto diverso
dall’altro, a dire il vero. Si tratta pur sempre di rattoppare qualcosa, ma alla Casa di maternità non c’è solo sofferenza e il
rammendo non è inutile se poi ci sono vagiti e piccole bocche sdentate che ti fanno pensare al futuro. È bello vedere l’idea del
futuro che si fa strada, a poco a poco,
dentro lo strappo profondo del Grande Vuoto.
Tonio (ancora lui) dà a questa idea il nome di “speranza”. È sbrigativo e di poche parole come un tempo, quando era il suo
autista. L’altra metà della coppia. A Sara mancano i suoi lunghi silenzi, le osservazioni caustiche che risuonavano
stranamente intime dentro lo stretto abitacolo di una macchina. Ma ciò che li separava allora li separa anche oggi. In più, c’è
quell’esile infermiera dalle ginocchia aguzze, sua moglie. Esile, ma caparbia. E infatti non ha esitato a mettersi in lista per
essere aiutata ad avere il figlio che da soli non possono avere. Un pensiero spinoso, che Sara maneggia con cautela.
Sì, Tonio è cambiato.
D’altronde, dopo quella spaventosa giornata all’aeroporto, anche lei ha scoperto (con una punta di costernazione) di non
essere uguale a prima.

“L’aereo di Livia.”
Non riescono a chiamarlo in altro modo: per entrambe, inevitabilmente, è il “suo” aereo. Si è inabissato con più di duecento
passeggeri a bordo, ma per Kateryna e per Mariama è come se tutte quelle persone avessero un solo volto, moltiplicato per
cento e cento.
Sara condivide con loro lo shock e la pena. Anche nelle sue fantasie il volto di Livia si sovrappone alle immagini del disastro.
Le riassume, in un certo senso. Livia inoltre era un’utente della Casa di maternità (ah, quell’asettico gergo burocratico!) e
poiché Sara dirige la Casa, il peso di tutte le complicazioni che si profilano all’orizzonte ricade sulle sue spalle. Le pratiche in
sospeso, gli impicci di ordine legale: guai inevitabili. Tanto più che aveva voluto seguire quel caso di persona. Per amicizia.
Per una sorta di affinità. Ma non è questo il problema… È che il suo interesse per questa storia va ben oltre il ruolo
professionale, e Sara ne ha piena coscienza. A torto o a ragione, si sente coinvolta in modo diretto: come artefice, più che
come esecutrice di volontà altrui. Non era stata lei, in fondo, a far combaciare percorsi di vita tanto
distanti da apparire inconciliabili? Non era stata lei a intrecciarli per costruire quella piccola comunità di donne? La “repubblica
delle madri”, diceva Livia, scherzando. Mamma uovo, mamma canguro e mamma giardiniera.
Ma ora sono rimaste soltanto le prime due e la domanda è: chi farà da madre giardiniera? Un interrogativo a cui Sara non
può rispondere. È la legge che deve farlo, con le sue norme e i suoi regolamenti che talvolta si rivelano alquanto grossolani.
Scorciatoie ingannevoli. D’altra parte, qual è l’alternativa?
È una mattina d’estate, secondo il calendario, ma una corrente fredda è scesa dal Nord e ha abbassato la temperatura. Ieri
aveva toccato picchi di quaranta gradi, oggi è crollata a quindici. Un’altalena di caldo e freddo che non ricorda nessuna
stagione conosciuta.
La Montagna, a intervalli irregolari, continua a sputare qualche fiamma. Il vento è ruvido, gonfio di polvere fastidiosa, ma i
cumuli di cenere lavica sono stati rimossi e le strade di accesso alla Casa di maternità sono sgombre.
Sara è in riunione. Assieme al responsabile dell’ufficio legale, ha convocato due consulenti esterni, due avvocati assunti
proprio per seguire il caso. Il più anziano dei due, un tipo elegante che siede in poltrona con le gambe accavallate, le sta
riepilogando la situazione. Sul tavolinetto basso davanti a lui, una caraffa d’acqua e quattro bicchieri.
«No» dice Sara, dopo averlo ascoltato. «Non mi è chiaro per niente. In base a quale norma il giudice ha stabilito che la
bambina deve essere adottata? Vorrebbe avere la bontà di spiegarmelo meglio?» L’avvocato fa dondolare il piede con palese
irritazione, e a Sara sfugge un sospiro: sarà anche bravo, il migliore a quanto dicono, ma per la miseria! Parla come se invece
di sciogliere i nodi dovesse allacciarli più stretti. E per giunta, è suscettibile. Che diamine! Non l’ha reclutato per aggiungere
cavilli ai cavilli e sottigliezze alle sottigliezze, ma per facilitarle la comprensione delle cose. È per questo che lo paga, o no?
