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La cittadinanza femminile

La cittadinanza implica molto spesso esclusione oltre che inclusione e, tra le categoria di esclusi
per molti secoli ci sono state le donne, che raggiunsero il pieno godimento della cittadinanza con
tutti i diritti relativi allo status di cittadine solamente nel Novecento. Sulla base della teoria delle
sfere separate, infatti le donne sono state considerate per molti secoli inadatte alla
partecipazione piena alla cittadinanza per via della loro natura, inferiore e difettosa rispetto a
quella dell’uomo. La teoria delle sfere separate é una teoria molto antica che distingue due sfere:
la sfera pubblica e la sfera domestica e ritiene che la sfera pubblica sia di pertinenza esclusiva
degli uomini, mentre la sfera domestica é lo spazio proprio dell’azione femminile. Le donne
vengono escluse e sono da escludere dalla sfera pubblica, dove per sfera pubblica
intendiamo la sfera della politica, degli affari dove invece gli uomini avevano pieno diritto ad agire
grazie al loro logos perfetto, per via della loro natura difettosa.

Si tratta di una diversità giustificata biologicamente, di una diversità naturale: alle donne
manca o fa difetto il logos, che é intelligenza e razionalità ma anche parola, e questo le rende
inadatte ad agire e a mostrarsi se non in casi molto precisi nella scena pubblica. Un esempio di
queste eccezioni vale per esempio nel caso delle sacerdotesse nelle società antiche. Da questa
differenza naturale, che é un’inferiorità naturale discende una polarizzazione di caratteristiche
maschili o femminili. Al maschile appartiene ciò che é attivo, spirito e bene, il maschile é la sfera
dell’intelligenza e della razionalità mentre invece al femminile appartiene la passività, il legame
con la materia, l’incapacità di sollevarsi allo spirito. La sfera femminile é complessivamente
ritenuta negativa, considerata la sfera del disvalore rispetto a quella maschile che é quella positiva
e del valore. La teoria delle due sfere si fonda su questa polarizzazione: la sfera pubblica é la
scena del visibile, del logos e dell’agorà cioè della piazza pubblica, la piazza centrale più
importante delle città antiche, luogo dell’intelletto e della parola utilizzate e la sfera domestica é
invece la scena dell’invisibile, della natura a cui la donna, la sfera della casa (oikos).

Pur non avendo un autore, questa teoria ha avuto larghissimo corso, attraversando tutta
l’antichità, l’età medievale e la prima età moderna, durante le quali la società era organizzata su
questa polarizzazione e sull’esclusione praticamente totale delle donne dalla cittadinanza. Se la
teoria delle sfere separate implicava l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica, non
comportava necessariamente la subordinazione delle donne agli uomini nella sfera domestica.
Anzi, a partire dall’Ottocento e soprattutto nell’area anglo-americana, alle donne proprio in virtù
della loro natura biologica, che le indirizzava verso i compiti educativi e di cura, nella sfera
domestica viene riconosciuto un status morale superiore, anche a quello dell’uomo.

Christine de Pizan (1365-1430)

È la prima donna a riflettere sulla condizione femminile, che grazie al padre medico di corte in
Francia, riceve un’educazione ed un’istruzione di primo livello, assolutamente comparabile a
quella che un giovane uomo di una famiglia legata alla nobiltà e alla corte avrebbe ricevuto a quel
tempo. È forse la prima donna di condizione agiata a vivere del proprio lavoro di intellettuale. La
sua cultura straordinaria fece di lei una donna straordinaria, che si manteneva del suo lavoro e
con le sue opere, prendeva la parola in pubblico (una parola metaforica, si trattava di scrivere
libri e omaggiarli ad aristocrazia e nobiltà, ricevendone in cambio doni, assistenza
permettendole di mantenere se stessa e la famiglia), e mostrava di essere ben cosciente della sua
condizione fuori dall’ordinario.

