1
INTRODUZIONE
LE
ORIGINI
E
LO
SVILUPPO
DEL
PROCESSO
D’INTEGRAZIONE
EUROPEA
1.
Le
esperienze
di
integrazione
secondo
il
metodo
della
cooperazione
intergovernativa
Il
Trattato
di
Parigi
12
Aprile
1951,
istitutivo
della
Comunità
Europea
del
Carbone
e
dell’Acciaio
e
il
Trattato
di
Riforma
firmato
a
Lisbona
il
13
Dicembre
2007
sono
il
risultato
di
una
complessa
evoluzione.
Dal
XIX
secolo
si
afferma
l’ideale
di
un
continente
europeo
non
più
diviso
in
tanti
Stati,
perennemente
in
lotta
tra
di
loro.
Le
distruzioni
e
le
perdite
di
vite
umane
causate
dalla
seconda
guerra
mondiale
hanno
convinto
i
politici
dell’epoca
dell’ineluttabilità
di
un
processo
di
integrazione
europea
come
unico
rimedio
per
evitare
il
ripetersi
di
eventi
luttuosi.
Tale
movimento
di
idee
prende
piede
solo
tra
gli
Stati
dell’Europa
occidentale.
Gli
Stati
dell’Europa
Orientale
danno
vita
a
forme
alternative
di
aggregazione
militare
(Organizzazione
del
Patto
di
Varsavia)
ed
economica
(COMECON),
facenti
riferimento
all’Unione
Sovietica.
Dopo
la
caduta
del
muro
di
Berlino
(1989)
e
lo
scioglimento
dell’Unione
Sovietica
(1991)
tali
stati
hanno
partecipato
alle
forme
di
integrazione
di
matrice
occidentale.
L’integrazione
dell’Europa
occidentale
segue
due
metodi
distinti:
PRIMO
METODO:
• È
un
metodo
tradizionale;
• Si
fonda
sulla
cooperazione
intergovernativa
=>
gli
Stati
partecipanti
cooperano
tra
loro
come
soggetti
sovrani,
creando
strutture
per
organizzare
tale
cooperazione;
• Caratteristiche
del
metodo:
a. Prevalenza
di
organi
di
Stati:
negli
organi
principali
dell’organizzazione
siedono
persone
che
agiscono
quali
rappresentanti
dello
Stato
di
appartenenza
e
seguono
le
direttive
impartite
dal
potere
politico
di
tale
Stato;
b. Prevalenza
del
principio
dell’unanimità:
le
deliberazioni
degli
organi
principali
dell’organizzazione
vengono
assunte
esclusivamente
all’unanimità,
di
modo
che
ciascuno
Stato
ha
il
potere
di
opporsi
(diritto
di
veto);
c. Assenza
o
rarità
del
potere
di
adottare
atti
vincolanti:
le
deliberazioni
dell’organizzazione
hanno
natura
di
raccomandazioni;
l’ipotesi
in
cui
è
prevista
l’adozione
di
decisioni
vincolanti
nei
confronti
degli
Stati
membri
costituiscono
l’eccezione
e
sono
in
genere
subordinate
al
principio
dell’unanimità.
• Gli
Stati
dell’Europa
occidentale
seguono
il
metodo
della
cooperazione
intergovernativa
in
diversi
settori:
PRIMO
SETTORE
=>
Cooperazione
militare.
La
divisione
dell’Europa
in
due
blocchi
contrapposti
ha
indotto
gli
Stati
dell’Europa
occidentale
a
costituire
due
organizzazioni
di
tipo
militare,
per
la
difesa
collettiva
in
caso
di
attacco
armato.
LE
ORGANIZZAZIONI:
UEO
(Unione
dell’Europa
Occidentale):
è
stata
fondata
con
il
Trattato
di
Bruxelles
il
17
Marzo
1948
e
aggiornata
con
gli
Accordi
di
Parigi
23
Ottobre
1954.
Ad
essa
aderiscono
come
membri
a
pieno
titolo
10
Stati
europei
(Belgio,
Francia,
Germania,
Grecia,
Italia,
Lussemburgo,
Paesi
Bassi,
Portogallo,
Spagna,
Regno
Unito).
Altri
stati
hanno
partecipato
ai
lavori
dell’organizzazione
come
osservatori
e
altri
godono
dello
Status
di
membri
associati,
per
un
totale
di
28
Stati.
L’organo
principale
è
il
Consiglio,
composto
dai
rappresentanti
permanenti
degli
Stati
o
dai
ministri
degli
Esteri
e
della
Difesa.
Le
deliberazioni
sono
prese
all’unanimità.
La
UEO
è
stat
rivitalizzata
nel
1984,
con
l’idea
di
farne
lo
strumento
attraverso
cui
attuare
la
componente
relativa
alla
sicurezza
e
alla
difesa
comune
della
PESC.
Tale
prospettiva
è
stata
abbandonata
con
il
Trattato
di
Nizza
del
2001.
NATO
(Organizzazione
del
Trattato
del
Nord
Atlantico):
è
stata
fondata
con
il
Trattato
di
Washington
del
4
Aprile
1949.
Ad
essa
aderiscono
anche
Stati
extra-‐europei
come
gli
Stati
Uniti
d’America
e
il
Canada.
L’organo
principale
è
costituito
dal
Consiglio
del
Nord
Atlantico,
composto
dai
rappresentanti
permanenti
degli
Stati
membri
o,
quando
si
riunisce
a
livello
ministeriale,
dai
ministri
degli
Esteri,
della
Difesa
o
dai
capi
di
Stato
e
di
governo.
Le
decisioni
sono
prese
all’unanimità.
SECONDO
SETTORE
=>
Integrazione
economica.
L’occasione
viene
data
dall’esigenza
di
gestire
il
Piano
Marshall,
un
piano
di
aiuti
finanziari
accordati
dagli
Stati
Uniti
d’America
all’Europa
e
2
volto
a
favorire
la
ricostruzione
economica,
il
consolidamento
politico
degli
Stati
Europei,
dopo
il
secondo
conflitto
mondiale.
L’erogazione
degli
aiuti
viene
subordinata
alla
condizione
che
la
loro
gestione
avvenga
in
maniera
coordinata
tra
tutti
gli
Stati
beneficiari.
Per
rispondere
a
tale
condizione,
gli
Stati
dell’Europa
occidentale
(tra
cui
Portogallo,
Turchia,
Svizzera,
Svezia…)
danno
vita
all’
OECE
(Organizzazione
Europea
per
la
Cooperazione
Economica),
istituita
con
il
Trattato
di
Parigi
16
Aprile
1948.
Organo
principale
dell’OECE
è
il
Consiglio,
in
cui
siede
un
rappresentante
per
ogni
Stato
membro.
Le
deliberazioni
sono
adottate
all’unanimità,
salvo
che
il
Consiglio
non
disponga
altrimenti.
Tra
gli
atti
che
il
Consiglio
può
emanare
vi
sono
anche
le
decisioni,
che
sono
dotate
di
carattere
vincolante
per
gli
Stati
membri.
L’OECE,
una
volta
esaurita
la
funzione
originaria
avrebbe
dovuto
trasformarsi
in
una
zona
di
libero
scambio
tra
gli
stati
membri,
però
vi
furono
alcune
divergenze.
Alcuni
Stati
membri
(Belgio,
Germania,
Francia,
Italia,
Lussemburgo,
P.
Bassi)
optano
per
forme
di
integrazione
economica
più
avanzate
dando
vita
alle
3
Comunità
Europee.
Altri
(Austria,
Danimarca,
Norvegia,
Portogallo,
Regno
Unito,
Svezia,
Svizzera),
restano
fedeli
all’idea
di
una
zona
di
libero
scambio
e
istituiscono,
con
la
Convenzione
di
Stoccolma,
4
Gennaio
1960,
l’Associazione
Europea
di
Libero
Scambio
(AELE,
più
nota
con
acronimo
inglese
EFTA).
Gli
Stati
membri
dell’EFTA
(tranne
la
Svizzera)
hanno
dato
vita
insieme
alla
Comunità
Europea
allo
Spazio
economico
europeo
(SEE).
L’OECE
viene
mantenuta
in
vita,
ma
il
suo
campo
di
attività
viene
rivolto
verso
obiettivi
di
cooperazione
economica
globale
e
non
più
regionale.
L’OECE
viene
dunque
trasformata
nell’OCSE
(Organizzazione
per
la
Cooperazione
e
lo
Sviluppo
Economico),
con
il
Trattato
di
Parigi
del
14
dicembre
1960,
al
quale
aderiscono
anche
gli
Stati
Uniti
d’America
e
il
Canada
e
successivamente
altri
Stati
non
europei.
TERZO
SETTORE
=>
Cooperazione
politica,
culturale
e
sociale.
In
questo
settore
va
ricordato
il
Consiglio
d’Europa,
il
cui
Statuto
è
approvato
a
Londra
il
5
maggio
1949
da
10
Stati
dell’Europa
occidentale
(Belgio,
Danimarca,
Francia,
Islanda,
Italia,
Lussemburgo,
Norvegia,
Paesi
Bassi,
Regno
Unito
e
Svezia:
attualmente
gli
Stati
membri
sono
46).
Si
tratta
di
un’organizzazione
con
compiti
ed
obiettivi
assai
ampi,
tra
cui
salvaguardare
ed
attuare
gli
ideali
ed
i
principi
che
costituiscono
il
loro
patrimonio
comune
e
facilitare
il
loro
progresso
economico
e
sociale.
L’organo
principale
è
costituito
dal
Comitato
dei
ministri,
nel
quale
siedono
i
Ministri
degli
esteri
degli
Stati
membri
o
i
loro
rappresentanti
permanenti.
Per
le
decisioni
più
importanti,
è
richiesta
la
presenza
della
maggioranza
semplice
dei
componenti
e
l’unanimità
dei
votanti.
Lo
strumento
d’azione
principale
consiste
nel
predisporre
e
favorire
la
conclusione
di
convenzioni
internazionali
tra
gli
Stati
membri.
Si
tratta
di
atti
la
cui
entrata
in
vigore
è
subordinata
alla
ratifica
da
parte
dei
vari
Stati.
Lo
strumento
di
gran
lunga
più
rilevante
è
senz’altro
la
Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
di
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali,
firmata
a
Roma
il
4
Novembre
1950
(CEDU).
La
Convenzione
comprende
un
catalogo
dei
diritti
dell’uomo
comune
a
tutti
gli
Stati
contraenti
e
un
meccanismo
di
controllo
internazionale
del
rispetto
di
tali
diritti
imperniato
sulla
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo.
I
diritti
garantiti
dalla
CEDU
fanno
parte
del
diritto
dell’Unione
in
quanto
principi
generali.
2.
L’integrazione
secondo
il
metodo
comunitario:
le
origini.
SECONDO
METODO:
• Il
secondo
metodo,
definito
metodo
comunitario,
è
stato
definito
in
forza
della
necessità
di
superare
il
principio
dell’unanimità
e
di
attribuire
alle
proprie
organizzazione
maggiore
autonomia,
necessità
che
ha
indotto
gli
Stati
Europei
a
sperimentare
forme
di
cooperazione
innovative.
• Caratteristiche
del
metodo:
a. Prevalenza
degli
organi
d’individui:
le
persone
che
siedono
nella
maggior
parte
delle
istituzioni
comunitarie
(Parlamento
europeo,
Commissione,
Corte
di
giustizia,
Corte
dei
conti,
in
parte
anche
BCE)
rappresentano
se
stesse,
non
lo
Stato
di
cui
sono
cittadine,
e
sono
portatrici
di
proprie
opinioni
e
di
proprie
scelte,
che
devono
compiere
in
maniera
del
tutto
indipendente.
L’indipendenza
dei
componenti
dell’istituzione
viene
sancita
nei
Trattati
istitutivi
attraverso
clausole,
che
vietano
agli
Stati
membri
di
impartire
le
loro
direttive,
nonché
di
cercare
di
influenzarne
il
comportamento,
e
prevedono
la
decadenza
delle
persone
che
vengano
meno
all’obbligo
di
indipendenza;
3
4
5
3.Lo
sviluppo
dell’integrazione
comunitaria
europea:
l’unificazione
del
quadro
istituzionale
e
l’allargamento
a
nuovi
Stati
membri.
All’indomani
dei
trattati
firmati
a
Roma,
l’obiettivo
che
si
pone
è
quello
della
fusione
delle
3
Comunità:
1. CECA;
2. CE;
3. CEEA.
Infatti,
contemporaneamente
ai
Trattati
viene
firmata
la
Convenzione
su
alcune
istituzioni
comuni
delle
Comunità
europee.
Per
effetto
della
Convenzione,
le
tre
comunità
hanno
in
comune
2
istituzioni:
1. Assemblea
parlamentare;
2. Corte
di
giustizia.
Fin
dall’inizio
queste
due
istituzioni
agiscono
per
tutte
e
tre
le
Comunità,
esercitando,
però,
i
poteri
previsti
da
ciascun
trattato
istitutivo
nelle
forme
e
nei
modi
ivi
definiti,
a
seconda
che
la
materia
di
cui
si
occupano
di
volta
in
volta
ricada
nel
campo
d’applicazione
dell’uno
o
dell’altro
trattato.
Secondo
tappa
è
il
Trattato
che
istituisce
un
Consiglio
e
una
Commissione
unici
delle
Comunità
europee,
firmato
a
Bruxelles
l’8
aprile
1965,
grazie
al
quale
si
pone
fine
alla
pluralità
di
istituzioni
cd.
esecutive.
La
terza
tappa
si
realizza
con
la
scadenza
del
Trattato
CECA,
avvenuta
il
23
luglio
2002
(50
dopo
l’entrata
in
vigore).
Gli
Stati
membri,
infatti,
hanno
rinunciato
alla
possibilità
di
rinnovarlo.
Il
settore
carbosiderurgico
ormai
rientra
nel
campo
di
applicazione
del
mercato
comune
generale
disciplinato
dal
TCE.
L’esperienza
comunitaria
si
conclude
con
l’entrata
in
vigore
del
Trattato
di
Lisbona.
La
Comunità
Europea
cessa
di
esistere
come
ente
autonomo
ed
è
incorporata
nell’Unione
europea
dalla
quale
era
fino
ad
allora
distinta.
Secondo
l’art.1,
terzo
comma,
TUE,
“l’Unione
sostituisce
e
succede
alla
Comunità
europea”.
Il
TCE
cambia
titolo
e
diventa
Trattato
sul
funzionamento
dell’Unione
europea
(TFUE).
La
CEEA
sopravvive
come
ente
autonomo.
Altro
sviluppo
importante
per
le
Comunità
europee
riguarda
il
loro
allargamento.
Le
Comunità
hanno
messo
i
primi
passi
con
6
Stati
(la
cd.
Piccola
Europa).
Il
successo
ottenuto
dalla
CECA
e
poi
dalla
CE
e
dall’UE
hanno
spinto
nel
tempo
numerosi
altri
Stati
europei
a
presentare
domanda
di
adesione.
Dal
1°
gennaio
2007
gli
Stati
membri
sono
27.
Gli
allargamenti
sono
stati
sei:
• PRIMO
(1973):
Danimarca,
Irlanda
e
Regno
Unito
di
Gran
Bretagna
e
d’Irlanda
del
Nord;
• SECONDO
(1981):
Grecia;
• TERZO
(1986):
Portogallo
e
Spagna;
• QUARTO
(1995):
Austria,
Finlandia
e
Svezia;
• QUINTO
(2004)
=>
maggiore
nella
storia
quanto
a
numero
di
Stati
coinvolti:
Repubblica
Ceca,
Cipro,
Estonia,
Lettonia,
Lituania,
Malta,
Polonia,
Slovacchia,
Slovenia
e
Ungheria;
• SESTO
(2007):
Bulgaria
e
Romania.
Il
Consiglio
europeo
di
Bruxelles
del
16-‐17
dicembre
2004
ha
deciso
che
possono
essere
avviati
i
negoziati
per
l’adesione
di
Turchia
e
Croazia.
Lo
status
di
paese
candidato
è
stato
riconosciuto
all’ex
Repubblica
jugoslava
di
Macedonia
dal
Consiglio
europeo
di
Bruxelles
del
15-‐16
dicembre
2005.
Anche
l’Albania,
la
Bosnia-‐Erzegovina,
il
Montenegro,
la
Serbia
e
il
Kosovo
sono
considerati
candidati
potenziali
e
sono
già
sottoposti
a
diversi
interventi
da
parte
della
UE
nell’ambito
della
strategia
di
pre-‐
adesione.
Il
processo
di
allargamento,
con
il
passaggio
da
6
a
27
Stati
membri,
fa
dell’integrazione
europea
una
realtà
completamente
differente
rispetto
a
quello
di
partenza.
4.Segue:
la
riduzione
del
deficit
democratico.
Uno
dei
grandi
problemi
che
la
struttura
istituzionale
ancora
presenta
è
costituito
dal
cosiddetto
deficit
democratico.
Nella
struttura
istituzionale
non
risultava
rispettato
il
principio
della
democrazia
parlamentare
o
rappresentativa,
dal
momento
che
l’istituzione
dotata
di
maggiori
poteri
era
il
Consiglio,
composto
dai
rappresentanti
dei
Governi
degli
Stati
membri.
Nel
Consiglio
pertanto
viene
rappresentato
il
potere
esecutivo
di
ciascuno
Stato
membro
e
non
quello
legislativo.
I
rappresentanti
dei
poteri
esecutivi
degli
Stati
membri,
riuniti
in
sede
di
Consiglio,
disponevano
collegialmente
di
poteri
che,
se
esercitati
a
livello
nazionale,
sarebbero
stati
prerogativa
dell’organo
parlamentare.
6
In
ciò
consisteva
il
problema
del
deficit
democratico,
deficit
che
non
veniva
compensato
dalla
sola
presenza
di
un
organo
rappresentativo
dei
parlamenti
nazionali.
L’Assemblea
parlamentare
(dal
1986,
Parlamento
Europeo)
nasceva
con
funzioni
puramente
consultive.
La
presenza
del
Parlamento
europeo
offriva
una
soluzione.
Sarebbe
bastato
ampliare
i
poteri
di
tale
istituzione,
in
modo
da
controbilanciare
i
poteri
del
Consiglio.
Il
sistema
si
sarebbe
avvicinato
ad
una
configurazione
di
tipo
bicamerale.
Si
è
così
assistito
ad
un
lento
ma
inesorabile
ampliamento
dei
poteri
dell’istituzione
parlamentare
europea.
Tale
aumento
tuttavia
è
sempre
avvenuto
in
una
prospettiva
di
affiancamento
al
Consiglio
e
di
condivisione
di
poteri
tra
le
due
istituzioni.
Il
carattere
duale
o
bicamerale
del
sistema
appare
necessario
per
tener
conto
della
duplice
fonte
di
legittimazione
su
cui
l’azione
dell’Unione
si
fonda:
da
un
lato,
la
volontà
dei
cittadini,
che
si
esprime
attraverso
l’elezione
a
suffragio
universale
diretto
dei
membri
del
Parlamento
europeo;
dall’altro
la
volontà
degli
Stati
membri
che
si
esprime
attraverso
i
rappresentanti
dei
rispettivi
governi
nel
Consiglio.
L’art.
10,
par.1,
TUE
afferma:
“il
funzionamento
dell’Unione
si
fonda
sulla
democrazia
rappresentativa”.
Il
par.
2
chiarisce
che
tale
principio
si
attua
in
due
direzioni
diverse
e
complementari.
Da
un
lato
“i
cittadini
sono
direttamente
rappresentati
a
livello
dell’Unione
nel
Parlamento
europeo”
(co.1),
dall’altro,
“gli
Stati
membri
sono
rappresentati
nel
Consiglio
europeo
dai
rispettivi
Capi
di
Stato
o
di
governo
e
nel
Consiglio
dai
rispettivi
governi”
(co.2).
I
capi
di
Stato
o
di
governo
e
i
governi
che
rappresentano
gli
Stati
membri
nel
Consiglio
europeo
e
nel
Consiglio
sono
infatti
“a
loro
volta
democraticamente
responsabili
dinanzi
ai
loro
parlamenti
nazionali
o
dinanzi
ai
loro
cittadini”
(par.2,
ultima
parte).
L’ampliamento
dei
poteri
del
Parlamento
europeo
è
avvenuto
per
tappe:
• Inizio
degli
anni
’70
=>
vengono
approvati
ed
entrano
in
vigore
il
Trattato
firmato
a
Lussemburgo,
il
22
aprile
1970
e
il
Trattato
firmato
a
Bruxelles
il
22
luglio
1975,
noti
come
Trattati
di
bilancio.
Effetto
dei
due
trattati:
attribuire
al
Parlamento
europeo
ampi
poteri
in
merito
all’approvazione
del
bilancio
unificato
delle
tre
Comunità.
Il
bilancio
viene
adottato
congiuntamente
dal
Consiglio
e
dal
Parlamento
europeo.
N.B.:
motivo
di
tale
riforma
è
l’introduzione
del
sistema
delle
risorse
proprie;
• Poco
dopo
=>
si
decide
di
dare
attuazione
all’art.
137
del
TCE,
che
consentiva
il
passaggio
al
suffragio
universale
diretto
per
l’elezione
dei
membri
del
Parlamento
europeo.
L’atto
allegato
alla
decisione
del
Consiglio
del
20
settembre
1976
stabilisce
che
i
membri
del
Parlamento
europeo
siano
eletti
direttamente
dai
cittadini
degli
Stati
membri
a
suffragio
universale.
In
origine
i
membri
erano
designati
da
ciascun
Parlamento
nazionale
tra
i
rispettivi
componenti.
• 17
e
28
febbraio
1986
=>
si
giunge
alla
firma
dell’Atto
Unico
Europeo
(AUE).
Si
introducono
2
novità
riguardo
ai
poteri
del
P.E
(Parlamento
Europeo):
1. PROCEDURA
DI
PARERE
CONFORME:
impedisce
al
Consiglio
di
approvare
determinati
atti
senza
l’approvazione
parlamentare;
2. PROCEDURA
DI
COOPERAZIONE:
offre
al
P.E.
maggiori
opportunità
per
influire
sulle
deliberazioni
del
Consiglio,
essendo
questo
costretto
a
ricorrere
al
voto
unanime
per
superare
l’opposizione
parlamentare.
• 7
febbraio
1992
=>
viene
firmato
a
Maastricht
il
Trattato
sull’Unione
europea
(TUE).
Esso
aggiunge
un’ulteriore
procedura
decisionale,
nella
quale
i
poteri
del
P.E.
divengono
determinanti:
la
procedura
di
codecisione.
In
essa
si
attua
un
sistema
bicamerale:
nessuna
delle
istituzioni
coinvolte
è
in
grado
di
imporre
all’altra
la
propria
volontà,
in
modo
che
l’atto
eventualmente
approvato
è
ascrivibile
ad
entrabe.
• 2
ottobre
1997
=>
il
Trattato
di
Amsterdam
estende
il
campo
d’applicazione
della
procedura
di
codecisione
a
numerosi
altri
settori
originariamente
sottoposti
a
diverse
procedure
decisionali.
• Trattato
di
Lisbona
=>
permette
di
compiere
ulteriori
passi
in
direzione
del
rafforzamento
dei
poteri
del
P.E.
e
del
carattere
democratico
dell’Unione.
Si
estende
il
campo
d’applicazione
della
procedura
di
codecisione,
che
viene
ribattezzata
procedura
legislativa
ordinaria;
Per
la
prima
volta
i
parlamenti
nazionali
sono
chiamati
dai
trattati
a
svolgere
un
ruolo
di
controllo
e
di
opposizione
per
quanto
riguarda
l’applicazione
dei
principi
di
sussidiarietà
e
di
proporzionalità.
• Anche
dopo
il
Trattato
di
Lisbona,
per
alcune
materie
di
competenza
dell’Unione,
il
P.E.
mantiene
funzioni
puramente
consultive.
Nel
settore
della
Politica
estera
e
di
sicurezza
comune
(PESC)
i
poteri
parlamentari
sono
ancora
più
limitati.
7
8
Comunità,
ma
svolte
secondo
il
metodo
tradizionale
della
cooperazione
intergovernativa,
di
modo
che
gli
stessi
Stati
si
trovano
a
cooperare
tra
di
loro
su
due
piani
differenti,
per
quanto
complementari.
Settore
più
importante
in
cui
ciò
si
verifica
è
quello
della
politica
estera
generale.
Il
TCE
attribuiva
alla
competenza
comunitaria
soltanto
alcuni
aspetti
della
politica
estera:
in
particolare
quello
attinente
gli
scambi
commerciali
internazionali.
Ciò
implicava
per
gli
Stati
comunitari
la
necessità
di
un
certo
coordinamento
anche
degli
aspetti
non
commerciali
della
rispettiva
politica
estera,
al
fine
di
evitare
contraddizioni
e
di
accrescere
l’efficacia
delle
loro
azioni
sul
piano
internazionale.
Questo
coordinamento
non
avviene
però
in
sede
comunitaria,
preferendosi
invece
dar
vita
a
periodiche
riunioni
dei
ministri
degli
esteri
o
dei
Capi
di
Stato
e
di
governo,
da
tenersi,
a
latere
delle
riunioni
del
Conisglio
o,
secondo
i
casi,
nell’ambito
di
quelle
del
Consiglio
europeo.
Si
da
avvio
a
forme
di
cooperazione
nei
settori
della
giustizia
e
affari
interni.
Nel
settore
degli
affari
esteri,
il
TUE
istituisce
la
politica
estera
e
di
Sicurezza
Comune
(PESC),
disciplinata
dal
Titolo
V.
Una
prima
forma
di
operazione
formalizzata
in
questo
campo
era
in
realtà
stata
prevista
fià
dall’art.
30
dell’AUE:
la
Cooperazione
Politica
Europea
(CPE)
in
materia
di
affari
esteri
che
si
svolgeva
in
maniera
del
tutto
indipendente
rispetto
alla
cooperazione
comunitaria,
attraverso
organi
formalmente
distinti
dalle
istituzioni.
Alla
PESC
viene
affiancata
la
cooperazione
in
materia
di
Giustizia
e
Affari
Interni
(GAI),
disciplinata
dal
Titolo
VI.
I
3
pilastri
sono
funzionalmente
legati
l’uno
all’altro.
Essi
peraltro
vengono
gestiti
da
un
quadro
istituzionale
unico:
le
stesse
istituzioni
operano
nell’ambito
di
tutti
e
tre
i
pilastri.
Nel
secondo
e
terzo
pilastro
non
vi
è
spazio
per
decisioni
a
maggioranza
da
parte
del
Consiglio,
il
ruolo
della
Commissione
è
meno
incisivo,
quello
del
Parlamento
europeo
estremamente
ridotto.
Una
parte
consistente
delle
materie
che
rientravano
nel
pilastro
GAI
vengono
trasferite
nel
primo
pilastro
(visti,
diritto
d’asilo,
immigrazione
e
circolazione
delle
persone)
e
vengono
comunitarizzate.
Nel
terzo
pilastro
permane
la
sola
Cooperazione
di
polizia
giudiziaria
in
materia
penale.
Si
assiste
all’introduzione
parziale
nel
secondo
e
nel
terzo
pilastro
di
alcuni
dei
principi
caratterizzanti
del
metodo
comunitario.
In
talune
ipotesi,
il
Consiglio
può
deliberare
anche
a
maggioranza
qualificata.
Viene
accentuato
il
grado
di
obbligatorietà
degli
atti
che
il
Consiglio
può
adottare
,
per
quanto
riguarda
il
terzo
pilastro,
si
manifesta
una
chiara
tendenza
ad
assimilare
gli
atti
che
possono
essere
adottati
in
quel
contesto
a
quelli
tipici
comunitari.
Nel
terzo
pilastro
fa
la
sua
comparsa
anche
la
Corte
di
Giustizia.
La
struttura
a
pilastri
avrebbe
dovuto
essere
soppressa
con
la
riforma
dei
trattati
prevista
dal
Trattato
di
Lisbona.
In
realtà
viene
meno
soltanto
la
distinzione
tra
primo
e
terzo
pilastro.
Ciò
che
resta
di
quest’ultimo
è
stato
interamente
ricondotto
sotto
il
Titolo
V
della
Parte
III
del
TFUE,
dedicato
allo
spazio
di
libertà,
sicurezza
e
giustizia.
Tale
Titolo
comprende
così,
oltre
ai
settori
relativi
ai
controlli
alle
frontiere,
al
diritto
d0asilo,
all’immigrazione
e
alla
cooperazione
giudiziaria
in
materia
civile,
anche
la
cooperazione
giudiziaria
in
materia
penale
e
la
cooperazione
di
polizia.
L’inserimento
dei
settori
già
rientranti
nel
terzo
pilastro
tra
quelli
una
volta
di
competenza
comunitaria
porta
con
sé
alcune
importanti
novità
sul
piano
istituzionale:
• Eliminazione
di
ogni
distinzione
tra
i
tipi
di
atti
che
le
istituzioni
possono
adottare;
• Applicazione
della
procedura
legislativa
ordinaria;
• Estensione
alle
materie
già
di
terzo
pilastro
della
ordinaria
competenza
della
Corte
di
Giustizia.
Permangono
notevoli
differenze
per
quanto
riguarda
l’ex
secondo
pilastro
(PESC)
la
cui
disciplina
è
infatti
interamente
riservata
al
TUE.
La
PESC
rimane
soggetta
ad
un
regime
speciale
per
quanto
riguarda
le
procedure
decisionali,
gli
atti
da
adottare,
e
la
quasi
totale
assenza
di
competenza
della
Corte
di
giustizia.
7.Segue:
l’Europa
a
più
velocità.
Nel
TCE
cominciano
ad
infiltrarsi
soluzioni
dal
sapore
chiaramente
intergovernativo,
che
mal
si
conciliano
con
le
caratteristiche
originarie.
Esempio
di
tale
tendenza
è
offerto
dal
ricorso
a
forme
di
cooperazione
differenziata,
che
è
applicabile
ad
un
numero
ristretto
di
Stati
membri:
si
tratta
del
fenomeno
noto
come
Europa
a
più
velocità.
Il
fenomeno
nasce
come
soluzione
di
ripiego
cui
ricorrere
quando
si
constata
che
l’estensione
della
competenza
comunitaria
ad
un
nuovo
settore
o
la
previsione
di
9
poteri
d’azione
comunitari
più
efficienti
rischiano
di
essere
bloccate
per
l’opposizione
di
un
numero
molto
limitato
di
Stati
membri.
Esempi
del
fenomeno
Europa
a
più
velocità:
• PRIMO
ESEMPIO:
si
realizza
in
ambito
non
comunitario,
anche
perché
riguarda
in
origine
solo
cinque
Stati
membri.
Si
tratta
dell’Accordo
relativo
all’eliminazione
graduale
dei
controlli
alle
frontiere
firmato
a
Schengen
il
14
giugno
1985
da
Belgio,
Francia,
Germania,
Lussemburgo
e
P.
Bassi,
noto
come
Accordo
di
Schengen.
ACCORDO
DI
SCHENGEN
È
finalizzato
a
ridurre
drasticamente
i
controlli
fisici
sulle
persone
alle
frontiere,
con
misure
di
accompagnamento
per
coordinare
la
politica
di
immigrazione
da
paesi
terzi
e
la
polizia
degli
stranieri.
La
disciplina
dell’Accordo
prende
nome
di
acquis
di
Schengen
ed
è
stata
integrata
nel
sistema
dell’UE
a
partire
dal
Trattato
di
Amsterdam,
ma
sotto
forma
di
cooperazione
rafforzata,
in
quanto
ad
essa
rimangono
estranei
il
Regno
e
Irlanda,
che
possono
comunque
notificare
la
propria
intenzione
di
partecipare,in
tutto
o
in
parte
all’acquis.
La
Danimarca
partecipa
all’acquis,
ma
non
è
vincolata
da
misure
che
sviluppano
l’acquis.
Opting
in
=
notifica
dell’intenzione
di
partecipare,
in
tutto
o
in
parte,
all’acquis;
Opting
out
=
notifica
dell’intenione
di
non
partecipare
a
singole
decisioni
che
costituiscano
sviluppo
di
una
misura
dell’acquis
vincolante
nei
loro
confronti.
• SECONDO
ESEMPIO
(di
integrazione
differenziata):
riguarda
l’Unione
Economica
e
Monetaria
(UEM).
Alla
terza
fase
dell’UEM,
quella
che
comporta
l’adozione
dell’euro
quale
unica
moneta
avente
corso
legale,
non
partecipano
tutti
gli
Stati
membri.
Per
alcuni
ciò
è
dovuto
al
mancato
rispetto
dei
parametri
previsti
dall’art.
140,
par.1,
TFUE.
Il
Regno
Unito
e
la
Danimarca,
grazie
ad
apposite
clausole
di
opting-‐
in
possono
decidere
se
aderire
o
meno
alla
moneta
unica,
anche
se
rispettano
i
parametri
citati.
• ALTRI
ESEMPI:
si
moltiplicano
con
il
Trattato
di
Amsterdam.
Attraverso
appositi
protocolli
allegati
al
TUE
vengono
previste
a
favore
del
Regno
Unito,
dell’Irlanda
e
della
Danimarca
clausole
che
consentono
a
tali
Stati
di
non
essere
vincolati
dalle
misure
comunitarie
adottate
in
base
al
nuovo
Titolo
IV
del
TCE
nei
settori
dei
visti,
diritto
d’asilo,
immigrazione
e
circolazione
dei
cittadini
di
paesi
terzi.
La
posizione
di
estraneità
dei
tre
Stati
membri
indicati
(Regno
Unito,
Irlanda,
Danimarca)
viene
confermata
dal
Trattato
di
Lisbona
rispetto
all’intero
Titolo
IV
del
TFUE
dedicato
allo
spazio
di
libertà,
sicurezza
e
giustizia
che
ha
ad
oggetto
anche
gli
ultimi
settori
che
erano
rimasti
nel
III
pilastro:
la
cooperazione
giudiziaria
in
materia
penale
e
la
cooperazione
di
polizia.
Regno
Unito,
Irlanda
e
Danimarca
sono
sottratti
all’applicazione
di
atti
dell’Unione
anche
in
settori
per
i
quali
in
precedenza
non
godevano
di
alcun
trattamento
differenziato
rispetto
agli
altri
Stati
membri.
Il
Trattato
di
Amsterdam
addirittura
crea
un
apposito
istituto
di
applicazione
generale
per
permettere
l’adozione
di
iniziative
di
integrazione
limitate
ad
alcuni
Stati
membri:
la
cooperazione
rafforzata.
Ammessa
soltanto
nel
primo
e
nel
terzo
pilastro,
la
cooperazione
rafforzata
viene
estesa
dal
Trattato
di
Nizza
anche
alla
PESC.
PROTOCOLLO
n.
30
sull’applicazione
della
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’UE,
alla
Polonia
e
al
Regno
Unito
Esso
è
un
esempio
di
cooperazione
differenziata,
applicato
dal
Trattato
di
Lisbona.
Con
questo
strumento
si
è
consentito
ai
due
Stati
membri
in
questione
di
accettare
il
carattere
vincolante
della
Carta
con
alcune
riserve
che
non
si
applicano
agli
altri
Stati
membri.
8.Il
Trattato
che
adotta
una
Costituzione
per
l’Europa.
Nessuna
delle
riforme
di
volta
in
volta
approvate
è
giudicata
sufficiente,
perciò
si
ricorre
continuamente
alla
procedura
di
revisione:
• 1986
=>
AUE;
• 1992
=>
TUE;
• 1997
=>
Trattato
di
Amsterdam;
• 2001
=>
Trattato
di
Nizza;
• 2007
=>
Trattato
di
Lisbona.
Il
preambolo
di
questo
Trattato
precisa
che
con
il
nuovo
trattato
gli
Stati
membri
“intendono
completare
il
processo
avviato
dal
trattato
di
Amsterdam
e
dal
trattato
di
Nizza
al
fine
di
rafforzare
l’efficienza
e
la
legittimità
democratica
dell’Unione”.
Tuttavia
nel
corso
delle
trattative
per
l’entrata
in
vigore
del
trattato
sono
state
concordate
delle
modifiche
di
portata
limitata
che
saranno
incorporate
nei
trattati
in
occasione
di
un
prossimo
allargamento
dell’UE.
10
IL
TRATTATO
DI
LISBONA
• Presenta
una
genesi
complessa;
• Si
ricollega
al
Trattato
di
Nizza
al
quale
è
allegata
una
Dichiarazione
relativa
al
futuro
dell’Europa;
• Nella
Dichiarazione
si
delinea
un
percorso
per
avviare
“un
dibattito
più
approfondito
e
più
ampio
sul
futuro
dell’Unione
europea”,
stabilendo
che
un’ulteriore
Conferenza
intergovernativa
di
revisione
sarebbe
stata
convocata
nel
2004;
• La
Dichiarazione
stabilisce
che
il
dibattito
sarebbe
stato
avviato
già
nel
2001
con
la
cooperazione
della
Commissione
e
con
la
partecipazione
del
Parlamento
europeo
e
con
il
contributo
dei
rappresentanti
dei
parlamenti
nazionali
e
dei
componenti
dell’opinione
pubblica
nelle
sue
varie
componenti.
I
paesi
candidati
all’adesione
sono
associati
al
dibattito,
secondo
modalità
da
definire;
• Problematiche
affrontate
dal
Trattato
di
Lisbona:
Modalità
per
stabilire
e
mantenere
una
più
precisa
delimitazione
delle
competenze
tra
UE
e
Stati
membri,
che
rispecchi
il
principio
di
sussidiarietà;
Status
della
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
Europea,
proclamata
a
Nizza;
Semplificazione
dei
trattati
al
fine
di
renderli
più
chiari
e
meglio
comprensibili;
Ruolo
dei
Parlamenti
nazionali
nell’architettura
europea.
DICHIARAZIONE
DI
LAEKEN
• Approvata
dal
Consiglio
Europeo
di
Laeken,
tenutosi
il
14-‐15
dicembre
2001;
• Definisce
le
questioni
da
risolvere,
articolandole
in
una
serie
di
domande
puntuali;
• Prevede
la
convocazione
di
una
Convenzione
“composta
dai
principali
partecipanti
al
dibattito
su
futuro
dell’Unione”
e
con
il
compito
“di
esaminare
le
questioni
essenziali
che
il
futuro
dell’Unione
comporta
e
di
ricercare
le
diverse
soluzioni
possibili”.
N.B.:
La
Convenzione
è
composta
da
Presidente,
2
Vice-‐Presidenti,
15
rappresentanti
dei
Capi
di
Stato
e
di
Governo
degli
Stati
membri
(1
x
Stato
membro),
30
membri
dei
Parlamenti
nazionali
(2
x
Stato
membro),
16
membri
del
Parlamento
europeo
e
2
rappresentanti
della
Commissione.
• Prevede
che,
alla
fine
dei
suoi
lavori,
la
Convenzione
redigerà
un
documento
finale
che
“costituirà
il
punto
di
partenza
della
Conferenza
intergovernativa
che
prenderà
le
decisioni
finali”.
LA
CONVENZIONE
Esegue
il
mandato
ricevuto
il
18
luglio
2003,
trasmettendo
al
Presidente
del
Consiglio
europeo
in
carica
un
progetto
di
Trattato
che
istituisce
una
Costituzione
per
l’Europa.
Il
4
ottobre
2003
=>
si
aprono
i
lavori
della
nuova
conferenza
intergovernativa
(CIG),
che
si
trascinano
sotto
la
presidenza
italiana
e
poi
irlandese,
fino
a
metà
del
2004.
Il
Consiglio
europeo
tenutosi
a
Bruxelles
nel
giugno
del
2004
approva
il
testo
del
Trattato
che
adotta
una
Costituzione
per
l’Europa,
firmato
a
Roma
il
29
ottobre
2004.
Nonostante
il
termine
Costituzione,
il
testo
appare
come
un
nuovo
trattato.
Esso
è
diviso
in
4
parti:
1. PRIMA
PARTE:
norme
generali
riguardanti
le
competenze,
le
istituzioni,
gli
atti
e
la
membership,
norme
in
materia
di
cittadinanza,
vita
democratica
e
finanze;
2. SECONDA
PARTE:
riproduce
la
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’UE;
3. TERZA
PARTE:
collage
delle
disposizioni
di
TCE
e
TUE
che
non
hanno
trovato
collocazione
nella
prima
parte,
talora
con
rilevanti
modifiche;
4. QUARTA
PARTE:
norme
generali
e
finali.
A
norma
dell’art.
IV-‐447,
par.1,
del
Trattato
costituzionale,
“il
presente
trattato
è
ratificato
dalle
Alte
Parti
Contraenti
conformemente
alle
rispettive
norme
costituzionali”.
Solo
18
Stati
membri
provvedono
alla
ratifica
o
almeno
ottengono
l’autorizzazione
parlamentare
a
procedere
in
questo
senso.
In
Francia
e
nei
Paesi
Bassi
si
crea
una
situazione
di
stallo
a
causa
dell’esito
negativo
dei
referendum
popolari
indetti.
Altri
stati
membri
scelgono
allora
di
sospendere
le
procedure
di
ratifica.
Lo
stesso
Consiglio
Europeo,
riunito
a
Bruxelles
nel
giugno
2005,
decide
una
pausa
di
riflessione
fino
al
secondo
semestre
del
2006,
prolungata
ulteriormente
fino
al
primo
semestre
del
2007.
11
12
informazione.
È
probabile
che
proprio
l’aver
eliminato
le
cause
di
tale
errore
d’impostazione
abbia
determinato
l’esito
questa
volte
favorevole
del
processo
di
ratifica.
Si
ha
l’inserimento
nei
trattati
e
negli
allegati
protocolli,
di
una
serie
interminabile
di
meccanismi
di
garanzia
a
favore
degli
Stati
membri.
Alcuni
meccanismi
consentono
ad
uno
o
più
Stati
membri
di
bloccare
o
ritardare
l’assunzione
di
decisioni
alle
quali
siano
contrari,
altri
permettono
ad
uno
o
più
Stati
membri
di
sottrarsi
all’obbligatorietà
di
certe
parti
dei
trattati
o
di
certi
atti
delle
istituzioni
o
ancora
di
accettare
di
esserne
vincolati
ma
in
maniera
diversa
rispetto
agli
altri
Stati.
Tali
meccanismi
sono
di
2
tipi:
• PRIMO
TIPO:
è
dato
dal
nuovo
sistema
di
calcolo
della
maggioranza
qualificata
in
sede
di
Consiglio.
Le
nuove
regole
di
calcolo
saranno
definitivamente
in
vigore
soltanto
a
partire
dal
31
marzo
2017;
• SECONDO
TIPO:
sono
meccanismi
che
permettono
ad
uno
o
più
Stati
membri
di
non
essere
obbligati
da
certe
disposizioni
dei
trattati
o
da
certi
atti
delle
istituzioni.
2
strategie
per
fugare
le
fobie
anti-‐europeistiche:
• Ripetuta
affermazione
del
carattere
reversibile
del
processo
di
integrazione
europea:
Il
Trattato
Costituzionale
aveva
previsto
a
favore
di
ogni
Stato
membro
il
diritto
di
recesso
unilaterale
dai
trattati;
I
Trattato
di
Lisbona
ha
inserito
nei
trattati
piccole
frasi
o
incisi
che
rivelano
la
presenza
di
una
volontà
pronta
a
far
compiere
passi
indietro.
Art.
48,
par.1,
TUE
=>
i
progetti
intesi
a
modificare
i
trattati
“possono,
tra
l’altro,
essere
intesi
ad
accrescere
o
a
ridurre
le
competenze
attribuite
all’Unione
nei
trattati”.
Art.
2,
par.2,
seconda
frase,
TFUE
=>
“gli
Stati
membri
esercitano
nuovamente
la
loro
competenza
nella
misura
in
cui
l’Unione
ha
deciso
di
cessare
di
esercitare
la
propria”.
• Rafforzamento
degli
strumenti
per
impedire
l’espansione
della
competenza
dell’Unione:
Novità
inserite
nel
Protocollo
sull’applicazione
dei
principi
di
sussidiarietà
e
proporzionalità
rispetto
al
testo
dell’analogo
Protocollo
allegato
al
Trattato
costituzionale:
Rafforzamento
del
potere
di
controllo;
Rafforzamento
del
potere
di
opposizione
dei
parlamenti
nazionali
rispetto
ad
atti
che,
a
loro
avviso,
non
siano
conformi
al
principio
di
sussidiarietà.
10.Segue:
la
ritardata
entrata
in
vigore
del
Trattato
di
Lisbona.
Anche
il
Trattato
di
Lisbona
necessita
della
ratifica
di
tutti
gli
Stati
membri,
che
avviene
“conformemente
alle
rispettive
norme
costituzionali”.
Problemi
in
sede
di
ratifica
si
sono
avuti
in
alcuni
Stati
membri
che
avevano
ratificato
senza
difficoltà
il
Trattato
costituzionale:
l’Irlanda
e
la
Repubblica
Ceca.
In
Irlanda,
il
12
giugno
2008,
gli
elettori
votano
contro
la
ratifica
in
un
primo
referendum
popolare.
Successivamente,
il
Consiglio
europeo
riunito
a
Bruxelles
l’11-‐12
dicembre
2008
e
poi
sempre
a
Bruxelles,
il
18-‐19
giugno
2009,
adotta
alcune
misure
che
permettono
al
Governo
irlandese
di
indire
un
secondo
referendum
il
2
ottobre
2009:
questa
volta
l’esito
è
favorevole.
Il
Consiglio
europeo
ha
operato
analogamente
nella
riunione
del
29-‐30
ottobre
2009,
di
fronte
al
mancato
perfezionamento
dell’atto
di
ratifica
da
parte
della
Repubblica
Ceca.
Anche
in
Germania
la
ratifica
del
trattato
di
Lisbona
è
stata
ritardata
da
un
intervento
della
Corte
costituzionale
federale.
Nella
sentenza
30
giugno
2009,
pur
respingendo
come
infondati
i
ricorsi
presentati
contro
la
legge
di
ratifica
e
contro
la
legge
costituzionale
di
modifica
dell’art.
23
della
Legge
fondamentale,
la
Corte
dichiara
incostituzionale
la
legge
che
rafforza
i
poteri
del
Parlamento
tedesco
in
relazione
alle
nuove
funzioni
che
è
chiamato
ad
esercitare
in
applicazione
del
Trattato
di
Lisbona,
prescrivendo
che
la
ratifica
tedesca
non
possa
essere
perfezionata
fino
all’entrata
in
vigore
di
una
nuova
legge.
Superate
tutte
queste
difficoltà,
il
Trattato
di
Lisbona
è
finalmente
entrato
in
vigore
il
1°
dicembre
2009.
11.La
natura
dell’Unione
europea.
PRIMA
DOMANDA
=>
dopo
le
riforme
del
Trattato
di
Lisbona
e
la
riconduzione
dell’intero
processo
d’integrazione
europea
ad
un
ente
unitario
(l’Unione),
dotato
di
personalità
giuridica
autonoma,
si
è
formato
un
vero
e
proprio
Stato
europeo
in
sostituzione
degli
Stati
membri?
RISPOSTA
=
L’UNIONE
NON
E’
UNO
STATO
=>
gli
Stati
membri
non
hanno
perso
la
loro
statualità
individuale.
E
non
si
può
neanche
dire
che
l’UE
eserciti
effettivamente
un
potere
completo
di
governo
su
un
proprio
territorio
e
su
una
propria
popolazione.
13
La
natura
non
statuale
dell’Unione
è
legata
ad
alcune
sue
caratteristiche
riscontrabili
anche
dopo
il
Trattato
di
Lisbona.
Tali
caratteristiche
costituiscono
i
limiti
massimi
di
espansione
del
processo
di
integrazione
europea
che
le
Costituzioni
nazionali
attuali
possono
tollerare:
1. Mancanza
del
potere
di
definire
autonomamente
le
proprie
competenze
=>
attiene
al
principio
di
attribuzione.
L’UE
“agisce
esclusivamente
nei
limiti
delle
competenze
che
le
sono
attribuiti
dai
trattati
e
per
realizzare
gli
obiettivi
da
questi
stabiliti”.
L’unione
non
è
dotata
della
“Kompetenz
Kompetenz”
(competenza
della
competenza),
dipendendo
l’estensione
dei
suoi
poteri
e
i
suoi
obiettivi
da
quanto
abbiano
deciso
gli
Stati
membri
nei
trattati.
N.B.:
la
cd.
clausola
di
flessibilità
(citata
in
sentenza
della
Cort.
Cost.
tedesca
su
Trattato
di
Lisbona)
consente
all’Unione,
entro
certi
limiti,
l’adozione
di
azioni
pur
in
mancanza
di
un’esplicita
attribuzione
di
potere
da
parte
dei
trattati.
La
Corte
Cost.
tedesca,
nella
stessa
sentenza,
si
riserva
di
dichiarare
incostituzionali
eventuali
atti
“ultra
vires”.
2. Necessità
del
consenso
unanime
degli
Stati
membri
per
modificare
i
trattati
=>
attiene
alla
natura
dei
trattati.
Se
l’Unione
fosse
uno
Stato
federale,
i
trattati
ne
rappresenterebbero
la
Costituzione
e
sarebbero
modificabili
attraverso
procedure
che
richiedono
maggioranze
particolarmente
elevate,
a
garanzia
del
principio
democratico,
ma
non
l’unanimità
degli
Stati
membri.
I
Trattati
sembrano
ancora
avere
la
natura
di
trattati
internazionali,
conclusi
da
Stati
sovrani.
Questi
rimangono
padroni
dei
trattati
e
ne
decidono
il
destino.
La
Corte
tedesca
mostra
riserve
in
relazione
alla
procedura
cd.
passerella,
che
consente
al
Consiglio
europeo,
con
delibera
unanime,
di
prevedere
che
il
Consiglio
deliberi
a
maggioranza
qualificata
invece
che
all’unanimità
o
che
l’atto
venga
approvato
secondo
la
procedura
legislativa
ordinaria,
invece
che
secondo
una
procedura
legislativa
speciale.
In
casi
del
genere
ciascun
parlamento
nazionale
entro
sei
mesi
può
comunicare
la
propria
opposizione.
SECONDA
DOMANDA:
L’Unione
costituisce
nient’altro
che
una
forma,
per
quanto
molto
avanzata
di
organizzazione
internazionale,
cioè
un
ente
creato
dagli
Stati
europei
per
poter
cooperare
tra
di
loro
su
base
stabile
in
determinati
settori
e
per
raggiungere
obiettivi
comuni,
o
si
tratta
di
una
figura
intermedia
che,
pur
non
essendo
ancora
uno
Stato,
non
è
nemmeno
più
una
semplice
organizzazione
internazionale?
Nella
seconda
ipotesi,
l’Unione
sarebbe
una
realtà
originale,
estranea
agli
schemi
noti,
e
dinamica,
perché
soggetta
ad
un
continuo
ed
inesorabile
processo
di
trasformazione
e
di
rafforzamento,
il
cui
esito
finale
non
è
al
momento
prevedibile.
Il
quid
pluris
che
sembra
distinguere
l’Unione
è
costituito
dal
fatto
che,
in
suo
favore,
gli
Stati
membri
avrebbero
trasferito
“settori”
o
“porzioni”
della
propria
sovranità.
L’Unione
sarebbe
pertanto
un
ente
titolare
di
una
sua
sovranità,
pur
trattandosi
di
una
sovranità
parziale,
perché
limitata
alle
materie
previste
dai
trattati,
e
derivata,
perché
frutto
di
un
conferimento
ad
opera
degli
Stati
membri
e
non
di
un
atto
o
fatto
autonomo.
Sentenza
5
Febbraio
1963,
Van
Gend
&
Loos
Con
questa
sentenza,
traspare
l’idea
che
la
CE
fosse
titolare
di
poteri
sovrani.
IL
CASO=>
un
giudice
olandese
desidera
sapere
se
un
articolo
del
TCE
(ex
art.
12)
che
vietava
agli
Stati
membri
di
aumentare
i
dazi
doganali
esistenti
al
momento
dell’entrata
in
vigore
del
trattato
(clausola
di
standstill),
può
essere
invocato
da
un’impresa
di
import-‐export
che
lamenta
un
dazio
maggiorato.
LA
CORTE
=>
smentendo
la
tesi
del
governo
olandese
secondo
cui
l’art.
12
disciplina
i
rapporti
tra
gli
Stati
membri
e
non
può
essere
invocata
da
un
soggetto
privato
come
Van
Gend
&
Loos,
risponde
affermando
per
la
prima
volta
l’efficacia
diretta
di
una
norma
del
TCE.
Sentenza
15
Luglio
1964,
Costa
c.
ENEL
IL
CASO
=>
Il
giudice
di
Milano
interroga
la
Corte
sulla
compatibilità
tra
la
legge
di
nazionalizzazione
dell’energia
elettrica
e
alcuni
articoli
del
TCE.
Il
governo
italiano
afferma
che
il
giudice
nazionale
è
tenuto
ad
applicare
la
propria
legge,
anche
se
in
contrasto
col
trattato.
La
Corte
respinge
l’argomento
enunciando
per
la
prima
volta
il
principio
del
primato
delle
norme
del
TCE
rispetto
a
quelle
nazionali.
LA
CORTE=>“a
differenza
dei
comuni
trattati
internazionali,
il
Trattato
CEE
ha
istituito
un
proprio
ordinamento
giuridico
integrato
nell’ordinamento
giuridico
degli
Stati
membri
all’atto
dell’entrata
in
vigore
del
Trattato
e
che
i
giudici
nazionali
sono
tenuti
ad
osservare”.
“Istituendo
una
Comunità
senza
limiti
di
durata,
dotata
di
propri
organi,
di
personalità,
di
capacità
giuridica,
di
capacità
di
rappresentanza
sul
piano
internazionale
ed
in
ispecie
di
poteri
effettivi
provenienti
da
una
limitazione
di
competenza
o
da
un
14
trasferimento
di
attribuzione
dagli
Stati
alla
Comunità,
questi
hanno
limitato,
sia
pure
in
campi
circoscritti,
i
loro
poteri
sovrani
e
creato
quindi
un
complesso
di
diritto
vincolante
per
i
loro
cittadini
e
per
loro
stessi”.
L’idea
di
una
“specialità”
della
CE
prima
e
dell’Unione
ora
e
dina
loro
differenza
strutturale
rispetto
ad
altri
fenomeni
di
cooperazione
organizzata
tra
Stati
ha
finito
per
essere
accettata.
Ne
sono
testimoni
le
stesse
Costituzioni
degli
Stati
membri,
le
quali
si
sono
dotate
di
apposite
“clausole
europee”
per
consentire
la
partecipazione
al
processo
di
integrazione
e
il
trasferimento
di
competenze
statali
all’Unione.
Le
Corti
costituzionali
hanno
riconosciuto
l’efficacia
diretta
e
il
primato
del
diritto
di
fonte
sovranazionale
rispetto
a
quello
di
fonte
nazionale.
Tale
accettazione
ha
richiesto
del
tempo
e
non
è
priva
di
riserve
e
di
limitazioni.
Essa
implica
che
nei
settori
che
i
trattati
attribuiscono
alla
competenza
dell’Unione,
le
Corte
costituzionali
riconoscono
che
il
potere
di
governo,
sul
piano
della
potestà
normativa,
non
appartiene
più
agli
Stati
membri.
RISPOSTA
ALLA
SECONDA
DOMANDA
=
L’UNIONE
NON
E’
UNA
SEMPLICE
ORGANIZZAZIONE
INTERNAZIONALE,
ma
è
dotata,
nei
settori
che
sono
stati
attribuiti
alla
sua
competenza
o
in
alcuni
di
essi,
di
poteri
assimilabili
a
quello
di
un
vero
e
proprio
Stato.
La
sovranità
statale
rimane
limitata
dalle
competenze
attribuite
all’Unione.
PARTE
I
IL
QUADRO
ISTITUZIONALE
1.Considerazioni
generali.
All’interno
dell’Unione
si
distinguono
alcuni
organi,
che
sono
denominai
istituzioni.
Secondo
l’elencazione
di
cui
all’art.
13,
par.1,
co.1,
TUE,
esse
sono:
• Parlamento
Europeo;
• Consiglio
Europeo;
• Consiglio;
• Commissione
europea
(Commissione);
• Corte
di
giustizia
dell’Unione
Europea;
• Banca
Centrale
Europea
(BCE)
=>
novità
rispetto
al
passato.
• Corte
dei
Conti.
All’interno
di
queste
istituzioni
operano
alcune
figure
che
possono
essere
qualificate
come
organi
monocratici:
• Presidente
del
Consiglio
europeo;
• Alto
rappresentante
dell’Unione
per
gli
affari
esteri
e
la
politica
di
sicurezza
(Alto
rappresentante);
• Presidente
della
Commissione.
Le
istituzioni
sono
le
stesse
per
l’intera
Unione.
L’insieme
del
sistema
è
gestito
da
un
quadro
istituzionale
unico,
che
non
varia
a
seconda
dei
settori
di
attività,
compresa
la
PESC,
che
pure
è
soggetta
a
“norme
e
procedure
specifiche”.
Tra
le
7
istituzioni
si
distinguono:
• Istituzioni
politiche
dell’Unione:
Parlamento
europeo;
Consiglio
europeo;
Consiglio;
Commissione.
Svolgono
funzioni
di
politica
attiva,
partecipando
all’adozione
di
diversi
tipi
di
atti,
taluni
legislativi,
altri
di
natura
amministrativa,
che
modificano
o
integrano
l’ordinamento
dell’Unione.
• Istituzioni
di
controllo
dell’Unione:
Corte
di
giustizia;
Corte
dei
Conti.
• Istituzione
specializzata
(a
sé
stante):
BCE
=>
agisce
soltanto
nell’ambito
dell’Unione
economica
e
monetaria
(UEM)
ed
esercita
la
competenza
esclusiva
dell’Unione
in
materia
monetaria
per
gli
Stati
che
hanno
adottato
l’euro
come
moneta
comune.
15
Secondo
l’art.
13,
par.1,
co.1,
TUE,
“l’Unione
dispone
di
un
quadro
istituzionale
che
mira
a
promuoverne
i
valori,
perseguirne
gli
obiettivi,
servire
i
suoi
interessi,
quelli
dei
suoi
cittadini
e
quelli
degli
Stati
membri,
garantire
la
coerenza,
l’efficacia
e
la
continuità
delle
sue
politiche
e
delle
sue
azioni”.
Le
azioni
svolte
dalle
istituzioni
nell’ambito
dei
diversi
settori
di
competenza
dell’Unione
devono
essere
tra
di
loro
coordinate,
secondo
il
cd.
principio
di
coerenza.
Tale
principio
assume
particolare
importanza
per
quanto
riguarda
l’azione
esterna
ed
è
infatti
ribadito
dall’art.21,
co.2,
TUE.
L’azione
esterna
dell’Unione
si
compone
della
politica
estera
e
di
sicurezza
comune
(PESC)
e
delle
altre
azioni
e
politiche
aventi
rilievo
esterno,
in
particolare
quelle
previste
nella
Parte
V
del
TFUE
(azione
esterna
dell’Unione
che
comprende
la
politica
commerciale
comune,
l’aiuto
umanitario…).
È
necessario
che
ciascuna
di
tali
componenti
contribuiscano
al
raggiungimento
degli
obiettivi
dell’azione
esterna
dell’Unione
stabiliti
dall’art.
21
TUE.
Ai
sensi
dell’art.
21,
par.3,
co.2,
la
responsabilità
di
assicurare
il
rispetto
del
principio
di
coerenza
nell’ambito
dell’azione
esterna
e
tra
questa
e
le
politiche
“interne”
dell’Unione
è
ripartita
tra
Consiglio
e
Commissione,
con
l’assistenza
dell’Alto
rappresentante.
Di
particolare
importanza
è
il
coordinamento
tra
le
attività
della
PESC
e
quelle
relative
agli
altri
aspetti
dell’azione
esterna
dell’Unione
nel
campo
delle
misure
restrittive
di
tipo
economico
e
finanziario
da
assumere
nei
confronti
di
Stati
terzi,
persone
o
entità
non
statali.
Art.13,
par.2,
TUE
=>
principio
dell’equilibrio
istituzionale.
La
prima
frase
dispone
che
“ciascuna
istituzione
agisce
nei
limiti
delle
attribuzioni
che
le
sono
conferite
dai
trattati,
secondo
le
procedure,
condizioni
e
finalità
da
essi
previsti”.
Il
principio
enunciato
attiene
ai
rapporti
tra
le
varie
istituzioni
e
impone
a
ciascuna
di
esse
di
rispettare
le
competenze
attribuite
dai
trattati
alle
altre
istituzioni.
La
violazione
di
tale
principio
trova
sanzione
nel
vizio
di
incompetenza
previsto
dall’art.
263,
co.2,
TFUE,
e
comporta
l’illegittimità
dell’atto
adottato
da
un’istituzione
diversa
da
quella
competente.
Seconda
frase
dell’art.13,
par.2
=>
principio
della
leale
collaborazione:
“le
istituzioni
attuano
tra
di
loro
una
leale
collaborazione”.
Lo
stesso
principio
è
sancito
dall’art.
4,
par.3,
TUE,
per
quanto
riguarda
i
rapporti
tra
Unione
e
Stati
membri:
“in
virtà
del
principio
di
leale
collaborazione,
l’Unione
e
gli
Stati
membri
si
rispettano
e
si
assistono
reciprocamente
nell’adempimento
dei
compiti
derivanti
dai
trattati”.
Prima
del
Trattato
di
Lisbona,
si
riteneva
che
per
le
istituzioni
valesse
anche
il
principio
del
rispetto
dell’acquis.
Acquis
(neologismo
d’origine
francese)
=
insieme
di
quanto
è
stato
acquisito
(realizzato)
in
un
determinato
momento
storico
sul
piano
dell’integrazione
europea:
i
trattati
e
gli
atti
adottati
dalle
istituzioni,
ma
anche
i
principi
generali
e
la
giurisprudenza
della
Corte
di
giustizia
e
atti
di
natura
politica
(es.
conclusioni
del
Consiglio
Europeo).
Il
principio
avrebbe
riguardato
tanto
gli
Stati
membri
quanto
le
istituzioni.
Dal
primo
punto
di
vista
avrebbe
comportato
l’impossibilità
per
gli
stessi
Stati
membri
di
modificare
i
trattati
in
senso
peggiorativo.
Dal
secondo
punto
di
vista,
alle
istituzioni
non
sarebbe
stato
permesso
di
proporre
e
approvare
atti
regressivi.
L’art.
3,
co.1,
TUE,
disponeva
che
le
istituzioni
devono
operare
“rispettando
e
sviluppando
nel
comtempo
l’acquis
comunitario”.
Il
rispetto
dell’acquis
era
espressamente
richiamato
dall’art.43,
par.1,
co.2,
c),
come
condizione
per
poter
approvare
una
cooperazione
rafforzata.
È
dubbio
che
il
principio
del
rispetto
dell’acquis
sia
stato
confermato
dal
Trattato
di
Lisbona.
L’art.
48,
par.1,
TUE,
consente
che
i
trattati
siano
modificati
nel
senso
di
ridurre
anziché
ampliare
le
competenze
dell’Unione.
Il
nuovo
testo
prevede
espressamente
che
i
progetti
intesi
a
modificare
i
trattati
“possono,
tra
l’altro,
essere
intesi
ad
accrescere
o
a
ridurre
competenze
attribuite
all’Unione
nei
trattati”.
La
parte
dell’art.3,
co.1,
TUE,
che
impegnava
le
istituzioni
rispettare
e
a
sviluppare
l’acquis,
è
stata
soppressa.
Invece
l’art.
2,
par.2,
seconda
frase,
TFUE,
che
disciplina
l’esercizio
delle
competenze
concorrenti
dell’Unione
chiarisce
che
“gli
Stati
membri
esercitano
nuovamente
la
loro
competenza
nella
misura
in
cui
l’Unione
ha
deciso
di
cessare
di
esercitare
la
propria”.
Sarebbe
legittimo
un
atto
dell’Unione
che,
derogando
all’acquis,
decidesse
di
non
esercitare
più
una
competenza
di
tipo
concorrente,
con
l’effetto
di
lasciare
mano
libera
agli
Stati
membri
per
quanto
riguarda
la
disciplina
del
settore
interessato.
16
17
funzioni
di
controllo
politico
e
consultive
alle
condizioni
stabilite
dai
trattati.
Elegge
il
presidente
della
Commissione”.
Funzioni
più
importanti
del
P.E.:
• Funzioni
di
controllo
politico;
• Funzioni
di
partecipazione
all’adozione
degli
atti
dell’Unione.
FUNZIONI
DI
CONTROLLO
POLITICO:
• Il
P.E.
dispone
di
numerosi
canali
attraverso
i
quali
riceve
informazioni
sull’operato
delle
altre
istituzioni
e,
in
minor
misura,
degli
Stati
membri
e
dei
privati.
• Altre
istituzioni
ed
organi
(soprattutto
la
Commissione)
presentano
al
P.E.
relazioni
o
rapporti
=>
informazione
regolare
e
periodica.
Più
importante
relazione
=
RELAZIONE
GENERALE
ANNUALE,
presentata
dalla
Commissione
ed
esaminata
dal
P.E.,
ai
sensi
dell’art.
233
TFUE.
• Il
P.E.
dev’essere
regolarmente
consultato
dall’Alto
Rappresentante
sui
principali
aspetti
e
sulle
scelte
fondamentali
della
politica
estera
e
di
sicurezza
comune
e
della
politica
di
sicurezza
e
di
difesa
comune,
e
dev’essere
informato
dell’evoluzione
di
tali
politiche
(art.36,
co.
1°,
TUE).
• Il
P.E.
può
procurarsi
informazioni
attraverso:
Interrogazioni;
Audizioni
della
Commissione,
del
Consiglio
e
del
Consiglio
europeo;
Iniziativa
degli
individui
=>
comunicazione
tra
P.E.
ed
elettori:
Petizioni:
il
diritto
di
presentare
petizioni
al
Parlamento
spetta
a
qualsiasi
cittadino
dell’Unione,
a
qualsiasi
persona
fisica
o
giuridica
che
risieda
o
abbia
la
sede
sociale
in
uno
Stato
membro.
Occorre
dimostrare
che
la
materia
oggetto
della
petizione
“concerne
direttamente”
l’autore
(art.
263,
co.
5°,
TFUE).
Denunce:
si
tratta
di
denunce
“di
infrazione
o
di
cattiva
amministrazione
nell’applicazione
del
diritto
dell’Unione”,riguardo
alle
quali
il
P.E.
può
decidere
di
istituire
una
commissione
temporanea
di
inchiesta,
eccetto
“quando
i
fatti
di
cui
trattasi
siano
pendenti
dinanzi
ad
una
giurisdizione
e
fino
all’espletamento
della
procedura
giudiziale”;
Ricorso
al
Mediatore
europeo:
ai
sensi
dell’art.228,
TFUE,
qualsiasi
cittadino
dell’Unione,
qualsiasi
persona
fisica
o
giuridica
che
risieda
o
abbia
la
sede
sociale
in
uno
Stato
membro
può
rivolgersi
per
lamentare
“casi
di
cattiva
amministrazione
nell’azione
delle
istituzioni,
degli
organi
e
degli
organismi
dell’Unione,
salvo
la
Corte
di
giustizia
dell’Unione
europea
nell’esercizio
delle
sue
funzioni
giurisdizionali”.
Il
Mediatore
europeo
è
una
persona
indipendente
e
autorevole,
nominata
dal
P.E,
che
ne
ha
stabilito
lo
statuto.
Ricevuto
il
ricorso,
il
Mediatore
effettua
le
proprie
indagini
e,
se
ritiene
che
sussista
un
caso
di
cattiva
amministrazione,
si
rivolge
all’istituzione
interessata,
che
dispone
di
tre
mesi
per
comunicare
il
proprio
parere.
Sulla
base
delle
risposte
fornite,
il
Mediatore
elabora
una
relazione
che
trasmette
al
P.E.
e
all’istituzione
interessata.
Di
questa
relazione
viene
informata
anche
la
persona
che
aveva
presentato
il
ricorso.
Il
Mediatore
è
privo
di
un
potere
coercitivo
autonomo,
ma
può
contare
sul
prestigio
morale
della
propria
funzione,
per
ottenere
un
intervento
dell’istituzione
interessata
o,
in
difetto,
del
Parlamento.
• Il
P.E.
dispone
di
poteri
sanzionatori
solo
nei
confronti
della
Commissione.
Essi
si
esprimono
in:
APPROVAZIONE
DI
UNA
MOZIONE
DI
CENSURA
(art.
234
TFUE).
Se
la
mozione
viene
approvata
=>
i
membri
della
Commissione
“si
dimettono
collettivamente
dalle
loro
funzioni”,
con
la
precisazione
che
per
quanto
riguarda
l’Alto
rappresentante,
le
dimissioni
riguardano
soltanto
“le
funzioni
che
esercita
in
seno
alla
Commissione”.
MOZIONE
DI
CENSURA
=>
DIMISSIONAMENTO
D’UFFICIO
DELL’INTERA
COMMISSIONE,
senza
possibilità
di
limitarne
la
portata
a
particolari
membri.
• Il
P.E.
esercita
sul
Consiglio
un
CONTROLLO
MERAMENTE
MORALE.
Il
Parlamento
ha
dovuto
utilizzare
il
sistema
di
CONTROLLO
GIURISDIZIONALE
previsto
dai
trattati,
presentando
ricorso
alla
Corte
di
Giustizia,
contro
atti
o
comportamenti
del
Consiglio
compiuti
senza
rispettare
i
poteri
parlamentari.
3.Il
Consiglio.
CONSIGLIO
=
ORGANO
DI
STATI
in
quanto
è
composto
da
soggetti
che
rappresentano
direttamente
i
singoli
Stati
membri
di
appartenenza.
18
COMPOSIZIONE
(art.
16,
par.2,
TUE)
=>
“Il
Consiglio
è
composto
da
un
rappresentante
di
ciascuno
Stato
membro
a
livello
ministeriale,
abilitato
a
impegnare
il
governo
dello
Stato
membro
che
rappresenta
e
ad
esercitare
il
diritto
di
voto”
=>
1
RAPPRESENTANTE
x
CIASCUNO
STATO
MEMBRO.
Per
l’Italia
=>
è
stabilito
che
nelle
materie
spettanti
alla
competenza
regionale
in
virtù
dell’art.
117,
par.4,
Cost.,
il
“Capo
delegazione”
(=guida
la
delegazione
italiana
nel
Consiglio)
possa
essere
anche
un
Presidente
di
Giunta
regionale
o
Provincia
autonoma.
Il
processo
di
formazione
della
posizione
del
Governo
italiano
nel
Consiglio
è
oggetto
di
disposizioni
che
hanno
lo
scopo
di
favorire
un’ampia
partecipazione
e
di
coinvolgere
:
a)
Parlamento;
b)Regioni
e
Province
autonome;
c)
Gli
altri
enti
territoriali;
d)
Parti
sociali
e
categorie
produttive.
Presidente
del
Consiglio
o
Ministro
per
il
coordinamento
delle
politiche
comunitarie
=>
obbligo
di
informazione.
Sussiste
anche
=>
obbligo
di
consultazione:
• Per
il
Parlamento
=>
Riserva
di
esame
parlamentare
in
2
casi:
Qualora
le
Camere
abbiano
iniziato
l’esame
di
un
progetto
o
di
un
atto
=>
Riserva
provocata
dall’iniziativa
del
Parlamento;
In
casi
di
particolare
importanza
politica
economica
e
sociale
=>
Riserva
applicata
per
volontà
del
governo.
Essa
è
apposta
dal
Governo
in
sede
di
Consiglio
e
ha
lo
scopo
di
ottenere
un
rinvio
delle
deliberazioni,
lasciando
alle
Camere
un
lasso
di
tempo
(20
giorni)
per
formulare
osservazioni
ed
eventuali
atti
di
indirizzo.
• Per
Regioni
e
Province
=>
Progetto
di
atto
normativo
comunitario
che
riguardi
una
materia
attribuita
alla
competenza
legislativa
regionale.
Sul
progetto
è
convocata
la
Conferenza
permanente,
su
richiesta
di
una
Regione
o
di
una
provincia
autonoma,
affinchè
si
raggiunga
un
intesa.
La
Conferenza
può
chiedere
che
il
Governo
apponga
una
riserva
d’esame,
analoga
a
quella
parlamentare.
FUNZIONAMENTO
DEL
CONSIGLIO:
• CONSIGLIO
=
ORGANO
NON
PERMANENTE;
• Si
riunisce
in
formazioni
tipizzate
dalla
prassi
che
agiscono
secondo
calendari
differenziati
e
nelle
quali
gli
Stati
membri
si
fanno
rappresentare
di
volta
in
volta
dal
ministro
competente
per
la
materia
dell’ordine
del
giorno.
• L’art.
16,
par.6,
TUE,
prevede
direttamente
soltanto;
Consiglio
Affari
generali
(co.2°);
Consiglio
Affari
esteri
(co.3°).
L’elenco
delle
“altre
formazioni
del
Consiglio”
è
invece
stabilito
con
decisione
del
Consiglio
europeo
a
maggioranza
qualificata.
FUNZIONI
DEL
CONISGLIO
“AFFARI
GENERALI”:
• Assicura
la
coerenza
dei
lavori
delle
varie
formazioni
del
Consiglio;
• Prepara
le
riunioni
del
Consiglio
europeo;
• Ne
assicura
il
seguito
in
collegamento
con
il
Presidente
del
Consiglio
europeo
e
la
Commissione”.
FUNZIONI
DEL
CONSIGLIO
“AFFARI
ESTERI”
(presieduto
dall’Alto
rappresentante):
• Elaborare
l’azione
esterna
dell’Unione,
secondo
le
linee
strategiche
definite
dal
Consiglio
europeo;
• Assicurare
la
coerenza
dell’azione
dell’Unione.
LA
PRESIDENZA:
• Consiglio
Affari
esteri
=>
attribuita
in
via
permanente
all’Alto
rappresentante;
• Altre
formazioni
(tra
cui
C.
Affari
Generali)
=>
sistema
di
rotazione
paritaria
=>
la
Presidenza
passa
da
uno
Stato
membro
all’altro,
alle
condizioni
stabilite
con
decisione
adottata
dal
Consiglio
europeo
a
maggioranza
qualificata.
In
questo
caso
il
Presidente
presiede
anche
tutti
i
comitati
la
cui
composizione
riflette
quella
del
Consiglio,
compreso
il
COREPER.
COMPITI
DELLA
PRESIDENZA:
• Convocare
le
riunioni
del
Consiglio
e
stabilirne
l’ordine
del
giorno;
• Firmare
gli
atti
del
Consiglio;
• Tenere
i
rapporti
con
le
altre
istituzioni.
I
MODI
DI
DELIBERAZIONE:
• Maggioranza
semplice
(o
assoluta);
• Maggioranza
qualificata;
• Unanimità.
