Sei sulla pagina 1di 2

Titolo: Alessandro Quasimodo intervistato dall’amica Miriana Ronchetti

Alessandro Quasimodo è per me una persona di famiglia e questo è un modo diverso per rivisitare anche il
rapporto di profonda amicizia che da anni ci lega. Qui, nella sua casa di Milano, siamo circondati da quadri,
libri, fotografie, oggetti importanti ma altrettante piccole cose che, lontano dall’essere “preziose”, hanno un
valore affettivo immenso. Alessandro, lo si vede e lo si sente, è un estimatore della bellezza, dei profondi
silenzi; un osservatore minuzioso che con ripetuta e disincantata meraviglia, si pone quotidianamente con
curiosità, di fronte agli eventi visibili e invisibili, senza barriere. Lo guardo ed è come se i suoi pensieri
affondassero in spazi vuoti e si perdessero in lontane immaginazioni ma poi, sa afferrare la realtà con grande
consapevolezza, sezionandola e riuscendo a darle la sua giusta misura. Stare con lui, generalmente, provoca
una strana e piacevole sensazione di voler “sostare” tra quei suoi luoghi, un desiderio di non voler andare
via. Credo di avere compreso (oramai da tempo) come lui riesca a creare attorno a sé una sorta di
dimensione creativa, leggera, sognante, quasi magica, permeata da un vago desiderio di gioco, di avventura,
di speranza, che si contrappone alla monotonia incisiva e crudele della realtà con il suo infierire. Nella sua
dimensione si respira l’aria di quello che ha fatto suo nel vivere, assimilandolo con tutti i sensi attraverso la
vita familiare, le varie arti che nella sua esistenza sono ispiratrici e compagne; ma soprattutto tramite i
rapporti che sa creare con personaggi noti e personaggi sconosciuti. Fiera del mio nuovo ruolo di
intervistatrice, inizio a porgli alcune domande nonostante la sua buffa espressione nel vedermi dotata di
blocco e penna

D. Da bravo regista e interprete quale sei, se dovessi dare una parte teatrale scegliendo fra personaggi
famosi, che parte affideresti a tua madre e quale a tuo padre?

R. (dopo una pausa e un affettuoso sorriso) a lei darei la parte di Puck perché è un personaggio scherzoso
allegro che si dà da fare; sbaglia ma rimedia e lei era così oppure le darei la parte di Ariel (non a caso Ariel
spiritello dell'aria, e Puck folletto magico dispettoso). Per mio padre invece diventerebbe più complicato;
lui aveva una duplice natura. Forse gli calzerebbe sia il personaggio di Prospero, nei rari momenti di
equilibrio sia anche quello di Calibano per il suo lato irrazionale, ambiguo, che a volte poteva ingenerare
timore e lo lascerei nel mondo Shakespeariano dove c’è sempre il momento selvaggio e il momento
pacificatore.

D. … fra i tanti personaggi che hai interpretato, a chi ti senti più vicino?

R. Per quanto riguarda me io sono Pinteriano. Il personaggio in cui mi identifico di più è sicuramente
Stanley, l’interprete del “Compleanno” che ho portato per la prima volta in Italia al successo quando pochi
conoscevano Harold Pinter. Stanley mi ha conquistato con quel suo modo di essere un personaggio che
rifiuta di avere un ruolo nella società e vive ancora con un prolungamento di un’adolescenza che forse non
ha vissuto interamente come avrebbe voluto, pieno di ansia, con l’angoscia di cercare un rifugio, con
l’impressione di non sentirsi mai a posto del tutto. Avevo studiato molto per tradurre “Una patatina nello
zucchero” di Alan Bennett che ha trasmesso in uno straordinario monologo, un mondo di significati e
complesse relazioni, con una indiscussa capacità teatrale. Per un attore è un testo che regala la possibilità di
dare vita a tutti i personaggi che di volta in volta vengono evocati e che sollecitano l’interprete a
immedesimarsi divertendosi in una specie di appagante trasformismo. Anche qui il rapporto fra la madre e
un figlio; così mi sono avvicinato al teatro inglese. In ognuno di loro c'è un grande affetto che supera
qualsiasi complicazione con grande ironia e una componente che, chi ha vissuto tali problematiche riesce a
capire profondamente.