Christine decise di ornare i manoscritti delle sue opere con delle miniature raffiguranti sé stessa,
voleva essere raffigurata come una donna al lavoro, circondata da penne, carta e leggii con abiti
che non sottolineano la bellezza bensì il suo pudore, la serietà, il fatto che sia una donna che
lavora e non in cerca di un marito, che vuole accreditarsi come una donna che lavora con il suo
intelletto. Christine de Pizan oltre che scrittrice aprì anche uno scriptorium, un laboratorio di
scrittura, dove faceva riprodurre i propri libri per coloro che li volevano acquistare e in questa
operazione di trascrizione li faceva anche decorare. Una particolarità di Christine é che parla di
sé stessa, poco comune nella condizione femminile fino a quel momento. La sua opera più
famosa é intitolata “La città delle dame” in cui affronta la questione della natura femminile,

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difendendola dagli enormi pregiudizi da cui era circondata, che fin dal Medioevo nutrivano un
genere letterario grevemente misogino.

Quando si parla di pensiero femminile, prima di arrivare a parlare del tema dell’emancipazione
delle donne (Rivoluzione francese), e quindi dell’ingresso delle donne nella piena cittadinanza, il
tema é per molti secoli quello della natura femminile, riflettere su quello che si diceva della
natura femminile e su come se ne sarebbe dovuto parlare. È una sorta di strada preliminare per
arrivare a rivendicare il diritto alla piena uguaglianza giuridica fra gli uomini e le donne. Prima di
rivendicare l’accesso alla cittadinanza in forma uguale a quelle degli uomini, le donne si sono
misurate per molti secoli con il tema della precisazione della propria identità, dell’individuazione di
sé su un duplice piano: una riflessione sul genere, sul sesso dotato di una natura propria, non
semplicemente negativa rispetto a quella degli uomini, ma con delle caratteristiche sue proprie e,
il piano di una riflessione su sé stesse come persone capaci di razionalità, autonomia e quindi
degne alla pari di qualsiasi uomo.

La Città delle dame viene composta fra il 1404-1405 ed é un racconto allegorico. Questa città di
cui si parla nel libro non é un luogo fisico, ma un’allegoria e costruire la città significa restituire alle
donne la loro vera identità e natura, riabilitando la loro reputazione e riconoscendo le loro capacità
e la loro predisposizione ad imparare tutto e a poter fare tutto al contrario che quella letteratura
grevemente misogina molto diffusa sosteneva da molti secoli. Nelle prime pagine di questo libro
Christine racconta di come un giorno, leggendo proprio uno di questi trattati misogini, forse il più
famoso “Il libro delle lamentazioni” di Matheolus de Boulogne (1295) si era quasi convinta che
questo autore avesse ragione e di come, tra le lacrime, avesse chiesto a Dio perché aveva creato
le donne e perché aveva fatto lei donna, se le donne erano esseri cosi disprezzabili e malvagi.
Christine racconta poi come, dopo questo sfogo si addormenta e sogna. In questo sogno Dama
Ragione, Dama Rettitudine e Dama Giustizia le appaiono e la rimproverano dei suoi pensieri, di
avere quasi creduto a quelle fandonie sulla natura femminile, e la invitano a costruire con loro
questa città delle dame. Le domande che Christine rivolgerà a queste tre dame e le risposte che
questa tre dame le restituiranno sono gli strumenti con cui si scaveranno le fondamenta, si
edificheranno le mura, e si costruiranno le strade e i palazzi di questa città. È ovviamente una
metafora, non si tratta di costruire una città fisica ma di interrogarsi e di ragionare sulla natura
delle donne, e infatti le domande che Christine pone a queste dame sono fatte in modo che le
risposte demoliscano tutti i pregiudizi più comuni sulle donne. Le tre dame risponderanno
negando che le domande contengono alcuna verità e tramite degli exempla tratti dalla storia. La
città quindi é una metafora della restituzione alle donne del loro posto vero nel mondo.