N.B.:
MODO
NORMALE
DI
DELIBERAZIONE
=
MAGGIORANZA
QUALIFICATA
19
Art.16,
par.3,
TUE
=>
“Il
Consiglio
delibera
a
maggioranza
qualificata,
salvo
nei
casi
in
cui
i
trattati
dispongano
diversamente”.
=>
Maggioranza
semplice
e
unanimità
si
applicano
solo
se
lo
prescrive
la
norma
dei
trattati
su
cui
il
Consiglio
si
basa
per
agire.
La
maggioranza
qualificata
La
definizione
di
maggioranza
qualificata,
avendo
comportato
sempre
grandi
problemi,
è
risultata
solo
dal
Trattato
di
Lisbona,
con
una
soluzione
di
compromesso,
articolata
in
due
fasi:
• Prima
del
1°
novembre
2014:
si
applica
la
disciplina
definita
con
il
Trattato
di
Nizza
e
temporaneamente
mantenuta
in
vigore,
in
quanto
ripresa
nell’art.
3,
par.3,
del
Protocollo
n.36
sulle
disposizioni
transitorie.
Sistema
del
TRATTATO
DI
NIZZA:
la
formazione
della
maggioranza
qualificata
richiede
la
presenza
di
3
condizioni:
Raggiungimento
di
una
soglia
minima
di
voti
ponderati
pari
a
255
(su
345),
secondo
una
tabella
di
ponderazione;
Voto
favorevole
di
almeno
la
maggioranza
dei
membri
(attualmente
14)
qualora
le
deliberazioni
debbano
essere
prese
su
proposta
della
Commissione.
Altrimenti
occorre
il
voto
favorevole
di
almeno
due
terzi
di
membri
(attualmente
18);
Quorum
demografico:
Stati
membri
che
compongono
maggioranza
qualificata
=
almeno
62%
popolazione
totale
dell’Unione.
• Dopo
il
1°
novembre
2014:
trovano
applicazione
le
nuove
norme.
Sistema
del
TRATTATO
DI
LISBONA
=>
art.
16,
par.4,
TUE
=>
“a
decorrere
dal
1°
novembre
2014
per
maggioranza
qualificata
si
intende
almeno
il
55%
dei
voti
dei
membri
del
Consiglio,
con
un
minimo
di
15
rappresentanti
Stati
membri
che
totalizzano
almeno
il
65%
della
popolazione
dell’Unione”.
Per
il
raggiungimento
della
maggioranza
qualificata
sono
necessarie
2
condizioni:
Quorum
numerico
minimo
=>
i
voti
favorevoli
devono
essere
non
meno
di
15
e
non
meno
del
55%
dei
totale
dei
membri
del
Consiglio
(2
parametri
obbligatori);
Quorum
demografico
minimo
=>
i
voti
favorevoli
devono
essere
espressi
in
nome
degli
Stati
membri,
la
cui
popolazione
complessiva
non
sia
inferiore
del
65%
della
popolazione
totale
dell’UE.
Il
quorum
demografico
minimo
è
molto
importante
in
tema
di
minoranza
di
blocco:
“la
minoranza
di
blocco
deve
comprendere
almeno
quattro
membri
del
Consiglio;
in
caso
contrario
la
maggioranza
qualificata
si
considera
raggiunta”.
Quindi
il
mancato
raggiungimento
del
quorum
demografico
minimo
non
impedirà
l’approvazione
dell’atto
qualora
a
votare
contro
siano
i
rappresentanti
di
non
più
di
3
Stati
membri.
L’UNANIMITA’
=>
quando
i
trattati
richiedono
l’unanimità,
il
voto
contrario
di
un
solo
Stato
membro
è
sufficiente
ad
impedire
l’approvazione.
Mentre,
l’art.
238,
TFUE
precisa
che
“le
astensioni
dei
membri
presenti
o
rappresentati
non
ostano
all’adozione
delle
deliberazioni
del
Consiglio
per
le
quali
è
richiesta
l’unanimità”.
È
importante
distinguere
il
Consiglio
da
altri
organi
che
hanno
una
composizione
simile.
Il
TFUE
si
riferisce
talvolta
a
decisioni
che
devono
essere
prese
collegialmente
dai
rappresentanti
degli
Stati
membri.
Ad
es.
l’art.
253,
co.
1°,
stabilisce:
“I
giudici
e
gli
avvocati
generali
della
Corte
di
giustizia
sono
nominati
di
comune
accordo
per
sei
anni
dai
governi
degli
Stati
membri”.
Deliberazioni
del
genere,
perciò,
non
sono
opera
del
Consiglio,
ma
dei
governi
degli
Stati
membri,
i
cui
rappresentanti
si
riuniscono
per
assumere
le
deliberazioni
stesse.
Il
TFUE
ha
voluto
riservare
agli
Stati
membri,
nella
loro
individualità
di
soggetti
di
diritto
internazionale,
determinate
funzioni
di
notevole
importanza
nel
funzionamento
dell’Unione.
Nella
prassi
è
invalso
l’uso
di
indicare
tali
deliberazioni
come
decisioni
dei
rappresentanti
dei
governi
degli
Stati
membri
riuniti
in
sede
di
Consiglio
e
di
pubblicarle
nella
GU.
Tali
atti
non
sono
soggetti
al
controllo
giurisdizionale
della
Corte
di
giustizia.
Anche
il
Comitato
dei
Rappresentanti
Permanenti
(COREPER)
rispecchia
la
composizione
del
Consiglio.
Esso
riunisce
i
rappresentanti
diplomatici
che
ciascuno
Stato
membro
accredita
presso
l’Unione
europea.
La
composizione
è
quindi
identica
a
quella
del
Consiglio
per
quanto
riguarda
la
nazionalità
dei
membri,
ma
non
per
quanto
riguarda
la
qualità
degli
stessi,
trattandosi,
nel
caso
del
Consiglio,
di
persone
di
livello
ministeriale,
nel
caso
del
COREPER,
di
diplomatici.
La
presidenza
spetta
al
rappresentante
permanente
20
dello
Stato
membro
che
esercita
la
presidenza
di
turno
del
Consiglio.
Ai
sensi
dell’art.
240,
par.1,
il
COREPER
“è
responsabile
della
preparazione
del
lavoro
del
Consiglio
e
dell’esecuzione
dei
compiti
che
quest’ultimo
gli
assegna.”
Esso
può
anche
adottare
“decisioni
di
procedura
nei
casi
previsti
dal
regolamento
interno
del
Consiglio”.
Il
COREPER
costituisce
una
sorta
di
filtro
tra
Consiglio
e
Commissione.
Quando
la
Commissione
intende
presentare
una
proposta
al
Consiglio,
deve
prima
sottoporla
all’esame
del
COREPER.
Una
volta
che
la
proposta
sia
stata
esaminata
anche
dal
competente
comitato
tecnico,
il
COREPER
delibera
a
riguardo.
L’art.
240,
par.2,
TFUE
prevede
che
“il
Consiglio
è
assistito
dal
segretariato
generale
sotto
la
responsabilità
di
un
segretario
generale,
nominato
dal
Consiglio”.
Il
Trattato
di
Lisbona
ha
istituito,
inoltre,
la
carica
di
Alto
rappresentante
dell’Unione
per
gli
affari
esteri
e
la
politica
di
sicurezza
(art.
18
TUE).
FUNZIONI
DELL’ALTO
RAPPRESENTANTE:
• Guida
la
PESC,
con
il
compito
di
formulare
proposte
per
l’elaborazione
di
tale
politica
e
di
attuarla
in
qualità
di
“mandatario
del
Consiglio”;
• Presiede
il
Consiglio
Affari
esteri;
• È
uno
dei
Vicepresidenti
della
Commissione,
incaricato
delle
responsabilità
che
incombono
a
tale
istituzione
nel
settore
delle
relazioni
esterne
e
del
coordinamento
degli
altri
aspetti
dell’azione
esterna
dell’Unione.
PROCEDURA
DI
NOMINA
DELL’ALTO
RAPPRESENTANTE:
• Coinvolge
sia
il
Consiglio
europeo
che
il
Presidente
della
Commissione.
• La
nomina
spetta
al
Consiglio
europeo
“a
maggioranza
qualificata
con
l’accordo
del
Presidente
della
Commissione”
(art.
18,
par.1,
TUE).
DURATA
DEL
MANDATO
DELL’A.
RAPPRESENTANTE
=
coincide
con
quella
degli
altri
membri
della
Commissione,
salva
la
possibilità
per
il
Consiglio
europeo
di
porre
fine
anticipatamente
al
suo
mandato,
con
le
stesse
modalità
applicabili
alla
nomina.
FUNZIONI
DEL
CONSIGLIO
(art.
16,
par.1,
TUE)
=>
“Il
Consiglio
esercita,
congiuntamente
con
il
Parlamento
europeo
la
funzione
legislative
e
di
bilancio.
Esercita
funzioni
di
definizione
delle
politiche
e
di
coordinamento
alle
condizioni
stabilite
nei
trattati”.
4.Consiglio
europeo.
CONSIGLIO
EUROPEO
=
ORGANO
DI
STATI
=>
è
composto
da
soggetti
che
rappresentano
direttamente
i
singoli
Stati
membri
di
appartenenza.
Il
Trattato
di
Lisbona
fa
dal
Consiglio
Europeo
un’istituzione
dell’Unione
come
le
altre;
tuttavia,
il
Consiglio
europeo
mantiene
la
sua
natura
di
organo
di
vertice
dell’intera
Unione,
dotato
di
poteri
ampi
ed
eterogenei.
COMPOSIZIONE
DEL
CONSIGLIO
=>
art.
15,
par.2,
TUE:
“Il
Consiglio
europeo
è
composto
dai
capi
di
Stato
o
di
governo
degli
Stati
membri,
dal
suo
presidente
e
dal
presidente
della
Commissione.
L’Alto
rappresentante
dell’Unione
per
gli
affari
esteri
e
la
politica
di
sicurezza
partecipa
ai
lavori”.
=>
• Capi
di
Stato
e
di
governo
degli
Stati
membri;
• Presidente;
• Presidente
della
Commissione.
N.B.:
è
prevista
la
partecipazione
ai
lavori
dell’Alto
rappresentante,
che,
quindi,
non
è
un
vero
e
proprio
membro
del
Consiglio
europeo.
DAL
P.V.
DELIBERATIVO:
occorre
distinguere
tra
la
componente
formata
dai
Capi
di
Stato
e
di
governo,
da
un
lato,
e
il
Presidente
e
il
Presidente
della
Commissione,
dall’altro.
In
caso
di
deliberazione
a
maggioranza
qualificata,
votano
soltanto
i
Capi
di
Stato
e
di
governo.
IL
PRESIDENTE:
• Prima
del
Trattato
di
Lisbona
=>
Capo
di
Stato
o
di
governo
dello
Stato
membro
che
deteneva
a
presidenza
del
Consiglio
secondo
il
sistema
di
rotazione
semestrale
in
vigore
in
passato.
• Art.
15,
par.5,
TUE
=>
“il
Consiglio
europeo
elegge
il
presidente
a
maggioranza
qualificata,
per
un
mandato
di
due
anni
e
mezzo,
rinnovabile
una
volta”.
21
NOMINA
DEL
PRESIDENTE
=>
AFFIDATA
AL
CONSIGLIO
EUROPEO,
con
deliberazione
a
maggioranza
qualificata.
DURATA
DEL
MANDATO
DEL
PRESIDENTE
=>
2
ANNI
E
MEZZO,
rinnovabili
una
sola
vola:
nel
complesso
5
anni,
che
corrispondono
alla
durata
della
legislatura
del
Parlamento
europeo
e
al
mandato
della
Commissione.
FUNZIONI
DEL
PRESIDENTE
(art.
15,
par.6):
• Assicurare
la
preparazione
e
la
continuità
dei
lavori
del
Consiglio
europeo,
in
cooperazione
con
il
presidente
della
Commissione
e
in
base
ai
lavori
del
Consiglio
Affari
generali;
• Svolgere
la
rappresentanza
esterna
dell’Unione
per
le
materie
relative
alla
politica
estera
e
di
sicurezza
comune,
fatte
salve
le
attribuzioni
dell’alto
rappresentante
dell’Unione
per
gli
affari
esteri
e
la
politica
di
sicurezza.
N.B.:
Rischio
di
sovrapposizione
tra
a)
Presidente
del
Consiglio
europeo
e
Presidente
della
Commissione
e
b)
Alto
rappresentante.
MODO
DI
DELIBERAZIONE
TIPICO
=
CONSENSO
=>
esso
si
forma,
senza
bisogno
di
votare
quando
nessuno
dei
membri
si
oppone
al
testo
presentato
dal
Presidente.
Il
Trattato
di
Lisbona
prevede
alcuni
casi
in
cui
il
Consiglio
europeo
può
deliberare
a
maggioranza
qualificata.
In
questi
casi
il
Presidente
del
Consiglio
europeo
e
il
Presidente
della
Commissione
non
partecipano
al
voto.
FUNZIONI
DEL
CONSIGLIO
EUROPEO
(art.
15,
par.1,
TUE)
=>
“Il
Consiglio
europeo
dà
all’Unione
gli
impulsi
necessari
al
suo
sviluppo
e
ne
definisce
gli
orientamenti
e
le
priorità
politiche
generale”.
Il
Consiglio
europeo
“non
esercita
funzioni
legislative”.
=>
CONSIGLIO
=
SUPREMO
ORGANO
DI
INDIRIZZO
DELL’INTERA
UE.
I
trattati
assegnano
al
Consiglio
Europeo
compiti
decisionali
veri
e
propri
che
incidono
direttamente
sulla
vita
e
sull’operare
dell’Unione.
A
tal
proposito,
gli
atti
del
Consiglio
europeo
destinati
a
produrre
effetti
giuridici
nei
confronti
di
terzi
sono
menzionati
tra
quelli
soggetti
a
sindacato
di
legittimità
da
parte
della
Corte
di
giustizia.
CONSIGLIO
EUROPEO
=
PRESIDENZA
COLLEGIALE
DELL’UNIONE,
interprete
dell’interesse
generale.
In
altri
casi
=>
CONSIGLIO
EUROPEO
=
ORGANO
DOTATO
DI
POTERI
DI
TIPO
COSTITUZIONALE
=>
Esso
è
chiamato
ad
assumere
decisioni
che
integrano
o
danno
attuazione
a
talune
disposizioni
dei
trattati
e,
in
altri
casi,
hanno
addirittura
l’effetto
di
sostituirsi
ad
alcune
loro
disposizioni.
Esempi
di:
• DECISIONI
DEL
PRIMO
TIPO:
decisione
che
stabilisce
la
competenza
del
Parlamento
europeo,
decisione
che
stabilisce
l’elenco
delle
formazioni
del
Consiglio,
etc.;
• DECISIONI
DEL
SECONDO
TIPO:
decisioni
del
Consiglio
europeo
nel
quadro
delle
procedure
semplificate
di
revisione
dei
trattati,
ai
sensi
dell’art.
48
TUE.
ISTANZA
D’APPELLO
RISPETTO
AL
CONSIGLIO:
In
alcuni
settori,
il
Consiglio
europeo
può
essere
adito
da
uno
Stato
membro
che
non
intenda
subire
una
decisione
presa
a
maggioranza
qualificata,
ottenendo
di
bloccare
o
di
rinviare
la
decisione.
Esempi
di
settori:
PESC,
settore
della
Cooperazione
giudiziaria
in
materia
penale.
5.La
Commissione.
COMMISSIONE
=
ORGANO
DI
INDIVIDUI
=>
è
composta
da
persone
che
non
sono
legate
da
un
vincolo
di
rappresentanza
ad
uno
Stato
membro,
ma
portano
nell’istituzione
la
propria
esperienza
professionale
e
la
propria
autonoma
facoltà
di
giudizio.
COMPOSIZIONE:
• In
origine
=>
il
numero
dei
membri
era
fissato
dal
TCE
ed
era
superiore
a
quello
degli
Stati
membri.
La
prassi
attribuiva
agli
Stati
maggiori
2
membri.
• Per
effetto
dell’art.
213
TCE,
come
modificato
dall’art.
4
del
Protocollo
sull’allargamento
allegato
al
Trattato
di
Nizza
=>
un
cittadino
x
ogni
Stato
membro
(come
nella
Commissione
entrata
in
funzione
il
1°
novembre
2004).
Dopo
l’adesione
di
Bulgaria
e
Romania,
il
collegio
veniva
allargato
a
27
membri,
compreso
il
Presidente.
Il
Protocollo
sull’allargamento
stabiliva
che
dal
momento
in
cui
l’Unione
avesse
avuto
27
Stati
membri,
il
numero
di
membri
sarebbe
stato
inferiore
a
quello
degli
Stati
e
che
il
Consiglio
avrebbe
fissato
all’unanimità
tanto
il
numero
totale,
quanto
il
sistema
di
rotazione
per
l’assegnazione
dei
seggi
disponibili.
Il
Trattato
di
Lisbona
conferma
l’idea
di
una
riduzione
del
numero
dei
membri,
ma
ne
differisce
l’applicazione
alla
Commissione
che
dovrà
entrare
in
funzione
il
1°
novembre
2014.
22
23
24
NOMINA
DI
GIUDICI
E
AVVOCATI
GENERALI
=>
è
effettuata
di
comune
accordo
dai
governi
degli
Stati
membri.
La
nomina
avviene
previa
consultazione
di
un
apposito
comitato.
COMITATO
=>
è
composto
di
7
personalità
scelte
tra
ex
membri
della
Corte
di
giustizia
e
del
Tribunale,
membri
dei
massimi
organi
giurisdizionali
nazionali
e
giuristi
di
notoria
competenza,
designati
dal
Consiglio.
Il
comitato
ha
l’incarico
di
fornire
un
parere
sull’adeguatezza
dei
candidati
all’esercizio
delle
funzioni
di
giudice
e
di
avvocato
generale
della
Corte
di
giustizia
e
del
Tribunale”.
DURATA
DEL
MANDATO
=>
6
ANNI
=>
il
mandato
è
rinnovabile.
È
previsto
un
rinnovo
parziale,
che
avviene
ogni
tre
anni
e
riguarda
metà
dei
componenti
della
Corte.
FORMAZIONI
DI
GIUDIZIO
(in
cui
la
Corte
opera):
• Sezioni:
composte
da
3
a
5
giudici
(a
seconda
dell’importanza
di
ciascuna
causa)=>
è
la
formazione
ordinaria;
• Grande
sezione:
formata
da
11
giudici,
tra
cui
il
presidente
(che
la
presiede)
e
i
presidenti
delle
sezioni
a
5
=>
è
convocata
quando
lo
richiede
uno
Stato
membro
o
un’istituzione
dell’Unione
che
è
parte
in
giudizio.
• Seduta
plenaria:
con
la
partecipazione
di
tutti
i
giudici
=>
oltre
ad
ipotesi
particolari,
può
essere
convocata
ove
la
Corte
“reputi
che
un
giudizio
pendente
dinanzi
ad
essa
rivesta
un’importanza
eccezionale”
(art.16,
co.5°,
Statuto).
PROCEDURA
DINANZI
ALLA
CORTE
DI
GIUSTIZIA
=>
2
FASI:
• Fase
scritta
=
scambio
o
deposito
di
memorie
scritte;
• Fase
orale
=
udienza
con
le
parti
e
lettura
o
deposito
delle
conclusioni
dell’avvocato
generale.
• Successivamente
=>
la
Corte
di
giustizia
si
riunisce
in
camera
di
consiglio
per
deliberare.
La
sentenza
è
letta
in
pubblica
udienza.
FUNZIONI
DELLA
CORTE
DI
GIUSTIZIA:
• Funzioni
di
natura
giurisdizionale
=>
art.
19,
par.1,
co.1°,
TUE,
in
riferimento
all’intera
Corte-‐istituzione
dispone
che
essa
“assicura
il
rispetto
del
diritto
nell’interpretazione
e
nell’applicazione
dei
trattati”.
• Funzioni
di
natura
consultiva
=>
la
C.
di
G.
non
è
chiamata
a
decidere
una
controversia,
ma
ad
esprimere
un
parere.
PARERI
DELLA
CORTE
=
VALORE
PARZIALMENTE
VINCOLANTE
=>
il
loro
contenuto
condiziona
il
comportamento
delle
istituzioni
e
degli
Stati
membri.
Art.
218
TFUE
=>
“uno
Stato
membro,
il
Parlamento
europeo,
il
Consiglio
o
la
Commissione
possono
domandare
il
parere
della
Corte
di
giustizia
circa
la
compatibilità
di
un
accordo
previsto
con
i
trattati.
In
caso
di
parere
negativo
della
Corte,
l’accordo
previsto
non
può
entrare
in
vigore
salvo
modifica
dello
stesso
o
revisione
dei
trattati”.
Il
parere
negativo
della
Corte
non
ha
un
effetto
ostativo,
ma
rende
necessario
ricorrere
alla
procedura
di
revisione
dei
trattati
prevista
all’art.
48
TUE,
salvo
l’accordo
previsto
sia
modificato
in
maniera
da
eliminare
le
ragioni
del
parere
negativo.
7.Il
Tribunale
dell’Unione
europea
e
i
tribunali
specializzati.
FONTI
NORMATIVE
che
disciplinano
organizzazione
e
funzionamento
del
Tribunale:
• Disposizioni
contenute
nello
stesso
TFUE;
• Titolo
IV
dello
Statuto
della
Corte
di
giustizia
=>
è
dedicato
al
funzionamento
del
Tribunale
e
ai
giudizi
d’impugnazione
delle
decisioni
del
Tribunale
dinanzi
alla
Corte
di
giustizia;
REGOLAMENTO
DI
PROCEDURA
=>
il
Tribunale
lo
approva
“di
concerto
con
la
Corte
di
giustizia”,
poi
il
regolamento
è
“sottoposto
all’approvazione
del
Consiglio
che
delibera
a
maggioranza
qualificata”.
COMPOSIZIONE
DEL
TRIBUNALE:
• Art.19,
par.2,
TUE
=>
“il
Tribunale
è
composto
di
almeno
1
giudice
per
Stato
membro”.
Ma,
art.254
TFUE
=>
“il
numero
dei
giudici
è
stabilito
dallo
Statuto
della
Corte
di
giustizia”.
È
possibile
che
lo
Statuto
stabilisca
di
nominare
più
giudici
di
quanti
sono
gli
Stati
membri,
ma
tale
possibilità
non
è
ancora
stata
sfruttata.
L’art.
48
dello
Statuto
prevede
che
i
giudici
siano
solo
27.
• Art.
254
TFUE
=>
lo
Statuto
può
prevedere
la
presenza
di
avvocati
generali.
NOMINA
DEI
GIUDICI
DEL
TRIBUNALE
=
avviene
di
comune
accordo
dai
governi
degli
Stati
membri,
previa
consultazione
del
comitato
previsto
dall’art.
255
TFUE.
DURATA
DEL
MANDATO
DEI
GIUDICI
=>
6
ANNI
ed
è
rinnovabile.
I
giudici
eleggono
tra
di
loro
un
presidente,
che
resta
in
carica
3
anni.
REQUISITI
DI
INDIPENDENZA
=
gli
stessi
richiesti
ai
membri
della
Corte;
REQUISITI
DI
PROFESSIONALITA’
=
analoghi
a
quelli
richiesti
alla
Corte,
ma
il
livello
richiesto
è
molto
elevato.
25
26
A
partire
dal
Trattato
di
Nizza
è
stata
prevista
la
possibilità
di
creare
un’ulteriore
articolazione
giurisdizionale.
Accanto
alla
Corte
di
giustizia
e
al
Tribunale,
il
Parlamento
europeo
e
il
Consiglio
possono
istituire
tribunali
specializzati
affiancati
al
Tribunale
e
incaricati
“di
conoscere
in
primo
grado
di
talune
categorie
di
ricorsi
proposti
in
materie
specifiche”.
L’istituzione
avviene
attraverso
un
regolamento
che
stabilisce
la
composizione
e
la
portata
delle
competenze.
La
nomina
dei
membri
è
compito
del
Consiglio
che
delibera
all’unanimità.
Le
sentenze
dei
tribunali
specializzati
sono
impugnabili
davanti
al
Tribunale
per
i
soli
motivi
di
diritto
o,
se
il
regolamento
istitutivo
lo
prevede,
anche
per
i
motivi
di
fatto.
Il
“riesame”
della
decisione
del
Tribunale
davanti
alla
Corte
di
giustizia
è
invece
previsto
solo
eccezionalmente
e
alle
condizioni
e
entro
i
limiti
previsti
dallo
Statuto,
“ove
sussistono
gravi
rischi
che
l’unità
o
la
coerenza
del
diritto
dell’Unione
siano
compromesse”.
Per
queste
ipotesi
eccezionali
si
possono
pertanto
avere
3
livelli
di
giudizio:
1. Tribunale
specializzato;
2. Tribunale;
3. Corte
di
giustizia.
TRIBUNALE
DELLA
FUNZIONE
PUBBLICA
DELL’UNIONE
EUROPEA
(TFP)
)=>
istituito
dalla
Decisione,
adottata
dal
Consiglio,
n.
2004/752/CE,
Euratom.
Il
TFP
“è
componente
in
primo
grado
a
pronunciarsi
in
merito
alle
controversie
tra
le
Comunità
e
i
loro
agenti
ai
sensi
dell’art.
236
del
trattato
CE
e
dell’art.
152
del
trattato
CEEA,
comprese
le
controversie
tra
gli
organi
o
tra
gli
organismi
e
il
loro
personale,
per
le
quali
la
competenza
è
attribuita
alla
Corte
di
giustizia
(cd.
contenzioso
del
personale).
COMPOSIZIONE
DEL
TFP:
7
GIUDICI
(numero
aumentabile
dal
Consiglio,
a
maggioranza
qualificata,
su
richiesta
della
Corte).
PROCESSO
DI
NOMINA
=>
affidata
al
Consiglio,
che
decide
all’unanimità,
previa
consultazione
di
un
comitato.
REGIME
DI
IMPUGNAZIONE
DELLE
DECISIONI
DEL
TFP
=>
ricalca
in
gran
parte
quello
previsto
per
l’impugnazione
delle
decisioni
del
Tribunale
emesse
in
primo
grado.
Il
termine
ordinario
è
di
2
mesi
dalla
notifica
della
decisione
impugnata.
8.La
Corte
dei
conti,
la
Banca
centrale
europea
e
gli
altri
organi.
CORTE
DEI
CONTI
=
ORGANO
DI
INDIVIDUI
=>
non
rappresenta
istanze
governative.
COMPOSIZIONE=
1
CITTADINO
x
ciascuno
Stato
membro.
I
membri
sono
nominati
dal
Consiglio
a
maggioranza
qualificata,
previa
consultazione
del
Parlamento
europeo,
“conformemente
alle
proposte
presentate
da
ciascuno
Stato
membro”.
DURATA
DEL
MANDATO
=
6
ANNI.
FUNZIONI
DELLA
CORTE
=>
disciplinate
dagli
artt.
285
e
287
TFUE.
• Art.285
TFUE
=>
CONTROLLO
DEI
CONTI
DELL’UNIONE;
• Art.287
TFUE
=>
specifica
il
primo
compito.
=>
“la
Corte
dei
Conti
esamina
i
conti
di
tutte
le
entrate
e
le
spese
dell’Unione,
nonché
quelli
di
ogni
organo
o
organismo
creato
dall’Unione,
nella
misura
in
cui
l’atto
costitutivo
non
escluda
tale
esame”.
Inoltre
essa
“controlla
la
legittimità
e
la
regolarità
delle
entrate
e
delle
spese
ed
accerta
la
sana
gestione
finanziaria
e
riferisce
su
ogni
caso
di
irregolarità”.
ATTO
PIU’
RILEVANTE
DELLA
FUNZIONE
DI
CONTROLLO
=
RELAZIONE
ANNUALE.
ALTRI
ORGANI
DELL’UNIONE
menzionati
dall’art.13
TUE
(tra
cui):
• COMITATO
ECONOMICO
E
SOCIALE
=
ORGANO
DI
INDIVIDUI
È
composto
da
“rappresentanze
delle
organizzazioni
di
datori
di
lavoro,
di
lavoratori
dipendenti
e
di
altri
attori
rappresentativi
della
società
civile,
in
particolare
nei
settori
socioeconomico,
civico,
professionale
e
culturale”.
Il
numero
dei
membri,
che
non
può
essere
superiore
a
350,
è
stabilito
dal
Consiglio
con
delibera
all’unanimità,
su
proposta
della
Commissione.
I
membri
sono
nominati
dal
Consiglio
a
maggioranza
qualificata,
conformemente
alle
proposte
presentate
da
ciascuno
Stato
membro.
• COMITATO
DELLE
REGIONI
=
ORGANO
DI
INDIVIDUI.
E’
composto
da
“rappresentanti
delle
collettività
regionali
e
locali,
che
siano
titolari
di
un
mandato
elettorale
nell’ambito
di
una
collettività
regionale
o
locale
o
politicamente
responsabili
dinanzi
ad
27
un’assemblea
eletta”.
Per
il
numero
di
membri
e
la
loro
nomina
valgono
regole
corrispondenti
a
quelle
che
si
sono
viste
per
il
Comitato
economico
e
sociale.
Questi
2
comitati
devono
essere
consultati
dal
Parlamento
europeo,
dal
Consiglio
o
dalla
Commissione
quando
ciò
sia
previsto
dai
trattati
(parere
obbligatorio)
o
possono
esserlo
quando
tali
istituzioni
lo
ritengano
opportuno
(parere
puramente
facoltativo).
ORGANI
CREATI
DAL
TUE
NELL’AMBITO
DELL’UEM:
• BANCA
CENTRALE
EUROPEA
(BCE)
=>
ha
personalità
giuridica
e
il
diritto
esclusivo
di
autorizzare
l’emissione
dell’euro.
È
indipendente
nell’esercizio
dei
suoi
poteri
e
nella
gestione
delle
sue
finanze.
Al
suo
interno
si
articola
in:
Comitato
esecutivo:
è
composto
da
un
Presidente,
un
Vice-‐presidente
e
altri
4
membri,
nominati
dal
Consiglio
europeo
che
delibera
a
maggioranza
qualificata,
su
raccomandazione
del
Consiglio,
previa
consultazione
del
Parlamento
europeo
e
del
Consiglio
direttivo.
Consiglio
direttivo:
è
composto
dai
membri
del
Comitato
esecutivo
e
dai
Governatori
delle
Banche
centrali
nazionali
degli
Stati
membri
la
cui
moneta
è
l’euro.
• SISTEMA
EUROPEO
DELLE
BANCHE
CENTRALI
(SEBC):
il
funzionamento
e
l’organizzazione
della
BCE
e
del
SEBC
sono
oggetto
del
Protocollo
n.4
sullo
Statuto
del
Sistema
Europeo
delle
Banche
Centrali
e
della
Banca
Centrale
Europea.
BANCA
EUROPEA
DEGLI
INVESTIMENTI
(BEI)
=>
disciplinata
dagli
artt.
308
e
309.
• È
dotata
di
personalità
giuridica
propria,
distinta
da
quella
dell’Unione;
• Di
essa
sono
membri
gli
Stati
membri
che
ne
sottoscrivono
il
capitale.
• FUNZIONI
=>
facilitare,
mediante
concessione
di
prestiti
e
garanzie,
senza
perseguire
scopo
di
lucro,
il
finanziamento
di
progetti
indicati
all’art.
309
TFUE
e
finalizzati
a
contribuire
allo
sviluppo
equilibrato
e
senza
scosse
del
mercato
interno.
AGENZIE
INDIPENDENTI
=>
istituite
attraverso
regolamenti
basati
su
disposizioni
dell’allora
TCE.
N.B.:
non
mancano
esempi
di
organi
dello
stesso
tipo
il
cui
atto
istitutivo
trova
il
proprio
fondamento
in
norme
del
TUE
relative
all’ex
II
o
III
pilastro.
Tra
questi
segnaliamo
il
Centro
Satellitare
dell’UE,
l’Ufficio
europeo
di
polizia,
l’Eurojust.
PARTE
II
LE
PROCEDURE
DECISIONALI
1.Considerazioni
generali.
PROCEDURE
DECISIONALI
=
sequenza
di
atti
o
fatti
richiesta
dai
trattati
affinchè
la
volontà
dell’Unione
si
possa
manifestare
attraverso
determinati
atti
giuridici.
Le
procedure
decisionali
hanno
prevalentemente
carattere
interistituzionale.
Esse
si
compongono
di
atti
o
fatti
provenienti
da
più
di
un’istituzione,
in
particolare
dalle
istituzioni
politiche
(P.E.,
Consiglio
Europeo,
Consiglio
e
Commissione).
Il
ruolo
delle
istituzioni
cambia
a
seconda
della
procedura
decisionale:
• In
alcuni
settori
prevalgono
le
istituzioni
rappresentative
degli
Stati
membri,
Consiglio
europeo
e
Consiglio,
o
viene
richiesto
che
esse
deliberino
all’unanimità.
• In
altri
settori,
le
procedure
decisionali
pongono
su
un
piano
di
parità
il
Consiglio
e
il
P.E.,
istituzione
che
rappresenta
istanza
unitarie.
• Spesso
le
procedure
decisionali
necessitano
dell’iniziativa
della
Commissione.
• Altre
volte
l’iniziativa
può
provenire
anche
da
altri
soggetti
istituzionali
o
addirittura
da
uno
Stato
membro
o
da
un
gruppo
di
essi.
I
trattati
prevedono
una
grande
varietà
di
procedure
decisionali.
DISCIPLINA
DELLE
PROCEDURE
DECISIONALI
=>
stabilita
dai
trattati
=>
è
inderogabile
dalle
istituzioni.
Un
atto
adottato
da
una
di
esse
non
può
modificare
le
procedure
previste
o
istituire
procedure
diverse
da
quelle
stabilite
dai
trattati.
28
Prima
del
Trattato
di
Lisbona,
le
procedure
più
frequentemente
utilizzate
non
si
distinguevano
in
funzione
della
natura
del
potere
esercitato
dalle
istituzioni
coinvolte
o
in
relazione
al
tipo
di
atti
da
adottare.
Il
TFUE
riserva
all’adozione
degli
“atti
legislativi”
alcune
specifiche
procedure,
le
quali
vengono
definite
procedure
legislative.
Si
distinguono:
• PROCEDURA
LEGISLATIVA
ORDINARIA:
di
applicazione
generale
=>
consiste
“nell’adozione
congiunta
di
un
regolamento,
di
una
direttiva
o
di
una
decisione
da
parte
del
P.E.
e
del
Consiglio,
su
proposta
della
Commissione”
(art.
294
TFUE);
è
una
procedura
largamente
tipizzata
=>
si
svolge
sempre
secondo
le
modalità
previste
dall’art.
294
TFUE.
• PROCEDURE
LEGISLATIVE
SPECIALI:
applicazione
solo
nei
casi
previsti
nei
trattati
=>
prevedono
“l’adozione
di
un
regolamento,
di
una
direttiva
o
di
una
decisione
da
parte
del
Parlamento
europeo
con
la
partecipazione
del
Consiglio
o
da
parte
di
quest’ultimo
con
la
partecipazione
del
P.E.”
(art.
289
TFUE).
Esse
hanno
in
comune
con
la
procedura
legislativa
ordinaria
soltanto
la
partecipazione
di
entrambi
il
P.E.
e
il
Consiglio,
ma
l’esatto
svolgimento
di
ciascuna
di
esse
è
definito
di
volta
in
volta
dalla
disposizione
dei
trattati
che
le
prevedono.
Possono
essere
individuati
due
modelli
prevalenti:
Procedura
di
consultazione;
Procedura
di
approvazione.
• PROCEDURE
NON
LEGISLATIVE:
per
l’adozione
di
atti
di
natura
diversa.
La
categoria
è
molto
eterogenea,
perché
comprende
procedure
per
l’approvazione
di
atti
molto
diversi
tra
di
loro.
2.La
definizione
della
corretta
base
giuridica.
Per
stabilire
quale
procedura
vada
seguita
di
volta
in
volta,
occorre
definire
la
base
giuridica
dell’atto
che
si
intende
adottare
=>
bisogna
individuare
la
disposizione
dei
trattati
che
attribuisce
alle
istituzioni
il
potere
di
adottare
un
determinato
atto.
La
corretta
individuazione
della
base
giuridica
di
ciascun
atto
è
un’operazione
estremamente
importante
e
delicata.
Esempi
di
contestazioni
da
parte
delle
istituzioni:
• CONTENSTAZIONE
DEL
PRIMO
TIPO
=>
l’istituzione
vuol
far
valere
come
base
giuridica
dell’atto
del
Consiglio
impugnato
un
diverso
articolo
del
trattato
o
addirittura
un
trattato
diverso,
in
quanto
la
base
giuridica
invocata
in
alternativa
imporrebbe
una
procedura
diversa,
nella
quale
l’istituzione
ricorrente
avrebbe
un
ruolo
più
importante.
• CONTESTAZIONE
DEL
SECONDO
TIPO
=>
la
contestazione
è
legata
alla
volontà
di
ricondurre
l’atto
impugnato
in
un
settore
di
competenza
maggiormente
caratterizzato
da
elementi
tipici
del
metodo
comunitario.
La
corretta
individuazione
della
base
giuridica
dipende
dall’analisi
di
alcuni
elementi
oggettivamente
rilevabili,
tra
i
quali
lo
scopo
e
il
contenuto
dell’atto.
Può
accadere
che
uno
stesso
atto
persegua
una
pluralità
di
scopi
o
presenti
contenuti
differenziati
=>
la
base
giuridica
va
dedotta
dal
cd.
centro
di
gravità
dell’atto
=>
non
si
dovrà
tener
conto
di
scopi
o
componenti
secondari
o
accessori.
Qualora
non
sia
possibile
determinare
il
centro
di
gravità
dell’atto,
perché
i
vari
scopi
e
contenuti
hanno
uguale
importanza
=>
eccezionalmente
base
giuridica
plurima
=
tutte
le
disposizioni
dei
trattati
corrispondenti
ai
suoi
vari
scopi
o
ai
vari
contenuti.
Questa
soluzione
non
vale
se
le
disposizioni
che
dovrebbero
fungere
da
base
giuridica
plurima
prevedono
procedure
decisionali
incompatibili.
In
questi
casi
la
base
giuridica
non
potrà
essere
una
sola
e
andrà
preferita
la
base
giuridica
che
non
pregiudichi
i
poteri
di
partecipazione
del
P.E.
alla
procedura
decisionale.
Fino
al
Trattato
di
Lisbona,
la
soluzione
della
base
giuridica
plurima
veniva
esclusa
anche
in
caso
di
atti
a
cavallo
tra
pilastri
diversi.
La
Corte
aveva
risolto
casi
del
genere,
invocando
il
vecchio
art.
47
TUE
e
assegnando
una
funzione
meramente
residuale
alle
basi
giuridiche
tratte
dal
II
o
III
pilastro.
Queste
non
potevano
essere
utilizzate
tutte
le
volte
che
era
disponibile
una
base
giuridica
contenuta
nel
TCE.
La
scelta
della
corretta
base
giuridica
di
ciascun
atto
adottato
dalle
istituzioni
“riveste
un’importanza
di
natura
costituzionale”=>
sentenza
1°
ottobre
2009,
Commissione
c.
Consiglio).
La
base
giuridica
dev’essere
sempre
indicata
e
rientra
nell’obbligo
di
motivazione.
3.La
procedura
legislativa
ordinaria.
Art.
294
TFUE
=>
“la
procedura
legislativa
ordinaria
consiste
nell’adozione
congiunta
di
un
regolamento,
di
una
direttiva
o
di
una
decisione
da
parte
del
P.E.
e
del
Consiglio
su
proposta
della
Commissione”.
In
passato
(art.
251
TCE)
era
nota
come
procedura
di
codecisione
perché
tramite
essa
le
due
istituzioni
gestiscono
insieme
il
potere
decisionale,
senza
che
l’una
possa
prevaricare
sull’altra.
E’
invalso
l’uso
di
riferirsi
al
P.E.
e
al
Consiglio,
quando
agiscono
nel
quadro
della
procedura
in
esame,
come
ai
co-
29
legislatori.
Disciplina
della
procedura
=>
art.
294
TFU.
Essa
si
fonda
su
un
sistema
di
ripetute
letture
della
proposta
di
atto
legislativo
da
parte
delle
due
istituzioni.
L’attuale
disciplina
contempla
fino
a
3
letture.
Non
è
detto,
però,
che
vi
si
giunga.
È
possibile
che
la
procedura
si
arresti
non
appena
le
due
istituzioni
siano
pervenute
ad
un
accordo
su
un
medesimo
testo.
PROCEDURA
LEGISLATIVA
ORDINARIA
=>
si
apre
con
proposta
della
Commissione
(N.B.:
il
potere
di
iniziativa
della
Commissione
non
è
assoluto
=>
esempio
di
procedura
ordinaria
che
si
apre
senza
iniziativa
della
Commissione:
istituzione
di
un
tribunale
specializzato
su
richiesta
della
Corte
di
giustizia
(art.
257
TFUE)).
Invece,
P.E.
e
Consiglio
=>
potere
di
sollecitare
la
Commissione
a
presentare
una
proposta,
approvando
una
richiesta
in
tal
senso.
La
commissione
ha
il
compito
di
sottoporre
proposte
volte
a
dare
attuazione
alle
priorità
e
agli
orientamenti
politici
generali
dell’Unione,
definiti
dal
Consiglio
europeo,
ai
sensi
dell’art.
15,
par.1,
TUE.
Il
T.
di
Lisbona
istituisce
=>
INIZIATIVA
POPOLARE
=>
istituto
di
democrazia
partecipativa,
consistente
nel
diritto
dei
cittadini
dell’Unione
di
invitare
la
Commissione
“a
presentare
una
proposta
appropriata
su
materie
in
merito
alle
quali
tali
cittadini
ritengono
necessario
un
atto
giuridico
dell’Unione,
ai
fini
dell’attuazione
dei
trattati”.
COMMISSIONE
=>
portatrice
dell’interesse
generale
della
Comunità.
CONSIGLIO
=>
rappresenta
gli
interessi
individuali
di
ciascuno
Stato
membro
=>
il
suo
potere
si
limita
alla
modifica
della
proposta
della
Commissione
(art.
293
TFUE)
=>
“il
Consiglio
può
emendare
la
proposta
solo
deliberando
all’unanimità”=>
il
consenso
unanime
garantisce
che
l’atto
adottato
risponda
all’interesse
generale
della
Comunità.
Il
requisito
dell’unanimità,
perché
il
Consiglio
possa
emendare
la
proposta
della
Commissione
non
si
applica
durante
la
fase
del
comitato
di
conciliazione
e
la
terza
lettura.
Infatti,
l’art.
293
TFUE
fa
salvi
“i
casi
di
cui
all’art.294,
par.
10
e
13”.
Il
requisito
dell’unanimità
vale
nella
prima
e
nella
seconda
lettura
=>
in
queste
fasi,
il
Consiglio
può
deliberare
a
maggioranza
qualificata,
solo
attenendosi
alla
proposta
della
Commissione.
Il
fatto
che
il
Consiglio
possa
emendare
la
proposta
della
Commissione
solo
all’unanimità,
se
da
un
lato
ha
funzione
garantistica,
dall’altro
può
creare
una
situazione
di
stallo
=>
può
verificarsi
che
il
Consiglio
non
sia
disposto
ad
approvare
la
proposta
della
Commissione
e
da
un
altro
lato
che
non
sia
in
grado
di
deliberare
all’unanimità
gli
opportuni
emendamenti.
Per
evitare
una
situazione
di
stallo
=>
art.
293,
par.2,
TFUE
prevede
che
“fintantoché
il
Consiglio
non
ha
deliberato,
la
Commissione
può
modificare
la
propria
proposta
in
ogni
fase
delle
procedure
che
portano
all’adozione
di
un
atto
dell’Unione”.
La
Commissione
può
preferire
di
modificare
la
propria
proposta
per
favorirne
l’approvazione
da
parte
del
Consiglio
a
maggioranza
qualificata,
piuttosto
che
insistere
sul
testo
originale
della
proposta
e
rischiare
che
essa
sia
respinta
tout
court.
Tra
i
poteri
della
Commissione
(art.
293,
par.2,
TFUE)
=>
potere
di
ritirare
la
proposta.
Questa
potrebbe
essere
un’arma
da
usare
nel
caso
che
il
P.E.
e
il
Consiglio,
nel
corso
della
procedura
legislativa
ordinaria,
o
il
Consiglio,
quando
delibera
da
solo,
intendano
modificare
radicalmente
la
proposta.
LA
PROCEDURA:
• Si
apre
con
=>
proposta
della
Commissione,
indirizzata
simultaneamente
a
Consiglio
e
P.E.
(294
TFUE);
• PRIMA
LETTURA
=
adozione
da
parte
del
Parlamento
europeo
della
propria
posizione,
che
viene
trasmessa
al
Consiglio
=>
se
il
Consiglio
approva
la
posizione
del
P.E.
=>
l’atto
è
approvato
in
tale
formulazione.
Altrimenti
=>
il
Consiglio
adotta,
a
maggioranza
qualificata,
una
“posizione
in
prima
lettura”.
• SECONDA
LETTURA
=>
il
P.E.
ha
3
mesi
di
tempo
per
decidere
in
uno
dei
seguenti
modi:
Approvare
la
posizione
in
prima
lettura
del
Consiglio
o
omettere
di
deliberare
entro
il
termine
=>
l’atto
si
considera
adottato
“nella
formulazione
corrispondente
alla
posizione
del
Consiglio”;
Respingere
la
posizione
(a
maggioranza
assoluta
dei
membri)
=>
la
procedura
si
arresta
=>
l’atto
si
considera
non
adottato;
Proporre
emendamenti
(con
lo
stesso
quorum
deliberativo)
=>
la
Commissione
emette
pareri
sugli
emendamenti;
il
Consiglio,
a
maggioranza
qualificata,
può:
Approvare
tutti
gli
emendamenti
del
Parlamento
=>
l’atto
si
considera
approvato;
Non
approvare
tutti
gli
emendamenti
=>
si
apre
una
fase
intermedia
e
viene
convocato
un
Comitato
di
conciliazione.
30
Comitato
=>
composto
dai
membri
del
Consiglio
o
loro
rappresentanti
e
da
altrettanti
membri
del
P.E..
Ha
il
compito
di
approvare
entro
6
settimane
un
“progetto
comune”
con
la
collaborazione
della
Commissione.
a) Se
il
Comitato
non
riesce
ad
approvare
un
progetto
comune
entro
il
termine
prefissato
=>
l’atto
si
considera
non
adottato;
b) Se
approva
un
progetto
comune
=>
l’atto
dovrà
essere
definitivamente
approvato
in
terza
lettura
dal
Parlamento
e
dal
Consiglio,
entro
ulteriori
6
settimane.
In
mancanza
della’approvazione
=>
l’atto
si
considera
non
adottato.
4.Le
procedure
legislative
speciali:
la
procedura
di
consultazione
e
la
procedura
di
approvazione.
POTERE
DI
INIZIATIVA
NELLE
P.L.
SPECIALI
=>
spetta
sempre
alla
Commissione.
Salvo
eccezioni,
l’istituzione
competente
non
può
deliberare
in
mancanza
di
una
proposta
della
Commissione.
PROCEDURE
LEGISLATIVE
SPECIALI
(generalmente
adottate):
• Procedura
di
consultazione
=
adozione
dell’atto
da
parte
del
Consiglio
a
maggioranza
qualificata
o
all’unanimità,
previa
consultazione
del
P.E..
Il
potere
del
Consiglio
di
adottare
atti
legislativi
in
un
certo
settore
è
controbilanciato
dall’obbligo
di
consultare
il
P.E..
Il
P.E.
emette
un
parere
consultivo
=>
esso
è
obbligatori
ma
non
vincolante
=>
il
Consiglio
è
libero
di
non
seguire
il
parere.
La
consultazione
era
l’unica
forma
che
consentiva
al
P.E.
di
intervenire
nella
definizione
degli
atti
del
Consiglio,
prima
dell’introduzione
delle
procedure
di
cooperazione
e
di
consultazione.
La
consultazione
del
P.E.
=>
dev’essere
consultazione
effettiva
e
regolare.
La
consultazione
dev’essere
effettivamente
avvenuta
=>
il
parere
non
dev’essere
stato
soltanto
richiesto,
ma
anche
emanato
prima
dell’adozione
dell’atto
da
parte
del
Consiglio.
NO
termine
per
l’emanazione
del
parere
del
Parlamento
=>
il
P.E.
è
del
tutto
libero
di
stabilire
a
proprio
piacimento
i
tempi
per
l’emanazione
del
parere.
MA,
in
forza
del
principio
di
leale
collaborazione
=>
il
P.E.
deve
emanare
il
parere
entro
un
termine
ragionevole,
e
tener
conto
delle
eventuali
richieste
avanzate
dal
Consiglio
per
ottenere
una
delibera
urgente.
In
mancanza
=>
negato
al
P.E.
il
diritto
di
invocare
il
difetto
di
consultazione,
essendo
stato
sleale
nei
confronti
del
Consiglio.
Esigenza
di
consultazione
effettiva
e
regolare
=>
anche
quando
il
Consiglio
intenda
deliberare
un
atto
diverso
da
quello
sul
quale
il
P.E.
è
stato
chiamato
ad
esprimere
il
proprio
parere.
PROBLEMA
=
se
e
in
quali
casi
si
renda
necessaria
una
seconda
consultazione:
Caso
Chemiefarma
(sentenza
15
luglio
1970)
Un’impresa
impugna,
ai
sensi
dell’art.
230
TCE,
una
decisione
della
Commissione
che
le
commina
un’ammenda
per
la
violazione
delle
norme
sulla
concorrenza.
L’impresa
fa
valere
che
la
decisione
è
illegittima,
in
quanto
emanata
in
forza
di
un
regolamento
del
Consiglio
a
sua
volta
invalido,
per
mancata
consultazione
del
Parlamento.
La
proposta
originaria
di
regolamento
sulla
quale
il
Parlamento
si
era
pronunciato
era
diversa
dal
testo
adottato
dal
Consiglio.
La
Corte
respinge
la
censura,
constatando
che
il
testo
oggetto
del
parere
del
P.E.
è
“sostanzialmente
identico”
a
quello
approvato
dal
Consiglio.
=>
la
seconda
consultazione
non
è
richiesta
nemmeno
quando
si
tratta
di
emendamenti
corrispondenti
alle
proposte
di
modifica
formulate
nel
parere
del
Parlamento.
• Procedura
di
approvazione
=
l’atto
deliberato
dal
Consiglio
è
sottoposto
all’approvazione
del
P.E.
(in
un
num.
limitato
di
casi).
Esempio
di
tale
procedura
=>
art.
19,
par.1,
TFUE:
“Il
Consiglio,
deliberando
all’unanimità
secondo
una
procedura
legislativa
speciale
e
previa
approvazione
del
Parlamento
europeo,
può
prendere
i
provvedimenti
opportuni
per
combattere
le
discriminazioni
fondate
sul
sesso,
la
razza
o
l’origine
etnica,
la
religione
o
le
convinzioni
personali,
la
disabilità,
l’età
o
l’orientamento
sessuale”.
In
questa
procedura,
potere
deliberativo
=>
non
appartiene
più
al
Consiglio,
ma
è
condiviso
con
il
Parlamento,
come
nella
p.l.
ordinaria.
Mentre
in
quest’ultima
il
P.E.
ha
ampio
spazio
di
manovra
per
contribuire
a
determinare
il
contenuto
dell’atto,
nella
procedura
di
approvazione
il
P.E.
si
limita
ad
approvare
o
a
respingere
l’atto.
Per
alcuni
atti
legislativi
il
contenuto
è
destinato
a
sostituirsi
o
a
integrare
la
disciplina
prevista
del
TFUE,
è
prescritto
che
l’atto
adottato
con
la
procedura
di
approvazione
o,
più
raramente,
di
consultazione,
per
entrare
in
vigore
debba
essere
approvato
anche
“dagli
Stati
membri
conformemente
alle
rispettive
norme
costituzionali”.
31
PARTE
III
L’ORDINAMENTO
DELL’UNIONE
EUROPEA
1.Considerazioni
generali.
Il
complesso
delle
norme
del
TUE
e
del
TFUE
costituisce
o
meno
un
ordinamento
autonomo?
L’UE
è
portatrice
di
un
proprio
ordinamento
giuridico,
che
si
distingue
tanto
dal
diritto
internazionale
quanto
dal
diritto
interno
di
ciascuno
Stato
membro?
La
maggiore
preoccupazione
della
Corte
è
quella
di
distinguere
il
TCE
dai
trattati
internazionali
tradizionali.
Il
TCE
comporta
vere
e
proprie
limitazioni
di
sovranità
a
carico
degli
Stati
membri.
Il
TCE
e
il
complesso
di
norme
che
ne
scaturisce
non
si
limitano
a
porre
obblighi
a
carico
di
Stati
membri,
ma
toccano
la
sfera
giuridica
degli
stessi
soggetti
degli
ordinamenti
interni
degli
Stati
membri,
i
quali
diventano
soggetti
anche
dell’ordinamento
comunitario.
I
caratteri
che
distinguono
il
TCE
dai
trattati
internazionali
tradizionali
servono
a
segnare
l’autonomia
del
diritto
comunitario
rispetto
al
diritto
interno
degli
Stati
membri.
L’applicazione
del
diritto
comunitario
nei
settori
assegnati
alla
sovranità
della
Comunità
e
all’interno
degli
Stati
membri
non
è
subordinata
all’azione
da
parte
di
tali
Stati
di
misure
interne
di
adattamento.
Non
è
possibile
neanche
che
l’applicazione
del
diritto
comunitario
sia
ostacolata
o
impedita
dalla
presenza
di
provvedimenti
preesistenti
degli
Stati
membri
o
dall’adozione
di
nuovi
provvedimenti
contrari
a
quanto
prevede
il
diritto
comunitario.
Secondo
la
Corte
di
giustizia
=>
l’ordinamento
comunitario
è
AUTONOMO
rispetto
all’ordinamento
internazionale
generale,
quanto
e
soprattutto
rispetto
agli
ordinamenti
interni
degli
Stati
membri.
Finora
la
Corte
ha
parlato
di
ordinamento
autonomo
soltanto
con
riferimento
al
diritto
comunitario
e
non
ha
avuto
ancora
occasione
di
pronunciarsi
sul
se
sia
possibile
dirsi
altrettanto
dell’Ordinamento
dell’Unione
nel
suo
complesso,
comprensivo
anche
delle
disposizioni
dei
trattati
e
gli
atti
delle
istituzioni
riguardanti
i
settori
che,
prima
del
Trattato
di
Lisbona,
costituivano
il
II
e
il
III
pilastro.
(Dopo
il
Trattato
di
Lisbona)
La
soppressione
della
CE
come
ente
autonomo
rispetto
all’UE
e
la
parziale
abolizione
della
“struttura
a
pilastri”
vigente
in
precedenza
sono
tutti
elementi
che
renderebbero
anacronistico
ogni
tentativo
di
continuare
a
tracciare
distinzioni
all’interno
di
un
ordinamento
che
vuol’essere
unico
e
onnicomprensivo.
SISTEMA
DI
FONTI
DI
PRODUZIONE
DEL
DIRITTO,
DELL’ORDINAMENTO
DELL’UNIONE
=>
GERARCHIA:
• Trattati,
principi
generali
del
diritto,
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’UE;
• Norme
del
diritto
internazionale
generale
e
accordi
internazionali
conclusi
dall’Unione
con
Stati
terzi;
• Atti
di
base
adottati
dalle
istituzioni;
• Atti
d’attuazione
o
d’esecuzione
adottati
dalla
Commissione
o
dal
Consiglio.
Distinzione
fondamentale:
• Diritto
primario
=
i
trattati;
• Diritto
secondario
o
derivato
=
atti
che
le
istituzioni
possono
adottare
in
attuazione
dei
trattati.
Il
Trattato
di
Lisbona
ha
creato
con
il
nuovo
art.
6
TUE
una
nuova
fonte
scritta
cui
è
riconosciuto
“lo
stesso
valore
giuridico
dei
trattati”:
la
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea.
• Fonti
intermedie
=
norme
di
diritto
internazionale
generale
e
accordi
internazionali
conclusi
dall’Unione
europea
con
Stati
terzi.
GERARCHIA
INTERNA
A
DIRITTO
SECONDARIO:
• Atti
di
base;
• Atti
di
attuazione
o
di
esecuzione
=>
l’atto
d’attuazione
deve
rispettare
l’atto
di
base
e
restare
nei
limiti
della
delega
conferita.
Il
T.
di
Lisbona
ha
introdotto
una
distinzione
netta,
prima
non
esistente,
tra:
Atti
di
attuazione
=>
recano,
nel
titolo,
l’aggettivo
“delegata/o”
(art.290
TFUE).
Essi
si
distinguono
dagli
atti
di
base
perché
sono
sempre
adottati
dalla
Commissione
su
delega
disposta
da
un
atto
legislativo
adottato,
secondo
i
casi,
congiuntamente
dal
Parlamento
europeo
e
dal
Consiglio
ovvero
dall’una
o
dall’altra
di
queste
istituzioni.
Atti
di
esecuzione
=>
recano
nel
titolo
il
termine
“di
esecuzione”.
Sono
emessi
dalla
Commissione,
ovvero
“in
casi
specifici,
debitamente
motivati,
e
nelle
circostanze
previste
agli
artt.24-25
del
Trattato
sull’Unione
europea”,
dal
Consiglio
(art.
291
TFUE).
32
33
Mera
prassi,
anche
se
costante
e
di
lunga
durata,
che
non
si
sia
tradotta
in
comunicazioni
=>
può
essere
variata
nel
tempo
dalla
Commissione,
senza
che
le
imprese
interessate
possano
vantare
un
legittimo
affidamento
circa
il
mantenimento
della
prassi
anteriore.
ASPETTI
COMUNI
A
TUTTI
GLI
ATTI
DELLE
ISTITUZIONI
(artt.
296-‐297
TFUE):
• Motivazione;
• Firma;
• Entrata
in
vigore.
2.I
trattati.
Le
fonti
di
diritto
primario
dell’Unione
sono
in
massima
parte
contenute
nei
trattati
(TUE
e
TFUE),
come
emendati
dai
trattati
di
revisione
e
modificati
dai
trattati
di
adesione
che
si
sono
succeduti
nel
tempo.
I
due
trattati
hanno
pari
natura
giuridica
e
tra
i
due
testi
esiste,
pertanto,
un
legame
funzionale
=>
il
TFUE
è
servente
rispetto
al
TUE.
L’art.
51
TUE
dispone
che
“i
Protocolli
e
gli
allegati
ai
trattati
ne
costituiscono
parte
integrante”.
Quindi,
hanno
natura
di
fonti
primarie
anche:
• Protocolli;
• Allegati.
Per
prassi,
l’atto
finale
delle
CIG,
convocate
per
approvare
i
trattati
di
revisione
o
di
adesione,
reca
in
allegato
alcune
Dichiarazioni,
aventi
ad
oggetto
una
o
più
disposizioni
dei
trattati,
ovvero
questioni
attinenti
alla
loro
applicazione.
2
TIPI
DI
DICHIARAZIONI:
• Dichiarazioni
della
Conferenza,
cioè
di
tutti
gli
Stati
membri
=>
ruolo
importante
per
l’interpretazione
delle
disposizioni
alle
quali
si
riferiscono.
Esse
non
hanno
la
stessa
natura
giuridica
di
tali
disposizioni
e
non
costituiscono
per
l’interprete
un
vero
e
proprio
vincolo;
• Dichiarazioni
di
uno
o
più
Stati
membri
(minore
importanza
rispetto
alle
prime)=>
esse
non
emanano
da
coloro
che
detengono
collettivamente
il
potere
di
revisione.
Ma
anch’esse
possono
essere
prese
in
considerazione
dall’interprete
ed
in
particolare
dalla
Corte
di
giustizia.
NATURA
GIURIDICA
DEI
TRATTATI:
2
alternative
per
considerare
i
trattati:
• Semplici
trattati
internazionali
=>
a
sostegno
di
questa
soluzione
vi
sono
TCE,
TUE
e
tutti
i
trattati
che
li
hanno
modificati,
tra
cui
il
T.
di
Lisbona,
che
sono
stati
conclusi
nelle
forme
e
secondo
i
procedimenti
propri
di
un
normale
trattato
internazionale.
• Carta
costituzionale
=>
in
una
prospettiva
interna
al
sistema
giuridico
dell’Unione
è
possibile
ammettere
che
i
Trattati
assolvano
ad
una
funzione
di
natura
costituzionale.
I
trattati:
Definiscono
la
struttura
istituzionale
dell’Unione,
le
procedure
per
l’adozione
degli
atti
di
diritto
derivato
e
le
caratteristiche
di
tali
atti;
Prevedono
una
serie
di
norme
materiali
che
dettano
i
principi
e
le
regole
di
base
applicabili
ai
vari
settori
sottoposti
alla
competenza
dell’Unione.
La
disciplina
contenuta
nei
trattati
è
inderogabile
dalle
istituzioni
e
dagli
Stati
membri,
se
non
seguendo
la
procedura
di
revisione
dell’art.
48
TUE.
All’interno
dell’Unione
opera
una
Corte
di
giustizia
che
assicura
il
rispetto
dei
trattati
e
del
diritto
in
generale
ed
è
accessibile
da
tutti
i
soggetti
interessati:
istituzioni,
Stati
membri
e
soggetti
degli
ordinamenti
interni.
N.B.:
non
si
tratta
di
una
costituzione
di
tipo
statuale.
La
Corte
di
giustizia
considera
e
adopera
i
trattati
come
una
costituzione,
piuttosto
che
come
trattati
internazionali.
Tale
concezione
si
riflette
nei
criteri
interpretativi
seguiti
dalla
Corte,
che
si
discostano
notevolmente
dai
criteri
utilizzati
per
i
trattati
internazionali,
compresi
quelli
istitutivi
di
organizzazioni
internazionali.
La
Corte
di
giustizia
tende
a
dare
un
rilievo
non
decisivo
al
dato
testuale
delle
norme
da
interpretare
e
ricorre
con
grande
libertà
a
criteri
di
tipo
contestuale
e
teleologico.
Le
norme
del
TFUE
sulle
4
libertà
di
circolazione
(di
merci,
persone,
servizi
e
capitali)
sono
interpretate
estensivamente,
così
come
lo
sono
le
norme
che
definiscono
le
competenze
dell’Unione.
Al
contrario,
le
norme
che
consentono
agli
Stati
membri
di
adottare
o
mantenere
provvedimenti
derogatori
rispetto
alle
regole
generali
sono
oggetto
di
interpretazione
restrittiva.
Risulta
rovesciato
il
criterio
seguito
dai
giudici
internazionali,
secondo
cui
le
limitazioni
della
sovranità
degli
Stati
non
si
presumono.
Altro
criterio
interpretativo
applicato
alle
norme
del
Trattato
è
quello
dell’effetto
utile.
Tra
le
varie
interpretazioni
34
possibili,
la
Corte
preferisce
quella
che
consente
di
riconoscere
alla
norma
la
maggiore
effettività
possibile,
in
maniera
che
gli
scopi
a
cui
la
norma
è
rivolta
possano
essere
raggiunti
più
compiutamente.
La
Corte
è
ricorsa
al
criterio
dell’effetto
utile,
per
giustificare
l’affermazione
d’importanti
principi
giurisprudenziali.
Un
esempio
è
offerto
dalla
giurisprudenza
che
riconosce
l’efficacia
diretta
delle
direttive.
Nella
sentenza
5
aprile
1979,
Ratti,
la
Corte
è
chiamata
a
pronunciarsi
sul
se
un
produttore
di
vernici
possa
invocare,
a
giustificazione
della
mancata
osservanza
della
normativa
nazionale,
la
circostanza
che
tale
normativa
non
è
conforme
ad
una
direttiva
adottata
in
materia.
Nel
dare
risposta
affermativa
al
quesito,
la
Corte
afferma:
“l’effetto
utile
dell’atto
è
attenuato
se
agli
amministrati
è
precluso
di
valersi
in
giudizio
del
comportamento
prescritto
dalle
autorità
comunitarie
e
ai
giudici
nazionali
di
prenderlo
in
considerazione
in
quanto
elemento
del
diritto
comunitario”.
I
trattati
possono
essere
modificati
soltanto
ricorrendo
alle
procedure
previste
a
questo
scopo
dagli
stessi
trattati,
in
particolare
dall’art.
48
TUE,
che
disciplina
le
procedure
di
revisione.
PROCEDURE
DI
REVISIONE:
• PROCEDURA
DI
REVISIONE
ORDINARIA:
si
suddivide
in
numerose
fase
=>
a)
le
prime
si
svolgono
all’interno
del
circuito
istituzionale
dell’Unione,
b)
le
fasi
finali
(assunzione
delle
deliberazioni
vere
e
proprie)
si
svolgono
all’esterno
di
tale
circuito
e
vedono
come
protagonisti
gli
Stati
membri
e
il
loro
parlamenti
nazionali.
LE
FASI:
Presentazione
al
Consiglio
di
un
progetto
di
modifica
da
parte
del
governo
di
qualsiasi
Stato
membro,
del
P.E.
o
della
Commissione;
Decisione
del
Consiglio
europeo,
a
maggioranza
semplice,
favorevole
all’esame
delle
modifiche
trasmesse
dal
Consiglio
al
Consiglio
europeo;
Convocazione
da
parte
del
Presidente
del
Consiglio
europeo
di
“una
convenzione
composta
da
rappresentanti
dei
parlamenti
nazionali,
dei
capi
di
Stato
o
di
governo
degli
Stati
membri,
del
Parlamento
europeo
e
della
Commissione”
con
lo
scopo
di
esaminare
i
progetti
di
modifica
e
di
adottare
per
consenso
una
raccomandazione
per
la
conferenza
intergovernativa
(CIG);
in
caso
di
modifiche
istituzionali
nel
settore
monetario,
è
consultata
anche
la
BCE;
In
alternativa,
qualora
“l’entità
delle
modifiche”
non
giustifichi
la
convocazione
della
convenzione
di
cui
al
punto
precedente,
decisione
del
Consiglio
europeo
a
maggioranza
semplice,
previa
approvazione
del
P.E.,
che
definisce
il
mandato
per
la
CIG;
Convocazione
di
una
CIG
formata
dai
rappresentanti
dei
governi
degli
Stati
membri
per
“stabilire
di
comune
accordo
le
modifiche
da
apportare
ai
trattati”;
Ratifica
delle
modifiche
approvate
da
parte
di
tutti
gli
Stati
membri
“conformemente
alle
rispettive
norme
costituzionali”
e
loro
entrata
in
vigore;
L’avvio
della
procedura
è
agevolato
dalla
circostanza
che
il
Consiglio
europeo
può
deliberare
a
maggioranza
semplice.
Alla
CIG,
in
quella
sede,
è
necessario
l’accordo
unanime
degli
Stati
membri
sul
trattato
di
revisione.
Tale
accordo,
tuttavia,
non
è
ancora
sufficiente
perché
l’entrata
in
vigore
è
subordinata
alla
ratifica
da
parte
di
tutti
gli
Stati
membri,
secondo
le
rispettive
norme
costituzionali.
Sono
le
costituzioni
nazionali
che
definiscono
se
e
in
quali
casi
la
ratifica
debba
essere
sottoposta
a
referendum
popolare
o
anche
se
sia
possibile
esperire
un
ricorso
costituzionale
contro
il
provvedimento
di
ratifica.
Referendum
popolare
=>
le
costituzioni
di
alcuni
Stati
membri
lo
richiedono
per
i
trattati
che
attribuiscono
all’Unione
europea
nuove
competenze.
Altre
volte
la
necessità
del
referendum
dipende
dal
si
a
ratifica
necessiti
o
meno
una
modifica
della
Costituzione.
In
altri
Stati,
il
referendum,
pur
non
essendo
costituzionalmente
prescritto,
può
essere
deciso
dal
governo
nazionale
per
ragioni
politiche.
Particolarmente
sofferti
sono
stati
i
referendum
tenuti
in
Danimarca
sulla
ratifica
del
TUE
e
in
Irlanda
sulla
ratifica
del
Trattato
di
Nizza.
In
entrambi
i
casi
=>
il
risultato
negativo
di
una
prima
consultazione
popolare
è
stato
poi
superato
da
un
secondo
referendum,
dopo
che
il
Consiglio
europeo
aveva
concesso
alcune
aperture
per
venire
incontro
alle
preoccupazioni
degli
elettori.
I
risultati
negativi
dei
referendum
tenuti
in
Francia
e
nei
P.Bassi
nel
maggio
2005
a
proposito
della
ratifica
del
Trattato
che
adotta
una
Costituzione
per
l’Europa
hanno
invece
portato
all’abbandono
del
trattato
stesso.
• 2
PROCEDURE
SEMPLIFICATE
DI
REVISIONE
(disposte
dal
Trattato
di
Lisbona):
PROCEDURA,
disciplinata
dall’art.48,
par.6,
TUE
(può
avere
ad
oggetto
soltanto
modifiche
parziali,
ma
anche
totali,
delle
“disposizioni
della
parte
III
del
trattato
sul
funzionamento
dell’Unione
europea
relative
alle
politiche
e
azioni
interne
dell’Unione”
senza
però
che
ciò
comporti
alcuna
estensione
delle
“competenze
attribuite
all’Unione
nei
trattati”).
35
LE
FASI:
Presentazione
al
Consiglio
europeo
da
parte
del
governo
di
qualsiasi
Stato
membro,
del
P.E.
o
della
Commissione,
di
progetti
di
modifica
nei
limiti
di
cui
si
è
detto;
Adozione
delle
modifiche
da
parte
del
Consiglio
europeo
con
decisione
approvata
all’unanimità,
previa
consultazione
del
P.E.,
della
Commissione
e,
se
le
modifiche
riguardano
le
disposizioni
istituzionali
nel
settore
monetario,
della
BCE;
Entrata
in
vigore
della
decisione
del
Consiglio
europeo
“previa
approvazione
degli
Stati
membri
conformemente
alle
rispettive
norme
costituzionali”.
L’unica
differenza
rispetto
alla
procedura
ordinarie
è
che
si
evita
la
convocazione
della
convenzione
e
finanche
quella
della
CIG,
essendo
affidato
direttamente
al
Consiglio
europeo
il
compito
di
definire
le
modifiche
attraverso
una
propria
decisione.
PROCEDURA,
disciplinata
dall’art.48,
par.7,
TUE,
può
avere
ad
oggetto
solo
quelle
disposizioni
del
TFUE
o
del
Titolo
V
del
TUE
(PESC)
che
prevedono
che:
“il
Consiglio
deliberi
all’unanimità
in
un
settore
o
in
un
caso
determinato”
(primo
comma)
=>
in
questo
caso
è
possibile
stabilire
che
il
Consiglio
deliberi
a
maggioranza
qualificata;
“il
Consiglio
adotti
atti
legislativi
secondo
una
procedura
legislativa
speciale
”
(secondo
comma)
=>
in
questo
caso
è
possibile
che
si
passi
alla
procedura
legislativa
ordinaria.
⇓
Questa
procedura
è
comunemente
nota
come
PROCEDURA
PASSERELLA.
LE
FASI:
Iniziativa
del
Consiglio
europeo;
Trasmissione
dell’iniziativa
ai
parlamenti
nazionali,
ciascuno
dei
quali
può,
entro
6
mesi,
opporsi
all’iniziativa,
impedendo
che
la
procedura
prosegua;
In
assenza
di
opposizioni
da
parte
dei
parlamenti
nazionali,
deliberazione
del
Consiglio
europeo
con
decisione
adottata
all’unanimità,
previa
approvazione
del
P.E.
Al
posto
della
ratifica
da
parte
degli
Stati
membri,
conformemente
alle
rispettive
norme
costituzionali,
è
sufficiente
la
delibera
unanime
del
Consiglio
europeo
con
l’approvazione
del
Parlamento
europeo.
Non
è
prevista
una
fase
che
si
svolga
al
di
fuori
del
circuito
istituzionale,
ma
sono
le
stesse
istituzioni
menzionate
che
dispongono
del
potere
deliberativo.
L’assenza
di
intervento
diretto
da
parte
degli
Stati
membri
e
dei
rispettivi
apparati
costituzionali
è
però
compensata
dall’obbligo
di
notificare
ogni
iniziativa
del
Consiglio
europeo
ai
parlamenti
nazionali
e
dal
potere
di
ciascuno
di
questi
di
porre
il
veto,
opponendosi.
I
trattati
prevedono
alcune
procedure
speciali
che
permettono
di
modificare
soltanto
taluni
articoli
o
aspetti
specifici.
L’elaborazione
e
l’approvazione
delle
modifiche
è
affidato
ad
una
delibera
unanime
del
Consiglio
europeo
o
del
Consiglio
ma
l’entrata
in
vigore,
come
nella
procedura
semplificata
dell’art.48,
par.6,
TUE,
è
subordinata
all’approvazione
da
parte
degli
Stati
membri
conformemente
alle
rispettive
norme
costituzionali.
QUESTIONE:
Vi
sono
dei
limiti
intrinseci
al
potere
di
revisione?
=>
Vi
sono
delle
parti
dei
trattati
che
non
possono
essere
modificate?
• L’art.48
non
prevede
nulla
a
riguardo.
• La
Corte
di
giustizia
ha
giudicato
incompatibili
con
il
Trattato
le
disposizioni
del
Progetto
di
accordo
relativo
alla
creazione
dello
Spazio
Economico
Europeo,
relative
all’istituzione
di
una
Corte
SEE.
I
toni
utilizzati
dalla
Corte
sembrerebbero
implicare
che:
L’introduzione
di
norme
che
pregiudichino
il
sistema
giurisdizionale
previsto
dai
trattati,
alterando
la
funzione
giurisdizionale
della
Corte
o
restringendo
la
portata
della
competenza
della
stessa,
non
sarebbe
consentita,
nemmeno
ricorrendo
alla
procedura
di
revisione
di
cui
all’art.
48
TUE.
Siano
immodificabili
le
norme
che
costituiscono
il
nocciolo
duro
dell’ordinamento
dell’UE,
quali:
Art.2
TUE
=>
definisce
i
valori
dell’Unione;
Art.6,
almeno
nel
suo
par.3
=>
impone
all’Unione
il
rispetto
dei
diritti
dell’uomo
come
principi
generali
del
diritto;
Art.14
TFUE
=>
stabilisce
il
principio
del
mercato
interno.
N.B.:
Possono
essere
previste
talune
riduzioni
delle
competenze
dell’Unione.
36
Art.
49
TUE
=>
disciplina
la
PROCEDURA
DI
ADESIONE
ALL’UNIONE
da
parte
di
nuovi
Stati
=>
altro
modo
per
modificare
i
Trattati.