D. Ricordi una vacanza in cui voi insieme avete vissuto una vita normale come qualsiasi altra famiglia?
R. Mai. Non ricordo una vacanza di questo tipo; le mie vacanze sono sempre state con mia madre, con il
pensiero verso il lavoro, vissute con creatività, nella mia famiglia eravamo così. Mia madre era creativa e
con lei ogni momento diventava un atto di creazione; la letteratura, la danza, la pittura, la musica …il
mondo nel quale sono cresciuto e dove mi sono sempre sentito un privilegiato. Mia madre Maria Cumani ha
iniziato da ragazza a studiare Freud forse anche perché lei aveva dentro di sé quella curiosità verso i
comportamenti degli uomini, analizzava se stessa e i suoi personaggi, aveva una grande capacità di
introspezione psicologica e cercava sempre di dare il meglio di sé quindi quello che ne seguiva era
inevitabile fosse un insieme di creazioni. Ha lavorato con grandi registi come Cherau, la Wertmuller, i
fratelli Taviani, Roberto Rossellini, Fellini; nel 1986 fu prima danzatrice nell'opera Fedora di Umberto
Giordano, messa in scena da Giancarlo Cobelli al Teatro Filarmonico di Verona. Una ragazza di 78 anni.

D. Ale, cosa credi penserebbe tua madre della situazione politica attuale?

R. Sarebbe sconvolta; lei che ha vissuto il fascismo e che era antifascista capirebbe subito come l'uomo di
oggi non ha imparato nulla. La storia insegna che quando arrivano certe persone al potere, la cultura e il
pensiero vengono annullati.

D. Ale, come ricordi la vostra vita in tre?

R. …un’attesa! Lei sempre in attesa che lui arrivasse e di conseguenza anch’io.A un certo punto ho pensato
che nel teatro avrei potuto realizzarmi così ho partecipato alla selezione per entrare come attore alla scuola
del Piccolo Teatro: eravamo 250 e siamo entrati in 11. All'esame, dato il mio amore per il teatro nordico, ho
portato l'ultima scena degli Spettri di Ibsen; e anche qui è facile intuire come fosse importante per me il
rapporto madre figlio dove l’interprete Osvaldo vive un mondo simile al mio. Vedete, parlo spesso di mia
madre… quasi sempre di lei perché parlare di mio padre diventa una specie di ossessione. Frequentavo la
scuola media a Siracusa e a contatto con la sua gente e i luoghi che lui amava e rievocandoli pur sempre da
lontano, ho sentito il desiderio di approfondire la conoscenza attraverso la sua poesia. Ho iniziato a capire e
ad amare l’uomo -poeta. L'uomo come padre credo che non lo capirò mai.

D. … conosco tante cose della tua vita. Ora vogliamo parlare un po' di Orietta?

R. Con Orietta abbiamo avuto in comune soltanto il padre. Tra me e lei c’erano affinità di pensiero,
intuizione delle cose del mondo. Cercavo anche, inutilmente, di tenere un po' di ordine nella sua vita
infelice; Orietta era affetta da una sindrome fobico ossessiva, dovuta forse all’assenza del padre che la
spingeva a ritrovare in altri questa figura. Era ironica, arguta, spiritosa. A un certo punto ha iniziato a
scrivere favole ispirate a Fedro, al mondo antico, filastrocche che abbiamo inserito nel nostro recital
“Carissima Infanzia”. Quando si è ammalata ho trovato giusto prendermi cura di lei fino alla sua morte.
Pausa lunga. Sorridiamo. E’ ora di andare: ho già superato le 7500 battute.

Milano, 10 febbraio 2019. Miriana Ronchetti

Potrebbero piacerti anche