Sono due i temi importanti di questo testo:

- L’educazione: Christine é convita che per natura le donne possiedano le stesse virtù degli
uomini, le loro stesse capacità; se sono ignoranti, deboli, dipendenti, se quella letteratura
misogina sembra avere ragione é perché alle donne non viene insegnato nulla, perché la loro
l’educazione non é adeguata. Al contrario le donne potrebbero imparare a fare qualsiasi cosa
se solo venissero educate in maniera adeguata, cioè come viene educato un uomo.

- L’organizzazione della società: Christine non é una rivoluzionaria, non chiede ala società di
cambiare e di fare posto alle donne, non rivendica nessun allargamento dello spazio femminile
dalla sfera domestica verso quella pubblica. A suo avviso la società, o meglio Dio, chiede che
alcune funzioni sociali vengano affidate alle donne (domestiche, familiari, educative) e altre agli
uomini (governo, tribunali, affari).

Anche quando parla di sé e della sua condizione piuttosto eccentrica, afferma che, se fosse
dipeso da lei avrebbe volentieri fatto la moglie e la madre e che solo la necessità l’aveva indotta a
cambiare il suo ruolo. In altre parole Christine é una conservatrice rispetto all’organizzazione
sociale e per questo le femministe del Novecento non l’ameranno molto, sarà solo a partire dagli
anni 80/90 che incontrerà le studiose che davvero metteranno in evidenza il suo eccezionale
contributo alla causa femminile. Christine quando parla di sé insiste sul tema della fortuna, intesa
come il caso, sul tema delle circostanze che l’avevano obbligata a diventare una donna
eccezionale, non dice mai di averlo scelto liberamente e con questo possiamo dire che tende a
non mettersi troppo in luce rispetto a una società che é ancora organizzata sulla gerarchia tra
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uomo e donna. Tuttavia é vero che Christine non é una rivoluzionaria ma é anche vero che
difende la possibilità delle donne di fare tutto, anche se l’organizzazione sociale (e Dio) preferisce
in un altro modo.

Nel “Libro della mutazione di fortuna” scrive che un giorno si era svegliata sentendosi più leggera
del solito, il suo volto era cambiato e indurito, la sua voce scurita, il corpo si era rafforzato ed era
diventato più snello. Sorprendendosi di questi mutamenti, riconosceva però di sentirsi più sicura
di sé e comprese di “essere diventata un vero uomo”. È l’eccezionalità di sé che Christine
sottolinea, non é ancora la richiesta per le donne di fare tutto, é un lato conservatore che non la
farà particolarmente amare dalle femministe del Novecento.

Per trovare un cambiamento di prospettiva dobbiamo arrivare alla Rivoluzione francese, che é
un momento di grandi speranze e di grandi disillusioni per le donne. Il giusnaturalismo, che parla
di diritti naturali dell’uomo, sembrava potere e dovere liberare le donne dalla loro inferiorità
giuridica. Ma in realtà ciò non avvenne perché queste parole - libertà, uguaglianza, diritti - di cui il
giusnaturalismo si fece portatore come forza di cambiamento non riguardarono mai le donne né in
Francia né altrove per molti decenni. Le Dichiarazioni rivoluzionarie parlavano un linguaggio che
era solo in apparenza universale, ma che in realtà non comprendeva le donne per volontà e non
per disattenzione.

É Olympe de Gouges (1748-1793) a smascherare questa pretesa universalistica; giornalista,


scrittrice e sostenitrice della monarchia, anche se avrebbe sempre voluto che Luigi XVI si
adattasse a firmarla quella Costituzione che l’avrebbe trasformato da monarca assoluto in
monarca costituzionale. Nel 1791 scrive la sua “Dichiarazione dei diritti della donna e della
cittadina” che dedica a Maria Antonietta con la preghiera di farsi carico delle richieste delle donne,
ma senza successo. Olympe de Gouges diventa nemica di Robespierre, proprio per la sua fedeltà
alla monarchia, che la fa decapitare nel 1793 liberandosi di un personaggio troppo scomodo che
addirittura si era offerta di difendere il re Luigi XVI durante il suo processo che lo portò alla
decapitazione.