Può
presentare
domanda
di
adesione
all’Unione:
• “Ogni
Stato
europeo”
(condizione
geografica);
• “che
rispetti
i
valori
di
cui
all’art.2
e
si
impegni
a
promuoverli”
(condizione
politica).
2
fasi
della
PROCEDURA
DI
ADESIONE:
• PRIMA
FASE
=>
si
svolge
all’interno
dell’apparato
istituzionale:
La
domanda
di
adesione
è
presentata
al
Consiglio
=>
di
essa
sono
informati
il
Parlamento
europeo
e
i
parlamenti
nazionali;
La
domanda
è
approvata
all’unanimità
dal
Consiglio,
previa
consultazione
della
Commissione
e
approvazione
del
Parlamento
europeo,
tenuto
conto
dei
“criteri
di
ammissibilità
convenuti
dal
Consiglio
europeo”.
• SECONDA
FASE
=>
si
svolge
all’esterno
=>
affidata
a
Stati
membri.
Le
“condizioni
per
l’ammissione”
e
“gli
adattamenti
dei
trattati
da
essa
determinati”
sono
oggetto
di
un
trattato
concluso
tra
gli
Stati
membri
e
lo
Stato
candidato,
che
deve
essere
ratificato
da
tutti
gli
Stati
contraenti
secondo
le
rispettive
norme
costituzionali.
Sono
Consiglio
e
P.E.
a
decidere
circa
l’ammissione
o
meno
di
un
nuovo
Stato
membro.
Il
trattato
(nella
forma
di
un
trattato
con
allegato
un
ATTO
DI
ADESIONE)
è
invece
definito
dagli
Stati,
che
devono
poi
sottoporlo
alla
ratifica
secondo
quanto
prescrive
la
propria
Costituzione
nazionale.
ATTO
DI
ADESIONE
=>
scopo
di
stabilire
le
condizioni
di
adesione
e
gli
“adattamenti”
da
apportare
ai
trattati
che
siano
determinati
dall’adesione.
Si
tratterà
di
modifiche
minoris
generis
rispetto
a
quelle
che
possono
essere
approvate
attraverso
la
procedura
di
revisione
di
cui
all’art.48.
essi
normalmente
consistono
in
un
ampliamento
della
composizione
delle
istituzioni
e
degli
organi
per
assicurare
la
rappresentanza
del
nuovo
Stato
membro.
Pre-adesione=
fase
preliminare
affermatasi
con
gli
ultimi
due
allargamenti
che
hanno
visto
l’ingresso
della
Bulgaria
(a
partire
dal
1°
maggio
2004)
e
della
Romania
(a
partire
dal
1°
gennaio
2007).
Durante
questa
fase
lo
Stato
candidato
deve
dimostrare
di
rispondere
ad
alcuni
criteri.
Quando
la
Commissione
attesta
il
rispetto
dei
criteri
(rectius=
capacità
dello
Stato
candidato
di
rispettarli
al
momento
dell’adesione),
il
Consiglio
europeo
autorizza
l’apertura
dei
veri
e
propri
negoziati
di
adesione.
L’Unione
conclude
con
gli
Stati
candidati
appositi
Accordi
di
pre-adesione
(es.
accordi
di
cooperazione
economica,
tecnica,
finanziaria,
etc.).
I
criteri
da
verificare
sono
stati
fissati
dal
Consiglio
europeo
di
Copenaghen
del
1993
e
sono:
• Criteri
politici;
• Criteri
economici;
• Criteri
relativi
all’acquis
comunitario.
POSSIBILITA’
DI
RECESSO
DALL’UNIONE
=>
art.
50
TUE
=>
introdotta
dal
Trattato
di
Lisbona.
• Lo
Stato
membro
che
intende
ritirarsi
notifica
tale
intenzione
al
Consiglio
europeo;
• Segue
la
conclusione
di
un
accordo
tra
l’Unione
e
lo
Stato
interessato
“volto
a
definire
le
modalità
del
recesso”
=>
MA
=>
Il
recesso
ha
luogo
anche
in
mancanza
di
tale
accordo;
• Decorsi
due
anni
dalla
notifica
dell’intenzione
di
ritirarsi,
i
trattati
cessano
di
applicarsi
allo
Stato
interessato.
Si
tratta
di
=>
vero
e
proprio
DIRITTO
DI
RECESSO
UNILATERALE
=>
non
è
subordinato
all’assenso
dell’Unione
o
di
tutti
gli
altri
Stati
membri.
QUESTIONE:
è
possibile
modificare
i
trattati
al
di
fuori
delle
procedure
di
revisione
o
delle
altre
procedure
previste
a
questo
scopo?
1. Considerando
i
trattati
solo
nella
veste
di
trattati
internazionali
=>
la
presenza
di
un’apposita
procedura
di
revisione
avrebbe
un’importanza
ridotta.
Il
diritto
internazionale
non
esclude
che
gli
Stati
contraenti
di
un
trattato
possano
decidere
di
modificarlo,
senza
seguire
la
procedura
prevista
a
tal
fine,
a
condizione
che
vi
sia
accordo
in
tal
senso
da
parte
di
tutti
gli
Stati
contraenti.
2. Considerando
la
funzione
costituzionale
svolta
dal
trattati
=>
le
procedure
previste
dall’art.
48
TUE
o
da
altre
disposizioni
specifiche
non
possono
non
essere
considerate
obbligatorie.
Eventuali
modifiche
che
si
tentasse
di
introdurre
senza
rispettarle
sarebbero
prive
di
qualsiasi
valore
37
giuridico.
In
quest’ottica,
il
Compromesso
di
Lussemburgo
non
avrebbe
dovuto
essere
considerato
come
vero
e
proprio
trattato
di
revisione,
ma
come
intesa
di
natura
esclusivamente
politica.
3. La
Corte
non
si
è
mai
pronunciata
su
questa
possibilità.
Se
si
pronunciasse
=>
la
risposta
sarebbe
negativa.
LA
PRASSI
DEL
CONSIGLIO
EUROPEO
=
inserimento
nelle
conclusioni
della
Presidenza
relative
a
riunioni
del
Consiglio
europeo
o
in
allegato
alle
stesse
di
alcune
prese
di
posizioni
finalizzate
a
dare
assicurazioni
allo
Stato
membro
che
non
aveva
ancora
proceduto
alla
ratifica
e
a
consentire
di
superare
l’impasse.
Queste
prese
di
posizioni
possono
suddividersi
in
2
tipologie:
• Alcune
contengono
l’impegno
degli
Stati
membri
riuniti
nel
Consiglio
europeo
a
modificare
in
futuro
talune
disposizioni
dei
trattati.
=>
Le
prese
di
posizione
del
Consiglio
europeo
possono
essere
intese
tutt’al
più
come
un
pactum
de
contrahendo
di
natura
politica.
Gli
Stati
membri
non
potrebbero
assumere
impegni
giuridici
del
genere
senza
sottoporli
alle
procedure
costituzionali
di
ratifica.
• Altre
esprimono
il
punto
di
vista
degli
Stati
membri
riuniti
nella
stessa
sede
circa
il
modo
in
cui
talune
disposizioni
dei
trattati
vanno
intese
ed
applicate.
=>
Si
tratta
di
riserve
interpretative
il
cui
valore
risulterebbe
vincolante
per
l’interprete,
essendo
state
approvate
da
tutte
le
parti
contraenti.
3.I
principi
generali
del
diritto.
FONTI
ASSIMILABILI
A
QUELLE
DI
D.
PRIMARIO
=>
PRINCIPI
GENERALI
DEL
DIRITTO
=>
essi
comprendono
i
principi
relativi
alla
tutela
dei
diritti
fondamentali
dell’uomo.
• In
ordinamenti
giuridici
pienamente
sviluppati
=>
i
principi
generali
hanno
poco
spazio;
• In
ordinamenti
di
più
recente
formazione
o
nei
quali
il
sistema
di
produzione
di
norme
è
poco
efficiente
=>
i
principi
generali
assumono
un
ruolo
importante:
Servono
a
colmare
le
lacune;
Costituiscono
i
punti
di
riferimento
a
cui
l’interprete
si
ispira
con
particolare
frequenza.
Molteplici
sono
le
tipologie
dei
principi
generali:
• Prima
categoria
=
PRINCIPI
GENERALI
DEL
DIRITTO
DELL’UNIONE
=>
trovano
espressione
in
determinate
norme
dei
trattati,
alle
quali
vengono
assegnati
grande
importanza
e
carattere
assolutamente
imperativo
e
inderogabile.
Principio
di
non
discriminazione
=>
art.
18
=>
vieta
le
discriminazioni
legate
alla
nazionalità.
La
nozione
di
discriminazione
si
distingue
in:
Palesi
o
dirette
=>
direttamente
basate
sulla
cittadinanza
o
sul
sesso;
Discriminazioni
occulte
o
indirette
=>
hanno
lo
stesso
effetto
delle
prime.
Campo
d’applicazione
del
principio
di
non
discriminazione
=>
è
interpretato
in
senso
estensivo.
Ciò
è
evidente
per
quanto
riguarda
il
divieto
di
discriminazione
in
base
alla
nazionalità
che
è
oggetto
dell’art.18
TFUE
ed
è
ribadito
anche
dalle
disposizioni
in
materia
di
libera
circolazione
delle
persone
e
dei
servizi.
La
Corte
ha
sottoposto
al
rispetto
di
tale
articolo
fattispecie
rientranti
soltanto
marginalmente
nel
campo
d’applicazione
dei
trattati.
Autonomia
del
principio
di
non
discriminazione
=>
ne
consente
l’applicazione
ad
ipotesi
che
non
sono
espressamente
contemplate
da
alcuna
delle
norme
richiamate.
Discriminazioni
alla
rovescia
=
situazioni
che
si
creano
quando
norme
di
uno
Stato
membro
prevedono
per
i
propri
cittadini
un
trattamento
deteriore
rispetto
a
quello
riservato
ai
cittadini
di
altri
Stati
membri
=>
la
Corte
non
ritiene
che
rientrino
nel
campo
d’applicazione
del
principio
generale
di
non
discriminazione.
A
proposito
della
libertà
di
circolazione,
il
diritto
dell’Unione
non
si
oppone
a
che
la
stessa
norma
interna
continui
ad
applicarsi
a
situazioni
puramente
interne
e
perciò
estranee
al
campo
d’applicazione
della
libera
circolazione.
Principio
di
libera
circolazione;
Principio
della
tutela
giurisdizionale
effettiva;
Principi
previsti
dall’art.
5
TUE:
Principio
di
attribuzione;
Principio
di
sussidiarietà;
Principio
di
proporzionalità.
• Seconda
categoria:
PRINCIPI
GENERALI
DEL
DIRITTO,
COMUNI
AGLI
ORDINAMENTI
DEGLI
STATI
MEMBRI
=>
principi
che
vengono
desunti
non
dal
diritto
dell’Unione,
ma
dall’esame
parallelo
dei
vari
ordinamenti
nazionali.
38
Questi
principi
assumono
rilevanza
nell’intero
campo
d’applicazione
dei
trattati
e
vengono
utilizzati
soprattutto
quando
si
tratta
di
verificare
la
legittimità
del
comportamento
delle
istituzioni
o
degli
Stati
membri
in
relazione
alla
posizione
dei
singoli.
Principi
inerenti
all’idea
stessa
di
Stato
di
diritto
(uno
dei
valori
su
cui
si
fonda
l’Unione);
Principio
di
legalità
=>
ogni
potere
esercitato
dalle
istituzioni
deve
trovare
la
sua
fonte
legittimante
in
una
norma
dei
trattati
che
ne
fissi
le
condizioni
di
esercizio;
Principio
della
certezza
del
diritto
=>
chi
è
tenuto
al
rispetto
di
una
norma
giuridica
deve
essere
messo
in
condizione
di
poterlo
fare
e
di
conoscere
il
comportamento
che
la
norma
gli
impone;
Principio
del
legittimo
affidamento
=>
può
essere
invocato
in
caso
di
modifica
normativa
improvvisa
e
imprevedibile
da
parte
degli
operatori
giuridici,
senza
che
ciò
sia
giustificato
da
ragioni
imperative
di
interesse
generale;
Principio
del
contraddittorio
=>
le
istituzioni
e
gli
organi
dell’Unione,
quando
intendono
assumere
un
provvedimento
sfavorevole
a
carico
di
un
singolo,
devono
consentire
a
quest’ultimo
di
far
valere
il
proprio
punto
di
vista
prima
che
il
provvedimento
stesso
venga
adottato;
Principio
di
proporzionalità
=>
implica
che
gli
interventi
della
pubblica
autorità
limitativi
della
libertà
o
dei
diritti
dei
singoli,
per
essere
legittimi:
Devono
essere
idonei
a
raggiungere
l’obiettivo
d’interesse
pubblico
perseguito;
Devono
essere
necessari
a
questo
stesso
fine,
evitando
ai
privati
sacrifici
superfui.
Sentenza
1985,
Man
(Sugar)
Caso
di
mancato
rispetto
del
principio
di
proporzionalità
=>
accertato
nella
sentenza
del
1985,
Man
(Sugar).
In
base
ad
un
regolamento
della
Commissione,
Man
(Sugar),
società
britannica
di
vendita
e
di
mediazione
nel
settore
dello
zucchero,
aveva
presentato
offerta
di
esportazione
di
alcuni
quantitativi
di
zucchero,
costituendo
la
prescritta
cauzione
sotto
forma
di
fideiussione
bancaria.
Essendo
stata
accolta
l’offerta,
Man
avrebbe
dovuto:
a. Chiedere
il
corrispondente
titolo
di
esportazione
entro
4
giorni;
b. Effettuare
l’operazione
di
esportazione
entro
5
mesi.
Il
regolamento
della
Commissione
prescriveva
l’incameramento
integrale
della
cauzione
per
la
violazione
dell’uno
come
dell’altro
obbligo.
Man
(Sugar)
aveva
adempiuto
correttamente
l’obbligo
b.,
ma
aveva
richiesto
in
ritardo
i
titoli
di
esportazione.
Interrogata
ai
sensi
dell’art.
234
TCE,
sulla
validità
del
regolamento,
la
Corte
ricorda
che
“per
stabilire
se
una
disposizione
di
diritto
comunitario
sia
conforme
al
principio
di
proporzionalità
è
necessario
verificare
se
i
mezzi
da
essa
usati
siano
appropriati
e
necessari
per
il
raggiungimento
dello
scopo
prefisso”.
La
Corte
dichiara
l’invalidità
del
regolamento
in
causa,
avendo
concluso
che
l’obbligo
di
richiedere
i
titoli
d’esportazione
entro
un
termine
così
breve
presenta
un’utilità
amministrativa
per
la
Commissione,
ma
non
ha
la
stessa
importanza
dell’obbligo
di
effettuare
l’esportazione.
4.
Segue:
la
protezione
dei
diritti
fondamentali.
Dopo
l’entrata
in
vigore
del
Trattato
di
Lisbona,
la
protezione
dei
trattati
fondamentali
dell’uomo
è
oggetto
dell’art.6
TUE.
L’art.
6
dispone:
1. “L’Unione
riconosce
i
diritti,
le
libertà
e
i
principi
sanciti
nella
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea
del
7
dicembre
2000,
adattata
il
12
dicembre
2007
a
Strasburgo,
che
ha
lo
stesso
valore
giuridico
dei
trattati.
Le
disposizioni
della
Carta
non
estendono
in
alcun
modo
le
competenze
dell’Unione
definite
nei
trattati.[…]”;
2. “L’Unione
aderisce
alla
Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali.
Tale
adesione
non
modifica
le
competenze
dell’Unione
definite
nei
trattati”;
3. “I
diritti
fondamentali,
garantiti
dalla
Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali
e
risultanti
dalle
tradizioni
costituzionali
comuni
agli
Stati
membri,
fanno
parte
del
diritto
dell’Unione
in
quanto
principi
generali”.
La
protezione
dei
diritti
umani
nell’ordinamento
dell’Unione
trova
la
sua
fonte
e
la
sua
disciplina
in
una
pluralità
di
strumenti
normativi:
• Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea
(par.1)
=>
è
vincolante
per
l’Unione;
• Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali
(CEDU)
(par.2)
=>
diverrà
vincolante
per
l’Unione
solo
quando
sarà
perfezionata
l’adesione
ad
essa
dell’Unione
secondo
quanto
previsto
dal
par.2.
La
CEDU
non
vincola
direttamente
l’Unione
anche
se
il
suo
contenuto
contribuisce
a
formare
i
principi
generali
menzionati
nel
par.3.
• Principi
generali
di
cui
fanno
parte
i
diritti
fondamentali
garantiti
dalla
CEDU
e
risultanti
dalle
tradizioni
costituzionali
comuni
agli
Stati
membri
(par.3)
=>
sono
vincolanti
per
l’Unione.
39
La
completa
assenza
di
qualsiasi
riferimento
alla
tutela
dei
diritti
fondamentali
nel
TCE
aveva
condotto
la
giurisprudenza
della
Corte
di
giustizia
a
teorizzare
l’esistenza
di
principi
generali
che
assicuravano
la
protezione
di
tali
diritti
e
par
la
cui
ricostruzione
occorreva
trarre
ispirazione
dai
trattati
internazionali
in
materia,
in
particolare
la
CEDU,
e
dalle
tradizioni
costituzionali
comuni
agli
Stati
membri.
Successivamente,
il
TUE
aveva
recepito
l’impostazione
data
alla
questione
dalla
giurisprudenza
attraverso
l’allora
art.6,
par.2,
il
cui
contenuto
è
ripreso
nel
par.3
dell’attuale
art.6.
Si
era
avvertita
la
necessità
di
conferire
una
fonte
più
precisa
ed
articolata
alla
tutela
dei
diritti
fondamentali
da
parte
della
CE
e
poi
dell’Unione.
Inizialmente,
si
era
immaginato
che
la
CE
potesse
aderire
formalmente
alla
CEDU,
diventandone
parte
contraente
come
lo
erano
già
tutti
gli
Stati
membri.
La
CEDU
costituiva
già
una
fonte
di
ispirazione
per
la
ricostruzione
dei
principi
generali
in
materia.
La
volontà
di
assicurare
l’adesione
dell’Unione
alla
CEDU
non
è
venuta
meno.
Il
par.
2
dell’attuale
art.6
contiene
una
norma
che
autorizza
tale
adesione,
stabilendo
che
“L’Unione
aderisce
alla
Convenzione
europea
di
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali”.
Nell’impossibilità
di
pervenire
rapidamente
all’adesione
dell’Unione
alla
CEDU,
si
è
deciso
di
redigere
un
autonomo
catalogo
dei
diritti
fondamentali,
che
ha
preso
la
forma
della
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea,
proclamata
una
prima
volta
a
Nizza
il
7
dicembre
2000.
Il
valore
giuridico
della
Carta
è
rimasto
tuttavia
incerto
finchè
il
par.2,
primo
comma,
dell’art.
6
ha
previsto
non
soltanto
che
“l’Unione
riconosce
i
diritti,
le
libertà
e
i
principi”
ivi
sanciti
ma
ha
soprattutto
stabilito
che
la
Carta
“ha
lo
stesso
valore
giuridico
dei
Trattati”.
2
pronunce
=>
della
Corte
italiana
(1973)
e
della
Corte
tedesco-federale
(1974):
Entrambe
le
Corti
=>
partono
dal
presupposto
che
le
norme
costituzionali
che
hanno
permesso
all’Italia
e
alla
Germania
federale
di
aderire
alla
CE
non
consentono
di
derogare
a
quelle
altre
norme
costituzionali
che
definiscono
e
proteggono
i
diritti
fondamentali
della
persona
umana.
=>
tali
norme
costituzionali
devono
essere
rispettate
anche
dagli
atti
adottati
dalle
istituzioni
comunitarie.
In
caso
contrario
=>
le
Corti
si
riservano
il
potere
di
assicurare
la
prevalenza
delle
norme
costituzionali,
impedendo
che
l’atto
comunitario
trovi
applicazione
nell’ordinamento
interno.
Sentenza
1973,
Frontini
=>
la
Corte
Cost.
italiana
ritiene
che,
nel
caso
di
atti
di
istituzioni
che
violassero
“i
principi
del
nostro
ordinamento
costituzionale
o
i
diritti
inalienabili
della
persona
umana,
sarebbe
sempre
assicurata
la
garanzia
del
sindacato
di
questa
Corte,
sulla
perdurante
compatibilità
del
Trattato
con
i
predetti
principi
fondamentali
”
=>
possibilità
di
dichiarare
l’illegittimità
costituzionale
della
legge
recante
l’autorizzazione
alla
ratifica
e
l’ordine
d’esecuzione
del
TCE,
nella
misura
in
cui
tale
legge
permette
l’ingresso
nell’ordinamento
italiano
di
un
atto
comunitario
lesivo
dei
diritti
fondamentali
della
persona.
La
Corte
=>
esclude
di
poter
operare
il
proprio
controllo
direttamente
sugli
atti
comunitari
in
questione,
in
quanto
essi
non
rientrano
nel
novero
degli
atti
contemplati
all’art.134
Cost.
Ordinanza
1974,
Solange
I
=>
la
Corte
tedesca
allude
ad
un
possibile
controllo
diretto
da
parte
sua
sull’atto
comunitario
in
causa,
imponendo
al
giudice
che
volesse
rimettere
una
questione
di
costituzionalità
del
genere,
di
interrogare
preventivamente
una
questione
di
costituzionalità
del
genere,
di
interrogare
preventivamente
la
Corte
di
giustizia,
ai
sensi
dell’art.
234
TCE.
=>
Carattere
provvisorio
della
soluzione,
in
attesa
che
la
CE
si
doti
di
un
catalogo
di
diritti
fondamentali
analogo
a
quello
previsto
dalla
Legge
Fondamentale
tedesca,
che
sia
adottato
da
un’assemblea
parlamentare.
Sulla
base
delle
due
pronunce
delle
Corti,
un
atto
delle
istituzioni,
se
giudicato
in
contrasto
con
i
diritti
fondamentali
protetti
dalla
Costituzione
italiana
o
tedesco-‐federale,
non
avrebbe
trovato
più
applicazione
nell’ordinamento
italiano
o
tedesco,
pur
restando
applicabile
negli
altri
Stati
membri
della
Comunità.
Quindi
si
evidenziava
una
profonda
lacuna
dell’ordinamento
comunitario,
che
giustificava
una
sua
non
piena
accettazione
da
parte
dei
giudici
degli
Stati
membri.
La
Corte
di
Giustizia
=>
elabora
in
via
giurisprudenziale
una
forma
“comunitaria”
di
tutela
dei
diritti
fondamentali.
In
una
serie
di
sentenze
tale
tutela
viene
ricondotta
ai
principi
generali
del
diritto
che
le
istituzioni
devono
rispettare
e
la
cui
osservanza
è
sottoposta
al
controllo
della
Corte.
L’impostazione
della
Corte:
• I
diritti
fondamentali
vanno
tutelati
nell’ordinamento
comunitario
in
quanto
rientranti
nei
principi
generali
del
diritto;
• Al
fine
di
definire
il
contenuto
di
tali
diritti
e
la
portata
della
tutela
che
deve
essere
accordata
ad
essi,
la
Corte
utilizza
quali
fonti
di
ispirazione:
Tradizioni
costituzionali
comuni
agli
Stati
membri;
Trattati
internazionali
in
materia
di
tutela
dei
diritti
dell’uomo.
40
N.B.:
entrambi
non
hanno
valore
normativo
immediato
nell’UE
=>
non
vincolano
direttamente
la
Corte.
La
soluzione
elaborata
dalla
giurisprudenza
è
stata
poi
recepita
e
consacrata
dall’art.6
TUE.
La
CEDU
=>
avrà
forza
vincolante
diretta
anche
nei
confronti
dell’Unione
(e
non
solo
degli
Stati
membri)
quando
il
processo
di
adesione
previsto
dall’art.6,
par.3,
TUE,
sarà
portato
a
termine.
=>
fino
ad
allora
la
CEDU
costituirà
per
l’Unione
solo
una
fonte
non
direttamente
vincolante.
Sentenza
13
dicembre
1979,
Hauer
=>
primo
esempio
in
cui
la
Corte
si
riferisce
espressamente
alla
CEDU
per
verificare
se
un
atto
delle
istituzioni
sia
contrario
ad
un
diritto
fondamentale.
Un
regolamento
del
Consiglio
che
vietava
l’impianto
di
nuovi
vigneti,
viene
contestato
dalla
proprietaria
di
un
terreno
agricolo,
in
quanto
lesivo
del
proprio
diritto
di
proprietà.
La
Corte
prende
in
considerazione
l’art.
1
del
Protocollo
1
della
CEDU.
=>
dopo
aver
escluso
che
il
regolamento
costituisca
una
privazione
di
proprietà,
ai
sensi
del
primo
comma
del
suddetto
articolo,
la
Corte
esamina
il
divieto
alla
luce
del
secondo
comma.
=>
Per
la
Corte
il
regolamento
è
giustificato
da
un
obiettivo
del
genere,
in
quanto
mira
ad
evitare
la
sovrapproduzione
di
vino.
Esso
non
costituisce
nemmeno
un
intervento
sproporzionato,
tenuto
conto
che
il
divieto
di
impianto
di
nuovi
vigneti
è
“stabilito
per
un
periodo
limitato”.
Problema
della
responsabilità
degli
Stati
membri
di
fronte
agli
organi
della
Convenzione
=>
nasce
dalla
mancata
adesione
formale
della
Comunità
e
ora
dell’Unione
alla
CEDU.
Il
problema
è
stato
affrontato
dalla
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo.
Sentenza
30
giugno
2005,
Bosphorus
c.
Irlanda
=>
Una
società
di
nazionalità
turca
aveva
preso
in
affitto
per
4
anni
un
aereo
di
proprietà
della
società
di
bandiera
jugoslava
JAL.
In
occasione
di
uno
scalo
a
Dublino,
le
autorità
irlandesi
avevano
sottoposto
l’aereo
a
sequestro,
in
attuazione
di
un
regolamento
comunitario,
che,
a
sua
volta,
dava
attuazione
ad
una
risoluzione
del
Consiglio
di
sicurezza
ONU,
istitutiva
di
sanzioni
economiche
nei
confronti
della
Jugoslavia.
Sorgeva
controversia
tra
Bosphorus
e
le
autorità
irlandesi
sulla
legittimità
del
sequestro.
Veniva
fatta
valere
la
violazione
del
diritto
di
proprietà
quale
protetto
dall’art.1
del
primo
Protocollo
aggiuntivo
CEDU.
La
Corte
di
giustizia
confermava
la
validità
del
regolamento.
La
Corte
ribadisce
che
gli
Stati
i
quali
abbiano
trasferito
a
un’organizzazione
sopranazionale
come
la
CE
taluni
poteri
sovrani
non
sono
sottratti
all’obbligo
di
rispettare
i
diritti
tutelati
dalla
CEDU.
La
Corte
europea
non
intende
esercitare
il
proprio
controllo
riguardo
ad
ogni
e
qualsiasi
attività
intrapresa
da
uno
Stato
in
attuazione
degli
obblighi
derivanti
dalla
sua
appartenenza
ad
una
tale
organizzazione.
La
Corte
distingue
tra:
• Casi
in
cui
gli
Stati
membri
si
limitano
ad
attuare
atti
dell’Unione
CE
(manca
ogni
discrezionalità)
=>
la
Corte
europea
considera
che
il
suo
intervento
non
è
necessario.
=>
l’Unione
tutela
i
diritti
fondamentali
in
un
modo
che
è
equivalente
a
quello
della
Convenzione.
• Casi
in
cui
gli
stessi
godono
di
un
certo
margine
di
discrezionalità
=>
nel
dare
attuazione
agli
obblighi
derivanti
dall’Unione,
la
Corte
giudica
che
uno
Stato
dovrà
essere
pienamente
responsabile
nei
confronti
della
Convenzione,
trattandosi
di
atti
che
cadono
al
di
fuori
degli
obblighi
internazionali.
5.La
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea.
Compiti
della
Corte
di
giustizia:
• Individuare
quali
diritti
siano
da
considerare
fondamentali;
• Delineare
il
contenuto
e
la
portata
dei
diritti
così
individuati.
Il
Consiglio
Europeo
di
Colonia,
svoltosi
nel
giugno
del
1999,
con
l’intenzione
di
sancire
“l’importanza
capitale
e
la
portata”
di
tali
diritti,
decide
per
la
redazione
della
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea
(Carta).
La
redazione
del
testo
è
affidata
ad
un’apposita
Convenzione,
convocata
dal
Consiglio
europeo
di
Tampere
nell’ottobre
1999,
e
composta
da
15
rappresentanti
del
Capi
di
Stato
e
di
governo,
da
1
rappresentante
della
Commissione,
da
16
componenti
del
P.E.
e
da
30
membri
dei
Parlamenti
nazionali.
La
Carta
è
approvata
dal
Consiglio
europeo
di
Biarritz
dell’ottobre
2000.
I
Presidenti
del
Parlamento
europeo,
del
Consiglio
e
della
Commissione
l’hanno
poi
“proclamata”
in
occasione
del
Consiglio
europeo
di
Nizza
(dicembre
2000).
L’ampiezza
di
consensi
che
il
testo
ha
riscosso,
ha
reso
la
Carta
strumento
interpretativo
privilegiato
per
ricostruire
la
portata
dei
diritti
fondamentali
protetti
nell’ambito
dell’ordinamento
dell’Unione.
Valore
giuridico
della
Carta
=>
rimasto
incerto
fino
al
Trattato
di
Lisbona.
Art.
6,
par.1,
TUE
=>
afferma
il
riconoscimento
da
parte
dell’Unione
dei
diritti,
libertà
e
principi
da
essa
sanciti
e
attribuisce
alla
Carta
“lo
stesso
valore
giuridico
dei
trattati”.
41
Attualmente:
• La
Carta
è
posta
sullo
stesso
piano
delle
altre
fonti
di
diritto
primario,
in
particolare
di
TUE
e
TFUE;
• Le
sue
disposizioni
hanno
lo
stesso
carattere
cogente
delle
norme
dei
trattati.
Protocollo
n.30
=>
applicazione
diversificata
della
Carta
a
Polonia
e
Regno
Unito:
• Esclusione
della
Competenza
della
Corte
di
giustizia
dell’Unione
a
ritenere
che
leggi,
regolamenti,
disposizioni,
pratiche,
o
azione
amministrativa
della
Polonia
o
del
R.U.,
non
siano
conformi
ai
diritti,
alle
libertà
e
ai
principi
fondamentali;
• Applicazione
di
leggi
e
pratiche
nazionali
previste
dalla
Carta,
solo
se
riconosciute
nel
diritto
o
nelle
pratiche
della
Polonia
e
del
Regno
Unito.
INTERPRETAZIONE
DELLA
CARTA
=>
art.
6,
par.1,
TUE
=>
“i
diritti,
le
libertà
e
i
principi
della
Carta
sono
interpretati
in
conformità
delle
disposizioni
generali
del
titolo
VII
della
Carta,
che
disciplinano
la
sua
interpretazione
e
applicazione
e
tenendo
in
debito
conto
le
spiegazioni
cui
si
fa
riferimento
nella
Carta,
ch
indicano
le
fonti
di
tali
disposizioni.”.
=>
richiamo
alle
spiegazioni.
SPIEGAZIONI=
redatte
a
mero
fine
esplicativo
sotto
la
responsabilità
del
Presidium
della
Convenzione
che
aveva
predisposto
la
versione
originaria
della
Carta.
Esse
sono
elevate
al
rango
di
fonte
intepretativa
obbligatoria,
da
cui
la
Corte
non
può
discostarsi.
FUNZIONE
DELLA
CARTA
=>
risulta
nel
preambolo
=>
“è
necessario
rafforzare
la
tutela
dei
diritti
fondamentali
alla
luce
dell’evoluzione
della
società,
del
progresso
sociale
e
degli
sviluppi
scientifici
e
tecnologici,
rendendo
tali
diritti
più
visibili
in
una
Carta”.
La
Carta
“riafferma
i
diritti
derivanti
in
particolare
dalle
tradizioni
costituzionali
e
dagli
obblighi
internazionali
comuni
agli
Stati
membri,
dalla
Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
dei
Diritti
dell’uomo
e
delle
Libertà
fondamentali,
dalle
carte
sociali
adottate
dall’Unione
e
dal
Consiglio
d’Europa,
nonché
dalla
giurisprudenza
della
Corte
di
giustizia
dell’Unione
europea
e
da
quella
della
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo”.
CARATTERE
DELLA
CARTA
=>
non
è
normativo
=>
non
crea
diritti
che
non
siano
già
ricavabili
dalle
fonti
richiamate
=>
MA
è
documentale
=>
essa
riassume
in
un
unico
documento
l’elenco
e
la
descrizione
dei
diritti
fondamentali
ricavabili
dalle
suddette
fonti
e
già
facenti
parte
dei
principi
generali
del
diritto
vincolanti
per
l’Unione.
QUESTIONE:
come
ci
si
regola
nel
caso
di
non
coincidenza
tra
i
diritti
previsti
dalla
Carta
e
quelli
ricavabili
dalle
altre
fonti?
1. Art.
53
=>
Clausola
di
compatibilità
=>
la
Carta
non
impedisce
l’applicazione
della
CEDU
o
delle
altre
fonti
richiamate
nella
misura
in
cui
queste
prevedano
una
tutela
più
ampia
di
quella
garantita
dalla
Carta.
“Nessuna
disposizione
della
presente
Carta
dev’essere
interpretata
come
limitativa
o
lesiva
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali
riconosciuti,
nel
rispettivo
ambito
d’applicazione,
dal
diritto
dell’Unione,
dal
diritto
internazionale,
dalle
convenzioni
internazionali
delle
quali
l’Unione
o
tutti
gli
Stati
membri
sono
parti,
in
particolare
dalla
Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali,
e
dalle
costituzioni
degli
Stati
membri”.
2. Art.
52,
par.3
=>
si
occupa
solo
della
CEDU=>
Clausola
di
equivalenza
=>
la
Carta
dev’essere
applicata
in
maniera
che
il
livello
di
protezione
assicurato
dalla
Carta
ai
diritti
tutelati
anche
dalla
CEDU
sia
almeno
equivalente
a
quello
garantito
da
quest’ultima.
=>
“Laddove
la
Carta
contenga
diritti
corrispondenti
a
quelli
garantiti
dalla
CEDU,
il
significato
e
la
portata
degli
stessi
sono
uguali
a
quelli
conferiti
dalla
suddetta
convenzione.
La
presente
disposizione
non
preclude
che
il
diritto
dell’Unione
conceda
una
protezione
più
estesa”.
Resta
salva
la
possibilità
che
il
diritto
dell’Unione
preveda
un
livello
di
tutela
addirittura
superiore
e
resta
salva
la
possibilità
che
la
Carta
protegga
diritti
non
coperti
affatto
dalla
CEDU
=>
la
Carta
può
soltanto
estendere
la
portata
della
tutela
dei
diritti
fondamentali
rispetto
a
quanto
già
previsto
da
altre
fonti
e
mai
restringerla.
L’Unione
dev’essere
sottoposta
al
controllo
“esterno”
degli
organi
della
CEDU
e
in
particolare
della
corte
europea
dei
diritti
dell’uomo.
“Mantenere
il
richiamo
ai
principi
generali
tratti
dalla
CEDU
e
delle
tradizioni
costituzionali
comuni
agli
Stati
membri”
(art.
6,
par.3)
=>
il
par.3
si
spiega
per
2
diverse
ragioni:
42
• E’
frutto
dell’idea
che
la
Carta
costituisce
solo
un
minimum
standard
per
la
protezione
dei
diritti
fondamentali
e
non
bisogna
in
alcun
modo
impedire
l’applicazione
di
standard
di
protezione
maggiori
previsti
da
altre
fonti;
• La
Carta
non
costituisce
uno
standard
di
protezione
interamente
comune
a
tutti
gli
Stati
membri,
avendo
la
Polonia,
il
Regno
Unito
e
la
Repubblica
ceca
ottenuto
di
applicarlo
in
maniera
parzialmente
differente.
6.Il
ruolo
dei
principi
generali
e
della
Carta
dei
diritti
fondamentali.
Ruolo
dei
principi
generali
e
della
Carta
=>
FUNZIONE
STRUMENTALE
=>
influiscono
sull’applicazione
di
norme
materiali
derivanti
da
altre
fonti.
1. Principi
generali
=
CRITERI
INTERPRETATIVI
delle
altre
fonti
del
diritto
dell’Unione
=>
l’interprete
deve
ispirarsi
ad
essi
per
individuare
il
corretto
significato
di
ciascuna
norma
rientrante
nell’ordinamento
dell’Unione
=>
dovrà
scegliere
la
soluzione
più
coerente
con
i
principi
generali
e
con
il
rispetto
dei
diritti
fondamentali.
2. Principi
generali
=
PARAMETRO
DI
LEGITTIMITA’
per
gli
atti
delle
istituzioni
=>
gli
atti
delle
istituzioni
possono
essere
annullati
o
dichiarati
invalidi
per
violazione
dell’uno
o
dell’altro
dei
principi
indicati
o
per
contrarietà
ai
diritti
sanciti
dalla
Carta.
3. Principi
generali
=
PARAMETRO
(indiretto)
DI
LEGITTIMITA’
per
alcuni
comportamenti
degli
Stati
membri
=>
gli
interventi
degli
Stati
membri
in
attuazione
del
diritto
dell’Unione
devono
conformarsi
ai
principi
generali
del
diritto
comunitario
e
in
particolare
a
quelli
attinenti
al
rispetto
del
diritto
fondamentali.
Se
ciò
non
avviene
=>
tali
interventi
sono
incompatibili
rispetto
alla
norma
dell’Unione
che
li
autorizza
o
li
prescrive
=>
solo
da
disapplicarsi.
Sentenza
1975,
Rutili
La
corte
deve
pronunciarsi
sulla
compatibilità
con
l’art.
45,
par.3,
TFUE
di
un
provvedimento
di
divieto
di
soggiornare
in
determinate
aree
imposto
dalle
autorità
francesi
al
sig.
Rutili,
cittadino
italiano.
La
Corte,
richiamando
la
CEDU,
afferma
che
i
provvedimenti
restrittivi
della
libertà
di
circolazione
adottati
per
motivi
di
ordine
pubblico,
ai
sensi
dell’art.
45,
devono
essere
limitati
a
ciò
che
è
necessario
per
il
soddisfacimento
delle
esigenze
di
ordine
pubblico
e
non
possono
consistere
in
divieti
di
soggiornare
in
determinate
zone
del
territorio
nazionale,
qualora
tali
provvedimenti
non
siano
previsti
anche
per
i
cittadini
dello
Stato
membro
in
questione.
I
diritti
fondamentali
vengono
invocati
dai
singoli
per
opporsi
ai
provvedimenti
assunti
dagli
Stati
membri
in
violazione
di
tali
diritti
e
indirettamente
anche
della
norma
dell’Unione
che
si
occupa
di
provvedimenti
statali
del
genere.
Non
è
escluso
che
i
ruoli
si
invertano
e
siano
gli
Stati
membri
ad
invocare
i
diritti
fondamentali
per
giustificare
i
propri
provvedimenti.
Collegamento
tra
il
comportamento
dello
Stato
membro
e
il
diritto
dell’Unione
(che
sia
stato
violato
dallo
Stato)
=>
lo
Stato
membro
deve
aver
agito
per
attuare
una
norma
dei
trattati
o
un
atto
delle
istituzioni
o
almeno
il
comportamento
contestato
dev’essere
assunto
in
un
settore
rientrante
nel
campo
d’applicazione
dei
trattati.
IN
MANCANZA
=>
l’obbligo
per
lo
Stato
membro
di
rispettare
i
diritti
fondamentali
non
è
ricollegabile
al
diritto
dell’Unione
e
la
Corte
di
giustizia
non
può
esercitare
la
propria
competenza
per
assicurare
l’osservanza
di
tali
diritti.
Art.
51
della
Carta
=>
il
dovere
degli
Stati
membri
di
rispettare
i
diritti
fondamentali
è
limitato
ai
casi
in
cui
essi
agiscono
nell’attuazione
del
diritto
dell’Unione.
Comportamenti
degli
Stati
membri
configgenti
con
i
diritti
dell’uomo
=>
possono
essere
oggetto
della
procedura
di
controllo
e
sanzione
prevista
dall’art.
7
TUE,
in
caso
di
“rischio
di
violazione
grave”
o
di
“violazione
grave
e
persistente”
dei
valori
di
cui
all’art.2
TUE,
tra
i
quali
figura
il
“rispetto
dei
diritti
umani,
compresi
i
diritti
delle
persone
appartenenti
a
minoranze”.
Art.
6
TUE
=>
afferma
l’impegno
dell’Unione
a
rispettare
i
diritti
fondamentali
senza
distinzione
di
materia
(comprese
le
materie
che
rientravano
nei
pilastri
non
comunitari).
7.Il
diritto
internazionale
generale
e
gli
accordi
internazionali
UE=
SOGGETTO
DI
DIRITTO
INTERNAZIONALE
AUTONOMO,
rispetto
agli
Stati
che
ne
sono
membri.
Art.
47
TFUE
=>
“L’Unione
ha
personalità
giuridica”
=>
l’UE
gode
delle
stesse
prerogative
delle
persone
giuridiche
internazionali,
compreso
il
diritto
di
legazione
attivo
e
passivo,
la
capacità
di
concludere
43
accordi
internazionali
con
Stati
terzi
o
con
altre
organizzazioni
internazionali,
e
quella
di
acquisire
la
qualità
di
membro
di
una
tale
organizzazione.
UE
deve
rispettare
=>
NORME
DI
DIRITTO
INTERNAZIONALE
GENERALE
=>
la
loro
violazione
costituisce
ILLECITO
INTERNAZIONALE.
Le
norme
di
diritto
internazionale
generale
vincolano
l’UE
solo
nei
confronti
di
soggetti
terzi.
Gli
Stati
membri
non
possono
invocare
tali
principi
nei
loro
rapporti
reciproci,
quando
agiscono
nel
campo
d’applicazione
dei
Trattati.
Trattati
=
LEX
SPECIALIS,
per
gli
Stati
membri
=>
Prevalgono
sul
diritto
generale
=>
è
il
caso
del
principio
“inadimplenti
non
est
adimplendum”.
La
Corte
ha
affermato
che
uno
Stato
membro
non
può
invocare
la
violazione
di
un
obbligo
derivante
dai
trattati
da
parte
di
un
altro
Stato
membro,
per
giustificare,
a
sua
volta,
la
violazione
dello
stesso
o
di
altri
obblighi
aventi
pari
fonte.
NORME
DI
DIRITTO
INTERNAZIONALE:
• Diritto
internazionale
=
FUNZIONE
ERMENEUTICA
=>
va
utilizzato
per
l’interpretazione
delle
norme
dell’Unione,
comprese
quelle
dei
trattati.
Sentenza
Van
Duyn
Alla
sig.ra
Van
Duyn,
cittadina
olandese,
viene
impedito
l’ingresso
nel
territorio
del
Regno
Unito
a
causa
della
sua
appartenenza
a
un
movimento
religioso
considerato
pericoloso
dalle
autorità
britanniche.
Per
il
Regno
Unito
=>
il
provvedimento
adottato
contro
la
signora
era
consentito,
in
quanto
giustificato
“motivi
di
ordine
pubblico”
(art.39).
Obiezione
dell’Olanda
=>
l’appartenenza
a
quel
movimento
religioso
non
era
vietata
per
i
cittadini
britannici
e
il
divieto
di
ingresso
aveva
carattere
discriminatorio.
La
Corte
=>
respinge
l’obiezione
=>
l’art.
39
(sulla
libera
circolazione
dei
lav.)
permette
ad
uno
Stato
membro
di
adottare
a
carico
del
cittadino
di
un
altro
Stato
membro
provvedimenti
restrittivi
giustificati
da
comportamenti
non
vietati
nei
confronti
dei
propri
cittadini.
• Diritto
internazionale
=
PARAMETRO
DI
LEGITTIMITA’
degli
atti
delle
istituzioni.
ACCORDI
INTERNAZIONALI
CON
STATI
TERZI:
1. ACCORDI
INTERNAZIONALI
CONCLUSI
DA
STATI
MEMBRI:
Non
fanno
parte
dell’ordinamento
dell’Unione
=>
MA
assumono
rilevanza
solo
nella
misura
in
cui
un
accordo
del
genere
può
essere
invocato
dallo
Stato
membro
contraente
come
causa
di
giustificazione
per
il
mancato
rispetto
di
obblighi
derivanti
dai
trattati.
Tale
possibilità
vale
rispetto
allo
Stato
membro
in
questione
soprattutto
per
gli
accordi
conclusi
da
uno
Stato
membro
con
uno
Stato
terzo
prima
della
data
in
cui
il
TCE
è
entrato
in
vigore.
PRINCIPIO
DI
DIRITTO
INTERNAZIONALE
GENERALE
=>
il
trattato
concluso
da
due
Stati
non
può
essere
emendato,
né
tantomeno
abrogato
per
effetto
della
successiva
conclusione
di
altro
trattato
tra
due
Stati,
di
cui
uno
soltanto
sia
parte
anche
del
primo
trattato
=>
lo
Stato
che
ha
concluso
sia
il
primo
che
il
secondo
trattato
è
tenuto
a
rispettarli
entrambi
=>
CLAUSOLA
DI
COMPATIBILITA’
(art.351
TFUE).
Clausola
di
compatibilità
=>
consente
allo
Stato
membro
interessato
di
sottrarsi
agli
obblighi
derivati
dai
trattati,
soltanto
nella
misura
strettamente
necessaria
per
permettergli
di
rispettare
gli
obblighi
assunti
nei
confronti
dello
Stato
terzo.
RISPETTO
DEI
DIRITTI
FONDAMENTALI
=
limite
alla
clausola
di
compatibilità.
Secondo
la
sentenza
Kadi
del
2008
l’art.
351
potrebbe
giustificare
delle
deroghe
anche
a
norme
di
rango
primario,
quali
disposizioni
dei
trattati,
ma
non
a
principi
che
fanno
parte
dei
fondamenti
stessi
dell’ordinamento
giuridico
comunitario.
IPOTESI
DELLA
SUCCESIONE
della
competenza
esclusiva
dell’Unione
nei
diritti
e
negli
obblighi
che
gli
Stati
contraenti
traevano
dagli
accordi
in
questione
=>
L’Unione,
non
soltanto
è
tenuta
a
consentire
agli
Stati
membri
contraenti
di
continuare
a
rispettare
l’accordo,
ma
essa
è
tenuta
a
rispettarlo
nell’esercizio
della
propria
competenza.
2. ACCORDI
INTERNAZIONALI
CONCLUSI
DALLA
CE/UNIONE
con
Stati
terzi
o
con
altre
organizzazioni
internazionali
=>
essi
fanno
parte
dell’ordinamento
dell’Unione
a
partire
dalla
data
della
loro
entrata
in
vigore.
Art.
216,
par.2,
TFUE
=>
“gli
accordi
conclusi
dall’Unione
vincolano
le
istituzioni
dell’Unione
e
gli
Stati
membri”.
3. ACCORDI
INTERNAZIONALI
CONCLUSI
DA
CE/UNIONE
E
DA
STATI
MEMBRI
(cd.
Accordi
misti)
=>
Questa
pratica
era
imposta
dal
rifiuto
di
taluni
Stati
terzi
di
riconoscere
la
competenza
della
CE.
Essa
si
è
rivelata
utile
di
fronte
ad
ipotesi
di
accordi
riguardanti
anche
materie
che
non
rientravano
affatto
nella
competenza
dell’Unione
e
degli
Stati
membri
e
questi
non
intendevano
affidare
la
conclusione
alla
sola
Unione.
44
Questi
accordi
hanno
la
stessa
disciplina
giuridica
degli
accordi
conclusi
senza
la
partecipazione
degli
Stati
membri
per
quanto
riguarda
le
disposizioni
che
rientrano
nella
competenza
della
Comunità.
Invece,
non
rientrano
nell’ordinamento
dell’Unione
quelle
parti
dell’accordo
misto
che
hanno
ad
oggetto
materie
rientranti
nella
competenza
dei
soli
Stati
membri
(anche
se
la
distinzione
risulta
difficile
da
tracciare).
CARATTERISTICHE
DEGLI
ACCORDI
INTERNAZIONALI:
Valore
giuridico
e
rango
nel
sistema
delle
fonti
degli
accordi
internazionali
=>
Bisogna
distinguere:
I
rapporti
di
tali
accordi
con
le
fonti
di
diritto
primario
e
assimilate;
I
rapporti
di
tali
accordi
con
gli
atti
delle
istituzioni.
Gli
accordi
internazionali
sono
subordinati
ai
trattati
e
devono
rispettarli
=>
DIVERSAMENTE
=>
l’atto
delle
istituzioni
con
cui
è
stata
decisa
la
conclusione,
è
illegittimo
e
può
essere
annullato.
Gli
accordi
internazionali
sono
subordinati
ai
principi
generali,
in
particolare
quelli
che
tutelano
i
diritti
fondamentali;
Gli
accordi
internazionali
prevalgono
sugli
atti
delle
istituzioni
=>
Le
istituzioni
non
possono
adottare
atti
che
non
rispettino
un
accordo
concluso
dall’Unione.
In
caso
contrario,
l’atto
configgente
può
essere
annullato
o
essere
dichiarato
invalido.
In
generale
=>
ACCORDI
INTERNAZIONALI
=
PARAMETRO
DI
LEGITTIMITA’
degli
atti
delle
istituzioni.
Eccezione
=>
gli
accordi
internazionali
non
valgono
come
parametro
di
legittimità.
Esempio
più
importante:
Accordo
istitutivo
dell’Organizzazione
mondiale
del
commercio
(OMC),
firmato
a
Marrakech
il
15
aprile
1994
=>
la
Corte
ha
confermato
la
giurisprudenza
maturata
con
riferimento
al
GATT
del
1947.
Essa
considera
che,
a
causa
della
loro
natura
flessibile,
“gli
Accordi
OMC
non
figurano
in
linea
di
principio
tra
le
normative
alla
luce
delle
quali
la
Corte
controlla
la
legittimità
degli
atti
delle
istituzioni
comunitarie”
(sentenza
del
1999,
Portogallo
c.
Consiglio).
La
Corte
ammette
2
eccezioni
all’eccezione,
in
cui
l’equazione
accordi
internazionali
=
parametro
di
legittimità
è
ammessa:
PRIMA
ECCEZIONE:
l’atto
impugnato
è
adottato
proprio
per
dare
esecuzione
agli
obblighi
derivanti
da
tali
accordi;
SECONDA
ECCEZIONE:
l’atto
impugnato
richiama
espressamente
specifiche
disposizioni
degli
accordi.
2°
esempio
di
accordo
internazionale
non
utilizzabile
come
parametro
di
legittimità
=>
Sentenza
3
giugno
2008,
Intertanko
=>
lo
individua
nella
Convenzione
delle
Nazioni
Unite
sul
diritto
del
mare,
firmata
a
Montego
Bay
il
10
dicembre
1982
(UNCLOS),
di
cui
oltre
agli
Stati
membri
è
parte
anche
la
CE.
8.I
regolamenti.
Art.
288,
co.
2°
TFUE
=>
“Il
regolamento
ha
portata
generale.
Esso
è
obbligatorio
in
tutti
i
suoi
elementi
e
direttamente
applicabile
in
ciascuno
degli
Stati
membri”.
• Portata
generale
=>
il
regolamento
ha
natura
normativa.
=>
Pone
regole
di
comportamento
rivolte,
non
a
soggetti
predeterminati
in
funzione
della
situazione
individuale
di
ciascuno
di
loro,
ma
alla
generalità
dei
soggetti.
Può
accadere
che
un
regolamento
definisca
i
requisiti
di
fatto
o
di
diritto
richiesti
per
la
sua
applicazione
in
maniera
che
soltanto
un
numero
relativamente
ristretto
di
persone
li
soddisfi.
Può
anche
darsi
che
il
campo
di
applicazione
sia
talmente
esiguo
che
si
possa
individuare
a
priori
coloro
ai
quali
il
regolamento,
una
volta
entrato
in
vigore,
si
applicherà.
Solo
qualora
il
contenuto
di
un
regolamento
sia
determinato
in
considerazione
della
situazione
individuale
in
cui
versa
ciascuno
dei
soggetti
ai
quali
il
regolamento
stesso
sarà
applicato,
si
dovrà
parlare
di
un
regolamento
solo
di
nome,
che
costituisce,
in
realtà,
una
decisione
individuale
ovvero
un
fascio
di
decisioni
individuali.
• Obbligatorietà
integrale
=>
il
regolamento
dev’essere
rispettato
in
tutti
i
suoi
elementi,
vale
a
dire
nella
sua
interezza.
L’art.
288,
co.
2°,
si
rivolge
soprattutto
agli
Stati
membri
=>
essi
non
possono
lasciare
inapplicate
talune
disposizioni
del
regolamento,
limitarne
il
campo
d’applicazione
dal
punto
di
vista
temporale,
territoriale
o
personale,
subordinarle
a
condizioni
d’applicazione
non
previste
ovvero
introdurre
facoltà
di
deroga
non
contemplate
dal
regolamento
stesso.
45
• Diretta
applicabilità
“in
ciascuno
degli
Stati
membri”
=>
questa
caratteristica
presenta
2
profili
distinti
ma
complementari:
1. Adattamento
degli
ordinamenti
interni
degli
Stati
membri
(modalità
in
cui
l’adattamento
deve
avvenire)
=>
i
trattati
istitutivi
di
organizzazioni
internazionali
non
si
preoccupano
di
stabilire
come
gli
Stati
membri
dovranno
dare
applicazione
agli
atti
obbligatori
che
gli
organi
dell’organizzazione
adottano,
lasciando
ciascuno
Stato
libero
di
agire
come
meglio
ritenga
(sentenza
del
2008,
Kadi).
Art.
288,
co.
2°,
TFUE
=>
disciplina
quest’aspetto
=>
l’adattamento
degli
ordinamenti
interni
al
regolamento
avviene
“direttamente”,
cioè
immediatamente
ed
automaticamente,
senza
che
sia
necessario
o
consentito
agli
Stati
membri
subordinare
l’applicazione
del
regolamento
ad
uno
specifico
atto
interno
di
adattamento
o
di
attuazione.
Art.
288,
co.
2°,
TFUE
=
NORMA
SULL’ADATTAMENTO
=>
nel
momento
in
cui
entrano
in
vigore
nell’ordinamento
dell’Unione,
i
regolamenti
sono
applicabili
anche
all’interno
di
ciascuno
Stato
membro.
L’eventuale
atto
di
recepimento
sarebbe,
non
soltanto
superfluo,
ma
anche
incompatibile
con
l’art.
288,
co.2,
perché
avrebbe
effetto
di
trasformare
il
regolamento
in
un
provvedimento
interno
e
ne
occulterebbe,
agli
occhi
dei
giudici
e
delle
stesse
persone
interessate,
la
natura
comunitaria.
La
diretta
applicabilità
non
esclude
però
che
gli
Stati
membri
siano
chiamati
ad
adottare
provvedimenti
nazionali
integrativi.
Talvolta,
è
il
regolamento
stesso
che
richiede
agli
Stati
membri
l’adozione
di
misure
di
questo
tipo.
Può
trattarsi
di:
Provvedimenti
specifici;
Provvedimenti
genericamente
descritti.
2. Capacità
dei
regolamenti
di
produrre
effetti
diretti
all’interno
degli
ordinamenti
degli
Stati
membri
=
efficacia
diretta
o
applicabilità
diretta
=>
il
regolamento
è
“atto
ad
attribuire
ai
singoli
dei
diritti
che
i
giudici
nazionali
devono
tutelare”
=>
dato
che
il
regolamento
assume
valore
normativo
non
solo
nell’ordinamento
dell’Unione,
ma
anche
in
quello
degli
Stati
membri.
9.Le
direttive
e
le
decisioni
quadro
dell’ex
III
pilastro.
Art.
288,
co.3°
TFUE
=>
“La
direttiva
vincola
lo
Stato
membro
cui
è
rivolta
per
quanto
riguarda
il
risultato
da
raggiungere,
salva
restando
la
competenza
degli
organi
nazionali
in
merito
alla
forma
e
ai
mezzi”.
• Portata
individuale
=>
i
destinatari,
che
possono
consistere
in
uno
o
più
Stati
membri,
sono
definiti
in
ciascuna
direttiva;
se
la
direttiva
è
rivolta
a
tutti
gli
Stati
membri
=>
direttiva
generale.
Le
direttive
mirano
ad
ottenere
il
ravvicinamento
delle
disposizioni
legislative,
regolamentari
e
amministrative
degli
Stati
membri
in
determinate
materie.
Le
direttive
non
hanno
portata
generale
=>
MA
le
misure
di
attuazione
adottate
dagli
Stati
membri
hanno
portata
generale.
Direttive
=
STRUMENTO
DI
NORMAZIONE
IN
2
FASI:
1. PRIMA
FASE:
è
accentrata
a
livello
dell’Unione,
dove
vengono
fissati
gli
obiettivi
e
i
principi
generali.
2. SECONDA
FASE:
è
decentrata
a
livello
nazionale,
ove
ciascuno
Stato
membro
attua,
attraverso
strumenti
normativi
completi
e
dettagliati,
gli
obiettivi
e
i
principi
generali
fissati
dalla
direttiva.
• Obbligatorietà
integrale
=>
gli
Stati
membri
non
possono
applicare
la
direttiva
selettivamente
o
parzialmente.
La
direttiva
si
limita
ad
imporre
agli
Stati
membri
un
risultato
da
raggiungere,
lasciandoli
liberi
di
scegliere
le
misure
di
adattamento
necessarie
per
realizzare
il
risultato
prescritto.
N.B.:
DIRETTIVA
comporta
=>
OBBLIGO
DI
RISULTATO
REGOLAMENTO
=>
OBBLIGO
DI
MEZZI.
La
direttiva
richiede
agli
Stati
membri
di
attuare
la
direttiva,
scegliendo
i
mezzi
e
le
forme
appropriate
=>
no
semplice
obbligo
di
applicare
la
direttiva
e
farla
rispettare
nel
proprio
territorio.
• Diretta
applicabilità
=>
Bisogna
distinguere
tra
i
due
profili,
visti
per
il
regolamento:
Non
necessità
di
misure
di
adattamento:
ciò
non
vale
per
la
direttiva,
che
non
gode
di
diretta
applicabilità,
ma
necessità
di
un’attività
di
adattamento.
Art.
288
TFUE
=>
le
direttiva
deve
ricevere
attuazione
da
parte
degli
Stati
membri,
attraverso
apposite
misure
.
La
direttiva
non
è
in
grado,
da
sola,
di
raggiungere
il
risultato
voluto
=>
gli
Stati
membri
sono
tenuti
ad
adattare,
a
modificare
l’ordinamento
interno
in
modo
da
assicurare
che
il
risultato
voluto
dalla
direttiva
sia
raggiunto.
Direttiva
=
strumento
che
risponde
a
una
visione
internazionalistica
dei
rapporti
tra
ordinamenti.
46
Efficacia
diretta:
la
direttiva,
per
sua
natura,
non
gode
della
stessa
efficacia
diretta
di
cui
godono
i
regolamenti.
Per
i
regolamenti
=>
l’efficacia
diretta
è
presunta.
Per
le
direttive
=>
affinchè
si
abbia
efficacia
diretta
è
necessario
che
siano
soddisfatte
alcune
condizioni
temporali
e
sostanziali,
individuate
dalla
giurisprudenza
della
Corte.
N.B.:
EFFICACIA
DIRETTA
DELLE
DIRETTIVE
=
RIDOTTA
PORTATA
RATIONE
PERSONARUM.
• Obbligo
di
attuazione
=>
è
assoluto
per
ciascuno
Stato
membro
cui
la
direttiva
è
rivolta.
Unica
ipotesi
in
cui
è
possibile
omettere
di
attivarsi
=>
lo
Stato
membro
dimostra
che
il
proprio
ordinamento
interno
è
già
perfettamente
conforme
alla
direttiva.
Termine
d’attuazione
(fissato
dalla
stessa
direttiva)
=
è
il
termine
in
cui
l’obbligo
va
adempiuto.
A
seconda
dell’importanza
della
materia
oggetto
della
direttiva
e
delle
difficoltà
che
gli
Stati
membri
possono
incontrare
nell’attuazione
=>
il
termine
può
variare
da
pochi
mesi
ad
uno
a
più
anni;
Termine
=
imperativo
e
perentorio
=>
non
è
possibile
addurre
giustificazioni
di
sorta
per
il
mancato
rispetto.
L’obbligo
d’attuazione
sorge
nel
momento
in
cui
la
direttiva
entra
in
vigore.
Il
termine
è
previsto
a
favore
dello
Stato
membro
=>
esso
può
attuare
la
direttiva
anche
prima
della
scadenza.
È
possibile
procedere
ad
un’attuazione
per
tappe,
purchè
questa
sia
completata
entro
il
termine
previsto.
MA
=>
lo
Stato
membro
non
può
adottare
provvedimenti
in
contrasto
con
la
direttiva
o
tali
da
compromettere
gravemente
la
realizzazione
del
risultato
che
la
direttiva
prescrive
=>
obbigo
di
standstill/
di
non
aggravamento.
• Scelta
delle
forme
e
dei
mezzi
di
attuazione
=>
l’art.
288,
co.
3°
affida
la
competenza
agli
Stati
membri.
La
scelta
non
è
del
tutto
libera.
È
necessario
che
gli
strumenti
scelti
dal
legislatore
nazionale
siano
idonei
a
produrre
la
modificazione
degli
ordinamenti
interni
voluta
dalla
direttiva.
Nella
scelta
della
forma
e
dei
mezzi:
Si
deve
tener
conto
della
gerarchia
delle
fonti
di
diritto
interno;
Devono
essere
scelti
strumenti
di
attuazione,
che
garantiscano
trasparenza
e
certezza
del
diritto.
La
Corte
ha
giudicato
insufficienti
modi
o
procedure
agevolate
di
attuazione,
consistenti
nell’approvazione
di
misure
di
carattere
amministrativo,
circolari
o
semplici
istruzioni
rivolte
agli
uffici
amministrativi,
in
quanto
modificabili
liberamente
dall’amministrazione
e
sprovviste
di
adeguata
pubblicità.
• CONTENUTO
DELLE
DIRETTIVE
:
Art.
288,
co.
3°
=>
si
articola
intorno
al
binomio
risultato/forme
e
mezzi:
Risultato
=>
è
definito
dalla
direttiva
=>
determinati
risultati
non
possono
essere
definiti
limitandosi
ad
indicare
obiettivi
e
principi
generali,
ma
richiedono
l’elaborazione
di
un
quadro
normativo
alquanto
dettagliato,
che
lascia
alla
libera
determinazioni
degli
Stati
membri
soltanto
interventi
limitati
ad
aspetti
di
secondaria
importanza.
Non
è
possibile
individuare
uno
spazio
di
competenza
riservato
agli
Stati
membri,
oltre
il
quale
la
direttiva
non
può
intervenire.
Forme
e
mezzi
=>
sono
scelti
dalle
autorità
competenti
degli
Stati
membri.
Non
sono
fondate
le
accuse
di
illegittimità
rivolte
alle
direttive
adottate
fino
agli
anni
’80
del
secolo
scorso,
soprattutto
nel
campo
dell’armonizzazione
delle
legislazioni
tecniche,
che
erano
caratterizzate
da
una
disciplina
particolarmente
precisa
e
particolareggiata
=>
c.d.
direttive
dettagliate.
Le
direttive
dettagliate
non
solo
mantengono
la
struttura
di
qualsiasi
direttiva,
ma
si
giustificano
in
base
al
risultato
voluto,
che
in
quegli
anni
era
un’armonizzazione
molto
avanzata
delle
legislazioni
nazionali.
Una
volta
abbandonato
tale
obiettivo,
in
favore
di
una
politica
di
armonizzazione
minima,
il
problema
posto
dalle
direttive
dettagliate
si
è
risolto
da
solo.
Art.
139,
par.2,
TCE
=>
possibilità
per
il
Consiglio
di
attuare
gli
“accordi
a
livello
europeo”
conclusi
dalle
parti
sociali,
su
loro
richiesta,
con
“direttive”.
Art.
34,
par.2,
TUE
=>
4
tipi
di
atti,
tutti
del
Consiglio:
• Posizioni
comuni;
• Decisioni-‐quadro;
• Decisioni;
• Convenzioni.
DECISIONI
QUADRO
=>
art.
34,
par.2=>
il
modello
delle
decisioni
quadro
ha
avuto
grande
successo
ed
è
stato
utilizzato
di
frequente
per
l’adozione
di
misure
molto
importanti.
47
Le
decisioni-‐quadro
sono
un
tipo
di
atto
che
si
ispira
chiaramente
al
modello
delle
direttive.
Caratteristiche
comuni
tra
decisioni-quadro
e
direttive:
• Lo
scopo
=
“ravvicinamento
delle
disposizioni
legislative
e
regolamentari
degli
Stati
membri”;
• Sono
entrambe
“vincolanti
per
gli
Stati
membri
quanto
al
risultato
da
ottenere,
salva
restando
la
competenza
delle
autorità
nazionali
in
merito
alla
forma
ed
ai
mezzi”.
=>
gli
Stati
membri
devono
dare
attuazione
alle
decisioni-‐quadro
entro
il
termine
dalla
stessa
indicato.
Fondamentale
differenza
=>
le
decisioni-‐quadro
“non
hanno
efficacia
diretta”.
Art.
9,
Protocollo
n.36
sulle
disposizioni
transitorie
=>
“gli
effetti
giuridici
delle
decisioni-quadro
sono
mantenuti
finchè
tali
atti
non
saranno
stati
abrogati,
annullati
o
modificati
in
applicazione
dei
trattati”.
POSIZIONI
COMUNI
=>
art.
34,
par.2
=>
sono
atti
tipici
della
cooperazione
intergovernativa
(completamente
estranei
alla
tipologia
comunitaria)
che
“definiscono
l’orientamento
dell’Unione
in
merito
ad
una
questione
specifica”.
CONVENZIONI
=>
art.
34,
par.2
=>
il
Consiglio
“raccomanda
l’adozione
agli
Stati
membri
delle
Convenzioni,
secondo
le
rispettive
norme
costituzionali
”,
con
l’obbligo
per
gli
Stati
membri
di
avviare
“le
procedure
applicabili
entro
un
termine
previsto
dal
Consiglio”.
10.Le
decisioni.
Art.
288
TFUE
=>
“la
decisione
è
obbligatoria
in
tutti
i
suoi
elementi”.
Se
la
decisione
“designa
i
destinatari
è
obbligatoria
soltanto
nei
confronti
di
questi”.
Si
deduce
che
la
categoria
comprende
2
diversi
tipi
di
atti:
• DECISIONI
INDIVIDUALI
=>
sono
dotate
di
destinatari
individuati
nell’atto,
che
sono
i
soli
soggetti
alla
sua
portata
obbligatoria.
Coniugano
due
caratteristiche:
Una
propria
dei
REGOLAMENTI
=>
la
decisione
è
obbligatoria
in
tutti
i
suoi
elementi
=>
dev’essere
rispettata
nella
sua
interezza.
Una
propria
delle
DIRETTIVE
=>
la
decisione
non
ha
portata
generale
=>
vincola
solo
i
destinatari
da
essa
designati.
MA
la
decisione
può
essere
rivolta
non
solo
a
Stati
membri,
ma
anche
ad
altri
soggetti,
compresi
i
singoli.
Le
decisioni
individuali
si
distinguono
in:
Decisioni
individuali
rivolte
agli
Stati
membri:
Sono
in
sostanza
simili
alle
direttive
se
impongono
un
obbligo
di
facere
=>
l’attuazione
è
disciplinata
in
maniera
analoga
alle
direttive.
Obbligo
di
facere
imposto
dalle
decisioni
=>
spesso
molto
più
specifico
dell’obbligo
di
attuare
una
direttiva
=>
lascia
allo
Stato
membro
un
margine
di
discrezionalità
molto
più
ristretto;
Alcune
decisioni
prescrivono
un
obbligo
di
non
facere
=>
lo
Stato
membro
è
tenuto
ad
astenersi
dall’attività
vietata.
Decisioni
individuali
rivolte
ai
singoli:
Hanno
natura
spiccatamente
amministrativa;
Caso
più
importante:
decisioni
che
la
Commissione
adotta
nell’ambito
della
disciplina
della
concorrenza,
che
possono
prevedere
anche
la
comminazione
di
sanzioni
pecuniarie
a
carico
delle
imprese.
Decisioni
=>
atto
esecutivo
ai
sensi
dell’art.
299
TFUE
=>
“gli
atti
del
Consiglio,
della
Commissione
o
della
Banca
centrale
europea
che
comportano,
a
carico
di
persone
che
non
siano
gli
Stati,
un
obbligo
pecuniario
costituiscono
titolo
esecutivo”.
• DECISIONI
GENERALI
=>
prive
di
destinatari
individuati
=>
hanno
portata
obbligatoria
generale.
Esse
hanno
natura
varia:
Le
più
importanti
=>
decisioni
che
il
Consiglio
europeo
adotta
nell’ambito
delle
procedure
di
revisione
dei
trattati.
Altre
=>
decisioni
del
Consiglio
europeo
che
danno
attuazione
a
specifiche
disposizioni
dei
trattati
(es.
decisioni
con
cui
il
Consiglio
europeo
stabilisce
la
composizione
del
P.E.).
Esempio
di
decisioni
generale
prese
dal
Consiglio
=>
quelle
in
cui
constata
l’esistenza
di
“un
evidente
rischio
di
violazione
grave
da
parte
di
uno
Stato
membro
dei
valori
di
cui
all’art.2”,
ai
sensi
dell’art.7
oppure
quelle
con
cui
autorizza
un
cooperazione
rafforzata
ai
sensi
dell’art.20
TUE.
48
49
3
metodi
principali,
attraverso
i
quali
la
legge
comunitaria
opera
per
rendere
l’ordinamento
italiano
conforme
agli
obblighi
sopra
indicati:
• METODO
DELL’ATTUAZIONE
DIRETTA
=>
la
stessa
legge
comunitaria
abroga
o
modifica
disposizioni
statali
vigenti.
Questo
metodo
può
essere
seguito
in
due
casi:
Disposizioni
statali
vigenti
“in
contrasto
con
gli
obblighi
specificati
dall’art.1”;
Disposizioni
statali
vigenti
“oggetto
di
procedure
di
infrazione
avviate
dalla
Commissione
delle
Comunità
europee
nei
confronti
della
Repubblica
italiana”.
Si
tratta
del
procedimento
più
dispendioso,
che
implica
l’approvazione
da
parte
del
Parlamento
della
specifica
modifica
legislativa
da
apportare
all’ordinamento
vigente.
Esso
viene
utilizzato
per
adempimenti
puntuali
e
di
semplice
definizione
oppure
quando
vi
sono
motivi
d’urgenza.
• METODO
DELLA
DELEGA
LEGISLATIVA
AL
GOVERNO,
ai
sensi
dell’art.
76
Cost.
=>
la
legge
comunitaria
può
avere
il
contenuto
di
una
legge
delega.
In
questo
caso
essa
prevede
i
criteri
per
l’attuazione
delle
norme
comunitarie
da
parte
del
Governo,
mediante
decreti
legislativi.
• METODO
DELL’ATTUAZIONE
IN
VIA
REGOLAMENTARE
E
AMMINISTRATIVA
=>
rappresenta
l’elemento
di
maggior
rilievo
introdotto
dalla
Legge
La
Pergola.
Art.
9,
par.1
=>
la
legge
comunitaria
può
contenere
“disposizioni
che
autorizzano
il
Governo
ad
attuare
in
via
regolamentare
le
direttive
a
norma
dell’art.11”.
Ciò
può
avvenire
per
direttive
che
riguardano
“materie
di
cui
all’art.117,
co.
2°,
della
Costituzione”
anche
se
si
tratta
di
“materie
già
disciplinate
con
legge,
ma
non
riservate
alla
legge”.
Il
regolamento
emanato
in
forza
della
citata
disposizione
è
perciò
in
grado
di
modificare
norme
di
legge
preesistenti,
grazie
all’espressa
autorizzazione
data
dal
Parlamento
nella
legge
comunitaria.
Si
opera
pertanto
la
delegificazione
delle
materie
interessate.
La
Legge
La
Pergola
e
la
L.
11/2005
si
occupano
anche
dell’attuazione
del
diritto
comunitario
da
parte
delle
Regioni.
L’attuale
sistemazione
della
materia
è
frutto
di
una
lunga
evoluzione
normativa
e
giurisprudenziale,
che
ha
condotto
a
riconoscere
un
ruolo
sempre
più
ampio
alle
regioni,
fermo
restando
il
principio
della
responsabilità
del
solo
Stato
nei
confronti
delle
istituzioni
comunitarie.
L’art.
117,
co.
5°,
Cost.
prevede
ormai
che
le
Regioni
e
le
Province
autonome
di
Trento
e
Bolzano,
nelle
materie
di
loro
competenza
“provvedono
all’attuazione
e
all’esecuzione
degli
atti
dell’Unione
europea,
nel
rispetto
delle
norme
di
procedura
stabilite
con
legge
dello
Stato,
che
disciplina
le
modalità
di
esercizio
del
potere
sostitutivo
in
caso
di
inadempienza”.
L’art.
16
della
L.
n.
11/2005
prevede
che
le
regioni
e
le
province
autonome,
nelle
materie
di
loro
competenza,
possono
dare
immediata
attuazione
alle
direttive.
Le
regioni
e
le
province
autonome
non
debbono
attendere,
prima
di
agire,
un
preventivo
intervento
da
parte
dello
Stato,
ma
possono
provvedere
non
appena
la
direttiva
entra
in
vigore
e
diventa
pertanto
obbligatoria
per
lo
Stato.
Ciò
non
esclude
del
tutto
l’intervento
dello
Stato:
1. Nelle
materie
di
competenza
concorrente,
è
compito
dello
Stato
la
determinazione
dei
principi
fondamentali
(non
derogabili
dalla
legge
regionale
o
provinciale
sopravvenuta
e
prevalenti
su
disposizioni
contrarie
già
emanate
da
regioni
o
provincie
autonome);
2. Artt.117,
co.
5°,
art.120,
co.
2°,
Cost.
=>
potere
sostitutivo
a
favore
dello
Stato,
nel
caso
di
inadempimento
regionale
riguardante
la
normativa
dell’Unione.
3. Meccanismo
di
sostituzione
preventiva
=>
lo
Stato
adotta
decreti
legislativi
o
regolamenti
di
attuazione
anche
riguardo
a
direttive
che
ricadono
nelle
materie
di
competenza
regolamentare
o
legislativa
delle
regioni
o
delle
province
autonome.
