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SFIDA ALL'IMPERO

Verso l'Infinito – Episodi II, III e IV

di
Gianluca Ranieri Bandini

Ebook protetto dal Digital Right Management


© 2015 Tutti i diritti riservati all'Autore
All rights reserved
Prima edizione novembre 2015
Questo libro è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, organizzazioni ed eventi sono frutto
dell'immaginazione dell'autore o vengono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con fatti o
persone reali, vive o defunte, è assolutamente casuale.

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche
parziale, non autorizzata.
Indice
SFIDA ALL'IMPERO
Risoluzioni
Sfida all'Impero
L'Ira di Khrun-le
Altri libri dell'Autore
Per conoscere e contattare l'autore
Risoluzioni

Verso l'Infinito – Episodio V

di
Gianluca Ranieri Bandini

Ebook protetto dal Digital Right Management


© 2015 Tutti i diritti riservati all'Autore
All rights reserved
Prima edizione novembre 2015
Uno

“Quante volte ve lo devo ripetere? Non abbiamo mai avuto niente a che fare con i kadaja”,
protestò la Mendez. “Il primo incontro è avvenuto ai margini della nube di Oort. E siamo rimasti
scioccati.”
L'agente che la stava trattenendo, una bionda con dei grandi occhi cerulei, sollevò lo sguardo dal
suo olopad per fissare l'interrogata.
“Che ha da squadrare? Saranno dodici ore che le ripeto le stesse cose.”
“Otto”, la corresse l'agente.
Linda si morse un labbro per trattenere un impeto di ira, poi disse: “Devo andare in bagno.”
“Fra cinque minuti potrà farlo. Le avanzerà il tempo.”
La bionda si rimise a computare sul proprio strumento portatile.
“Che significa?”
“È libera”, rispose con disinvoltura l'agente.
“Davvero?”
“Il suo resoconto coincide con i dati in nostro possesso.”
“Potrò tornare in Florida, a casa?”
“No”, rispose la donna glaciale.
La Mendez diede un calcio alla gamba del tavolo, sbuffando dalle narici come un toro infuriato.
“Linda”, la richiamò l'agente. “Se sulla Terra si venisse a sapere della presenza di uno di voi,
cosa potremmo mai raccontare?”
“È un problema vostro”, rimbeccò mentre rifletteva su come nessuno la chiamasse più capitano o
comandante.
“Sa bene come sia una questione di tutti”, la rimbrottò la bionda. “Eviti di essere egoista.”
“Quindi niente parenti, amici, nessuno.”
“Basterebbe che una persona al di fuori di qui vi riconoscesse per compromettere il precario
equilibrio con i kadaja.”
Al solo nome di quegli esseri Linda sussultò. Stava sviluppando la medesima allergia del signor
Pil. Peccato che egli fosse amico dei traditori.
“I miei manterrebbero la massima riservatezza”, assicurò la Mendez nel disperato tentativo di
guadagnare la Florida.
“Non si tratta soltanto dei vostri genitori o dei parenti più stretti. Troppi volti della Deep e della
Nexus sono ancora impressi nelle memorie di miliardi di persone. Si figuri se qualcuno intravedesse
un Jack Cabot per nulla invecchiato. Sarebbe come incontrare Einstein al parco sotto casa.
Inconcepibile.”
Quei propositi erano tutt'altro che deprecabili, tuttavia era impossibile digerire la cosa.
“Che intenzioni avete? Fatemi capire”, pretese Linda.
“Vivrete confinati in questa struttura.”
“Alla stregua di criminali.”
“Non si tratta di un ergastolo.”
La fai troppo facile, agente governativo del cavolo.
“Per quanto tempo dovrò rimanere?”
“Quanto ne occorrerà.”
Quelle risposte laconiche e spietate non le stavano affatto piacendo, quindi Linda commentò:
“Essere privati di una data, equivale a non avere speranze di uscire. Non appare tanto diverso dal
carcere a vita.”
“Eravamo impreparati al vostro arrivo”, ammise la bionda. “È accaduto tutto nell'ultimo mese. È
normale che serva tempo per gestire la cosa.”
“Non siamo una cosa, ma sessanta anime che reclamano il proprio diritto a vivere.”
“In qualità di comandante è stata costretta a prendere delle decisioni difficili. Può intuire quanto
una questione che abbraccia il futuro dell'umanità sia più importante del destino dei singoli.”
Le parole dell'agente quietarono Linda come un potente tranquillante. Quello esposto era un
principio troppo radicato in lei per poterglisi opporre.
“È giusto così”, riconobbe desolata.
La donna le accennò un sorriso. “Sono lieta che abbia capito. Sarà più semplice per tutti.”
Linda sospirò, quindi chiese: “Ora posso andare in bagno?”
“Certamente. Un mio collega la guiderà nel suo nuovo alloggio.”
Alloggio, si ripeté la Mendez. Era un termine che per la prima volta le conferiva un senso di
claustrofobia. Prima assegnata alla stazione orbitale saturniana, poi alla Nexus per riemergere
sempre in luoghi come la sfera e la luna di Erothe. Da quanto non respirava l'aria autentica di
un'atmosfera planetaria? Non le era stato concesso neanche durante il trasbordo dalla nave al
serbatoio k7, poiché a privarla dell'aria terrestre ci aveva pensato il tunnel sigillante. Si ridestò da
quei pensieri quando udì una serratura scattare. Scrutandosi intorno vide riconfigurarsi i profili di
una porta lungo le pareti lisce della stanza. La bionda la invitò a uscire e in un baleno si ritrovò lungo
un corridoio in compagnia di una robusta guardia con arti cibernetici.
“Mi segua”, intimò la sentinella.
Ottemperò, ma dopo alcuni passi si fermò, attratta da una voce.
“Linda, Linda”, udì.
Si voltò e vide Cabot scortato dalla sicurezza.
“Jack”, pronunciò malinconica. A entrambi sembrò che non si vedessero da anni, che tutte le loro
divergenze fossero tramontate da secoli. Solidarietà di due persone condannate alla medesima
malaugurata sorte. I loro occhi si incrociarono, poi gli strattoni delle rispettive sentinelle li
costrinsero con lo sguardo verso il basso.
“Forza, andiamo”, comandò la guardia cibernetica.
“L'avevo detto che ci avrebbero fregati!”, gridò Cabot.
Linda non ebbe né il tempo né la forza di rispondere. Per un attimo rimpianse i giorni della sfera
e di Hok't, quando per lo meno, tra mille difficoltà, aleggiava un sentimento di speranza che donava
un lontano miraggio di nome casa. Alla fine ce l'aveva anche fatta. Era tornata. Sulla Terra. Ma
invece dell'Eden, l'aveva accolta l'inferno.
Due

