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LEGALITA' GIUSTIZIA E GIUSTIFICAZIONE. (Francesco Gentile)


I giuristi hanno essenzialmente il problema di apparire utili e perciò ritengono di doversi interessare
di tematiche gradite al mondo dell'Avvocatura e della Magistratura. Ma nello stesso tempo i filosofi
del diritto continuano a non frequentare i Tribunali, perché vittime della convinzione che si tratti di
un luogo in cui operano esclusivamente i “pratici”. Là dove pulsa l'esperienza giuridica riteniamo
che il compito del filosofo del diritto sia quello di spiegare come si pone il “problema giuridico” e
come si costruisce “l'architettura del caso”, nella continuità, che non è confusione, di teoria e prassi.
PREMESSA
Il libro è strutturato in tre “stanze”, la prima che chiamiamo della “geometria legale”, incentrata
sulla legalità, la seconda della “dialettica giuridica” incentrata sulla giustizia, e la terza “teodicea”,
incentrata sulla giustificazione, introdotte da un preambolo di carattere storico e storiografico sulla
“fortuna” della filosofia del diritto in Italia.

Capitolo 1 – LA FORTUNA DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO NELL'ACCADEMIA


ITALIANA

Nel 1991 il CSM si esprimeva dicendo : “ Lo studente in giurisprudenza negli ultimi 20 anni è
impegnato in uno studio molto più severo e tuttavia impara molto meno”. Il prof. Giovanni Galloni(
allora Vicepresidente del CSM) indicava le ragioni di tale sfasatura tra il peso degli studi giuridici e
la reale preparazione del giurista di rilievo maggiore dato allo studio analitico della normativa
anziché a quello dei principi che regolano e ai criteri logici per interpretare i testi, ma con
trascuratezza verso le materie formative rispetto a quelle di mera specializzazione. Questi sono
argomenti già sviluppati quasi 200 anni prima da Gian Domenico Romagnosi nella prospettiva
dell'educazione pubblica. Egli sosteneva che l'insegnamento deve principalmente vertere sulla teoria
filosofica del diritto, combinata con la disposizione positiva delle leggi. Da parte sua invece
Pasquale Stanislao Mancini notava come il progresso nell'evoluzione della scienza giuridica si fosse
manifestato con l'assunzione ad “oggetto di studio e d'insegnamento” nelle Facoltà Giuridiche, oltre
alla stanca ripetizione dei canoni di diritto (Diritto Romano, Pubblico, Privato, Ecclesiastico ecc),
della Filosofia del diritto considerata come << la madre di tutte le altre discipline>> . Intorno alla
metà dell'800 un po' ovunque nelle università italiane, la filosofia del diritto comincia a trovare un
posto nell'ambito del piano di studio della facoltà giuridica. Un'attenzione filosofica all'esperienza
giuridica è, dunque, richiesta proprio dai giuristi, come momento qualificante uno studio corretto
delle stesse leggi positive e prende il nome di Filosofia del diritto. Vi è un nodo problematico in
cui questa si trova coinvolta nel suo iscriversi in un piano di studi giuridici, dovendosi far largo ma
anche misurarsi con discipline affini quali il Diritto naturale e l'Enciclopedia del diritto, ma anche in
rapporto all'Etica. I giuristi chiedono alla filosofia di guardare al diritto in una prospettiva unitaria,
sottolineando la “funzione educativa” che si aspettano dalla nuova disciplina. Insomma, la filosofia
del diritto, viene invocata dai giuristi come contrappeso allo scientismo (facoltà della scienza di
risolvere i problemi dell'uomo) dilagante negli studi giuridici e come antidoto al materialismo che si
diffonde nell'esperienza giuridica. Norberto Bobbio è particolarmente severo nel giudizio : “Fu una
disciplina esclusivamente scolastica, che va a scapito della genuinità, sistematicità che soffoca la
spontaneità, una filosofia didascalica. In quel tempo la filosofia giuridica fu, dal punto di vista
speculativo, eclettica.” Essa è scivolata verso questo modo di ragionare considerando il modo in cui
la disciplina venne coltivata dai suoi titolari, ossia come una filosofia particolare o applicata,
appendice di una filosofica generale, sviluppata nel nucleo teoretico piuttosto che come
problematizzazione dell'esperienza giuridica. In altri termini, la filosofia destinata agli studenti della
scuola del diritto veniva 'tratta' da un sistema filosofico precostituito, indipendentemente dalle
problematiche giuridiche, e poi a queste mescolata e per deduzione adattata, secondo un processo
ideologico. Nel 1921 Giorgio Del Vecchio, lo 'scolarca incontrastato' della filosofia del diritto
contemporanea, fonda la “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, organo della Società
Italiana di Filosofia del Diritto, con lo scopo, come si legge nel Programma, di farne “il punto di
incontro di filosofi e giuristi, i quali troppo spesso si ignorano e quasi ostentano una reciproca
incomprensione, affinchè si stabilisse tra gli uni e gli altri una certa comunione di lavoro e un attivo
scambio di idee, per ciò che riguarda la vita del diritto e i suoi problemi fondamentali”. Ed è subito
vivace polemica, provocata da Angelo Ermanno Cammarata che affermò che “la ragione profonda
dell'incomunicabilità tra giuristi e filosofi andava rintracciata appunto in quella mescolanza di
dottrine filosofiche di concetti tecnico-empirici, di cui erano rimaste vittime, in forme diverse, sia
l'indirizzo positivistico che quello neo-kantiano. Si è finito col dar luogo ad un miscuglio di teorie
che non poteva, a lungo andare, essere riguardato di buon occhio né dai filosofi, né tanto meno dai
giuristi.” La presa di coscienza dell'esito fallimentare di una filosofia del diritto come filosofia