Tali
provvedimenti
si
applicano
solo
a
partire
dalla
data
di
scadenza
dell’obbligo
di
attuazione
di
ciascuna
direttiva
e
solo
nel
territorio
delle
regioni
che
non
abbiano
già
provveduto
autonomamente
all’attuazione
e
fino
a
quando
non
lo
avranno
fatto.
4. Meccanismo
di
sostituzione
successiva
=>
prevede
la
messa
in
mora
preventiva
della
Regione
che
versi
in
situazione
di
mancato
rispetto
della
normativa
comunitaria,
con
l’assegnazione
di
“un
congruo
termine
per
adottare
i
provvedimenti
dovuti
o
necessari”.
Decorso
invano
detto
termine,
il
Consiglio
dei
ministri
provvederà
direttamente
o
nominando
un’apposita
commissione.
Alla
riunione
del
Consiglio
partecipa
il
Presidente
della
Giunta
regionale
o
provinciale
interessata.
PARTE
IV
DIRITTO
DELL’UNIONE
EUROPEA
E
SOGGETTI
DEGLI
ORDINAMENTI
INTERNI
50
1.Considerazioni
generali.
Caratteristica
propria
dell’ordinamento
dell’Unione
=
riconosce
come
titolari
di
soggettività
giuridica
non
solo
gli
Stati
membri,
ma
anche
coloro
ai
quali
tale
soggettività
spetta
nell’ambito
degli
ordinamenti
interni
degli
Stati
membri.
Le
norme
di
quest’ordinamento
presentano
2
dimensioni
distinte:
• Dimensione
internazionale;
• Dimensione
interna.
Rapporti
di
tipo
internazionalistico
=>
rapporti
giuridici
che
il
diritto
dell’Unione
fa
sorgere
in
capo
agli
Stati
membri
e
all’Unione
stessa.
Contenuto
di
tali
rapporti
=
una
serie
di
diritti
e
di
obblighi
che
l’Unione,
attraverso
le
sue
istituzioni,
o
uno
Stato
membro
può
par
valere
nei
confronti
di
un
altro
Stato
membro
o
un’istituzione.
In
tali
rapporti
lo
Stato
membro
si
presenta
in
maniera
unitaria
=>
esso
è
espressione
comprensiva
di
tutte
le
componenti
in
cui
si
articola
la
propria
organizzazione
interna:
organi
dipendenti
dal
potere
esecutivo
dello
Stato
centrale,
organi
dotati
di
autonomia
costituzionale,
enti
territoriali
e
regionali
e
persino
individui.
I
rapporti
di
tipo
internazionalistico
sfociano
in
procedimenti
giudiziari
di
soluzione
anch’essa
di
stampo
internazionalistico,
il
più
importante
dei
quali
è
disciplinato
dagli
artt.
258
e
259
TFUE.
I
rapporti
giuridici,
interessati
dal
diritto
dell’UE,
che
coinvolgono
i
soggetti
di
ogni
Stato
membro,
si
distinguono
in:
• Rapporti
orizzontali
=>
vedono
contrapposti
un
soggetto
privato
ad
un
altro;
• Rapporti
verticali
=>
sorgono
tra
un
soggetto
privato
e
un
soggetto
pubblico,
in
quanto
riconducibile
direttamente
o
indirettamente
a
un’autorità
statale
o
pubblica.
Il
diritto
dell’UE
può
intervenire
su
tali
rapporti
con
intensità
variabile.
Il
diritto
dell’Unione
fornisce
la
disciplina
di
tali
rapporti
e
ciò
avviene
nel
campo
d’applicazione
dei
regolamenti.
I
regolamenti
costituiscono
una
fonte
che
assume
valore
normativo
anche
all’interno
degli
ordinamenti
nazionali,
disciplinando
un’intera
materia
e
sostituendosi
alle
eventuali
norme
interne
preesistenti
(effetto
di
sostituzione).
Tale
effetto
può
derivare
anche
da
altre
fonti
di
diritto
dell’Unione,
comprese
le
norme
dei
trattati.
Il
diritto
dell’Unione
può
interessare
la
disciplina
di
un
rapporto
giuridico,
dettando
principi
generali
o
regole
particolari,
che
si
limitano
ad
impedire
l’applicazione
di
norme
interne,
ad
esse
contrarie
(effetto
di
opposizione).
In
tali
casi
la
disciplina
del
rapporto
resta
soggetta
al
diritto
interno,
dal
quale
vengono
espunte
solo
le
norme
incompatibili
con
il
diritto
dell’Unione.
In
entrambi
i
casi,
la
norma
comunitaria
produce
effetti
diretti
ovvero
gode
di
efficacia
diretta
negli
ordinamenti
interni
e
nei
confronti
dei
soggetti
riconosciuti
da
tali
ordinamenti.
Non
è
possibile
definire
a
priori
il
contenuto
degli
effetti
diretti,
che
una
norma
dell’Unione
può
produrre,
essendo
questi
legati
al
contenuto
della
norma
stessa
e
al
contesto
in
cui
la
norma
è
invocata.
L’efficacia
diretta
di
una
norma
dell’Unione
implica
che
il
soggetto
nei
cui
confronti
la
norma
produce
effetti
favorevoli
può
pretenderne
il
rispetto
da
parte
dell’altro
soggetto
del
rapporto
(efficacia
diretta
in
senso
sostanziale).
In
caso
di
mancato
rispetto,
l’efficacia
diretta
comporta
l’invocabilità
in
giudizio:
i
soggetti
favoriti
dalla
norma
dell’Unione
possono
chiedere
al
giudice
nazionale
l’applicazione
in
giudizio
della
norma
stessa,
ottenendone
la
corrispondente
tutela
giurisdizionale.
La
Corte,
in
passato,
usava
indistintamente
i
termini
“efficacia
diretta”
e
“applicabilità
diretta”:
• Applicabilità
diretta
=>
art.
288
TFUE
riserva
questa
denominazione
ai
soli
regolamenti.
• Efficacia
diretta
=>
questa
denominazione
risulta
più
efficace,
in
merito
al
tema
dell’ordinamento
dell’Unione.
Non
sempre
le
norme
dell’Unione
presentano
le
caratteristiche
necessarie
per
produrre
effetti
diretti.
Anche
i
regolamenti,
per
i
quali
l’efficacia
diretta
dovrebbe
scaturire
come
conseguenza
normale,
possono
difettare
di
tali
caratteristiche.
Per
le
direttive,
le
condizioni
e
la
portata
dell’efficacia
diretta
sono
definita
in
maniera
restrittiva.
L’efficacia
diretta
non
costituisce
l’unica
forma
attraverso
cui
le
norme
dell’Unione
assumono
rilevanza
normativa
interna;
la
giurisprudenza,
in
presenza
di
norme
prive
della
capacità
di
produrre
effetti
diretti,
ha
individuato
2
forme
di
efficacia
indiretta:
1. Riconoscimento
del
diritto
dell’Unione
come
avente
valore
interpretativo
cogente,
rispetto
alle
norme
interne.
=>
i
giudici
nazionali
sono
soggetti
a
un
obbligo
di
interpretazione
conforme,
capace
di
ovviare
a
situazione
di
apparente
conflitto
tra
norme
interne
e
norme
dell’Unione;
51
2. Riconoscimento
che
la
mancata
attuazione
di
una
norma
dell’Unione,
anche
se
non
direttamente
efficace,
fa
sorgere,
in
capo
a
coloro
che
sono
stati
danneggiati
dalla
mancata
attuazione,
il
diritto
al
risarcimento
del
danno,
a
carico
dello
Stato
membro
responsabile.
2.I
presupposti
dell’efficacia
diretta.
Efficacia
diretta
=>
non
è
caratteristica
propria
di
ogni
norma
dell’Unione.
Il
giudice
nazionale,
se
intende
trarre
da
una
norma
effetti
diretti
al
fine
di
risolvere
una
controversia,
ha
l’onere
di
verificare
d’ufficio
se
la
norma
presenti
le
caratteristiche
necessarie,
avvalendosi
del
rinvio
pregiudiziale,
di
cui
all’art.
267
TFUE.
Nell’indagine
volta
a
stabilire
se
una
norma
dell’Unione
abbia
o
meno
efficacia
diretta
=>
la
Corte
mira
ad
individuare
nella
norma
in
questione
alcune
caratteristiche
sostanziali,
che
la
rendono
suscettibile
di
essere
applicata
davanti
al
giudice.
Le
caratteristiche
richieste
dalla
Corte
sono
espresse
con
formule
variabili,
che
ruotano
intorno
ai
concetti
di:
• Sufficiente
precisione:
Presupposto
=>
formulazione
della
norma.
La
norma
deve
contenere
un
precetto
sufficientemente
definito,
perché
i
destinatari
possano
comprenderne
la
portata
(principio
della
certezza
del
diritto)
e
il
giudice
possa
applicarlo
nei
giudizi
di
propria
competenza.
Esso
richiede
che
la
norma
comunitaria
specifichi
3
aspetti:
1. Titolare
dell’obbligo;
2. Titolare
del
diritto;
3. Contenuto
del
diritto/obbligo
creato
dalla
norma
stessa.
Può
accadere
che
una
norma
dell’Unione
sia
considerata
sufficientemente
precisa
per
determinati
fini
e
non
per
altri,
quindi
l’efficacia
diretta
si
determina
anche
in
funzione
del
contenuto
del
diritto
che
si
intende
azionare.
Sentenza
1991,
Francovich
Il
Test
basato
sui
tre
aspetti
indicati
è
stato
elaborato
dalla
Corte
nella
sentenza
Francovich.
Il
sig.
Francovich
aveva
proposto
al
pretore
di
Bassano
del
Grappa
un’azione
contro
lo
Stato
italiano
per
ottenere
il
pagamento
dell’indennità
istituita
da
una
direttiva
a
vantaggio
dei
lavoratori,
in
caso
di
insolvenza
del
datore
di
lavoro.
L’Italia
non
aveva
assunto
nessuna
misura
per
l’attuazione
della
direttiva
e
tale
inadempimento
era
stato
accertato
con
sentenza
della
Corte,
ai
sensi
dell’art.
258
TFUE.
Il
pretore,
in
forza
dell’art.
267,
chiede
se
la
direttiva
debba
essere
interpretata
nel
senso
che
gli
interessati
possono
far
valere
il
diritto
all’indennità
nei
confronti
dello
Stato,
pur
in
mancanza
di
provvedimenti
di
attuazione.
PER
LA
CORTE
=>
è
necessario
chiedersi
se
la
direttiva
contiene
disposizioni
sufficientemente
precise.
La
Corte
perviene
ad
una
SOLUZIONE
NEGATIVA
per
quanto
riguarda
l’identità
del
soggetto
tenuto
alla
garanzia,
quindi
viene
negata
la
possibilità
che
la
direttiva
abbia
efficacia
diretta.
• Incondizionatezza
della
norma:
PRESUPPOSTO
=>
assenza
di
clausole
che
subordinino
l’applicazione
della
norma
ad
ulteriori
interventi
normativi,
da
parte
degli
Stati
membri
o
delle
istituzioni
dell’Unione,
ovvero
consentano
agli
Stati
membri
un
certo
margine
di
discrezionalità
nell’applicazione.
Ai
fini
della
verifica
dell’efficacia
diretta,
la
destinatarietà
formale
della
norma
non
ha
alcun
rilievo.
La
circostanza
della
norma
si
rivolga
agli
Stati
membri
o
alle
istituzioni
non
comporta
necessariamente
che
sia
priva
di
efficacia
diretta.
I
presupposti
dell’efficacia
diretta
sono
gli
stessi,
qualunque
sia
il
tipo
di
norma
dell’Unione,
rispetto
alla
quale
il
problema
si
pone.
Disposizioni
dei
trattati
=>
alcune
di
esse
si
riferiscono
espressamente
ai
singoli.
Es.:
norme
in
materia
di
concorrenza
=>
gli
art.
101
e
102
TFUE
vietano
alcuni
comportamenti
delle
imprese.
Queste
norme
sono
direttamente
efficaci,
quindi
direttamente
opponibili
alle
imprese
interessate.
Le
norme
dei
trattati
producono
effetti
diretti
nei
rapporti
verticali
e
nei
rapporti
orizzontali
ed
è
possibile
invocarne
il
disposto
nei
confronti
di
un’autorità
pubblica
e
di
un
privato
=>
si
parla
di
efficacia
diretta
verticale
e
efficacia
diretta
orizzontale.
Il
problema
dell’efficacia
diretta
si
pone
riguardo
gli
accordi
internazionali,
conclusi
dall’Unione
con
gli
Stati
terzi,
ai
sensi
dell’art.
216
TFUE.
È
possibile
che
soggetti
privati
siano
interessati
a
far
valere
la
disciplina,
contenuta
in
tali
accordi,
per
contestare
la
legittimità
di
comportamenti
o
provvedimenti
degli
Stati
membri
o
delle
istituzioni.
52
La
verifica
svolta
dalla
Corte
per
decidere
circa
l’efficacia
diretta
delle
disposizioni
contenute
in
accordi
internazionali
si
caratterizza
per
una
particolare
attenzione
rivolta
al
contesto.
L’analisi
si
svolge
in
2
tempi:
1. Innanzitutto,
occorre
dimostrare
che
la
natura
e
la
struttura
dell’accordo
permettono
di
riconoscere
effetti
diretti
alle
sue
disposizioni
in
generale;
2. Successivamente,
è
necessario
provare
che
la
disposizione
invocata
presenti
le
caratteristiche
della
sufficiente
precisione
e
della
incondizionatezza.
Per
quanto
riguarda
i
regolamenti
=>
il
problema
dell’efficacia
diretta
ha
scarsa
consistenza.
Caratteristica
della
diretta
applicabilità
=>
le
disposizioni
dei
regolamenti
sono
capaci
di
produrre
effetti
diretti.
Il
principio
subisce
un’attenuazione
nel
caso
di
regolamenti
che
richiedono
l’emanazione
da
parte
degli
Stati
membri
di
provvedimenti
di
integrazione
o
di
esecuzione.
In
tali
casi
(in
mancanza
di
provvedimenti
nazionali)
non
si
può
far
a
meno
di
verificare
che
la
disposizione
regolamentare
in
questione
presenti
i
presupposti
della
sufficiente
precisione
e
dell’incondizionatezza.
Anche
i
regolamenti
producono
effetti
diretti
nei
rapporti
verticali
e
in
quelli
orizzontali.
=>
si
può
parlare
di
efficacia
diretta
verticale
e
di
efficacia
diretta
orizzontale.
3.Segue:
casi
particolari
(direttive,
decisioni,
atti
degli
ex
pilastri
non
comunitari).
Le
direttive
per
essere
direttamente
efficaci
devono
presentare
due
caratteristiche
=>
sufficiente
precisione
e
incondizionatezza.
Momenti
differenti
a
partire
dai
quali
l’efficacia
diretta
si
produce:
1. PORTATA
TEMPORALE
=>
la
direttiva
non
è
concepita
come
fonte
di
effetti
diretti.
Le
direttive
hanno
un’efficacia
normativa
interna,
meramente
indiretta
o
mediata.
Capita
spesso
che
gli
Stati
membri
attuino
le
direttive
in
ritardo
o
in
forme
non
corrette
o
sufficienti,
in
modo
da
impedire
il
raggiungimento
del
risultato
voluto.
In
casi
del
genere
si
pone
il
problema
di
stabilire
se
la
direttiva
possa
produrre
effetti
diretti.
Degli
stessi
non
si
può
parlare
se
non
dopo
la
scadenza
del
termine
dell’attuazione
concesso
agli
Stati
membri.
Prima
di
questo
momento,
la
direttiva
non
può
produrre
altri
effetti
giuridici,
che
quello
di
obbligare
gli
Stati
membri
ad
attuarla.
Nell’ipotesi
di
attuazione
completa
effettuata
prima
della
scadenza
del
termine
=>
lo
Stato
membro
rinuncia
al
termine
concesso
in
suo
favore
e
potrebbe
soggiacere
anticipatamente
agli
eventuali
effetti
diretti
della
direttiva.
2. PORTATA
SOGGETTIVA
=>
la
giurisprudenza
ha
riconosciuto
anche
alle
direttive
non
attuate
la
possibilità
di
produrre
effetti
diretti.
=>
nesso
tra
efficacia
diretta
e
violazione
dell’obbligo
d’attuazione.
La
Corte
=>
inizialmente
punta
sul
carattere
obbligatorio
della
direttiva,
avvicinandola
in
tal
modo
al
regolamento.
Punta
anche
sulla
teoria
dell’effetto
utile,
che
porta
ad
interpretare
le
norme
comunitarie
in
maniera
da
consentire
che
esse
esplichino
i
loro
effetti
nella
maggior
misura
possibile.
Successivamente
=>
la
Corte
introduce
un
nuovo
argomento
che
sembra
assimilare
l’efficacia
diretta
ad
una
sorta
di
sanzione
a
carico
dello
Stato
membro
inadempiente.
=>
argomento
per
la
prima
volta
affermato
con
la
sentenza
del
1979,
Ratti.
Secondo
la
Corte
=>
lo
Stato
membro
che
non
ha
recepito
la
direttiva
deve
subire
le
conseguenza
del
proprio
inadempimento
e
non
può
impedire
ai
singoli
di
avvalersi
dei
diritti
ad
essi
riconosciuti
dalla
direttiva
inattuata
=>
Principio
dell’estoppel.
Dal
momento
che
l’efficacia
interna
della
direttiva
inattuata
è
conseguenza
dell’obbligatorietà
della
stessa
nei
confronti
degli
Stati
membri,
si
comprende
perché
la
Corte
abbia
limitato
tale
efficacia
ai
soli
rapporti
verticali,
cioè
ai
rapporti
in
cui
una
direttiva
è
invocata
contro
un’autorità
pubblica.
Ogni
autorità
pubblica
è
tenuta
ad
attuare
la
direttiva,
ai
sensi
dell’art.
288
TFUE,
quindi
eventualmente
sarà
possibile
rimproverarle
di
non
averlo
fatto.
La
direttiva
inattuata
non
può
produrre
effetti
diretti
ai
soggetti
privati,
i
quali
non
possono
essere
in
alcun
modo
considerati
responsabili
della
mancata
attuazione.
Quindi
=>
la
direttiva
ha
soltanto
efficacia
diretta
verticale.
È
priva
di
efficacia
nelle
seguenti
situazioni:
Rapporti
verticali
invertiti
=>
quando
la
direttiva
è
invocata
da
un
soggetto
pubblico
contro
un
soggetto
privato;
Rapporti
orizzontali
=>
quando
la
direttiva
è
invocata
da
un
soggetto
privato
contro
un
altro
soggetto
privato.
DIRETTIVE
INATTUATE
=>
NO
EFFICACIA
DIRETTA
ORIZZONTALE.
53
La
Corte
ha
una
visione
unitaria
dello
Stato
=>
l’obbligo
di
attuare
una
direttiva
non
ricade
solo
sugli
organi
dello
Stato
centrale,
ma
anche
su
qualsiasi
articolazione
della
struttura
pubblica,
indipendentemente
che
si
tratti
di
entità
dotate
di
poteri
autoritativi
ovvero
di
entità
che
agiscano
con
gli
strumenti
dell’autonomia
privata.
Il
rifiuto
di
riconoscere
l’efficacia
diretta
orizzontale
di
una
direttiva
inattuata
è
oggetto
di
molte
critiche
da
parte
della
dottrina.
Giurisprudenza
della
Corte
=>
nega
che
l’efficacia
diretta
sia
una
qualità
obiettiva
della
norma
stessa
=>
MA
le
attribuisce
un
carattere
variabile,
legato
a
fattori
casuali.
Non
sollevare
la
questione
d’ufficio,
anche
se
la
situazione
che
ha
indotto
il
giudice
nazionale
ad
adire
la
Corte
in
via
pregiudiziale
ai
sensi
dell’art.
267
TFUE
appare
riguardare
unicamente
rapporti
orizzontali
o
verticali
invertiti
=>
atteggiamento
che
potrebbe
ridurre
la
rilevanza
della
distinzione
tra
efficacia
diretta
orizzontale
e
verticale.
In
assenza
di
un’apposita
questione
pregiudiziale
sul
punto
da
parte
del
giudice
nazionale,
la
Corte
ritiene
di
doversi
pronunciare
sull’interpretazione
della
direttiva
e
sulla
sua
idoneità
in
abstracto
a
produrre
effetti
diretti,
senza
porsi
il
problema
del
se
tali
effetti
possano
essere
fatti
valere
nel
contesto
del
giudizio
a
quo.
3
eccezioni
al
principio
giurisprudenziale
che
nega
l’efficacia
diretta
orizzontale
di
una
direttiva:
1. Rapporti
triangolari
=>
sono
rapporti
in
cui
un
privato
invoca
l’applicazione
di
una
direttiva
inattuata,
nei
confronti
di
un
organo
pubblico,
a
titolo
principale,
ma
anche
nei
confronti
di
altri
soggetti
privati,
la
cui
posizione
verrebbe
compromessa
dall’applicazione
della
direttiva
(contro
interessati).
=>
la
Corte
non
sembra
considerare
l’effetto
pregiudizievole
indirettamente
subito
dai
soggetti
privati
contro
interessati,
come
circostanza
preclusiva
alla
produzione
di
effetti
diretti
da
parte
dell’iniziativa.
2. Direttive
che
sottopongono
le
misure
degli
Stati
membri
ad
una
procedura
di
controllo
=>
tali
direttive
non
sono
dirette
ad
attribuire
diritti
a
soggetti
privati
o
a
definire
la
disciplina
delle
loro
relazioni
contrattuali,
ma
riguardano
adempimenti
prescritti
a
carico
dei
soli
Stati
membri.
=>
la
direttiva
inattuata
non
influisce
sulla
disciplina
di
rapporti
interprivati,
se
non
indirettamente,
nel
senso
di
precludere
l’applicazione
di
una
normativa
o
di
un
provvedimento
interno
emanato
in
violazione
delle
procedure
di
controllo
=>
la
Corte
ritiene
che
la
direttiva
“non
crea
né
diritti
né
obblighi
per
i
singoli”
e
può
dunque
essere
applicata
dal
giudice,
senza
che
si
possa
parlare
di
efficacia
diretta
orizzontale.
3. Successione
di
norme
interne,
di
cui
la
più
recente
sia
incompatibile
con
una
direttiva
=>
la
direttiva
non
comporterebbe
di
per
sé
effetti
negativi
a
carico
dei
privati
=>
essa
si
limiterebbe
ad
impedire
l’applicazione
della
disposizione
interna
più
recente.
Effetti
del
genere
sarebbero
prodotti
dell’ordinamento
interno
=>
attraverso
la
norma
più
antica
tornata
in
vigore.
La
tesi
è
stata
respinta
dalla
Corte,
nella
sentenza
del
2005,
Berlusconi.
=>
la
sentenza
è
stata
resa
con
riferimento
a
casi
in
cui
il
riconoscimento
di
effetti
diretti
avrebbe
comportato
un
aggravamento
della
responsabilità
penale
degli
imputati.
Non
è
escluso
che,
in
un
contesto
che
non
coinvolga
conseguenze
di
tipo
penale,
la
Corte
possa
accogliere
la
tesi
sopra
descritta.
Raramente
la
Corte
è
stata
chiamata
a
pronunciarsi
sull’efficacia
diretta
delle
decisioni.
I
dubbi
riguardano
le
decisioni
che
hanno
gli
Stati
membri
come
destinatari.
Per
quanto
riguarda
gli
atti
delle
istituzioni
emanati
nell’ambito
di
quello
che
era
considerato
il
III
pilastro
=>
art.
34,
par.2,
TUE,
escludeva
espressamente
che
le
decisioni
quadro
e
le
decisioni
avessero
efficacia
diretta.
Nemmeno
gli
atti
appartenenti
alle
altre
categorie
di
cui
all’art.
34
TUE
o
gli
atti
PESC
erano
idonei
a
produrre
effetti
diretti.
4.Obbligo
di
interpretazione
conforme.
Individuazione
di
forme
di
efficacia
indiretta
del
diritto
dell’Unione
=>
valorizzata
rispetto
alle
direttive,
considerati
i
limiti
temporali
e
soggettivi
degli
effetti
diretti
che
tali
atti
possono
conseguire.
VARIE
FORME
DI
EFFICACIA
INDIRETTA:
1. Obbligo
di
interpretazione
conforme
=>
quando
sono
chiamati
ad
applicare
norme
interne,
gli
operatori
giuridici
e
soprattutto
i
giudici
sono
tenuti
ad
interpretarle,
ove
possibile,
in
conformità
con
il
diritto
dell’Unione,
anche
se
questo
non
è
direttamente
efficace.
Obbligo
di
interpretazione
conforme
=
applicazione
specifica
dell’obbligo
di
leale
collaborazione
=>
I
giudici
sono
tenuti
a
fare
il
possibile,
perché
il
risultato
voluto
dalla
direttiva
sia
raggiunto.
Differenza
tra:
54
Efficacia
diretta:
il
giudice
disapplica
la
norma
interna
confliggente
con
la
norma
dell’Unione.
Interpretazione
conforme:
il
giudice
applica
la
norma
interna,
ma
interpretandola
in
modo
aderente
a
quello
dell’Unione.
Obbligo
di
interpretazione
conforme
=>
è
stato
esteso
anche
a
disposizioni
nazionali
più
antiche
rispetto
alla
direttiva
e
pertanto
prive
di
qualunque
legame
funzionale
con
la
direttiva
stessa.
=>
l’obbligo
in
questione
riguarda
“tutto
il
diritto
nazionale”,
senza
alcuna
distinzione.
LIMITI
ALL’OBBLIGO
DI
INTERPRETAZIONE
CONFORME:
Esso
resta
subordinato
all’esistenza
di
un
margine
di
discrezionalità
che
consenta
all’interprete
di
scegliere
tra
più
interpretazioni
possibili
della
norma
interna.
=>
Solo
in
questo
caso,
sorge
l’obbligo
di
scegliere
l’interpretazione
maggiormente
conforme
all’esigenze
del
diritto
dell’Unione.
Se
norma
interna
=
inequivocabilmente
contraria
a
norma
dell’Unione
e
priva
di
efficacia
diretta
=>
l’obbligo
in
esame
viene
meno.
L’obbligo
di
interpretazione
conforme
“non
può
servire
da
fondamento
ad
un’interpretazione
contra
legem
del
diritto
nazionale”.
L’obbligo
non
sorge
prima
della
scadenza
del
termine
di
attuazione
della
direttiva
in
questione.
Il
giudice
deve
osservare
i
principi
generali
del
diritto,
nell’adempiere
al
proprio
obbligo
di
interpretazione
conforme
=>
l’interpretazione
conforme
non
può
produrre
risultati
normativi
che
si
pongano
in
conflitto
con
i
principi
generali.
Principi
generali
particolarmente
rilevanti
=
certezza
del
diritto
e
irretroattività
=>
essi
trovano
particolare
applicazione
in
campo
penale
e
si
oppongono
a
che
l’interpretazione
conformi
porti
ad
un
aggravamento
della
responsabilità
penale
degli
individui,
creando
nuove
ipotesi
di
reato
o
estendendo
il
campo
d’applicazione
di
quelle
già
previste
dall’ordinamento
interno.
Con
sentenza
16
giugno
2005,
Pupino,
la
Corte
ha
esteso
l’obbligo
di
interpretazione
conforme
anche
alle
decisioni-‐quadro
adottate
nell’ambito
dell’allora
III
pilastro,
nonostante
l’art.
34,
par.2,
specifichi
che
tali
atti
“non
hanno
efficacia
diretta”.
L’affermazione
mantiene
la
sua
importanza
anche
dopo
che
il
Trattato
di
Lisbona
ha
soppresso
la
categoria
delle
decisioni
quadro.
Gli
effetti
giuridici
di
tali
atti
permangono
fino
alla
loro
abrogazione
o
modifica.
2. Risarcimento
del
danno
=>
secondo
la
Corte
=>
“il
principio
della
responsabilità
dello
Stato
per
danni
causati
ai
singoli
in
violazione
del
diritto
comunitario
ad
esso
imputabili
è
inerente
al
sistema
del
Trattato”.
Si
riconosce
che
la
norma
dell’Unione,
anche
se
non
direttamente
efficace,
può
essere
fonte
di
un
diritto
di
risarcimento
del
danno.
Il
diritto
al
risarcimento
costituisce
un
corollario
necessario
dell’effetto
diretto
riconosciuto
alle
norme
comunitarie,
la
cui
violazione
ha
dato
origine
al
danno
subito.
3. Ipotesi
della
mancata
attuazione
di
una
direttiva
priva
di
efficacia
diretta
=>
il
comportamento
omissivo
degli
organi
statali
impedisce
il
sorgere
stesso
del
diritto
che
la
direttiva
intendeva
garantire
ai
singoli,
per
cui
il
pregiudizio
subito
non
si
rapporta
alla
lesione
di
un
diritto
giù
sorto,
ma
ne
precede
il
sorgere.
Il
diritto
al
risarcimento
costituisce
non
già
un’integrazione
o
un’alternativa
rispetto
a
un
diritto
principale,
ma
un
diritto
a
sé
stante.
Condizioni
perché
sorga
il
diritto
al
risarcimento:
• La
norma
dell’Unione
violata
dev’essere
diretta
a
conferire
diritti
ai
singoli
danneggiati,
il
cui
contenuto
possa
essere
individuato
in
base
alla
norma
stessa;
• La
violazione
della
norma
dev’essere
sufficientemente
grave
e
manifesta;
• Tra
la
violazione
e
il
danno
deve
esistere
un
nesso
di
causalità
diretto.
Organi
che
possono
mettere
in
gioco
la
responsabilità
per
danni
dello
Stato
membro
(con
un
comportamento
commissivo
o
omissivo):
• Organi
legislativi
di
uno
Stato;
• Autorità
fiscali;
• Cassa
di
previdenza
per
dentisti;
• Ente
locale;
• Potere
giudiziario.
Condizioni
formali
e
sostanziali
per
l’esercizio
del
diritto
al
risarcimento
=>
dipendono
dalle
varie
legislazioni
nazionali,
salvo
il
rispetto
dei
limiti
che
tali
legislazioni
devono
osservare,
quando
si
applicano
ad
azioni
aventi
ad
oggetto
diritti
che
trovano
la
loro
fonte
in
norme
dell’Unione.
55
56
57
regolamenti
prescritta
dall’art.
249.
La
norma
di
legge
è
incostituzionale
per
violazione
dell’art.11.
MA
=>
secondo
la
Corte
costituzionale,
tale
vizio
non
può
portare
alla
disapplicazione
della
norma
di
legge
direttamente
da
parte
del
giudice
ordinario,
rendendosi,
invece,
sempre
necessario
il
ricorso
alla
Corte
costituzionale,
ai
sensi
dell’art.
134
Cost..
Per
effetto
del
principio
della
successione
delle
leggi
nel
tempo,
il
giudice
italiano
ha
il
potere
di
disapplicare
una
norma
di
legge
interna
contraria
al
diritto
dell’Unione
qualora
la
legge
preceda
nel
tempo
la
norma
dell’Unione
europea
ma
non
ha
il
potere
di
fare
altrettanto
qualora
il
rapporto
temporale
sia
inverso:
in
questo
caso,
il
giudice
non
potrà
far
altro
che
sollevare
la
questione
di
legittimità
costituzionale
e
attendere
la
decisione
della
Corte
Costituzionale.
Nei
conflitti
tra
norme
dell’Unione
e
norme
interne,
trattandosi
di
norme
appartenenti
ad
ordinamenti
differenti
=>
l’unico
metodo
risolutivo
applicabile
è
il
CRITERIO
DELLA
COMPETENZA.
Il
giudice
ordinario
deve
stabilire
se
la
materia
rientri
tra
quelle
in
relazione
alle
quali
l’Itala
ha
accettato,
in
conformità
con
l’art.11
Cost.,
di
limitare
la
propria
sovranità
in
favore
dell’Unione.
Se
la
materia
effettivamente
rientra
nella
competenza
che
i
trattati
attribuisce
alle
istituzioni
dell’Unione,
il
giudice
italiano,
senza
dare
importanza
all’aspetto
cronologico,
accerta
che
la
normativa
scaturente
da
tale
fonte
regola
il
caso
sottoposto
al
suo
esame.
La
soluzione
prospettata
vale
soltanto
“se
e
quando
il
potere
trasferito
alla
Comunità
si
estrinseca
in
una
formazione
compiuta
e
immediatamente
applicabile
dal
giudice
interno”,
come
nel
caso
dei
regolamenti.
La
Corte
Costituzionale
esclude
in
due
ipotesi
il
potere
del
giudice
di
applicare
immediatamente
la
norma
dell’Unione
e
di
disapplicare
l’eventuale
legge
interna
confliggente,
esigendo
invece
che
sia
sollevata
questione
di
costituzionalità.
Si
tratta
di
casi
ancora
oggi
riservati
alla
competenza
residua
della
Corte
costituzionale:
• PRIMA
IPOTESI:
eventualità
di
una
norma
dell’Unione
contraria
ai
principi
fondamentali
dell’ordinamento
costituzionale
e
ai
diritti
dell’uomo.
=>
Il
giudice
nazionale
che
fosse
chiamato
ad
applicare
una
norma
dell’Unione
sospettata
di
violare
i
predetti
principi,
sarebbe
tenuto
a
sollevare
questione
di
costituzionalità
relativamente
alla
legge
d’esecuzione
dei
trattati,
in
quanto
da
tale
legge
deriverebbe
l’applicazione
in
Italia
di
una
norma
del
genere.
• SECONDA
IPOTESI:
presenza
di
norme
di
legge
dirette
ad
impedire
il
rispetto
dei
principi
fondamentali
dei
trattati.
=>
questa
ipotesi
si
porrebbe
per
“quelle
statuizioni
di
legge
statale,
che
si
assumono
costituzionalmente
illegittime,
in
quanto
dirette
ad
impedire
o
pregiudicare
la
perdurante
osservanza
del
Trattato,
in
relazione
al
sistema
e
al
nucleo
essenziale
dei
suoi
principi”
(sentenza
Granital).
Dovrebbe
trattarsi
di
casi
caratterizzati
da
particolare
gravità
e
da
una
comprovata
intenzione
di
impedire
l’applicazione
in
Italia
di
interi
settori
del
diritto
dell’Unione.
In
casi
del
genere
“la
Corte
sarebbe
quindi
chiamata
ad
accertare
se
il
legislatore
ordinario
abbia
ingiustificatamente
rimosso
alcuni
dei
limiti
della
sovranità
statale,
da
esso
medesimo
posti,
mediante
la
legge
d’esecuzione
del
Trattato
in
diretto
e
puntuale
adempimento
dell’art.11
Cost.”.
Con
la
riforma
del
Titolo
V
della
Costituzione,
il
principio
del
primato
del
diritto
dell’Unione
su
quello
interno
ha
trovato
un’esplicita
consacrazione
nel
nuovo
testo
dell’art.
117,
co.1°,
che
così
recita:
“la
potestà
legislativa
è
esercitata
dallo
Stato
e
dalle
Regioni
nel
rispetto
dei
vincoli
derivanti
dall’ordinamento
comunitario”.
Nel
caso
di
contrasto
rispetto
ad
una
norma
dell’Unione
priva
di
efficacia
diretta,
non
potendo
il
giudice
procedere
alla
disapplicazione
della
legge
interna,
il
giudice
deve
sollevare
davanti
alla
Corte
Costituzionale
eccezione
di
costituzionalità
per
violazione
degli
artt.11
e
117
Cost.
il
principio
è
stato
affermato
dalla
Corte
costituzionale.
Secondo
la
Corte
=>
la
causa
di
rifiuto
deve
valere
anche
per
i
cittadini
di
altri
Stati
membri
effettivamente
e
legittimamente
residenti
o
dimoranti
in
Italia,
altrimenti
si
produrrebbe
una
violazione
del
principio
di
non
discriminazione
sulla
base
della
nazionalità
previsto
dall’art.
18
TFUE.
PARTE
V
IL
SISTEMA
DI
TUTELA
GIURISDIZIONALE
1.Considerazioni
generali.
L’ordinamento
dell’Unione
comprende
un
sistema
di
tutela
giurisdizionale
che
assicura
la
protezione
delle
posizioni
giuridiche,
sorte
per
effetto
del
diritto
dell’Unione.
Tale
sistema
è
ripartito
su
2
livelli:
• Corte
di
Giustizia
dell’UE,
articolata
all’interno
in:
Corte
di
giustizia;
58
Tribunale;
Tribunale
della
Funzione
pubblica
(TFP)
• Organi
giurisdizionali
degli
Stati
membri.
Al
primo
livello
spettano
in
via
esclusiva
le
cd.
Competenze
dirette
=
alcune
azioni,
tassativamente
enumerate
dai
trattati,
che
i
soggetti
interessati
possono
proporre
direttamente
davanti
ad
una
delle
articolazioni
della
Corte
di
giustizia:
• Ricorsi
per
infrazione
=>
vengono
proposti
nei
confronti
di
uno
Stato
membro
accusato
di
aver
violato
gli
obblighi
derivanti
dai
trattati;
• Ricorsi
d’annullamento
=>
con
essi
viene
contestata
la
legittimità
di
atti
delle
istituzioni;
• Ricorsi
in
carenza
=>
con
essi
si
vuole
far
constatare
l’illegittimità
delle
omissioni
addebitabili
alle
istituzioni;
• Ricorsi
per
risarcimento
=>
hanno
ad
oggetto
la
responsabilità
extracontrattuale
delle
istituzioni.
Alle
competenze
di
tipo
contenzioso
si
aggiungono
competenze
consultive
=>
la
più
importante
riguarda
la
compatibilità
con
i
trattati
degli
accordi
internazionali,
la
cui
conclusione
è
prevista
dalle
istituzioni.
Al
di
fuori
di
tali
azioni
=>
vige
la
competenza
dei
giudici
nazionali.
I
soggetti
interessati
all’applicazione
di
una
norma
dell’Unione
possono
rivolgersi
ai
giudici
nazionali
e
chiedere
loro
di
assicurare
la
tutela
giurisdizionale
delle
posizioni
giuridiche
loro
spettanti.
Art.
19,
par.1,
co.
2°
=>
“gli
Stati
membri
stabiliscono
i
rimedi
giurisdizionali
necessari
per
assicurare
una
tutela
giurisdizionale
effettiva
nei
settori
disciplinati
dal
diritto
dell’Unione”.
I
2
livelli
di
tutela
giurisdizionale
non
operano
in
maniera
del
tutto
distinta.
I
trattati
hanno
previsto
uno
strumento
di
raccordo
tra
giudizi
nazionali
e
Corte
di
giustizia
=
procedura
del
rinvio
pregiudiziale,
menzionata
dall’art.
19,
par.3
TUE
e
disciplinata
dall’art.
267
TFUE.
Mediante
tale
procedura,
il
giudice
nazionale
ha
la
facoltà
o
l’obbligo
di
deferire
alla
Corte
di
giustizia
le
questioni
riguardanti
il
diritto
dell’Unione.
=>
si
instaura
una
collaborazione
tra
livello
dell’Unione
e
livello
nazionale
di
tutela
giurisdizionale,
che
consente
di
preservare
il
carattere
uniforme
delle
norme
dell’Unione
anche
nel
momento
applicativo.
Per
la
Corte
di
giustizia
=>
tale
sistema
di
tutela
giurisdizionale
è
completo.
Artt.
6
e
13
della
CEDU
e
art.
47
della
Carta
=>
Principio
generale
del
DIRITTO
AD
UNA
TUTELA
GIURISDIZIONALE
EFFETTIVA
=>
questo
principio
è
rispettato
dall’ordinamento
dell’Unione.
• Il
titolare
di
una
posizione
soggettiva
derivante
da
norme
dell’Unione
europea
deve
avere
la
possibilità
di
esperire
un
ricorso
effettivo
dinanzi
ad
un
giudice
competente,
contro
gli
atti
delle
autorità
pubbliche
di
uno
Stato
membro
che
violino
tale
sua
posizione
(sentenza
del
1986
Johnston);
• Un
soggetto
che
venga
pregiudicato
da
un
atto
delle
istituzioni
deve
poter
ottenere
il
controllo
giurisdizionale
della
validità
di
tale
atto
(sentenza
23
aprile
1986,
Parti
ecologiste
Les
Verts
c.
Parlamento
europeo).
In
caso
di
lacune
=>
la
lacuna
dovrebbe
essere
colmata
attraverso
un’interpretazione
evolutiva
delle
norme
applicabili.
Il
sistema
di
tutela
giurisdizionale
va
esaminato
nella
sua
unità:
• L’insufficienza
dei
rimedi
esperibili
dinanzi
alla
Corte
di
giustizia
non
comporta
violazione
del
diritto
ad
un
rimedio
giurisdizionale
effettivo,
qualora
esista
un
rimedio
adeguato
che
possa
essere
azionato
davanti
ai
giudici
nazionali.
Esempio
di
un
caso
di
questo
tipo
=>
si
ha
nella
sentenza
Parti
ecologiste
Les
Verts
=>
Oggetto
della
sentenza
=
impugnazione
ai
sensi
dell’art.
263
TFUE
di
una
decisione
del
Parlamento
europeo,
relativa
ai
fondi
stanziati
per
il
rimborso
delle
spese
sostenute
dalle
formazioni
politiche
che
avevano
partecipato
alle
elezioni
europee
del
1984.
Il
partito
ricorrente
chiedeva
l’annullamento
della
decisione
impugnata,
nonostante
la
disciplina
allora
vigente
del
ricorso
d’annullamento
contemplasse
la
possibilità
di
ricorrere
contro
atti
del
Consiglio
e
della
Commissione.
=>
La
Corte
dichiara
il
ricorso
ricevibile.
• Nell’ipotesi
che
nessun
rimedio
giurisdizionale
effettivo
esista
né
a
livello
della
Corte
di
giustizia,
né
a
livello
nazionale,
sorge
la
necessità
di
colmare
la
lacuna
in
via
interpretativa.
=>
ciò
può
portare
ad
interpretazioni
estensive
tanto
di
norme
dei
trattati,
quanto
di
norme
degli
Stati
membri.
Prima
della
riforma
del
Trattato
di
Lisbona:
• Il
II
e
il
III
pilastro
dell’Unione
non
disponevano
di
un
sistema
di
tutela
giurisdizionale
analogo
a
quello
stabilito
per
il
pilastro
comunitario;
• La
disciplina
del
Titolo
V
TUE,
relativo
alla
PESC,
non
contemplava
alcun
tipo
di
rimedio
giurisdizionale
=>
gli
atti
adottati
in
quest’ambito
erano
sottratti
a
qualunque
tipo
di
controllo
di
legittimità
da
parte
della
Corte
di
giustizia;
59
• Riguardo
al
Titolo
VI,
relativo
alla
Cooperazione
di
polizia
e
giudiziaria
in
materia
penale
=>
l’art.
35
TUE
attribuiva
alla
Corte
di
giustizia
talune
competenze
dirette
e
in
via
pregiudiziale
molto
ridotte
rispetto
alle
analoghe
competenze
previste
dal
TCE.
La
soppressione
della
distinzione
tra
pilastri
dovuta
al
Trattato
di
Lisbona
non
ha
comportato
il
venir
meno
di
tale
situazione.
Art.
24
e
art.
275
TFUE
=>
continuano
ad
escludere
ogni
competenza
della
Corte
in
ordine
alle
disposizioni
dei
trattati
relative
alla
PESC
e
agli
atti
adottati
in
virtù
di
tali
disposizioni.
L’unica
eccezione
è
costituita
dal
ricorso
d’annullamento
speciale
previsto
dal
co.2°
dell’art.
275,
avente
ad
oggetto
le
“decisioni
che
prevedono
misure
restrittive
nei
confronti
di
persone
fisiche
o
giuridiche
adottate
dal
Consiglio,
in
base
al
titolo
V,
capo
2
del
trattato
dell’Unione
europea”.
La
Corte
è
competente
a
verificare
la
legittimità
della
scelta
della
base
giuridica
=>
art.275
TFUE
=>
“la
Corte
è
competente
a
controllare
il
rispetto
dell’art.
40
del
trattato
sull’Unione
europea”.
2.Il
ricorso
per
infrazione.
Ricorso
per
infrazione
=>
è
disciplinato
dagli
artt.
258
e
259
TFUE.
Art.
260
=>
definisce
la
portata
degli
obblighi
gravanti
sullo
Stato
membro,
in
caso
di
accoglimento
del
ricorso
e
le
conseguenza
dell’evenutale
violazione
di
tali
obblighi.
Oggetto
del
ricorso
=>
violazione
di
uno
Stato
membro
di
uno
degli
obblighi
a
lui
incombenti
in
virtù
dei
trattati.
STATO
MEMBRO
=
Stato-‐organizzazione,
comprensivo
di
tutte
le
articolazioni
in
cui
è
organizzato
l’esercizio
del
potere
pubblico
sul
territorio
statale.
Nell’ambito
di
un
ricorso
per
infrazione
=>
lo
Stato
membro
può
essere
chiamato
a
rispondere
non
soltanto
di
comportamenti
di
organi
facenti
capo
al
Governo
nazionale,
ma
anche
di
comportamenti
imputabili
a
poteri
indipendenti
rispetto
a
quello
esecutivo
o
ad
enti
territoriali
dotati
di
autonomia
e
competenze
esclusive.
Frequenti
sono
i
ricorsi
per
mancata
o
non
corretta
attuazione
delle
direttive
entro
il
termine.
Alcune
eccezioni
=>
il
ricorso
per
infrazione
non
è
esercitabile
in
caso
di:
• Violazione
del
divieto
di
disavanzi
eccessivi;
• Violazioni
commesse
dagli
Stati
membri
nell’ambito
della
PESC;
• Violazione
dei
diritti
dell’uomo
=>
tuttavia
in
casi
particolarmente
gravi,
l’art.7
TUE
prevede
una
procedura
di
constatazione
affidata
ad
una
delibera
unanime
del
Consiglio
europeo,
previa
approvazione
del
P.E.,
cui
può
far
seguito
una
decisione
del
Consiglio,
a
maggioranza
qualificata
che
fisserà
delle
sanzioni
a
carico
dello
Stato
membro
interessato.
La
violazione
è
presa
in
considerazione
nel
suo
obiettivo
manifestarsi
=>
non
è
necessario
dimostrare
la
presenza
di
un
atteggiamento
psicologico
di
colpa
o
di
dolo
da
parte
dello
Stato
membro
o
dei
suoi
organi.
Lo
Stato
membro
non
può
addurre
giustificazioni
tratte
da
eventi
interni
quali
lo
scioglimento
anticipato
del
Parlamento
nazionale
o
una
crisi
di
governo,
né
può
invocare
particolari
difficoltà
derivanti
dalla
necessità
di
rispettare
determinati
adempimenti
costituzionali
o
la
ripartizione
delle
competenze
interne
tra
Stato
e
Regioni
o
altri
enti
territoriali.
Nemmeno
è
possibile
tratte
giustificazioni
dal
comportamento,
anch’esso
contrario
al
diritto
dell’Unione,
tenuto
da
altri
Stati
membri.
Procedimento
per
proporre
un
ricorso
per
infrazione
=>
varia
a
seconda
del
soggetto
che
ne
assume
l’iniziativa.
Art.
258
TFUE
=>
è
la
Commissione
(custode
della
legalità
comunitaria)
ad
aprire
il
procedimento.
Art.
259
=>
ad
agire
è
lo
Stato
membro.
Non
è
consentito
ad
altri
soggetti,
in
particolare
ai
singoli
di
aprire
il
procedimento
e
di
rivolgersi
direttamente
alla
Corte
per
far
valere
la
violazione
di
un
obbligo
derivante
dai
trattati
da
parte
di
uno
Stato
membro.
In
entrambi
i
casi
sono
previste
due
fasi:
• Fase
precontenziosa
preliminare
=>
ha
2
scopi:
Favorisce
la
composizione
amichevole
della
controversia
riguardante
il
rispetto
degli
obblighi
dei
trattati.
Si
può
evitare
l’intervento
della
Corte
=>
imponendo
alle
parti
di
discutere
tra
di
loro
e
di
confrontare
le
posizioni
rispettive;
Scopo
processuale
=>
il
suo
svolgimento
è
condizione
di
ricevibilità
del
ricorso
alla
Corte.
N.B.:
a)
un
ricorso
non
preceduto
da
alcuna
fase
pre-‐contenziosa
è
irricevibile;
b)
l’inserimento
nell’oggetto
del
ricorso
di
contestazioni
diverse
da
quelle
sollevate
nella
fase
pre-‐contenziosa
provoca
l’irricevibilità
parziale
del
ricorso,
salvo
che
si
tratti
della
semplice
continuazione
di
comportamenti
già
contestati.
60
• Fase
contenziosa
vera
e
propria
(davanti
alla
Corte)
=>
ricorso
alla
Corte
di
giustizia
ed
emanazione
di
una
decisione
giudiziaria.
Caso
disciplinato
dall’art.
258
=>
la
scelta
di
dare
avvio
al
procedimento,
quella
di
portarlo
avanti
con
maggiore
o
minore
celerità
e
quella
di
porvi
termine
spettano
alla
Commissione,
che
gode
in
proposito
di
un
ampio
potere
discrezionale.
=>
“la
Commissione,
quando
reputi
che
uno
Stato
membro
abbia
mancato
a
uno
degli
obblighi
a
lui
incombenti
in
virtù
dei
trattati,
emette
un
parere
motivato
al
riguardo,
dopo
aver
posto
lo
Stato
in
condizione
di
presentare
le
sue
osservazioni”.
MOMENTI
della
fase
PRE-CONTENZIOSA:
• Invio
allo
Stato
membro
di
un
atto
non
formale,
noto
come
lettera
di
messa
in
mora,
con
cui
la
Commissione,
dopo
aver
contestato
allo
Stato
membro
determinati
comportamenti,
gli
assegna
un
termine
entro
il
quale
presentare
le
proprie
osservazioni;
• Presentazione
delle
osservazioni
da
parte
dello
Stato
membro;
• Emissione
di
un
parere
motivato,
mediante
il
quale
la
Commissione
espone
in
via
definitiva
gli
addebiti
mossi
allo
Stato
e
lo
invita
a
conformarsi
entro
il
termine
fissato.
=>
si
tratta
di
un
atto
non
obbligatorio,
con
il
quale
la
Commissione
si
limita
ad
esprimere
la
propria
opinione.
Nel
sistema
del
TFUE
il
potere
di
constatare
l’infrazione
commessa
da
uno
Stato
membro
non
spetta
alla
Commissione,
ma
alla
Corte
=>
lo
Stato
membro
non
è
obbligato
a
conformarsi
al
parere
motivato,
ma
lo
farà
soltanto
se
preferisce
evitare
il
ricorso
alla
Corte
di
giustizia.
La
circostanza
che
il
parere
motivato
non
sia
atto
obbligatorio
ne
esclude
l’impugnabilità
ai
sensi
dell’art.
263
TFUE.
Passaggio
alla
fase
contenziosa
=>
solo
una
volta
che
il
termine
fissato
nel
parere
motivato
è
decorso
invano.
Art.
258
=>
“qualora
lo
Stato
in
causa
non
si
conformi
a
tale
parere
nel
termine
fissato
dalla
Commissione,
questa
può
adire
la
Corte
di
giustizia
dell’Unione
europea”.
=>
la
Commissione
non
è
obbligata
a
ricorrere
alla
Corte,
né
a
farlo
entro
un
termine
predeterminato.
La
Commissione
potrebbe
omettere
del
tutto
il
ricorso,
qualora
lo
Stato
membro
si
sia
conformato
al
parere
motivato,
seppure
con
leggero
ritardo
rispetto
al
termine
previsto.
La
Commissione
potrebbe
lasciar
trascorrere
molto
tempo
prima
di
adire
la
Corte,
qualora
siano
in
corso
trattative
che
appaiano
in
grado
di
portare
ad
una
rapida
soluzione
in
via
amichevole.
MOMENTI
della
fase
CONTENZIOSA:
• Una
volta
presentato
il
ricorso
alla
Corte,
l’eventuale
eliminazione
da
parte
dello
Stato
membro
della
violazione
contestata
non
comporta
alcuna
conseguenza
sull’esito
del
giudizio;
• La
situazione
di
infrazione
si
cristallizza
al
momento
della
presentazione
del
ricorso
=>
eventi
successivi
restano
irrilevanti;
• La
fase
contenziosa
termina
con
una
sentenza
della
Corte.
Art.
260
TFUE
=>
in
caso
di
accoglimento
del
ricorso,
la
Corte
si
limita
a
riconoscere
che
lo
Stato
membro
ha
mancato
ad
un
obbligo
derivante
dai
trattati.
Si
tratta
di
una
sentenza
di
mero
accertamento
e
non
di
una
sentenza
di
accertamento
costitutivo,
né
di
condanna.
L’art.
260
non
indica
a
quali
adempimenti
lo
Stato
membro
dovrà
dar
corso
e
neppure
il
termine
entro
il
quale
dovrà
provvedere.
Mancata
adozione
dei
provvedimenti
necessari
a
conformarsi
alla
sentenza
=>
può
indurre
la
Commissione
ad
avviare
nei
confronti
dello
Stato
membro
un
SECONDO
PROCEDIMENTO
DI
INFRAZIONE,
per
violazione
dell’art.
260.
Inizialmente
=>
questo
procedimento
non
differiva
per
nulla
da
quello
di
cui
all’art.
258.
Successivamente
=>
par.2,
art.
260
=>
il
secondo
procedimento
può
condurre
all’emanazione,
a
carico
dello
Stato
membro
inadempiente,
di
una
vera
e
propria
sentenza
di
condanna
al
pagamento
di
una
sanzione
pecuniaria.
La
Corte
=>
se
riconosce
che
lo
Stato
membro
non
si
è
conformato
alla
precedente
sentenza
“può
comminargli
il
pagamento
di
una
somma
forfettaria
o
di
una
penalità”.
Art.
259
TFUE
=>
procedimento
di
infrazione
avviato
su
iniziativa
di
uno
Stato
membro.
Lo
Stato
deve
rivolgersi
alla
Commissione,
chiedendole
di
agire
nei
confronti
dell’altro
Stato
membro.
La
Commissione
deve
porre
in
condizione
gli
Stati
interessati
di
presentare
in
contraddittorio
le
loro
osservazioni
scritte.
Successivamente
=>
la
Commissione
emette
un
parere
motivato.
Se
però
il
parere
non
è
stato
formulato
61
nel
termine
di
tre
mesi
dalla
domanda,
lo
Stato
può
presentare
ricorso
direttamente
alla
Corte.
Se
la
Commissione
sceglie
di
prendere
su
di
sé
il
caso
,
il
procedimento
proseguirà
nelle
forme
previste
dall’art.
258.
In
caso
di
inerzia
della
Commissione
=>
Lo
Stato
membro
riacquista
la
propria
libertà
di
agire
e
può
adire
la
Corte
di
giustizia.
In
caso
di
accoglimento
di
ricorso
=>
la
sentenza
della
Corte
avrà
le
stesse
caratteristiche
di
una
sentenza
emanata
a
seguito
di
ricorso
della
Commissione.
3.Il
ricorso
d’annullamento.
Ricorso
d’annullamento
(art.263
e
ss.
TFUE)
=
FORMA
PRINCIPALE
DI
CONTROLLO
GIURISDIZIONALE
DI
LEGITTIMITA’,
prevista
per
gli
atti
delle
istituzioni.
=>
Mira
ad
ottenere
l’annullamento
degli
atti
che
risultano
viziati.
Secondo
la
Corte
=>
essa
è
l’unico
organo
competente
a
controllare
la
legittimità
degli
atti
delle
istituzioni
e
a
dichiararne
l’illegittimità
o
l’annullamento.
La
Corte
=>
ritiene
di
avere
monopolio
sul
controllo
di
legittimità
del
diritto
derivato
dell’Unione.
Giudici
nazionali
=>
non
dispongono
del
potere
di
dichiarare
invalido
o
di
disapplicare
un
atto
delle
istituzioni
che
non
sia
già
stato
dichiarato
invalido
dalla
Corte.
La
Corte
fa
valere
che
=>
se
ogni
giudice
nazionale
potesse
procedere
in
questo
senso,
si
minerebbe
l’uniforme
applicazione
del
diritto
dell’Unione
=>
ciascun
giudice
nazionale
potrebbe
giungere
a
conclusioni
diverse.
Art.
263
=>
attribuisce
alla
Corte
una
competenza
esclusiva
ad
annullare
un
atto
delle
istituzioni.
“La
coerenza
del
sistema
esige
che
sia
parimenti
riservato
alla
Corte
il
potere
di
dichiarare
l’invalidità
dello
stesso
atto,
qualora
questa
sia
fatta
valere
dinanzi
al
giudice
nazionale”.
Il
giudice
nazionale
che
nutre
dei
dubbi
sulla
validità
di
un
atto
delle
istituzioni
non
ha
altra
scelta
che
sottoporre
una
questione
pregiudiziale
di
validità
alla
Corte.
Art.
263,
co.1°
=>
atti
impugnabili,
sulla
base
di
tre
criteri:
• Autore
=>
possono
essere
impugnati
gli
atti
di
tutte
le
istituzioni
eccetto
la
Corte
di
giustizia
e
la
Corte
dei
Conti,
nonché
gli
atti
degli
organi
o
organismi
dell’Unione.
=>
Tutti
questi
soggetti
sono
dotati
di
legittimazione
passiva,
nell’ambito
del
ricorso
d’annullamento.
• Tipo
=>
Si
distingue
tra:
Atti
legislativi:
sono
sempre
impugnabili;
Atti
non
legislativi:
genericamente
indicati
come
“atti”
=>
l’impugnabilità
dipende
dal
3°
criterio.
Art.
263
=>
limita
l’impugnazione
agli
atti
non
legislativi
che
sono
atti
a
produrre
“effetti
giuridici
nei
confronti
di
terzi”.
Per
Consiglio,
Commissione
e
BCE
=>
questo
scopo
è
raggiunto
implicitamente,
escludendo
l’impugnabilità
di
“raccomandazioni
o
pareri”
e
ammettendo,
al
contrario,
l’impugnabilità
di
qualsiasi
altro
atto
di
tali
istituzioni
appartenente
alle
altre
categorie
dell’art.
288
TFUE.
Per
le
altre
istituzioni,
e
per
gli
organi
e
organismi
dell’Unione
=>
considerata
la
natura
per
lo
più
atipica
degli
atti
che
adottano,
l’art.
263
stabilisce
espressamente
che
deve
trattarsi
di
atti
“destinati
a
produrre
effetti
giuridici
nei
confronti
dei
terzi”.
Caso
particolare
=>
cd.
Atti
preparatori
=
esauriscono
le
varie
fasi
di
un
procedimento
complesso,
destinato
a
sfociare
in
un
provvedimento
finale.
Atto
preparatorio
=
non
definitivo
=
non
autonomamente
impugnabile.
• Effetti.
LEGITTIMAZIONE
ATTIVA
=
soggetti
legittimati
a
proporre
il
ricorso
di
annullamento
=>
art.
263.
Co.3°
e
4°
=>
3
categorie
di
ricorrenti:
PRIMA
CATEGORIA
=
RICORRENTI
PRIVILEGIATI
=>
Essa
comprende:
• Stati
membri;
• Parlamento
europeo;
• Consiglio;
• Commissione.
“Ricorrenti
privilegiati”
=>
il
loro
diritto
di
ricorso
ha
portata
generale.
Essi
possono
proporre
ricorso
contro
qualunque
atto
che
rientri
nella
definizione
di
atto
impugnabile
e
non
devono
dimostrare
alcuno
specifico
interesse
a
ricorrere,
essendo
considerati
portatori
di
un
interesse
generale
alla
legittimità
degli
atti
delle
istituzioni.
SECONDA
CATEGORIA
=
RICORRENTI
INTERMEDI
=>
Essa
comprende:
• Corte
dei
Conti;
• BCE;
• Comitato
delle
regioni.
62
La
legittimazione
non
è
generale,
ma
specificatamente
finalizzata
a
“salvaguardare
le
proprie
prerogative”.
=>
Esse
possono
ricorrere,
solo
sostenendo
che
l’atto
impugnato
invade
la
sfera
riservata
alle
loro
competenze
o
ne
pregiudica
l’esercizio.
TERZA
CATEGORIA
=
RICORRENTI
NON
PRIVILEGIATI
=>
Essa
comprende:
• Persone
fisiche;
• Persone
giuridiche.
Le
condizioni
alle
quali
è
sottoposto
il
diritto
di
ricorso
spettante
a
tali
soggetti
sono
definite
in
maniera
particolarmente
restrittiva.
Art.
263,
co.4°
=>
“Qualsiasi
persona
fisica
o
giuridica
può
proporre
alle
condizioni
previste
al
primo
e
al
secondo
comma,
un
ricorso
contro
gli
atti
adottati
nei
suoi
confronti
o
che
lo
riguardano
direttamente
ed
individualmente
e
contro
gli
atti
regolamentari
che
la
riguardano
direttamente
e
che
non
comportano
alcuna
misura
d’esecuzione”.
La
norma
disciplina
3
ipotesi
distinte:
PRIMA
IPOTESI
=>
una
persona
fisica
o
giuridica
impugna
un
atto
adottato
“nei
suoi
confronti”,
cioè
un
atto
di
cui
il
ricorrente
sia
il
destinatario
=>
occorre
soltanto
dimostrare
di
avere
interesse
a
ricorrere.
SECONDA
IPOTESI
=>
una
persona
fisica
o
giuridica
impugna
un
atto
di
cui
formalmente
non
è
il
destinatario
=>
il
ricorrente
deve
dimostrare
che
l’atto
“lo
riguarda
direttamente
e
individualmente”.
TERZA
IPOTESI
=
deroga
rispetto
alla
SECONDA
IPOTESI
=>
la
persona
fisica
o
giuridica
non
è
il
destinatario
formale
dell’atto
impugnato.
L’atto:
Dev’essere
un
atto
regolamentare;
Non
deve
comportare
alcuna
misura
d’esecuzione.
Per
impugnare
atti
del
genere
al
ricorrente
basterà
dimostrare
che
l’atto
lo
riguarda
direttamente.
Al
di
fuori
della
3°
ipotesi,
la
giurisprudenza
relativa
al
vecchio
art.
230
TCE
resta
valida
anche
oggi.
Distinguiamo
i
precedenti
a
seconda
che
l’atto
sia:
Una
decisione
rivolta
ad
altre
persone
fisiche
o
giuridiche;
Un
regolamento
o
una
decisione
rivolta
a
uno
o
più
stati
membri.
Perché
una
persona
fisica
o
giuridica
possa
impugnare
una
decisione
rivolta
ad
un’altra
persona
fisica
o
giuridica,
l’onere
probatorio
da
superare
non
è
eccessivo.
=>
basta
dimostrare
che
il
ricorrente
è
portatore
di
un
interesse
qualificato
all’annullamento
dell’atto.
Un
siffatto
interesse
=>
è
spesso
ritenuto
implicito
nel
fatto
di
aver
provocato
l’avvio
del
procedimento
che
ha
portato
all’adozione
dell’atto
impugnato
o
nell’avervi
partecipato,
presentando
osservazioni
che
sono
state
prese
in
considerazione
nell’atto
impugnato.
=>
la
ricevibilità
del
ricorso
viene
ammessa,
senza
procedere
ad
un
esame
differenziato
dell’interesse
diretto
rispetto
a
quello
individuale
(ad
es.
impugnazioni
delle
decisioni
in
materia
di
concorrenza).
Qualora
l’atto
impugnato
sia
costituito
da
un
regolamento
o
anche
da
una
decisione
rivolta
a
uno
o
più
Stati
membri
=>
l’onere
probatorio
che
il
ricorrente
non
privilegiato
deve
superare
è
senz’altro
maggiore.
Le
difficoltà:
• Non
riguardano
tanto
l’interesse
diretto
=>
interesse
diretto
=
dimostrazione
che
il
ricorrente
è
pregiudicato
direttamente
dall’atto
impugnato
e
non
da
successivi
provvedimenti
di
esecuzione
o
attuazione
adottati
dalle
istituzioni
o
dagli
altri
Stati
membri.
L’interesse
legittimo
non
è
“in
re
ipsa”.
Quanto
alle
decisioni
rivolte
agli
Stati
membri
=>
si
tratta
di
provare
che
le
autorità
nazionali
non
dispongono
di
alcun
potere
discrezionale
riguardo
all’applicazione
della
decisione
o
che,
pur
godendo
della
facoltà
di
non
applicare
la
decisione
o
di
applicarla
parzialmente,
hanno
già
manifestato
in
anticipo
la
loro
volontà
di
dare
all’atto
piena
applicazione.
• Riguardano
più
che
altro
l’
“interesse
individuale”
=>
non
rileva
che
l’atto
impugnato
colpisca
il
ricorrente,
ma
a
quale
titolo
il
ricorrente
sia
colpito.
In
casi
del
genere
=>
il
ricorrente
è
colpito
alla
stessa
stregua
di
ogni
altro
appartenente
alla
medesima
categoria
e
non
alla
stessa
stregua
dei
destinatari.
Occorre
dimostrare
che
l’atto
ha
preso
in
considerazione
la
posizione
individuale
del
ricorrente
e
pertanto:
Produce
effetti
giuridici
diversi
rispetto
a
quelli
che
si
producono
a
carico
di
tutti
gli
altri
Stati
soggetti.
Talvolta
è
necessario
ricorrere
allo
Smascheramento
dell’atto
“
=>
il
ricorrente
deve
fornire
la
dimostrazione
che
l’atto
non
è
quel
che
appare,
ma
è
una
decisione
individuale
nei
suoi
confronti.
63
Talvolta
è
sufficiente
dimostrare
che
l’atto
contiene
disposizioni
che
riguardano
in
maniera
individuale
determinati
operatori
economici.
La
presenza
di
un
interesse
individuale
è
dimostrata
dalla
circostanza
che
l’atto
impugnato
contenga
espresso
riferimento
a
determinati
soggetti,
ovvero
dalla
circostanza
che
il
comportamento
di
determinati
soggetti
sia
stato
preso
in
considerazione
nel
corso
del
procedimento
per
l’emanazione
dell’atto
impugnato.
L’interesse
individuale
può
derivare
anche
dalle
caratteristiche
del
procedimento
che
conduce
all’atto
impugnato.
Qualora
sia
prescritto
che
il
procedimento
coinvolga
obbligatoriamente
determinati
soggetti
o
sia
garantita
la
partecipazione
di
altri
soggetti
interessati
=>
si
presume
che
tutti
questi
soggetti
siano
portatori
di
un
interesse
qualificato
che
consente
loro
l’impugnazione
dell’atto
finale,
indipendentemente
dalla
sua
natura.
L’interesse
individuale
è
provato,
se
l’istituzione
autrice
dell’atto
impugnato
è
soggetta
all’obbligo
di
prendere
in
considerazione
la
posizione
giuridica
di
determinati
soggetti.
Era
stato
evidenziato
il
rischio
che
si
potessero
produrre
delle
lacune
nel
sistema
giurisdizionale,
in
situazioni
in
cui
i
soggetti
pregiudicati
non
dispongono
di
alcun
rimedio
giurisdizionale
effettivo,
in
alternativa
al
ricorso
diretto
ai
sensi
dell’art.
230,
co.
4°
TCE.
Lacune
si
sarebbero
potute
avere
nel
caso
di
regolamenti
che
non
richiedono
alcun
provvedimento
d’esecuzione
da
parte
delle
autorità
nazionali.
In
casi
del
genere,
sarebbe
venuta
meno
anche
la
possibilità
per
gli
interessati
di
rimettere
in
discussione
la
legittimità
del
regolamento,
impugnando
il
provvedimento
nazionale
d’esecuzione
e
inducendo
il
giudice
nazionale
competente
a
sollevare
questione
pregiudiziale,
ai
sensi
dell’art.
234
TCE,
circa
la
validità
del
regolamento
cui
il
provvedimento
nazionale
da
esecuzione.
=>
ciò
avrebbe
comportato
una
violazione
del
diritto
fondamentale
ad
un
rimedio
giurisdizionale
effettivo.
L’appello
della
Corte
contenuto
nelle
sentenze,
a
che
gli
Stati
membri
provvedano
a
riformare
le
condizioni
di
ricevibilità
di
un
ricorso
d’annullamento
presentato
da
una
persona
fisica
o
giuridica,
contro
un
atto
di
cui
non
è
il
destinatario
e,
in
particolare,
contro
un
atto
di
portata
generale
=>
non
è
rimasto
del
tutto
inascoltato.
La
nuova
frase
del
co.4°
dell’art.
263
stabilisce
condizioni
di
ricevibilità
dei
ricorsi
individuali
meno
severe.
Tali
condizioni
valgono
soltanto
se
oggetto
d’impugnazione
sono:
• Atti
regolamentari;
• Che
non
comportano
alcuna
misura
di
esecuzione.
VIZI
DI
LEGITTIMITA’,
nell’ambito
di
un
ricorso
di
annullamento
=>
art.
263,
co.2°:
• Incompetenza
=>
può
essere:
Incompetenza
interna
=>
l’istituzione
che
emette
l’atto
non
ha
il
potere
di
farlo,
perché
tale
potere
spetta
ad
altra
istituzione;
Incompetenza
esterna
=>
nessuna
istituzione
ha
il
potere
di
emanare
l’atto
in
questione,
che
non
rientra
nella
competenza
dell’Unione
ma,
semmai,
in
quella
degli
Stati
membri.
• Violazione
delle
forme
sostanziali
=>
quando
non
sono
rispettati
quei
requisiti
formali
di
tale
importanza
da
influire
sul
contenuto
dell’atto.
Può
trattarsi
della
violazione
di
:
Forme
relative
al
procedimento
da
seguire
per
l’emanazione
dell’atto
=>
es.
obbligo
di
consultazione
del
Parlamento
o
del
Consiglio
economico
e
sociale,
etc.;
Obbligo
di
motivazione,
prescritto
in
termini
generali
dall’art.
296.
Il
difetto
di
motivazione
è
considerato
d’ordine
pubblico,
rilevabile,
in
quanto
tale,
d’ufficio.
L’obbligo
di
motivazione
risulta
violato
quando
la
motivazione
è
del
tutto
assente,
oppure
quando
è
insufficiente.
L’estensione
che
la
motivazione
deve
assumere,
varia
in
ragione
della
natura
dell’atto
in
questione
=>
se
l’atto
è
destinato
ad
avere
effetti
individuali
(es.
decisioni),
la
motivazione
dovrà
essere
più
precisa
e
dettagliata
che
per
un
atto
destinato
ad
operare
con
efficacia
generale
(es.
regolamento
o
direttiva).
Si
deve
tener
conto
anche
del
contesto
in
cui
l’atto
è
stato
adottato.
• Violazione
dei
trattati
o
di
qualsiasi
regola
di
diritto
relativa
alla
loro
applicazione
=>
è
il
vizio
più
frequentemente
invocato
=>
esso
ingloba
anche
l’incompetenza
e
la
violazione
di
forme
sostanziali.
Il
vizio
è
espressione
del
principio
della
gerarchia
delle
fonti
dell’Unione
e
può
riguardare
la
violazione
di
qualunque
norma
giuridica
che
sia
da
considerare
superiore,
rispetto
all’atto
impugnato,
compresi
i
principi
generali,
i
diritti
fondamentali,
i
principi
del
diritto
internazionale
generale
e
gli
accordi
internazionali.
64
• Sviamento
di
potere
=>
si
ha
quando
un’istituzione
emana
un
atto
che
ha
il
potere
di
deliberare
perseguendo
però
scopi
diversi
da
quelli
per
i
quali
il
potere
le
è
stato
attribuito.
=>
Vizio
riscontrabile
in
casi
molto
rari.
TERMINE
DI
RICORSO
=
2
MESI
(art.
263,
co.
5°)
=>
Esso
decorre:
• Dalla
pubblicazione
sulla
GU,
se
l’atto
è
stato
pubblicato;
• Dalla
notificazione,
se
l’atto
è
stato
notificato;
• In
mancanza
di
pubblicazione
o
notifica
=>
dal
giorno
in
cui
il
ricorrente
ha
avuto
conoscenza
dell’atto.
EFFICACIA
DELLE
SENTENZE
DI
ANNULLAMENTO
(art.
264
TFUE):
Art.
264,
co.
1°
=>
pone
la
regola
generale
=>
“se
il
ricorso
è
fondato,
la
Corte
di
giustizia
dichiara
nullo
e
non
avvenuto
l’atto
impugnato”.
=>
la
sentenza
ha
portata
generale
e
retroattiva
=>
l’atto
è
nullo
erga
omnes
e
la
nullità
retroagisce
al
momento
in
cui
l’atto
è
stato
emanato.
Art.
264,
co.
2°
=>
eccezione
alla
regola
generale
=>
“Tuttavia
la
Corte,
ove
lo
reputi
necessario,
precisa
gli
effetti
dell’atto
annullato
che
devono
essere
considerati
definitivi”
=>
l’eccezione
è
affidata
alla
Corte,
la
quale
può
limitare
discrezionalmente
gli
effetti
della
sentenza
che
annulla
l’atto.
Art.
266
TFUE
=>
“l’istituzione,
l’organo
o
l’organismo
da
cui
emana
l’atto
annullato
sono
tenuti
a
prendere
i
provvedimenti
che
l’esecuzione
della
sentenza
della
Corte
di
giustizia
dell’Unione
comporta”.
Tale
obbligo
vale,
in
particolare,
nel
caso
in
cui
il
mero
annullamento
per
effetto
della
sentenza
della
Corte
si
riveli
insufficienti.
Controllo
esercitato
dalla
Corte
sugli
atti
delle
istituzioni
(in
base
all’art.
263)
=>
controllo
di
mera
legittimità.
La
Sentenza
si
limita
ad
annullare
l’atto,
qualora
sia
riscontrata
l’esistenza
di
un
vizio
di
legittimità
e
il
ricorso
venga
accolto.
Art..
261
TFUE
=>
regolamenti
adottati
congiuntamente
dal
Parlamento
e
dal
Consiglio
o
dal
solo
Consiglio
possono
attribuire
alla
Corte
di
giustizia,
anche
una
competenza
di
merito
limitata
al
riesame
delle
sanzioni
previste
nel
regolamento
stesso.
In
casi
del
genere
=>
la
Corte
dispone
del
potere
di
modificare
l’ammontare
della
sanzione.
4.Il
ricorso
in
carenza.
Art.
265
TFUE
=>
altra
forma
di
controllo
giurisdizionale
della
legittimità
del
comportamento
delle
istituzioni.
OGGETTO
DEL
CONTROLLO
=
comportamento
omissivo
(CARENZA),
che
si
assume
illegittimo,
perché
tenuto
in
violazione
di
un
obbligo
di
agire,
previsto
dai
trattati.