Durante la Rivoluzione, un’altra donna straordinaria fu Mary Wollstonecraft (1759-1797)


un’inglese di estrazione popolare, che prima di arrivare a Parigi nel 1792 fece l’educatrice. Nel
1792 scrive una delle sue opere famose “Una rivendicazione dei diritti della donna” in cui troviamo
la richiesta della parificazione giudica delle donne, dal punto di vista dei diritti sia civili che
politici. Questa richiesta si fondava sul presupposto che la natura delle donne fosse altrettanto
proporzionale a quella degli uomini, e dunque che le donne fossero perfettamente in grado di
diventare delle buone cittadine. Anche in Mary Wollstonecraft é il tema dell’educazione quello
che viene a fare la differenza: la qualità dell’istruzione rivolta alle fanciulle era immensamente
inferiore rispetto a quella che era rivolta ai fanciulli, ed era questa scarsa qualità ad essere
responsabile della loro incapacità di agire come esseri razionali. Si insegnava alle donne che il
loro destino era il matrimonio e dunque non erano educate all’indipendenza del loro pensiero né
all’indipendenza economica, al contrario erano incoraggiate a sfruttare e aumentare le loro doti di
seduttività - che le sarebbero servite per trovarsi un buon marito - quali l’obbedienza, la docilità,
l’attitudine a compiacere anche rinunciando alle proprie opinioni pur di farsi apprezzare e appunto
sposare. Il matrimonio, in questo modo, dice Mary Wollstonecraft é solo poco più che una
compravendita, un contratto che svilisce le donne ma anche gli uomini perché unisce due
soggetti in un legame fondato sull’insincerità, sul fatto che le donne non mettono in mostra la loro
personalità, perché la loro personalità libera non lo é stata mai, é sempre stata silenziata e
dunque non si tratta di un’unione tra due esseri autentici, fondata sul rispetto. E questo non é un
male solo per le donne ma anche per gli uomini, che si trovano accanto una donna che non é una
compagna ma un’appendice, qualcuno da mantenere e non un soggetto alla pari. Ci sono due
parole chiave per leggere l’opera di Mary Wollstonecraft: educazione e sincerità.

Per la prima volta forse compare il tema della costruzione sociale del genere: se le donne si
trovano in uno stato di debolezza e di ignoranza non dipende dalla loro natura ma dalla loro
educazione. Non ci sono in natura davvero delle differenze fra uomini e donne per ciò che
riguarda la moralità e la razionalità, ma é lo stato di soggezione e di oppressione in cui si
trovano le donne a generare la loro visione distorta della realtà e la loro influenza moralmente
negativa sulla società “alleviamo le donne a essere frivole, stupide, dipendenti, prive di personalità
e di opinione e poi ci lamentiamo che le donne siano frivole, stupide, non all’altezza degli uomini
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ma é la società che le vuole cosi, sono l’istruzione e l’educazione che le mantengono in
questo stato di inferiorità, che non è uno stato naturale ma uno stato che dipende dalle
esigenze della società”.

Nella lotta contro le disuguaglianze che i rivoluzionari combattevano, secondo Mary


Wollstonecraft, non ci si poteva limitare ad avere come obiettivo la modifica della sfera pubblica
ad esempio eliminando i titoli nobiliari e abbattere il sistema del privilegio. Era necessario entrare
anche nella fera domestica - nella casa e nella famiglia - e osservare le origini, il senso e tutte le
conseguenze della disuguaglianza tra gli uomini e le donne. La quesitone per le donne non era
solo di essere escluse della cittadinanza ma di patire dentro la sfera della domesticità la
subordinazione agli uomini e ad un sistema sociale che le voleva sempre minorenni ed escluse.
Solo se si fosse cambiata la condizione femminile a partire dalla sfera domestica, allora
l’uguaglianza nella sfera pubblica sarebbe stata davvero rigenerativa della società intera, cioè
solo quando le donne, educate ad essere quegli esseri razionali, morali, autonomi e sinceri
avrebbero potuto contribuire con il loro apporto a questo cambio della società.