I suoi occhi funzionavano bene, eppure la realtà che lo attorniava gli appariva sfumata, come se il
suo cervello fosse inibito a lavorare gli stimoli del mondo esterno. Segregato in una cella rivestita di
un materiale bianco e soffice, sostenevano fosse per la sua sicurezza. Eppure non si era mai sentito
tanto spaventato. O forse sì; in un passato che rammentava a tratti, in uno scorrere di eventi a cui non
riusciva a conferire un'identità. Persino esprimersi in un linguaggio parlato era divenuto un problema.
Non avrebbe saputo dire da quanto andasse avanti quella situazione, come non avrebbe saputo
pronunciare il suo nome se glielo avessero chiesto. Avrebbe voluto uno specchio per cercare di
intuire un'immagine che gli suggerisse la propria età. Le mani coperte da guanti aderenti non sfilabili
e l'intero corpo protetto; intuiva questi concetti, la situazione di prigionia, ma non andava oltre.
Quando si accostava a una soluzione tutto si annebbiava e spariva. Veglia e sonno si mischiavano.
Ignorava se fosse più reale il robot che ogni giorno gli consegnava cibo e acqua o la nave stellare
che lo aveva prelevato e portato su un pianeta alieno. C'era una signorina che sovente lo
accompagnava in un giardino olografico ove consumava piacevoli passeggiate. Gli risultava
impossibile afferrare il significato di olografia, ma quell'abitudine quotidiana lo aggradava. Poi
c’erano gli uomini in bianco. Li detestava. Lo interrogavano e cercavano invano di entrare nella sua
mente. Avrebbe potuto intuire che fossero degli psichiatri, per poi dimenticarsene fra le istantanee di
un mondo chiuso e tremante, di un'astronave informe e dei suoi padroni. Diapositive mentali che
svanivano per giorni per riaffiorare poi nell'immagine di una sala operatoria, con i padroni blu che
maneggiavano strumenti di tortura. Gli introducevano qualcosa nel cranio. Faceva male. Sofferenza e
dolore divenivano preponderanti. L'uomo urlava nella sua cella, piangeva e si disperava; i medici si
precipitavano armati di microinject e lo imbottivano di sedativi. Qualcuno lo aiutava a lavarsi, gli
parlava, ma lui non capiva. Parole che entravano nella testa e morivano in un significato oscuro. Gli
esperti tentavano l'ipnosi e l'utilizzo di farmaci all'avanguardia per ristabilire la sua psiche. Invano.
Il cervello dell'uomo era protetto da una password invalicabile: la voce molesta di un essere blu.
Adesso l'uomo faceva un lungo sonno, profondo come non gli accadeva da tempo. I tasselli della
sua inestricabile esistenza cominciavano a disporsi nel verso giusto. Finalmente si concretizzava un
ricordo, con un inizio, una fine e un perché; una sequela di avvenimenti correlati e logici.
L'uomo si svegliò, di soprassalto, sudato e urlante. Giunsero gli addetti alla sicurezza.
Chiamarono il dottore che afferrò il microinject a mo' di pugnale. Ma non lo usò, si rifiutò; non
poteva. Erano le parole del paziente a impedirglielo e ad obbligarlo ad avvertire i superiori.
“Sono il capitano Fuller, comandante della Galactic. Ricordo tutto. Ho una missione. Fatemi
uscire subito da qui!”, continuava a urlare indemoniato Cassius.

“Può ripetere, per favore?”, la invitò l'agente.


“All'interno del laboratorio biologico, nel buffer EB5, è contenuto del DNA liyano e ooata”,
ribadì Kate Aniston.
“Vuole dire che gli alieni dispongono di un DNA come il nostro?”
“Se intendiamo un polimero organico costituito da monomeri chiamati deossiribonucleotidi, no.
Ma se con DNA vogliamo indicare una doppia catena, antiparallela, orientata, complementare,
spiralizzata e contenente le istruzioni della vita, sì.”
“Non capisco bene la distinzione.”
L'astrobiologa sorrise, sospirò e si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro, quindi
spiegò: “L'informazione genetica di quegli alieni è data da una doppia catena, ma i nucleotidi non
sono costituiti da un gruppo fosfato, da deossiribosio e basi azotate.”
“E da cosa sono formati?”, chiese l'agente come se stesse udendo qualcosa di impossibile.
“Se il governo mi supportasse invece di farmi perdere tempo qui dentro, forse lo scopriremmo.
Ci ho lavorato insieme al dottor Davis, ma è chiaro che necessitiamo dell'assistenza di genetisti, di
chimici e di una strumentazione più idonea.”
L'agente annuì, scorse delle informazioni sull'olopad e in tono collaborativo annunciò: “Faccio
una chiamata.”
Il profilo della porta si materializzò sulla parete e Kate rimase sola. Si augurò che quella
olotelefonata potesse esserle di aiuto. Molto dipendeva da chi avrebbe risposto dall'altro capo
dell'olopad. Fra la gente che avevano messo su quell'apparato governativo, doveva pur esserci
qualcuno lungimirante, si augurò. Poi i suoi pensieri si spostarono su Henry. Chissà come se la stava
cavando con l'interrogatorio. La sua cooperazione era stata fondamentale per appropriarsi del
materiale genetico alieno. In settimane di convivenza su Hok't erano riusciti a recuperare capelli,
frammenti di derma, peli, gocce di saliva e muco. Al momento ignorava quale meraviglia avrebbero
potuto ricavarne. Forse nulla, ma disporre di quel corredo genetico la faceva sentire potente. Le
conferiva la sensazione, reale o illusoria che fosse, di poter violare i segreti degli alieni e renderli
vulnerabili. Infine rifletté sull'ironia di una sorte che la costringeva da troppo tempo in luoghi chiusi
e opprimenti. Doveva essere il pensiero di tutto l'equipaggio, immaginò.
“Dottoressa Aniston.”
Kate sobbalzò. Naufraga tra mille pensieri, non si era accorta del ritorno dell'agente.
“Sì.”
“Mi segua.”
Tre

Kajda era la più grande delle dodici lune del pianeta gigante gassoso Jasmiik. Osservata nella
sua interezza, sulla superficie si distinguevano delle grandi macchie di forma regolare. Megalopoli
cresciute nel corso dei millenni avevano invaso una parte considerevole dei quindici continenti che i
kadaja chiamavano con il nome di grandi isole. Le forze mareali ingenerate dal campo gravitazionale
del gigante gassoso, provocavano una deriva dei continenti rapida e dinamica. La formazione di
grandi territori risultava pertanto impossibile, causando altresì un intenso vulcanismo che la
tecnologia kadaja riusciva a tenere sotto controllo. Gli oceani ricoprivano circa i tre quarti della
superficie. Il clima risultava diffusamente mite e uniforme.
L'isola più imponente dell'emisfero meridionale era sede della capitale nonché il cuore
dell'impero. Al suo centro, alto più di un miglio, si ergeva il Kanth-Vahal, enorme e lucente tetraedro
regolare, dimora e quartier generale dell'imperatore. La base della costruzione conferiva
l'impressione di essere sospesa sull'acqua; oltre settecento canali navigabili caratterizzavano la
capitale, unica megalopoli dalle forme regolari, in netto contrasto con le ridondanze e le asimmetrie
dell'architettura kadaja. Il monito era chiaro: “La capitale e l'imperatore sono l'ordine che regolano
tutto.” Giardini pensili, grattacieli, spazioporti, tunnel polimerici trasparenti per il trasporto ad alta
velocità, grandi navi in atterraggio e navette per il traffico locale sparse ovunque,
contraddistinguevano l'urbanizzazione della capitale. Seppur diversi nelle sagome, i suoi edifici
possedevano un aspetto comune alle altre megalopoli: erano altissimi. Con una media superiore al
mezzo miglio, delineavano la scelta kadaja di sviluppare i centri urbani in altezza; riflesso di una
tradizione millenaria nata dopo uno sviluppo cittadino orizzontale incontrollato che aveva trascinato
il pianeta verso uno sconvolgimento climatico letale. Vennero così stabilite delle aree protette,
inedificabili, chiamate a ragione vart-ne, ovvero polmoni. Aree verdi che consentivano al pianeta di
respirare e filtrare l'anidride carbonica prodotta da miliardi di individui. Il problema era stato
mitigato dall'introduzione dei jrank-ne, colossali accumulatori a forma di granchio rovesciato che
ricevevano energia da generatori fotovoltaici posti su cinque lune prive di atmosfera. Un raggio laser
potentissimo restituiva la stessa verso gli jrank-ne di Kajda.