Presupposti
del
ricorso
sono:
• Esistenza
di
un
obbligo
di
agire
a
carico
dell’istituzione
in
causa;
• Violazione
dell’obbligo
stesso.
È
necessario
un
Obbligo
d’agire
=>
è
escluso
che
si
possa
ricorrere
in
carenza
contro
l’omissione
di
atti,
la
cui
adozione
affidata
alla
discrezionalità
delle
istituzioni.
Violazione
di
un
obbligo
di
agire
=>
può
essere
fatta
valere
tramite
un
ricorso
ai
sensi
dell’art.
265
a
condizione
che:
• L’istituzione,
l’organo
o
l’organismo
in
causa
siano
stati
previamente
richiesti
di
agire;
• Sia
scaduto
un
termine
di
due
mesi
da
tale
richiesta,
senza
che
l’istituzione
abbia
preso
posizione.
In
mancanza
=>
il
ricorso
non
è
ricevibile.
Art.
265
=>
prevede
una
fase
precontenzionsa
obbligatoria.
La
richiesta
d’agire
(messa
in
mora
o
diffida)
dev’essere
formulata
in
maniera
tale
che
l’istituzione
comprenda
che
rischia
di
subire
la
presentazione
di
un
ricorso.
Deve
indicare
con
chiarezza
i
provvedimenti
che
l’istituzione
è
richiesta
di
adottare.
Per
interrompere
la
mora
è
sufficiente
che
l’istituzione
prenda
posizione.
Un
atto
di
contenuto
negativo
ovvero
l’adozione
di
un
atto
di
contenuto
non
coincidente
con
la
richiesta
=>
costituiscono
prese
di
posizioni
ai
sensi
dell’art.
265,
co.
2°.
La
presa
di
posizione
dev’essere
definitiva.
Una
comunicazione
di
carattere
meramente
interlocutorio
lascerebbe
sussistere
la
mora.
Se
l’istituzione
non
prende
posizione
entro
due
mesi
dalla
richiesta
=>
il
soggetto
che
l’ha
formulata
può
presentare
ricorso
alla
Corte
di
giustizia,
entro
ulteriori
2
mesi
(fase
contenziosa).
I
soggetti
contro
i
quali
può
essere
posto
un
ricorso
in
carenza
(legittimazione
passiva)
sono:
• Parlamento
Europeo,
Consiglio
europeo,
Consiglio,
Commissione,
BCE;
• Organi
e
organismi
dell’Unione.
I
soggetti
che
possono
adire
il
giudice
comunitario
(legittimazione
attiva)
sono
distinti
in
2
categorie:
65
• Ricorrenti
privilegiati
=>
Stati
membri
e
altre
istituzioni
=>
dispongono
di
un
diritto
di
ricorso
ampio
e
non
soggetto
a
limitazioni,
attinenti
all’interesse
a
ricorrere
o
al
tipo
di
carenza
contestata
.
• Ricorrenti
non
privilegiati
=>
ogni
persona
fisica
o
giuridica
=>
dispongono
di
un
diritto
di
ricorso
limitato.
Se
il
ricorso
viene
accolto
=>
il
giudice
comunitario
emana
una
sentenza
di
accertamento
=>
la
sentenza
fa
sorgere
a
carico
dell’istituzione
un
obbligo
di
agire
=>
si
applica
l’art.
266,
co.1°.
5.Il
ricorso
per
il
risarcimento
di
danni.
Art.
268
TFUE
=>
la
Corte
di
giustizia
è
competente
a
conoscere
delle
controversie,
relative
al
risarcimento
dei
danni
di
cui
all’art.
340,
co.2°-‐3°.
L’art.
340
co.
2°
recita
:
“in
materia
di
responsabilità
extra-contrattuale,
l’Unione
deve
risarcire
i
danni
cagionati
dalle
sue
istituzioni
o
dai
suoi
agenti
nell’esercizio
delle
loro
funzioni”.
La
competenza
della
Corte
di
giustizia
è
limitata
a
danni
derivanti
da
responsabilità
extracontrattuale.
Per
quanto
riguarda
la
responsabilità
contrattuale
dell’UE,
la
competenza
della
Corte
di
giustizia
può
essere
prevista
da
una
clausola
compromissoria
inserita
nel
contratto.
Si
è
tentato
di
assimilare
il
ricorso
per
risarcimento
al
ricorso
d’annullamento
e
a
quello
in
carenza,
sostenendo
che
esso
mira
all’eliminazione
degli
effetti
giuridici
di
un
atto
o
di
un
comportamento
omissivo
delle
istituzioni.
Obiettivo
=>
estendere
al
ricorso
per
risarcimento
le
condizioni
di
ricevibilità
restrittive,
previste
dagli
artt.
263,
co.
4°,
e
265,
co.3°.
La
Corte
non
si
è
prestata
a
tale
manovra
=>
ha
insistito
sul
fatto
che
il
ricorso
per
risarcimento
è
concepito
dal
trattato
come
un
rimedio
autonomo,
dotato
di
una
propria
funzione,
che
lo
distingue
dalle
altre
azioni
esperibili.
Quindi,
sarebbe
in
contrasto
con
tale
autonomia
il
considerare
come
causa
di
irricevibilità
il
fatto
che,
in
determinate
circostanze,
l’esercizio
dell’azione
di
danni
può
avere
conseguenze
analoghe
a
quelle
dell’azione
in
carenza,
contemplata
dall’art.
268
TFUE.
È
stato
necessario
distinguere
il
ricorso
per
risarcimento
dalle
azioni
che
i
soggetti
interessati
possono
esperire
davanti
ai
giudici
degli
stati
membri.
Criterio
distintivo
=>
è
legato
all’oggetto
della
pretesa
del
singolo
e
alla
disponibilità
di
un’azione
da
proporre
dinanzi
ai
giudici
nazionali,
che
sia
in
grado
di
soddisfare
la
pretesa
stessa.
Se
è
possibile
un’azione
del
genere
=>
la
competenza
della
corte
(art.268)
è
esclusa.
Il
ricorso
per
risarcimento
si
configura
come
un
rimedio
residuale,
rispetto
alla
tutela
che
possono
offrire
i
giudici
nazionali.
I
presupposti
della
responsabilità
extracontrattuale
della
comunità
non
sono
definiti
dai
trattati,
ma
devono
essere
tratti
dai
principi
generali,
comuni
ai
diritti
degli
Stati
membri.
Tali
presupposti
sono
3:
• Danno;
• Illegittimità
del
comportamento
delle
istituzioni;
• Nesso
di
causalità
tra
il
danno
e
il
comportamento.
A
questi
se
ne
aggiungono
2,
qualora
il
comportamento
delle
istituzioni
consista
nell’esercizio
di
poteri
caratterizzati
da
discrezionalità
e
nell’adozione
di
atti
normativi
implicanti
scelte
di
politica
economica.
In
questi
casi
è
necessario
che:
• La
norma
violata
dalle
istituzioni
sia
preordinata
a
conferire
diritti
ai
singoli.
• La
violazione
di
tale
norma
sia
sufficientemente
caratterizzata
e
cioè
si
tratti
di
una
violazione
grave
e
manifesta.
La
giurisprudenza
è
stata
chiamata
a
decidere
se
in
alcuni
casi
sia
possibile
prescindere
dal
presupposto
dell’illegittimità
del
comportamento
che
ha
provocato
il
danno,
quindi
se
alle
istituzioni
possa
essere
eccezionalmente
imputata
una
responsabilità
da
attività
illecita
(responsabilità
senza
colpa).
Il
diritto
al
risarcimento
dei
danni
è
soggetto
a
un
termine
di
prescrizione
di
5
anni,
a
decorrere
dal
momento
in
cui
avviene
il
fatto
che
da
loro
origine.
6.La
competenza
pregiudiziale:
concetti
generali.
Art.
267
TFUE
=>
la
Corte
di
giustizia
può
essere
chiamata
a
pronunciarsi
in
via
pregiudiziale
sulle
questioni
riguardanti
il
diritto
dell’Unione,
che
si
pongono
nell’ambito
di
un
giudizio
istaurato
davanti
a
un
organo
giurisdizionale
di
uno
degli
stati
membri.
In
base
alla
competenza
pregiudiziale,
la
Corte
conosce
le
questioni
di
diritto
dell’Unione
solo
dopo
il
rinvio
operato
da
un
giudice
nazionale,
nell’ambito
di
un
giudizio
iniziato
e
destinato
a
concludersi
dinanzi
allo
stesso
giudice
nazionale.
Quest’ultimo
richiede
alla
Corte
di
pronunciarsi
su
determinate
questioni,
perché
reputa
necessaria,
per
emanare
la
sua
sentenza,
una
decisione
su
questo
punto.
Quindi,
la
pronuncia
della
Corte
ha
natura
pregiudiziale,
in
66
senso
temporale
perché
precede
la
sentenza
del
giudice
nazionale
e
in
senso
funzionale,
perché
è
strumentale
rispetto
all’emanazione
di
tale
sentenza.
La
competenza
di
cui
all’art.
267
è
una
competenza
indiretta,
in
quanto
l’iniziativa
di
rivolgersi
alla
Corte
è
assunta
dal
giudice
nazionale.
Essa
è
anche
una
competenza
limitata,
in
quanto
la
Corte
può
esaminare
solo
le
questioni
di
diritto
dell’Unione
sollevate
dal
giudice
nazionale.
Le
ragioni
che
hanno
condotto
ad
inserire
una
competenza
di
tipo
pre-‐giudiziale
sono:
• Sistema
decentralizzato
di
applicazione
del
diritto
dell’Unione
=>
il
compito
di
applicare
tale
normativa,
ai
soggetti
degli
ordinamenti
interni
è
affidato
all’autorità
di
ciascuno
Stato
membro.
• Efficacia
diretta
=>
di
cui
sono
dotate
le
norme
dell’UE,
che
rendono
frequenti
le
controversie
tra
privati
o
tra
privati
e
autorità
pubblica,
intorno
all’applicazione
del
diritto
dell’Unione.
Lo
scopo
di
quanto
disciplinato
dall’art.
267
è
duplice:
• Tende
ad
evitare
che
ciascun
giudice
nazionale
interpreti
e
verifichi
la
validità
delle
norme
dell’Unione
in
maniera
autonoma,
con
il
rischio
di
infrangere
l’unitarietà
del
diritto
dell’Unione;
• Mira
ad
offrire
ai
giudici
nazionali
uno
strumento
di
collaborazione
per
superare
le
difficoltà
interpretative
che
il
diritto
dell’UE
può
sollevare.
7.Segue:
ammissibilità
e
rilevanza
della
questione
pregiudiziale.
La
competenza
pregiudiziale
è
uno
strumento
di
cooperazione
tra
i
giudici
nazionali
e
la
Corte
di
giustizia.
Non
si
può
dire
che
esista
una
gerarchia,
per
cui
i
giudici
nazionali
sarebbero
in
qualche
modo
subordinati
alla
Corte.
Ciò
spiega
perché
la
Corte
non
eserciti
alcun
tipo
di
controllo
sulla
competenza
del
giudice
nazionale
a
conoscere
del
giudizio
nel
cui
ambito
le
questioni
pregiudiziali
sono
state
sollevate,
ovvero
sulla
regolarità
del
giudizio
stesso
e
del
provvedimento
di
rinvio.
La
Corte
ha
posto
dei
requisiti
riguardanti
il
contenuto
del
provvedimento
di
rinvio.
La
Corte
richiede
che,
nelle
questioni
legate
alla
concorrenza,
il
giudice
nazionale
definisca
l’ambito
di
fatto
e
di
diritto
in
cui
si
inseriscono
le
questioni
sollevate.
In
mancanza
di
sufficienti
indicazioni
a
riguardo,
la
Corte
non
potrebbe
giungere
a
un’interpretazione
del
diritto
comunitario
che
sia
utile
per
il
giudice
nazionale
e
si
riserva
la
possibilità
di
non
rispondere
alle
questioni
pre-‐giudiziali.
La
Corte
non
verifica
la
necessità
del
rinvio
e
la
rilevanza
delle
questioni
di
diritto
dell’Unione,
rispetto
alla
soluzione
del
caso
pendente
davanti
al
giudice
nazionale.
Anche
i
giudici
di
ultima
istanza
dispongono,
secondo
la
Corte,
dello
stesso
potere
di
valutazione
di
tutti
gli
altri
giudici
nazionali,
nello
stabilire
se
sia
necessaria
una
pronuncia
sul
punto
di
diritto
comunitario,
onde
consentire
loro
di
decidere.
Inizialmente,
la
Corte
riteneva
che
spettasse
solo
al
giudice
nazionale
valutare
la
necessità
del
rinvio
e
la
rilevanza
delle
questioni
pregiudiziali.
Successivamente
=>
in
seguito
a
un
uso
improprio
e
abusivo
del
rinvio
pregiudiziale,
la
Corte
si
è
riservata
il
potere
di
verificare
la
rilevanza
delle
questioni
pregiudiziali,
al
fine
di
controllare
se
essa
sia
competente
a
rispondere
e
se
non
sussista
alcuna
delle
ipotesi
patologiche,
individuate
dalla
giurisprudenza.
Tali
ipotesi
sono:
• Questioni
poste
nell’ambito
di
controversie
fittizie
=>
le
parti
sono
d’accordo
tra
di
loro
sull’interpretazione
da
dare
alle
norme
dell’Unione
e
vogliono
ottenere
una
pronuncia
della
Corte
che
abbia
efficacia
erga
omnes.
• Questioni
manifestatamente
irrilevanti,
in
cui
la
norma
dell’Unione,
oggetto
della
questione
pregiudiziale,
è
manifestatamente
inapplicabile
alla
fattispecie
del
giudizio
nazionale.
• Questioni
puramente
ipotetiche,
così
definite
in
ragione
della
loro
genericità
o
del
fatto
che
non
rispondono
ad
un
effettivo
bisogno
del
giudice
nazionale,
in
vista
della
soluzione
della
controversia.
Attualmente,
la
Corte,
parte
da
una
sorta
di
presunzione
di
rilevanza,
cioè
considera
che,
qualora
le
questioni
sollevate
dal
giudice
nazionale
vertano
sull’interpretazione
di
una
norma
comunitaria,
in
via
di
principio
la
Corte
è
tenuta
a
statuire,
la
Corte
si
accontenta
che
il
giudice
nazionale
abbia
indicato
i
motivi
che
lo
inducono
a
ritenere
necessaria
la
risposta
alle
questioni
pregiudiziali.
8.Segue:
la
nozione
di
giurisdizione.
La
competenza
pregiudiziale
può
essere
attivata
solo
da
un
organo
che
può
essere
definito
come
organo
giurisdizionale
di
uno
degli
Stati
membri.
La
Corte
verifica
che
tale
organo
rientri
in
tale
nozione,
considerandola
come
una
nozione
autonoma
e
non
necessariamente
coincidente
con
le
definizioni
ricavabili
dagli
ordinamenti
degli
Stati
membri.
Requisiti:
67
• L’organo
nazionale
deve
svolgere
una
funzione
giurisdizionale
=>
è
chiamato
a
statuire,
nell’ambito
di
un
procedimento
destinato
a
risolversi
in
una
pronuncia
di
carattere
giurisdizionale;
Nei
casi
dubbi
devono
essere
verificati
altri
requisiti:
• Origine
legale
dell’organo
=>
in
riferimento
a
questo
requisito
l’atteggiamento
della
Corte
è
rigoroso,
con
particolare
riferimento
al
caso
degli
arbitri,
ai
quali
ha
negato
il
potere
di
sollevare
questioni
pregiudiziali.
Unica
eccezione
ammessa
=>
casi
di
arbitrato
obbligatorio,
quando
le
parti
sono
tenute
per
legge
a
sottoporre
ad
arbitrato
le
proprie
controversie
in
una
determinata
materia.
• Carattere
permanente
dell’organo;
• Obbligatorietà
della
sua
giurisdizione;
• Natura
contraddittoria
del
procedimento;
• Applicazione
di
norme
giuridiche
e
indipendenza
dell’organo.
9.Segue:
facoltà
e
obbligo
di
rinvio.
La
posizione
dei
giudici
nazionali,
rispetto
al
rinvio
pregiudiziale,
varia
a
seconda
che
essi
emettano
decisioni
contro
le
quali
sia
possibile
proporre
un
ricorso
giurisdizionale
di
diritto
interno,
oppure
no.
Nel
primo
caso
=>
il
rinvio
è
oggetto
di
una
facoltà.
Nel
secondo
=>
il
giudice
è
sottoposto
a
un
obbligo
di
rinvio.
La
ratio
della
distinzione
è
duplice:
• Nel
caso
di
un
giudizio
di
ultima
istanza
=>
un
errore
del
giudice
resterebbe
senza
rimedio
=>
l’obbligo
di
rinvio
del
giudice
di
ultima
istanza
costituisce
l’estrema
forma
di
tutela
offerta
ai
soggetti
interessati
alla
corretta
applicazione
giudiziaria
del
diritto
dell’Unione;
• L’erronea
soluzione
data
da
un
giudice
di
ultima
istanza
rischia
di
essere
accolta
in
altre
pronunce
giudiziarie
e
di
consolidarsi
per
effetto
del
principio
dello
stare
decisis
degli
ordinamenti
di
common
law
o
come
conseguenza
della
diffusione
di
cui
godono
le
sentenze
di
tali
giudici.
La
nozione
di
giudice
di
ultima
istanza
(art.
267,
co.3°),
dipende
dalla
possibilità
di
proporre
un’impugnazione
contro
le
decisioni
del
giudice.
Per
stabilire
se
vi
sia
la
possibilità
di
proporre
un
ricorso
giurisdizionale
di
diritto
interno,
vanno
presi
in
considerazione
solo
i
rimedi
ordinari.
La
facoltà
di
rinvio
che
spetta
ai
giudici
nazionali
implica
che
essi
sono
liberi
di
scegliere
se
sollevare
o
meno
le
questioni
di
diritto
dell’Unione
davanti
alla
Corte
di
giustizia,
indipendentemente
dalla
richiesta
delle
parti
e,
cioè,
anche
d’ufficio.
Tale
libertà
si
estende
alla
scelta
del
momento
in
cui
effettuare
il
rinvio.
Nell’interpretare
la
portata
dell’obbligo
di
rinvio
a
carico
dei
giudici
di
ultima
istanza,
la
Corte
ha
introdotto
alcuni
elementi
di
flessibilità.
Vi
sono
alcune
ipotesi
in
cui
il
rinvio
può
essere
omesso
=>
si
può
parlare
di
facoltà
di
rinvio
anche
per
i
giudici
di
ultima
istanza:
• Quando
la
questione
è
materialmente
identica
ad
altra
questione,
sollevata
in
relazione
ad
analoga
fattispecie,
che
sia
stata
già
decisa
in
via
pregiudiziale.
• Quando
la
risposta
da
dare
alle
questioni
risulta
dalla
giurisprudenza
costante
della
Corte,
che
risolve
il
punto
di
diritto
litigioso,
anche
in
mancanza
di
una
stretta
identità
tra
le
materie
del
contendere.
• Quando
la
corretta
applicazione
del
diritto
dell’Unione
si
impone
con
evidenza,
da
non
lasciare
adito
ad
alcun
dubbio
sulla
soluzione
da
dare
alla
questione
sollevata
(ipotesi
dell’
“atto
chiaro”).
Delle
tre
ipotesi
in
cui
l’obbligo
di
rinvio
viene
meno,
quella
dell’atto
chiaro
è
quella
che
si
presta
a
maggiori
abusi.
La
Corte
precisa
che
al
giudice
di
ultima
istanza
è
obbligatorio
procedere
alle
seguenti
verifiche:
• Convincersi
che
la
stessa
soluzione
si
imporrebbe
anche
ai
giudici
degli
altri
stati
membri
e
alla
Corte
di
giustizia;
• Raffrontare
le
diverse
versioni
linguistiche
delle
norme
dell’Unione;
• Tenere
conto
della
non
necessaria
coincidenza
tra
il
significato
di
una
stessa
nozione
giuridica
nel
diritto
dell’Unione
e
nel
diritto
interno;
• Ricollocare
la
norma
nel
suo
contesto
e
alla
luce
delle
sue
finalità.
La
distinzione
tra
giudici
di
ultima
istanza
e
giudici
delle
istanze
inferiori
è
stata
attenuata
introducendo
un’ipotesi
di
obbligo
di
rinvio
anche
per
i
giudici
non
di
ultima
istanza,
che
riguarda
le
questioni
pregiudiziali
di
validità.
La
corte
ha
negato
che
un
giudice
possa
autonomamente
accertare
l’invalidità
di
un
atto
delle
istituzioni.
68
Art.
68
TCE
=>
limitava
ai
giudici
di
ultima
istanza
il
potere
di
rinviare
questioni
pregiudiziali
alla
Corte
di
giustizia,
per
i
settori
del
titolo
IV
(visti,
asilo,
immigrazione…)
=>
è
stato
soppresso.
Per
queste
materie
vale
la
disciplina
dell’art.
267
TFUE.
10.Segue:
l’oggetto
delle
questioni
pregiudiziali.
Dall’art.
267
risulta
che
la
competenza
pregiudiziale
della
Corte
può
riguardare
questioni
di
interpretazione
e
questioni
di
validità.
Le
questioni
pregiudiziali
di
interpretazione
possono
avere
ad
oggetto:
• Trattati
=>
bisogna
intendere
il
testo
del
TUE
e
TFUE
+
protocolli
e
allegati
(tenendo
conto
di
emendamenti
e
adattamenti
apportati
in
occasione
dell’adesione
di
nuovi
Stati
membri)
+
atti
di
adesione.
• Atti
compiuti
dalle
istituzioni
dagli
organi
e
dagli
organismi
dell’Unione
=>
comprendono
atti
di
cui
all’art.
288
TFUE,
incluse
le
raccomandazioni
e
i
pareri,
ma
anche
atti
atipici,
gli
accordi
internazionali
e
gli
atti
privi
di
efficacia
diretta.
Le
questioni
pregiudiziali
di
validità
possono
avere
ad
oggetto
solo
gli
atti
compiuti
dai
soggetti
suddetti.
Art.
267
=>
esclude
che
la
Corte
possa
procedere
all’applicazione
di
norme
dell’Unione
alla
fattispecie
oggetto
del
giudizio
pendente
davanti
al
giudice
nazionale.
=>
contrappone
l’interpretazione
all’applicazione
del
diritto
dell’Unione
e
attribuisce
alla
Corte
solo
la
prima
funzione,
riservando
la
seconda
al
giudice
nazionale.
La
Corte
non
può
procedere
all’interpretazione
di
norme
degli
Stati
membri
o
pronunciarsi
sull’incompatibilità
di
una
norma
nazionale,
con
norme
dell’Unione.
Questi
compiti
spettano
al
giudice
nazionale.
L’analogia
con
il
ricorso
d’annullamento
comporta
che
oggetto
di
una
questione
pregiudiziale
di
validità
possano
essere
tutti
gli
atti,
contro
i
quali
si
può
proporre
un
ricorso,
ai
sensi
dell’art.
263.
Una
questione
di
validità
può
essere
proposta
anche
a
distanza
di
anni
dall’entrata
in
vigore
dell’atto
in
causa.
11.Segue:
il
valore
delle
sentenze
pregiudiziali.
La
sentenza
della
Corte
ha
un
valore
generale,
quindi
qualunque
giudice
nazionale
si
trovi
a
dover
risolvere
questioni
in
merito
alle
quali
la
Corte
si
è
già
pronunciata
mediante
sentenza
pregiudiziale
deve
adeguarsi
a
tale
sentenza.
Il
valore
generale
delle
sentenze
pregiudiziali
di
interpretazione
si
evince
dall’art.
267,
co.
3°.
Le
sentenze
pregiudiziali
di
validità
dichiarano
l’invalidità
di
un
atto
delle
istituzioni
e
hanno
valore
retroattivo.
Il
valore
retroattivo
delle
sentenze
della
Corte,
rese
a
titolo
pregiudiziale,
va
conciliato
con
il
principio
generale
della
certezza
del
diritto
=>
un
soggetto
che
non
abbia
agito
in
giudizio
entro
il
termine
previsto
dall’ordinamento
a
tale
fine,
scaduto
tale
termine,
non
può
invocare
una
sentenza
pregiudiziale
emessa
dalla
Corte,
a
meno
che
il
termine
in
questione
non
sia
irragionevole.
La
Corte
si
riserva
il
potere
di
limitare
nel
tempo
la
portata
delle
proprie
sentenze
pregiudiziali,
tanto
interpretative.
La
Corte,
anche
in
seguito
ad
alcune
prese
di
posizione
assunte
dai
giudici
nazionali,
fa
salva
la
possibilità
di
invocare
la
sentenza
pregiudiziale
da
parte
di
coloro
che
abbiano
posto
un’azione
giudiziaria
o
un
richiamo
equivalente
prima
della
sentenza
stessa.
PARTE
VI
LE
COMPETENZE
DELL’UNIONE
EUROPEA
1.Considerazioni
generali
in
materia
di
competenza:
il
principio
d’attribuzione.
Problema
di
come
vanno
delimitate
e
qualificate
le
competenze
dell’Unione
europea
si
è
posto
per
quanto
riguarda
la
CE.
La
CE
=>
era
caratterizzata
da
un’impostazione
sovranazionale,
che
la
rendeva
molto
autonoma
rispetto
agli
altri
Stati
membri.
Essi
non
sempre
riuscivano
a
controllarne
i
processi
decisionali.
Grande
era
pertanto
il
rischio
che
si
verificasse
una
strisciante
estensione
delle
competenze
della
Comunità
(cd.
Competence
creep),
senza
passare
attraverso
la
procedura
di
revisione
dei
trattati
di
cui
all’art.
48
TUE
e
privando
così
gli
Stati
membri
del
loro
potere
nazionale
di
veto.
Il
problema
della
delimitazione
delle
competenze
è
stato
affrontato,
a
partire
dal
Trattato
di
Maastricht,
con
riferimento
al
TCE.
In
tale
trattato
è
stato
inserito
l’art.5,
nel
quale
venivano
enunciati
alcuni
principi
generali
in
materia:
• Principio
di
attribuzione;
• Principio
di
sussidiarietà;
• Principio
di
proporzionalità.
69
Si
è
avvertita
l’esigenza
di
arrivare
ad
una
disciplina
di
più
ampia
portata
da
dedicare
al
problema
delle
competenze.
Il
Trattato
di
Lisbona
ha
rafforzato
lo
status
dei
principi
di
attribuzione,
sussidiarietà
e
di
proporzionalità,
erigendoli
a
principi
applicabili
all’intera
Unione
e
incorporandoli
in
uno
dei
primi
articoli
del
TUE,
l’art.5.
Il
Trattato
di
Lisbona
codifica
e
chiarisce
la
distinzione
tra
le
varie
categorie
di
competenze
dell’Unione
e
fornisce
una
loro
elencazione
per
categoria.
PRINCIPIO
D’ATTRIBUZIONE
(o
della
competenza
d’attribuzione):
• UE
=
ente
a
finalità
e
competenza
generali;
• L’UE
può
agire
solo
nei
settori
in
cui
ciò
sia
contemplato
dai
trattati
e
soltanto
per
gli
obiettivi
che
i
trattati
stessi
indicano.
• Art.
5,
par.1,
TUE
=>
centralità
del
principio
d’attribuzione
=>
“la
delimitazione
delle
competenze
dell’Unione
si
fonda
sul
principio
di
attribuzione.”.
Art.5,
par.2,
TUE
=>
“In
virtù
del
principio
di
attribuzione,
l’Unione
agisce
esclusivamente
nei
limiti
delle
competenze
che
le
sono
attribuite
dagli
Stati
membri
nei
trattati
per
realizzare
gli
obiettivi
da
questi
stabiliti”.
• Carattere
derivato
delle
competenze
dell’Unione
=>
art.
1,
co.1°,
TUE
=>
“con
il
presente
trattato
le
Alte
Parti
Contraenti
istituiscono
tra
di
loro
un’Unione
europea,
alla
quale
gli
Stati
membri
attribuiscono
competenze
per
conseguire
i
loro
obiettivi
comuni”.
• Specialità
delle
competenze
dell’Unione
rispetto
a
quelle
degli
Stati
membri
=>
art.5,
par.2.
LA
COMPETENZA
DELL’UNIONE
NON
SI
PRESUME
(è
speciale)
=>
REGOLA
GENERALE
=
COMPETENZA
DEGLI
STATI
MEMBRI.
• Base
giuridica
=>
è
richiesta
da
principio
di
attribuzione
per
ciascun
atto
dell’Unione.
• Teoria
dei
poteri
impliciti
=>
la
Corte
di
giustizia
ha
ammesso
che
pur
in
mancanza
di
un’espressa
attribuzione
di
poteri,
l’Unione
possa
essere
considerata
competente
quando
l’esercizio
di
un
certo
potere
risulti
indispensabile
per
l’esercizio
di
un
potere
espressamente
previsto
ovvero
per
il
raggiungimento
degli
obiettivi
dell’ente.
=>
questa
teoria
ha
trovato
applicazione
nella
giurisprudenza
della
Corte
tutte
le
volte
che
questa
ha
interpretato
estensivamente
i
poteri
delle
istituzioni
e,
per
converso,
limitatamente
ai
poteri
residui
degli
Stati
membri,
pur
in
assenza
di
un
preciso
dato
testuale
in
questo
senso.
Casi
più
celebri
=>
affermazione
della
competenza
comunitaria
a
stipulare
accordi
internazionali
in
materia
di
trasporti,
nonostante
la
mancanza
di
un’esplicita
previsione
al
riguardo,
in
forza
del
cd.
Principio
del
parallelismo
dei
poteri
interni
ed
esterni.
• Clausola
di
flessibilità
=
parziale
deroga
al
principio
della
competenza
d’attribuzione,
prevista
dai
trattati
stessi,
attraverso
l’art.352,
par.1,
TFUE.
Ciò
dimostra
come
gli
Stati
membri
siano
coscienti
dell’impossibilità
di
definire
in
anticipo
e
con
esattezza
i
poteri
di
cui
l’Unione
potrebbe
aver
bisogno
per
raggiungere
i
suoi
fini
complessi
e
variegati.
• Procedura
=
è
delle
più
solenni.
È
sempre
prevista
una
deliberazione
del
Consiglio
all’unanimità,
su
proposta
della
Commissione,
previa
approvazione
del
P.E..
Inoltre,
qualora
si
intendesse
adottare
un
atto
legislativo,
si
seguirà
una
procedura
legislativa
speciale
dello
stesso
tipo.
Dal
punto
di
vista
sostanziale
=>
occorre
che
siano
soddisfatte
numerose
e
complesse
condizioni:
1. La
nuova
azione
deve
apparire
“necessaria
nel
quadro
delle
politiche
definite
dai
trattati
per
realizzare
uno
degli
obiettivi
di
cui
ai
trattati”;
2. “senza
che
questi
ultimi
abbiano
previsto
i
poteri
di
azione
richiesti
a
tal
fine”;
3. La
nuova
azione
non
può
“comportare
un’armonizzazione
delle
disposizioni
legislative
e
regolamentari
degli
Stati
membri
nei
casi
in
cui
i
trattati
lo
escludono”;
4. E
non
può
servire
per
il
conseguimento
di
obiettivi
riguardanti
la
PESC.
PRIMA
CONDIZIONE
=>
NECESSITA’
DELL’AZIONE
=>
notevole
margine
di
discrezionalità
in
favore
delle
istituzioni.
La
vastità
degli
scopi
previsti
dall’art.3
TUE,
è
tale
che
qualsiasi
azioni
potrebbe
essere
agevolmente
collegata
con
essi,
qualora
ce
ne
fosse
la
volontà
politica.
SECONDA
CONDIZIONE
=>
MANCATA
PREVISIONE
DI
ADEGUATI
POTERI
=>
Una
prima
sentenza
della
Corte
=>
ne
sminuiva
l’importanza,
poiché
era
stato
ritenuto
sufficiente
per
il
ricorso
al
vecchio
art.308
TCE
l’assenza
di
“una
soluzione
abbastanza
efficace”
nell’ambito
del
TCE
e
l’esigenza
di
garantire
la
“certezza
di
diritto”.
Successivamente
=>
la
Corte
ha
mostrato
un
atteggiamento
più
70
restrittivo,
sottolineando
il
carattere
residuale
della
norma
in
esame
ed
escludendone
l’utilizzabilità
ogni
volta
che
il
TCE
prevedeva
una
base
giuridica
alternativa.
TERZA
CONDIZIONE
=>
ESCLUSIONE
DI
MISURE
D’ARMONIZZAZIONE
nei
settori
in
cui
non
sono
previste
=>
mira
ad
impedire
che,
attraverso
misure
approvate
ai
sensi
dell’art.
352,
le
istituzioni
possano
aggirare
un
limite
alla
loro
competenza
espressamente
voluto
dai
trattati.
Art.352
=>
affida
alle
istituzioni
la
scelta
del
tipo
di
atto
da
adottare,
riferendosi
genericamente
a
“le
disposizioni
approvate”.
Nella
prassi
sono
stati
fondati
sulla
norma
in
esame
direttive,
regolamenti
e
anche
accordi
internazionali.
Esistono
limiti
intrinseci
alla
possibilità
di
ricorrere
a
questa
norma?
• Essa
costituisce
un
minus,
rispetto
alla
procedura
di
revisione
di
cui
all’art.
48
TUE;
• Parere
n.2/94,
28
marzo
1996,
della
Corte
=>
il
vecchio
art.
308
TCE
non
poteva
“essere
in
ogni
caso
utilizzato
quale
base
per
l’adozione
di
disposizioni
che
condurrebbero
sostanzialmente,
con
riguardo
alle
loro
conseguenze,
a
una
modifica
del
Trattato
che
sfugga
alla
procedura
prevista
nel
Trattato
medesimo”.
• Quindi
=>
la
norma
in
esame:
Consente
nuove
azioni;
Non
consente
deviazioni
o
deroghe
rispetto
alla
disciplina
materiale
fissata
dagli
stessi
trattati.
Non
sarebbe
possibile
adottare
disposizioni
che
contraddicano
le
regole
relative
alle
4
libertà
di
circolazione.
Stessa
soluzione
negativa
=>
per
il
caso
in
cui
le
disposizioni
che
si
vorrebbero
fondare
sull’art.
352
siano
tali
da
modificare,
sia
pure
indirettamente,
la
struttura
istituzionale
dell’Unione,
come
delineata
dai
Trattati.
• Nuovi
poteri
possono
essere
riconosciuti
all’Unione,
nel
senso
di
consentirle
di
intervenire
in
settori
non
menzionati
espressamente
dai
trattati.
La
Corte
(interpretando
l’art.
308
TCE)
ha
richiesto
che
non
si
vada
“al
di
là
dell’ambito
generale
risultante
dal
complesso
delle
disposizioni
del
Trattato
ed
in
particolare
di
quelle
che
definiscono
i
compiti
e
le
azioni
della
Comunità”.
• Limitazione
al
ricorso
all’art.
352
=>
introduzione
del
principio
di
sussidiarietà
=>
esso
è
applicabile
ogniqualvolta
la
sola
base
giuridica
disponibile
per
l’azione
dell’Unione
è
costituita
dall’art.
352.
In
questi
casi
la
competenza
è
di
tipo
concorrente
e
soggiace
al
principio
in
questione.
2.I
vari
tipi
di
competenza.
Art.
2
TFUE
=>
CATEGORIE
delle
competenze
dell’Unione:
• Competenze
esclusive;
• Competenze
concorrenti;
• Competenze
di
sostegno,
coordinamento
e
completamento
(cd.
Di
terzo
tipo).
Altre
competenza
definita
dall’art.2:
• Competenza
di
coordinamento
nel
campo
delle
politiche
economiche
e
dell’occupazione;
• Competenza
per
definire
ed
attuare
la
PESC.
Art.
2,
par.1,
TUE
=>
competenze
esclusive
=>
“Quando
i
trattati
attribuiscono
all’Unione
una
competenza
esclusiva
in
un
determinato
settore,
solo
l’Unione
può
legiferare
e
adottare
atti
giuridicamente
vincolanti.
Gli
Stati
membri
possono
farlo
autonomamente
solo
se
autorizzati
dall’Unione
oppure
per
dare
attuazione
agli
atti
dell’Unione”.
Caratteristiche
delle
COMPETENZE
ESCLUSIVE:
• Esistenza
del
potere
di
adottare
atti
legislativi
o
vincolanti
in
genere
soltanto
in
capo
all’Unione;
• Assenza
del
potere
di
adottare
atti
del
genere
in
capo
agli
Stati
membri
anche
in
caso
di
inazione
dell’Unione;
• Potere
deli
Stati
membri
di
agire
solo
in
2
casi:
Se
autorizzati
dall’Unione;
Se
si
tratta
di
atti
destinati
a
dare
attuazione
ad
atti
dell’Unione.
Art.
3,
par.1,
TUE
=>
elencazione
(tassativa)
dei
settori
in
cui
l’Unione
ha
competenza
esclusiva.
Settori:
1. Unione
doganale;
2. Definizione
delle
regole
di
concorrenza
necessarie
al
funzionamento
del
mercato
interno;
3. Politica
monetaria
per
gli
Stati
membri
la
cui
moneta
è
l’euro;
4. Conservazione
delle
risorse
biologiche
del
mare
nel
quadro
della
politica
comune
della
pesca;
71
72
• Problemi
comuni
di
sicurezza
in
materia
di
sanità
pubblica,
per
quanto
riguarda
gli
aspetti
definiti
nel
Trattato.
Art.
2,
par.5,
TFUE
=>
Competenze
di
terzo
tipo
=>
“in
taluni
settori
e
alle
condizioni
previste
dai
trattati,
l’Unione
ha
competenza
per
svolgere
azioni
intese
a
sostenere,
coordinare
o
completare
l’azione
degli
Stati
membri,
senza
tuttavia
sostituirsi
alla
loro
competenza
in
tali
settori”.
Caratteristiche
delle
COMPETENZE
DI
TERZO
TIPO:
• La
competenza
dell’Unione
è
esercitata
in
parallelo
con
la
competenza
degli
Stati
membri,
attraverso
azioni
destinate
a
sostenere,
coordinare
o
integrare
quelle
degli
Stati
membri;
• L’esercizio
della
competenza
dell’Unione
non
può
mai
sostituirsi
a
quella
degli
Stati
membri
o
portare
ad
un
suo
progressivo
svuotamento.
Settori
delle
competenze
di
terzo
tipo:
• Tutela
e
miglioramento
della
salute
umana;
• Industria;
• Cultura;
• Turismo;
• Istruzione,
formazione
professionale,
gioventù
e
sport;
• Protezione
civile;
• Cooperazione
amministrativa.
Vanno
ricordate
Competenze
di
coordinamento
in
materia
di
politiche
economiche,
attraverso
l’adozione
di
indirizzi
di
massima,
in
materia
di
politiche
occupazionali,
in
particolare
attraverso
l’adozione
di
orientamenti
e
in
materia
di
politiche
sociali.
Ricorda
la
competenza
nel
settore
PESC.
3.Il
principio
di
sussidiarietà.
Principio
di
sussidiarietà
e
principio
di
proporzionalità
=>
presuppongono
l’esistenza
di
una
competenza
attribuita
all’Unione.
Essi
attengono
all’esercizio
di
una
tale
competenza.
Art.5
TUE
=>
“l’esercizio
delle
competenze
dell’Unione
si
fonda
sui
principi
di
sussidiarietà
e
proporzionalità”.
“In
virtù
del
principio
di
sussidiarietà,
nei
settori
che
non
sono
di
sua
competenza
esclusiva
l’Unione
interviene
soltanto
se
e
in
quanto
gli
obiettivi
dell’azione
prevista
non
possono
essere
conseguiti
in
misura
sufficiente
dagli
Stati
membri,
né
a
livello
centrale,
né
a
livello
regionale
e
locale,
ma
possono,
a
motivo
della
portata
o
degli
effetti
dell’azione
in
questione,
essere
conseguiti
meglio
a
livello
di
Unione”.
Art.5,
par.3,
TUE
=>
campo
d’applicazione
del
principio
di
sussidiarietà.
Vale
soltanto
nei
settori
che
non
sono
di
competenza
esclusiva
dell’Unione.
Sono
soggette
all’applicazione
del
principio
in
esame:
• Competenze
concorrenti;
• Competenze
del
terzo
tipo
(sostegno,
coordinamento
e
completamento);
• Competenze
di
coordinamento
di
cui
all’art.
4
e
quelle
relative
alla
PESC.
Principio
di
sussidiarietà
=
garanzia
per
gli
Stati
membri
che
le
loro
competenze
in
settori
di
competenza
concorrente
dell’Unione
non
vengano
limitate
o
addirittura
cancellate
quando
ciò
non
si
giustifichi
in
relazione
alla
maggiore
efficienza
dell’azione
dell’Unione
rispetto
a
quella
autonoma
degli
Stati
membri.
Principio
di
sussidiarietà
=
principio
neutrale
=>
consente
di
dare
la
preferenza
all’azione
statale
ovvero
a
quella
dell’Unione
sulla
base
di
un
giudizio
di
efficienza
relativa.
=>
il
principio
di
sussidiarietà
esprime
un
favor
per
l’azione
statale.
Garanzie
procedurali
per
favorire
il
rispetto
del
p.
di
sussidiarietà:
• Protocollo
n.2
sull’applicazione
dei
principi
di
sussidiarietà
e
di
proporzionalità.
A
ciascun
Parlamento
nazionale
o
camera
di
esso
è
attribuito
il
potere
di
formulare,
entro
otto
settimane
dalla
trasmissione
di
un
progetto
di
atto
legislativo,
un
parere
motivato
di
non
conformità
del
progetto
di
sussidiarietà.
A
ciascuna
camera
parlamentare
sarà
assegnato
un
voto;
ai
parlamenti
unicamerali
spetteranno
2
voti.
Espressione
in
senso
negativo
di
parlamenti
o
camere
parlamentari
che
rappresentino
almeno
1/3
dei
voti
disponibili,
il
progetto
dev’essere
riesaminato
dal
suo
autore,
con
possibilità
di
mantenerlo,
modificarlo
o
ritirarlo,
ma
con
obbligo
di
specifica
motivazione.
73
74
75
DELL’INTEGRAZIONE.
Art.
3,
par.
3,
TUE
=>
la
liberalizzazione
degli
scambi
all'interno
del
mercato
unico
deve
conciliarsi
con
altre
esigenze
=>
“L'unione
instaura
un
mercato
interno,
si
adopera
per
lo
sviluppo
sostenibile
dell'Europa,
basato
su
una
crescita
economica
equilibrata
e
sulla
stabilità
dei
prezzi,
su
un'economia
sociale
di
mercato
competitiva,
che
mira
alla
piena
occupazione
e
al
progresso
sociale,
essa
promuove
il
progresso
scientifico
e
tecnologico”.
Vengono
definiti
gli
obiettivi
dell'Unione
e
vengono
puntualizzate
le
condizioni
che
la
crescita
economica
deve
rispettare.
Sottolineiamo
l’espressione
“economia
sociale
di
mercato”
=>
le
preoccupazioni
di
tipo
sociale
e
occupazionale
debbono
essere
tenute
presenti
in
occasione
dell'adozione
degli
interventi
legislativi
tesi
a
costruire
il
mercato
interno
e
che
potrebbero
influire
sull'interpretazione
delle
regole
fondamentali
del
mercato
interno,
in
particolare
quelle
relative
alle
libertà
di
circolazione.
PER
LA
CORTE=>
la
Comunità
ha
una
finalità
sociale
non
soltanto
una
finalità
economica.
2.Il
mercato
unico
europeo:
contenuti
e
prospettive
Nessuno
dei
trattati
istitutivi
delle
tre
comunità
conteneva
una
definizione
normativa
di
cosa
si
debba
intendersi
per
mercato
comune.
Assenza
di
una
definizione
normativa
=
facilmente
spiegabile
=>
il
mercato
comune
costituiva
un
obiettivo
più
che
una
nozione
giuridica.
Sentenza
5
Maggio
1982,
Schul
=>
la
Corte
di
giustizia
afferma
che
la
nozione
di
mercato
comune
mira
ad
eliminare
ogni
intralcio
per
gli
scambi
intracomunitari
al
fine
di
fondere
i
mercati
nazionali
in
un
mercato
unico
simile
a
un
mercato
interno.
CORTE
DI
GIUSTIZIA
=>
utilizza
tutte
e
tre
le
denominazioni
del
mercato:
mercato
comune
e
mercato
unico
sono
trattate
come
equivalenti,
mentre
la
terza,
mercato
interno,
viene
richiamata
come
metro
di
paragone
e
di
confronto,
nella
quale
l'aggettivo
interno
sottintende
un
implicito
riferimento
alla
realtà
di
mercato
nazionale,
cioè
di
mercato
interno
ad
uno
solo
e
medesimo
Stato.
Per
raggiungere
l'obiettivo
dell'unificazione
dei
mercati
sono
stati
predisposti
una
serie
di
strumenti,
alcuni
dei
quali
consistono
nell'imporre
agli
Stati
membri
e
alle
imprese
alcuni
divieti
previsti
dallo
stesso
TFUE;
si
tratta:
• Delle
regole
relative
alla
libertà
di
circolazione,
in
forza
delle
quali
deve
essere
rimosso
ogni
ostacolo
ai
movimenti
tra
Stati
membri
di
merci,
persone,
servizi
e
capitali;
• Delle
disposizioni
in
materia
di
concorrenza
e
aiuti
di
Stato
alle
imprese,
che
vietano
alle
imprese
e
agli
Stati
membri
di
tenere
comportamenti
contrari
al
libero
gioco
della
concorrenza.
In
tal
caso
si
può
parlare
di
integrazione
negativa.
Il
mercato
però
richiede
di
essere
organizzato
laddove
carente
o
laddove
le
forze
presenti
sul
mercato
non
sono
in
grado
di
assicurare
un
suo
corretto
funzionamento.
Perciò
sono
necessari
interventi
di
tipo
legislativo
tendenti
ad
assicurare
l'apertura
e
l'integrazione
dei
mercati
e
l'eliminazione
delle
distorsioni
di
concorrenza
ancora
presenti.
Il
TFUE
prevede
disposizioni
che
attribuiscono
alle
istituzioni
dell'Unione
il
potere
di
adottare
atti
legislativi
per
instaurare
il
mercato
unico
e
assicurarne
il
corretto
funzionamento
=>
Integrazione
positiva.
Essa
si
avvale
dello
strumento
del
ravvicinamento
delle
legislazioni
degli
Stati
membri
che
mirano
ad
eliminare
o
a
ridurre
le
differenze
esistenti
tra
i
vari
ordinamenti
nazionali
nei
settori
in
cui
le
differenze
normative
sono
d'ostacolo
all'unificazione
del
mercato.
L'atto
usato
a
tal
fine
è
la
direttiva,
non
il
regolamento,
in
quanto
la
direttiva
consente
che
ciascuno
stato
conservi
una
propria
normativa
nazionale
e
ne
impone
l'armonizzazione.
Mercato
interno
=
oggetto
di
una
competenza
concorrente
dell'Unione.
Esso
soggiace
al
principio
di
sussidiarietà
e
a
quello
di
proporzionalità.
Dopo
l'entrata
in
vigore
del
TCE,
la
realizzazione
del
mercato
unico
è
rimasta
affidata
quasi
esclusivamente
agli
strumenti
di
integrazione
negativa.
Le
istituzioni
hanno
ottenuto
l'abolizione
da
parte
degli
Stati
membri
degli
ostacoli
agli
scambi
intracomunitari.
Negli
anni
'80
=>
il
Libro
bianco
sul
completamento
del
mercato
interno,
presentato
al
Consiglio
europeo
di
Milano
del
1985,
prevedeva
un
elenco
di
azioni
di
tipo
legislativo
da
adottare
per
portare
a
compimento
l'opera
di
apertura
dei
mercati
nazionali
e
poneva
il
problema
dell'inefficienza
delle
procedure
decisionali
che
le
istituzioni
avrebbero
dovuto
seguire
e
il
problema
dell'unanimità,
condizione
che
aveva
impedito
al
Consiglio
di
deliberare.
Per
superare
tali
problemi
=>
gli
Stati
membri
hanno
approvato
l’AUE
che
contiene
due
novità:
• Art
14
TCE
(ora
art.
26
TFUE)
=>
la
comunità
adotta
le
misure
destinate
all'insaturazione
del
mercato
interno
nel
corso
di
un
periodo
che
scade
il
31
dicembre
1992;
questo
art.
sposa
l'idea
propugnata
dalla
Commissione
nel
Libro
bianco,
secondo
cui
il
mercato
interno
non
era
stato
ancora
completato
ma
richiedeva
numerosi
interventi
legislativi
da
adottare
rapidamente;
76
• Art.
95
TCE
(ora
art.
114
TFUE)
=>
consente
alle
istituzioni
di
adottare
misure
per
il
ravvicinamento
delle
normative
nazionali
che
hanno
per
oggetto
l'instaurazione
ed
il
funzionamento
del
mercato
interno
senza
necessità
che
il
Consiglio
voti
all'unanimità;
tale
art.
ha
reso
più
agevole
l'adozione
di
misure
miranti
all'instaurazione
del
mercato
interno.
Art.
14,
par.2
=>
missione
per
le
istituzioni
=
adottare
iniziative
legislative
opportune
affinchè
il
mercato
interno
sia
un
mercato
senza
frontiere
interne.
Portata
dell'art.
14
TCE
(ora
art.
26
TFUE)
=
quella
di
una
norma
programmatica
=>
ciò
è
confermato
dalla
non
perentorietà
del
termine
previsto
dal
par.
1
dell'art.
14.
La
Commissione
=>
dopo
la
scadenza
del
31
Dicembre
1992
=>
ha
avanzato
numerose
proposte
per
il
consolidamento
o
il
miglioramento
del
mercato
unico,
elaborando
a
tal
fine
ambiziosi
e
articolati
piani
d'azione.
L'ultimo
di
questi
è
costituito
dall'Atto
per
il
mercato
unico
europeo,
il
quale
si
basa
su
dodici
“leve”
destinate
a
stimolare
la
crescita
e
rafforzare
la
fiducia
degli
operatori
e
dei
cittadini
per
sfruttare
al
meglio
le
opportunità
offerte
dal
mercato
unico.
Alcune
delle
12
leve
sono:
• Consumatori;
• Servizi;
• Reti;
• Mercato
unico
digitale;
• Fiscalità;
• Appalti
pubblici.
3.
L'unione
doganale
Art.
28,
par.
1,
TFUE
=>
“L'unione
comprende
l'unione
doganale
che
si
estende
al
complesso
degli
scambi
di
merci”;
Art.
3
par.
1
TFUE
=>
l'unione
doganale
costituisce
un'ipotesi
di
competenza
esclusiva
dell'Unione.
La
nozione
di
unione
doganale
non
è
nata
con
la
Comunità,
ma
una
definizione
di
unione
doganale
è
contenuta
nell'Accordo
Generale
sulle
Tariffe
e
sul
Commercio
(GATT)
concluso
a
Ginevra
nel
1947
e
ripreso
dall'Accordo
istitutivo
dell'Organizzazione
Mondiale
del
Commercio
(OMC)
firmato
a
Marrakech
nel
1994.
L'unione
doganale
presenta:
• Aspetto
interno
=
abolizione
dei
dazi
doganali
negli
scambi
di
merci
tra
territori
facenti
parte
dell'unione;
• Aspetto
esterno
=
sostituzione
della
protezione
doganale
di
ciascun
territorio
facente
parte
dell'unione
con
un'unica
tariffa
doganale.
N.B.:
In
una
zona
di
libero
scambio,
come
quella
prevista
nell'ambito
della
CECA,
l'aspetto
esterno
manca.
Anche
l'aspetto
interno
ha
portata
più
limitata,
perchè
l'abolizione
dei
dazi
doganali
è
limitata
ai
prodotti
originari
dei
territori
facenti
parte
dell'unione
e
non
si
estende
ai
prodotti
originari
di
Stati
terzi
anche
se
in
libera
pratica
in
un
territorio
aderente.
L'art.
28,
par.1,
afferma
che
l'unione
doganale
si
applica
“al
complesso
degli
scambi
di
merci”.
• Aspetto
interno:
è
assicurato
dal
divieto
di
dazi
doganali
tra
Stati
membri,
tanto
all'importazione,
quanto
all'esportazione,
divieto
che
si
estende
alle
tasse
d'effetto
equivalente.
L'art.
110
vieta
agli
Stati
membri
di
applicare
ai
prodotti
importati
da
altri
Stati
membri
tributi
interni
discriminatori
o
protezonistici.
• Regolamentazioni
commerciali
restrittive
=>
gli
artt.
34
ss.
Proibiscono
tra
gli
Stati
membri
le
restrizioni
quantitative
sia
all'importazione
che
all'esportazione,
nonché
misure
d'effetto
equivalente.
I
divieti
di
dazi
doganali
e
tasse
d'effetto,
che
insieme
fondano
la
cd.
Libera
circolazione
delle
merci,
si
applica
sia
ai
prodotti
originari
degli
Stati
membri,
che
“ai
prodotti
provenienti
da
paesi
terzi
che
si
trovano
in
libera
pratica
negli
Stati
membri”.
N.B.:
i
prodotti
in
libera
pratica
sono
i
prodotti
originari
da
Stati
terzi
di
origine
extracomunitaria,
per
i
quali
siano
state
adempiute
in
uno
Stato
membro
le
formalità
d'importazione
e
ricossi
i
dazi
doganali
e
le
tasse
d'effetto
equivalente
esigibili.
• Aspetto
esterno:
Art.
31
=>
negli
scambi
con
i
paesi
non
appartenente
all'unione
doganale
si
applicano
i
dazi
della
tariffa
doganale
comune
(TDC)
che
“sono
stabiliti
dal
Consiglio
su
proposta
della
Commissione”.
I
dazi
fissati
dalla
TDC
sono
per
lo
più
ad
valorem,
mentre
rari
sono
i
dazi
specifici
“calcolati
in
ragione
del
peso
o
della
quantità).
I
dazi
ad
valorem
sono
fissati
mediante
un
tasso
percentuale
applicabile
al
valore
della
merce
importata.
Nella
TDC
vengono
indicati
due
tassi:
Tasso
autonomo
=>
autonomamente
fissato
dalla
Comunità;
77
Tasso
convenzionale
=>
corrisponde
al
tasso
negoziato
in
seno
al
GATT
e
“consolidato”,
nel
senso
che
l'Unione
non
potrebbe
unilateralmente
modificarlo.
Si
può
dire
che
l'unione
doganale
si
situai
a
cavallo
tra
il
mercato
unico
e
le
competenze
esterne
dell'Unione.
L'aspetto
interno
(abolizione
dei
dazi
doganali
tra
Stati
membri
e
tasse
d'effetto
equivalente)
costituisce
una
componente
della
disciplina
della
libera
circolazione
delle
merci
e
quindi
del
mercato
unico.
L'aspetto
esterno
(TDC
e
legislazione
doganale)
non
riguarda,
se
non
indirettamente,
il
mercato
unico.
4.La
cittadinanza
dell'Unione.
Nel
sistema
del
TFUE,
la
titolarità
di
alcuni
diritti
non
è
generalizzata,
ma
è
subordinata
al
possesso
della
cittadinanza
di
uno
degli
Stati
membro
ovvero,
a
partire
dal
TUE,
della
cittadinanza
dell'Unione.
N.B:
Il
TUE
ha
istituito
la
cittadinanza
dell'Unione,
inserendo
nel
TCE
gli
art..17-‐22.
Ai
sensi
dell'art.
9
TUE
e
dell'art.
20
TFUE
“è
istituita
una
cittadinanza
dell'Unione”.
Nell'ambito
del
mercato
unico,
sono
riservati
ai
cittadini
degli
Stati
membri
ovvero
dell'Unione,
i
diritti
di
libera
circolazione
e
soggiorno,
il
diritto
di
libera
circolazione
dei
lavoratori,
il
diritto
di
stabilimento
nonché
il
diritto
alla
libera
prestazione
di
servizi.
Artt.
9
TUE
e
20,
par.1,
TFUE
=>
“E’
cittadino
dell’Unione
chiunque
abbia
la
cittadinanza
di
uno
Stato
membro”.
=>
“La
cittadinanza
dell’Unione
si
aggiunge
alla
cittadinanza
nazionale
e
non
la
sostituisce”
=>
dalla
cittadinanza
nazionale
di
uno
Stato
membro
deriva
quella
dell’Unione.
CRITERI
PER
L’ATTRIBUZIONE
DI
TALE
CITTADINANZA
=>
non
sono
stabiliti
autonomamente
da
TUE
e
TFUE,
ma
sono
da
rinviare
ai
criteri
di
ciascuno
Stato
membro
per
l’attribuzione
della
propria
cittadinanza
nazionale
=>
AUTONOMIA
DEGLI
STATI
MEMBRI
in
tale
materia.
Rifiuto
di
riconoscere
la
cittadinanza
di
un
altro
Stato
membro
=>
comportamento
illegittimo.
Il
problema
si
pone
soprattutto
in
caso
di
effettiva
o
potenziale
doppia
cittadinanza
=>
una
stessa
persona
è
considerata
cittadino
nazionale
da
due
Stati
diversi
di
cui
uno
almeno
sia
uno
Stato
membro.
Sentenza
7
luglio
1992,
Micheletti:
IL
CASO
=>
Un
soggetto,
cittadino
al
tempo
stesso
italiano
e
argentino,
invoca
la
nazionalità
italiana
al
fine
di
esercitare
in
Spagna
il
diritto
di
stabilimento
di
cui
all’art.
49
TFUE.
RISOLUZIONE
TEORICA=>
in
caso
di
doppia
cittadinanza
di
cui
la
prima
di
uno
Stato
membro
e
la
seconda
di
uno
stato
terzo,
un
altro
Stato
terzo
non
può
disconoscere
la
prima
cittadinanza
e
dare
rilevanza
soltanto
alla
seconda.
L’atteggiamento
della
giurisprudenza
è
più
oscillante
riguardo
all’ipotesi
di
doppia
cittadinanza
di
cui
la
prima
di
uno
stato
membro
e
la
seconda
di
un
altro
Stato
membro.
Sentenza
Micheletti
=>
la
Corte
precisa
che
la
competenza
degli
Stati
membri
a
definire
le
condizioni
di
acquisizione
e
di
mantenimento
della
cittadinanza
nazionale
“deve
essere
esercitata
nel
rispetto
del
diritto
comunitario”
=>
il
diritto
dell’Unione
può
interferire
con
la
libertà
degli
Stati
membri
in
questa
materia
e
imporre
limiti
alla
loro
autonomia.
Questi
limiti
entrano
in
gioco
quando
l’applicazione
della
legislazione
nazionale
in
materia
di
cittadinanza
incide
negativamente
sulla
titolarità
o
sull’esercizio
di
diritti
attribuiti
al
cittadino
dal
diritto
dell’Unione.
Sentenza
2
marzo
2010,
Rottmann
IL
CASO
=>
Il
sig.
Rottmann,
cittadino
austriaco,
in
seguito
al
suo
trasferimento
di
residenza
in
Germania,
diviene
cittadino
tedesco
per
naturalizzazione,
così
perdendo
la
cittadinanza
originaria.
Successivamente
le
autorità
tedesche
scoprono
che
Rottmann
aveva
nascosto
la
pendenza
di
un
mandato
di
arresto
da
parte
dell’autorità
giudiziaria
austriaca,
circostanza
che
avrebbe
impedito
la
sua
naturalizzazione
e
provvedono,
perciò,
a
revocare
il
decreto
di
naturalizzazione.
L’azione
di
Rottmann
per
opporsi
al
decreto
porta
ad
un
rinvio
pregiudiziale
ai
sensi
dell’art.
267
TFUE.
La
Corte
=>
si
chiede
se,
nel
caso
di
una
persona
nelle
condizioni
di
Rottmann,
il
diritto
dell’Unione
imponga
agli
Stati
membri
dei
limiti
da
rispettare
in
materia
di
attribuzione
o
revoca
della
cittadinanza
nazionale.
Risposta
=>
AFFERMATIVA
=>
la
revoca
della
cittadinanza
tedesca
senza
che
il
riacquisto
della
cittadinanza
originaria
austriaca
sia
garantito
rischierebbe
di
fare
di
Rotmann
un
apolide
e
lo
porrebbe
“in
una
condizione
idonea
a
cagionare
il
venir
meno
dello
status
conferito
dall’art.
17
CE
e
dei
diritti
ad
esso
correlati”.
Secondo
la
Corte
=>
la
revoca
del
decreto
di
naturalizzazione,
se
motivata
dagli
atti
fraudolenti
commessi
dall’interessato,
discende
da
un
motivo
di
pubblico
interesse,
ed
è
legittima
anche
qualora
determini
come
conseguenza
che
l’interessato,
oltre
alla
cittadinanza
dello
Stato
membro,
perda
anche
la
cittadinanza
dell’Unione.
78
Tuttavia
=>
il
giudice
investito
del
rinvio
deve
verificare
che
tale
decreto
di
revoca
rispetti
il
principio
di
proporzionalità,
per
quanto
riguarda
le
conseguenze
che
ricadono
sull’interessato.
5.Le
libertà
di
circolazione:
un
quadro
d’insieme.
La
componente
del
mercato
unico
direttamente
ricavabile
dal
TFUE
è
costituita
da
una
serie
di
disposizioni
che,
conferendo
determinati
diritti
agli
interessati
o
imponendo
una
serie
di
divieti
agli
Stati
membri
(integrazione
negativa)
mirano
ad
assicurare
la
libera
circolazione
di
merci,
persone,
servizi
e
capitali.
Si
tratta
dei
seguenti
articoli:
• Artt.
20,
par.2
e
21,
par.1
=>
Libertà
di
circolazione
e
di
soggiorno
dei
cittadini
dell’Unione;
• Artt.
28-‐30
e
34-‐37
=>
Libera
circolazione
delle
merci;
• Art.
45
=>
Libera
circolazione
dei
lavoratori;
• Artt.
56-‐58
e
60-‐62
=>
Libera
prestazione
di
servizi;
• Artt.
63-‐66
=>
Libera
circolazione
dei
capitali.
Tali
disposizioni
del
TFUE
hanno
rivestito
una
grande
importanza
per
l’instaurazione
del
mercato
unico.
Esse
contengono
norme
precise
e
incondizionate,
idonee
a
produrre
effetti
diretti
negli
ordinamenti
interni
degli
Stati
membri
e
ad
attribuire
ai
soggetti
interessati
il
diritto
ad
ottenerne
il
rispetto
da
parte
degli
Stati
membri,
ricorrendo,
se
necessario,
ai
giudici
nazionali.
L’efficacia
diretta
è
stata
riconosciuta
alle
disposizioni
che
parlano
esplicitamente
di
diritti
o
libertà
conferite
agli
interessati,
quanto
alle
disposizioni
che
si
riferiscono
agli
Stati
membri,
imponendo
loro
divieti
o
obblighi
precisi
e
incondizionati.
La
Corte
di
giustizia
=>
in
riferimento
alle
libertà
di
circolazione
garantite
dalle
norme
succitate
=>
parla
di
libertà
fondamentali.
L’interpretazione
giurisprudenziale
degli
articoli
rilevanti
dei
trattati
è
sempre
stata
orientata
verso
la
massima
valorizzazione
della
loro
portata
liberalizzatrice.
Le
possibilità
di
deroga
alle
libertà
di
circolazione
previste
dal
TFUE
o
dagli
atti
delle
istituzioni,
ovvero
ammesse
in
via
giurisprudenziale,
sono
oggetto
di
interpretazione
estremamente
restrittiva
e
il
loro
utilizzo
è
sottoposto
ad
un
stretto
controllo
da
parte
della
Corte
di
giustizia
in
particolare
attraverso
lo
strumento
del
principio
di
proporzionalità.
In
apertura
di
ciascuno
dei
gruppi
di
articoli
citati
troviamo
una
disposizione
che
attribuisce
una
determinata
libertà
di
circolazione
ovvero
vieta
le
restrizioni
alla
libertà
in
questione.
• PRIMO
MODELLO
=>
artt.
20,
par.2
e
21,
par.1,
e
45:
Art.
20,
par.
2
e
21,
par.1
=>
attribuiscono
ai
cittadini
dell’Unione
“il
diritto
di
circolare
e
soggiornare
liberamente
nel
territorio
degli
Stati
membri”.
Art.
45
=>
“La
libera
circolazione
dei
lavoratori
all’interno
dell’Unione
è
assicurata”.
• SECONDO
MODELLO
=>
artt.
28,
30,
34,
35,
49,
56,
63,
par.1-‐2:
Art.
28,
30,
34,
35
=>
Libera
circolazione
delle
merci
=>
queste
disposizioni,
per
definire
la
portata
del
divieto
di
restrizioni,
fanno
leva
su
due
figure:
Dazi
doganali;
Restrizioni
quantitative
(affiancate
da
quelle
di
tassa
d’effetto
equivalente
e
di
misura
d’effetto
equivalente).
Art.
49
=>
Diritto
di
stabilimento;
Art.
56
=>
Libera
prestazione
di
servizi;
Art.
63
par.1
e
2
=>
Libera
circolazione
dei
capitali
e
dei
pagamenti.
NORME
che
enunciano
la
portata
del
DIVIETO
DI
RESTRIZIONI:
• Art.
49
=>
“la
libertà
di
stabilimento
importa
l’accesso
alle
attività
autonome
e
al
loro
esercizio,
nonché
la
costituzione
e
la
gestione
di
imprese
e
in
particolare
di
società
ai
sensi
dell’art.54,
alle
condizioni
definite
dalla
legislazione
del
paese
di
stabilimento
nei
confronti
dei
propri
cittadini
fatte
salve
le
disposizioni
del
capo
relativo
ai
capitali
”.
• Art.
57,
co.3°
=>
“senza
pregiudizio
delle
disposizioni
del
capo
relativo
al
diritto
di
stabilimento,
il
prestatore
può,
per
l’esecuzione
della
sua
prestazione,
esercitare,
a
titolo
temporaneo,
la
sua
attività
nello
Stato
membro,
ove
la
prestazione
è
fornita
alle
stesse
condizioni
imposte
da
tale
Stato
ai
propri
cittadini”
=>
spiega
il
contenuto
della
libera
prestazione
dei
servizi;
• Art.
21,
par.1
=>
definisce
la
libera
circolazione
dei
cittadini
dell’Unione,
con
riferimento
alla
sola
libertà
di
circolazione
e
soggiorno;
• Art.
45
=>
a
proposito
della
libera
circolazione
dei
lavoratori
=>
elenca
4
specifici
diritti
che
la
libertà
di
circolazione
“importa”.
79
• Art.
63
=>
a
proposito
della
libera
circolazione
dei
capitali
=>
in
esso
manca
qualsiasi
tentativo
di
definire
la
nozione
di
restrizioni
a
tale
libera
circolazione
o
il
contenuto
della
stessa.
Le
disposizioni
del
TFUE,
relative
alle
libertà
di
circolazione,
fanno
largo
uso
del
DIVIETO
DI
DISCRIMINAZIONE.
Diversi
criteri
di
discriminazione:
• DISCRIMINAZIONI
IN
BASE
ALLA
NAZIONALITA’
=>
sono
vietate
esplicitamente
dalle
disposizioni
relative
alla
circolazione
dell
persone
e
alla
libera
prestazione
di
servizi;
• DISCRIMINAZIONI
IN
BASE
ALL’ORIGINE
O
ALLA
DESTINAZIONE
DELL
MERCI
=>
sono
vietate
implicitamente
dalle
disposizioni
relative
alla
libera
circolazione
delle
merci;
• DISCRIMINAZIONI
IN
BASE
ALL’ORIGINE
DEI
CAPITALI
O
AL
LORO
LUOGO
DI
COLLOCAZIONE
=>
sono
vietate
implicitamente
dalle
disposizioni
relative
alla
libera
circolazione
dei
capitali.
I
trattati
=>
considerano
i
trattamenti
discriminatori
la
prima
e
più
importante
causa
di
ostacoli
alla
libera
circolazione,
dato
che
impediscono
la
fusione
dei
mercati
nazionali
in
un
vero
mercato
unico.
Le
discriminazioni
si
distinguono
in:
• DISCRIMINAZIONI
DIRETTE
E
INDIRETTE
=>
questa
distinzione
riguarda
il
criterio
con
cui
l’ordinamento
giuridico
definisce
le
situazioni
che
beneficiano
di
un
determinato
trattamento
e
quelle
che
non
ne
beneficiano
affatto
o
beneficiano
di
un
trattamento
deteriore.
Si
ha:
DISCRIMINAZIONE
DIRETTA
=>
se
il
criterio
è
quello
della
cittadinanza
nazionale,
dell’origine
delle
merci
o
altri
criteri
vietati
dai
trattati;
DISCRIMINAZIONE
INDIRETTA
=>
se
il
criterio
non
è
tra
quelli
espressamente
vietati
dai
trattati
e
qualora
soltanto
o
prevalentemente
i
cittadini
nazionali
o
le
merci
nazionali
riescano
a
soddisfarlo.
N.B.:
per
questo
tipo
di
discriminazione
è
possibile
addurre
una
giustificazione
=>
è
possibile
dimostrare
che
la
differenza
di
trattamento
tra
situazioni
comparabili
è
giustificata
da
motivi
obiettivi.
Fasi
del
TEST
applicato
dalla
Corte
per
stabilire
se
sussiste
una
discriminazione
indiretta
vietata
=>
bisogna
stabilire
se:
Vi
è
trattamento
differenziato;
Le
situazioni
trattate
differentemente
sono
simili
o
comparabili;
La
differenziazione
di
trattamento
è
giustificata
da
motivi
obiettivi
di
interesse
generale;
È
rispettato
il
principio
di
proporzionalità.
• DISCRIMINAZIONI
FORMALI
E
MATERIALI
=>
Si
ha:
DISCRIMINAZIONE
FORMALE
=>
se
l’ordinamento
tratta
diversamente
i
cittadini
degli
altri
Stati
membri
rispetto
ai
cittadini
nazionali
=>
i
cittadini
degli
Stati
membri
sono
danneggiati
perché
indebitamente
differenziati;
DISRIMINAZIONE
MATERIALE
=>
se
l’ordinamento
tratta
nella
stessa
maniera
gli
uni
e
gli
altri,
senza
tener
conto
della
diversità
delle
situazioni
di
partenza
=>
i
cittadini
degli
Stati
membri
sono
danneggiati
perché
assimilati
rispetto
ai
cittadini
nazionali.
N.B.:
per
questo
tipo
di
discriminazione
è
possibile
addurre
delle
giustificazioni
=>
è
possibile
invocare
motivi
di
interesse
generale
tali
da
giustificare
il
trattamento
uguale
di
situazioni
dissimili.
Il
divieto
di
discriminazioni
svolge
un
ruolo
fondamentale
al
fine
di
assicurare
la
libera
circolazione
nel
mercato
unico.
QUESTIONE
:
bisogna
stabilire
se
i
divieti
imposti
agli
Stati
membri
dalle
disposizioni
in
materia
di
libera
circolazione
valgano
anche
nel
caso
di
normative
nazionali
che,
pur
indistintamente
applicabili,
alle
merci
di
origine
nazionale
e
a
quelle
provenienti
da
altri
Stati
membri
ostacolano
di
diritto
o
di
fatto
la
libera
circolazione
=>
normative
indistintamente
applicabili.
La
Corte
=>
ha
cominciato
ad
occuparsi
di
questo
problema
dalla
fine
degli
anni
’70
del
secolo
scorso.
Essa
ha
individuato
una
serie
crescente
di
normative
nazionali
indistintamente
applicabili
che,
tuttavia,
possono
ostacolare
la
libera
circolazione
e
rientrano
nel
campo
d’applicazione
dei
divieti
previsti
dal
TFUE.
Ciò
è
avvenuto
con
riferimento
agli
ostacoli
tecnici
agli
scambi
di
merci,
causati
dalla
persistente
diversità
delle
normative
tecniche
in
vigore
negli
Stati
membri.
Secondo
la
Corte
=>
l’applicazione
sistematica
di
tali
normative
ai
prodotti
provenienti
da
altri
Stati
membri
causa
un
ostacolo
alla
libera
circolazione
di
tali
prodotti
e
va
esaminata
alla
luce
dell’art.
34
TFUE,
per
verificare
se
non
si
tratti
di
una
misura
d’effetto
equivalente
ad
una
restrizione
quantitativa
all’importazione.
La
possibilità
di
considerare
80
normative
nazionali
indistintamente
applicabili
alla
stregua
di
ostacoli
agli
scambi
è
stata
estesa
a
tutte
le
libertà
di
circolazione,
in
particolare
alla
libertà
di
stabilimento,
alla
libera
circolazione
dei
lavoratori
e
alla
libera
circolazione
dei
capitali.
N.B.:
Unica
eccezione
=>
libertà
di
circolazione
e
di
soggiorno
dei
cittadini
ai
sensi
dell’art.
21,
nel
cui
campo
d’applicazione
non
sono
stati
ancora
rinvenuti
casi
di
ostacoli
provocati
da
normative
indistintamente
applicabili.
Frequenti
sono
le
affermazioni
della
Corte,
secondo
cui
le
varie
libertà
di
circolazione
non
impongono
soltanto
l’abolizione
delle
discriminazioni,
ma
anche
di
qualsiasi
restrizione
che,
nonostante
si
applichi
indistintamente,
impedisce,
ostacola
o
anche
rende
soltanto
meno
agevole,
l’esercizio
della
libera
circolazione.
La
Corte
=>
ha
sviluppato
nel
tempo
un
test
che
non
comporta
varianti
sostanziali
da
libertà
a
libertà,
per
cui
è
lecito
parlare
di
un
approccio
globale
alla
nozione
di
ostacolo
alla
libera
circolazione.
4
FASI
DEL
TEST
=>
bisogna
stabilire
se:
• La
normativa
è
indistintamente
applicabile;
• Costituisce
un
ostacolo
alla
libertà
di
circolazione;
• L’ostacolo
può
essere
giustificato
da
un
motivo
superiore
di
interesse
pubblico
o
generale;
• L’ostacolo
rispetta
il
principio
di
proporzionalità.
Il
Test
applicato
dalla
Corte,
in
caso
di
normativa
indistintamente
applicabile
presenta
alcune
analogie
con
il
test
seguito
in
caso
di
normativa
indirettamente
discriminatoria.
In
particolare
molto
simili
sono
le
ultime
due
fasi.
Proprio
per
questo
non
sempre
è
possibile
comprendere
se,
in
un
determinato
caso,
la
Corte
tratta
la
normativa
in
esame
come
indirettamente
discriminatoria
o
indistintamente
applicabile.
QUESTIONE:
la
contrarietà
di
una
normativa
nazionale
alle
regole
della
libera
circolazione
può
essere
fatta
valere
anche
in
una
situazione
puramente
interna?