È l’Ottocento il secolo nel quale la battaglia dell’eterna emancipazione femminile (liberazione


della donna dalla condizione di inferiorità nei confronti dell'uomo, sul piano sociale, giuridico e
sessuale) prende piede, anche se in queste battaglie si trovano quei presupposti già presenti nel
pensiero settecentesco:

• Necessità di essere riconosciute come esseri razionali e morali, dotate di autonomia di pensiero
e giudizio e capacità di azione e responsabilità

• Rivendicazione degli stessi diritti civili e politici goduti dagli uomini, con un’enfasi particolare
anche sul diritto all’istruzione
• Svelamento del finto universalismo del linguaggio dei diritti che diceva “uomo” proprio per
identificare il maschio come soggetto titolare dei diritti, ribadendo l’opposizione “maschio-
razionalità-moralità vs donna-irrazionalità-immoralità”

La concessione del diritto di voto non è quindi l’unica questione in gioco. Solo con
l’emancipazionismo del pieno Ottocento diventerà prioritaria la quesitone del diritto di voto per
quei movimenti detti appunto suffragisti, che avranno come obiettivo la concessione del diritto di
voto alle donne. Dunque quella del voto e della cittadinanza incompleta non fu mai la sola
questione perché su un piano più ampio e generale c’era la quesitone della definizione della
natura della donna e dello status giuridico della donna dentro la famiglia. Il codice
napoleonico adottato nel 1804 nell’Impero francese, ma poi imitato da tutta l’Europa ripropone la
donna - all’interno della famiglia - come proprietà del marito, come tutelata in ogni sua azione,
come incapace di agire in prima persona senza l’autorizzazione paterna o maritale.

Ci sono tante matrici culturali che alimentano le lotte ottocentesche per i diritti femminili: il
liberalismo (un pò ovunque in Europa e negli USA), i movimenti patriottici (Italia), il socialismo
utopistico (Inghilterra, Francia, Italia) e poi soprattutto negli USA e in Gran Bretagna, la cultura
religiosa neo evangelica. Una spinta molto importante per i movimenti venne anche da quel modo
peculiare di intendere la superiorità morale delle donne all’interno delle famiglie.
Naturalmente é un’arma a doppio taglio perché questo era al tempo stesso il fondamento delle
argomentazioni più forti per escludere le donne dalla sfera pubblica - cosa che molti uomini ma
anche molte donne ritenevano necessario - eppure al tempo stesso questa stessa idea divenne
un’arma molto potente per altre donne, che su questa peculiarità femminile provarono a costruire
una strada per sfondare i limiti della domesticità e trovare spazio nella società civile.

“Costruire una strada” per molte donne si trattò di un’intrapresa senza una riflessione a monte
che le portasse a agire per ottenere questo risultato dello sfondamento della domesticità per
trovare spazio nella società civile; per altre la strada fu invece più consapevolmente intrapresa
con questo obiettivo. L’esito fu in ambedue i casi il medesimo, cioè quello di utilizzare una
caratteristica tradizionale della femminilità per inventare un ruolo delle donne che potesse essere
anche uno strumento di visibilità e accreditamento delle donne anche al di fuori della casa. È
adesso che emerge con maggiore consapevolezza - accanto all’esigenza della parità dei diritti -
anche il senso della diversità della natura maschile rispetto a quella femminile, non intesa come
inferiorità da combattere ma come peculiarità, come prospettiva femminile sulla vita, sul mondo e
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sull’organizzazione politica e sociale. Quelle donne che utilizzarono la valorizzazione di alcuni tratti
tipici della natura femminile per inventare un protagonismo femminile magari anche
propedeutico al protagonismo femminile nella sfera politica partecipano ad un movimento che gli
storici chiamano di femminismo pratico. Sono donne - molto spesso riunite in associazioni - che
trovano nella filantropia una strada strategica per almeno tre motivi:

• Serve ad accreditare in maniera concreta e “sommessa” (non rivoluzionaria, non contestando


l’ordine) la presenza delle donne nella sfera pubblica come persone capaci di essere utili alla
società, impegnate nella ingiustizia e a favore degli emarginati e delle fasce più deboli della
società (prostitute, orfani, bambini, malati). Non si tratta solo di aiutare le donne prostitute ad
abbandonare la strada ma di combattere le cause che obbligano le donne ad accettare
questo destino, non si tratta di aiutare quella donna ma di lavorare per un aspetto della causa
femminile - la piaga della prostituzione - aiutando il genere femminile nel suo complesso.

• Fornire davvero a queste persone fragili sollievo e aiuto

• Serve ad organizzare le donne, e fornire loro una via per riflettere su se stesse, sulla loro
condizione, sia personale che in senno più generale. Diventa questo femminismo pratico una
palestra per le donne per fare ingresso nella sfera pubblica, anche se per queste donne il diritto
di voto non era la questione prioritaria. Le donne del femminismo pratico scrivono molto poco,
non sono delle teoriche, la loro strada é tutta una strada di azione e di intervento concreto e
molte delle soluzioni che queste donne elaboreranno per aiutare le fasce deboli saranno poi
assunte dai comuni, come iniziative organizzate e finanziate dalla finanza pubblica, come
strategie di intervento. Si tratta di donne che hanno dato un contributo duraturo e significativo.

Possiamo citare donne come Laura Solera Mantegazza, Sandrina Ravizza, Ersilia Maino che
hanno messo in campo un’azione di assistenza e cura con profondi risvolti politici che servi a
evidenziare la potenzialità delle donne nell'ambito sociale. Non era solo carità o elemosina, né
il loro intervento si esauriva con la soluzione di singole situazioni ma era anche un modello di
intellettualità femminile che si esprimeva direttamente nel fare e che, pur senza grandi riflessioni
teoriche provava a cambiare le cose nel concreto.

Quanto al diritto di voto:

Stati Uniti: il movimento suffragista vero e proprio é già attivo e molto bene organizzato nella
prima metà dell’Ottocento. Nel 1837 nasce la National Female Anti-Slavery Association ed é del
1848 la Convenzione di Seneca Falls cioè un congresso internazionale di donne impegnate nella
quesitone femminile, dove ebbero un ruolo centrale Lucretia Mott, Elizabeth Stanton, Martha
Wright e Mary Ann McClintock. La National Female Anti-Slavery Association é l’associazione
nazionale delle donne contro la schiavitù. Negli Stati Uniti d’America molto spesso i movimenti
suffragisti femminili incrociano la causa dell’abolizionismo, la quesitone cioè della subordinazione,
oppressione e sfruttamento dei neri diventa un tema di comunanza con l’oppressione e la
subordinazione delle donne. Negli anni 60/70 dell’Ottocento i neri americani ottennero una serie di
emendamenti alla Costituzione mediante i quali venne abolita la schiavitù (1865) e concesso il
diritto di voto ai neri uomini (1870) mentre le donne dovettero aspettare il 1920 per essere
ammesse al suffragio politico universale. Le loro organizzazioni però non si fermarono, nonostante
la scarsità dei risultati.

Europa: fino alla seconda metà dell’Ottocento il movimento suffragista non si organizzò se non in
maniera episodica: furono i movimenti democratici e i grossi cambiamenti introdotti nel sistema
economico e sociale dall’industrializzazione nella seconda metà dell’Ottocento a irrobustire i
movimenti femminili e le loro organizzazioni.