particolare produce l'effetto di focalizzare l'attenzione dei cultori della materia “sulla reale natura
della scienza giuridica e sul rapporto tra quest'ultima e la filosofia”. A partire dalla seconda metà
degli anni Trenta appariranno i più significativi studi filosofici sulla natura della giurisprudenza
come scienza. Si ricorda a tal proposito l'opera di Norberto Bobbio, di Giuseppe Capograssi e di
Enrico Opocher. Il tema centrale della speculazione giusfilosofica è divenuto quello della
giuridicità, affrontato con riferimento specifico ai problemi della giurisprudenza e a confronto
diretto con le teorizzazioni dei giuristi, in una prospettiva profondamente condizionata dal
dominante neoidealismo, che avrebbe impedito un autentico 'incontro di filosofi e giuristi', tanto per
la riduzione del diritto a volontà voluta quanto per la definizione di quelli giuridici come
pseudoconcetti. Federico Casa sostiene che << per tutto il 900 quel 'ponte' non è mai stato
veramente gettato. Nè dalla filosofia della Scuola analitica, né da parte della filosofia del cosiddetto
circolo ermeneutico che non è riuscito a cogliere il reale significato dell'esperienza giuridica.>>
Casa continua : << E' difficile sostenere che, nella stesura dei suoi provvedimenti, un magistrato
abbia presenti gli affascinanti modelli ermeneutici>>. Non più tardi di qualche anno fa, al
Congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e politica di Macerata, il celebre
giurista Natalino Irti “ si domandava divertito come potessero i filosofi del diritto discutere di teoria
generale dell'arbitrato senza senza aver mai preso parte ad uno”. Secondo Opocher “il diritto del
nostro tempo è un diritto senza verità, l'attuale crisi dell'esperienza giuridica è una crisi della verità
del diritto”. Opocher con questa denuncia di riferisce al carattere puramente strumentale che il
diritto ha assunto nella società moderna, quasi completamente appoggiato allo stato. Quel diritto
che si è andato sempre più riducendo ad uno strumento per fini estranei al proprio contenuto, se non
addirittura un mero strumento di potere. La sua dipendenza dalla volontà statuale, pur necessaria a
garantire la certezza, è diventata l'unico titolo alla sua validità, l'unico criterio della sua giuridicità e
per questa via esso è divenuto l'indispensabile strumento per realizzare la volontà dominante, per
dirigere e piegare l'azione verso qualsiasi avventura, per assicurare validità oggettiva allo stesso
arbitrio. La responsabilità di questa deriva che compromette l'intera esperienza giuridica, risale ai
filosofi e giuristi, per il concetto puramente formale del diritto che li accomuna. Non appena i
filosofi tentano di passare da una determinazione formale della giustizia ad una determinazione
contenutistica, la verità del diritto si vanifica, si trasforma in mera ideologia. Tipico, a questo
riguardo, è il passaggio dalla filosofia del diritto neo-kantiana a quella idealistica e dall'idealistica a
quella marxistica, dice Opocher definendo tutto ciò come una vera e propria tragedia. Insomma
quell'incontro tra filosofi e giuristi che non s'era mai realmente stabilito nella costruzione
dell'esperienza giuridica si sarebbe verificato dell'esplosione della sua crisi. Opocher ritiene anche
di poter individuare la matrice della crisi in quello che definisce laicismo giuridico , ossia la pretesa
di isolare l'esperienza giuridica dalla complessa trama dei problemi, delle istanze, delle certezze
implicite nell'azione, la pretesa di fondare e far valere la verità del diritto nel mondo sociale. Il
laicismo giuridico però implica una rinuncia alla consapevolezza della verità giuridica. Le ragioni
per cui sostiene questo sono storiografiche e teoretiche insieme che risalgono a Grozio e all'idea di
un sistema di diritto razionalmente costituibile indipendentemente dalla morale e dal costume, e più
in generale al cosiddetto giusnaturalismo moderno con riferimento ad Hobbes e agli altri autori che
condizionano il pensiero giuridico successivo. Dalla consapevolezza della crisi derivante dalla
pretesa di elaborare una teoria razionale del diritto, prende corpo un movimento di pensiero che è
stato classificato come “filosofia dell'esperienza giuridica” che ha avuto in Giuseppe Capograssi il
capofila. La nozione del diritto come esperienza costituisce la novità più significativa e qualificante
il movimento. La filosofia del diritto rappresenta una delle possibili vie d'accesso sull'esperienza
che costituisce la prima forma di sapere umano, perchè l'uomo vive nell'esperienza. Capograssi
sostiene che il filosofo del diritto, se vuol cogliere il valore dell'esperienza giuridica, deve seguire il
lavoro del giurista, portando alla luce i motivi filosofici dell'operare dei giuristi. La filosofia del
diritto era ed è inevitabilmente destinata ad abbandonare l'intera esperienza giuridica di fronte
all'irrazionalità del fatto compiuto e alla forza. Appare fondamentale il riconoscimento della verità
senza di cui l'esperienza, anche quella giuridica, non vi sarebbe. Il momento filosofico anticipa
l'operazione stessa, quel modo di riflettere, definito scienza giuridica. Nell'operare del giurista
infatti è sempre presente anche un sapere che trascende il fare immediato. La funzione propria del
filosofo del diritto non può essere che quella di richiamare l'attenzione dell'operatore giuridico sul
momento originario della sua esperienza, per individuarne la trama fatta di teoria e prassi. La
filosofia è prima di tutto un insieme concettuale, un'attitudine mentale, sempre e solo
un'aspirazione al sapere. Il compito del filosofo del diritto è quello di ricercare l'essenziale, il vero,
il giusto.