• SITUAZIONE
PURAMENTE
INTERNA
=
situazione
in
cui
la
libertà
di
circolazione
non
è
in
gioco
in
quanto
tutti
gli
elementi
che
caratterizzano
la
situazione
sono
confinati
all’interno
di
un
solo
e
unico
Stato
membro;
• SITUAZIONE
TRANSFRONTALIERA
=
situazione
in
cui
i
soggetti,
le
merci
o
i
capitali
coinvolti
sono
entrati
in
contatto
con
più
di
uno
Stato
membro
e
in
cui
può
dirsi
che
vi
sia
o
vi
sia
stato
l’esercizio
di
uno
dei
diritti
di
libera
circolazione.
RISPOSTA
DELLA
GIURISPRUDENZA
=>
L’applicazione
di
normative
degli
Stati
membri
(che
sono
vietate
nella
misura
in
cui
provochino
ostacoli
ai
movimenti
di
persone,
merci,
servizi
e
capitali)
in
situazioni
puramente
interne,
in
cui
non
c’è
alcuna
circolazione
degli
elementi
della
fattispecie
e
non
c’è
nessun
rischio
di
ostacoli
al
libero
movimento,
non
dovrebbe
essere
vietata.
RISPOSTA
DELLA
CORTE
=>
“Le
norme
del
Trattato
in
materia
di
libera
circolazione
delle
persone
e
gli
atti
adottati
in
esecuzione
di
quest’ultime
non
possono
essere
applicati
ad
attività
le
quali
non
presentino
nessun
elemento
di
collegamento
con
una
qualsivoglia
situazione
prevista
dal
diritto
comunitario
ed
i
cui
elementi
rilevanti
rimangano
confinati
nel
loro
insieme,
all’interno
di
un
unico
Stato
membro”.
Prima
di
disapplicare
una
normativa
nazionale,
in
quanto
restrittiva
della
libera
circolazione
=>
si
deve
accertare
se
la
fattispecie
alla
quale
la
normativa
va
applicata:
• Presenta
aspetti
transfrontalieri
=>
la
normativa
viene
disapplicata;
• Non
presenta
aspetti
transfrontalieri
=>
l’applicazione
viene
tenuta
ferma.
FENOMENO
PARADOSSALE
DELLE
“DISCRIMINAZIONI
ALLA
ROVESCIA”
=>
i
soggetti
coinvolti
in
una
situazione
puramente
interna
sono
trattati
peggio
dei
soggetti
coinvolti
in
una
situazione
trans
frontaliera,
i
quali
soltanto
possono
avvalersi
dei
diritti
di
libera
circolazione
e
così
opporsi
all’applicazione
della
normativa
interna
restrittiva
=>
la
Corte
tende
a
restringere
la
rilevanza
della
problematica
secondo
cui
i
diritti
di
libera
circolazione
possono
applicarsi
alle
situazioni
puramente
interne.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
il
diritto
del
cittadino
di
invocare
i
diritti
di
libera
circolazione
nei
confronti
del
proprio
Stato
membro
=>
vale
in
circostanza
in
cui,
in
ragione
del
pregresso
o
attuale
esercizio
della
libera
circolazione,
il
cittadino
si
trovi
in
una
situazione
assimilabile
a
quella
di
un
cittadino
di
altro
Stato
membro.
PER
LA
CORTE
=>
vi
sono
alcuni
diritti
di
libera
circolazione
che
possono
esser
fatti
valere
anche
nell’ambito
di
una
situazione
puramente
interna
=>
si
tratta
di
situazioni
in
cui
sono
in
gioco
81
provvedimenti
nazionali
che
abbiano
l’effetto
di
privare
i
cittadini
dell’Unione
del
godimento
dei
diritti
attribuiti
dal
loro
status
di
cittadini
dell’Unione.
CAPITOLO
SECONDO
LA
LIBERA
CIRCOLAZIONE
DELLE
MERCI
1.Quadro
normativo.
DISCIPLINA
DELLA
LIBERA
CIRCOLAZIONE
DELLE
MERCI
ALL’INTERNO
DELL’UNIONE
=>
è
interamente
contenuta
nel
TFUE,
Parte
III,
Titolo
II.
Artt.28
e
30
=>
vietano
fra
gli
Stati
membri
i
dazi
doganali
all’importazione
e
all’esportazione
e
le
tasse
d’effetto
equivalente.
Art.
110
(Parte
VII,
Capo
2,
della
Parte
III
del
TFUE,
intitolata
“Disposizioni
fiscali”)
=>
vieta
l’applicazione
ai
prodotti
importati
da
altri
Stati
membri
di
“imposizioni
interne”
discriminatorie
o
protezionistiche
=>
svolge
una
funzione
complementare
rispetto
alle
norme
sull’abolizione
dei
dazi
doganali
e
tasse
d’effetto
equivalente.
Artt.
34-35
=>
vietano
restrizioni
quantitative
tra
gli
Stati
membri,
tanto
all’importazione,
quanto
all’esportazione
oltre
che
le
misure
d’effetto
equivalente.
Art.
36
=>
consente
le
restrizioni
quantitative
o
le
misure
d’effetto
equivalente
giustificate
dai
motivi
di
interesse
generale.
Art.
37
=>
si
riferisce
al
riordinamento
dei
monopoli
nazionali
aventi
carattere
commerciale.
Queste
norme
prevedono
a
carico
degli
Stati
membri
divieti
assoluti.
Riguardo
ad
esse
non
è
richiesta,
né
prevista
l’adozione
di
norme
integrative
di
diritto
derivato
da
parte
delle
istituzioni.
COMPITI
DI
NORMAZIONE
DERIVATA
=>
spettano
alle
istituzioni
nel
settore
del
ravvicinamento
delle
legislazioni,
di
cui
agli
artt.
114
e
115
TFUE
=>
numerose
misure
adottate
in
forza
di
tali
articoli
mirano
a
rimuovere
gli
ostacoli
alla
circolazione
delle
merci
derivanti
dalla
disparità
delle
varie
legislazioni
nazionali.
La
dir.
98/34/CE
del
P.E.
e
del
Consiglio
del
1998
mira
ad
evitare
che
l’introduzione
da
parte
di
uno
Stato
membro
di
nuove
regole
tecniche
in
merito
ad
un
prodotto
industriale
o
agricolo
possa
comportare
nuovi
ed
ingiustificati
ostacoli
alla
circolazione
=>
viene
istituita
una
procedura
di
notifica
obbligatoria
e
preventiva
alla
Commissione,
cui
segue
un
informazione
agli
altri
Stati
membri.
Lo
Stato
membro,
autore
del
progetto
di
regola
tecnica
deve
attendere
3
mesi
prima
di
adottarla
definitivamente.
Il
termine
potrà
essere
prorogato
di
6,
12
o
18
mesi,
a
seconda
che
la
Commissione
individui
che
la
regola
tecnica
costituisca
un
ostacolo
alla
libera
circolazione
delle
merci
nell’ambito
del
mercato
interno,
ovvero
che
la
Commissione
annunci
di
voler
presentare
una
proposta
di
direttiva
in
materia
o
che
una
proposta
in
materia
esiste
già,
ovvero
che
il
Consiglio
adotti
una
posizione
comune
a
proposito
della
proposta
presentata
dalla
Commissione.
Vige
il
principio
del
mutuo
riconoscimento
delle
regole
tecniche
tra
Stati
membri.
Le
norme
del
TFUE,
relative
alla
circolazione
delle
merci,
sono
considerate,
nella
loro
generalità,
come
dotate
di
efficacia
diretta.
2.Il
divieto
di
dazi
doganali
e
tasse
d’effetto
equivalente.
DAZI
DOGANALI
=
OGGETTO
DI
DIVIETO
ASSOLUTO
negli
scambi
tra
gli
Stati
membri,
sia
per
quanto
attiene
l’importazione,
sia
per
quanto
attiene
l’esportazione.
MOTIVO
DELL’ABOLIZIONE
DEI
DAZI
DOGANALI
=
LORO
EFFETTI
=>
la
riscossione
dei
dazi
doganali
provoca
un
aumento
del
costo
dei
prodotti
importati
o
esportati
che
ne
sono
colpiti
e
sfavorisce
tali
prodotti
rispetto
alle
merci
nazionali
corrispondenti,
che
sono
esenti.
PORTATA
DEL
DIVIETO
=>
esso
si
applica
soltanto
negli
scambi
di
merci
tra
gli
Stati
membri
e
riguarda
tanto
le
merci
originarie
degli
Stati
membri,
quanto
i
prodotti,
originari
di
Stati
terzi,
una
volta
che
siano
stati
immessi
in
libera
pratica
nel
territorio
di
uno
Stato
membro,
ma
non
i
prodotti
importati
direttamente
dal
di
fuori
dell’Unione.
N.B.:
negli
scambi
tra
gli
Stati
membri
e
gli
Stati
terzi
si
applicano
i
dazi
della
TDC.
NOZIONE
DI
DAZI
DOGANALI
(art.
28
e
30)=
tributi
di
tipo
particolare,
dotati
di
propria
denominazione,
calcolati
in
percentuale
rispetto
al
valore
del
bene
(dazi
ad
valorem)
e
riscossi
al
memento
dell’attraversamento
delle
frontiere.
I
dazi
doganali
previsti
da
ciascuno
Stato
membro
erano
82
elencati
in
un
unico
strumento
normativo:
la
tariffa
doganale.
La
loro
abolizione
non
ha
richiesto
interventi
interpretativi
di
rilievo.
DIVIETO
DELLE
TASSE
D’EFFETTO
EQUIVALENTE
=>
ha
un’applicazione
più
problematica.
SCOPO
DEL
DIVIETO
=>
impedire
che
l’effetto
liberatorio
derivante
dalla
soppressione
dei
dazi
doganali
possa
essere
frustrato,
consentendo
agli
Stati
membri
di
percepire
sulle
merci
importate
(o
esportate)
prelievi
fiscali
che
abbiano
gli
stessi
effetti
di
un
vero
e
proprio
dazio
doganale.
PER
LA
CORTE
=>
il
divieto
di
tasse
d’effetto
equivalente
“si
riferisce
a
qualsiasi
tributo
riscosso
in
occasione
o
in
ragione
dell’importazione,
il
quale
ne
alteri
il
costo
ed
abbia
sulla
libera
circolazione
delle
merci,
la
stessa
influenza
restrittiva
di
un
vero
dazio
doganale”.
DIVIETO
DI
TASSE
D’EFFETTO
EQUIVALENTE
=>
rende
più
piena
la
portata
del
DIVIETO
DI
DAZI
DOGANALI.
NOZIONE
DI
TASSA
D’EFFETTO
EQUIVALENTE
=>
per
la
Corte
=>
“qualsiasi
onere
pecuniario
imposto
unilateralmente,
a
prescindere
dalla
sua
denominazione
e
dalla
sua
struttura,
che
colpisca
le
merci
in
ragione
del
fatto
che
esse
varcano
la
frontiera,
se
non
è
un
dazio
doganale
vero
e
proprio,
costituisce
una
tassa
d’effetto
equivalente
ai
sensi
degli
artt.
9,
12,
13
e
16
del
Trattato
”.
Sottolineiamo
alcuni
punti
di
questa
definizione:
a) Deve
trattarsi
di
un
onere
pecuniario
=>
la
prestazione
richiesta
al
soggetto
obbligato
deve
consistere
in
un
versamento
di
denaro
a
favore
del
soggetto
autorizzato
per
legge
alla
riscossione.
Sono
escluse
prestazioni
di
contenuto
differente.
Questa
precisazione
permette
di
distinguere
una
tassa
d’effetto
equivalente
da
una
misura
d’effetto
equivalente
e
da
una
restrizione
quantitativa,
ai
sensi
degli
artt.
34
e
35
TFUE.
b) Deve
trattarsi
di
un
onere
imposto
alle
sole
merci
che
varchino
la
frontiera
nazionale
=>
dal
campo
d’applicazione
del
divieto
in
questione
sono
escluse
le
imposizioni
interne,
alle
quali
si
riferisce
l’art.
110
TFUE
e
che
invece
colpiscono
anche
la
merci
nazionali
corrispondenti.
Nella
nozione
di
tasse
d’effetto
equivalente
rientrano
anche
i
tributi
riscossi
a
carico
di
determinate
merci,
indipendentemente
dall’origine
nazionale
o
importata,
qualora
il
ricavato
sia
utilizzato
ad
esclusivo
beneficio
della
produzione
nazionale.
È
necessario
che
il
beneficio
goduto
dai
produttori
nazionali
compensi
totalmente
l’onere
fiscale
subito:
in
caso
contrario
si
applica
l’art.110.
c) Deve
trattarsi
di
un
onere
imposto
al
soggetto
obbligato
al
pagamento
=>
ciò
esclude
dalla
nozione
di
tassa
d’effetto
equivalente
gli
oneri
pecuniari
riscossi
in
occasione
del
passaggio
attraverso
la
frontiera
di
determinate
merci,
qualora
tali
oneri
costituiscano
“il
corrispettivo
di
un
servizio
effettivamente
prestato”
all’interessato
in
occasione
delle
operazioni
di
importazione
o
esportazione.
La
giurisprudenza
si
è
mostrata
poco
propensa
a
riconoscere
la
presenza
di
un
“servizio”
del
genere,
richiedendo
che
siano
soddisfatte
le
seguenti
condizioni:
1)
il
servizio
reso
deve
andare
ad
esclusivo
beneficio
del
richiedente
e
non
deve
rispondere
ad
un
interesse
generale;
2)
il
servizio
deve
essere
richiesto
dall’interessato
e
non
già
a
lui
imposto;
3)
l’onere
riscosso
dev’essere
di
importo
proporzionato
al
valore
del
servizio
reso.
d) Deve
trattarsi
di
un
onere
imposto
unilateralmente
dallo
Stato
membro
di
importazione
(o
d’esportazione)
=>
ciò
esclude
che
vadano
considerati
come
tasse
d’effetto
equivalente
gli
oneri
pecuniari
riscossi
solo
su
prodotti
importati
(o
esportati)
qualora
risultino
direttamente
previsti
o
almeno
implicitamente
autorizzati
da
norme
di
diritto
dell’Unione
per
favorire,
anziché
ostacolare,
gli
scambi
tra
Stati
membri.
Stabilito
che
ci
si
trova
di
fronte
ad
una
tassa
d’effetto
equivalente,
le
concrete
modalità
di
percezione
sono
ininfluenti.
Ad
es.
una
tassa
riscossa
non
alla
frontiera
ma
all’interno
del
territorio
di
uno
Stato
membro
è
vietata.
Non
rileva
neanche
che
la
tassa
persegua
scopi
protezionistici,
ma
interessi
d’ordine
generale,
quali
la
protezione
del
patrimonio
artistico
nazionale,
ovvero
serva
a
finanziare
l’organizzazione
di
un
servizio
di
pubblico
interesse.
PORTATA
DEL
DIVIETO
DI
TASSE
D’EFFETTO
EQUIVALENTE
(di
cui
agli
artt.
28
e
30)
=>
riguarda
soltanto
gli
scambi
tra
Stati
membri.
3.Il
divieto
di
imposizioni
interne
discriminatorie
o
protezionistiche.
Gli
artt.
28
e
30
vanno
letti
in
combinazione
con
l’art.
110.
Questa
norma
così
dispone:
“Nessuno
Stato
membro
applica
direttamente
o
indirettamente
ai
prodotti
degli
altri
Stati
membri
imposizioni
interne,
di
83
84
proprio
prodotto
similare,
ai
sensi
dell’art.
95.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
un
tale
rapporto
di
concorrenza
sussiste
quando
tra
i
vari
prodotti
esiste
una
certa
sostituibilità,
anche
parziale,
cioè
limitata
ad
alcune
delle
possibili
utilizzazioni
di
ciascun
prodotto.
Il
prodotto
importato
deve
rappresentare
una
scelta
alternativa
per
il
consumatore,
quantomeno
in
determinati
casi.
PER
LA
CORTE
=>
la
sussistenza
di
tale
rapporto
va
valutata
in
relazione
allo
stato
attuale
del
mercato,
ma
tenendo
presente
anche
le
possibilità
di
evoluzione
nel
contesto
della
libera
circolazione
delle
merci,
su
scala
comunitaria
e
le
nuove
potenzialità
di
sostituzione
tra
prodotti
che
l’intensificazione
degli
scambi
può
mettere
in
luce.
Se
si
accerta
l’esistenza
di
un
RAPPORTO
DI
CONCORRENZA
tra
prodotto
nazionale
e
prodotto
importato
maggiormente
tassato
=>
bisogna
stabilire
se
la
maggiore
tassazione
si
traduce
in
protezione
del
prodotto
nazionale.
=>
criterio
più
generale
di
quello
quantitativo
previsto
dal
co.
1°
=>
bisogna
guardare
all’incidenza
dell’onere,
gravante
sui
due
prodotti,
sul
rapporto
di
concorrenza
fra
i
vari
prodotti.
Quindi
=>
bisogna
stabilire
se
l’onere
è
tale
o
meno
di
influenzare
il
mercato
diminuendo
il
consumo
potenziale
dei
prodotti
importati,
a
vantaggio
dei
prodotti
nazionali
concorrenti.
4.Il
divieto
di
restrizioni
quantitative
e
misure
d’effetto
equivalente.
Il
divieto
di
restrizioni
quantitative
e
misure
d’effetto
equivalente
è
articolato
in
due
disposizioni
distinte:
• Art.
34
=>
vieta
le
restrizioni
quantitative
e
le
misure
d’effetto
equivalente
all’importazione;
• Art.
35
=>
contiene
un
divieto
formulato
in
termini
identici
per
quanto
riguarda
l’esportazione.
Art.
36,
TFUE
=>
contiene
una
deroga
al
divieto
=>
gli
artt.
34
e
35
“lasciano
impregiudicati
i
divieti
e
le
restrizioni
all’importazione,
all’esportazione
e
al
transito”,
giustificati
dai
motivi
di
interesse
generale,
specificati
nella
norma
stessa.
PORTATA
DEI
DIVIETI
=>
riguarda
soltanto
gli
scambi
intracomunitari
e
non
quelli
con
Stati
terzi.
Essi
si
applicano
ai
prodotti
agricoli
anche
se
soggetti
ad
organizzazione
comune
di
mercato
ai
sensi
dell’art.
40
TFUE.
DIVIETO
DI
RESTRIZIONI
QUANTITATIVE
=>
secondo
la
Corte
=>
riguarda
le
misure
aventi
carattere
di
proibizione,
totale
o
parziale,
d’importare,
esportare
e
di
far
transitare,
a
seconda
dei
casi,
determinate
merci.
PER
LA
CORTE
=>
rientrano
nella
NOZIONE
DI
RESTRIZIONE
QUANTITATIVA:
• Provvedimenti
di
uno
Stato
membro
che
vietano
del
tutto
l’importazione
o
l’esportazione
di
una
certa
merce;
• Provvedimenti
che
vietano
l’importazione
o
l’esportazione
di
una
merce
oltre
un
certo
quantitativo
massimo.
NOZIONE
DI
MISURA
D’EFFETTO
EQUIVALENTE
=>
più
problematica
=>
inserita
nel
TFUE
allo
scopo
di
prevenire
ad
una
liberalizzazione
degli
scambi
più
completa
di
quella
che
si
sarebbe
raggiunta
abolendo
soltanto
gli
ostacoli
non
tariffari
tradizionali.
Occorre
comprendere:
• Cosa
si
intende
per
MISURA?
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
il
termine
misura
copre
qualsiasi
atto
o
comportamento
che
sia
riferibile
ai
pubblici
poteri
e
non
a
semplici
privati.
N.B.:
costituisce
una
“misura”
il
regolamento
di
un’organizzazione
professionale
dotata
per
legge
di
determinati
poteri
coercitivi
nei
confronti
degli
associati.
Dal
punto
di
vista
della
forma
=>
costituiscono
“misure”
le
disposizioni
legislative
e
regolamentari
di
uno
Stato
membro,
e
le
norme
non
scritte
derivanti
da
una
prassi
amministrativa
o
giurisprudenziale.
Il
comportamento
di
uno
Stato
membro
non
si
esime
dal
divieto
di
cui
all’art.
34
TFUE
per
il
solo
fatto
di
non
basarsi
su
decisioni
vincolanti
per
le
imprese,
in
quanto
anche
atti
di
uno
Stato
membro
privi
di
efficacia
cogente
possono
essere
idonei
ad
incidere
sulla
condotta
dei
commercianti
e
dei
consumatori
nel
territorio
di
questo
Stato
e
produrre
effetti
restrittivi
sugli
scambi.
Può
costituire
una
“misura”
anche
un
provvedimento
applicabile
soltanto
ad
una
parte
determinata
del
territorio
di
uno
Stato
membro,
o
intesa
a
favorire
soltanto
i
prodotti
originari
di
una
determinata
area.
• Cosa
si
intende
per
EFFETTO
EQUIVALENTE
AD
UNA
RESTRIZIONE
QUANTITATIVA?
Effetto
di
una
restrizione
quantitativa
=
diminuzione
della
quantità
di
importazioni
o
di
esportazioni
che
potrebbero
essere
effettuate
in
sua
assenza.
85
⇓
MISURE
D’EFFETTO
EQUIVALENTE
=>
tutti
quei
provvedimenti
di
uno
Stato
membro
che,
indipendentemente
dal
tipo
o
dalla
denominazione
producono
lo
stesso
risultato.
Si
è
in
presenza
di
una
misura
equivalente
ad
una
restrizione
quantitativa
vera
e
propria
SE
=>
le
importazioni
o
le
esportazioni
sarebbero
maggiori
qualora
la
misura
in
esame
non
esistesse
o
venisse
abrogata.
MISURE
ALL’IMPORTAZIONE
=>
Sentenza
Dassonville
=>
Secondo
la
Corte
=>
costituisce
una
misura
d’effetto
equivalente
a
una
restrizione
quantitativa
all’importazione
“ogni
normativa
commerciale
degli
Stati
membri
che
possa
ostacolare,
direttamente
o
indirettamente,
in
atto
o
in
potenza,
gli
scambi
intracomunitari”
(FORMULA
DASSONVILLE).
Sentenza
11
luglio
1974,
Dassonville
IL
CASO
=>
si
riferiva
ad
una
normativa
belga
che,
per
l’importazione
di
prodotti
aventi
una
denominazione
controllata,
richiedeva
un’attestazione
d’origine
rilasciata
allo
Stato
di
provenienza.
Si
trattava
di
whisky
scozzese,
acquistato
in
Francia
e
importato
in
Belgio.
L’importatore
opponeva
che,
date
le
condizioni
d’acquisto,
gli
era
impossibile
procurarsi
l’attestazione
richiesta.
LA
CORTE
=>
pone
in
essere
una
misura
d’effetto
equivalente
ad
una
restrizione
quantitativa
incompatibile
con
il
trattato
lo
Stato
membro
che
richieda
un
certificato
d’origine
più
facilmente
accessibile
dall’importatore
diretto
di
un
prodotto
che
non
da
chi
abbia
acquistato
regolarmente
il
prodotto
in
uno
stato
membro,
dove
esso
si
trovava
il
libera
pratica.
FORMULA
DASSONVILLE
=>
per
far
scattare
il
divieto
di
cui
all’art.
34
è
sufficiente
che
la
norma
di
uno
Stato
membro
possa
provocare
un
ostacolo
agli
scambi.
Quindi
=>
l’effetto
equivalente
ad
una
restrizione
quantitativa
si
produce
ogniqualvolta
una
determinata
normativa
nazionale
renda
meno
agevole
la
commercializzazione
di
un
prodotto
e
possa
scoraggiarne
l’importazione
da
altri
Stati
membri.
Non
è
possibile
limitare
la
portata
della
definizione
in
relazione
al
TIPO
di
misura
=>
il
qualificativo
“commerciale”
è
generico
e
non
ha
impedito
alla
Corte
di
considerare
come
vietate
normative
attinenti
alla
produzione
di
determinate
merci.
È
irrilevante
anche
l’ENTITA’
dell’effetto
restrittivo
=>
misure
che
ostacolano
gli
scambi
in
maniera
minima
non
sono,
per
questo,
sottratte
al
divieto.
Nel
settore
della
libera
circolazione
delle
merci
non
vale
il
principio
del
“de
minimis”.
L’ostacolo
agli
scambi
può
avere:
• Carattere
indiretto;
• Carattere
potenziale.
Solo
occasionalmente
la
Corte
ha
escluso
l’applicazione
dell’art.
34,
perché
gli
effetti
restrittivi
che
la
misura
stessa
avrebbe
potuto
produrre
sulla
libera
circolazione
delle
merci
erano
“troppo
aleatori
o
indiretti”.
Il
carattere
discriminatorio
o
meno
della
misura
non
rileva
ai
fini
della
qualificazione
come
misura
d’effetto
equivalente.
Occorre
distinguere
tra:
• Misure
restrittive
che
si
applicano
ai
soli
prodotti
importati
(MISURE
DISCRIMINATORIE):
Provvedimenti
statali
che
sottopongono
l’importazione
o
la
commercializzazione
di
merci
provenienti
da
altri
Stati
membri
a
requisiti
o
condizioni
non
previste
per
le
merci
corrispondenti
di
produzione
nazionale;
Provvedimenti
che,
pur
applicandosi
alle
merci
indipendentemente
dalla
loro
origine,
stabiliscono
condizioni
meno
severe
o
più
favorevoli
per
i
soli
prodotti
nazionali.
N.B.:
in
entrambi
i
casi
i
prodotti
importati
sono
oggetto
di
una
discriminazione
diretta
rispetto
ai
prodotti
nazionali
=>
la
loro
importazione
è
ostacolata.
Se
l’effetto
restrittivo
prodotto
da
misure
di
questo
tipo
è
minimo
=>
unica
possibilità
per
sfuggire
al
divieto
=
invocare
la
deroga
prevista
dall’art.
36,
dimostrando
che
ricorrono
i
presupposti
per
la
sua
applicazione.
Rientrano
tra
le
misure
discriminatorie
anche
quelle
che
impediscono
od
ostacolano
le
importazioni
parallele
(effettuate
attraverso
canali
diversi
da
quelli
ufficiali).
86
• Misure
che
sono
previste
per
qualsiasi
merce
che
circoli
o
sia
commercializzata
nel
territorio
dello
Stato
membro,
indipendentemente
dall’origine
(MISURE
INDISTINTAMENTE
APPLICABILI):
Inizialmente
=>
l’assenza
di
pronunce
della
Corte
a
riguardo
aveva
indotto
a
pensare
che
tali
misure
sfuggissero
al
divieto
di
cui
all’art.
34.
In
seguito
=>
la
giurisprudenza
ha
mostrato
come
anche
una
misura
indistintamente
applicabile
può
produrre
effetti
restrittivi
sulle
merci
importate
da
altri
Stati
membri
ed
essere
considerata
rientrante
nell’ambito
dell’art.
34.
Esempi
di
queste
misure:
Provvedimenti
adottati
dagli
Stati
membri
per
il
controllo
dei
prezzi
=>
essi,
frequenti
soprattutto
in
periodi
di
alta
inflazione,
sono
di
norma
applicabili
indistintamente
tanto
ai
prodotti
nazionali
quanto
a
quelli
importati.
Per
la
Corte
=>
provvedimenti
del
genere
non
ostacolano
direttamente
la
libera
circolazione
e
non
possono
considerarsi
misure
d’effetto
equivalente
=>
MA
=>
ciò
non
esclude
che
provvedimenti
sui
prezzi
possano
entrare
in
conflitto
con
l’art.
34
qualora
i
prezzi
soggetti
a
controllo
siano
fissati
ad
un
livello
tale
da
rendere
la
commercializzazione
dei
prodotti
importati
impossibile
o
più
difficile
di
quello
dei
prodotti
interni
corrispondenti.
Un
tale
effetto
si
verifica
nelle
seguenti
ipotesi:
Provvedimenti
che
fissano
pressi
massimi
o
impongono
un
blocco
dei
prezzi,
qualora
il
prezzo
è
fissato
a
un
livello
talmente
basso
che
gli
operatori
che
intendano
importare
i
prodotti
di
cui
trattasi
nello
Stato
membro
considerato,
possano
farlo
solo
in
perdita;
Provvedimenti
che
fissano
prezzi
minimi
qualora
il
livello
dei
prezzi
sia
tale
da
svantaggiare
i
prodotti
importati
rispetto
ai
prodotti
nazionali
corrispondenti.
Si
ritiene
che
i
provvedimenti
sui
prezzi
costituiscano
un
esempio
di
discriminazione
materiale.
Ostacoli
tecnici
agli
scambi
=>
ostacoli
alla
libera
circolazione
delle
merci
che
sono
provocati
dalla
persistente
diversità
delle
normative
con
cui
ciascuno
Stato
membro
disciplina
le
modalità
di
fabbricazione,
composizione,
imballaggio,
confezionamento,
etichettaggio,
denominazione
dei
prodotti
industriali
o
agro
industriali
(norme
tecniche)
=>
tali
normative
si
applicano
a
tutti
i
prodotti
posti
in
commercio
nel
territorio
dello
Stato
membro,
indipendentemente
dall’origine
nazionale
o
straniera.
La
diversità
tra
le
normative
nazionali
di
questo
tipo
fa
sì
che
il
prodotto
fabbricato
e
confezionato
secondo
le
norme
tecniche
vigenti
nello
Stato
di
produzione
non
possa
essere
posto
in
vendita
nel
territorio
di
un
altro
Stato,
se
non
previo
adattamento
alle
norme
vigenti
in
quest’ultimo.
Sentenza
20
febbraio
1979,
sul
caso
del
Cassis
de
Dijon
IL
CASO
=>
un
liquore
francese
era
regolarmente
in
commercio
nello
Stato
di
produzione,
ma
la
sua
importazione
e
vendita
in
Germania
erano
impedite
dalla
sua
non
conformità
alla
legislazione
tedesca
sul
contenuto
alcolico
minimo
delle
bevande.
LA
CORTE
=>
“in
mancanza
di
una
normativa
comune
in
materia
di
produzione
e
di
commercio
dell’alcool,
spetta
agli
Stati
membri
disciplinare,
ciascuno
nel
suo
territorio,
tutto
ciò
che
riguarda
la
produzione
e
il
commercio
dell’alcool
e
delle
bevande
alcoliche”.
“Gli
ostacoli
per
la
circolazione
intercomunitaria
derivanti
da
disparità
delle
legislazioni
nazionali
relative
al
commercio
dei
prodotti
di
cui
trattasi
vanno
accettati
qualora
tali
prescrizioni
possano
ammettersi
come
necessarie
per
rispondere
a
esigenze
imperative
attinenti,
in
particolare
all’efficacia
dei
controlli
fiscali,
alla
protezione
della
salute
pubblica,
alla
lealtà
dei
negozi
commerciali
e
alla
difesa
dei
consumatori”
=>
“Non
sussiste
alcun
valido
motivo
per
impedire
che
bevande
alcoliche,
a
condizione
che
esse
siano
legalmente
prodotte
e
poste
in
vendita
in
uno
degli
Stati
membri,
vengano
introdotte
in
qualsiasi
altro
Stato
membro,
senza
che
possa
esser
opposto,
allo
smercio
di
tali
prodotti,
un
divieto
legale
di
porre
in
vendita
bevande
con
gradazione
alcolica
inferiore
al
limite
determinato
dalla
normativa
nazionale”.
La
normativa
di
uno
stato
membro,
riguardante
i
requisiti
tecnici
dei
prodotti
può
essere
applicata
anche
a
prodotti
importati
da
altri
Stati
membri
alle
seguenti
condizioni
(TEST
CASSIS):
• La
normativa
dev’essere
giustificata
da
esigenze
imperative
relative
alla
protezione
di
interessi
di
ordine
generale
del
tipo
di
quelli
indicati
nella
sentenza;
• La
normativa
deve
rispettare
il
principio
di
proporzionalità
e
quindi:
Essere
idonea
allo
scopo
d’interesse
generale
perseguito;
87
Non
comportare
restrizioni
eccessive,
nel
senso
che
non
esistano
altri
mezzi
meno
restrittivi
per
conseguire
lo
stesso
risultato.
Se
la
normativa
non
rispetta
le
condizioni
del
Test
Cassis
=>
il
divieto
di
cui
all’art.
34
impone
allo
Stato
membro
d’importazione
di
consentire
la
commercializzazione
di
prodotti
non
conformi
alla
propria
normativa
tecnica
ma
che
siano
legittimamente
fabbricati
e
venduti
nello
Stato
membro
d’origine.
Lo
Stato
membro
d’importazione
avrà
l’onere
di
valutare
se
la
normativa
tecnica
in
vigore
nello
Stato
d’origine
del
prodotto
non
offra
garanzie
equivalenti
a
quelle
richieste
dalla
propria
normativa:
in
caso
affermativo
e
se
il
prodotto
è
conforme
alla
normativa
dello
Stato
d’origine,
lo
Stato
d’importazione
non
potrà
imporre
allo
stesso
prodotto
il
rispetto
anche
della
propria
normativa
tecnica,
perché,
così
facendo,
lo
sottoporrebbe
a
due
normative
tecniche:
quella
dello
Stato
membro
d’origine
e
quella
dello
Stato
membro
d’importazione.
In
applicazione
della
giurisprudenza
Cassis
de
Dijon,
anche
detta
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative
=>
innumerevoli
normative
nazionali
sono
state
considerate
vietate
dall’art.
34
nella
misura
in
cui
lo
Stato
membro
in
questione
ne
pretendeva
il
rispetto
da
parte
dei
prodotti
importati.
Vi
sono
stati
casi
in
cui
la
Corte
ha
riconosciuto
che
la
regola
tecnica
in
questione
non
costituiva
una
misura
d’effetto
equivalente,
in
quanto
adeguatamente
giustificata
da
una
esigenza
imperativa.
Tra
i
casi
del
genere
=>
caso
relativo
al
divieto
dell’uso
in
Italia
del
marchio
“Cotonelle”
per
prodotti
igienici
a
base
di
carta
importati
da
altro
Stato
membro.
Il
marchio
era
stato
considerato,
in
una
sentenza
della
Corte
d’appello
di
Milano,
“ingannevole”,
in
quanto
alludeva
alla
presenza
di
cotone,
che
invece
era
assente
dal
prodotto
in
questione.
La
vendita
di
prodotti
recanti
tale
marchio
e
importati
da
altro
Stato
membro
avrebbe
costituito
un
atto
di
concorrenza
sleale.
Per
la
Corte
=>
un’ingiunzione
giudiziaria
che
vieti
la
vendita
dei
prodotti
in
questione
rappresenterebbe
un
ostacolo
alle
importazioni
ai
sensi
della
formula
Dassonville,
ma
tale
ostacolo
potrebbe
essere
giustificato
dall’esigenza
imperativa
consistente
nel
tutelare
la
lealtà
delle
transazioni
commerciali.
Il
Test
Cassis
è
stato
concepito
inizialmente
in
funzione
della
sua
applicazione
a
normative
tecniche
relative
ai
prodotti.
Ma,
la
Corte
ne
ha
fatto
applicazione
ad
un
tipo
diverso
di
normativa
nazionale
=>
Norme
sulle
modalità
di
vendita
dei
prodotti
=
disposizioni
che
vietano
o
sottopongono
a
determinate
restrizioni
o
limitazioni
talune
modalità
di
vendita
o
taluni
modi
di
promozione
delle
vendite.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
NORME
SULLE
MODALITA’
DI
VENDITA
=>
producono
un
effetto
restrittivo
sulle
importazioni.
Tale
effetto
corrisponde
al
restringimento
delle
opportunità
di
vendita
dei
prodotti
in
generale
e
dei
prodotti
importati
in
particolare.
La
Corte
inizialmente
aveva
sottopoto
le
norme
sulle
modalità
di
vendita
(che
producono
un
effetto
potenzialmente
restrittivo)
ad
un
test
simile
al
Test
Cassis.
Normative
del
genere
erano
considerate
vietate
dall’art.
34
in
quanto
misure
d’effetto
equivalente
ad
una
restrizione
quantitativa:
a) A
meno
che
non
fossero
giustificate
da
esigenze
imperative
legate
alla
necessità
di
tutelare
un
interesse
d’ordine
generale;
b) Sempreché
fosse
rispettato
il
principio
di
proporzionalità.
Sentenza
Keck
Non
sempre
una
normativa
relativa
alla
modalità
di
vendita
dei
prodotti
è
in
grado
di
produrre
un
effetto
restrittivo
sulle
importazioni
e
ricade
pertanto
nel
divieto
di
cui
all’art.
34.
PER
LA
CORTE
=>
solo
eccezionalmente
le
norme
sulle
modalità
di
vendita
dei
prodotti
producono
un
effetto
restrittivo
sulle
importazioni
e
costituiscono
una
misura
d’effetto
equivalente
ad
una
restrizione
quantitativa
ai
sensi
dell’art.
34.
Ciò
avviene
qualora
si
dimostri
che
la
normativa
in
questione:
• Non
è
applicabile
a
tutti
gli
operatori
interessati;
• Impedisce
l’accesso
al
mercato
nazionale
da
parte
dei
prodotti
importati
ovvero
lo
rende
più
difficile
di
quanto
non
o
sia
per
i
prodotti
nazionali.
Il
TEST
KECK
consiste
nel
verificare
se
la
normativa
comporta
una
discriminazione
indiretta
a
danno
dei
prodotti
provenienti
dagli
altri
Stati
membri
in
termini
di
accesso
al
mercato.
La
giurisprudenza
Keck
ha
dato
luogo
ad
alcune
difficoltà:
• PRIMA
DIFFICOLTA’
=>
riguardante
la
distinzione
tra:
Norme
tecniche
=>
sono
di
norma
vietate
dall’art.34,
salvo
che
ricorrano
le
condizioni
indicate
dalla
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative;
88
Norme
sulle
modalità
di
vendita
=>
sono
sottratte
del
tutto
all’art.
34,
salvo
che
ricorrano
le
condizioni
indicate
dalla
giurisprudenza
Keck,
con
un
conseguente
diverso
riparto
del
relativo
onere
della
prova.
• SECONDA
DIFFICOLTA’
=>
si
è
posta
per
stabilire
se
una
normativa
relativa
alle
modalità
di
vendita
dei
prodotti
precluda
l’accesso
al
mercato
dei
prodotti
importati
o
lo
ostacoli
più
di
quanto
avviene
per
i
prodotti
nazionali
corrispondenti.
Se
tale
condizione
fosse
presente
=>
farebbe
ricadere
la
normativa
in
questione
nel
campo
d’applicazione
dell’art.
34.
• TERZA
DIFFICOLTA’
=>
è
derivata
dal
fatto
che,
avendo
più
volte
dichiarato
l’applicabilità
dell’art.
34
a
vere
e
proprie
normative
sulle
modalità
di
vendita
a
causa
del
loro
impatto
negativo
sull’accesso
al
mercato
dei
prodotti
importati,
la
Corte
si
è
trovata
a
dover
tornare
in
questi
casi
al
Test
Cassis,
domandandosi:
Se
la
normativa
potesse
essere
giustificata
da
esigenze
imperative
legate
alla
protezione
di
un
interesse
di
ordine
generale;
Se
fosse
rispettato
il
principio
di
proporzionalità.
Test
Cassis
=>
ha
assunto
una
funzione
di
carattere
generale
=>
ciò
è
confermato
da
alcune
pronunce
in
cui
la
Corte
si
è
occupata
di
normative
sull’uso
dei
prodotti
(=normative
nazionali
che
vietavano
o
limitavano
fortemente
l’uso
di
determinati
prodotti).
Sentenza
10
febbraio
2009,
Commissione
c.
Italia
La
sentenza
trattava
di
alcune
disposizioni
del
codice
della
strada
italiano
che
vietano
ai
motoveicoli
di
trainare
un
rimorchio.
Confrontata
ad
una
normativa
che
non
poteva
essere
ricondotta
né
al
modello
delle
normative
tecniche
oggetto
della
giurisprudenza
Cassis
de
Dijon,
né
alle
normative
sulle
modalità
di
vendita
dei
prodotti
oggetto
della
giurisprudenza
Keck,
la
Corte
afferma
che
costituisce
misura
d’effetto
equivalente
ad
una
restrizione
quantitativa,
ai
sensi
dell’art.
34,
anche
“ogni
altra
misura
che
ostacoli
l’accesso
al
mercato
di
uno
Stato
membro
di
prodotti
originari
di
altri
Stati
membri”.
MISURE
D’EFFETTO
EQUIVALENTE
ALL’ESPORTAZIONE
(art.
35):
Divieto
di
misure
d’effetto
equivalente
all’esportazione
=>
si
ha
quando
una
misura
non
soltanto
produce
effetti
restrittivi
(=
ostacolare
le
esportazioni)
ma
ha
anche
carattere
discriminatorio
(=
si
applica
ai
soli
prodotti
destinati
all’esportazione
e
non
anche
a
quelli
destinati
al
mercato
interno
nazionale).
Misure
discriminatorie
=>
sempre
considerate
vietate
dall’art.
35.
Misure
indistintamente
applicabili
(=
provvedimenti
nazionali
applicabili
alla
generalità
dei
prodotti,
nonostante
provochino
effetti
restrittivi
sulle
esportazioni)
=>
sfuggono
al
divieto.
Sentenza
8
novembre
1979,
Groenveld
OGGETTO
=>
legislazione
olandese
che
vietava
la
fabbricazione,
anche
per
l’esportazione,
di
prodotti
di
salumeria
contenenti
carni
equine.
LA
CORTE
=>
l’art.
35
riguarda
i
provvedimenti
nazionali
che
hanno
per
oggetto
e
per
effetto
di
restringere
specificatamente
le
correnti
d’esportazione
e
di
costituire
una
differenza
di
trattamento
tra
il
commercio
interno
di
uno
Stato
membro
e
il
suo
commercio
d’esportazione,
così
da
assicurare
un
vantaggio
particolare
alla
produzione
nazionale
o
al
mercato
interno
dello
Stato
interessato,
a
detrimento
della
produzione
o
del
commercio
di
altri
Stati
membri.
Di
recente
la
Corte
sembra
aver
attenuato
l’orientamento
restrittivo
assunto
a
partire
dalla
sentenza
Groenveld.
La
Corte
sembra
voler
distinguere
tra:
• Misure
analoghe
alle
normative
tecniche;
• Misure
analoghe
alle
normative
sulle
modalità
di
vendita
dei
prodotti
=>
interpretazione
più
ampia
dell’art.
35
e
più
vicina
a
quella
dell’art.
34.
Soluzione
seguita
dalla
Corte
con
la
sentenza
Groenveld
=>
la
normativa
tecnica
in
vigore
in
uno
Stato
membro
non
può
mai
costituire
misure
d’effetto
equivalente
all’esportazione
nel
momento
in
cui
ne
viene
imposto
il
rispetto
a
tutti
i
prodotti
fabbricati
in
quello
stesso
Stato
membro,
che
si
tratti
di
prodotti
destinati
all’esportazione
o
di
prodotti
destinati
al
mercato
nazionale
dello
Stato
in
questione
=>
Questa
soluzione
è
del
tutto
coerente
con
la
giurisprudenze
delle
esigenze
imperative.
89
L’esclusione
dal
campo
d’applicazione
dell’art.
35
non
è
sempre
giustificabile
nel
caso
di
misure
sulle
modalità
di
vendita
dei
prodotti
=>
una
normativa
che
vietasse
o
limitasse
determinate
modalità
di
vendita
o
di
promozione
delle
vendite
potrebbe
risultare
maggiormente
penalizzante
soprattutto
per
le
vendite
destinate
ad
acquirenti
di
altri
Stati
membri,
e
quindi
restringere
le
correnti
di
esportazione
più
di
quelle
destinate
al
mercato
nazionale.
Sentenza
16
dicembre
2008,
Gysbrechts
La
Corte
era
chiamata
a
pronunciarsi
sulla
compatibilità
con
l’art.
35
di
una
normativa
belga
applicabile
al
commercio
a
distanza
e
in
particolare
via
internet,
che
vieta
al
venditore
di
richiede
all’acquirente
un
acconto
o
anche
solo
il
numero
della
carta
di
credito
prima
della
scadenza
del
termine
di
recesso
previsto
dall’art.
6
della
direttiva
del
Parlamento
europeo
e
del
Consiglio
97/7/CE,
riguardante
la
protezione
dei
consumatori
in
materia
di
contratti
a
distanza.
Da
questa
sentenza
risulta
che
una
misura
sulla
modalità
di
vendita
dei
prodotti,
benché
indistintamente
applicabile,
rientra
nel
campo
d’applicazione
dell’art.
35
se,
di
fatto,
discrimina
indirettamente
le
esportazioni
in
quanto
rende
l’accesso
ai
mercati
degli
altri
Stati
membri
più
difficile
di
quanto
siano
le
vendite
sul
territorio
nazionale.
5.Le
deroghe
al
divieto
di
restrizioni
quantitative.
Deroga
al
divieto
di
restrizioni
quantitative
=>
art.
36
=>
“Le
disposizioni
degli
articoli
34
e
35
lasciano
impregiudicati
i
divieti
o
restrizioni
all’importazione,
all’esportazione
e
al
transito
giustificati
da
motivi
di
moralità
pubblica,
di
ordine
pubblico,
di
pubblica
sicurezza,
di
tutela
della
salute
e
della
vita
delle
persone
e
degli
animali
o
preservazione
dei
vegetali,
di
protezione
del
patrimonio
artistico,
storico
o
archeologico
nazionale
o
di
tutela
della
proprietà
industriale
e
commerciale.
Tuttavia,
tali
divieti
o
restrizioni
non
devono
costituire
un
mezzo
di
discriminazione
arbitraria,
né
una
restrizione
dissimulata
al
commercio
tra
gli
Stati
membri”.
Logica
dell’art.
36
=
la
protezione
degli
interessi
generali
ivi
contemplati
può
richiedere
l’imposizione
alle
merci
importate
o
esportate
di
misure
di
salvaguardia,
nonostante
da
ciò
possa
derivare
una
restrizione
degli
scambi.
Quando
è
in
gioco
la
tutela
di
interessi
generali
=>
la
libera
circolazione
delle
merci
può
subire
una
deroga.
PER
LA
CORTE
=>
art.
36
=
oggetto
di
interpretazione
restrittiva
=>
non
deve
essere
inteso
come
se
prevedesse
una
sorta
di
“dominio
riservato”
a
favore
degli
Stati
membri.
2°
frase,
art.
36
=>
gli
Stati
membri
non
godono
di
un
potere
illimitato
per
la
scelta
delle
misure
necessarie
alla
salvaguardia
degli
interessi
generali
menzionati
nella
prima
frase
=>
le
scelte
in
proposito
sono
soggette
al
controllo
della
Commissione
e
al
giudizio
della
Corte
di
giustizia.
Art.
36
non
può
essere
invocato
per
giustificare:
• Riscossione
di
tasse
d’effetto
equivalente
a
dazi
doganali;
• Misure
miranti
a
tutelare
esigenze
nazionali
di
carattere
economico
(es.
provvedimenti
destinati
a
risanare
la
bilancia
dei
pagamenti).
Per
la
Corte
=>
Elencazione
degli
interessi
generali,
ex
art.
36
=
TASSATIVA.
Le
condizioni
d’applicazione
dell’art.
36
e
della
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative
presentano
importanti
analogie.
Per
l’applicazione
dell’art.
36
=>
bisogna
dimostrare
che
la
misura
restrittiva:
• È
necessaria
per
proteggere
uno
degli
interessi
d’ordine
generale,
elencati
nell’art.
36;
• Rispetta
il
principio
di
proporzionalità.
Inizialmente
le
condizioni
d’applicazione
dell’art.
36
e
quelle
d’applicazione
della
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative
erano
ben
distinte.
La
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative
aveva
una
portata
circoscritta
=>
valeva
solo
nel
caso
di
normative
indistintamente
applicabili
tanto
ai
prodotti
importati
quanto
ai
prodotti
corrispondenti
di
origine
nazionale.
Invece
=>
la
deroga
prevista
dall’art.
36
trova
applicazione
indipendentemente
dal
carattere
discriminatorio
o
meno
della
misura
in
esame.
Tale
tratto
distintivo
è
divenuto
meno
netto
col
passare
del
tempo
=>
la
Corte
ha
occasionalmente
accettato
di
verificare
l’esistenza
di
un’esigenza
imperativa
tale
da
giustificare
una
misura
restrittiva
anche
nel
caso
di
misure
discriminatorie.
90
Nell’ambito
della
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative
=>
la
Corte
riconosce
un
novero
molto
ampio
e
vario
di
interessi
di
ordine
generale
come
capaci
di
giustificare
l’applicazione
ai
prodotti
importati
della
normativa
in
vigore
nello
Stato
d’importazione.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
sono
INTERESSI
D’ORDINE
GENERALE:
• Promozione
della
produzione
cinematografica;
• Tutela
dell’ambiente;
• Protezione
dal
rischio
di
gravi
perturbazioni
dell’equilibrio
finanziario
del
sistema
previdenziale;
• Promozione
della
diversità
dei
mezzi
di
informazione;
• Tutela
del
diritto
fondamentale
alla
libera
manifestazione
del
pensiero
e
alla
libertà
d’associazione.
QUESTIONE:
la
normativa
nazionale
in
questione
può
dirsi
giustificata
da
esigenze
imperative
attinenti
alla
tutela
dei
consumatori.
La
Corte
nega
che
la
tutela
dei
consumatori
possa
essere
invocata
per
giustificare
normative
che
penalizzano
i
prodotti
importati,
qualora
un’adeguata
protezione
degli
acquirenti
potrebbe
essere
ottenuta
con
mezzi
meno
restrittivi.
CAPITOLO
TERZO
LA
LIBERA
CIRCOLAZIONE
DELLE
PERSONE
1.Quadro
normativo.
Art.
36,
par.2,
TFUE
=>
il
mercato
interno
“comporta
uno
spazio
senza
frontiere
interne
nel
quale
è
assicurata
la
libera
circolazione
delle
merci,
delle
persone,
dei
servizi
e
dei
capitali”.
Con
la
cittadinanza
dell’Unione
=>
viene
attribuito
ai
“cittadini
dell’Unione
il
diritto
di
circolare
e
soggiornare
liberamente
nel
territorio
degli
Stati
membri”.
È
stato
sciolto
il
legame
tra
libera
circolazione
delle
persone
e
svolgimento
di
attività
economiche.
La
libera
circolazione
ha
assunto
un
valore
e
una
portata
autonomi
ed
è
diventata
un
vero
e
proprio
diritto
della
persona.
La
libera
circolazione
ha
trovato
consacrazione
nell’art.
45
della
Carta
dei
diritti
fondamentali;
a
livello
dei
trattati
è
disciplinata
da
3
gruppi
di
disposizioni:
• Artt.
20,
par.2
e
21
TFUE
=>
relativi
ai
cittadini.
Art.
18
=>
vieta
le
discriminazioni
effettuate
in
base
alla
nazionalità.
• Artt.
45-48
TFUE
=>
hanno
ad
oggetto
i
lavoratori;
• Artt.
49-55
TFUE
=>
hanno
ad
oggetto
il
diritto
di
stabilimento;
• Artt.
56-62
=>
hanno
ad
oggetto
i
servizi.
=>
Tali
disposizioni
non
riguardano
la
libera
circolazione
delle
persone
in
senso
stretto,
ma
la
libera
circolazione
(o
prestazione)
dei
servizi,
che
l’art.
26
TFUE
menziona
come
una
componente
distinta
del
mercato
interno.
Nella
libera
prestazione
di
servizi
è
compreso
un
aspetto
di
circolazione
delle
persone
coinvolte:
è
il
prestatore
di
servizi
che
si
sposta
per
poter
esercitare
la
sua
attività
a
titolo
temporaneo
nello
Stato
membro,
in
cui
la
prestazione
è
fornita
(art.
57).
Altre
volte
è
il
destinatario
del
servizio
che
si
sposta
in
un
altro
Stato
membro
per
poter
ricevere
il
servizio
stesso.
CONTENUTO
DELLE
DISPOSIZIONI
CITATE:
1. Solenne
statuizione
che
sancisce
la
libertà
di
circolazione
o
il
divieto
di
restrizioni
a
tale
libertà;
2. Descrizione
dei
diritti
in
cui
ciascuna
libertà
si
articola.
In
ciascuno
dei
3
gruppi
figura
un
richiamo
al
divieto
di
discriminazione
in
base
alla
nazionalità,
ovvero
al
principio
del
trattamento
nazionale
:
art.18
per
i
cittadini,
art.
45
per
i
lavoratori,
art.49
per
il
diritto
di
stabilimento
e
art.
57
per
i
servizi.
Sono
previste
disposizioni
che
stabiliscono
dei
motivi
di
possibili
deroghe
alla
libertà
di
circolazione
o
dei
limiti
al
suo
campo
d’applicazione.
Disposizioni
del
TFUE
che
introducono
la
libertà
di
circolazione
delle
persone
=>
dotate
di
diretta
efficacia.
Art.
49
=
efficacia
diretta.
L’idoneità
dell’art.
49
a
produrre
effetti
diretti
era
stata
riconosciuta
già
nella
sua
versione
risalente
al
testo
originale
del
TCE,
nonostante
questo
prevedesse
un
“programma
generale”
di
soppressione
degli
ostacoli
al
diritto
di
stabilimento,
da
attuare
entro
la
scadenza
del
periodo
transitorio,
ma
attuato
solo
in
minima
parte.
Tale
circostanza
non
ha
impedito
alla
91
Corte
di
giustizia
di
giudicare,
nella
sentenza
21
giugno
1974,
Reyners,
che,
una
volta
scaduto
il
periodo
transitorio,
l’art.49
costituisce
una
norma
“atta
a
essere
fatta
valere
direttamente
dai
cittadini
di
tutti
gli
altri
Stati
membri”.
Sentenza
21
giugno
1974,
Reyners
IL
CASO
=>
il
sig.
Reyners,
di
nazionalità
olandese,
titolare
di
una
laurea
in
diritto
rilasciata
da
un’università
belga,
chiedeva
invano
l’iscrizione
all’albo
degli
avvocati
di
quel
paese.
L’iscrizione
veniva
rifiutata
per
mancanza
del
requisito
indispensabile
della
cittadinanza
belga.
Interrogata
la
Corte
sulla
possibilità
per
Reyners
di
invocare
il
principio
del
trattamento
nazionale
previsto
dall’art.49,
nonostante
l’assenza
di
direttive
d’attuazione,
la
Corte
risponde
affermativamente.
Sentenza
4
dicembre
1974,
Van
Duyn
La
Corte
fa
valere
che
l’art.
45
comporta
per
gli
stati
membri
“un
obbligo
preciso,
che
non
richiede
l’emanazione
di
alcun
ulteriore
provvedimento
da
parte
delle
istituzioni
comunitarie
o
degli
Stati
membri
e
che
non
lascia
a
questi
ultimi
alcuna
discrezionalità
nella
sua
attuazione”.
Artt.
45,
49
e
56,57
=
NORME
DOTATE
DI
EFFICACIA
DIRETTA
=>
esse
sono
idonee
ad
essere
invocate
in
giudizio
dai
soggetti
interessati,
nei
confronti
tanto
di
enti
pubblici,
quanto
di
soggetti
di
natura
privatistica.
Il
problema
dell’efficacia
diretta
si
è
posto
anche
in
relazione
all’art.
21,
par.1,
che
attribuisce
ai
cittadini
dell’Unione
il
diritto
di
circolare
e
soggiornare
liberamente
nel
territorio
degli
Stati
membri.
In
senso
contrario
al
riconoscimento
dell’efficacia
diretta
sembrava
deporre
la
circostanza
che
lo
stesso
par.1,
nella
parte
finale,
fa
“salve
le
limitazioni
e
le
condizioni
previste
dai
trattati
e
dalle
disposizioni
adottate
in
attuazione
degli
stessi”.
La
Corte
=>
si
è
orientata
in
senso
affermativo.
Sentenza
17
settembre
2002,
Baumbast
Il
diritto
di
soggiorno
è
riconosciuto
direttamente
ad
ogni
cittadino
dell’Unione
da
una
disposizione
chiara
e
precisa
del
Trattato.
Per
effetto
del
solo
status
di
cittadino
di
uno
Stato
membro,
e
quindi
di
cittadino
dell’Unione,
il
sig.
Baumbast
può
quindi
legittimamente
invocare
l’art.
21,
par.1,
TFUE
IL
CASO
=>
Il
sig.
Baumbast,
di
nazionalità
tedesca,
risiedeva
con
la
famiglia
nel
Regno
Unito,
dopo
avervi
svolto
attività
lavorative.
Baumbast
invocava
l’art.
21,
par.1,
per
opporsi
al
rifiuto
delle
autorità
britanniche
di
rinnovargli
il
permesso
di
soggiorno.
La
Corte
argomenta
che
“il
diritto
di
soggiorno
dei
cittadini
dell’Unione
sul
territorio
di
un
altro
Stato
membro
è
certamente
attribuito
subordinatamente
alle
limitazioni
e
alle
condizioni
previste
dal
Trattato
CE,
nonché
dalle
relative
disposizioni
di
attuazione.
Tuttavia,
l’applicazione
delle
limitazioni
e
delle
condizioni
consentite
dall’art.
21,
par.1,
TFUE,
ai
fini
dell’esercizio
del
diritto
di
soggiorno
è
soggetta
a
sindacato
giurisdizionale.
Conseguentemente,
le
eventuali
limitazioni
e
condizioni
relative
a
tale
diritto
non
impediscono
che
le
disposizioni
dell’art.21
attribuiscano
ai
singoli
diritti
soggettivi
che
essi
possono
far
valere
in
giudizio
e
che
i
giudici
nazionali
devono
tutelare”.
CARATTERISTICA
COMUNE
ALLE
DISPOSIZIONI
DEI
TRATTATI
SULLA
LUBERA
CIRCOLAZIONE
DELLE
PERSONE
=
esse
vanno
interpretate
in
conformità
con
l’esigenza
di
rispettare
i
DIRITTI
FONDAMENTALI
delle
persone
coinvolte.
Sentenza
11
luglio
2002,
Carpenter
IL
CASO
=>
La
sig.ra
Carpenter,
di
cittadinanza
filippina,
coniugata
con
un
cittadino
britannico,
si
opponeva
ad
un
provvedimento
di
allontanamento
adottato
nei
suoi
confronti
dalle
autorità
britanniche,
invocando
l’art.
57
TFUE
e
sostenendo
che
l’impugnato
provvedimento
avrebbe
costituito
per
suo
marito
un
ostacolo
all’esercizio
della
libera
prestazione
di
servizi.
Infatti,
qualora
fosse
stata
costretta
a
lasciare
il
Regno
Unito,
la
sig.ra
Carpenter
non
avrebbe
più
potuto
accudire
i
figlio
(di
prime
nozze)
del
marito
e
questi
non
avrebbe
più
potuto
recarsi
negli
altri
Stati
membri,
per
prestare
i
propri
servizi.
Avendo
affermato
che
il
sig.
Carpenter
rientrava
effettivamente
nel
campo
d’applicazione
dell’art.
57,
e
che
l’allontanamento
della
moglie
avrebbe
costituito
per
lui
un
ostacolo
all’esercizio
del
diritto
alla
libera
prestazione
di
servizi,
la
Corte
si
è
domandata
se
tale
ostacolo
potesse
essere
giustificato
per
“motivi
di
interesse
generale
del
Regno
Unito”.
La
risposta
è
negativa.
Va
sottolineato
che
=>
pur
di
affermare
la
sua
92
competenza
a
proteggere
il
diritto
fondamentale
al
rispetto
della
vita
familiare,
la
Corte
non
esita
ad
ampliare
al
di
là
di
ogni
limite
il
campo
d’applicazione
della
norma
sulla
libera
circolazione.
4
GRUPPI
DI
DISPOSIZIONI
DEL
TFUE
=>
prevedono
una
o
più
basi
giuridiche
che
attribuiscono
alle
istituzioni
il
potere
di
adottare
atti
legislativi
per
facilitare
l’esercizio
della
libertà
di
circolazione
e
i
diritti
in
essa
compresi.
In
passato:
le
istituzioni
adottavano
atti
legislativi
distinti
a
seconda
che
si
trattasse
di
lavoratori,
di
soggetti
che
esercitavano
il
diritto
di
stabilimento
o
la
libera
prestazione
dei
servizi
ovvero
di
meri
cittadini;
Dopo
l’introduzione
della
cittadinanza
dell’Unione:
si
è
affermata
la
prassi
di
emanare
atti
legislativi
che
si
riferiscono
indifferentemente
a
qualunque
cittadino
che
circoli
nel
territorio
degli
Stati
membri.
Questa
tendenza
si
è
manifestata
innanzitutto
nel
settore
del
riconoscimento
dei
diplomi.
Manifestazione
più
evidente
di
questa
prassi
=
dir.
2004/28/CE
del
P.E.
e
del
Consiglio,
relativa
al
diritto
dei
cittadini
dell’Unione
e
dei
loro
familiari
di
circolare
e
soggiornare
liberamente
ne
territorio
degli
Stati
membri.
Questa
direttiva,
basata
sugli
artt.
18,
21,
51,
59
TFUE,
raccoglie
in
un
unico
testo
le
disposizioni
in
materia.
Essa
mira
ad
incorporare
molte
delle
soluzioni
cui
era
pervenuta
la
giurisprudenza
della
Corte,
nell’interpretare
le
disposizioni
dei
trattati
e
gli
atti
legislativi
d’attuazione,
ed
aggiornare
l’intera
disciplina,
introducendo
elementi
di
novità
di
notevole
rilievo:
tra
questi,
il
diritto
di
soggiorno
permanente
in
uno
Stato
membro
diverso
dal
proprio,
diritto
riconosciuto
ai
cittadini
dell’Unione
e
ai
loro
familiari
che
abbiano
“soggiornato
legalmente
ed
in
via
continuativa
per
5
anni
nello
Stato
membro
ospitante”
(art.
16).
Occorre
precisare
il
rapporto
tra
le
norme
del
TFUE
e
gli
atti
legislativi
che
vi
danno
attuazione.
Atti
legislativi
in
materia
di
libera
circolazione
dei
lavoratori
=>
mirano
soltanto
a
facilitare
l’esercizio
dei
diritti
che
interessati
traggono
direttamente
dall’art.
45
=>
non
possono
mai
avere
l’effetto
di
restringere
la
portata
di
tali
diritti
(Sentenza
8
aprile
1976,
Royer).
Sentenza
8
aprile
1976,
Royer
PER
LA
CORTE
=>
la
semplice
omissione
da
parte
del
cittadino
di
uno
Stato
membro,
delle
formalità
di
legge
relative
all’ingresso,
al
trasferimento
ed
al
soggiorno
degli
stranieri
non
può
giustificare
un
provvedimento
d’espulsione.
Trattandosi
di
un
diritto
acquisito
in
forza
dello
stesso
Trattato,
un
comportamento
del
genere
non
può
essere
considerato
di
per
sì
lesivo
dell’ordine
o
della
sicurezza
pubblici
Ricorda:
Atti
legislativi
adottati
in
forza
dell’art.
48
TFUE.
Art.
48
TFUE
=>
autorizza
le
istituzioni
ad
approvare
misure
specifiche
in
materia
di
sicurezza
sociale,
finalizzate
a
rendere
possibile
l’instaurazione
della
libertà
di
circolazione.
MISURE
di
cui
all’art.
48
TFUE
=>
prevedono
la
possibilità
per
il
lavoratore
di
ottenere
il
pagamento
delle
prestazioni
sociali
cui
ha
diritto,
in
qualunque
Stato
membro,
e
il
diritto
a
ottenere
il
cumulo
dei
periodi
assicurativi
maturati
nei
diversi
Stati
membri
in
cui
il
lavoratore
è
stato
occupato,
instaurando
la
libera
circolazione
delle
prestazioni
sociali.
Tale
materia
è
ora
disciplinata
dal
Reg.
CE
n.883/2004
del
P.E.
e
del
Consiglio
=>
esso
si
occupa
innanzitutto
di
estendere
al
settore
della
sicurezza
sociale
il
principio
del
trattamento
nazionale,
vietando,
qualsiasi
clausola
che
comporti
la
riduzione
o
la
soppressione
delle
prestazioni,
nel
caso
di
beneficiario
residente
in
uno
Stato
membro,
diverso
da
quello
dell’istituzione
debitrice.
2.I
beneficiari.
=>
Inizialmente:
la
libera
circolazione
delle
persone
spettava
solo
a
soggetti
coinvolti
in
un’attività
economicamente
rilevante:
i
lavoratori
ai
sensi
dell’art.
45
e
coloro
che
esercitavano
il
diritto
di
stabilimento
ai
sensi
dell’art.
49
o
la
libera
prestazione
di
servizi
ai
sensi
dell’art.
56;
=>
Successivamente:
il
requisito
dello
svolgimento
di
un’attività
economicamente
rilevante
è
venuto
meno
con
l’introduzione
della
cittadinanza
dell’Unione.
Artt.
20
e
21,
par.1
=>
ai
cittadini
dell’Unione
spetta
“il
diritto
di
circolare
e
soggiornare
liberamente
ne
territorio
degli
Stati
membri”.
DIRITTI
DI
LIBERA
CIRCOLAZIONE
=>
sono
attribuiti
a:
93
94
a) Coniuge;
b) Partner
che
abbia
contratto
con
il
cittadino
dell’Unione
un’unione
registrata
sulla
base
della
legislazione
di
uno
Stato
membro,
qualora
la
legislazione
dello
Stato
membro
ospitante
equipari
l’unione
registrata
al
matrimonio
e
nel
rispetto
delle
condizioni
previste
dalla
pertinente
legislazione
dello
Stato
membro
ospitante;
c) Discendenti
diretti
d’età
inferiore
ai
21
anni
o
a
carico
e
quelli
del
coniuge
o
partner
di
cui
alla
lettera
b);
d) Ascendenti
diretti
a
carico
e
quelli
del
coniuge
o
partner
di
cui
alla
lettera
b.
N.B.:
grande
novità
consiste
nell’equiparazione
tra
il
coniuge
e
il
partner
che
abbia
contratto
con
il
cittadino
dell’Unione
un’unione
registrata
sulla
base
della
legislazione
di
uno
Stato
membro.
Il
conferimento
dei
diritti
di
libera
circolazione
ai
familiari
vale
sia
che
si
tratti
di
cittadini
di
Stati
membri,
sia
che
si
tratti
di
cittadini
di
Stati
terzi.
Perché
i
diritti
di
libera
circolazione
possano
essere
invocati
da
una
persona
occorre
che
tale
persona
non
si
trovi
in
una
situazione
puramente
interna
=>
le
disposizioni
relative
alle
libertà
di
circolazione
non
si
applicano
qualora
tutti
gli
elementi
rilevanti
della
fattispecie
siano
confinati
all’interno
di
un
solo
ed
unico
Stato
membro
=>
il
principio
vale
anche
nel
caso
dei
diritti
dei
familiari.
Ad
es.
=>
un
soggetto
può
invocare
in
favore
di
un
proprio
familiare
il
diritto
di
ingresso
e
di
soggiorno
nel
proprio
Stato
membro
ovvero
la
parità
di
trattamento
rispetto
ai
cittadini
nazionali,
in
quanto
egli
stesso
eserciti
attualmente
o
abbia
esercitato
in
passato
la
libera
circolazione.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
le
disposizioni
dei
trattati
sulle
libertà
di
circolazione
delle
persone,
possono
talvolta
essere
invocate
anche
nei
confronti
del
proprio
Stato
nazionale.
=>
ciò
avviene
quando
la
persona,
benché
cittadino
dello
Stato
membro,
nel
cui
territorio
intende
esercitare
i
diritti
di
libera
circolazione,
o
nei
cui
confronti
intende
invocare
i
diritti
di
libera
circolazione,
si
ponga,
rispetto
a
tale
Stato,
in
una
situazione
corrispondente
a
quella
di
un
cittadino
di
un
altro
Stato
membro,
nel
senso
che
abbia
avuto
esperienze
lavorative,
di
formazione
professionale,
di
fruizione
di
servizi
o
semplicemente
risieda
in
un
altro
Stato
membro.
Nel
tempo
la
giurisprudenza
ha
sempre
più
riconosciuto
il
diritto
di
invocare
le
disposizioni
sulla
libera
circolazione
delle
persone
nei
confronti
del
proprio
Stato
membro
nazionale
da
parte
di
cittadini
in
uscita,
cioè
soggetti
che
intendono
utilizzare
la
libera
circolazione
per
andare
a
lavorare
in
un
altro
Stato
membro
o
ivi
beneficiare
di
servizi
o
per
trasferirvi
la
propria
residenza.
3.Il
diritto
di
soggiorno.
DIRITTO
DI
SOGGIORNO
E
DIRITTO
ALLA
PARITA’
DI
TRATTAMENTO
=
“nocciolo
duro”
della
libera
circolazione
rispetto
al
quale
gli
altri
diritti
hanno
natura
strumentale
o
complementare.
PORTATA
DI
TALI
DIRITTI
=>
non
è
uniforme,
ma
varia
a
seconda
della
situazione
personale
del
soggetto
che
li
invoca.
Direttiva
38/2004/CE
=>
un
cittadino
dell’Unione
può
esercitare
nel
territorio
di
uno
Stato
membro,
diverso
da
quello
in
cui
ha
la
cittadinanza
3
tipi
di
soggiorno:
• DIRITTO
DI
SOGGIORNO
SINO
A
TRE
MESI
(art.
6):
Portata
di
questo
diritto
=
RATIONE
PERSONARUM
=>
spetta
a
tutti
i
cittadini
dell’Unione,
senza
alcune
specificazione
e
ai
loro
familiari
non
aventi
la
cittadinanza
di
uno
Stato
membro
che
accompagnino
o
raggiungano
il
cittadino
dell’Unione.
Esercizio
del
diritto
=
PRATICAMENTE
LIBERO
=>
non
è
richiesta
alcuna
condizione
o
formalità,
salvo
il
possesso
di
una
carta
d’identità
o
di
un
passaporto
in
corso
di
validità.
Per
i
familiari
non
aventi
la
cittadinanza
di
uno
Stato
membro
basta
il
possesso
di
un
passaporto
in
corso
di
validità.
• DIRITTO
DI
SOGGIORNO
PER
UN
PERIODO
SUPERIORE
A
TRE
MESI
(art.7):
4
categorie
di
persone,
in
base
alle
quali
sono
fissate
le
CONDIZIONI:
Coloro
che
sono
lavoratori
subordinati
o
autonomi
nello
Stato
membro
ospitante
=>
per
costoro
non
è
prevista
alcuna
condizione.
STUDENTI
=
Coloro
che
sono
iscritti
presso
un
istituto
pubblico
o
privato,
riconosciuto
o
finanziato
dallo
Stato
membro
ospitante
in
base
alla
sua
legislazione
o
prassi
amministrativa,
per
seguirvi
a
titolo
principale
un
corso
di
studi,
inclusa
una
formazione
professionale.
=>
Per
costoro
sono
richieste
due
condizioni:
95
Assicurazione
malattia
=>
essi
devono
disporre
di
un’assicurazione
malattia
che
copra
tutti
i
rischi
nello
Stato
membro
ospitante;
Risorse
economiche
sufficienti
=>
essi
devono
assicurare
all’autorità
nazionale
competente,
con
una
dichiarazione
o
con
altro
mezzo
di
sua
scelta
equivalente,
di
disporre,
per
se
stesso
e
per
i
propri
familiari,
di
risorse
economiche
sufficienti,
affinchè
non
divenga
un
onere
a
carico
dell’assistenza
sociale
dello
Stato
membro
ospitante
durante
il
suo
periodo
di
soggiorno.
SEMPLICI
CITTADINI
=
coloro
che
non
rientrano
in
alcuna
delle
categorie
precedenti.
=>
Per
costoro
sono
richieste
le
stesse
condizioni
richieste
per
gli
studenti
=>
tuttavia,
la
formulazione
di
tali
condizioni
è
più
rigorosa,
dal
momento
che
si
pretende
che
l’interessato
disponga
di
risorse
sufficienti,
non
bastando
che
assicuri
di
disporne.
FAMILIARI
=
che
accompagnano
o
raggiungono
coloro
che
rientrano
nelle
categorie
precedenti
=>
tale
diritto
è
esteso
anche
ai
familiari
che
non
siano
cittadini
di
uno
Stato
membro.
Si
dibatte
se
la
nozione
di
familiari
comprenda
anche
quella
di
un
familiare
cittadino
di
uno
Stato
terzo,
che
non
abbia
già
acquisito
un
diritto
di
soggiorno
nello
Stato
membro
di
provenienza
del
titolare
della
libera
circolazione
o
in
altro
Stato
membro
(soggiornati
irregolari).
• DIRITTO
DI
SOGGIORNO
PERMANENTE
(art.16):
Condizioni
per
l’acquisizione
di
tale
diritto
=
CONDIZIONI
PURAMENTE
TEMPORALI
=>
è
necessario
che
il
cittadino
abbia
soggiornato
legalmente
ed
in
via
continuativa
per
5
anni
nello
Stato
membro
ospitante.
Questo
diritto
di
soggiorno
spetta
anche
ai
familiari
non
aventi
la
cittadinanza
di
uno
Stato
membro
che
abbiano
soggiornato
legalmente
in
via
continuativa
per
5
anni
assieme
al
cittadino
dell’Unione
nello
stato
membro
ospitante.
Una
volta
acquisito
il
diritto
di
soggiorno
permanente,
si
perde
soltanto
a
seguito
di
assenze
dallo
Stato
membro
ospitante
di
durata
superiore
a
2
anni
consecutivi.
4.La
parità
di
trattamento.
PRINCIPIO
DEL
TRATTAMENTO
NAZIONALE
=>
gli
artt.
18,
par.1,
per
i
cittadini,
45,
par.2,
per
i
lavoratori,
49,
co.
2°,
per
il
diritto
di
stabilimento
e
57,
co.
2°,
per
i
servizi
vietano
qualunque
trattamento
discriminatorio
ai
danni
dei
cittadini
degli
altri
Stati
membri
e
impongono
che
tali
cittadini
siano
sottoposti
allo
stesso
trattamento
di
quello
applicato
ai
cittadini
nazionali.
Divieto
di
discriminazione
in
base
alla
nazionalità
=
ruolo
centrale
nel
quadro
delle
norme
sulla
libera
circolazione
delle
persone.
DISCRIMINAZIONI
IN
RILIEVO
=
DISCRIMINAZIONI
DIRETTE
=>
si
tratta
di
normative
che
riservano
un
determinato
trattamento
ai
soli
cittadini
nazionali,
mentre
i
cittadini
di
altri
Stati
membri
ne
sono
del
tutto
esclusi
(cd.
Clausole
di
nazionalità)
o
vi
sono
ammessi
ma
solo
se
rispettano
condizioni
che
non
valgono
per
i
cittadini
nazionali.
Art.