Il femminismo non fu mai un movimento unitario e omogeneo né negli obiettivi, né negli strumenti
né nell’orientamento politico, che non sempre i movimenti femminili ebbero. Il loro rapporto con i
partiti politici fu sempre complesso, non sempre i movimenti femminili abbracciarono un partito o
si fecero abbracciare da un partito, a volte accadde, altre volte ancora furono gli stessi partiti ad
abbracciare la causa femminile senza che ci fosse un vero e proprio accordo esplicito di
collaborazione sul fronte elettorale. Nella seconda metà dell’Ottocento il femminismo liberale é
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particolarmente diffuso noto nel suo confronto-scontro con il femminismo socialista o meglio
con il socialismo in generale. Alla corrente liberale appartengono donne della classe medio-alta
portatrici di una serie di istanze:

- Accesso ai più alti gradi dell’istruzione e alle professioni liberali (magistratura, insegnamento
universitario, avvocatura)

- Emancipazione della donna dalla tutela del marito e dunque l’uguaglianza dei diritti civili

- Diritto di voto

Nomi di questo femminismo liberale furono John Stuart Mill, che si adoperò per l’estensione del
suffragio anche alle donne e Harriet Taylor, moglie di Mill con il quale collaborò e scrisse molte
delle opere sulla condizione femminile, che uscirono però in quel tempo solo a nome di Mill. Il
femminismo socialista fu molto critico nei confronti di quello liberale e credeva che i loro approcci
fossero incompatibili e che non avrebbero mai potuto unire le proprie forze nella causa delle
donne. Gli obiettivi che le donne liberali si proponevano erano molto importanti ma assolutamente
non prioritari, perché, secondo le socialiste, le donne lavoratrici degli strati inferiori della società
(le proletarie) avevano necessariamente obiettivi di primo piano, di immediata urgenza molto
diversi da quelli che erano gli obiettivi che le donne liberali si erano poste.

Per le socialiste, la condizione delle proletarie era in primo luogo quella di essere sfruttate dal
sistema economico capitalista, e quindi era in primo luogo dal capitalismo che le donne dovevano
liberarsi. Solo una volta vinta questa guerra, nella quale le donne erano alleate degli uomini, esse
avrebbero potuto dedicarsi ad altri obiettivi, ad esempio quello dell’istruzione universitaria, del
voto, della libera scelta della professione. È una posizione molto chiara in molti scritti di Anna
Kuliscioff (1855-1925), rappresentate più interessante non solo del femminismo socialista ma del
socialismo italiano. Da socialista riteneva che il femminismo liberale fosse uno sfizio per signori
abbienti che non avevano il problema dello sfruttamento quotidiano nelle fabbriche.

Il diritto di voto é però una conquista del Novecento, la prima guerra mondiale diede un forte
impulso alla richiesta delle donne di votare: le donne avevano fornito infatti un contributo nelle
fabbriche, nel sistema economico, che gli uomini non potevano più coprire. Anche la seconda
guerra mondiale ebbe questo stesso effetto. In Italia ciò accadde solo nel 1946, quando per la
prima volta le donne poterono votare ed essere elette. Il 2 giugno 1946 si svolsero in Italia sia il
referendum istituzionale nel quale il popolo italiano fu chiamato a scegliere tra monarchia e
repubblica, sia le elezioni dei rappresentanti della Costituente, dove vennero elette anche 21
donne.

Con il diritto di voto, non finisce la storia del femminismo, sebbene dal punto di vista della libertà
politica la disuguaglianza tra uomini e donne era stata colmata in molti altri ambiti questa
diseguaglianza rimaneva nella sostanza, sul piano sociale e soprattutto domestico. La donna
resta oggetto di proprietà del padre prima e del marito poi fino al 1975 con la riforma del diritto
di famiglia. Negli anni Cinquanta dopo quest’epoca di grande protagonismo delle donne, le
donne subirono una pressione sociale fortissima che le voleva ricondurre al modello tradizionale
di femminilità, che venne ben propagato e diffuso dai media, vecchi e nuovi, ovunque veniva
proposto alla donna il vecchio e tradizionale modello donna-moglie-madre-casalinga.