Il kadaja camminava lungo le strade della capitale. Indossava un abito wrekt-ne, tipica veste nera
provvista di ampio cappuccio portata dai religiosi, l'ultima roccaforte di un ristretto gruppo di
individui ancora capaci di credere in dio in un mondo ateo. Il kadaja avrebbe voluto correre e
raggiungere la destinazione il prima possibile, ma quel modo di fare avrebbe destato sospetti; quindi
rinunciò e procedette con calma. Oltre al cappuccio indossava uno scambiatore di frequenza di
immagini, strumento in grado di mutargli i connotati per mezzo di un trucco olografico. Doveva
assicurarsi di non essere riconosciuto, per la sua incolumità e quella dei fidati. Osservava i numerosi
cocktail bar che fornivano bevande a base di leggeri allucinogeni, principale fonte di svago del
popolo. Per ogni cittadino era consentito il consumo di una bevanda a settimana e soltanto durante il
proprio giorno di riposo. L'imperatore avrebbe preferito una politica più restrittiva, ma l'epoca
dell'inibizione era conclusa. Pretendere una disciplina come quella dei robot si era mostrato un
errore, e il despota non voleva pagare lo scotto dei suoi predecessori costretti a sedare rivolte. La
sua visione di potere assoluto si tramutava nell'idea di restituire, in cambio di efficienza, premi e
gratificazioni. Una scelta che faceva accettare di buon grado che i trasgressori fossero puniti con
ferocia e senza alcuna pietà.
Il kadaja si inoltrò in uno stretto vicolo senza uscita. Privo di negozi e attrazioni, era fra i meno
frequentati della capitale. Un luogo strategico per evitare sguardi indiscreti e nanocamere di
sorveglianza disattivate all'occorrenza. L'essere blu si accucciò a terra ed estrasse da una tasca
interna un cilindro trasparente non più grande del palmo di una sua mano. Posò l'oggetto sul bio-
asfalto del suolo. Il cilindro si illuminò di una tenue luce azzurra. Improvvisamente il terreno che
circondava il kadaja divenne liquido e l'essere sprofondò nella pozza come se fosse caduto in acqua.
Inghiottito nel sottosuolo, il bio-asfalto si ricompose cancellando ogni traccia dell'evento.
Atterrato sulla base di un segreto tunnel sotterraneo, la bolla liquida che lo circondava si sublimò
in pochi istanti e l'essere poté tornare a respirare con gli abiti asciutti. La sua camminata era quella
di un kadaja che conosceva bene l'ambiente in cui si muoveva. Incrociò una lunga serie di gallerie e
cunicoli; ogni volta ne imboccava uno senza il minimo dubbio. Giunto dinanzi a un portello, questo si
aprì consentendogli l'ingresso in un bunker composto da innumerevoli camere atte a pianificare
eventi sovversivi e ospitare oltre cinquanta kadaja grazie all'ausilio di generatori elettrici, viveri,
medicinali, comunicatori warp, armi e sofisticate intelligenze artificiali.
Era il primo a essere arrivato. Lui e i fidati mancavano da più di un anno da quel luogo. Consci
della guardia imperiale sulle loro tracce, avevano congelato progetti e seguito esistenze normali, in
linea con i propri ruoli sociali. Al contrario dei suoi colleghi, il kadaja si era assentato non solo da
quel sito, ma da Kajda stessa. Adesso era rientrato con delle prospettive troppo interessanti per
esimersi da una nuova riunione; la più importante da quando il movimento antimperialista era stato
fondato. In attesa dei fidati pensò alla sua carriera nella flotta e a quanto questo lo sottoponesse a
rischi inimmaginabili. La sua carica era la più preziosa per i fini del movimento. Temeva che lo
avessero o lo stessero per scoprire, però non se ne preoccupava più del dovuto. La missione era a
uno stadio avanzato. Era stato poco facile e del tutto fortuito, ma era riuscito nell'impresa di inserire
le istruzioni nella mente dell'uomo chiamato Cassius Fuller. Lo aveva trovato nella sfera, insieme ad
altri suoi simili, periti durante una resistenza violenta e folle. Per l'operazione dell'innesto nel
cervello dell'umano si era fatto aiutare da suoi riservatissimi fedeli imbarcati sotto il suo comando.
In tutta la galassia non più di cinquanta individui conoscevano il contenuto prezioso celato nel cranio
del terrestre. Le autorità credevano che quell'uomo fosse deceduto insieme ai suoi compagni. Una
delle innumerevoli morti che scandivano la quotidianità dell'impero. Una circostanza irrilevante per
la fortuna di Atkel-le, sceso a falsi compromessi con i liyani. Detestava l'imperatore e il suo operato
più di quanto potessero gli stessi Ni'Awtu e Zrina. Li avrebbe anche risparmiati, ma di fronte ai suoi
aveva dovuto mantenere il punto e fare quello che qualunque generale avrebbe fatto: annientare il
nemico. Una mossa intrapresa soltanto dopo aver riportato Fuller sul suo mondo. Se la missione
fosse andata a buon fine, meditò Atkel-le, tutti i nemici dell'impero ne avrebbero tratto dei vantaggi.
Spesso si chiedeva se oltre a tradire l'uniforme, non fosse anche un traditore dei suoi fratelli. Andare
contro i saldi principi della cultura kadaja gli provocava il dubbio di essere un folle, vittima di una
malattia mentale che neanche l'evoluta genetica aveva potuto prevenire. Dilemmi causati
dall'educazione accademica e da due genitori conservatori e imperialisti convinti. Lui però, al
contrario di loro, aveva viaggiato per innumerevoli sistemi stellari e saggiato dottrine differenti,
dove l'uguaglianza e la libertà scandivano i ritmi dell'esistenza. E se anche molte delle specie
conosciute denotavano corruzione e avidità, nessuna di esse si avvicinava all'efferatezza kadaja.
Qualunque civiltà necessitava di una guida istituzionale, considerava il generale, che si trattasse di
una repubblica o di una monarchia; un'inevitabile conseguenza dell'interazione fra menti complesse,
una norma galattica. E l'indole kadaja era la più idonea per imporsi, conquistare e comandare. Atkel-
le era in ogni caso convinto che il dominio si potesse svolgere in altre forme e che la crudeltà
immotivata dell'imperatore fosse il male per tutto e tutti.
Quattro