45,
par.2
=>
è
vietato
discriminare
i
lavoratori
degli
altri
Stati
membri
per
quanto
riguarda
l’impiego,
la
retribuzione
e
le
altre
condizioni
di
lavoro.
LE
DISCRIMINAZIONI
IN
BASE
ALLA
NAZIONALITA’
SONO
VIETATE:
• Anche
se
la
fonte
della
discriminazione
è
costituita
da
una
clausola
contenuta
in
contratto
collettivo
o
individuale
di
lavoro;
• Anche
in
materia
di
diritto
di
stabilimento.
Art.
49
=>
il
diritto
di
stabilimento
importa
l’accesso
alle
attività
autonome
e
al
loro
esercizio
alle
condizioni
definite
dalla
legislazione
del
paese
di
stabilimento
nei
confronti
dei
propri
cittadini.
• Anche
in
materia
di
libera
prestazione
di
servizi.
Art.
57,
co.
3°
=>
“senza
pregiudizio
delle
disposizioni
del
capo
relativo
al
diritto
di
stabilimento,
il
prestatore
può,
per
l’esecuzione
della
sua
prestazione,
esercitare,
a
titolo
temporaneo,
la
sua
attività
nel
paese
ove
la
prestazione
è
fornita
alle
stesse
condizioni
imposte
dal
paese
stesso
ai
propri
cittadini”.
• Anche
nel
caso
di
semplici
cittadini.
Art.
18,
par.1
=>
“nel
campo
di
applicazione
dei
trattati
e
senza
pregiudizio
delle
disposizioni
particolari
degli
stessi,
è
vietata
ogni
discriminazione
effettuata
in
base
alla
nazionalità”.
Nel
campo
della
libera
circolazione
delle
persone
sono
vietate
anche
=>
DISCRIMINAZIONI
INIDIRETTE
IN
BASE
ALLA
NAZIONALITA’
=
normative
che,
benché
non
prescrivano
la
nazionalità
come
condizione
96
per
l’attribuzione
di
un
certo
diritto,
impongono
condizioni
che,
pur
essendo
applicabili
a
tutti,
senza
distinzione
di
nazionalità,
sono
difficilmente
soddisfatte
dai
cittadini
degli
altri
Stati
membri.
Sentenza
12
febbraio
1974,
Sotgiu
Il
diritto
all’indennità
di
separazione
era
riservato
ai
soli
lavoratori
che
provenivano
da
un
luogo
situato
all’interno
del
territorio
tedesco.
La
condizione,
non
direttamente
legata
alla
nazionalità,
discriminava
indirettamente
i
lavoratori
di
altri
Stati
membri,
perché
questi
in
gran
parte
provengono
da
luoghi
situati
nei
rispettivi
Stati
membri
d’origine
e
pertanto
al
di
fuori
del
territorio
tedesco.
Tra
le
condizioni
indirettamente
discriminatorie
=
numerose
sono
quelle
attinenti
alla
residenza
nel
territorio
nazionale.
Tra
i
divieti
di
cui
agli
artt.
18,
par.1,
45,
par.2,
56
e
57
rientrano
anche
le
DISCRIMINAZIONI
A
DANNO
DEI
CITTADINI
IN
USCITA.
CITTADINI
IN
USCITA
=
soggetti
i
quali
esercitano
i
diritti
di
libera
circolazione
e
per
questo
vengono
assoggettati
dal
loro
Stato
membro
nazionale
ad
un
trattamento
deteriore
rispetto
a
quello
riservato
ai
cittadini
che
non
utilizzano
tali
diritti.
PER
LA
CORTE
=>
le
facilitazioni
previste
dal
Trattato,
in
materia
di
libera
circolazione,
non
potrebbero
dispiegare
pienamente
i
propri
effetti
se
un
cittadino
di
uno
Stato
membro
potesse
essere
dissuaso
dal
farne
uso
dagli
ostacoli
posti
al
suo
soggiorno
nello
Stato
membro
ospitante,
a
causa
di
una
normativa
del
suo
Stato
d’origine,
che
penalizzi
il
fatto
che
egli
ne
abbia
usufruito.
Spesso
=>
discriminazione
dei
cittadini
in
uscita
=
condizione
di
residenza
sul
territorio
nazionale
che
tali
cittadini
non
possono
soddisfare;
oppure
la
condizione
discriminatoria
può
riguardare
il
luogo
di
svolgimento
dell’attività
o
della
sede
del
prestatore
di
servizi.
Discriminazioni
fondate
sui
criteri
vietati
dai
trattati
=>
non
sempre
sono
a
loro
volta
vietate.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
una
discriminazione
può
essere
giustificata
e
sfuggire
al
divieto.
Occorre
che
la
giustificazione
risponda
a
2
CONDIZIONI:
• Sia
basata
su
considerazioni
obiettive,
indipendenti
dal
criterio
vietato
(nazionalità,
sesso,
età…);
• Rispetti
il
principio
di
proporzionalità.
DISCRIMINAZIONI
DIRETTE
IN
BASE
ALLA
NAZIONALITA’
=>
non
è
ammessa
alcuna
possibilità
di
giustificazione
=>
la
prima
condizione
non
è
mai
soddisfatta.
Le
discriminazioni
dirette
possono
essere
ammesse
solo
nei
casi
in
cui
trovano
applicazione
le
deroghe
alla
libera
circolazione,
previste
dallo
stesso
TFUE
o
da
atti
legislativi
d’applicazione.
In
giurisprudenza
c’è
un
numero
ristretto
di
casi
in
cui
anche
una
discriminazione
diretta
ha
trovato
giustificazione.
DISCRIMINAZIONE
BASATA
SU
CONDIZIONE
NON
DIRETTAMENTE
DISCRIMINATORIA,
ma
che
svantaggia
i
cittadini
di
altri
Stati
membri
=>
può
essere
giustificata
solo
se
basata
su
considerazioni
oggettive,
indipendenti
dalla
cittadinanza
delle
persone
interessate,
e
adeguatamente
commisurate
allo
scopo
legittimamente
perseguito
dall’ordinamento
nazionale.
POSSIBILITA’
DI
ADDURRE
UNA
GIUSTIFICAZIONE
=>
anche
per
DISCRIMINAZIONI
DIRETTE
A
DANNO
DEI
CITTADINI
IN
USCITA,
purchè
siano
rispettate
le
due
condizioni
già
citate
=>
il
criterio
utilizzato
in
discriminazioni
di
questo
tipo
non
è
espressamente
vietato
dal
TFUE
ma
è
di
elaborazione
giurisprudenziale.
Ciò
consente
di
assimilarle,
sotto
il
profilo
della
giustificabilità,
alle
discriminazioni
indirette
in
base
alla
nazionalità.
CONDIZIONE
DELLA
PROPORZIONALITA’
della
discriminazione
rispetto
allo
scopo
perseguito
=>
spesso
si
è
rivelata
un
ostacolo
quasi
insormontabile
per
gli
Stati
membri
interessati.
Alcune
discriminazioni
ammesse
in
via
giurisprudenziale
sono
state
riprese
nella
dir.
2004/38/CE
e
trasformate
in
ECCEZIONI
LEGISLATIVE
AL
PRINCIPIO
DELLA
PARITA’
DI
TRATTAMENTO.
Ciò
accade
in
2
ipotesi,
previste
dall’art.
24,
par.2,
in
deroga
al
par.1:
• Persone
in
cerca
di
occupazione
=>
tali
soggetti
godono
del
diritto
di
soggiorno
fino
a
3
mesi
ai
sensi
dell’art.
6.
Art.
14
=>
essi
possono
soggiornare
nello
Stato
membro
ospite
anche
per
un
periodo
pià
97
lungo,
non
potendo
essere
allontanati
fino
a
quando
i
cittadini
dell’Unione
possono
dimostrare
di
essere
alla
ricerca
di
un
posto
di
lavoro
e
di
avere
buone
possibilità
di
trovarlo.
Questione:
le
persone
che
si
trovano
nella
posizione
descritta
possono
godere
della
parità
di
trattamento,
anche
per
quanto
riguarda
il
diritto
di
ottenere
nello
Stato
membro
ospite
le
stesse
prestazioni
sociali
e
prestazioni
per
persone
in
cerca
di
lavoro
che
spetterebbero
ai
lavoratori
nazionali?
Inizialmente:
la
Corte,
con
la
sentenza
18
giugno
1987,
Lebon
aveva
affermato
che
la
parità
di
trattamento
in
materia
di
vantaggi
sociali
e
fiscali
si
applica
solo
ai
lavoratori,
intesi
come
coloro
che
hanno
già
trovato
un
lavoro.
Attualmente:
art.
24,
par.2
=>
“lo
Stato
membro
ospitante
non
è
tenuto
ad
attribuire
il
diritto
a
prestazioni
d’assistenza
sociale
durante
i
primi
3
mesi
di
soggiorno
o
durante
il
periodo
più
lungo
previsto
dall’art.14”.
Poche
settimane
prima
dell’adozione
della
direttiva:
la
Corte
aveva
in
parte
rovesciato
la
sentenza
Lebon,
con
la
sentenza
23
marzo
2003,
Collins.
Sentenza
23
marzo
2003,
Collins
La
Corte
non
sembra
consentire
allo
Stato
membro
ospite
di
negare
a
priori
ad
una
persona,
come
il
Sig.
Collins,
il
diritto
ad
un’indennità
per
persone
in
cerca
di
lavoro.
Essa
ammette
soltanto
che
tale
Stato
possa
decidere
di
concedere
l’indennità
ai
soli
cittadini
degli
altri
Stati
membri
che
stiano
attivamente
cercando
lavoro
nel
suo
territorio
nazionale.
Per
verificare
tale
circostanza,
lo
Stato
ospite
può
fissare
come
condizione
un
periodo
minimo
di
residenza,
purchè
i
requisiti
da
soddisfare
a
tal
fine
siano
chiari
e
noti
in
anticipo
e
soprattutto
la
durata
del
periodo
minimo
richiesto
non
sia
sproporzionata
allo
scopo.
Gli
Stati
membri
non
sembrano
più
liberi
di
negare
l’indennità
in
questione
sine
die,
fino
a
quando
l’interessato
non
avrà
trovato
lavoro.
• Studenti
=>
Art.
24,
par.2
=>
“Lo
Stato
membro
ospitante
non
è
tenuto
a
concedere
prima
dell’acquisizione
del
diritto
di
soggiorno
permanente
aiuti
di
mantenimento
agli
studi,
compresa
la
formazione
professionale,
consistenti
in
borse
di
studio
o
prestiti
per
studenti,
a
persone
che
non
siano
lavoratori
subordinati
o
autonomi
che
non
mantengano
tale
status
o
loro
familiari
”.
Lo
studente
ha
diritto
a
ottenere
dallo
Stato
ospite
le
stesse
borse
di
studio
o
gli
stessi
prestiti
previsti
per
gli
studenti
cittadini
dello
Stato
membro
ospite,
soltanto
in
due
casi:
Lo
studente
ha
lo
status
di
lavoratore
subordinato
o
autonomo
o
di
familiare
di
un
tale
soggetto;
Lo
studente
ha
acquisito
il
diritto
di
soggiorno
permanente
ai
sensi
degli
artt.
16
e
ss.
della
direttiva.
In
questa
materia
è
intervenuta
la
Corte
con
la
sentenza
15
marzo
2005,
Bidar.
Sentenza
15
marzo
2005,
Bidar
Questa
sentenza
ridimensiona
la
portata
dell’art.
24,
par.2,
della
dir
2004/38/CE
=>
gli
Stati
non
potrebbero
negare
a
priori
il
diritto
alle
borse
di
studio
e
ai
prestiti
agli
studenti
ai
cittadini
di
altri
Stati
membri
che
non
rispondano
alle
restrittive
condizioni
previste
dalla
norma
stessa
ma,
per
poterlo
fare,
dovrebbero
giustificare
la
propria
scelta
in
base
a
considerazioni
oggettive,
estranee
a
qualunque
intento
discriminatorio
e
dovrebbero
rispettare
il
principio
di
proporzionalità.
Il
rispetto
di
tale
principio
sembrerebbe
escludere
criteri
rigidi,
che
impediscano
i
prendere
in
considerazione
la
situazione
personale
della
persona
coinvolta.
ECCEZIONE
LINGUISTICA
=
eccezione
legislativa
al
principio
della
parità
di
trattamento,
prevista
dal
reg.
1612/68
=>
riguarda
i
requisiti
di
conoscenza
della
lingua
nazionale
dello
Stato
membro
ospite.
L’art.
3,
par.1,
co.2°
del
reg.
consente
agli
Stati
membri
di
imporre
ai
cittadini
degli
altri
Stati
membri
che
intendano
svolgere
un’attività
lavorativa
di
dimostrare
di
avere
una
conoscenza
sufficiente
della
lingua
nazionale
dello
Stato
ospite.
5.Le
deroghe
alla
libera
circolazione
delle
persone.
2
DEROGHE,
previste
dal
TFUE,
ALLA
LIBERA
CIRCOLAZIONE
DEI
LAVORATORI:
1. Deroga,
prevista
dall’art.
45,
par.3,
che
fa
salve
le
limitazioni
giustificate
da
motivi
d’ordine
pubblico,
pubblica
sicurezza
e
sanità
pubblica;
2. Deroga,
prevista
dall’art.
45,
par.4,
a
norma
del
quale
le
disposizioni
del
presente
articolo
non
sono
applicabili
agli
impieghi
nella
pubblica
amministrazione.
98
2
DEROGHE
NEL
CAMPO
DEL
DIRITTO
DI
STABILIMENTO,
applicabili
anche
alla
libera
prestazione
di
servizi:
1. Deroga,
prevista
dall’art.
52,
par.1,
a
norma
del
quale
le
prescrizioni
del
presente
capo
e
le
misure
adottate
in
virtù
di
quest’ultimo
lasciano
impregiudicata
l’applicabilità
delle
disposizioni
legislative,
regolamentari
ed
amministrative,
che
prevedono
un
regime
particolare,
per
i
cittadini
stranieri
e
che
sono
giustificati
da
motivi
d’ordine
pubblico,
di
pubblica
sicurezza
e
di
sanità
pubblica.
2. Deroga,
prevista
dall’art.
51,
co.
1°,
a
norma
del
quale
sono
escluse
dall’applicazione
delle
disposizioni
del
presente
capo
le
attività
che
nello
Stato
membro
interessato
partecipano,
sia
pur
occasionalmente,
all’esercizio
di
pubblici
poteri.
Deroga
ex
art.
45,
par.3
&
deroga
ex
art.
52,
par.1
=>
LOGICA
COMUNE
=
consentire
agli
Stati
membri
restrizioni
alla
libera
circolazione
dei
lavoratori,
subordinati
o
autonomi,
per
ragioni
di
ordine
pubblico,
pubblica
sicurezza
;
Deroga
ex
art.
45,
par.4
&
deroga
ex
art.
51,
co.
1°
=>
LOGICA
COMUNE
=
consentire
agli
Stati
membri
di
riservare
ai
propri
cittadini
(escludendo
quelli
degli
altri
Stati
membri)
quelle
attività
lavorative
particolarmente
delicate:
Impieghi
nella
pubblica
amministrazione;
Attività
che
comportano
l’esercizio
di
pubblici
poteri.
NESSUNA
DEROGA
IN
MATERIA
DI
LIBERA
CIRCOLAZIONE
DEI
CITTADINI
=>
MA
=>
Art.
21,
par.1
=>
“fa
salve
le
limitazioni
e
le
condizioni
previste
dai
trattati
e
dalle
disposizioni,
adottate
in
applicazione
degli
stessi”
=>
anche
il
diritto
di
circolare
e
soggiornare
liberamente
negli
Stati
membri
è
soggetto
alla
limitazione
stabilita
negli
artt.
45,
par.3
e
52,
par.1.
La
libertà
di
circolare
dei
semplici
cittadini
può
essere
ristretta
per
ragioni
di
ordine
pubblico,
pubblica
sicurezza
e
salute
pubblica.
TUTTE
LE
DEROGHE
=>
NECESSITANO
UN’INTERPRETAZIONE
RESTRITTIVA.
ATTI
LEGISLATIVI
emanati
in
funzione
della
deroga
per
ragioni
di
ordine
pubblico,
pubblica
sicurezza
e
salute
pubblica:
• Dir.
64/221/CEE
del
Consiglio,
per
il
coordinamento
dei
provvedimenti
speciali,
riguardanti
il
trasferimento
e
soggiorno
degli
stranieri,
giustificati
da
motivi
d’ordine
pubblico,
di
pubblica
sicurezza
e
di
sanità
pubblica
=>
ABROGATA
e
SOSTITUITA
dagli
artt.
27-33
della
dir.
2004/38/CE.
Art.
27,
par.1=>
deroga
per
motivi
di
ordine
pubblico,
pubblica
sicurezza
e
salute
pubblica
=
non
può
essere
invocata
per
fini
economici.
=>
Motivi
più
importanti
sono
quelli
legati
all’ordine
pubblico
e
alla
pubblica
sicurezza.
Art.
27,
par.2,
co.
1°
=>
I
provvedimenti
basati
su
motivi
di
ordine
pubblico
o
di
pubblica
sicurezza
devono:
Rispettare
il
principio
di
proporzionalità
=>
il
principio
impone
che
il
tipo
di
provvedimento
adottato
sia
revocabile.
N.B.:
il
provvedimento
dev’essere
adeguato
al
grado
di
integrazione
della
persona
che
ne
è
oggetto,
rispetto
allo
Stato
membro
ospite.
Al
principio
di
proporzionalità
deve
aggiungersi
il
rispetto
dei
diritti
fondamentali;
Essere
adottati
esclusivamente
in
relazione
al
comportamento
personale
della
persona
nei
riguardi
della
quale
sono
applicati.
=>
Comportamento
personale
=>
esclude
che
provvedimenti
del
genere
riguardino
interi
gruppi
o
categorie
di
cittadini
di
altri
Stati
membri.
=>
il
comportamento
deve
rappresentare
una
minaccia
reale,
attuale
e
sufficientemente
grave
da
pregiudicare
un
interesse
fondamentale
della
società.
Questione
relativa
al
PRINCIPIO
DI
NON
DISCRIMINAZIONE
=>
il
comportamento
di
un
cittadino
di
un
altro
Stato
membro
che,
se
tenuto
da
un
cittadino
dello
Stato
ospite
non
darebbe
luogo
a
sanzioni,
può
essere
considerato
come
un
comportamento
tale
da
giustificare
provvedimenti
restrittivi
della
libertà
di
circolazione?
La
dir.
=>
prevede
garanzie
processuali
a
favore
della
persona
oggetto
di
provvedimento
restrittivo.
Esse
sono:
Notificazione
all’interessato
dei
provvedimenti
a
suo
carico,
in
cui
vi
è
indicazione
dei
motivi
e
dei
mezzi
di
ricorso
esperibili;
Concessione
di
un
termine
minimo
di
un
mese
per
lasciare
il
territorio
dello
Stato
membro
ospite,
salvo
casi
d’urgenza;
99
100
essere
soddisfatti
da
cittadini
dello
Stato
membro
B,
soprattutto
se
operanti
il
regime
di
libera
prestazione,
quindi
privi
di
stabile
contratto
con
lo
Stato
membro
A.
Art.
53
TFUE
=>
prevede
un’apposita
base
giuridica
che
permette
l’adozione
di
direttive
cha
agevolino
l’accesso
alle
attività
non
salariate
e
il
loro
esercizio.
Scopo
delle
direttive
=>
permettere
il
reciproco
riconoscimento
di
diplomi,
certificati
e
altri
titoli
e
il
coordinamento
delle
disposizioni
legislative,
regolamentari
e
amministrative
degli
Stati
membri,
relative
all’accesso
alle
attività
non
salariate
e
al
loro
esercizio.
IMPORTANTI
DIRETTIVE:
• Direttiva
servizi
=>
dir.
2006/123/CE
di
P.E.
e
Consiglio,
relativa
ai
servizi
nel
mercato
interno;
• Direttiva
qualifiche
professionali
=>
dir.
2005/36/CE
di
P.E.
e
Consiglio,
relativa
al
riconoscimento
delle
qualifiche
professionali.
2.I
beneficiari.
Art.
57
=>
prestazioni
di
servizi
“fornite
normalmente
dietro
retribuzione”
=>
la
norma
è
dettata
in
materia
di
servizi
=>
MA
=>
può
essere
utilizzata
anche
a
proposito
di
diritto
di
stabilimento.
REQUISITI
DELL’ATTIVITA’
AUTONOMA:
• Attività
economica;
• Attività
retribuita
=>
la
retribuzione
può
anche
non
essere
a
carico
del
destinatario
del
servizio.
OGGETTO
DELL’ATTIVITA’
=>
può
essere
il
più
diverso
=>
MA
=>
art.
57
=>
i
servizi
comprendono
“in
particolare”:
• Attività
di
carattere
industriale;
• Attività
di
carattere
commerciale;
• Attività
artigiane;
• Libere
professioni.
Art.
54
=>
anche
società
sono
beneficiarie
di
diritto
di
stabilimento
e
libera
prestazione
di
servizi
=>
“Le
società
commerciali,
costituite
conformemente
alla
legislazione
di
uno
Stato
membro
e
aventi
la
sede
sociale,
l’amministrazione
centrale
o
il
centro
di
attività
principale
all’interno
dell’Unione
sono
equiparate
alle
persone
fisiche
aventi
la
cittadinanza
di
uno
Stato
membro”.
L’assimilazione
tra
società
e
persone
fisiche,
almeno
per
il
diritto
di
stabilimento
non
è
del
tutto
completa.
LE
SOCIETA’
=>
godono
unicamente
del
DIRITTO
DI
STABILIMENTO
SECONDARIO
=>
possono
aprire
agenzie,
succursali
o
filiali
in
un
altro
Stato
membro,
diverso
da
quello
della
sede,
ma
non
possono
trasferire
la
propria
sede
legale
o
reale
da
uno
Stato
membro
all’altro,
se
non
in
quanto
ciò
sia
ammesso
dalle
legislazioni
di
entrambi
gli
Stati.
Modelli
volti
a
favorire
la
cooperazione
tra
operatori
di
Stati
membri
diversi:
• GEIE
=>
Gruppo
europeo
di
interesse
economico;
• SE
=>
Società
europea;
• SCE
=>
Società
cooperativa
europea.
DESTINATARI
DI
SERVIZI
=>
altri
beneficiari
della
libera
prestazione,
ai
sensi
dell’art.
56.
NON
E’
destinatario
di
servizi
=>
“il
cittadino
di
uno
Stato
membro
che
stabilisce
la
sua
residenza
principale
sul
territorio
di
uno
Stato
membro
per
beneficiarvi
di
prestazioni
di
servizi
per
una
durata
indeterminata”
(art.
56).
LA
CORTE
=>
considera
come
fattispecie
rientranti
nel
campo
di
applicazione
dell’art.
56
anche
quelle
di
soggetti
stabiliti
nel
proprio
Stato
membro,
che,
senza
spostarsi
fisicamente,
in
altri
Stati
membri,
per
svolgere
la
propria
attività,
abbiano
tra
i
propri
clienti
anche
soggetti
stabiliti
in
altri
Stati
membri
(cd.
Fenomeno
della
bilateralizzazione).
3.La
distinzione
tra
stabilimento
e
prestazione
di
servizi.
DIRITTO
DI
STABILIMENTO
=>
riguarda
il
soggetto
che
vuole
stabilirsi,
cioè
esercitare
stabilmente
un’attività
autonoma
di
carattere
economico
in
uno
Stato
membro,
nel
quale
non
era
stabilito
precedentemente;
101
LIBERA
PRESTAZIONE
DI
SERVIZI
=>
riguarda
il
soggetto
che
presta
la
propria
attività
in
uno
Stato
membro,
diverso
da
quello
in
cui
è
stabilito,
senza
stabilirsi
nello
Stato
della
prestazione.
Necessità
della
distinzione
=>
attualmente,
la
prestazione
di
attività
autonome
può
essere
effettuata,
dal
punto
di
vista
pratico,
senza
che
il
prestatore
si
stabilisca
nello
Stato
ove
la
prestazione
avviene.
DIFFERENZA
SOSTANZIALE
TRA
LE
2
LIBERTA’:
• Attività
effettuata
in
regime
di
stabilimento
=>
è
assoggettata
alla
legge
dello
Stato
membro
di
stabilimento;
• Attività
effettuata
in
regime
di
libera
prestazione
=>
è
assoggettata
alla
legge
dello
Stato
membro
d’origine
(home
country)
e
non
a
quella
dello
Stato
membro
della
prestazione
(host
country).
Sussiste
una
preferenza
per
i
soggetti
che
svolgano
la
propria
attività
come
semplice
prestazione
di
servizi,
piuttosto
che
come
attività,
implicante
l’onere
dello
stabilimento.
CARATTERE
DISTINTIVO
TRA
LE
NOZIONI
DELLE
2
LIBERTA’:
• Art.
49,
co.2°
=>
il
diritto
di
stabilimento
“importa
l’accesso
alle
attività
non
salariate
e
al
loro
esercizio,
nonché
la
costituzione
e
la
gestione
di
imprese
e
di
società
ai
sensi
dell’art.48,
co.2°,
alle
condizioni
stabilite
dalla
legislazione
del
paese
di
stabilimento
nei
confronti
dei
propri
cittadini…”
=>
CARATTERE
STABILE.
• Art.
57,
co.3°
=>
in
base
alla
libera
prestazioni
di
servizi,
“il
prestatore
può,
per
l’esecuzione
della
sua
prestazione,
esercitare
a
titolo
temporaneo,
la
sua
attività
nello
Stato
membro,
ove
la
prestazione
è
fornita,
alle
stesse
condizioni
imposte
da
tale
Stato
ai
propri
cittadini”
=>
CARATTERE
TEMPORANEO.
Per
definire
se
il
carattere
dell’attività
è
stabile
o
temporaneo:
• PER
LA
CORTE
=>
Si
escludono
CRITERI
QUANTITATIVI
=>
un
prestatore
potrebbe
mantenere
la
propria
qualità
di
libero
prestatore
e
non
essere
soggetto
all’obbligo
di
stabilirsi,
anche
se
la
sua
attività
consiste
in
una
pluralità
di
prestazioni.
• PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
Può
essere
utilizzato
il
CRITERIO
DELLA
PREVALENZA
=>
se
l’attività
svolta
nello
Stato
membro
ospite
è
prevalente
rispetto
a
quella
svolta
nello
Stato
membro
d’origine,
ciò
è
considerato
sufficiente
a
escludere
che
l’attività
possa
essere
svolta
in
regime
di
libera
prestazione.
MA
=>
questo
criterio
ha
un’utilità
limitata
=>
serve
solo
ad
escludere
l’applicazione
delle
norme
sulla
libera
prestazione
in
casi
estremi.
Al
di
fuori
di
essi,
il
criterio
non
è
applicabile
=>
un’attività
svolta
nello
Stato
membro
che
sia
quantitativamente
rilevante,
anche
se
non
prevalente
rispetto
all’attività
dello
stesso
tipo
svolta
nello
Stato
membro
d’origine,
non
rientra
solo
per
questo
nel
campo
d’applicazione
della
libera
prestazione
=>
occorre
verificare
se
il
prestatore
non
vada
considerato
stabilito,
oltre
che
nello
Stato
membro
d’origine,
anche
nello
Stato
membro
ospite,
nella
forma
di
stabilimento
secondario.
• Si
escludono
i
CRITERI
DELLA
DURATA
O
FREQUENZA
della
presenza
del
prestatore
nello
Stato
membro
della
prestazione.
Questi
criteri
escluderebbero
a
priori
dal
campo
d’applicazione
dell’art.
56
tutte
quelle
attività
che
richiedono
un
tempo
di
esecuzione
prolungato
e
frequenti
spostamenti
del
prestatore
nello
Stato
membro
ospite.
N.B.:
questi
criteri
sembrano
rilevanti
se
riferiti
ad
un
numero
ampio
e
non
predefinito
di
prestazioni.
Ciò
risulta
nella
Sentenza
30
novembre
1995
Gebhard
=>
PER
LA
CORTE
=>
non
ricade
nella
libera
prestazione
di
servizi
ma
nel
diritto
di
stabilimento
il
caso
del
cittadino
di
uno
Stato
membro
che
esercita
in
maniera
stabile
e
continuativa
un’attività
professionale
in
un
altro
Stato
membro
da
un
domicilio
professionale
in
cui
offre
i
suoi
servizi,
ai
cittadini
di
quest’ultimo
Stato
membro.
• Si
preferisce
il
CRITERIO
DEL
TIPO
di
sede
o
infrastruttura
di
cui
si
dota
il
prestatore
nello
Stato
membro
della
prestazione.
LA
SEDE
=>
per
non
essere
considerata
prova
di
stabilimento
=>
dev’essere
proporzionata
ad
un’attività
di
natura
temporanea,
perciò
stessa
limitata.
4.Il
diritto
di
stabilimento.
Art.
49,
co.1°=>
“Nel
quadro
delle
disposizioni
che
seguono,
le
restrizioni
alla
libertà
di
stabilimento
dei
cittadini
di
uno
Stato
membro
nel
territorio
di
un
altro
Stato
membro
vengono
vietate.
Tale
divieto
si
estende
alle
restrizioni
relative
all’apertura
di
agenzie,
succursali
o
filiali
da
parte
di
cittadini
di
uno
Stato
membro,
stabiliti
sul
territorio
di
uno
Stato
membro”.
FORME
DI
STABILIMENTO:
102
• STABILIMENTO
PRIMARIO
=>
è
il
diritto
di
stabilimento
vero
e
proprio,
che
si
realizza
quando
un
soggetto
stabilisce
in
uno
Stato
membro,
diverso
dal
proprio,
il
proprio
unico
centro
d’attività;
• STABILIMENTO
SECONDARIO
=>
è
il
diritto
di
aprire
agenzie,
succursali
o
filiali,
che
si
realizza
quando
un
soggetto,
che
è
già
stabilito
in
uno
Stato
membro,
crea
un
ulteriore
centro
di
attività
in
un
altro
Stato
membro.
PORTATA
DEL
DIRITTO
DI
STABILIMENTO
PRIMARIO
=>
art.
49,
co.2°
=>
“la
libertà
di
stabilimento
importa
l’accesso
alle
attività
salariate
e
al
loro
esercizio,
nonché
la
costituzione
e
la
gestione
di
imprese
e
in
particolare
di
società,
ai
sensi
dell’art.54,
co.2°,
alle
condizioni
stabilite
dalla
legislazione
del
paese
di
stabilimento,
nei
confronti
dei
propri
cittadini,
fatte
salve
le
disposizioni
del
capo
relativo
ai
capitali
”.
=>
DOPPIO
CONTENUTO
DELLA
NORMA:
1. Diritto
di
accesso
e
di
esercizio
delle
attività
autonome
nel
territorio
di
altro
Stato
membro
=>
è
possibile
che
ciò
avvenga
attraverso
la
costituzione
e
la
gestione
di
imprese
o
società
di
cui
il
soggetto
interessato
detiene
il
controllo.
Art.
49,
co.2°=>
vieta
qualsiasi
normativa
che
impedisca
ai
cittadini
di
altri
Stati
membri
di
svolgere
determinate
attività
autonome,
consentite,
invece,
ai
soli
cittadini
nazionali
(clausole
di
nazionalità).
=>
Esempio
classico
=
Sentenza
Reyners
=>
non
consentiva
l’iscrizione
di
stranieri
all’ordine
degli
avvocati,
impedendo
loro
di
dedicarsi
alla
professione
forense.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
è
contraria
all’art.
49
anche
la
normativa
dello
Stato
membro
che
vieti
lo
svolgimento
sul
proprio
territorio
di
una
certa
attività
o
la
affidi,
in
regime
di
monopolio
o
di
esclusiva
a
un
soggetto
pubblico
o
privato
nazionale.
2. Principio
del
trattamento
nazionale
=>
vieta
allo
Stato
membro
dello
stabilimento
di
imporre
ai
cittadini
di
altri
Stati
membri,
che
intendono
stabilirsi
nel
proprio
territorio,
condizioni
diverse
da
quelle
applicate
ai
proprio
cittadini.
VIOLAZIONI
DEL
PRINCIPIO:
Discriminazione
diretta
o
palese
=>
si
ha
con
disposizioni
che,
pur
consentendo
lo
svolgimento
di
attività
autonome
da
parte
di
cittadini
di
altri
Stati
membri,
assoggettano
costoro
a
condizioni
diverse
o
meno
favorevoli
dei
cittadini
nazionali;
Discriminazione
indiretta
o
occulta
=>
si
ha
con
una
normativa
di
uno
Stato
membro
che,
pur
applicandosi
in
base
a
criteri
indipendenti
dalla
nazionalità,
discrimini
di
fatto
i
cittadini
di
altri
Stati
membri,
in
quanto
per
questi
risulta
più
difficile
soddisfare
i
criteri
d’applicazione
della
norma
che
non
per
i
cittadini
nazionali
=>
Esempio:
normative
nazionali
che
subordinano
la
possibilità
di
esercitare
talune
attività
o
beneficiare
di
taluni
regimi
a
requisiti
di
residenza
nel
territorio
nazionale.
Discriminazione
materiale
=>
si
ha
con
una
norma
applicabile
tanto
ai
cittadini
nazionali
quanto
a
quelli
di
altri
Stati
membri,
quando
questi
ultimi,
proprio
perché
trattati
alla
stessa
stregua
dei
primi,
siano
di
fatto
sfavoriti.
N.B.:
PER
LA
CORTE
=>
possono
essere
ostacoli
al
diritto
di
stabilimento
anche
=>
NORMATIVE
NAZIONALI
INDISTINTAMENTE
APPLICABILI
5.Segue:
il
diritto
di
stabilimento
secondario.
DIRITTO
DI
STABILIMENTO
SECONDARIO:
Art.
49,
co.1°
=>
“agenzie,
succursali
o
filiali”=>
sembra
alludere
a
centri
di
attività
subalterni
rispetto
ad
un
centro
principale
di
attività,
situato
in
un
altro
Stato
membro.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
non
sempre
l’esistenza
nello
Stato
membro
d’origine
di
un
centro
(stabilimento
primario),
costituisce
presupposto
necessario
per
l’esercizio
del
diritto
di
stabilimento
secondario
in
un
altro
Stato
membro.
SOLUZIONE
CONTRARIA
=>
è
stata
accolta
in
merito
alle
società
=>
Sentenza
9
marzo
1999,
Centros.
DOPPIO
CONTENUTO
DEL
DIRITTO
DI
STABILIMENTO
SECONDARIO:
• Diritto
di
apertura
di
una
filiale
=>
diritto
di
aprire
in
un
altro
Stato
membro
un’agenzia,
una
succursale,
una
filiale
o
un
altro
centro
stabile
di
attività,
comunque
denominato.
Numerosi
ostacoli
sono
opposti
a
questo
diritto,
soprattutto
nel
settore
delle
professioni
libere,
in
cui
nonostante
il
linguaggio
dell’art.
49
sembri
riferirsi
ad
attività
di
tipo
commerciale
ed
imprenditoriale,
l’istituto
dello
stabilimento
secondario
si
applica
pienamente.
• Principio
del
trattamento
nazionale
=>
spesso
il
tertium
comparazioni
per
stabilire
se
vi
sia
o
meno
discriminazione,
nell’ambito
dello
stabilimento
secondario,
è
costituito
dai
soggetti
che
hanno,
nel
103
territorio
dello
Stato
membro
in
questione,
lo
stabilimento
principale
=>
ai
soggetti
che
nello
Stato
membro
in
questione
si
limitano
ad
aprire
una
filiale,
dev’essere
esteso
il
trattamento
che
la
legislazione
locale
riserva
ai
soggetti
che
nel
territorio
nazionale
hanno
lo
stabilimento
principale.
6.La
libera
prestazione
di
servizi.
Art.
56
=>
“nel
quadro
delle
disposizioni
seguenti,
le
restrizioni
alla
libera
prestazione
dei
servizi
all’interno
dell’Unione
sono
vietate
nei
confronti
dei
cittadini
degli
Stati
membri
stabiliti
in
uno
Stato
membro
che
non
sia
quello
del
destinatario
della
prestazione”.
Art.
57,
co.
3°
=>
“senza
pregiudizio
delle
disposizioni
del
capo
relativo
al
diritto
di
stabilimento,
il
prestatore
può,
per
l’esecuzione
della
sua
prestazione,
esercitare,
a
titolo
temporaneo,
la
sua
attività
nello
Stato
membro,
ove
la
prestazione
è
fornita,
alle
stesse
condizioni
imposte
da
tale
Stato
ai
propri
cittadini”.
DOPPIO
CONTENUTO
DELLA
LIBERA
PRESTAZIONE:
• Diritto
di
esercizio
temporaneo
della
propria
attività
in
un
host
country=>
attribuito
al
prestatore
stabilito
in
un
home
country.
Qualora
lo
Stato
membro
dello
stabilimento
e
quello
della
prestazione
coincidano
=>
situazione
puramente
interna
=>
l’art.
49
non
è
applicabile.
Quanto
a
questo
diritto,
gli
art.
56
e
57
comportano
2
DIVIETI:
Divieto
di
clausole
di
nazionalità;
Divieto
di
clausole
di
residenza
o
di
stabilimento
=>
esse
consistono
in
quelle
disposizioni,
presenti
nelle
legislazioni
nazionali,
le
quali
riservano
l’esercizio
di
una
determinata
attività
ai
soggetti
residenti
o
stabiliti
sul
territorio
dello
Stato
in
questione
ed
escludono
dalla
stessa
attività
i
soggetti
stabiliti
all’estero.
N.B.:
a
tali
clausole
possono
essere
assimilate
quelle
che
impongono
ai
liberi
prestatori
l’obbligo
di
iscrizione
ad
un
albo
professionale,
in
quanto
spesso
presuppongono
un
obbligo
di
residenza.
PER
LA
CORTE
=>
esigere
lo
stabilimento
nel
territorio
nazionale
per
lo
svolgimento
di
una
determinata
attività
costituisce
la
negazione
stessa
della
libera
prestazione.
• Principio
del
trattamento
nazionale
=>
in
base
ad
esso
vengono
stabilite
le
condizioni
alle
quali
lo
Stato
della
prestazione
può
subordinare
l’esercizio
di
tale
diritto.
CONDIZIONI
imposte
al
libero
prestatore
=>
devono
essere
quelle
imposte
dallo
Stato
membro
della
prestazione
ai
propri
cittadini.
Nell’ambito
della
libera
prestazione,
il
divieto
di
discriminazione
si
estende
a:
Discriminazioni
dirette
in
base
alla
nazionalità;
Discriminazioni
indirette:
PER
LA
CORTE
=>
con
la
Sentenza
Sotgiu
=>
il
divieto
di
discriminazione
di
cui
all’art.
57,
co.
3°
colpisce
“anche
qualsiasi
forma
di
discriminazione
dissimulata
che,
sebbene
basata
su
criteri
in
apparenza
neutri,
produca
in
pratica
lo
stesso
risultato”;
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
nemmeno
la
mera
assimilazione
del
libero
prestatore
al
prestatore
stabilito
è
sufficiente
ad
assicurare
la
libertà
in
esame.
=>
spesso
le
condizioni
d’esercizio
imposte
ad
ogni
prestatore,
stabilito
o
meno,
dalla
normativa
dello
Stato
membro
costituiscono
per
il
prestatore
non
stabilito
un
ostacolo
insormontabile
o
estremamente
gravoso.
Quindi
=>
LA
CORTE
=>
distingue
tra
restrizioni
alla
libera
prestazione
e
discriminazioni
e
considera
vietate
anche
le
norme
indistintamente
applicabili.
TRA
LE
DISCRIMINAZIONI
INDIRETTE
:
Discriminazioni
in
base
al
luogo
di
stabilimento
del
prestatore
=>
presenti
in
normative
nazionali
che
prevedono
un
trattamento
diverso
e
meno
favorevole
per
i
liberi
prestatori,
rispetto
a
quello
applicabile
ai
soggetti
stabiliti;
Discriminazioni
in
base
al
luogo
in
cui
è
effettuata
la
prestazione
=>
presenti
in
norme
che
subordinano
la
concessione
di
un
determinato
trattamento
di
favore
alla
condizione
che
la
prestazione
di
servizi
sia
avvenuta
nello
Stato
membro
che
concede
il
trattamento
e
non
in
altri
Stati
membri
diversi.
=>
queste
norme
svantaggiano
i
soggetti
che
scelgono
di
ricevere
la
prestazione
in
uno
Stato
membro
diverso
dal
proprio
e
solo
indirettamente
i
prestatori
non
stabiliti,
rispetto
a
quelli
stabiliti.
N.B.:
entrambe
queste
discriminazioni
non
sono
vietate
se
è
possibile
invocare
una
giustificazione
basata
su
considerazioni
obiettive,
estranee
alla
nazionalità
e
se
viene
rispettato
il
criterio
di
proporzionalità.
Tra
le
giustificazioni
frequentemente
ammesse
dalla
Corte
=>
quella
basata
sulla
necessità
di
salvaguardare
la
coerenza
del
sistema
fiscale.
104
7.Ostacoli
non
discriminatori
al
diritto
di
stabilimento
e
alla
libera
prestazione
di
servizi.
ORIENTAMENTO
DELLA
CORTE
DA
ALCUNI
ANNI
=>
una
normativa
applicabile
tanto
ai
prestatori
stabiliti,
quanto
a
quelli
agenti
in
regime
di
libera
prestazione
(normative
indistintamente
applicabili)
può
comportare,
in
quanto
applicata
ai
secondi,
una
restrizione
alla
libera
prestazione
dei
servizi.
N.B.:
Secondo
alcuni
l’estensione
della
nozione
di
ostacoli
alla
libera
prestazione
di
servizi
anche
alle
normative
indistintamente
applicabili
potrebbe
spiegarsi
in
termini
di
discriminazione
materiale.
Art.
56
TFUE
=>
prescrive
anche
la
soppressione
di
qualsiasi
restrizione,
anche
se
essa
si
applichi
indistintamente
ai
prestatori
nazionali
ed
a
quelli
degli
altri
Stati
membri,
allorchè
essa
sia
tale
da
vietare
o
da
ostacolare
in
altro
modo
le
attività
del
prestatore
stabilito
in
un
altro
Stato
membro,
ove
fornisce
legittimamente
servizi
analoghi.
Tale
orientamento
si
è
manifestato
per
la
prima
volta
con
la
Sentenza
17
dicembre
1981,
Webb.
Pensiero
della
Corte
espresso
nella
sentenza
Webb:
• Anche
la
normativa
che
disciplina
in
uno
Stato
membro
l’accesso
e
l’esercizio
di
una
determinata
attività
e
si
applica
indistintamente
a
tutti
coloro
che
intendono
svolgere
tale
attività
può
costituire
un
ostacolo
alla
libera
prestazione
di
servizi;
• Un
ostacolo
del
genere
sfugge
al
divieto
di
cui
all’art.
56,
se
giustificato
dal
pubblico
interesse;
• Occorre
verificare
che
il
pubblico
interesse
non
sia
soddisfatto
dalla
normativa
cui
è
soggetto
il
prestatore
nello
Stato
d’origine.
Tale
orientamento
è
stato
confermato
con
la
Sentenza
25
luglio
1991,
Sager.
Sentenza
25
luglio
1991,
Sager
IL
CASO
=>
riguardava
la
normativa
tedesca
che
riservava
ai
consulenti
in
materia
di
brevetti
l’esercizio
di
alcune
attività
per
conto
di
terzi
connesse
al
controllo
e
al
rinnovo
dei
libretti.
La
normativa
avrebbe
impedito
l’esercizio
di
dette
attività
ad
una
società
stabilita
nel
Regno
Unito
e
non
munita
della
richiesta
qualifica
professionale.
LA
CORTE
=>
ricorda
che
“uno
Stato
membro
non
può
subordinare
l’esecuzione
della
prestazione
di
servizi
sul
suo
territorio
all’osservanza
di
tutte
le
condizioni
prescritte
per
lo
stabilimento,
perché
altrimenti
priverebbe
di
qualsiasi
effetto
utile
le
norme
del
Trattato,
dirette
a
garantire
appunto
la
libera
prestazione
dei
servizi”.
La
corte
ammette
che
la
normativa
tedesca
in
questione,
che
determina
una
restrizione
alla
libera
prestazione,
può
essere
giustificata
da
motivi
imperativi
di
pubblico
interesse,
ma
ritiene
che,
comunque,
questa
normativa
si
spinga
oltre
il
necessario
per
garantire
la
tutela
di
questo
interesse.
Nelle
sentenze
richiamate,
la
Corte
ha
elaborato
un
vero
e
proprio
test,
il
Test
Webb,
cui
sottoporre
le
normative
nazionali
indistintamente
applicabili.
TEST
WEBB
=>
prevede
4
CONDIZIONI
perché
la
normativa
possa
essere
estesa
ai
prestatori
non
stabiliti
senza
creare
una
restrizione
alla
libera
prestazione
=>
LA
NORMATIVA:
1. Deve
applicarsi
in
modo
non
discriminatorio;
2. Deve
essere
giustificata
da
motivi
imperativi
di
interesse
pubblico;
3. Deve
essere
idonea
a
garantire
il
conseguimento
dello
scopo
perseguito;
4. Non
deve
andare
oltre
quanto
necessario
per
il
raggiungimento
di
questo.
N.B.:
bisogna
verificare
se
l’interesse
generale
in
questione
non
sia
tutelato
dalle
norme
cui
il
prestatore
è
soggetto
nello
Stato
membro
in
cui
è
stabilito.
Le
condizioni
3.
e
4.
costituiscono
le
due
componenti
del
giudizio
di
proporzionalità.
LA
CORTE
=>
ha
esteso
l’orientamento
precedentemente
descritto
anche
al
diritto
di
stabilimento
=>
anche
tale
libertà
può
considerarsi
ostacolata
dall’applicazione
ai
soggetti
che
intendono
stabilirsi
in
uno
Stato
membro
di
norme
indistintamente
applicabili
a
tutti
coloro
che
esercitano
una
determinata
attività
in
tale
Stato
membro.
Uno
dei
primi
esempi
di
questo
orientamento
=>
Sentenza
30
novembre
1995,
Gebhard.
In
questa
sentenza
la
Corte
ha
ritenuto
che
l’obbligo
di
iscrizione
al
competente
ordine
professionale
imposto
a
tutti
gli
avvocati
potesse
costituire
un
ostacolo
all’esercizio
della
libertà
di
stabilimento,
vietato
dall’art.
49.
Per
accertare
ciò
la
Corte
fa
ricorso
ad
Test
Gebhard.
TEST
GEBHARD
=>
4
CONDIZIONI
=>
le
disposizioni
in
esame
devono:
1. Applicarsi
in
modo
non
discriminatorio;
2. Essere
giustificate
da
motivi
imperiosi
di
interesse
pubblico;
3. Essere
idonee
a
garantire
il
conseguimento
dello
scopo
perseguito;
105
4. Non
andare
oltre
quanto
necessario
per
il
raggiungimento
di
questo.
In
alcune
sentenze
in
materia
di
stabilimento
=>
LA
CORTE
=>
sembra
richiedere
una
condizione
aggiuntiva
rispetto
al
Test
Gebhard
=>
la
normativa
indistintamente
applicabile
deve
pregiudicare
l’accesso
al
mercato
per
gli
operatori
economici
di
altri
Stati
membri,
perché
si
possa
parlare
di
restrizione
al
diritto
di
stabilimento
ai
sensi
dell’art.
49.
Il
fatto
che
il
test
utilizzato
per
valutare
normative
nazionali
indistintamente
applicabili
sia
lo
stesso
tanto
in
materia
di
diritto
di
stabilimento,
quanto
nel
settore
della
libera
prestazione
di
servizi
comporta
che
la
Corte
non
ritiene
più
necessario
accertare
di
volta
in
volta
se
il
caso
in
esame
riguardi
un’ipotesi
di
restrizione
dell’una
o
dell’altra
libertà.
Sentenza
15
dicembre
1995,
Bosman
=>
l’art.
45
vieta
anche
le
disposizioni
di
uno
Stato
membro
che,
pur
se
si
applichino
indipendentemente
dalla
cittadinanza
dei
lavoratori
interessati,
ostacolino
l’esercizio
della
libera
circolazione
di
tali
soggetti.
Sentenza
15
dicembre
1995,
Bosman
IL
CASO
=>
la
normativa
della
federazione
calcistica
belga
esaminata
in
questa
sentenza,
imponeva
il
versamento
dell’indennità
di
trasferimento
tanto
nel
caso
di
squadra
acquirente
belga,
quanto
nel
caso
di
squadra
acquirente
di
altro
Stato
membro.
LA
CORTE
=>
riteneva
che
tale
normativa
limitasse
la
libera
circolazione
dei
calciatori,
che
volessero
svolgere
la
loro
attività
lavorativa
in
un
altro
Stato
membro.
Veniva
obiettato
che
le
norme
in
questione
erano
indistintamente
applicabili
e
che
esse
potevano
essere
assimilate
alla
modalità
di
vendita
delle
merci
di
cui
alla
sentenza
Keck,
ed
essere
sottratte
al
campo
d’applicazione
dell’art.
45.
MA
=>
La
Corte
non
considerava
pertinente
la
giurisprudenza
Keck.
Test
Webb
e
Test
Gebhard
=>
oltre
ad
essere
simili
tra
loro,
presentano
forti
analogie
con
il
test
applicato
dalla
Corte
per
valutare
se
normative
indistintamente
applicabili
tanto
alle
merci
nazionali,
quanto
a
quelle
importate
costituiscano
misure
d’effetto
equivalente
a
restrizioni
quantitative,
ai
sensi
dell’art.
34
TFUE,
il
TEST
CASSIS.
Si
parla
di
APPROCCIO
GLOBALE
=>
per
qualificare
come
ostacoli
alle
libertà
di
circolazione
in
generale
quelli
derivanti
da
normative
indistintamente
applicabili.
In
materia
di
libera
circolazione
delle
merci
=>
La
Corte
ha
ritenuto
di
dover
limitare
la
portata
del
test
Cassis
e
della
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative
in
maniera
da
escluderne
le
norme
relative
alle
modalità
di
vendita
dei
prodotti.
A
partire
da
Sentenza
24
novembre
1993,
Keck
=>
la
verifica
della
compatibilità
di
norme
del
genere
con
l’art.
34
si
effettua
in
base
al
TEST
KECK,
ovvero
a
criteri
speciali
e
notevolmente
diversi
rispetto
a
quelli
derivanti
dalla
giurisprudenza
delle
esigenze
imperative.
In
materia
di
normative
dello
Stato
di
produzione
della
merce
e
del
servizio:
A
partire
da
Sentenza
10
maggio
1995,
Alpine
Investments
=>
si
deduce
che
la
normativa
in
vigore
nello
Stato
di
produzione
del
servizio,
benché
applicabile
senza
distinzioni
a
servizi
resi
sul
mercato
interno
dello
Stato
in
questione
e
a
servizi
resi
a
destinatari
stabiliti
in
altri
Stati
membri,
potrebbe
costituire
una
restrizione
alla
libera
prestazione
di
servizi
vietata
dall’art.
56,
qualora
impedisca
o
pregiudichi
l’accesso
al
mercato
dei
servizi
dello
Stato
del
destinatario
della
prestazione.
5.La
“direttiva
servizi”.
La
dir.
2006/123/CE
di
P.E.
e
Consiglio
del
12
dicembre
2006,
relativa
ai
servizi
nel
mercato
interno,
è
stata
approvata
dopo
lunghe
polemiche,
i
cui
riflessi
hanno
avuto
un
peso
rilevante
nel
determinare
l’esito
negativo
dei
referendum
in
Francia
e
nei
Paesi
Bassi
sul
Trattato
che
adotta
una
Costituzione
per
l’Europa.
Essa
costituisce
un
grande
esempio
di
direttiva
orizzontale.
È
rivolta
a
disciplinare
il
diritto
di
stabilimento
e
la
libera
prestazione
di
servizi
in
maniera
orizzontale,
prevedendo
una
disciplina
applicabile
a
tutti
i
settori
di
attività,
salvo
quelli
espressamente
esclusi
dall’art.
2.
È
una
direttiva
di
codificazione,
in
quanto
riprende
e
sviluppa
molti
dei
principi
già
affermati
in
materia
dalla
giurisprudenza.
Il
suo
obiettivo
è
molto
ampio
a
tocca
aspetti
che
non
sono
mai
stati
oggetto
di
pronunce
106
della
Corte.
=>
essa
mira
ad
assicurare
un
elevato
livello
di
qualità
dei
servizi.
Ciò
necessita
di
un
riordino
delle
disposizioni
nazionali
che
riguardano
l’accesso
e
l’esercizio
delle
attività
di
servizi.
CAPO
III
della
dir.
=>
è
dedicato
alla
“Libertà
di
stabilimento
dei
prestatori”
=>
è
rivolto
a
facilitare
l’esercizio
del
diritto
di
stabilimento,
ai
sensi
dell’art.
49.
Le
norme
contenute
nel
Capo
III
si
occupano
soltanto
di
2
profili:
• Regimi
di
autorizzazione
=>
essi
sono
intesi
come
qualsiasi
procedura
che
obbliga
un
prestatore
o
un
destinatario
a
rivolgersi
ad
un’autorità
competente
allo
scopo
di
ottenere
una
decisione
formale
o
una
decisione
implicita
relativa
all’
accesso
ad
un’attività
di
servizio
o
al
suo
esercizio.
• Requisiti
=>
essi
sono
intesi
come
qualsiasi
obbligo,
divieto
o
condizione,
imposto
da
qualsiasi
fonte
a
chiunque
voglia
accedere
o
esercitare
una
determinata
attività
di
servizi.
La
direttiva
pone
dei
limiti
molto
gravosi
al
potere
degli
Stati
membri
di
prevedere
regimi
o
imporre
requisiti
del
genere.
Bisogna
distinguere
tra:
• Prestatori,
che
intendono
stabilirsi
in
uno
Stato
membro
diverso
dal
proprio,
esercitando
la
libertà
prevista
dall’art.
49
TFUE
=>
i
limiti
previsti
per
questa
categoria
dalla
direttiva
possono
dedursi
già
dall’art.
49
e
dalla
giurisprudenza
della
Corte
=>
unico
merito
della
direttiva
=
aver
dettagliato
principi
che
difettavano
di
conoscibilità
e
sistematicità.
• Prestatori
che
intendono
accedere
ed
esercitare
un’attività
di
servizi
nel
proprio
Stato
membro
d’origine
(situazioni
puramente
interne).
=>
anche
questi
soggetti
possono
avvalersi
della
direttiva
per
sostenere
che
il
regime
d’autorizzazione
nel
suo
insieme,
la
limitazione
temporale
della
durata
di
validità
dell’autorizzazione
o
i
requisiti
previsti
dalla
legislazione
del
proprio
stato
membro,
non
sono
giustificati
da
un
motivo
imperativo
di
interesse
generale
o
sono
sproporzionati.
=>
EFFETTO
DELLA
DIRETTIVA
(grazie
alla
portata
generale
delle
sue
norme)
=
LIBERALIZZAZIONE
NEL
SETTORE
DEI
SERVIZI.
CAPO
IV
=>
è
dedicato
alla
“libera
prestazione
di
servizi
e
deroghe
relative”.
=>
Si
apre
con
la
Sezione
I
(Libera
prestazione
di
servizi),
che
disciplina
l’istituto
nella
prospettiva
del
prestatore;
invece,
la
Sezione
II
ha
ad
oggetto
i
“Diritti
dei
destinatari
di
servizi”.
A
differenza
delle
norme
del
Capo
III,
queste
norme
non
hanno
portata
generale,
ma
si
riferiscono
unicamente
a
situazioni
transfrontaliere
in
cui
il
prestatore
o
il
destinatario
sono
stabiliti
in
uno
Stato
membro
diverso
da
quello
della
prestazione.
Da
tali
norme
discende
=>
LIBERALIZZAZIONE
NEL
SETTORE
DEI
SERVIZI
limitatamente
alle
situazioni
che
implicano
un
movimento
del
prestatore
o
del
destinatario
del
servizio.
Art.
16:
• COMMA
PRIMO
=>
obbligo
in
capo
agli
Stati
membri
di
rispettare
il
diritto
dei
soggetti
stabiliti
in
un
altro
Stato
membro
di
esercitare
sul
proprio
territorio
attività
di
servizi;
• COMMA
SECONDO
=>
obbligo
di
permettere
il
libero
accesso
e
esercizio
a
tali
attività
sul
proprio
territorio
da
parte
di
tali
soggetti;
• COMMA
TERZO=>
ammette
che
gli
Stati
membri
possono
subordinare
l’accesso
e
l’esercizio
di
un’attività
di
servizi
a
requisiti,
purchè
siano
rispettate
queste
condizioni:
Non
discriminazione;
Necessità
=>
“i
requisiti
devono
essere
giustificati
da
ragioni
di
ordine
pubblico,
di
pubblica
sicurezza,
di
sanità
pubblica
o
di
tutela
della
salute
pubblica”;
Proporzionalità.
Art.
19-20,
ispirati
al
principio
di
non
discriminazione
=>
si
occupano
dei
destinatari
di
servizi.
CAPITOLO
QUINTO
LA
LIBERA
CIRCOLAZIONE
DEI
CAPITALI
E
DEI
PAGAMENTI
1.Quadro
normativo.
LIBERTA’
DI
CIRCOLAZIONE
DEI
CAPITALI
E
DEI
PAGAMENTI
=>
è
trattata
nel
TFUE
al
Capo
4,
Titolo
IV,
della
Parte
III,
composto
dagli
artt.
da
63
a
66.
Art.
63,
diviso
in
2
paragrafi:
• Par.1
=>
“Nell’ambito
delle
disposizioni
previste
dal
presente
capo
sono
vietate
tutte
le
restrizioni
ai
movimenti
di
capitali
tra
Stati
membri,
nonché
tra
Stati
membri
e
Paesi
terzi”;
• Par.2
=>
“Nell’ambito
delle
disposizioni
previste
dal
presente
capo
sono
vietate
tutte
le
restrizioni
ai
pagamenti
tra
Stati
membri,
nonché
tra
Stati
membri
e
Paesi
terzi”.
107
Artt.
da
64
a
66
=>
prevedono
ognuno
alcune
possibilità
di
deroga
rispetto
al
divieto
di
cui
all’art.
63.
Essi
prevedono
basi
giuridiche
che
consentono
alle
istituzioni
di
adottare
atti
legislativi
(64),
o
misure
di
natura
non
legislativa
(65
e
66)
nel
quadro
del
regime
derogatorio
da
esse
stabilito.
• Art.
65
=>
contiene
la
deroga
più
importante,
che
riguarda
anche
la
circolazione
dei
capitali
e
i
pagamenti
tra
Stati
membri.
• Art.
64
e
66
=>
hanno
un
campo
di
applicazione
più
ristretto
=>
si
applicano
soltanto
ai
movimenti
di
capitali
tra
Stati
membri
e
Stati
terzi.
Le
attuali
norme
del
TFUE
risalgono
al
Trattato
di
Maastricht,
che
aveva
profondamente
modificato
il
testo
originario
del
TCE.
LA
CORTE
=>
ha
affermato
che
il
divieto
di
restrizioni
al
movimento
dei
capitali
degli
Stati
membri
e
Paesi
membri
(art.
63,
par.1),
nonostante
le
possibilità
di
deroga
previste
dagli
artt.
64
e
65
“può
essere
invocato
dinanzi
al
giudice
nazionale
e
determinare
l’inapplicabilità
delle
norme
nazionali
in
contrasto
con
esso”
=>
è
una
norma
ad
efficacia
diretta.
2.Il
divieto
di
restrizioni
ai
movimenti
di
capitali
e
ai
pagamenti.
Art.
63
=>
la
distinzione
tra
movimenti
di
capitali
e
pagamenti
ha
ormai
perso
importanza.
In
passato,
LA
CORTE
aveva
distinto
tra:
• Pagamenti
=
“trasferimenti
di
valuta
che
costituiscono
una
controprestazione
nell’ambito
di
un
negozio
sottostante”.
• Movimenti
di
capitali
=
“operazioni
finanziarie
che
riguardano
essenzialmente
la
collocazione
o
l’investimento
di
cui
trattasi
e
non
il
corrispettivo
di
una
prestazione”.
La
giurisprudenza
riconduce
al
campo
d’applicazione
dell’art.
63:
Investimenti
diretti
sottoforma
di
partecipazione
ad
un’impresa
attraverso
il
possesso
di
azioni
che
consente
di
partecipare
attivamente
alla
sua
gestione.
Investimenti
di
portafoglio
acquisto
dei
titoli
sul
mercato
dei
capitali,
effettuato
solo
per
realizzare
un
investimento
finanziario,
senza
intenzione
di
incidere
su
gestione
o
controllo
dell’impresa.
NOZIONE
DI
RESTRIZIONE
AI
MOVIMENTI
DI
CAPITALI
=>
la
Corte
non
ne
ha
mai
fornito
una
definizione
in
termini
generali.
Non
esiste
nulla
di
analogo
alla
formula
Dassolnville
=>
la
Corte
decide
caso
per
caso
se
sussiste
o
meno
una
restrizione.
LA
CORTE
=>
ha
sanzionato
come
contrarie
all’art.
63
normative
considerate
restrittive
in
quanto
discriminatorie.
=>
Può
trattarsi
di:
• Discriminazioni
ai
danni
di
investitori
non
residenti
=>
legate
al
fatto
che
l’operazione
è
effettuata
da
soggetti
non
residenti.
Si
tratta
di
normative
che
vietano
del
tutto
o
subordinano
a
condizioni
restrittive
determinate
operazioni,
quando
siano
presenti
elementi
di
transnazionalità,
mentre
le
medesime
operazioni,
se
puramente
interne
allo
Stato
membro
in
questione,
sono
permesse
o
sottoposte
a
condizioni
meno
restrittive
o
più
favorevoli;
• Discriminazioni
ai
danni
di
investimenti
in
altri
Stati
membri
=>
legate
al
fatto
che
l’investimento
avviene
in
territorio
straniero
o
a
favore
di
soggetti
non
residenti.
• Discriminazioni
indirette
=>
esse
non
sono
vietate
in
assoluto
ma
soltanto
se
non
possono
essere
giustificate
da
motivi
obiettivi
di
interesse
generale
e
non
discriminatori.
QUESTIONE:
il
divieto
di
cui
all’art.
63
si
estende
anche
alle
normative
indistintamente
applicabili?
Nella
sentenza
4
giugno
2002,
Commissione
c.
Portogallo
=>
LA
CORTE
afferma
=>
“l’art.63
del
TFUE
vieta
in
maniera
generale
le
restrizioni
ai
movimenti
di
capitali
tra
gli
Stati
membri.
Tale
divieto
va
oltre
l’eliminazione
di
una
disparità
di
trattamento
tra
gli
operatori
sui
mercati
finanziari,
in
base
alla
loro
cittadinanza”.
La
sentenza
si
inquadra
nell’ambito
della
giurisprudenza
relativa
alla
privatizzazione
delle
società
a
capitale
pubblico.
Molti
degli
Stati
membri
che
intendevano
procedere
in
questo
senso
desideravano
mantenere
una
sorta
di
potere
di
controllo
sulle
società,
anche
dopo
la
loro
privatizzazione,
attraverso
vari
meccanismi,
noti,
spesso,
come
golden
share.
Sempre
in
questa
sentenza,
la
Corte
afferma
che
la
libera
circolazione
dei
capitali,
può
essere
limitata
da
una
normativa
nazionale
solo
se
quest’ultima
sia
giustificata
da
motivi
previsti
dall’art.
65
TFUE,
o
da
ragioni
imperative
di
interesse
pubblico
e
che
si
applichino
ad
ogni
persona
o
impresa
che
eserciti
un’attività
sul
territorio
dello
Stato
membro
ospitante.
Inoltre
LA
NORMATIVA
=>
per
essere
giustificata
108
=>
dev’essere
idonea
a
garantire
il
conseguimento
dello
scopo
perseguito
e
non
andare
oltre
quanto
necessario
per
il
raggiungimento
di
quest’ultimo,
al
fine
di
soddisfare
il
criterio
di
proporzionalità.
Quindi
=>
NORMATIVE
INDISTINTAMENTE
APPLICABILI
=>
possono
sfuggire
al
divieto
se:
• Giustificate
da
ragioni
imperative
di
interesse
pubblico;
• È
rispettato
il
principio
di
proporzionalità.
TEST
applicato
dalla
Corte
per
verificare
se
una
normativa
che
introduce
condizioni
o
limiti
per
l’effettuazione
di
taluni
investimenti
sia
applicabile
tanto
agli
investitori
residenti
quanto
a
quelli
non
residenti
=>
Perché
la
normativa
sfugga
al
divieto
di
restrizioni
essa
deve:
1. Essere
indistintamente
applicabile;
2. Essere
giustificata
dai
motivi
previsti
dall’art.
65,
par.1,
o
da
ragioni
imperativi
di
interesse
generale;
3. Essere
idonea
a
garantire
il
conseguimento
dello
scopo
perseguito;
4. Non
andare
oltre
quanto
necessario
per
il
raggiungimento
di
quest’ultimo.
N.B.:
Forti
analogie
con
i
test
Cassis,
Webb
e
Gebhard.
Art.
633
c.p.c.
italiano,
nel
testo
in
vigore
nel
1999,
che
non
permetteva
l’emanazione
di
un
decreto
ingiuntivo
(nella
specie,
destinato
ad
ottenere
il
pagamento
di
merci
fornite
in
altro
Stato
membro)
qualora
la
notificazione
dello
stesso
dovesse
avvenire
fuori
dal
territorio
italiano
=>
non
è
considerata
come
restrizione
alla
libertà
dei
pagamenti.
3.Le
deroghe
alla
libera
circolazione
dei
capitali
e
dei
pagamenti.
Art.
65,
par.1
=>
deroghe
applicabili
sia
nei
rapporti
tra
Stati
membri,
sia
in
quelli
tra
Stati
membri
e
Paesi
terzi:
• Art.
65,
par.1
(lett
a)
=>
riguarda
disposizioni
di
carattere
tributario
in
cui
si
applica
una
distinzione
tra
i
contribuenti
che
non
si
trovano
nella
medesima
situazione
per
quanto
riguarda
il
loro
luogo
di
residenza
o
il
luogo
di
collocamento
del
loro
capitale;
• Art.
65,
par.1
(lett.b)
=>
viene
fatto
salvo
il
diritto
di
ciascuno
Stato
membro
di
prendere
tutte
le
misure
necessarie
per
impedire
le
violazioni
della
legislazione
e
delle
regolamentazioni
nazionali,
in
particolare
ne
settore
fiscale
e
in
quello
della
vigilanza
prudenziale
sulle
istituzioni
finanziarie
o
di
stabilire
procedure
per
la
dichiarazione
dei
movimenti
di
capitali
a
scopo
di
informazione
amministrativa
o
statistica,
o
di
adottare
misure
giustificate
da
motivi
di
ordine
pubblico
o
di
pubblica
sicurezza.
Art.
65,
par.2
=>
le
disposizioni
in
tema
di
capitali
non
pregiudicano
la
possibilità
di
applicare
le
restrizioni
al
diritto
di
stabilimento
compatibili
con
il
Trattato;
Art.
65,
par.3
=>
in
nessun
caso
le
deroghe
possono
“costituire
un
mezzo
di
discriminazione
arbitraria,
né
una
restrizione
dissimulata
al
libero
movimento
di
capitali
e
dei
pagamenti
di
cui
all’art.56”.
Art.
64,
par.1
=>
in
merito
ai
movimenti
di
cap.
e
pagamenti
tra
Stati
membri
e
Paesi
terzi
=>
consente
di
continuare
ad
applicare
le
restrizioni
previste
dalla
legislazione
di
uno
Stato
membro
o
dalle
disposizioni
dell’Unione
in
vigore
alla
data
del
31
dicembre
1993
ai
movimenti
che
implichino
investimenti
diretti,
inclusi
gli
investimenti
in
proprietà
immobiliari,
lo
stabilimento,
la
prestazione
di
servizi
finanziari
o
l’ammissione
di
valori
immobiliari
nei
mercati
finanziari.
Art.
64,
par.2:
• PROCEDURA
LEGISLATIVA
ORDINARIA
=>
per
l’adozione
di
misure
più
liberali;
• PROCEDURA
LEGISLATIVA
SPECIALE,
con
delibera
del
Consiglio
all’unanimità,
previa
consultazione
del
Parlamento
=>
per
l’adozione
di
misure
più
restrittive.
Art.
66
=>
nei
rapporti
tra
Stati
membri
e
Paesi
terzi
=>
consente
l’adozione
di
misure
di
salvaguardia
per
un
periodo
non
superiore
a
6
mesi
“qualora,
in
circostanze
eccezionali,
i
movimenti
di
capitali
provenienti
da
paesi
terzi
o
ad
essi
diretti
causino
o
minaccino
di
causare
difficoltà
gravi
per
il
funzionamento
dell’Unione
economica
e
monetaria”.
Art.
60
=>
in
circostanze
eccezionali
possono
essere
adottate
misure
di
salvaguardia
nei
confronti
di
Paesi
terzi,
qualora
i
movimenti
di
capitali
provenienti
da
tali
Paesi
o
ad
essi
diretti
“causino
o
minaccino
di
causare
difficoltà
gravi
per
il
funzionamento
dell’Unione
economica
e
monetaria
”.
109
CAPITOLO
SESTO
LE
REGOLE
DI
CONCORRENZA
APPLICABILI
ALLE
IMPRESE
1.Quadro
normativo.
Art.
3,
par.1
TFUE
=>
include
tra
i
settori
rientranti
nella
competenza
esclusiva
dell’Unione
la
definizione
delle
regole
di
concorrenza
necessarie
al
funzionamento
del
mercato
interno.
Nell’art.
3
del
TUE,
che
definisce
gli
obiettivi
dell’Unione,
manca
un
esplicito
richiamo
alla
concorrenza.
Ciò
rappresenta
un
passo
indietro
rispetto
all’art.
3
TCE,
che
includeva
tra
le
azioni
della
comunità
un
regime
a
garantire
che
la
concorrenza
non
sia
falsata
nel
mercato
interno.
Protocollo
n.27
sul
mercato
interno
e
sulla
concorrenza
=>
attualmente
la
concorrenza
è
qui
espressamente
menzionata.
In
esso
si
afferma
che
“il
mercato
interno,
ai
sensi
dell’art.
3
del
trattato
dell’Unione
europea
comprende
un
sistema
che
assicura
che
la
concorrenza
non
sia
falsata”.
Nella
parte
dispositiva
=>
si
evoca
la
possibilità
di
ricorrere
anche
all’art.
352
TFUE
per
adottare
misure
rivolte
a
realizzare
tale
obiettivo.
L’art.
352
(=
clausola
di
flessibilità)
consente
al
Consiglio
di
adottare
misure
necessarie
per
realizzare
uno
degli
obiettivi
di
cui
ai
trattati,
in
assenza
di
attribuzione
da
parte
dei
trattati
dei
necessari
poteri
di
azione.
Nonostante
il
silenzio
dell’art.
3
TUE
=>
la
concorrenza
rientra
anche
oggi
tra
gli
obiettivi
dell’Unione.
Artt.
da
101
a
109
TFUE
=
disposizioni
che
specificatamente
si
occupano
della
concorrenza
=>
essi
sono
divisi
in
2
sezioni:
• SEZIONE
I
=>
è
dedicata
alle
regole
applicabili
alle
imprese
e
che
impongono
loro
alcuni
divieti
di
comportamento
=>
è
composta
dagli
artt.
da
101
a
106.
• SEZIONE
II
=>
si
occupa
degli
aiuti
statali
alle
imprese.
LA
SEZIONE
I:
• Art.
101
=>
DIVIETO
DELLE
INTESE;
• Art.
102
=>
DIVIETO
DI
SFRUTTAMENTO
ABUSIVO
DELLE
POSIZIONI
DOMINANTI.
• Art.
103,
104,
105
=>
riguardano
l’applicazione
di
questi
2
divieti;
• Art.
106
=>
prevede
alcune
regole
speciali
riguardanti
le
imprese
pubbliche
e
le
imprese
incaricate
della
gestione
di
servizi
di
interesse
economico
generale.
Analizziamo
gli
artt.
101
e
102:
• IN
UNA
PRIMA
PROSPETTIVA
=>
i
divieti
previsti
da
tali
articoli
rappresentano
il
riflesso
in
chiave
privatistica
delle
disposizioni
del
TFUE
che
assicurano
la
libertà
di
circolazione
e
soprattutto
quelle
relative
alle
merce
e
ai
servizi.
Esse
mirano
ad
abolire
gli
ostacoli
all’unificazione
dei
mercati
nazionali
che
derivano
dall’azione
degli
Stati
membri.
Artt.
101
e
102
=>
sono
volti
ad
impedire
che
tale
unificazione
sia
vanificata
da
comportamenti
delle
imprese
aventi
come
oggetto
o
come
effetto
di
isolare
i
singoli
mercati
nazionali.
Quindi
=>
le
regole
di
concorrenza
applicabili
alle
imprese
contribuiscono
a
raggiungere
l’OBIETTIVO
DEL
MERCATO
UNICO.
• IN
UNA
SECONDA
PROSPETTIVA
=>
le
regole
di
concorrenza
hanno
un
valore
autonomo
in
quanto
costituiscono
un
importante
fattore
di
progresso
economico.
In
un
regime
di
concorrenza
leale
e
non
falsata,
le
imprese
hanno
interesse
a
lavorare
in
maniera
efficiente,
offrendo
prodotti
o
servizi
migliori
a
prezzi
più
bassi
e
producendo
maggiore
ricchezza.
=>
un
regime
di
concorrenza
libera
e
non
falsata
rappresenta
uno
STRUMENTO
A
VANTAGGIO
DEI
CONSUMATORI.
Le
citate
fonti
di
primo
grado
sono
state
completate
da
un
buon
numero
di
fonti
derivate.
Art.
103
=>
attribuisce
al
Consiglio
il
potere
di
adottare,
su
proposta
della
Commissione
e
previa
consultazione
del
P.E.,
i
necessari
atti
d’applicazione
e
ha
costituito
a
base
giuridica
per
numerosi
regolamenti.
PARTICOLARITA’
del
SETTORE
in
esame
=
ampio
ricorso
alla
delega
di
poteri
in
favore
della
Commissione.
La
delega
non
riguarda
soltanto
funzioni
di
tipo
amministrativo
(applicazione
di
artt.
101
e
102)
ma
anche
poteri
normativi.
La
materia
è
prevalentemente
disciplinata
da
REGOLAMENTI
DI
SECONDO
GRADO
adottati
dalla
Commissione.
LA
COMMISSIONE
=>
pubblica
frequentemente
COMUNICAZIONI
(=
atti
non
obbligatori,
rispondenti
a
denominazioni
diverse,
tra
cui
quelle
di
orientamenti,
linee
guida,
disciplina,
etc.).