A partire da questa constatazione il femminismo della "seconda ondata” prende a riflettere sulla
condizione femminile:

• Betty Friedan chiama questo condizionamento “mistica della femminilità”, che é anche il
titolo del suo libro pubblicato nel 1963. Con questa espressione intendeva riferirsi al fatto che
alle donne veniva proposto un modello tutto ancora incentrato sull’idea dell’angelo del focolare,
che veniva calato dall’alto in una società democratica che non era più quella tradizionale, dove
per tutti le possibilità si erano ampliate (anche se si diceva alle donne di non cogliere queste
possibilità). Era una mistica che lasciava alle donne un grande senso di insoddisfazione unito a
un senso di colpa causato da questa insoddisfazione: le donne sapevano di essere
insoddisfatte, queste donne sapevano che avrebbero dovuto essere soddisfatte perché avevano
tutto, eppure non lo erano, e quindi si sentivano in colpa.

• Altra protagonista del femminismo della seconda ondata fu Simone de Beauvoir che nel 1949
pubblica “Il secondo sesso”. Il titolo di questo libro cosi come anche la domanda con cui il suo
libro inizia “che cos’é una donna” sono molto significativi di ciò di cui l’autrice intende parlare: il
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fatto cioè che la donna é sempre stata definita a partire dall’uomo, per differenza, per
contrasto e mai osservata in sé e per sé. Che un uomo sia un uomo è evidente a tutti,
nessuno chiede mai cosa sia un uomo, perché é evidente a tutti, ma quando si chiede che cosa
sia una donna nessuno sa rispondere se non per differenza. La domanda “che cos’é una
donna” ha un senso perché si deve capire che cos’è la donna, mentre invece la domanda “che
cos’é un uomo” non ha senso perché tutti lo sanno. Simone intraprende una lunga ricerca
storica per dimostrare che l’identità femminile é sempre stata frutto di una costruzione
sociale, vale a dire che in ogni epoca la società ha costruito e imposto alla donna un’idea di
femminilità a partire dalle esigenze della società stessa.

Cosi come questa costruzione sociale del genere femminile aveva riguardato tutte le donne, il
processo di liberazione della donna dalla sua condizione di subordinazione, se voleva davvero
essere efficace, doveva necessariamente:

• Essere collettivo cioè implicare la coscienza che le donne sono soggetti in relazione tra di loro
accomunate da una medesima condizione

• Partire dall’evoluzione della condizione economica e da quella uguaglianza politica e sociale che
erano state ottenute sulla carta ma che ancora nella realtà non erano perfettamente realizzate

Il disagio che accomunava le donne negli anni Cinquanta non risponde a una unitarietà del
movimento femminista, perché nel femminismo della seconda ondata questa medesima
percezione della propria condizione disagiata, di oppresse e di escluse trova una ulteriore
declinazione tra le donne di colore, in particolare tra le donne afro-americane. Le donne nere si
sentono discriminate come donne - e questo le accomuna alle donne bianche - ma si sentono
discriminate anche in quanto nere e quindi sentono di non avere molto in comune con il
femminismo delle donne bianche. Le donne nere si sentono vittime di molteplici oppressioni che
arrivano da molteplici direzioni, e negli anni Settanta fra le donne nere questo tema emerge con il
nome di intersezionalismo: le donne negli anni Settanta, anche grazie ai movimenti giovanili e di
protesta che emersero in America, mettono a fuoco la peculiarità delle donne di colore, che sono
vittima di una triplice oppressione: di genere, di razza e di classe. Le sostenitrici di questo
movimento trovano impossibile abbracciare la causa del femminismo bianco. Protagoniste furono
Bell Hooks e Angela Davis che hanno messo a fuoco la molteplice oppressione delle donne nere.

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