Davis aveva riferito ogni particolare di quello che ricordava. Dal suo punto di vista non vi erano
ragioni per mentire. Tuttavia lo sconforto subentrò quando capì che non avrebbe rivisto o saputo
della sua famiglia per lungo tempo. Delusione che si sommò alla frustrazione di non poter ottenere
l'ubicazione del luogo in cui era rinchiuso. Una questione di sicurezza nazionale. Mitomani
paranoici, pensò. Gli unici dettagli che tenne per sé furono quelli relativi a Kate. Avrebbe potuto
continuare a frequentarla? Un interrogativo che evitò di esternare. Il timore di una risposta negativa
era maggiore di qualsiasi paura potesse produrre la sua immaginazione. Si stupì quando, dopo un
paio di notti passate rinchiuso in un mini-appartamento sotterraneo, venne avvisato di prepararsi per
uscire e raggiungere un laboratorio di alta ingegneria genetica. Lo misero dentro un velivolo privo di
finestrini e decollarono da un hangar scavato nel sottosuolo. In quel modo non avrebbe intuito alcun
percorso, nessun luogo geografico per carpire le possibili collocazioni. In quale parte del mondo lo
stavano trasportando? Nemmeno ci provò a chiederlo.
Viaggiò solo o, meglio, con un assistente di volo robotico. Esattamente il tipo di compagnia che
detestava. Piuttosto avrebbe optato per un kadaja. La cabina passeggeri offriva degli intrattenimenti
olografici all'avanguardia. Henry riconobbe gli elementi che gli avrebbero permesso di tuffarsi nella
realtà virtuale per cui i ragazzini di tutto il mondo impazzivano. Tormentato da altri pensieri scartò
quella possibilità e si avviò nella perlustrazione della cabina. Senza troppa fatica fu in grado di
accedere al frigobar e a un dispositivo elettronico installato sulla fusoliera, di cui ignorava le
funzioni. Incuriosito, cercò di interfacciarsi con esso fin quando accadde qualcosa che non aveva mai
visto: l'interno della fusoliera assunse l'aspetto di un paesaggio naturalistico. Il pavimento sembrava
terra, il soffitto un cielo terso e tutto intorno una foresta rigogliosa. Udì persino i suoni di molti
animali, di cui alcuni purtroppo estinti. Presa confidenza con l'interfaccia olografica, cambiò
configurazione più volte, sino ad ottenere la costa di un'isola tropicale. Il suono delle onde del mare
gli donarono un'ora di sonno profondo che il suo corpo reclamava da tempo.
Fu il robot a svegliarlo. Rimessa a fuoco la realtà, il portello del velivolo si aprì permettendo
l'accesso a due agenti del tutto simili a quelli della precedente struttura governativa segreta. Lo
afferrarono malamente e lo condussero fuori.
“Fate piano”, protestò, ma i due ignorarono le sue lamentele.
Anche adesso si trovava in un hangar sotterraneo. Attorno vi era almeno una decina di velivoli
identici e un via vai di agenti, droidi, robot manutentori e persone non bene identificate. Lo
scortarono diritto in un ascensore. Una volta dentro lo attivarono, e la sensazione di spinta verso
l'alto risultò violenta. La sensazione era quella di precipitare. Si fermarono relativamente presto e
sbucarono in una sala in fermento. Il traffico di scienziati in camice bianco e di servo-robot era
impressionante, ma la vera sorpresa si rivelò nel quinto ambiente in cui entrarono: parti di corpo
umano galleggiavano in quelli che sembravano acquari. Davis conosceva le celle di riproduzione
organica gestita, ma vederle era un'altra cosa. Ammirò polmoni e cuori pulsanti. Erano decisamente
vivi e perfettamente funzionanti. Intuì anche la presenza di uteri artificiali esterni. Fissandone uno gli
parve di riconoscere il muso di un animale estinto. Una tigre. Dunque lì dentro non erano dediti
solamente allo studio dell'uomo, ma alla conservazione e allo sviluppo della vita nel suo complesso.
Pensò che molte di quelle persone che aveva incrociato lungo il percorso si divertissero a fare dio.
Alcune di esse avevano protesi cibernetiche. Ciò lo disgustava. Inventate per sopperire a
menomazioni e malfunzionamenti del corpo umano, erano finite per essere lo spettacolo indecoroso
di esibizionisti che si beavano ad apparire come dei robot. Queste erano le sue convinzioni e nessuno
le avrebbe mai cambiate.
La più grande meraviglia accadde nel momento in cui intravide il suo sguardo. Fu un'esplosione
di gioia, da svenirne. Gli occhi verde-oro, la cascata di capelli amaranto e il sorriso più bello
dell'universo.
“Kate”, pronunciò incredulo.
“Henry”, rispose la donna che gli corse incontro e lo abbracciò.
“Temevo che non ti avrei più rivista”, confessò lui.
“Ora siamo di nuovo insieme”, lo rassicurò lei.
Dei colpi di tosse li richiamarono.
“Salve, dottor Davis”, lo salutò una donna con i capelli canuti. Aveva un'aria importante. Si
capiva che era il capo o qualcosa del genere.
“Dove siamo?”, volle sapere Davis.
“Non mi capacito di come siate fissati tutti con il dove e non con la questione più importante”,
rimbeccò la donna.
Henry, perspicace, riformulò la domanda: “Perché siamo qui?”
“Dottoressa Aniston...”, la invitò a parlare la donna canuta.
“Ho raccontato del DNA e della tua cooperazione per reperirlo e conservarlo”, raccontò
l'astrobiologa entusiasta. “Questo è il luogo più idoneo per studiarlo. Ho fatto intendere che avresti
potuto darci una mano.”
Un motivo in più per amarti. Sei straordinaria.
“Grazie, Kate.”
Avendo fiutato la relazione fra i due, il capo con cipiglio lo redarguì: “Dottor Davis, mi auguro
che lei sia indispensabile come sostiene la qui presente Kate Aniston. Se così non fosse, verrà
rimandato da dove viene.”
Il giorno che mi accoglieranno da qualche parte a braccia aperte darò una festa, ponderò
Henry.
“Risulterò utilissimo”, rispose Davis con sicurezza.
“Seguitemi”, li esortò la donna con il tono di chi stava subendo la situazione suo malgrado.
Attraversati altri due ambienti, discesero lungo una rampa. Alla fine di essa vi era una porta
blindata con diciture di massima sicurezza e avvertenze di contaminazione biologica.
“Qui è dove studieremo il DNA alieno”, annunciò Kate gongolante.
“Varcata la porta ci sottoporremo a un processo di sterilizzazione, poi indosseremo tute
anticontaminazione”, illustrò severa la donna.
“Siamo stati a contatto con gli alieni per molto tempo. Non credo sia pericoloso quel materiale
genetico”, valutò Henry istintivamente.
“Non temiamo ciò che avete reperito, ma quello che potremmo creare noi”, mise in chiaro il
capo.
“Vi dilettate a interpretare Victor Frankenstein?”, polemizzò Davis, fanatico della bioetica.
“Se vuole posso subito rispedirla da dove viene”, ribatté la donna perentoria.
“Henry!”, gridò Kate a mo' di rimprovero.
Il medico comprese quanto fosse il caso di darsi una calmata.
“Scusate.”
Il capo lo scrutò come un oloscan, poi disse: “Qui ci sono le migliori menti dell'umanità. Non
siamo degli sprovveduti. Prima capiremo la composizione e il funzionamento del materiale genetico
alieno, poi ci concentreremo sulle applicazioni.”
“Avete già delle idee?”
“Qui siamo stati in grado di dare alla luce oltre mille creature di specie animali differenti, molte
delle quali considerate estinte. Forse riusciremo a clonare un oaata o un liyano.”
Davis impallidì. “Mio dio, per farci cosa?”
“Era solo un esempio di ciò che siamo capaci. Potremmo anche creare un'arma biologica per
annientarli o chissà.”
“Da quello che so credo che non li rivedremo mai più”, considerò il medico.
“Non mettiamo limiti alla provvidenza”, replicò la donna con una certa eccitazione.
Dopo l'ultima asserzione Henry si convinse di essere finito in un covo di scienziati pazzi.
Incrociò lo sguardo di Kate e scelse di tacere. Pur di non perdere l'occasione di restare con la sua
amata, avrebbe accettato di creare mostri.
Forse.
Cinque

Per mezzo di nano-tomografi sondarono le interazioni di miliardi di neuroni, esaminarono tessuto


e interpretarono una fra le strutture più complesse dell'universo: la mente di un essere senziente. Ne
tracciarono le onde cerebrali da 0,1 a 42 hertz, passando dalle Delta presenti nel sonno profondo,
alle Gamma tipiche degli stati di alta tensione. Riscontrarono delle anomalie; incongruenze di cui non
si riuscì a osservarne la causa. Gli umani erano inibiti a farlo. La tecnologia innestata nell'encefalo di
Fuller era troppo evoluta per essere scovata. Il microbio-sintetizzatore kadaja si era fuso con il
cervello dell'ospite nella forma di neuroni sintetici indistinguibili da quelli naturali. La nuova
conformazione era in grado di sviluppare una sub-rete neurale atta a riprogrammare specifiche aree
cerebrali.
L'uomo aveva finito gli esami ed era cosciente, seduto su una sedia. Aveva qualcosa da
raccontare. Ne ignorava il contenuto, ma ne intuiva il peso. Decine di migliaia di parole e di numeri
che premevano per essere liberati.
“Presto!”, urlò Cassius. “Occorrono fisici delle particelle, ingegneri militari e aerospaziali.”
“Perché?”, gli chiese chi lo aveva in custodia.
“Perché io so tutto.”

