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Andrea Barbieri

Hamlet/Luther: tragedia del male

Se in Misura per misura, commedia agra del peccato e della grazia, i temi-chiave della Lettera ai
Romani di san Paolo s'incarnano in personaggi come in una moralità medievale, in Amleto agiscono
all'interno delle coscienze assumendo i toni della più cupa tragedia. Sentimenti di colpa, di vendetta,
di pentimento, di pietà corrodono l'animo dei personaggi, rendendoli sospettosi, inquieti e
temporaneamente inabili all'azione. C'è un potente gioco di influenze e suggerimenti: un cauto
studiarsi l'un l'altro, nel generale stallo che prelude al'azione, ma non fa che rinviarla fino alla
catastrofe conclusiva. Amleto è al centro, grande protagonista di una superba orchestrazione tragica;
intorno a lui ruota uno stuolo notevole di comprimari.
Dobbiamo abbandonare un'analisi di tipo convenzionale, che prenda in considerazione la trama e
lo svolgersi dell'intreccio: qui occorre indagare, attraverso indizi disseminati qua e là nel testo,
nell'intimo di ogni individuo. Cominciamo subito da un indizio apparentemente insignificante, che
Shakespeare butta lì con flemma inglese: Amleto è rientrato a Elsinor da Wittenberg, l'università
dove Martin Lutero tenne le sue lezioni di Sacra Scrittura sulla Lettera ai Romani.
È dunque, almeno in potenza, un discepolo di Lutero. Lo possiamo affermare perché non vi è,
nel testo, alcuna indicazione utile a situare l'azione in un tempo determinato. Il castello di Elsinor,
sulle cui mura s'aggira di notte il fantasma del re defunto, non è un luogo della storia, perciò
appartiene ad ogni tempo; mentre sulla città di Wittenberg aleggia in perpetuo un altro spirito
inquieto, quello del riformatore di Sassonia.
Amleto è un giovane ombroso: come potrebbe essere diversamente? L'universo della sua
famiglia è stato appena sconvolto da un delitto su cui incombe la maledizione originaria del primo
fratricidio: è una colpa simile al peccato originale, sovrastata dall'immagine di un Dio giudice e
dallo spirito di un padre che esige riparazione. È nota a lui solo, dunque gli tocca il compito di fare
giustizia: 'Tempi schiodati, i nostri – dice –. E non è una dannata beffa, che proprio io avessi da
nascere per rimetterli in sesto?' (atto I, scena V)1.
Un uomo che si affaccia alla vita è subito travolto dal mistero del male. D'improvviso, tutto ciò
che lo circonda ha il sapore del peccato. Neppure il suo amore per Ofelia regge di fronte alla
generale contaminazione:

AMLETO. Sono anch'io onesto, sufficientemente onesto. Eppure, potrei accusarmi di tali colpe, che
meglio sarebbe stato se mia madre non mi avesse mai messo al mondo. Sono orgoglioso, molto;
ambizioso, vendicativo. E con più colpe ai miei cenni che non abbia pensieri a contenerle, né fantasia a
plasmarle, né tempo per attuarle. Che ci va bulicando, la gente del mio stampo, tra cielo e terra? Qui
siamo un branco di canaglie. Tutti. E tu non farti incantare da nessuno di noi; va', prosegui per la tua
strada: in convento! In convento! (atto III, scena I).

Ecco l'ossessione di san Paolo e di Lutero per il peccato: “Non c'è nessun giusto, nemmeno uno
[…]. Tutti hanno traviato e si son pervertiti; non c'è chi compia il bene”2. Il sentimento del male
risuona nelle parole del soldato Marcello: “C'è del marcio nel regno di Danimarca” (atto I, scena
IV) e in quelle del ciambellano Polonio: “Succede a tutti noi, e spesso spesso, di meritar la corda
quando con aria di compunzione e collo torto ci disponiamo a sbolognare il diavolo per zucchero
filato” (atto III, scena I). Il male reclama giustizia. Lo spirito del padre ucciso impone vendetta: non
può una colpa tanto grave restare impunita. Ma se siamo tutti marci, che senso ha più la vendetta?
Un'altra maledizione incombe su chi uccide Caino:

1 Cito dalla traduzione di Cesare Vico Lodovici per la “Collezione di teatro” Einaudi: William Shakespeare, Amleto,
Torino, Giulio Einaudi editore, 1965.
2 Romani 3, 10-12.
AMLETO. Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l'incarnato sano della determinazione è fatto smorto dal
pallido aspetto del pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale
corso: e dell'azione perdono anche il nome (atto III, scena I).