CON
LE
COMUNICAZIONI
=>
la
Commissione
rende
noto
il
modo
in
cui
intende
applicare
gli
artt.
101
e
102
con
110
riferimento
a
determinate
fattispecie.
Questi
atti
creano
negli
interessati
la
legittima
aspettativa
che
la
Commissione
stessa
li
rispetterà
=>
l’atto
che
non
vi
si
conformi
è
annullabile.
Tra
le
altre
fonti:
PRASSI
=
insieme
delle
decisioni
adottate
dalla
Commissione
con
riferimento
a
singoli
casi
concreti.
La
prassi
è
ripresa
nella
Relazione
sulla
politica
della
concorrenza,
presentata
annualmente
al
P.E.
ed
è
anch’essa
oggetto
di
pubblicazione.
Divieti
contenuti
negli
art.
101
e
102
=>
hanno
EFFICACIA
DIRETTA
=>
possono
essere
applicati
dai
giudici
nazionali
nell’ambito
dei
giudizi
di
loro
competenza.
L’efficacia
diretta
dei
divieti
comporta
il
diritto
del
soggetto
che
ha
subito
danni
a
chiederne
il
risarcimento.
Tale
diritto
non
è
escluso
solo
perché
il
danneggiato
è
esso
stesso
parte
dell’accordo
vietato
da
uno
dei
2
articoli.
2.Regole
applicabili
alle
imprese
e
obblighi
degli
Stati
membri.
Dagli
artt.
da
101
a
106
=>
discendono
anche
obblighi
a
carico
degli
Stati
membri.
Prima
delle
modifiche
introdotte
dal
Trattato
di
Lisbona
si
affermava
che
gli
Stati
membri
sono
tenuti,
in
virtù
dell’art.
10,
co.
2°,
TCE,
“ad
astenersi
dall’emanare
o
dal
mantenere
in
vigore
provvedimenti
che
possano
rendere
praticamente
inefficaci
tali
norme”
(Sentenza
Asjes).
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
l’obbligo
di
astensione
a
carico
degli
Stati
membri
risulta
violato
in
2
casi:
• PRIMO
CASO
=>
le
misure
statali
provocano
un
rafforzamento
degli
effetti
di
un’intesa
contraria
all’art.
101
=>
dev’esserci
una
vera
e
propria
intesa
conclusa
in
violazione
dell’art.
101.
In
questo
caso
si
pone
il
problema
di
stabilire
se
l’esistenza
di
tali
misure
escluda
la
responsabilità
delle
imprese
coinvolte
o
se
queste
possano
comunque
subire
le
sanzioni
previste
per
la
violazione
di
tale
articolo.
PER
LA
GIURISPRUDENZA=>
in
casi
del
genere
bisogna
domandarsi
se:
Le
misure
nazionali
lasciano
sopravvivere
un
certo
grado
di
concorrenza
=>
le
imprese
sono
responsabili
di
aver
concluso
un’intesa
che
elimina
ogni
residuo
margine
di
concorrenza;
La
normativa
nazionale
non
lascia
alle
imprese
alcun
potere
discrezionale
ed
elimina
di
per
sé
ogni
forma
di
concorrenza
=>
le
imprese
non
possono
essere
considerate
responsabili
di
alcuna
violazione
dell’art.
101.
• SECONDO
CASO:
delega
da
parte
dei
poteri
pubblici
di
proprie
competenze
ad
operatori
privati
=>
ciò
si
realizza
quando
l’autorità
pubblica
prevede
che,
nel
procedimento
per
l’assunzione
di
determinate
decisioni
in
materia
economica,
sia
richiesto
l’intervento
di
un
organo
cui
partecipano
rappresentanti
delle
categorie
economiche
interessate
e
che
tale
intervento
sia
strutturato
in
maniera
tale
che
la
componente
rappresentativa
degli
interessi
privati
sia
in
grado
di
determinare
il
contenuto
delle
decisioni,
senza
che
sia
prevista
alcuna
garanzia
affinchè
le
decisioni
tengano
conto
dell’interesse
generale
e
di
quello
delle
categorie
non
rappresentate.
=>
in
casi
del
genere
la
giurisprudenza
censura
la
delega
di
poteri
pubblici
ai
rappresentanti
di
certi
interessi
economici
(fornitori
di
un
servizio)
a
scapito
di
altre
categorie
(utenti
del
servizio).
La
Corte
verifica
che
non
si
sia
in
presenza
di
una
situazione
del
genere
a
prescindere
da
se
l’azione
dei
rappresentanti
delle
categorie
economiche
costituisca,
di
per
sé,
un’intesa
vietata
dall’art.
101.
3.Portata
delle
regole
applicabili
alle
imprese.
NATURA
DELLA
COMPETENZA
DELL’UNIONE
in
materia
=>
non
è
esclusiva
ratione
materiae
=>
lascia
intatta
la
competenza
degli
Stati
membri
quanto
alla
disciplina
dei
comportamenti
delle
imprese
che
abbiano
effetti
anticoncorrenziali
sul
piano
meramente
personale,
senza
coinvolgere
gli
scambi
tra
Stati
membri.
TALE
RIPARTIZIONE
DI
COMPETENZE
=>
risulta
difficoltosa
sul
piano
pratico
=>
può
capitare
che
il
comportamento
di
un’impresa
sia
rilevante
tanto
per
gli
artt.
101
e
102
quanto
per
la
disciplina
nazionale
della
concorrenza,
provocando
effetti
anticoncorrenziali
tanto
a
livello
di
commercio
tra
Stati
membri,
quanto
a
livello
nazionale.
=>
si
pone
il
problema
dell’
applicazione
parallela
del
diritto
della
concorrenza
dell’Unione
e
nazionale
ad
una
medesima
fattispecie.
In
teoria,
esistono
2
soluzioni:
• Soluzione
della
DOPPIA
BARRIERA
=>
si
considerano
applicabili
ad
una
medesima
fattispecie,
tanto
il
diritto
dell’Unione,
quanto
quello
nazionale,
rispettando
le
condizioni
di
applicazioni
di
ciascuno.
LA
CORTE
=>
ha
preferito
tale
soluzione,
ammettendo
la
possibilità
di
un’applicazione
parallela
di
entrambi
i
diritti
alla
medesima
fattispecie,
ma
imponendo
che
ciò
avvenisse
nel
rispetto
del
principio
del
primato
del
diritto
dell’Unione
su
quello
nazionale.
Questa
applicazione
parallela
della
disciplina
111
nazionale
è
ammissibile
sono
se
non
pregiudica
l’applicazione
uniforme,
nell’intero
mercato
comune,
delle
norme
comunitarie
sulle
intese
e
il
pieno
effetto
dei
provvedimenti
adottati
in
applicazione
delle
stesse
(Sentenza
Wilhelm).
• Soluzione
della
BARRIERA
UNICA
=>
le
fattispecie
che
ricadono
nel
campo
d’applicazione
del
diritto
dell’Unione
sono,
proprio
per
questo,
sottratte
all’applicazione
del
diritto
nazionale.
Questa
soluzione
è
stata
utilizzata
dal
legislatore
dell’Unione,
in
materia
di
controllo
delle
concentrazioni.
PROBLEMA
ANALOGO
=
Applicazione
extraterritoriale
delle
norme
dell’Unione
sulla
concorrenza
(possibilità
di
farle
valere
nei
confronti
di
imprese
appartenenti
a
Stati
membri).
2
TEORIE:
• Teoria
DEGLI
EFFETTI
=>
come
criterio
di
collegamento
tra
l’ordinamento
dell’Unione
e
la
fattispecie
è
sufficiente
che
gli
effetti
anticoncorrenziali
del
comportamento
delle
imprese
con
sede
al
di
fuori
dell’Unione
si
facciano
sentire
nel
mercato
interno;
• Teoria
DELLA
TERRITORIALITA’=>
come
criterio
di
collegamento
tra
l’ordinamento
dell’Unione
e
la
fattispecie
è
necessaria
una
certa
“localizzazione”
del
comportamento
stesso
nel
territorio
dell’Unione.
Laddove
fosse
possibile
provare
tale
localizzazione,
anche
attraverso
filiali
o
agenti
delle
imprese
interessate,
la
Corte
ha
fatto
espresso
riferimento
a
tale
circostanza
per
legittimare
l’intervento
della
Commissione.
Solo
successivamente
=>
la
Corte
ha
dato
maggior
risalto
alla
prima
teoria.
ULTERIORE
PROBLEMA
=>
RELATIVO
ALLA
NOZIONE
D’IMPRESA:
• IL
TFUE
=>
non
fornisce
definizione
di
tale
nozione;
• Non
è
possibile
utilizzare
le
nozioni
corrispondenti
tratte
dagli
ordinamenti
degli
Stati
membri;
• LA
CORTE
=>
definisce
impresa,
ai
sensi
degli
artt.
101
e
102
=>
“qualsiasi
entità
che
esercita
un’attività
economica”.
=>
ATTIVITA’
ECONOMICA
=
attività
che
consiste
nella
“offerta
di
beni
o
servizi
sul
mercato”
=>
altri
fattori
non
sono
determinanti.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
se
l’attività
svolta
ha
natura
economica
=>
anche
un
ente
pubblico
può
essere
considerato
impresa
ai
sensi
degli
artt.101
e
102.
Nella
sentenza
Hofner
=>
la
Corte
ha
giudicato
che
non
influiscono
sulla
qualificazione
di
impresa
né
status
giuridico,
né
modalità
di
funzionamento.
Può
darsi
che
un
ente
pubblico
eserciti
contemporaneamente
attività
in
quanto
pubblica
autorità
e
attività
economiche
=>
in
questo
caso,
l’assoggettamento
agli
artt.
101
e
102
riguarderà
soltanto
le
attività
del
secondo
tipo,
sempre
che
queste
siano
separabili
dalle
prime
(Sentenza
Aeroports
de
Paris).
Anche
i
LIBERI
PROFESSIONISTI
=>
sono
considerati
imprese.
Non
è
rilevante
che
essi
esercitino
un’attività
di
natura
prevalentemente
intellettuale,
di
modo
che
la
stessa
possa
essere
svolta
“senza
la
combinazione
di
elementi
materiali,
immateriali
e
umani”.
Non
è
possibile
escludere
dall’applicazione
delle
regole
di
concorrenza
le
entità
che
svolgano
un’attività
qualificabile
come
economica,
ma
che
non
perseguano
un
fine
di
lucro.
Non
costituiscono
attività
economiche
le
attività
che
assolvono
a
una
funzione
di
carattere
esclusivamente
sociale.
4.Il
divieto
di
intese.
Art.
101,
par.1
=>
“sono
incompatibili
con
il
mercato
interno
e
vietati
tutti
gli
accordi
tra
imprese,
tutte
le
decisioni
di
associazioni
di
imprese
e
tutte
le
pratiche
concordate
che
possano
pregiudicare
il
commercio
tra
gli
Stati
membri
e
che
abbiano
per
oggetto
o
per
effetto
di
impedire,
restringere
o
falsare
il
gioco
della
concorrenza
all’interno
del
mercato
interno”.
=>
il
termine
intesa
non
figura
nel
testo.
NOZIONE
DI
INTESA
=>
presuppone
l’esistenza
di
almeno
2
soggetti
che,
tra
di
loro,
la
pongono
in
essere.
Descrizione
normativa
delle
3
fattispecie
d’intesa
=>
fa
sempre
riferimento
ad
una
pluralità
di
imprese.
Questa
pluralità
manca
quando
a
dar
vita
a
un
comportamento
definito
in
astratto
come
intesa
sono
due
o
più
imprese
indipendenti
da
un
punto
di
vista
giuridico,
ma
strettamente
collegate
da
un
punto
di
vista
economico,
cosìcchè
si
possa
parlare
di
un’unica
impresa
=>
PRINCIPIO
DELL’UNITA’
ECONOMICA.
CASO
TIPICO
=>
Società
madre
che
controlla
una
o
più
società-‐figlie
oppure
società
con
al
vertice
una
società
holding
=>
perché
tali
casi
non
rientrino
nel
campo
d’applicazione
dell’art.
101
non
basta
un
mero
rapporto
di
dipendenza,
ma
occorre
che
il
controllo
di
una
società
sull’altra
o
sulle
altre
sia
completo
ed
effettivo,
in
maniera
che
la
società
controllata
“non
disponga
di
effettiva
autonomia
nella
determinazione
del
proprio
comportamento
sul
mercato”.
=>
gli
accordi
conclusi
all’interno
di
un
gruppo,
nell’ambito
del
112
quale
le
società
affiliate
sono
interamente
controllate
dalla
capogruppo,
vanno
considerati
come
aventi
lo
scopo
di
ripartire
i
compiti
all’interno
del
gruppo.
CRITERIO
DELL’UNITA’
ECONOMICA
=>
si
applica
anche
nel
caso
di
rapporti
tra
fornitore
e
distributore,
quando
il
distributore,
pur
essendo
giuridicamente
indipendente
rispetto
al
fornitore,
non
sopporta
in
proprio
alcun
rischio
per
l’attività
economica
di
cui
si
tratta.
Art.
101
=>
un’intesa
può
assumere
3
forme:
• ACCORDO
=>
presuppone
l’esistenza
di
un
vero
e
proprio
incontro
di
volontà
tra
le
parti.
E’
sufficiente
che
le
parti
esprimano
la
loro
volontà
comune
di
comportarsi
sul
mercato
in
un
determinato
modo
e
abbiano
concluso
un
“gentlemen’s
agreement”,
che
rappresenta
la
fedele
espressione
della
comune
volontà
dei
membri
dell’intesa
circa
il
loro
comportamento
nel
mercato
comune;
Non
è
necessario
che
l’accordo
sia
giuridicamente
vincolante
e
valido
ai
sensi
del
diritto
nazionale
applicabile,
né
che
sia
redatto
in
forma
scritta
e
nemmeno
che
la
sua
accettazione
risulti
per
iscritto,
potendo
bastare
anche
un
comportamento
tacito
della
parte
che
l’altra
ha
invitato
a
comportarsi
in
un
determinato
modo.
Nel
contesto
dei
rapporti
contrattuali
tra
produttori/fornitori
e
distributori/rivenditori
=>
talvolta
risulta
arduo
stabilire
se:
Si
è
in
presenza
di
un
accordo
restrittivo
della
concorrenza,
voluto
dal
produttore
ma
tacitamente
accettato
dai
distributori
=>
l’art.
101
sarebbe
applicabile;
Si
tratta
di
una
decisione
unilaterale
del
produttore
di
adottare
un
comportamento
restrittivo
della
concorrenza,
decisione
che
sia
stata
portata
a
conoscenza
dei
distributori
senza
che
questi
abbiano
in
alcun
modo
manifestato
la
loro
accettazione.
=>
l’art.
101
sarebbe
del
tutto
inapplicabile.
• DECISIONE
DI
ASSOCIAZIONI
DI
IMPRESE:
Associazione
di
imprese
=
qualunque
organizzazione
che
riunisca
le
imprese
operanti
su
un
certo
mercato.
Non
è
rilevante
se
l’organizzazione
è
prevista
per
legge
o
per
iniziativa
delle
imprese
interessate,
né
se
l’adesione
ad
essa
sia
obbligatoria
o
facoltativa.
Il
termine
decisione
copre
i
casi
di
:
Raccomandazione
adottata
da
un’associazione
che
sia
obbligatoria
per
gli
associati;
Raccomandazione
che
sia
stata
accettata
da
un
gran
numero
di
associati.
• PRATICA
CONCORDATA
=>
non
richiede
una
manifestazione
di
volontà
reciproca
tra
le
parti.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
Pratica
concordata
=
forma
di
coordinamento
delle
imprese
che,
senza
essere
stata
spinta
fino
all’attuazione
di
un
vero
e
proprio
accordo,
costituisce
in
pratica
una
consapevole
collaborazione
fra
le
imprese
stesse
a
danno
della
concorrenza,
collaborazione
che
porta
a
condizioni
di
concorrenza
non
corrispondenti
a
quelle
normali
del
mercato.
PER
LA
CORTE
=>
per
definire
una
pratica
concordata
=>
bisogna
partire
dal
principio
che,
in
ogni
regime
di
concorrenza
non
falsata,
“ogni
operatore
economico
deve
autonomamente
determinare
la
condotta
che
egli
intende
seguire
sul
mercato
comune”.
Quest’esigenza
di
autonomia
vieta
che
fra
gli
operatori
abbiano
luogo
contatti
diretti
o
indiretti
aventi
lo
scopo
o
l’effetto
di
influire
sul
comportamento
tenuto
sul
mercato
da
un
concorrente
attuale
o
potenziale,
ovvero
di
rivelare
ad
un
concorrente
il
comportamento
che
l’interessato
ha
deciso,
o
prevede,
di
tenere
egli
stesso
sul
mercato.
Quando
c’è
parallelismo
di
comportamenti
tra
le
imprese
=>
bisogna
provare
che
tale
fenomeno:
Non
è
frutto
dell’autonoma
scelta
di
ciascuna
impresa;
È
il
risultato
di
una
concertazione.
Prove
inconfutabili
di
concertazione:
Le
imprese
hanno
tenuto
tra
di
loro
riunioni
periodiche;
Le
imprese
hanno
dato
vita
ad
un
periodico
scambio
di
informazioni
che
normalmente
sarebbero
riservate.
2
CONDIZIONI
perché
l’intesa
cada
nel
divieto
ex
art.
101:
• PRIMA
CONDIZIONE
=>
L’intesa
deve
avere
per
oggetto
o
per
effetto
di
impedire,
restringere
o
falsare
il
gioco
della
concorrenza
all’interno
del
mercato
interno
(pregiudizio
della
concorrenza)
=>
in
mancanza
della
prova
di
questo
pregiudizio
=>
può
bastare
la
dimostrazione
che
l’intesa
stessa
sia
in
grado
di
produrre
effetti
del
genere
(effetti
potenziali).
E’
sufficiente
che
restrizione
della
concorrenza
=>
costituisca
oggetto
o
effetto
dell’intesa.
I
due
termini
sono
alternativi
e
non
cumulativi,
come
si
intende
dalla
versione
italiana
dell’art.
81
TCE.
113
Restrizioni
della
concorrenza
per
oggetto
=>
sono
quelle
che
possono
restringere
la
concorrenza
per
loro
stessa
natura
=>
bisogna
tener
conto
del
contenuto
delle
disposizioni
dell’accordo,
gli
obiettivi
perseguiti
e
il
contesto
economico
e
giuridico
di
cui
fa
parte.
Va
inoltre
esaminata
l’intenzione
delle
parti.
Tra
le
intese
che
comportano
queste
restrizioni,
particolarmente
gravi
sono
le
hard-core
restrictions
che
prevedono
la
fissazione
dei
prezzi
e
la
ripartizione
del
mercato.
Restrizioni
della
concorrenza
per
effetto
=>
per
verificare
se
un’intesa
causi
effetti
restrittivi
bisogna
tener
conto
dell’ambito
concreto,
nel
quale
essa
produce
i
suoi
effetti,
del
contesto
economico
e
giuridico
nel
quale
operano
le
imprese
interessate,
della
natura
dei
servizi
contemplati
dall’accordo
e
dell’effettive
condizioni
del
funzionamento
della
struttura
del
mercato
interessato.
Le
restrizioni
alla
concorrenza
ex
art.
101
possono
derivare
da:
• Intese
orizzontali
=>
concluse
da
imprese
che
operano
allo
stesso
livello
del
ciclo
produttivo
o
di
commercializzazione
e
sono
in
diretta
concorrenza
tra
loro.
Esempi
tipici
di
intese
orizzontali
=>
accordi
tra
produttori
di
un
medesimo
tipo
di
prodotto
o
servizio,
avente
lo
scopo
di
ripartirsi
tra
li
loro
i
mercati
oppure
accordi
miranti
a
fissare
in
comune
prezzi
di
rivendita
o
altre
condizioni
di
transazione.
• Intese
verticali
=>
concluse
tra
imprese
operanti
a
livelli
differenti
=>
in
questo
caso
=>
Concorrenza
ristretta
=
quella
tra
una
delle
imprese
partecipanti
all’intesa
e
imprese
terze
operanti
sullo
stesso
livello
della
prima.
• Possono
costituire
intese
verticali
gli
accordi
di
distribuzione,
ma
anche
gli
accordi
di
acquisto
o
di
fornitura.
Tali
accordi
sono
presi
in
considerazione
non
nella
loro
individualità
ma
per
l’effetto
cumulativo
che
una
rete
di
accordi
dello
stesso
tipo
può
produrre
sul
gioco
della
concorrenza.
Accordi
di
distribuzione
=>
non
sono
vietati
dall’art.101,
in
sé,
ma
solo
se
presentano
contenuti
tali
da
restringere
la
concorrenza
sul
mercato
interno.
Sono
sicuramente
vietati
gli
accordi
di
distribuzione
esclusiva
=>
assicurano
al
distributore,
per
quanto
riguarda
la
zona
assegnata,
una
protezione
assoluta
dalle
importazioni
parallele
provenienti
da
altri
Stati
membri.
Sono
visti
con
maggior
favore
gli
accordi
di
distribuzione
selettiva,
nell’ambito
dei
quali
i
distributori
vengono
scelti
in
base
a
criteri
di
qualità
e
professionalità.
Accordi
di
acquisto
o
di
fornitura
=>
possono
essere
considerati
contrari
all’art.
101,
nella
misura
in
cui
si
configurano
come
accordi
di
acquisto
esclusivo
e
si
inseriscono
in
una
rete
di
accordi
analoghi,
tali
da
rendere
difficile
l’accesso
al
mercato
da
parte
di
nuovi
concorrenti.
Spesso
la
giurisprudenza
si
è
occupata
di
accordi
di
brasserie
=>
sono
accordi
con
i
quali
il
gestore
di
un
pubblico
esercizio
si
impegna
a
rifornirsi
di
birra
esclusivamente
presso
un
determinato
produttore,
ricevendone
in
cambio
facilitazioni
di
vario
genere.
PREGIUDIZIO
ALLA
CONCORRENZA=>
può
aversi
se
ad
essere
ristretta
è:
• Concorrenza
intrabrand
=>
concorrenza
tra
imprese
che
operano
con
prodotti
di
un’unica
marca;
• Concorrenza
interbrand
=>
concorrenza
tra
imprese
che
operano
con
prodotti
di
marche
diverse.
• SECONDA
CONDIZIONE
=>
L’intesa
dev’essere
in
grado
di
provocare,
anche
solo
potenzialmente,
un
pregiudizio
al
commercio
tra
gli
Stati
membri.
LA
GIURISPRUDENZA
=>
da
un’interpretazione
estensiva
a
questa
condizione
=>
si
può
parlare
di
pregiudizio
al
commercio
tra
Stati
membri
in
presenza
di
qualsiasi
intesa
o
prassi,
atte
ad
incidere
negativamente
sulla
libertà
del
commercio
tra
Stati
membri,
in
particolare
isolando
i
mercati
nazionali
o
modificando
la
struttura
della
concorrenza
nel
mercato
comune.
INTESE
NAZIONALI
=
intese
concluse
tra
imprese
appartenenti
ad
uno
stesso
ed
unico
Stato
membro
e
destinate
ad
operare
solo
su
quel
mercato
nazionale
=>
generalmente
sfuggono
al
campo
di
applicazione
dell’art.
101,
par.1.
Perché
un
intesa
rientri
nel
campo
di
applicazione
dell’art.
101
=>
deve
produrre
un
PREGIUDIZIO
SENSIBILE,
cioè
un
pregiudizio
al
commercio
e
una
restrizione
della
concorrenza
di
una
certa
rilevanza.
SOGLIA
“DE
MINIMIS”
=
soglia
al
di
sotto
della
quale
le
eventuali
restrizioni
al
commercio
tra
Stati
membri
o
alla
concorrenza
non
fanno
scattare
il
divieto
in
esame.
Per
individuare
tale
soglia
=>
la
COMMISSIONE
=>
ha
emanato
varie
comunicazioni.
ULTIMA
VERSIONE
=
COMUNICAZIONE
DELLA
COMMISSIONE
relativa
agli
accordi
di
importanza
minore
che
non
determinano
restrizioni
114
sensibili
della
concorrenza
ai
sensi
dell’art.81,
par.1,
che
istituisce
la
Comunità
europea
(de
minimis).
Criterio
utilizzato
dalla
Comunicazione
=>
criterio
della
quota
detenuta
dall’insieme
delle
imprese
partecipanti
all’accordo
su
ciascuno
dei
mercati
rilevanti:
perché
l’accordo
sia
considerato
minore,
la
quota
non
deve
superare
il
10%
nel
caso
di
intese
orizzontali
o
verticali.
La
soglia
è
abbassata
al
5%
in
caso
di
reti
parallele
di
accordi
di
fornitura
o
distribuzione.
La
Comunicazioni
contiene
un
elenco
di
“restrizioni
gravi”
per
le
quali
non
si
può
mai
parlare
di
intese
di
importanza
minore.
Seconda
parte
Art.
101,
par.
1
=>
elenca
i
CONTENUTI
che
può
presentare
un’intesa
anticoncorrenziale.
Sono
citate
le
intese
che
consistono
nel:
• Fissare
direttamente
o
indirettamente
i
prezzi
d’acquisto
o
di
vendita
ovvero
altre
condizioni
di
transazione;
• Limitare
o
controllare
la
produzione,
gli
sbocchi,
lo
sviluppo
tecnico
o
gli
investimenti;
• Ripartire
i
mercati
o
le
fonti
di
approvvigionamento;
• Applicare,
nei
rapporti
commerciali
con
gli
altri
contraenti,
condizioni
dissimili
per
prestazioni
equivalenti,
così
da
determinare
per
questi
ultimi
uno
svantaggio
nella
concorrenza;
• Subordinare
la
conclusione
di
contratti
all’accettazione
da
parte
degli
altri
contraenti
di
prestazioni
supplementari,
che,
per
loro
natura
o
secondo
gli
usi
commerciali,
non
abbiano
alcun
nesso
con
l’oggetto
dei
contratti
stessi.
DIVIETO
DI
INTESE
=>
non
è
ASSOLUTO
=>
Art.
101,
par.3
=>
prevede
la
possibilità
di
dichiarare
inapplicabile
il
divieto
ad
un’intesa
o
a
un’intera
categoria
di
intese.
Concessione
della
DICHIARAZIONE
DI
INAPPLICABILITA’
(ESENZIONE)
=>
è
subordinata
a
4
condizioni:
CONDIZIONI
POSITIVE
=>
Le
intese
devono:
1. Contribuire
a
migliorare
la
produzione
o
la
distribuzione
dei
prodotti
o
a
promuovere
il
progresso
tecnico
o
economico
=
MIGLIORAMENTO
DELLA
PRODUZIONE
O
DELLA
DISTRIBUZIONE
=>
il
miglioramento
dev’essere
oggettivo
e
consistere
in
vantaggi
oggettivi
sensibili,
tali
da
compensare
gli
inconvenienti
che
derivano
dall’accordo
sul
piano
della
concorrenza.
2. Pur
riservando
agli
utilizzatori
una
congrua
parte
dell’utile
che
ne
deriva
=
VANTAGGIO
PER
I
CONSUMATORI.
CONDIZIONI
NEGATIVE
=>
Le
intese
non
devono:
3. Imporre
alle
imprese
interessate
restrizioni
che
non
siano
indispensabili
per
raggiungere
tali
obiettivi
=>
è
necessaria
la
dimostrazione
della
INDISPENSABILITA’
DELLA
RESTRIZIONE
=>
la
valutazione
si
compie
sulla
base
del
principio
di
proporzionalità
=>
le
limitazioni
della
concorrenza
risultanti
dal
progetto
devono
essere
proporzionate
al
contributo
del
progetto
al
progresso
economico
o
tecnico.
4. Dare
a
tali
imprese
la
possibilità
di
eliminare
la
concorrenza
per
una
parte
sostanziale
dei
prodotti
di
cui
si
tratta
=
MANTENIMENTO
DELLA
CONCORRENZZA.
Art.
101,
par.2=>
“gli
accordi
o
decisioni
vietati
in
virtù
del
presente
articolo
sono
nulli
di
pieno
diritto”
=>
SANZIONE
PER
IL
NON
RISPETTO
DEL
DIVIETO
=
NULLITA’.
NULLITA’
=
sanzione
di
tipo
civilistico
=>
è
affidata
ai
giudici
nazionali.
SANZIONI
AMMINISTRATIVE
=>
sono
previste
dal
diritto
dell’Unione.
La
nullità
riguarda
solo
2
categorie
di
intese:
• Accordi;
• Decisioni
di
associazione
di
imprese.
N.B.:
le
pratiche
concordate
non
si
prestano
ad
essere
valutate
in
termini
di
nullità
=>
per
la
loro
natura
informale
e
per
l’assenza
di
un
vero
e
proprio
scambio
di
volontà.
LA
NULLITA’
è:
• Assoluta
=>
l’accordo
è
privo
di
effetti
nei
rapporti
tra
i
contraenti
e
non
può
essere
opposto
a
terzi;
• Parziale
=>
non
riguarda
l’accordo
nel
complesso,
ma
solo
le
clausole
vietate
dall’art.
101
(sempre
che
sia
possibile
separarle
dall’accordo).
5.L’abuso
di
posizione
dominante.
115
Art.
102,
co.1°
=>
lo
sfruttamento
abusivo
da
parte
di
una
o
più
imprese
di
una
posizione
dominante
sul
mercato
interno
o
su
una
parte
sostanziale
di
questo
è
incompatibile
con
il
mercato
interno
e
vietato,
nella
misura
in
cui
possa
essere
pregiudizievole
al
commercio
tra
Stati
membri.
OGGETTO
DEL
DIVIETO
=
SFRUTTAMENTO
ABUSIVO
DI
UNA
POSIZIONE
DOMINANTE
(no
detenzione
o
acquisizione)
=>
Il
TFUE
non
contiene
norme
che
impediscono
l’acquisizione
o
il
mantenimento
di
posizioni
monopolistiche
o
oligopolistiche.
Art.102
contiene
2
IPOTESI:
• POSIZIONE
DOMINANTE
INDIVIDUALE
=
è
detenuta
da
un’unica
impresa;
• POSIZIONE
DOMINANTE
DI
GRUPPO
=>
l’impresa
è
un’unità
in
senso
economico,
che
comprende
eventualmente
imprese
affiliate
=>
l’impresa
madre
è
responsabile
del
comportamento
delle
affiliate.
• POSIZIONE
DOMINANTE
COLLETTIVA
(detenuta
da
più
imprese)
=
è
detenuta
da
più
imprese,
tra
di
loro
indipendenti,
ma
unite
da
vincoli
economici.
INDAGINE
per
verificare
se
c’è
o
meno
VIOLAZIONE
DELL’ART.102:
1. Individuazione
del
mercato
rilevante
o
relevant
market,
su
cui
l’impresa
potrebbe
detenere
la
posizione
dominante.
Il
mercato
va
definito
come:
• Mercato
geografico
=>
generalmente
corrisponde
all’intero
mercato
interno.
In
alternativa
=>
si
considera
una
parte
sostanziale
del
mercato
interno
=
area
in
cui
le
condizioni
obiettive
di
concorrenza
relativamente
al
prodotto
in
questione
devono
essere
le
stesse
per
tutti
gli
operatori
economici;
• Mercato
dei
prodotti
=>
si
prendono
in
considerazione
non
solo
i
prodotti
identici
a
quelli
dell’impresa
in
questione,
ma
anche
quelli
che
presentano
rispetto
a
questi
un
certo
grado
di
intercambialità
o
di
sostituibilità
reciproca,
in
modo
che
tra
i
primi
e
i
secondi
sussiste
una
certa
concorrenza.
2. Eventuale
definizione
della
posizione
dell’impresa
come
posizione
dominante.
Nozione
di
POSIZIONE
DOMINANTE
(sentenza
Hoffmann
La
Roche)
=>
“una
posizione
di
potenza
economica
grazie
alla
quale
l’impresa
che
la
detiene
è
in
grado
di
ostacolare
la
persistenza
di
una
concorrenza
effettiva
sul
mercato
in
questione
ed
ha
la
possibilità
di
tenere
comportamenti
alquanto
indipendenti
nei
confronti
dei
concorrenti,
dei
clienti
e
dei
consumatori”.
Fattori
per
provare
la
POSIZIONE
DOMINANTE
(sentenza
United
Brands):
• Quota
di
mercato:
Quota
molto
elevata
=>
indizio
sufficiente
per
provare
una
posizione
dominante;
Quota
molto
bassa
=>
indizio
sufficiente
per
provare
che
non
c’è
una
posizione
dominante.
• Struttura
dell’impresa;
• Numero
e
forza
dei
concorrenti
in
rapporto
all’impresa
dominante;
• Barriere
all’ingresso
sul
mercato.
3. Rilevazione
degli
abusi,
eventualmente
causati
dal
comportamento
dell’impresa.
Nozione
di
SFRUTTAMENTO
ABUSIVO
(Hoffman
La
Roche)
=>
“è
una
nozione
oggettiva,
che
riguarda
il
comportamento
dell’impresa
in
posizione
dominante,
atto
ad
influire
sulla
struttura
di
un
mercato
in
cui,
proprio
per
il
fatto
che
vi
opera
detta
impresa,
il
grado
di
concorrenza
è
già
sminuito
e
che
ha
come
effetto
di
ostacolare,
ricorrendo
a
mezzi
diversi
da
quelli
su
cui
si
impernia
la
concorrenza
normale
tra
prodotti
e
servizi,
fondata
sulle
prestazioni
degli
operatori
economici,
la
conservazione
del
grado
di
concorrenza
ancora
esistente
sul
mercato
o
lo
sviluppo
di
detta
concorrenza”.
L’impresa
dominante
ha
una
particolare
responsabilità
=>
non
deve
compromettere
con
il
suo
comportamento
lo
svolgimento
di
una
concorrenza
effettiva
e
non
falsata
nel
mercato
comune.
IMPRESA
DOMINANTE
=>
ha
limiti
d’azione
più
gravosi
rispetto
all’impresa
non
dominante
=>
un
comportamento
consentito
per
un’impresa
normale,
potrebbe
non
esserlo
per
un’impresa
dominante.
Comportamenti
in
DIFESA
DELLA
POSIZIONE
DOMINANTE
=>
non
sono
ammissibili
se
hanno
lo
scopo
di
rafforzare
la
posizione
dominante
e
di
farne
abuso.
PRATICHE
ABUSIVE
=>
si
distinguono
in
base
a:
• EFFETTI
SULLA
CONCORRENZA:
116
Exploitative
abuses
(abusi
di
sfruttamento)
=>
l’impresa
dominante
intende
massimizzare
il
profitto
che
può
trarre
dalla
sua
posizione
di
forza
sul
mercato,
imponendo
condizioni
che
non
potrebbe
praticare
in
un
mercato
concorrenziale.
Exclusionary
abuses
(abusi
di
esclusione)
=>
mirano
a
proteggere
o
incrementare
la
posizione
dell’impresa
dominante,
espellendo
dal
mercato
attuali
concorrenti
o
impedendo
a
concorrenti
potenziali
di
entrarvi.
• CONTENUTO:
Prezzi
eccessivi
o
non
equi
=>
l’impresa
pratica
prezzi
privi
di
ogni
ragionevole
rapporto
con
il
valore
economico
della
prestazione
fornita;
Prezzi
discriminatori
=>
l’impresa
può
praticare
prezzi
differenziati
per
prestazioni
equivalenti
a
meno
che
non
siano
giustificati
da
oneri
fiscali,
diversità
nelle
spese
di
trasporto
etc..
Prezzi
predatori
=>
l’impresa
pratica
prezzi
troppo
bassi,
nell’intento
di
eliminare
un
concorrente;
Sconti
sui
prezzi
=>
sono
vietati
gli
sconti
di
fedeltà
(sono
legati
all’impegno
di
rifornirsi
esclusivamente
dall’impresa
dominante)
=>
viene
limitata
la
possibilità
dell’acquirente
di
scegliere
la
fonte
di
rifornimento;
Tying
and
bundling
agreements
=>
consiste
nel
subordinare
la
conclusione
di
contratti
all’accettazione
da
parte
degli
altri
contraenti
di
prestazioni
supplementari
che
non
abbiano
alcun
nesso
con
l’oggetto
del
contratto
stesso.
Rifiuto
di
vendere
=>
rifiuto
dell’impresa
dominante
di
vendere
i
propri
prodotti
o
servizi
ad
un’impresa
che
ne
faccia
richiesta;
Rifiuto
di
accesso
a
essential
facilities
=>
orientamento
tendente
a
considerare
le
imprese
in
posizione
dominante
come
soggette
all’obbligo
di
consentire
ai
concorrenti
l’accesso
a
proprie
strutture
o
servizi
quando
si
tratti
di
essential
facilities
(=strutture
o
servizi
in
mancanza
dei
quali
l’attività
in
questione
non
potrebbe
essere
svolta).
ABUSO
DI
POSIZIONE
DOMINANTE
=>
è
vietato
se
produce
un
pregiudizio
al
commercio
tra
gli
Stati
membri.
DIVIETO
DI
POSIZIONE
DOMINANTE:
• È
assoluto;
• Non
è
possibile
alcuna
dichiarazione
di
inapplicabilità;
• Presenta
una
valutazione
aprioristicamente
negativa
=>
si
parla
di
sfruttamento
abusivo
della
posizione
dominante.
6.Le
procedure
per
l’applicazione
dell’artt.
101
e
102.
Compito
di
dare
applicazione
alle
regole
di
concorrenza
(artt.101
e
102)
=>
è
affidato
:
• Alla
Commissione
=>
Reg.
CEE
n.17/62
del
Consiglio,
primo
regolamento
d’applicazione
degli
artt.
101
e
102
TFUE
=>
riserva
alla
Commissione
un
ruolo
primario.
• Alle
autorità
degli
Stati
membri
competenti
in
materia
di
concorrenza
(ANC)
=>
La
competenza
della
Commissione
prevaleva
su
quella
delle
ANC.
Esse
potevano
applicare
gli
artt.
101
e
102,
seguendo
le
procedure
previste
dalla
legislazione
del
proprio
Stato,
ma
il
loro
potere
veniva
meno
quando
la
Commissione
dava
inizio
alla
procedura
per
adottare
una
delle
decisioni
previste
dal
reg.
17.
• Ai
giudici
nazionali
=>
Essi
erano
in
grado
di
applicare
autonomamente
gli
artt.
101
e
102
nei
giudizi
di
propria
competenza,
trattandosi
di
norme
dotate
di
efficacia
diretta.
Tuttavia
=>
i
giudici
erano
tenuti
a
rispettare
le
eventuali
decisioni
già
adottate
dalla
Commissione,
ai
sensi
del
reg.
n.17
a
proposito
della
medesima
fattispecie.
I
giudici
nazionali
non
perdevano
la
loro
competenza
ad
applicare
gli
artt.
101
e
102
anche
nel
caso
in
cui
la
Commissione
avesse
aperto
una
procedura
ai
sensi
del
reg.
17.
Tuttavia
=>
la
Corte
aveva
invitato
i
giudici
nazionali
che
si
fossero
trovati
in
tale
situazione,
a
sospendere
il
proprio
giudizio,
in
attesa
della
decisione
della
Commissione,
ovvero
a
rivolgersi
alla
Commissione
per
ottenere
informazioni
sul
procedimento
o
a
chiedere
alla
stessa
dati
economici
e
giuridici
di
difficile
reperimento
per
il
giudice.
Anche
nel
caso
in
cui
la
Commissione
avesse
adottato
una
semplice
lettera
di
archiviazione
(confort
letter),
per
sua
natura
provvisoria,
il
giudice
nazionale
era
stato
invitato
dalla
Corte
a
tenerne
conto
come
elemento
di
fatto.
117
COMMISSIONE
=>
era
l’unica
a
poter
adottare
una
decisione
individuale
d’inapplicabilità
(esenzione
individuale)
a
favore
di
un’intesa.
AUTORITA’
NAZIONALI
E
GIUDICI
NAZIONALI
=>
potevano
applicare
il
divieto
contenuto
nell’art.
101,
par.1
e
la
sanzione
di
nullità
(art.101,
par.2)
ma
non
potevano
tener
conto
degli
elementi
che
avrebbero
potuto
giustificare
una
decisione
di
inapplicabilità.
=>
ciò
spingeva
le
imprese
interessate
a
preferire
il
coinvolgimento
della
Commissione,
procedendo
alla
notifica
delle
proprie
intese
anche
in
casi
in
cui
le
condizioni
previste
dal
par.3
dell’art.
101
erano
manifestamente
soddisfatte.
Notifica
dell’intesa
=>
costituiva
un
presupposto
indispensabile
per
ottenere
una
decisione
di
inapplicabilità
e
garantiva
una
temporanea
protezione
contro
la
possibilità
che
la
Commissione
decidesse
di
comminare
un’ammenda.
Preferivano
rivolgersi
alla
Corte
anche
coloro
che
avevano
interesse
a
far
constatare
un
comportamento
vietato
da
parte
dei
concorrenti.
Questa
situazione
aveva
prodotto
degli
inconvenienti:
• Il
carico
di
lavoro
della
Commissione
era
divenuto
insopportabile;
• I
tentativi
di
introdurre
criteri
che
consentissero
alla
Corte
di
rifiutarsi
di
prendere
posizione
sui
casi
che
presentassero
minore
interesse
o
sarebbe
stato
possibile
ottenere
adeguata
tutela
da
parte
dei
giudici
nazionali
=>
avevano
prodotto
un
difficile
contenzioso.
Dopo
le
proposte
del
Libro
Bianco
sulla
modernizzazione
delle
norme
per
l’applicazione
degli
artt.
81
e
82
del
trattato
CE,
pubblicato
nel
1999
dalla
Commissione
=>
approvazione
del
reg.
CE
n.1/2003
del
Consiglio,
concernente
l’applicazione
delle
regole
di
concorrenza
di
cui
agli
artt.
101
e
102
TFUE.
CHIAVE
DI
VOLTA
DEL
NUOVO
SISTEMA
=
Abolizione
del
potere
esclusivo
della
Commissione
di
concedere
esenzioni
individuali
e
riconoscimento
che
anche
le
autorità
nazionali
e
i
giudici
nazionali
possano
applicare
l’art.101
nella
sua
interessa.
Si
passa
da
Regime
di
autorizzazione
preventiva
a
=>
Regime
di
eccezione
direttamente
applicabile
da
parte
di
tutti
gli
organi
competenti.
Anche
in
questo
contesto
=>
la
Commissione
ha
un
ruolo,
meno
operativo
ma,
centrale.
Reg.
1/2003=>
la
COMMISSIONE
ha
=>
amplissimo
potere
di
decisione
(usato
però
più
raramente),
in
merito
alle
infrazioni
agli
artt.
101
e
102
=>
Tale
potere
si
esprime
in
queste
forme:
• Decisione
di
mera
costatazione
di
infrazione
=>
è
emanata
se
l’infrazione
è
già
cessata,
ma
la
Comm.
ha
un
legittimo
interesse
a
contestarla;
• Decisione
inibitoria
=>
è
emanata
dalla
Comm.
che
ha
constatato
un’infrazione
ancora
in
atto
e
obbliga
le
imprese
interessate
a
porre
fine
all’infrazione
constatata,
imponendo
i
rimedi
comportamentali
o
strutturali
che
devono
essere
attuati;
• Decisione
comminatoria
di
ammende
=>
questa
decisione
generalmente
contiene
l’obbligo
di
pagare
un’ammenda
di
un
valore
che
non
deve
superare
il
10%
del
fatturato
totale
realizzato
durante
l’esercizio
sociale
precedente;
• Decisione
di
accettazione
di
impegni
=>
con
questa
decisione,
la
Comm.
rende
obbligatori
per
le
imprese
gli
impegni
offerti
dalle
imprese
interessate,
per
rispondere
alle
preoccupazioni
espresse
loro
dalla
Comm..
=>
l’intervento
della
Comm.
non
è
più
giustificato
fintanto
che
gli
impegni
sono
rispettati;
• Decisione
di
irrogazione
di
penalità
di
mora
=>
una
penalità
di
mora,
il
cui
importo
può
giungere
fino
al
5%
del
fatturato
medio
giornaliero
realizzato
durante
l’esercizio
sociale
precedente,
può
essere
irrogata
per
costringere
le
imprese
interessate
a:
Porre
fine
ad
un’infrazione
constatata
con
una
decisione
inibitoria;
Rispettare
le
misure
cautelari
disposte
con
decisione;
Rispettare
gli
impegni
accettati
con
decisione.
• Decisione
di
constatazione
di
inapplicabilità
=>
la
Comm.
procede
alla
contestazione
di
inapplicabilità
dell’art.
101
ad
una
specifica
intesa
:
Perché
le
condizioni
di
cui
all’art.
101,
par.1
non
sono
soddisfatte;
Perché
sono
soddisfatte
le
condizioni
di
cui
all’art.
101,
par.3
TFUE.
118
• Decisione
che
adotta
misure
cautelari
=>
la
Comm.
dispone
misure
cautelari,
nei
casi
d’urgenza
e
sempre
che
constati
l’esistenza
di
un’infrazione;
• Decisione
di
rigetto
di
una
denuncia
=>
questa
tipologia
di
decisione
non
è
disciplinata
da
alcuna
norma
specifica
ma
è
implicita
nell’art.13;
• Decisioni
di
revoca
=>
la
Comm.
può
revocare,
in
casi
specifici,
il
beneficio
di
un
regolamento
di
esenzione
per
categoria.
Anche
nel
nuovo
sistema
=>
la
Comm.
ha
il
potere
normativo
di
adottare
esenzioni
per
categoria
(regolamenti
che
dichiarano
l’inapplicabilità
del
divieto
di
cui
all’art.
101
par.1
ad
intere
categorie
di
intese).
Art.
29,
par.1,
reg.
n.
1/2003
=>
potere
di
revoca
della
Comm.
del
beneficio
dell’esenzione
per
categoria.
Art.
5
del
reg.
1/2003
=>
poteri
di
cui
dispongono
le
ANC.
Agendo
d’ufficio
o
in
seguito
a
denuncia,
le
ANC
possono
adottare
le
seguenti
decisioni:
• Decisioni
inibitorie;
• Decisioni
di
accettazione
di
impegni;
• Decisioni
sanzionatorie;
• Decisioni
di
non
luogo
a
procedere
=
decidere
di
non
aver
motivo
di
intervenire,
qualora
in
base
alle
informazioni
di
cui
dispongono,
non
sussistono
le
condizioni
per
un
divieto.
ANC
=>
non
si
trovano
in
posizione
di
uguaglianza
rispetto
alla
Commissione
=>
sono
sottoposte
al
potere
di
coordinamento
della
Commissione
=>
esso
comporta:
• Obbligo
di
informazione
che
si
esplica
in
una
cooperazione
verticale;
• Effetto
preclusivo
=>
l’avvio
di
un
procedimento
da
parte
della
Comm.
priva
le
ANC
del
potere
di
procedere,
a
loro
volta,
in
merito
alla
stessa
fattispecie.
=>
nel
caso
in
cui
l’ANC
abbia
già
avviato
un’indagine,
si
parla
di
un
vero
e
proprio
potere
di
avocazione;
• Obbligo
di
applicazione
uniforme
=>
quando
le
ANC
si
pronunciano
su
accordi,
decisioni
o
pratiche,
già
state
oggetto
di
una
decisione
della
Comm.,
esse
non
possono
prendere
decisioni
in
contrasto
con
quella
adottata
dalla
Comm..
Cooperazione
orizzontale
=
si
instaura
tra
le
varie
ANC.
ECN
(European
Competition
Network)
=
RETE
creatasi
tra
la
Commissione
e
le
ANC
=>
è
finalizzata
ad
agevolare
la
cooperazione
e
la
distribuzione
ottimale
dei
casi
a
favore
dell’autorità
più
idonea
a
trattarli
e
a
ridurre
il
rischio
di
un’applicazione
difforme
degli
artt.
101
e
102.
Nuovo
potere
dei
giudici
nazionali
=>
valutare
la
presenza
delle
condizioni
previste
dall’art.
101,
par.3
=>
per
poter
applicare
alle
imprese
la
sanzione
della
nullità
(art.
101,
par.2),
il
giudice
dovrà
verificare
che
non
sussistano
le
condizioni
che,
ai
sensi
dell’art.
101,
par.3,
rendano
inapplicabile
il
divieto
di
cui
al
par.1.
Rispetto
al
passato
=>
possibilità
di
conflitti
di
competenza
tra
giudici
nazionali
e
Commissione
è
molto
meno
verosimile.
Nelle
ipotesi
in
cui
la
Commissione
adotti
una
decisione,
essa
sarà
vincolante
anche
nei
confronti
dei
giudici
nazionali
=>
essi
non
potranno
adottare
una
decisione
difforme.
È
dubbio
se
anche
una
decisione
di
rigetto
di
una
denuncia
impedisca
al
giudice
nazionale
di
applicare
autonomamente
gli
artt.
101
o
102.
=>
nel
vigore
del
reg.17
=>
aveva
risposto
negativamente,
non
avendo
carattere
definitivo,
in
questo
caso,
la
presa
di
posizione
della
Comm.
In
presenza
di
un
regolamento
d’esenzione
per
categoria
=>
il
giudice
valuterà
se
l’intesa
risponde
alle
condizioni
poste
dal
regolamento
per
beneficiare
dell’esenzione.
In
caso
contrario
=>
sarà
applicata
la
sanzione.
Strumento
di
raccordo
tra
giudici
nazionali
e
Commissione
=>
la
Comm.
può
presentare
OSSERVAZIONI
SCRITTE
nei
giudizi
dinanzi
ai
giudici
nazionali
qualora
sia
necessario,
ai
fini
dell’applicazione
uniforme
degli
artt.
101
e
102.
POSIZIONE
DEI
DENUNCIANTI
=>
il
reg.
n.
1/2003
prevede
la
possibilità
che
i
soggetti
interessati
ad
ottenere
la
cessazione
di
un
comportamento
contrario
agli
artt.
in
questione
presentino
una
denuncia
alla
Comm.,
perché
questa
provveda.
È
dubbio
che
ai
denuncianti
possa
essere
riconosciuto,
nel
sistema
119
del
reg.
1/2003
una
posizione
giuridica
analoga
a
quella
che
la
giurisprudenza
aveva
delineato
nella
vigenza
del
reg.17.
=>
nel
nuovo
regime,
le
autorità
nazionali
e
i
giudici
nazionali
dispongono
di
poteri
idonei
a
tutelare
i
soggetti
aventi
un
interesse
legittimo
alla
repressione
dei
comportamenti
vietati
dagli
artt.
101
e
102.
Gli
interventi
della
Commissione
sono
diretti
a
tutelare
interessi
generali
dell’Unione
piuttosto
che
a
proteggere
indirettamente
interessi
particolari
di
singoli
soggetti.
=>
la
Commissione
può
e
deve
agire
soltanto
d’ufficio
e
soltanto
per
ragioni
di
interesse
pubblico
comunitario.
8.Il
controllo
delle
concentrazioni.
Artt.
101
e
102
=>
non
idonei
ad
assicurare
il
controllo
delle
concentrazioni
tra
imprese.
Sulla
base
degli
artt.
103
e
352
=>
il
Consiglio
adotta
=>
Reg.
CEE
n.4064/89
sul
controllo
delle
operazioni
di
concentrazione
tra
imprese.
=>
è
stato
poi
sostituito
con
Reg.
CE
n.
139/2004,
relativo
al
controllo
delle
concentrazioni
tra
imprese
(“Regolamento
comunitario
sulle
concentrazioni”).
NOZIONE
DI
CONCENTRAZIONE
=>
Art.3,
par.1:
Si
ha
una
concentrazione
quando
si
produce
una
modifica
duratura
del
controllo
a
seguito:
• Della
fusione
di
due
o
più
imprese
precedentemente
indipendenti
o
parti
di
imprese;
oppure
• Dell’acquisizione,
da
parte
di
una
o
più
persone
che
già
detengono
il
controllo
di
almeno
un’altra
impresa,
o
da
parte
di
una
o
più
imprese,
sia
tramite
acquisto
di
partecipazioni
nel
capitale
o
di
elementi
del
patrimonio,
sia
tramite
contratto
o
qualsiasi
altro
mezzo,
del
controllo
diretto
o
indiretto
dell’insieme
o
i
parti
di
una
o
più
altre
imprese.
La
creazione
di
un’impresa
comune
o
joint-venture
costituisce
una
concentrazione
quando
tale
entità
esercita
stabilmente
tutte
le
funzioni
di
un’entità
economica
autonoma.
PROCEDURA
DI
CONTROLLO,
prevista
dal
reg.
=>
si
applica
solo
alle
concentrazioni
che
presentano
una
dimensione
comunitaria.
Controllo
delle
concentrazioni
al
di
sotto
della
soglia
di
rilevanza
comunitaria
=>
spetta
alle
autorità
nazionali
garanti
della
concorrenza.
In
applicazione
del
principio
della
barriera
unica
=>
gli
Stati
membri
non
possono
applicare
la
propria
legislazione
nazionale
in
materia
di
concorrenza
alle
concentrazioni
di
dimensione
comunitaria.
Unica
eccezione
a
tale
soluzione
=>
possibilità
che
la
Commissione
decida
(su
richiesta
dello
Stato
membro)
il
rinvio
alle
competenti
autorità
nazionali
di
un
caso
di
concentrazione,
qualora
riguardi
un
mercato
interno
allo
Stato
membro
richiedente
che
presenti
le
caratteristiche
di
un
mercato
distinto
e
non
costituisca
una
parte
sostanziale
del
mercato
comune.
Il
reciproco
di
questa
situazione
è
il
rinvio
alla
Commissione
=>
avviene
su
richiesta
di
uno
o
più
Stati
membri
interessati,
qualora
la
concentrazione
pregiudichi
il
commercio
tra
Stati
membri
o
pregiudichi
in
maniera
significativa
la
concorrenza
nel
territorio
di
uno
Stato
membro.
PARAMETRI
per
definire
quando
una
concentrazione
ha
dimensione
comunitaria
=>
fanno
riferimento
al
FATTURATO
delle
imprese
coinvolte.
Tali
parametri
sono
stati
abbassati
nel
tempo.
DEFINIZIONE
di
DIMENSIONE
COMUNITARIA
=>
art.
1,
par.2:
Una
concentrazione
è
di
dimensione
comunitaria
quando:
• Il
fatturato
totale
realizzato
a
livello
mondiale
dall’insieme
dell’imprese
interessate
è
superiore
a
5
miliardi
di
EUR;
• Il
fatturato
totale
realizzato
individualmente
nella
Comunità
da
almeno
2
delle
imprese
interessate
è
superiore
a
250
milioni
di
EUR,
salvo
che
ciascuna
delle
imprese
interessate
realizzi
oltre
i
due
terzi
del
suo
fatturato
totale
nella
Comunità
all’interno
di
un
solo
e
medesimo
Stato
membro
Art.
1,
par.3
=>
definisce
i
casi
in
cui
una
concentrazione,
che
non
supera
le
soglie
stabilite
al
paragrafo
2,
è
comunque
di
dimensione
comunitaria.
OPERAZIONI
DI
CONCENTRAZIONE
=>
non
sono
ammesse
se
non
sono
compatibili
con
il
MERCATO
COMUNE.
Art.
2,
par.2
e
3
=>
criterio
per
stabilire
la
COMPATIBILITA’
CON
IL
MERCATO
COMUNE:
• Par.2
=>
Sono
compatibili
con
il
mercato
comune
=>
le
concentrazioni
che
non
ostacolino
in
modo
significativo
una
concorrenza
effettiva
nel
mercato
comune
o
in
una
parte
sostanziale
di
esso,
in
particolare
a
causa
della
creazione
o
del
rafforzamento
di
una
posizione
dominante;
120
• Par.3
=>
Sono
incompatibili
con
il
mercato
comune
=>
le
concentrazioni
che
ostacolino
in
modo
significativo
una
concorrenza
effettiva
nel
mercato
comune
o
in
una
parte
sostanziale
di
esso,
in
particolare
a
causa
della
creazione
o
del
rafforzamento
di
una
posizione
dominante.
PROCEDURA
DI
CONTROLLO
=>
è
affidata
alla
COMMISSIONE:
• Le
operazioni
di
concentrazione
vanno
notificate
preventivamente
alla
Commissione;
• Inizialmente
=>
la
Commissione
procede
ad
un
esame
informale
della
concentrazione:
Se
non
vi
sono
seri
dubbi
=>
la
Comm.
dichiara
la
concentrazione
come
compatibile
con
il
mercato
comune;
In
caso
contrario
=>
la
Comm.
decide
di
avviare
la
procedura
di
esame
formale.
• In
ogni
caso
=>
la
Comm.
deve
decidere
entro
il
termine
di
25
giorni
lavorativi
dalla
notifica.
=>
Decorso
invano
questo
termine
=>
si
ritiene
che
la
concentrazione
sia
compatibile
con
il
mercato
comune.
• Se
è
stata
avviata
la
procedura
di
esame
formale
=>
deve
concludersi
entro
il
termine
massimo
di
90
giorni
lavorativi,
con
una
decisione
che
dichiara
la
concentrazione
compatibile
o
incompatibile
con
il
mercato
comune.
=>
altrimenti
=>
la
concentrazione
è
considerata
compatibile.
• Operazioni
di
concentrazione
=>
sono
soggette
ad
un
obbligo
di
sospensione
=>
esse
non
possono
essere
realizzate
prima
di
essere
notificate
alla
Commissione,
né
prima
di
essere
state
dichiarate
compatibili
con
il
mercato
comune
o
prima
che
siano
decorsi
invano
i
termini
su
citati.
• Se
l’obbligo
di
sospensione
non
è
stato
rispettato
e
l’operazione
di
concentrazione
è
stata
realizzata
=>
la
Commissione
può
ordinare
la
separazione
delle
imprese,
la
cessazione
del
controllo
o
ogni
altra
misura
utile.
• La
Commissione
=>
ha
il
potere
di
adottare
misure
provvisorie
idonee
a
ripristinare
o
mantenere
una
concorrenza
effettiva.
• La
Commissione
=>
ha
il
potere
di
• Comminare
ammende
=>
possono
arrivare
fino
al
10%
del
fatturato
totale
realizzato
dalle
imprese
interessate
in
caso
di
operazione
di
concentrazione,
realizzata
senza
rispettare
l’obbligo
di
sospensione
o
nonostante
fosse
stata
dichiarata
incompatibile.
Sono
sanzionabili
solo
i
comportamenti
commessi
intenzionalmente
o
per
negligenza.
• Comminare
penalità
di
mora.
CAPITOLO
SETTIMO
LA
DISCIPLINA
DEGLI
AIUTI
PUBBLICI
ALLE
IMPRESE
1.Quadro
normativo.
Artt.
da
107
a
109
TFUE
=>
AIUTI
PUBBLICI
ALLE
IMPRESE
=>
sono
norme
più
specificatamente
dirette
agli
Stati
membri:
• Art.
107
=
PRINCIPIO
DI
INCOMPATIBILITA’con
il
mercato
interno
degli
aiuti
pubblici
alle
imprese.
Par.2
e
3
=>
deroghe
o
esenzioni
=>
casi
in
cui
tale
principio
non
si
applica
o
non
può
applicarsi;
• Art.
108
=>
disciplina
=>
Procedura
di
controllo
(affidata
alla
Commissione
e
solo
eccezionalmente
al
Consiglio),
attraverso
cui
il
principio
e
le
deroghe
allo
stesso
vanno
applicati;
• Art.
109
=>
attribuisce
al
Consiglio
il
potere
di
stabilire,
su
proposta
della
Commissione
e
previa
consultazione
del
P.E.,
tutti
i
regolamenti
utili
ai
fini
dell’applicazione
degli
artt.
107
e
108
e
specialmente
dell’art.
108,
par.3,
e
le
categorie
di
aiuti
che
sono
dispensate
da
tale
procedura.
In
forza
dell’art.
109
=>
il
Consiglio
ha
approvato
2
importanti
REGOLAMENTI:
1. Reg.
CE
n.
994/98
sull’applicazione
degli
articoli
107
e
108
TFUE
a
determinate
categorie
di
aiuti
di
Stato
orizzontali
=>
abilita
la
Commissione
ad
adottare
regolamenti
di
secondo
grado
che
specificano,
con
riferimento
ad
alcune
categorie
di
aiuti
orizzontali,
le
condizioni
in
cui
tali
aiuti
sono
considerati
compatibili
con
il
mercato
interno
e
non
devono
essere
previamente
autorizzati
dalla
Commisione.
In
forza
di
tale
delega
=>
la
Commissione
ha
adottato
numerosi
regolamenti
di
esenzione
per
categoria.
2. Reg.
CE
n.
659/99
recante
modalità
di
applicazione
dell’art.
93
del
Trattato
CE.
2.La
nozione
di
aiuto.
Art.
107,
par.1
=>
“Salvo
deroghe
previste
dai
trattati,
sono
incompatibili
con
il
mercato
interno,
nella
misura
in
cui
incidano
sugli
scambi
tra
Stati
membri,
gli
aiuti
concessi
dagli
Stati,
ovvero
mediante
risorse
121
statali,
sotto
qualsiasi
forma
che,
favorendo
talune
imprese
o
talune
produzioni,
falsino
o
minaccino
di
falsare
la
concorrenza”.
La
qualificazione
di
una
misura
quale
aiuto
presuppone
che
sia
soddisfatto
ognuno
dei
4
criteri
cumulativi
su
cui
si
fonda
l’art.
107,
par.1,
TFUE.
I
4
CRITERI:
• Finanziamento
di
origine
pubblica;
• Conferimento
di
un
vantaggio
per
i
beneficiari;
• Pregiudizio
agli
scambi
tra
Stati
membri;
• Pregiudizio
alla
concorrenza.
I
motivi
(scopi)
che
hanno
indotto
lo
stato
ad
adottare
una
misura
statale
come
aiuto
=>
SONO
ININFLUENTI.
Gli
effetti
che
essa
produce
sulla
concorrenza
e
sugli
scambi
tra
gli
Stati
membri
=>
SONO
RILEVANTI.
PRIMO
CRITERIO
=
FINANZIAMENTO
DI
ORIGINE
PUBBLICA
=>
Art.
107,
par.1
menziona
2
diverse
ipotesi.
PER
LA
CORTE
=>
la
distinzione
tra
queste
2
ipotesi
è
volta
a
ricomprendere
nella
nozione
di
aiuto
non
solo
gli
aiuti
direttamente
concessi
dagli
Stati,
ma
anche
quelli
concessi
da
enti
pubblici
o
privati
designati
o
istituiti
dagli
Stati.
• Aiuti
concessi
dagli
Stati
membri
=>
perché
gli
aiuti
siano
considerati
tali
non
occorre
che
siano
accordati
direttamente
da
uno
Stato
membro.
Tra
questi
aiuti
rientrano
anche
quelli
erogati
da
un’autorità
pubblica
non
statale,
come
gli
enti
pubblici
territoriali,
gli
enti
pubblici
economici,
le
società
controllate
dello
Stato
o
gli
enti
incaricati
dalla
legge
di
gestire
fondi
provenienti
da
depositi
obbligatori
pubblici
e
privati.
In
questa
categoria
rientra
anche
una
sovvenzione
attribuita
da
enti
pubblici
o
privati
istituiti
o
designati
da
uno
Stato
per
amministrare
la
sovvenzione
stessa.
• Aiuti
concessi
mediante
risorse
statali
=>
gli
aiuti
rientrano
in
questa
categoria
se
le
risorse
utilizzate
per
erogarli
provengono
da
contributi
obbligatori
o
da
tasse
parafiscali
riscosse
da
un
ente
pubblico
a
carico
delle
imprese
di
un
certo
settore
e
utilizzate
a
favore
di
alcune
di
queste.
Tra
le
risorse
statali
rientrano
anche
risorse
di
cui
l’ente
erogatore
non
era
il
titolare,
ma
di
cui
poteva
disporre,
seguendo
le
direttive
dei
poteri
pubblici.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
il
vantaggio
accordato
ad
un’impresa
beneficiaria
deve
corrispondere
ad
un
onere
finanziario
a
carico
dell’ente
erogatore.
In
passato,
PER
LA
COMMISSIONE
=>
il
riferimento
all’ipotesi
di
aiuto
concesso
mediante
risorse
statali,
consentirebbe
di
prescindere
dalla
necessità
di
dimostrare
l’esistenza
di
un
onere
finanziario
per
l’ente
pubblico
erogatore.
LA
CORTE
=>
ha
respinto
tale
tesi.
Nella
Sentenza
Sloman
Neptun
=>
essa
giudica
che
“solo
i
vantaggi
concessi
direttamente
o
indirettamente
mediante
risorse
statali
vanno
considerati
aiuti
ai
sensi
dell’art.
107
TFUE.
Da
questa
disposizione
e
dalle
regole
procedurali
dettate
dall’art.
108,
emerge
che
i
vantaggi
concessi
con
mezzi
diversi
dalle
risorse
statali
esulano
dall’ambito
di
applicazione
di
queste
disposizioni”.
SECONDO
CRITERIO
=
CONFERIMENTO
DI
UN
VANTAGGIO
AI
BENEFICIARI.
Nozione
di
aiuto
=>
comprende:
• Prestazioni
positive
=>
a
questa
categoria
appartengono
sovvenzioni,
prestiti,
ovvero
investimenti
pubblici
nel
capitale
di
imprese,
quando
avvengono
in
condizioni
che
un
investitore
privato
che
agisse
in
un’economia
di
mercato
non
avrebbe
accettato
(=Criterio
dell’investitore
privato).
CRITERIO
DELL’INVESTITORE
PRIVATO:
Dapprima:
si
è
affermato
in
relazione
al
fenomeno
dell’assunzione
da
parte
dei
pubblici
poteri
di
partecipazioni
nel
capitale
di
imprese
in
difficoltà,
come
anche
la
sottoscrizione
di
nuove
quote
di
capitale
in
imprese
già
a
maggioranza
azionaria
statale.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
tali
operazioni
dissimulano
un
aiuto
qualora
avvengano
in
condizioni
tali
che
privati
operatori
non
le
avrebbero
effettuate;
Successivamente:
il
criterio
è
stato
affermato
anche
in
contesti
diversi
=>
ad
es.
per
valutare
un
prestito
concesso
a
tassi
agevolati,
la
concessione
di
un’agevolazione
per
il
pagamento
di
contributi
sociali
o
misure
non
classificabili
come
prestazioni
positive
ma
come
rinunce
ad
introiti
pubblici.
Vantaggio
ai
beneficiari
=
può
essere
anche
indiretto
(AIUTI
INDIRETTI)
=>
l’erogazione
di
risorse
pubbliche
non
è
destinata
ai
destinatari
stessi
ma
ai
loro
clienti.
122
• Rinuncia
ad
introiti
=
interventi
che
alleviano
gli
oneri
generalmente
gravanti
sul
bilancio
di
un’impresa
(hanno
stessa
natura
ed
effetti
identici
delle
sovvenzioni).
In
questa
categoria
rientrano:
Agevolazioni
fiscali,
sottoforma
di
esoneri
o
di
riduzioni
di
imposte,
tasse
o
contribuiti
concessi
a
determinate
imprese
nazionali;
Fissazione
di
prezzi
di
favore
per
determinati
beni
pubblici;
Assistenza
logistica
e
commerciale
fornita
a
prezzi
inferiori
a
quelli
di
mercato
da
parte
di
un’impresa
pubblica
alle
proprie
filiali
che
operano
in
settori
aperti
alla
libera
circolazione.
Perché
una
misura
conferisca
un
vantaggio
ai
beneficiari
=>
bisogna
accertare
che
abbia
un
carattere
di
selettività.
Art.
107,
par.1
=>
sono
incompatibili
con
il
mercato
interno
gli
aiuti
che
favoriscono
“talune
imprese
o
talune
produzioni”.
Non
sono
vietate,
dato
che
rientrano
nella
competenza
di
ciascuno
Stato
membro
di
definire
la
propria
politica
economica
=>
Misure
di
carattere
generale
=
misure
che
favoriscono
lo
sviluppo
delle
attività
economiche
in
generale
(purchè
si
tratti
di
misure
di
cui
beneficiano
tutte
le
imprese,
indipendentemente
dal
settore
in
cui
operano
o
dalla
regione
in
cui
sono
installate)
tra
cui:
Riduzione
generalizzata
delle
tasse
o
dei
contributi
sociali
o
previdenziali
a
carico
delle
imprese;
Aiuti
alla
ricerca
o
all’occupazione
.
Misura
di
carattere
generale
=>
può
essere
considerata
SELETTIVA
=>
qualora
il
suo
godimento
da
parte
delle
imprese
non
sia
automatico
ma
subordinato
ad
una
decisione
discrezionale
dell’autorità
pubblica.
PER
LA
GIURISPRUDENZA
=>
SELETTIVITA’
è
assente
=>
in
un
provvedimento
che,
sebbene
costitutivo
di
un
vantaggio
per
il
suo
beneficiario,
“sia
giustificato
dalla
natura
o
dalla
struttura
generale
del
sistema
nel
quale
si
inserisce”.
QUESTIONE:
in
caso
di
aiuti
concessi
da
autorità
regionali
o
locali
di
uno
Stato
membro,
la
loro
selettività
dev’essere
valutata
con
riferimento
alle
sole
imprese
aventi
sede
nel
territorio
di
pertinenza
dell’ente
territoriale
erogatore
o
il
confronto
va
esteso
a
tutte
le
imprese
dello
Stato
membro?
PER
LA
CORTE
=>
il
contesto
di
riferimento
potrebbe
essere
il
territorio
in
cui
esercita
la
sua
competenza
l’entità
infrastatale,
che
ha
adottato
il
provvedimento
e
non
il
territorio
nazionale
nella
sua
totalità.
Ma
=>
la
Corte
ha
subordinato
tale
possibilità
alla
dimostrazione
che
il
detto
provvedimento
sia
stato
adottato
da
tale
entità
nell’esercizio
di
poteri
sufficientemente
autonomi
rispetto
al
governo
centrale
=
REQUISITO
DELL’AUTONOMIA.
Se
il
requisito
dell’autonomia
è
soddisfatto
=>
per
verificare
il
carattere
selettivo
=>
occorre
esaminare
se
il
regime
previsto
per
le
imprese
con
sede
nel
territorio
dell’ente
in
questione
è
di
applicazione
generale
o
si
applica
soltanto
a
talune
di
queste
imprese.
Spesso
=>
gli
Stati
membri
=>
non
si
limitano
ad
accordare
un
aiuto
ad
una
singola
impresa,
ma
istituiscono
strumenti
di
carattere
generale,
mediante
i
quali
vengono
successivamente
erogati
aiuti
alle
imprese
rispondenti
ai
requisiti
definiti
nello
strumento
istitutivo.
La
prassi
ha
elaborato
la
distinzione
tra:
• Aiuti
individuali
=>
sono
concessi
a
singole
imprese,
individuate
nello
stesso
atto
istitutivo
dell’aiuto;
• Regimi
di
aiuto
=>
definiti
dall’art.
1
del
reg.
659/99
=>
“Atto
in
baso
al
quale,
senza
che
siano
necessarie
ulteriori
misure
d’attuazione,
possono
essere
adottate
singole
misure
di
aiuto
a
favore
di
imprese
definite
nell’atto
in
linea
generale
e
astratta
e
qualsiasi
atto
in
base
al
quale
l’aiuto,
che
non
è
legato
a
uno
specifico
progetto,
può
essere
concesso
a
una
o
più
imprese
per
un
periodo
di
tempo
indefinito
e/o
per
un
ammontare
indefinito”.
Regimi
di
aiuti
=>
non
comportano
essi
stessi
l’erogazione
di
aiuti
a
singole
imprese
ma
sono
costituiti
da
atti
di
portata
generale
che
autorizzano
la
successiva
adozione
di
provvedimenti
individuali
di
erogazione
ovvero
consentono
alle
imprese
interessate
di
avvalersi
dei
provvedimenti
di
favore.
Art.
107,
par.1
=>
gli
aiuti
statali
alle
imprese
sono
vietati
se
si
soddisfano
2
CONDIZIONI:
123
124
• Aiuti
a
finalità
settoriale
=>
sono
rivolti
a
favorire
lo
sviluppo
di
particolari
settori
di
attività
(es.
siderurgia,
cantieristica
navale)
bisognosi
di
sostegno,
per
superare
difficoltà
di
tipo
strutturale;
• Aiuti
orizzontali
=>
sono
rivolti
a
favorire
obiettivi
di
specifico
interesse
dell’Unione
e
si
applicano
senza
distinzione
a
tutte
le
regioni
e
a
tutti
i
settori.
4.La
procedura
per
il
controllo
degli
aiuti.
Il
compito
di
applicare
la
disciplina
dettata
dal
Trattato
in
materia
di
aiuti
pubblici
alle
imprese
spetta:
• In
maniera
preponderante
=>
alle
istituzioni
e
in
particolare
alla
Commissione;
• In
maniera
minore
=>
ai
giudici
nazionali
che,
in
questa
materia,
dispongono
di
poteri
molto
più
limitati
di
quanto
avviene
per
l’applicazione
degli
artt.
101
e
102.
Procedura
attraverso
cui
le
istituzioni
sono
chiamate
a
dare
applicazione
ai
precetti
contenuti
nell’art.
107
=>
è
delineata
nell’art.
108
=>
è
affidata
alla
Commissione.
Art.
108
(norma
formulata
in
maniera
confusa
e
lacunosa)
=>
prevede
in
realtà
2
procedure
distinte
a
seconda
che
si
tratti
di:
• Aiuti
esistenti
=>
il
reg.
659/99
=>
intende
principalmente
gli
aiuti
individuali
o
i
regimi
di
aiuti
“ai
quali
è
stata
data
esecuzione
prima
dell’entrata
in
vigore
del
trattato
e
che
sono
ancora
applicabili
dopo
tale
entrata
in
vigore”.
Art.
108
par.1
e
2
=>
prevede
che
gli
aiuti
esistenti
siano
sottoposti
ad
esame
permanente
ad
opera
della
Commissione
=>
se
in
esito
a
tale
esame
la
Commissione
si
convince
che
l’aiuto
non
è
compatibile
con
il
mercato
interno
=>
essa
apre
la
procedura
d’indagine
formale
che
prevede
il
seguente
schema:
Intimazione
agli
interessati
di
presentare
le
loro
osservazioni;
Adozione
di
una
decisione
con
la
quale
la
Commissione
ordina
allo
Stato
membro
interessato
di
sopprimere
o
modificare
l’aiuto
nel
termine
da
essa
fissato;
Se
lo
Stato
membro
non
si
conforma
alla
decisione
entro
il
termine
stabilito,
si
fa
ricorso
diretto
alla
Corte
di
giustizia,
senza
che
debba
essere
rispe