Problema tra scienza e storia, divenuto il problema della della cultura giuridica contemporanea.
Giovanni Tarello sostiene che le teorie giuridiche sono strumenti pratici, in quanto servono ad
operatori che usano leggi ed istituzioni. Tarello tende a mettere in luce l'obiettivo ideologico
sottostante il processo di tecnicizzazione della scienza giuridica e di deresponsabilizzazione, in
senso politico, del ceto dei giuristi attuata dal positivismo. Bobbio coglierà l'occasione per ribadire
ciò affermando che il positivismo giuridico era “la filosofia più consona alla mentalità e
all'esperienza dei giuristi”. Così da queste considerazioni si pone il problema filosofico per
l'operatore giuridico, abituato a tenere ben aperti gli occhi su 'quello che si fa' con il diritto e a porsi
urgentemente la domanda su 'che cosa ci sta a fare' il diritto nell'ambito dell'esperienza umana. Dal
richiamo del carattere operativo ed ipotetico della geometria legale emergeva la necessità di una
consapevolezza che per essere veramente critica non essere né ipotetica né operativa e che quindi
doveva essere filosofica. Giacomo Gavazzi nota come il positivismo giuridico abbia per parecchio
tempo sottoscritto come propria la teoria della coerenza e della completezza dell'ordinamento, ossia
due ideale tipicamente nazionalistici. Da qui nasce il problema del diritto nazionale. Per risolverlo
Gavazzi, da positivista, proponeva la motivazione delle leggi, analogamente alla motivazione di una
sentenza, cioè di un discorso strumentale, preparatorio e giustificativo di quello imperativo della
decisione o della prescrizione, come esposizione della ragioni che vengono o possono venire portate
a giustificazione della prescrizione. Tra il 1984 e il 1988 presero avvio gli Incontri dell'Ircocervo su
“Teoria e prassi alle radici dell'esperienza giuridica”. Perlingieri, Grasso, Giannini e Fazzalari
hanno aperto ad una discussione filosofica i recessi del diritto civile,costituzionale,internazionale,
diritto amministrativo e del processo. Pietro Perlingieri da un lato smaschera le aporie della dottrina
civilistica tendente ad esaminare gli istituti senza il problema della loro ratio, ovvero della loro
giustificazione. Dall'altro, smaschera le aporie della dottrina civilistica tendente a considerare la
prassi come aspetto esterno ed estraneo al fenomeno normativo ed il fatto come elemento
occasionale e contingente nella ricognizione degli istituti giuridici: l'aporia della pratica di una
teoria senza prassi. Perlingieri proponeva come compito specifico e qualificante l'opera del giurista
di scoprire la potenzialità normativa della legge nel quadro dei valori e degli interessi garantiti e
tutelati dalla costituzione. Il dibattito si accendeva sul concetto di 'legalità costituzionale': la
costituzione come vero e proprio principio teorico che regola la vita sociale. Pietro Giuseppe Grasso
,invece, attirava l'attenzione sui problemi specifici della costituzione. L'organizzazione dei poteri
supremi viene ad essere determinata soprattutto ne corso del tempo, mediante consuetudini, usanze,
pratiche, ecc. Si affacciava anche la discussione sull'ordinamento come il luogo nel quale le
dissonanze derivanti dalla separazione di teoria e prassi avrebbero potuto trovare composizione
armonica. Ordinamento inteso come mettere ordine. Gli incontri successivi con Ziccardi e Giannini
riguardavano due ordinamenti specifici, quello internazionale e quello statale. Sul piano del diritto
internazionale privato, Ziccardi ha riproposto il tema dell'ordinamento come sintesi di teoria e
prassi, per il quale gli strumenti operativi non andrebbero ricercati solo nell'ambito della
legislazione nazionale ma anche in quella straniera, in un sistema aperto di diritto, in un ordine da
intendersi come principio metafisico, condizione e garanzia della transnazionalità. Annunciando la
scomparsa prossima del diritto amministrativo Massimo Severo Giannini proponeva il problema
dell'ordinamento inteso quale mettere ordine, come principio regolatore di natura teoretica, e la
norma, quale strumento operativo di natura pratica. Fazzalari definisce processo quel procedimento
caratterizzato dalla partecipazione alla formazione dell'atto finale,la sentenza, di coloro nella cui
sfera di interessi il procedimento produrrà effetti, e il contraddittorio, dei cui risultati il giudice non
può non tener conto. Tutte le operazioni giuridiche risultano effettivamente operative solo e in
quanto orientate dall'ordine inteso come principio regolativo, quasi metafisico. Cominciava così una
ricerca tramite un'attenta riflessione sulle aporie della 'geometria legale'. A documentazione di ciò
stanno le due collane delle Edizioni Scientifiche Italiane: L'ircocervo e La crisalide. La prima tenta
un bilancio del pensiero giuridico italiano contemporaneo; la seconda è concepita in relazione