È il timore di un quid dopo la morte a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare


i nostri mali piuttosto che correre in cerca d'altri mali sconosciuti. La pietà indebolisce e rende
inabili all'azione. Amleto si muove come un topo in trappola (un'immagine che viene spesso
richiamata nel dramma) e oscilla continuamente tra impulsi ad agire e freni inibitori. Splendida la
scena in cui, di nascosto, coglie lo zio da solo; l'occasione per la vendetta è a portata di mano, ma si
trattiene perché lo sente esprimere un sentimento di rimorso:

RE. Oh il mio delitto è fetido: appesta fino al cielo con la sua puzza, e lo sovrasta la secolare maledizione
originaria del primo fratricidio. Pregare non posso, sebbene mi ci spinga un istinto forte come un volere:
ma la mia colpa, più forte del mio volere, lo soffoca. E come colui che è preso tra due faccende, mentre
mi indugio incerto a quale dar prima seguito, trascuro l'una e l'altra. E che? Se questa mano maledetta
fosse ingrommata al doppio di fraterno sangue, non avrà la clemenza del cielo pioggia assai da lavarla
fino al candore della neve? A che serve la misericordia, se non per affrontare, a faccia a faccia, il delitto?
E non è la sostanza della preghiera tutta in questa duplice forma, di trattener dalla caduta, prima, e poi, al
caduto procacciare il perdono? Dunque io guarderò in alto. La mia colpa è consumata. Ma oh! Quale è la
forma di preghiera valida per me?

Ci sembra davvero, qui, di essere al cospetto di san Paolo, diviso fra due opposte volontà, del
peccato e del bene. Ma Claudio non è stato folgorato sulla via di Damasco: sa che la misericordia
divina è capace di perdonare ogni colpa, ma non sa provare un pentimento sincero. Esita, indeciso
fra il rimorso e la durezza del cuore. E Amleto capisce: sarebbe il momento perfetto per colpirlo,
ora che è indifeso; ma ucciderlo quando è così prossimo a pentirsi non è punizione, è un passaporto
per la salvezza:

AMLETO. Un furfante mi uccide il padre. E io, il suo unico figlio, questo furfante lo spedisco in cielo.
Ma è gratifica, premio, non vendetta, questa. Egli colse mio padre brutalmente, gonfio di cibo, coi suoi
peccati tutti in fiore come un maggio. Come sta il suo conto con l'aldilà? Dio solo può saperlo. Però,
secondo la condizione e il modo di pensare di noi mortali, dovrebbe essere un conto piuttosto massiccio.
E questo qui, noi lo vogliamo cogliere nell'atto di purgarsi l'anima dal peccato, pronto e maturo per la
salvezza eterna? Bella vendetta! No. Via, spada! Aspetta un più atroce momento: quando sia gonfio di
vino, o addormentato, o ai suoi giochi incestuosi dentro il letto, o negli scoppi d'ira, o quando, al gioco,
bestemmia, o in qualsiasi altra azione che non abbia sapore di salvazione; lì lo sorprenderemo, mia spada;
e gli daremo lo sgambetto, che tiri calci con le calcagna al cielo, quando l'anima sua sarà nera e dannata
come l'inferno che l'aspetta... (atto III, scena III).

La vendetta ci rende simili a chi ha compiuto il delitto: nessuno sfugge al male. E se non siamo
che zimbelli in balìa della fortuna, a che vale l'agire? Ci abbandoneremo alla sorte, o combatteremo
contro gli eventi avversi?

MACHIAVELLI. Molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo siano in modo governate
dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenza loro non possano correggerle, anzi non vi abbiano
rimedio alcuno; e per questo potrebbero giudicare che non vi fosse da sudare molto nelle cose, ma
lasciarsi governare dalla sorte3.

AMLETO. Essere o non essere; questo è il problema: se sia più nobile all'animo sopportare gli oltraggi, i
sassi, i dardi dell'iniqua fortuna, o prender l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli4.

Peccato, pentimento, salvezza: non sono i temi di Lutero e di san Paolo? Solo una cosa manca, in

3 Il Principe, XXV, 1.
4 Atto III, scena I.
questa tragedia tenebrosa: la fede nella grazia divina. Non ne ha Claudio, come si è visto; non ne ha
neppure Amleto, che sprofonda sempre più nell'abisso del male. Respinge Ofelia, sconvolgendone
la mente innocente; terrorizza la propria madre, nel tentativo inutile di risvegliarne la coscienza;
uccide come un topo il consigliere Polonio, sebbene senza intenzione, e manda a morte senza il
minimo scrupolo gli amici d'un tempo che lo hanno tradito: ormai guasta tutto ciò che tocca. È un
male originario, il suo, che inquina alle radici. Senza la luce della grazia, non ha pensieri che non
siano per la morte, la carne e il Diavolo: come Lutero prima della conversione.
La carne, la morte e il Diavolo sono presenti ovunque, nella tragedia:

ORAZIO. Monsignore, sono venuto ai funerali di vostro padre.