“Non è pazzo”, affermò il capo dell'equipe medica all'ammiraglio Campbell. “È come se la sua
mente fosse controllata dall'esterno. Un fatto da non credere.”
“Davvero?”, domandò l'ammiraglio fingendosi sorpreso.
“Non abbiamo riscontrato la presenza di corpi estranei”, spiegò il medico. “Peraltro è
impossibile che nel sottosuolo si concretizzi un controllo neurale satellitare.”
“La ringrazio per le analisi effettuate. Consegni pure i referti alla mia squadra. Da questo
momento il capitano Fuller è sotto la nostra tutela.”
“Certamente, ammiraglio.”
Campbell sapeva come la tecnologia in questione non avesse niente a che fare con i rozzi
strumenti di controllo mentale terrestri. Quell'equipe medica lavorava in una base militare segreta e
conduceva operazioni classificate top secret da anni. Nonostante ciò gli era negato conoscere alcune
verità. Soltanto l'ammiraglio e al massimo altri dieci uomini potevano asserire di sapere ogni singolo
dettaglio di quell'operazione. Era stato Campbell in persona a ricevere Atkel-le durante lo sbarco
kadaja sulla Terra. La discrezione dell'essere lo aveva sorpreso più della rivelazione dell'esistenza
di una civiltà extraterrestre tanto progredita e potente. L'alieno e i suoi fedeli, dopo la riconsegna di
Fuller, avevano stretto un patto con la squadra dell'ammiraglio. Due piccoli gruppi di individui si
stavano caricando sulle spalle il futuro della galassia.
Adesso Campbell avrebbe condotto Cassius verso il dipartimento di ricerca e sviluppo prototipi
applicati alla esocienza, disciplina nata dopo l'avvento dei kadaja e dedita allo studio delle
tecnologie aliene.
“Voi mi ascolterete, non è vero?”, domandò Fuller nella speranza di liberarsi della matassa di
pensieri che gli ostruiva la mente.
“Siamo qui per questo”, garantì l'ammiraglio.
Preso l'uomo in consegna, la squadra si mosse rapida e guardinga. Per tutto il tragitto Fuller
rimase mansueto come un cagnolino. Inoltratosi nel settore dei sistemi di supporto vitale, tre militari
si occuparono di interdire l'area delle vasche di riciclo dell'acqua. Districandosi fra una rete di
tubazioni, Campbell poggiò il palmo della mano su una parete. La spostò tre volte sin quando sul
muro non si formò il contorno delle sue dita. Il muro, apparentemente uniforme, si aprì in due
consentendo l'accesso a una delle dodici gallerie segrete che collegavano i vari dipartimenti della
New Test Site: situata nel sottosuolo del Nevada e inizialmente nata come appendice dell'Area 51, la
struttura aveva finito per evolversi nella più intricata base militare di tutto il Nord America.
La squadra si immerse nella galleria e l'ammiraglio sorrise. Disporre di siti e tecnologie che
miliardi di persone potevano sognare soltanto all'olocinema, era la peculiarità che più amava del suo
lavoro; e al diavolo se avesse dovuto affrontare una guerra galattica. Neppure il presidente degli
Stati Uniti o dell'America del Nord riunita aveva la libertà di accesso di cui disponeva. Scosse il
capo nel meditare su quella porcata dei venti stati che da Panama alla Gronelandia si erano fusi
un'unica economia. La maggior parte dell'opinione pubblica non aveva capito il senso e riteneva che
gli Stati Uniti ci avessero rimesso una barca di crediti. A pochi passi dalla meta, Campbell si augurò
vivamente che Fuller illuminasse i suoi scienziati su come sbaragliare l'impero. Due miglia più a est,
nel dipartimento di ingegneria genetica, la dottoressa Aniston stava indagando il DNA alieno.
L'ammiraglio ne era stato appena informato. Sorrise ancora nel ponderare su come quasi nessuno lì
dentro conoscesse l'esistenza di entrambi i dipartimenti. Era una questione di potere e niente lo
faceva stare meglio; nonostante ciò possedeva una propria morale alla quale non sarebbe venuto
meno neppure se gli avessero offerto il dominio dell'universo.

Sdraiato su un lettino ricolmo di sensori, Fuller era attorniato da una folla di medici, ingegneri,
matematici e fisici pronti a elaborare e registrare qualsivoglia parola proferisse. Attesero quasi un
giorno intero prima che Cassius piombasse in uno strato di trance e iniziasse a discorrere su
questioni tecniche e scientifiche. Parlò ininterrottamente per quattro ore, tanto da destare la
preoccupazione dei dottori che ne monitoravano lo stato di salute. All'alba della quinta ora, l'uomo si
bloccò e, confuso, chiese: “Dove mi trovo? Cosa sta succedendo?” Non rammentava nulla di quanto
era accaduto da quando aveva terminato la nano-tomografia. Gli riferirono che era tutto sotto
controllo e che da eroe li stava aiutando a liberare l'umanità. Poi si adoperarono per idratarlo,
nutrirlo e farlo riposare.
“Cosa vi ho detto?”, domandò alla folla di luminari che lo osservava sbigottita.
“Io non lo so”, confessò uno studioso che, facendo spallucce, si rivolse ai colleghi: “Voi avete
compreso?”
“Una tecnologia che forse intenderemo fra centomila anni”, rispose un fisico.
“Da quello che ho intuito non si tratta di capire, ma di eseguire un progetto senza porci troppe
domande”, ragionò un altro.
“È difficile mettere le mani su ciò che s'ignora”, affermò uno degli ingegneri.
Dalle retrovie sbucò l'ammiraglio che, autoritario, dichiarò: “Se fosse stato facile non vi
avremmo interpellati.”
“Se si trattasse di un cavallo troia?”, espose uno dei presenti, colto da dubbio.
“I kadaja potrebbero annichilire il genere umano schiacciando un olotasto. Forse anche meno”,
rispose Campbell. “Avrebbe poco senso obbligarci a ultimare un piano tanto elaborato.”
“Forse ho afferrato”, intervenne una donna minuta in fondo alla stanza. “Ma i dati sono
incompleti. Occorrerebbero schemi dettagliati. Soltanto con questa caterva di numeri e parole,
servirebbe una bella fantasia per realizzare qualcosa.”
“Sono nella mia testa”, assicurò a gran voce Fuller. “So che vi devo dire dell'altro, molto altro.
Ignoro cosa, ma lo so.”
Sei