all'esito fallimentare delle molte rivoluzioni e riforme e raccoglie saggi prevalentemente filosofici
sull'umanesimo liberale, sulla libertà soggettiva, sull'etica, sulla metafisica. Dal 2002 viene
pubblicata “l'Ircocervo”, rivista elettronica italiana di metodologia, teoria generale del diritto e
dottrina dello stato. In questo quadro un significato particolare ha il volume delle “lezioni del
quarantesimo anno” in cui vengono presentati saggi sull'architettura del caso che sviluppano le
intuizioni filosofiche nell'ambito del diritto civile, penale e amministrativo.
Per intendere la ragione della critica alla filosofia del diritto bisogna rifarsi a Croce, la sua 'filosofia
dello spirito' che si articola nella distinzione dell'attività spirituale in teoretica e pratica, germinate
in forma individuale(l'espressiva e l'economica) e in una universale (il pensiero logico e l'azione
morale): sulla base di tali premesse la filosofia del diritto, concepita come filosofia pratica, avente
funzione educativa, al modo dei suoi cultori di metà 800 risultasse uno strano miscuglio, un
groviglio di difficoltà, insomma un ircocervo. Croce aveva avvertito il problema posto dai fatti
complessi e derivati nei quali si mescolano le varie attività, di cui l'attività giuridica era l'esempio.
Il diritto è una regola in rapporto con l'economia. L'ircocervo è significativo di come proprio il caso
giuridico implichi la corretta istituzione del rapporto dialettico fra ciò che è e ciò dev'essere, fra
teoremi e prassi. Sin dal primo momento del suo costituirsi, quando l'uomo si rivolge a giurista per
mettere ordine nelle sue relazioni con gli altri e questi gli fornisce aiuto mediante la
rappresentazione di quello che gli spetta.
Capitolo 2 – LA STANZA DELLA 'GEOMETRIA LEGALE'
In tutti i contesti rimane ferma la nozione giuridica di giustizia, “la costante e ferma volontà di dare
a ciascuno il diritto che gli spetta” come disse Ulpiano. L'esperienza nella quale il giurista viene
chiamato, advocatus, è quello della lite: del conflitto, della comunicazione interrotta, della relazione
lacerata. Ed egli corrisponde alla richiesta d'aiuto mediante la rappresentazione del suo di ciascuno
offerta dalla geometria legale. Il 'protocollo' o 'apriori' della geometria legale è costituito dalla
convenzione dell'uomo come individuo, e quindi come soggetto senza regole perché privo delle
nozioni di bene e di male. Il puro stato di natura è dunque uno stato in cui ognuno ha una pretesa su
tutto e di conseguenza nessuno è sicuro di niente. La precarietà assoluta dello stato di natura viene
da Rousseau colorita con introspezioni psicologiche, anticipatrici degli sviluppi in senso
consumistico della società tecnologica. La geometria legale postula l'associazione politica come
compagnia di assicurazione alla quale si accede tramite il contratto sociale. Dell'associazione
politica come compagnia di assicurazione bisogna considerare lo 'stato di diritto' che assicura in
negativo ossia per repressione, e lo 'stato sociale' che assicura in positivo ossia per promozione
(sopravvivenza, salute, proprietà, lavoro ecc.). Il limite negativo si basa sul principio di risarcimento
del danno. Il limite positivo si configura in sistemi di protezione estesi a tutti. Per questo
l'ordinamento giuridico viene considerato come meccanismo assicurativo 'Se A allora B' dove A è la
fattispecie astratta e B l'effetto giuridico. Un meccanismo molto semplice per cui al verificarsi di
una interferenza tra comportamenti soggettivi si fa corrispondere una sola reazione obbligata,
prevedendo come dovuta per chi non si attenesse una sanzione. Mediante l'ordinamento giuridico
delle condotte dei singoli soggetti non si evita l'interferenza e quindi la conflittualità, cosa affatto
impossibile, ma si neutralizzano le conseguenze della relazione intersoggettiva, vero e proprio
evento dannoso per l'uomo da cui derivano: dispute, conflitti, e infine guerra. In questa prospettiva i
diritti soggettivi vengono configurandosi come un potere privato, relativo ma sicuro, come qualcosa
che non è propria del soggetto in sé ma bensì come concessione del potere pubblico. Ragionando in
termini di assicurazione, si potrebbe dire che gli obblighi giuridici corrispondono ai premi di
assicurazione che il soggetto deve pagare per poter esercitare i diritti soggettivi, indennità
assicurategli dal potere pubblico al verificarsi dell'evento dannoso ossia della relazione
intersoggettiva. Ora, per assicurare il funzionamento di questo meccanismo, la geometria legale
deve postulare(chiedere,per ottenere) la sovranità del soggetto pubblico e la sudditanza dei soggetti
privati. Per Jean Bodin sovrano è colui che <<nulla riceve dagli altri>> e << non dipende che dalla