AMLETO. Non burlarti di me, mio compagno di scuola; alle nozze di mia madre, vorrai dire.
ORAZIO. Sono seguite, infatti, quasi subito.
AMLETO. Economia, Orazio, economia! L'arrosto del banchetto funebre servito freddo al banchetto di
nozze (atto I, scena II).

AMLETO. Lo spettro che ho visto, chi può dire che non sia un demonio? Può un demonio, se vuole,
assumere gli aspetti più cari; o mi coglie, qual è, potentissimo, in quest'attimo di debolezza e di
malinconia per menarmi alla mia perdizione (atto II, scena II).

AMLETO. Morire: dormire; nulla più – e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite
miserie, retaggio naturale della carne, è soluzione da accogliere a mani giunte (atto III, scena I).

REGINA. Oh, basta, Amleto! Tu costringi i miei occhi a guardare nel fondo dell'anima mia. E vedo
laggiù macchie nere e così aderenti che vi lasceranno un segno indelebile.
AMLETO. E, intanto, vivere arrosolata in un letto di corruzione tra tanfate di sudaticcio e fetori di lardo
rancido; e con parolette sdolcinate fare all'amore sopra a un mucchio di letame.
REGINA. Oh, basta! Basta! Le tue parole m'entrano per le orecchie come pugnali! Oh, basta, Amleto caro
(atto III, scena IV).

RE. Dunque, Amleto: dov'è Polonio'


AMLETO. A cena.
RE. A cena? Dove?
AMLETO. Non dove mangia ma dov'è mangiato. Una certa comitiva di politici vermi pranza con lui. Il
nostro buon verme è il vero imperatore della dieta. Noi mettiamo all'ingrasso le bestie per ingrassarci, e
noi ci ingrassiamo per i vermi. Un re grasso e un mercante allampanato: sono due portate dello stesso
banchetto. E così finisce (atto IV, scena III).

Di autentico tanfo di morte è poi piena la prima scena dell'ultimo atto, che ha luogo in un
cimitero, dove due becchini stanno scavando la fossa per Ofelia. Davanti alla morte cade ogni
rispetto umano: i due parlano del suicidio senza peli sulla lingua: 'Epperò tanto più marcia vergogna
che ai signori è permesso di impiccarsi e affogarsi, meglio che a qualsivoglia cristiano'; inducono a
comportarsi nello stesso modo, a considerare come siamo tutti un mucchio d'ossa e di polvere
dinanzi al comune destino. Dove sono finiti i cavilli del leguleio? E le pompe dei sovrani? La gloria
del mondo? Ma sopraggiunge il funerale e un prete formalista ammonisce Laerte, fratello della
defunta: solo la volontà del re ha impedito l'applicazione della regola che vuole sepolto il suicida in
terra sconsacrata. Allora il giovane sbotta:

LAERTE. Mettetela nella terra: e dalla carne sua, incontaminata e gentile, spuntino le violette. Ah, prete
cialtrone, io ti dico che questa mia sorellina sarà un angelo ai piedi del Signore quando tu ululerai confitto
giù (atto V, scena I).

C'è come un'eco delle parole di Gesù sulla croce, nel dolore fraterno di Laerte: di Gesù che
perdona al ladrone buono le sue colpe e chiama ipocriti i Farisei; ma il dramma cupo di
Shakespeare non conosce il miracolo della grazia: per i suoi personaggi non c'è alcuna salvezza.
Laerte è accecato dal desiderio di vendetta e, appena riconosce Amleto, gli s'avventa contro. Siamo
all'epilogo: il duello, che dovrebbe solo chiudere i conti fra i due giovani, diviene il suggello amaro
dell'intera vicenda. È un'ecatombe: nemmeno uno dei personaggi si salva. Nel parossismo
dell'azione, tra sotterfugi, tradimenti, scambi di oggetti e di veleni, si consuma il dramma. Non c'è
salvezza per l'uomo senza la grazia divina, non valgono le doti umane, la nobiltà d'animo, la
saggezza, l'astuzia, il coraggio: niente è, nell'uomo, che possa salvarlo dal male. E su tutto cala un
silenzio di morte.

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