«Sono preoccupata» riconosce infine, senza staccare gli occhi dal piede nervoso dell’avvocato. «Molto preoccupata.» Nella
sua carriera di direttrice, che è piuttosto lunga, non si era mai imbattuta in un simile pasticcio. Con un effetto così scandaloso:
una bambina che a venti giorni dalla nascita ancora non ha uno stato civile. È nata, ma non possiede un cognome, una casa,
un genitore, e quindi per l’anagrafe a tutt’oggi non esiste.
«Non si può tollerare… non posso tollerare… E voi dovete dirmi…»
«Siamo qui apposta» la previene l’avvocato. Solleva la caraffa e versa l’acqua in un bicchiere, con assorta lentezza, quasi a
prendere tempo. E infatti lascia il bicchiere sul tavolo, senza bere. Per un interminabile istante tiene la caraffa a mezz’aria, poi
la mette giù e ricomincia il ragionamento da dove l’aveva lasciato, disponendo in bella fila i termini della questione.
Primo, la sequenza dei fatti. Perché è questo, dice, che determina l’anomalia del caso e giustifica l’intervento del giudice.
Dunque, ricapitolando: i genitori legali… i “futuri” genitori legali, per l’esattezza, dato che prima della nascita la legge non gli
riconosce questo titolo. Insomma i futuri genitori salgono sull’aereo per venire a prendersi la bambina e, mentre loro
s’imbarcano, la madre gestante avverte le prime contrazioni, in largo anticipo rispetto al previsto. Comunque l’aereo è ancora
lassù per aria quando la donna partorisce e, attenendosi agli accordi presi, non riconosce la bambina. E la Casa di maternità
accetta il disconoscimento. A norma di legge. Ma l’aereo, ahinoi, finisce come sappiamo e la bambina resta senza un tutore
legale.
Secondo, la filiazione. Perché, a questo punto, il quesito che si pone è ineludibile e stringente, dice l’avvocato: a chi
appartiene la bambina? Non alla madre gestante, che l’ha disconosciuta. Non al padre genetico, che è anonimo e tale vuole
rimanere. Non ai parenti dei genitori legali, perché non erano ancora genitori quando l’aereo è caduto. Non appartiene
nemmeno alla madre genetica, che non ha diritto di filiazione in quanto la sua figura, come madre, non è contemplata dalla
nostra legge. E non solo dalla nostra.
«Che assurdità» lo interrompe Sara. Una madre genetica è una madre, che altro può essere? Ha donato gli ovociti e il suo
contributo alla procreazione è pari a quello dell’uomo che dona il seme. E allora perché il tribunale non le riconosce almeno il
diritto di parola? Ignorare la sua funzione equivale a dire che uno spermatozoo fa discendenza – «“fa razza”, dicono le nostre
ostetriche» – e un ovocita no. Siamo tornati a quella vecchia favola? All’uomo che fa scoccare la scintilla della vita e alla
donna che la contiene come un vaso? «Un ritorno alla preistoria.»
L’avvocato si stringe nelle spalle. «La parola “genitore” è diventata così flessibile! E quando si procede per sentenze…»
D’un tratto guarda il bicchiere ancora pieno, lo prende e finalmente beve. «Aah.» Dopodiché continua: «Quando si va in
tribunale… Be’, sono i giudici a decidere, tocca a loro, e nel nostro caso, come le ho detto, hanno deciso per un’adozione. Ma
un’adozione in loco, perché la bambina è nata qui e qui deve restare. E se lei vuole sapere per quale motivo – era questo che
mi chiedeva all’inizio della riunione, o sbaglio? –, bene, le risponderò che è ovvio: per ottemperare alle direttive del
governatore e alla sua nuova politica di ripopolamento dell’isola». Ognuno è libero di pensarla come vuole, puntualizza, ma se
i bambini nascono nel nostro Paese e nelle nostre strutture – o comunque nelle strutture sotto la nostra giurisdizione – e poi
se ne vanno, che guadagno c’è? Un pizzico di sano egoismo – o di autarchia demografica, se vogliamo – non fa male a
nessuno: quando è possibile, meglio tenerseli, i bambini.
«Ora, se posso concludere, per quanto riguarda le vostre responsabilità…»
«Grazie, ma conosco le regole! So fin dove arrivano le nostre responsabilità. Quello che non so e che vorrei sapere è
un’altra cosa» insiste Sara. «Noi… Come possiamo intervenire, noi, per tutelare la bambina?»
L’avvocato frena il dondolio nervoso del piede e le rivolge un lungo sguardo interrogativo. «Mi scusi,

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