sua spada>>; suddito il soggetto privato che, come espresse Rousseau, in virtù del contratto sociale
<<non è niente, né può niente, se non mediante la collettività>>. L'unica fonte dell'ordinamento
delle relazione intersoggettive è la legge in quanto espressione della volontà sovrana. Unica guida il
legislatore il quale <<deve sentirsi in grado di cambiare la natura umana, di trasformare ogni
individuo, togliendo le forze che gli sono proprie per dargliene estranee a lui, di cui non possa far
uso se non col sussidio di altri. Quanto più le forze naturali sono morte e annientate quanto più le
forze acquisite sono grandi e durevoli, tanto più solida e perfetta è l'istruzione>>. Di questa
operazione di controllo sociale l'operatore giuridico, in quanto applicatore della volontà legislativa,
sarebbe il primo attore, essendo chiamato a qualificare giuridicamente i comportamenti individuali
mediante il sillogismo giuridico di cui, come sostiene Kelsen, premessa maggiore è la Grundnorm:
<<si deve obbedire al potere costituito ed effettivo>>. In tal modo all'universo conflittuale dello
stato di natura egli sovrapporrebbe l'universo ordinato delle leggi. E di ciascuno contribuirebbe a far
riconoscere come suo quanto gli è virtualmente attribuito per le vie legali.
Capitolo 3 – LA STANZA DELLA DIALETTICA GIURIDICA
Secondo Kelsen il diritto positivo chiede di essere giustificato mediante il riconoscimento razionale
di quanto è proprio dell'uomo, della sua dignità. Proponendo la Grundnorm, oltre che come fattore
unificante in un tutto ordinato dei molteplici e disordinati comandi della volontà sovrana, come
fattore di trasformazione del potere in diritto, il geometra delle leggi riconosce implicitamente che il
potere effettivo non è sufficiente a fondare l'obbligatorietà del diritto positivo. La Grundnorm si
basa sul senso del dovere radicato nella personalità di chi qualifica come giuridico il comando del
potere effettivo e costituito. A fondare l'ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive, oltre
al potere del sovrano sta il senso del dovere del suddito. Il problema di fondo dell'ordinamento
giuridico delle relazioni intersoggettive è quello del rapporto tra REGOLA e RELAZIONE, dove la
soluzione geometrica per la quale la regola si sovrappone alla relazione, risulta inevitabilmente
destinata ad impantanarsi in una insanabile contraddizione. Si indaga l'uomo e in Platone la
formazione della comunità politica: egli parte dall'impossibilità dell'uomo isolato di soddisfare tutti
i suoi bisogni, quindi sempre più uomini si riuniscono per darsi reciproco aiuto. Ognuno produce
quello che sa fare meglio e si scambia, ma lo scambio contiene il problema dell'attribuire a ciascuno
il suo. Perché sia realmente in grado di attribuire a ciascuno il suo prodotto una comunità deve
avere: a) i produttori, che sappiano produrre in modo da soddisfare i bisogni (la cui virtù è la
sophrosùne ossia la temperanza); b) i custodi che sappiano difendere la città dai nemici, esterni ed
interni (la cui virtù è l'andreìa ossia il coraggio); c) e i filosofi che sappiano vedere ciò che è
veramente (la cui virtù è la saggezza, sophìa). Nella comunità “ciascuno attua ciò che gli è proprio,
senza impicciarsi d'altro”. Tra tutte queste virtù la maggior concentrazione si fissa sulla temperanza,
intesa come la via che più direttamente conduce alla giustizia. La temperanza, che in un primo
momento viene individuata come la virtù dei produttori e che poi si rivela come la virtù che deve
essere condivisa da tutti i membri della comunità affinché ciascuno stia al suo posto e non invada
l'altrui, scopre per così dire la struttura dell'anima e si rivela come in essa vi siano due aspetti, uno
migliore e uno peggiore: se domina la parte migliore si è padroni di sé, se domina la peggiore si è
schiavi di se stessi. La relazione quindi non è solo una modalità dell'essere esteriore del soggetto,
nei suoi rapporti con gli altri, ma anche e prima di tutto dell'essere interiore della sua anima, nel
rapporto con se stesso. Platone distingue per questo: l'anima che ragiona, che potremmo chiamare
l'aspetto razionale; l'anima che ama, che ha sete e diviene preda di tutte le passioni, che potremmo
chiamare aspetto irrazionale, che vive in compagnia di ciò che dà soddisfazione e piaceri; l'anima
,infine, dall'aspetto impulsivo, quello per cui ci adiriamo, che alleato con l'aspetto razionale è
chiamato a fronteggiare la prepotenza dell'irrazionale per conservare l'equilibrio personale e di
riflesso della comunità intera. Giustizia in questa prospettiva è dunque che ciascuna delle parti
dell'anima attui la sua propria funzione e in tal senso, compia il proprio dovere, in modo tale che i
movimenti di tutti e tre sono proporzionati gli uni agli altri. Successivamente Platone propone una
rappresentazione dell'anima come composta di temperanza e coraggio che possono trovarsi in