I volatili unicorno di Zarth volteggiavano testimoni di uno spettacolare tramonto nel lago di
Krantaar. Le acque ametista del lago si fondevano con l'orizzonte di un cielo cremisi. Circondato da
una fitta foresta color ambra, al centro di esso si ergeva la sede della Grande Alleanza. Il blu acciaio
dell'imponente costruzione monolitica luccicava ricoperto da sottilissima polvere argentea.
Quello che sarebbe passato alla storia come il Processo del Consiglio, era in attesa di un primo
verdetto da parte della Commissione. Accusa e difesa si erano date battaglia per ore, ma mentre la
prima era stata sostenuta da una miriade di elementi probatori, la seconda si era dovuta districare
menzionando antiche sentenze e decine di articoli di legge alla ricerca di un cavillo giudiziario che li
tirasse fuori dalla melma.
Pil, che era stato fra i testimoni principali, appena vide entrare in aula i giudici, scattò in piedi.
Si trattava di un evento di risonanza galattica. Trenta miliardi di individui collegati dai sette pianeti
riuniti vi avrebbero assistito via olo-warp. Appena i ventuno membri della commissione presero
posto, calò il silenzio. Pil avrebbe scommesso qualunque cifra circa l'esito della sentenza. I tre
membri oaata sarebbero stati spietati dato l'imbarazzo subito per colpa del Consiglio erothiano.
Anche il giudizio degli zartha, inflessibili fanatici dell'integrità morale, risultava scontato. A quel
punto, dati i fatti e la fermezza dei primi sei colleghi, per i restanti quindici membri della
commissione sarebbe stato difficile esprimersi a favore degli imputati.
Appena i giudici entrarono per esporre il verdetto, in aula calò un silenzio tombale. Il presidente
del tribunale afferrò il foglio di guanjai1 su cui era stata vergata la sentenza e iniziò a leggere: “In
nome dei popoli dei sette pianeti riuniti, con il potere conferitomi dalla legge, la corte di Krantaar,
visti gli articoli 371, 379, 481 e 492 del codice di Ja'raal, dichiara colpevole il Consiglio di Erothe
di cui agli articoli 499, 501, 507, aggravati delle norme 7 e 11 della Carta dell'Alleanza, condanna
Zik, nella persona di Dominatore, alla pena di morte; altresì condanna i consiglieri...”
Pil si crogiolò nell'udire i nomi dell'intero consiglio. La giustizia stava facendo il suo corso.
“Viste le attenuanti degli articoli 421, 422 e 466, la corte commuta la pena in anni zarthiani2 325
di reclusione.”
Pronunciata la pena, si sollevò un vero putiferio. Da una parte le grida di chi accusava la
commissione di complotto e golpe, dall'altra chi si indignava che una condanna per alto tradimento
non si concretizzasse in una esecuzione capitale.
Pil, scortato da una guardia dell'alleanza, uscì dall'aula alla ricerca di uno spazio aperto dove
godersi il risultato. Si guardò intorno alla ricerca di una piccola terrazza che aveva intravisto al
mattino durante il suo arrivo. Non trovandola ne chiese l'ubicazione all'agente di scorta che, senza
problemi, gli indicò la direzione. Conquistato lo spazio esterno, si concentrò sul firmamento e se ne
estasiò. Il cielo di Zarth era fra i suoi preferiti. Le orbite ristrette dei cinque pianeti rocciosi
regalavano lo spettacolo unico di quattro mondi che sfrecciavano lungo una volta porpora.
Apparivano grandi come lune e facevano brillare l'orizzonte di colori differenti, a seconda
dell'inclinazione della luce stellare che rimbalzava su superfici planetarie molto diverse fra loro.
Chiarori che potevano variare dal giallo al blu, dal rosso al bianco.
In un sistema di corpi celesti in rotazione sincrona, in cui ogni pianeta rivolgeva sempre la stessa
faccia verso il proprio sole, era un miracolo che Zarth ne avesse una asincrona. Gli scienziati
avevano ipotizzato che nelle prime fasi di formazione il pianeta fosse stato più esterno all'attuale
posizione. In milioni di anni, complessi meccanismi gravitazionali avevano trascinato Zarth verso la
nana rossa, dandogli il tempo di accumulare acqua e formare una spessa atmosfera.
“Appagato?”, chiese una voce alle sue spalle per mezzo di un traduttore portatile.
“Salve, colonnello.”
“Salve, egregio Pil.”
“A esser onesti mi aspettavo almeno quattrocentocinquant’anni di pena, ma anche con
trecentoventicinque posso ritenermi soddisfatto.”
“La sentenza non è definitiva”, gli fece notare Mejhaar.
“Non credo che in appello avranno uno sconto, anzi.”
“È quello che ci auguriamo.”
“Già.”
“Come reagiranno su Erothe?”
“Noi oaata abbiamo sempre gradito le cadute dei governi. Ogni volta auspichiamo che arrivi un
Consiglio che abbassi le tasse.”
Il colonnello sorrise; trovava divertente il pallino degli oaata per il denaro.
“Come vanno i commerci?”
“Non sono più quelli di un tempo”, recriminò Pil. “I kadaja ostacolano tutti, si appropriano e
danneggiano qualsiasi cosa tocchino.”
“Compresa la Terra.”
“Sfortunati quegli umani”, constatò l'oaata in una nota amara.
“Che gente è?”
Pil divenne riflessivo, poi rispose: “Esseri fragili, sovente incoerenti, anche se alcuni di loro
sono sfrontati e sicuri. È poco facile inquadrarli. Enigmatici è il termine appropriato per definirli.”
“Il Consiglio di Erothe gli ha lanciato un brutto scherzo”, osservò lo zartha.
“Sì, lo devo ammettere.”
Il colonnello carpì in Pil un senso di tristezza.
“Sa che la Grande Alleanza non intende rimediare?”
“Perché dovrebbe?”, esclamò l'oaata. “Mi spiace per i terrestri, ma sono l'ultimo dei nostri
problemi.”
“Si dice che i kadaja siano in possesso di una nuova arma”, riferì Mejhaar, sempre il più
informato tra gli zartha. “Qualcosa che rivoluzionerà profondamente la galassia.”
“Sono millenni che si paventa un simile spauracchio”, commentò Pil trattando la faccenda come
l'ennesima notizia falsa.
“Lei non ci crede?”
“Sono altri che si devono preoccupare di questo. Voglio fidarmi del loro operato.”
“Nella speranza che facciano un ottimo lavoro come lei.”
L'oaata valutò quel commento, poi disse: “Sono passato da fesso per monitorare e incastrare un
consiglio corrotto che abusava da tempo della propria autorità.”
“Le è dispiaciuto calarsi in quel ruolo?”
“La missione è riuscita. Il resto è superfluo.”
“Per lei si prospetta una carriera interessante.”
“Lo spero, colonnello”, rispose Pil, non potendo fare a meno di sognare lauti compensi.
“Per i liyani non sarà un bel periodo su Erothe”, rifletté a voce lo zartha.
“Quando mai ce lo hanno avuto?”
“Ai tempi d'oro di Liy'n.”
“Epoche morte e sepolte.”
Mejhaar si avvicinò alla balaustra, volgendo lo sguardo verso l'orizzonte. Entro breve sarebbe
sorto un pianeta. Attese qualche istante ma non scorse nulla, quindi si girò verso Pil e con slancio
propose: “Posso offrirle una birra al luppolo di Krantaar?”
“Ma sì, bisogna pur festeggiare.”
Sette

“Funzionerà?”, domandò perplesso uno dei fidati.