contrasto fra loro e quasi opposte l'una all'altra. Giustizia, così come sono le cose, si rivela essere
misura, giusto mezzo, essere conveniente, opportuno, doveroso, in una parola il mezzo degli
estremi. Proprietà, proporzione, giusta misura, che sono fattori dell'ordinamento soggettivo si
rivelano così come il germe dello stesso ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive della
comunità. Cicerone affermava che “ la disciplina giuridica si ricava dai supremi principi della
filosofia”. Per questa via, calandosi filosoficamente nel profondo dell'essere umano, all'operatore
giuridico di ogni tempo è dato di difendersi dalla tentazione di ridursi ad <<enzima>> del potere e
di accedere a quella che la tradizione giuridica ha definito come Prudentia Iuris. Non bisogna
pensare il diritto come <<costituito sulla base dei decreti del popolo, degli editti dei principi, delle
sentenze dei giudici poiché se così fosse potrebbe essere un diritto rubare, commettere adulterio,
falsificare testamenti, dove tali azioni venissero approvate dal popolo e dalla folla, bensì derivato
dalla natura delle cose, stimolo ad agire onestamente e a tenersi lontano dal mal fare>> (Cicerone).
Per ristabilire la relazione tra i litiganti all'umanità si consiglia la via dialettica della Iuris Prudentia,
quale unica fonte da cui il diritto proviene. Ulpiano ricorda ai giuristi che la comunità li chiama
sacerdoti della giustizia per molte ragioni, perché professano l'arte del buono, distinguono il lecito
dall'illecito, mirano a rendere migliori gli uomini con il timore della pena e con lo stimolo del
premio. Ed è proprio questa via, ad avere il coraggio di percorrerla compiutamente, che conduce il
giurista a riconoscere che la ragione, derivata dalla natura delle cose e stimolante l'uomo ad agire in
modo onesto, è legge.
Capitolo 4 – LA STANZA DELLA TEODICEA
Dopo il discorso affrontato sulla legalità e sulla giustizia, bisogna concentrarsi in maniera
particolare su quello della giustificazione che non può mancare alla filosofia del diritto per il suo
ruolo nella formazione del giurista. Gentile suggerisce tre spunti sulla formazione del giurista, uno
relativo all'esperienza come advocatus, uno relativo all'esperienza come iuratus ed uno relativo alla
legge nell'esperienza del giurista.
1 – Advocatus
I litiganti al giurista chiamato in aiuto chiedono il sostegno del riconoscimento di un diritto. In
realtà al giurista si chiede di trasformare il conflitto, sorto per la pretesa di una cosa, in controversia
ossia nel confronto dialettico delle ragioni che sostengono la richiesta di riconoscimento del diritto
di una persona. Causa del conflitto il dominio; causa della controversia il riconoscimento; oggetto
del conflitto la cosa; oggetto della controversia il diritto della persona. In questo frangente il giurista
è chiamato ad operare, con attenzione alla natura della cosa, al fine di ristabilire la relazione tra le
persone questionanti. E a questo fine opera dialetticamente poiché la pretesa di ciascuno al suo
diritto si configura e può essere sostenuta come domanda d'essere rispettato sulla base della
disposizione con gli altri comune all'ordine per la quale è proprio dell'essere uomo riconoscere a
ciascuno quello che gli spetta, ossia il suo diritto. Risulta chiaro che tutto ciò è possibile solo a
condizione che l'opera dell'advocatus sia sorretta da una precisa disposizione alla tutela della
relazione intersoggettiva, del bene da proteggere, e sia impegnata a condurre il litigante ad una vera
e propria metànoia personale (metànoia=conversione). Le suggestioni da poter trarre dal termine
cristiano metànoia relativamente all'opera del giurista di fronte alla lite per il cui superamento egli è
stato professionalmente advocatus sono due:
• La prima è suggerita dall'idea del cambiamento di cui la metànoia cristiana è carica. La
conversione,infatti, designa un movimento mediante il quale l'uomo si stacca dal proprio Io
per poter accedere alla comunione con Dio. Un movimento di rottura in cui il soggetto si
scontra con l'egoismo individuale e quella del bene in generale- la verità e l'amore- e deve
decidere di abbandonare l'egoismo per per lasciarsi prendere totalmente dal bene. Ora
nell'esperienza giuridica della controversia la situazione presenta delle analogie poiché chi
vi accede è inevitabilmente chiamato a confrontare le proprie ragioni con le ragioni altrui,
per attingere la verità che è comune alle parti. Ciò implica per chi accede alla controversia
giuridica il coraggio di rompere con la propria opinione per riconoscersi nella comunanza
del vero; implica il coraggio di sottrarsi alla forza dell'egocentrismo individuale per lasciarsi
attrarre dalla forza del bene comune. Quindi implica una vera e propria conversione.
• Una seconda suggestione deriva dal fatto che il confronto delle pretese di parte avviene sulla
base della loro ragionevolezza, la riconoscibilità comune che conduce al vero e al bene,
dalla quale non è più possibile discostarsi una volta presa la via del processo. Quì il giudice
è chiamato a garantire la più distesa apertura ad ogni prospettiva di parte in quanto tuttavia
concorrente al riconoscimento del vero. Solo la fedeltà al vero rende possibile la
conversione dei soggetti in conflitto nella lite, tanto che siamo tentati di affermare come
primario impegno del giudice quello di garantire il confronto più aperto possibile delle
ragioni di parte e della stessa imparzialità nel giudizio sul quale finiscono per poter incidere
inevitabilmente le inclinazioni soggettive. Non meno rilevante per l'attuarsi di questo
processo è il ruolo dell'avvocato di parte. La conversione, infatti, è personale e interiore. E' il
soggetto litigante che solo può superare la lite; è lui che deve rompere con le pulsioni
individuali per lasciarsi trasformare dal bene comune che lo allontanerà da esse, ristabilendo
così la relazione con l'altro interrotta sulla base di un bene che è di tutti senza essere di
alcuno in esclusiva. Ora questo mutamento richiede coraggio interiore e personale ma ha
bisogno d'essere sostenuto e per questo la via del processo è tassativamente garantita
dall'assistenza di un giurista di professione.
2 – Iuratus
Quando il giurato dovrà pronunciare sentenza si ricordi che adopera Dio come testimone, cioè la
sua coscienza (coscienza è quell'organo per mezzo del quale io rispondo al bene, e mi rende
consapevole che il bene esiste e ha un'importanza assoluta, bisogna attuarlo essendo il fine ultimo
dell'esistenza dell'uomo). Il giudice introduce e sostiene il suo giudizio collocando l'azione del
iuratus sotto il presidio della coscienza del bene e del sommo Bene, che significa camminare sotto
gli sguardi di Dio. Nel processo di trasformazione del conflitto in controversia il giurista interviene
con la sua specifica personalità traducendo, in termini giuridici, le ragioni, che possono essere di
diversa natura, economiche,sociali,psicologiche ecc., sottostanti alla pretesa del dominio del
litigante. La legge è lo strumento utile ad individuare le modalità dell'ordinamento delle relazioni
intersoggettive a muovere dal caso, è lo strumento principale per la traduzione del conflitto in
controversia. La legge esercita la funzione di modello per l'azione, l'indicazione utile per disporsi
concretamente ad una relazione nuova con gli altri, nel caso della lite, superando le lacerazioni
prodotte dal conflitto. L'atto della conoscenza è quell'atto con il quale penetro nella situazione e
intendo che cosa sia in tale situazione il giusto e quindi il bene.
Appendice – SULLA IURIS PRUDENTIA
Ci si chiede se la Iuris Prudentia oggi possa essere considerata tra le fonti dell'ordinamento
giuridico delle relazioni intersoggettive.
A. Stando al dettato della moderna geometria legale, che la Iuris Prudentia non possa trovar spazio
nel processo di ordinamento delle relazioni intersoggettive.
1. si sostiene che non è la verità ma il potere a creare la legge, non la Iuris Prudentia, la ragione
dello stato fa la legge ed esclusivamente questa, la legge, per il potere del sovrano, è in
grado di mettere ordine nelle relazioni intersoggettive.(Hobbes)
2. Anche nella versione di Rousseau della geometria legale si proclama tassativamente che
solo alla legge gli uomini devono giustizia e libertà. La legge è l'organo della volontà di
tutti che ristabilisce nel diritto l'eguaglianza naturale tra gli individui. Appena un uomo
pretende di sottomettere un altro alla sua volontà privata, indipendentemente dalle leggi,
esce all'istante dallo stato civile per collocarsi di fronte all'altro nel puro stato di natura, in
cui l'obbedienza non è mai prescritta se non dalla necessità.
3. Kelsen affronta, nella sua pura teoria del diritto, la più radicale e coerente canonizzazione
della moderna geometria legale, l'eterno problema di ciò che sta dietro il diritto positivo e
conclude affermando che dietro il diritto ci sta solo il potere.
B. Tuttavia anche la geometria legale, o il positivismo giuridico, sono costretti a scendere a
compromessi. Il positivismo giuridico ha per parecchio tempo sottoscritto come proprie le teorie
della coerenza e della completezza dell'ordinamento. Ma coerenza e completezza sono ideali
razionalistici.