“Possiamo dare credito ai terrestri?”, chiese un altro.
“Il piano ha delle discrete possibilità di riuscita”, rispose Atkel-le che non era preoccupato circa
le riserve dei compagni; in fondo erano gli stessi dubbi che gli stavano arrovellando la mente. Lo
scetticismo si stava manifestando nella reticenza inquietante dei presenti. Durante le riunioni spesso
si sovrapponevano più voci, mentre adesso si poteva udire il tenue ronzio dei generatori elettrici.
“È l'unico sistema da cui in questo momento è possibile far decollare il disgregatore spazio-
temporale”, spiegò ad alta voce il generale nella speranza di alimentare fiducia.
“Cosa possiede di tanto speciale?”, domandò il ministro Egek-le, uno dei fidati più importanti.
“Mi sovvengono almeno una dozzina di siti da cui lanciare l'arma in relativa sicurezza.”
“Il problema è insito nella vostra considerazione”, rispose di getto Atkel-le. “Le altre località
hanno un'affidabilità relativa. Voglio trasformare tale aggettivo in assoluta.”
“Tutti i sistemi stellari asserviti sono sotto stretta sorveglianza. La radiazione tachionica dei
propulsori verrebbe rivelata istantaneamente”, obiettò il ministro.
“Tutto vero, ma c'è un particolare che fa la differenza”, intervenne uno degli astanti che, in un
ghigno di soddisfazione, rivelò: “Atkel-le è il diretto responsabile della vigilanza del sistema
terrestre.”
“Ho dei kadaja fidati che ricoprono i ruoli chiave”, confermò il generale. “Quando il
disgregatore sarà lanciato, i sensori non riveleranno nulla. In seguito riemergerà dall'iperspazio così
vicino all'obiettivo, che nessuno potrà farci niente.”
“E lei, generale, è convinto che quella specie sottosviluppata sia capace di costruire l'arma?”, lo
incalzò Egek-le palesandosi incerto.
“Hanno delle ottime possibilità. Inoltre non li considererei dei primitivi. Dispongono di motori
ipergravitazionali.”
“Riescono a compiere i nostri balzi?”
“I loro salti sono limitati a pochi quur-na3. Necessitano di lunghi periodi di ricarica energetica e
l'usura delle loro navi è imbarazzante, ma sono in grado di farlo.”
“Notevole.”
Nel gruppo apparve per la prima volta un segnale di speranza.
“Ho saputo che i neuroni artificiali si sono integrati alla perfezione con la mente dell'essere
umano”, comunicò uno dei fidati.
“Quando operiamo con il cervello di una nuova razza”, prese a spiegare Atkel-le, “è difficile che
le operazioni riescano bene, ma questa volta è andato tutto per il meglio. La struttura dei loro encefali
è simile a quella degli zartha, di cui sappiamo tanto.”
“Le cose procedono a meraviglia. Dovrà pur esserci qualche ostacolo da superare?”, azzardò il
ministro.
“Inviare ai terrestri le coordinate da inserire nel disgregatore. Ancora ignoriamo il settore
preciso da colpire.”
“Un segnale warp criptato non è sufficiente?”
“I miei kadaja possono celare segnali in arrivo dal sistema Terra-luna. Neutralizzare
l'archiviazione dei dati di una comunicazione warp verso di essa, è altra questione. La criptica
preserverebbe il contenuto, senza però escludere che venga intercettata. Per l'impero non credo ci sia
qualcosa di più allarmante di una comunicazione criptata inviata dalle loro navi verso l'ultimo dei
territori assoggettati.”
Più di un volto si mostrò meditativo, poi fu lo stesso Atkel-le ad avere un'illuminazione: “Avrei
la soluzione.”
“Ce la illustri”, lo invitò il ministro.
“Qual è la sola onda che nessuna tecnologia può individuare?”
La soluzione all'interrogativo non fu subito chiara, ma appena uno dei presenti capì, strillò:
“Vorrà mica utilizzarne uno?”
“Perché no?”
“È rischiosissimo.”
“Ormai siamo in ballo”, affermò il generale risoluto.
Il resto della cerchia appariva disorientata.
“Se ci faceste capire”, lamentò il ministro.
“Si parla di usare uno psicotrico”, rivelò Atkel-le.
“Bisognerà prelevarlo”, disse un fidato come se fosse il fatto più complicato dell'universo.
“Questo mi preoccupa”, riconobbe Egek-le.
“Signori”, s’intromise uno dei presenti alzando la mano,“credo di avere la soluzione.”
Otto

Restare nella sfera non è stato il mio tentativo di salvaguardare l'umanità, bensì l'espressione
della mia paura verso l'ignoto, il timore di scoprire luoghi ed esseri che mi avrebbero fatto
rimpiangere il globo alieno. Ironia della sorte, sono poi finito nella braccia di un incubo fatto di
extraterrestri blu, impianti mnemonici e confinamenti. Una serie di umiliazioni che tuttavia è
servita a farmi divenire lo strumento risolutivo. Il fato è stato più magnanimo di quanto pensassi.

“Non è la robaccia liyana”, affermò Agraj.


“Poco tecnico, ma rende bene l'idea”, commentò Luca.
Il disorientamento degli scienziati a sua disposizione aveva convinto Campbell a introdurre nel
progetto l'ingegner Charan, l'ex ufficiale Russo, l'abile Angela Horn e l'istituzione vivente di nome
Richard Belfort.
Nel rivedere Cassius si erano letteralmente commossi, poi il lato umano aveva lasciato spazio a
quello più tecnico. In due settimane Fuller aveva parlato e disegnato schemi a una velocità folle e
con la bava alla bocca. Oltre cento ore di registrazioni da cui si evincevano schemi di lancio,
applicazioni rivoluzionarie di particelle virtuali e una matematica applicata alla gravità quantistica
da far impallidire una medaglia Fields.
“Non sembra anche a voi?”, domandò Luca Russo.
“Cosa?”, replicò Charan.
“Una Teoria-M4 più evoluta.”
“È come se fosse indicato un meccanismo per cambiare il moto vibratorio delle stringhe5”,
denotò Belfort.
“Qual è il loro fine?”, si chiese la Horn.
“Manipolare le extra-dimensioni? Chi lo sa? Del resto anche noi facciamo qualcosa di simile con
l'ipergravità”, ragionò Russo.
“Chi domina le strutture basilari dell'universo è dio”, asserì Charan.
“Avere dei riscontri pratici per una teoria non equivale a dominare l'universo”, osservò il
professore.
“Vi rendete conto? Interferire direttamente con delle stringhe, ma è impossibile”, sostenne la
donna.
“Anche l'iperspazio a inizio secolo era ritenuto un concetto fantascientifico, eppure guardiamo il
professor Belfort cosa è stato capace di sviluppare in seguito alla seconda rivoluzione della
supergravità”, evidenziò Agraj.
“Ho assistito alla distruzione della nave liyana”, riferì Russo. “Il tessuto spazio-tempo che la
circondava si è distorto. Credo sia stato l'effetto delle equazioni che abbiamo davanti.”
“Ma perché quest'arma non se la costruiscono da soli?”, continuò Angela con i propri dilemmi.
“È molto più di un'arma”, si sentì di affermare Charan.
Russo si unì al pensiero della Horn: “Qualunque cosa sia, perché sfruttare noi?”
“Chiedetelo all'ammiraglio Campbell”, rispose Belfort.
“Non ci penso affatto”, asserì Luca.
“Donaldson, mi sembri un po’ assente”, lo richiamò Agraj. Il collega era soprannominato il genio
dei modelli matematici-informatici.
“È l'architettura più elegante che abbia mai visto”, sussurrò Donaldson.
“Che sezione stai osservando?”
“L'intelligenza artificiale che guiderà la... sonda?”
“Per ora sembrerebbe esserlo.”
“È complessa quanto la mente di un essere umano, soltanto che è volta al calcolo puro. Un
potenziale incredibile.”
“Non la valuto superiore alla nostra informatica quantistica”, azzardò Russo.
“Come no?”, contestò Donaldson. “Hai già visto questo modello?”
L'ex ufficiale scientifico si concentrò sugli schemi di alcune reti neurali; quando capì rimase a
bocca aperta.
“Tessuti nervosi che si muoveranno all'interno della sonda stessa. Non installeremo un impianto
elettrico ma un vero e proprio sistema nervoso”, illustrò il matematico.
“Inquietante.”
“Non è niente rispetto a questo”, disse Charan.
“Di che si tratta?”
“Alimentazione dei propulsori”, delucidò l'ingegnere eccitato.
“Non capisco quelle equazioni”, ammise Angela.
“Professor Belfort...”, lo invocò Donaldson per invitarlo a illustrare la situazione.
Il pluripremio nobel non se lo fece ripetere due volte.
“Metrica della geometria... linea di Kerr-Newman... coordinate di Boyer-Linquist... massa
corretta... carica elettrica... ci siamo! E sì, il momento angolare, sì, sì, sì. Non ci sono dubbi.”
“Se vuole far capire anche a noi.”
“Un buco nero, cari colleghi.”
“Dove?”, gridarono tutti all'unisono.
“Nei motori.”
“Nei mo-motori?”, balbettò Charan che aveva frainteso quei dati.
“Propulsori alimentati da un buco nero”, ribadì Belfort.
“Ma è follia. Non possiamo costruire una cosa del genere. Se ci sfuggisse di mano...”, insorse
Donaldson.
“Ordine!”, esclamò Campbell rimasto in disparte ad assistere l'operato di quelle menti. “Mi
sembra di essere stato chiaro. Dovete seguire le istruzioni. Non tentate di capire quella roba, ne
uscireste pazzi. Andrà tutto per il verso giusto. Solamente in un modo saranno guai.”
“Quale, ammiraglio?”
“Se cambierete una virgola o un solo punto decimale a quello che avete fra le vostre mani, sarà la
fine.”
“Ma non possiamo fidarci delle parole di uno schizofrenico”, continuò a dissentire il matematico.
“Mi dia il suo tesserino”, comandò il generale con voce ferma.
“Cosa?”
“È sordo? Mi dia il suo tesserino.”
Sconcertato, l'uomo afferrò il badge magnetico e lo consegnò.
“Lei è destituito dal suo incarico. Non fa parte più di questo progetto.”
“Ma voi non potete...”
“Se dirà soltanto un'altra parola”, ruggì Campbell, “si ritroverà ad insegnare aritmetica alle
scuole elementari.”
L'uomo deglutì spaventato.
“Qualcun altro ha da dissentire? ”
“Nessuno”, assicurò Charan.
“Allora finitela di confabulare e mettetevi al lavoro. Il mondo ha bisogno del vostro aiuto.”
Nove