1. Di un modesto razionalismo, certamente formale la coerenza: il legislatore può dire tutto
quello che vuole senza contraddirsi. Altrettanto formale la completezza: se il legislatore
ha comandato certe cose, i suoi comandi valgono anche per le cose simili. Si tratta quindi
di riconoscere il “pedaggio” che la volontà del legislatore deve pagare, o dovrebbe, alla
ragione per potersi dire capace di mettere ordine nelle relazioni intersoggettive. Giacomo
Gavazzi ritiene che un metodo per risolvere il problema possa essere quello della
motivazione delle leggi.
2. Tra i compromessi cui deve scendere la geometria legale è quello dell'interpretazione. Se
bisogna applicare il diritto è necessario accertare il senso delle norme da applicare ossia
bisogna interpretarle e questo implica un procedimento intellettuale di natura conoscitiva
incidente in modo significativo sul processo dell'applicazione del diritto nel passaggio da un
piano superiore ad un piano inferiore( come fra costituzione e legge o fra legge e sentenza).
L'interpretazione di una legge non deve necessariamente condurre ad un'unica decisione da
ritenersi la sola esatta bensì deve condurre e più conclusioni, aventi tutte egual valore, anche
se soltanto una di esse si trasforma poi in diritto positivo, mediante l'atto dell'organo che
applica il diritto, il tribunale (Hans Kelsen).
3. Se nell'applicazione della legge da parte di un organo giuridico l'interpretazione teorica del
diritto da applicare si collega con un atto di volontà è incontestabile che tale atto di volontà
poggia e si regge sulla scelta fra le possibilità rilevate dall'interpretazione. E questa scelta
deve pur basarsi su una qualche ragione.
C. Nel processo di ordinamento delle relazioni intersoggettive, che costituisce il nucleo
dell'esperienza giuridica, l'applicazione razionale ha un ruolo fondamentale. Anche se oggi la legge
ordinaria è in crisi per la sua incapacità a ordinare giuridicamente la società civile e soprattutto a
governare il mutamento socio-economico che viviamo, come nota Paolo Grossi. Si è cosi
manifestata un'attenzione particolare per la struttura del diritto che ha posto al centro dell'esperienza
giuridica il processo, sondando la natura della controversia e il ruolo della prova, esaltando la
funzione del giudizio. (oggi la prudenza è legata alle azioni cattive)
D. L'interrogarsi sulla prudentia corrisponde ad una esigenza profonda di governo delle
relazioni intersoggettive.
1. Sant'Ambrogio e Sant'Agostino sostengono il primato della prudenza per cui solo
mediante la risoluzione della della prudenza l'azione umana diviene giusta, forte, essendo
misura o forma di ogni azione buona. La realizzazione del bene presuppone la conoscenza
della realtà. La prudenza ha due volti: uno che guarda alla realtà oggettiva; l'altro che guarda
all'attuazione del bene.
2. La prudenza è il punto di riferimento per giungere ai fini ultimi della vita umana, la cui
presenza rende possibile la risoluzione prudente ma non ne costituisce l'obiettivo diretto,
essendo questo l'operare umano. Dell'operare umano due sono le forme: l'agire e il fare. Di
questo, il fare, opere sono gli artefatti, le costruzioni che sfidano il tempo; di quello, l'agire,
opera è l'uomo stesso. La realizzazione del bene è una continua apertura al reale, resa
possibile dalla capacità di prescindere da se stessi, la disponibilità a lasciarsi condurre di
volta in volta dall'esperienza che consente all'uomo di compiere azioni buone che sono passi
dell'autorealizzazione personale. Di questo processo di autorealizzazione, con la sua
apertura alla verità, la prudenza costituisce il perno.
3. San Tommaso introduce nel discorso sulla prudenza un fattore nuovo e cardinale:
l'affectus. Solo chi è prudente può agire bene, ma prudente può essere solo colui il quale sia
disposto ad amare e volere il bene. La volontà del bene rende possibile che la risoluzione
prudente riceva effettivamente il suo quid dalla vera coscienza della realtà.
E. A questo punto abbiamo gli elementi sufficienti per qualche conclusione specifica sulla prudentia
iuris.
1. Michel Villey risalendo alle origini romane del diritto afferma: l'ufficio del diritto o del giurista
dev'essere concepito essenzialmente come un lavoro di conoscenza: conoscenza del giusto delle
cose. Il diritto è derivato dalla natura delle cose, stimolo ad agire onestamente e a tenersi lontano
dal mal fare. Qui ci si trova di fronte al nodo problematico dell'esperienza giuridica, posto dal
rapporto tra intelligenza e volontà che sono connessi in termini di reciprocità (non basta sapere che
cosa è onesto per vivere onestamente). La ragione deriva dalla natura delle cose e stimolante l'uomo
all'agire onesto è la legge. Nel concreto dell'esperienza giuridica la iuris prudentia, che è la via del
diritto alla prudenza, apre un varco che consente agli uomini divisi dalle liti di recuperare la
relazione personale che li caratterizza come uomini perché, in virtù della volontà del bene, la
rappresentazione veritiera di ciascuno diventa regola e forma dell'azione.

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