La torre di Bremvarr-la si inerpicava nel cielo a sud-ovest della capitale, lungo le bianche
spiagge di Sax-la. Di color ruggine, assomigliava a un parallelepipedo attorcigliato su sé stesso. Le
congetture sul suo impiego erano le più disparate. C'era chi sosteneva fosse un luogo di piacere
dell'imperatore, chi un faro-warp per le comunicazioni galattiche, chi un semplice e antico minareto
ereditato da culture dimenticate.
I guardiani Vent-le e Drax-le erano fra coloro che conoscevano la verità. Guerrieri sintetici
potenziati, disponevano di una forza, una capacità di calcolo e una coordinazione motoria che
avrebbero fatto invidia ai robot imperiali da guerra. Custodi del settimo piano, sorvegliavano lo
psicotrico numero quarantacinque. Considerati pericolosi scherzi della natura, gli psicotrici erano
stati ostracizzati a causa dei loro poteri telepatici. Una peculiarità che aveva spaventato i kadaja fin
dalle ere più antiche, tanto da limitarne le nascite e confinarli al di fuori della società. Anche al
numero quarantacinque, come da tradizione, era stata assegnata una cifra al posto del nome. Facente
parte di una razza praticamente estinta, l'impero contava di ripopolarla per sfruttarne i poteri nel
campo dello spionaggio.
Fra i supervisori della torre vi era un anziano fidato che si era preso il rischioso onere di
prelevare il quarantacinque per condurlo segretamente nei sotterranei della capitale. Conscio di
dover affrontare i due guardiani, si era assicurato di ricevere dal generale Atkel-le le armi più
avanzate e adatte allo scopo. Non potendo superare l'ingresso della torre armato di tutto punto, il
supervisore era stato costretto a raggiungerne furtivamente la cima che disponeva di un poggiolo.
Pochi istanti dopo il suo arrivo, un mini-drone occultato aveva fatto cascare dall'alto due biglie color
ardesia. Il fidato le aveva raccolte e, come da istruzioni, si era tuffato verso il settimo piano. Il
supervisore ignorava come quelle due palline potessero annichilire i feroci guardiani; malgrado ciò
il generale era stato chiaro: “Tasta la superficie, trova una minuscola sporgenza ed esercita pressione
su di essa in questa sequenza. Dopodiché getta le biglie contro il nemico.”
Il fidato aveva ripassato la combinazione mostrata centinaia di volte; quelle erano armi fatali,
senza margine di errore, in cui molti ci avevano rimesso la vita per un utilizzo improprio.
“Salve, ragazzi, come va?”
Vent-le e Drax-le fissarono il supervisore. Non aspettavano una sua visita. Quindi operarono una
scansione dei suoi parametri vitali da cui emerse un evidente stato di tensione.
“Bene”, rispose un guardiano laconico.
“Il quarantacinque vi ha dato problemi?”
“No”, rispose l'altro.
Un tintinnio attirò l'attenzione dei custodi.
“Che sbadato, vi dispiacerebbe raccogliermele? Ho la schiena dolente.”
I due esitarono e, quando furono pronti a reagire, fu troppo tardi. Le biglie avvicinatesi ai loro
piedi si trasformarono in due vortici spazio-temporali grandi quanto una tazzina da caffè oaata; in un
attimo i due vennero risucchiati, scomparendo insieme ai vortici in un eterno oblio. A quella visione
il fidato si paralizzò sconcertato. Poi rammentò di doversi sbrigare. Si era adoperato personalmente
per escludere il sistema di sorveglianza al piano sette, ma rimaneva il pericolo che qualche addetto
lo riattivasse, filmando ogni centimetro quadrato dell'area interessata.
Il supervisore estrasse un altro gingillo proveniente dalle armerie di Atkel-le. Al contrario delle
biglie che sarebbero apparse sospette, gli scandagliatori installati all'ingresso della torre non
avevano dato alcuna importanza alla piccola olopenna multiuso. Seguendo le indicazioni del
generale, il fidato avvicinò l'oggetto al derivatore di campo responsabile della barriera che
costringeva lo psicotrico in cella. La finta olopenna aderì alla scatolina del derivatore come se fosse
stata attratta da una calamita. Quindi seguì un sibilo e la barriera energetica si eclissò.
“Non temere”, esordì il supervisore per rassicurare il prigioniero.
Questi, con indosso una tunica color zinco, fissandolo negli occhi, proferì: “Sei qui per liberarmi.
A me sta bene.”
Il fidato si diede dello stupido. L'essere che aveva di fronte poteva entrargli nella mente. Le
parole erano superflue.
I due si precipitarono nel turbo-ascensore, raggiungendo la terrazza in cima alla Bremvarr-la. Un
velivolo silenzioso e occultato stazionava sopra di essa. Il fidato si guardò intorno alla ricerca della
via di fuga.
“Di là”, disse lo psicotrico che aveva percepito almeno due menti a pochi passi da loro. Il
supervisore si girò e vide una mano sbucare dal nulla. L'illusione ottica era incredibile: delle dita
stavano fluttuando nel nulla. Il telepate percepì come appartenessero a un kadaja a bordo di un
aeromobile invisibile. Quindi, prima lo psicotrico poi il fidato si aggrapparono alla mano e si misero
in salvo.
Nel velivolo vi erano due soldati di Atkel-le. La cabina di pilotaggio e quella passeggeri erano
divise da un campo di forza.
“Non c'è il pilota?”, domandò il fidato.
“È automatico”, rispose un militare.
“Bene.”
“Non sembrate molto sicuro.”
“Il supervisore ama poco le intelligenze artificiali”, informò lo psicotrico.
“Veramente?”, chiese con stupore il soldato. Erano millenni che i kadaja convivevano con le I.A.
“Solo se si tratta di velivoli automatici”, spiegò il telepate.
“Confermo”, confessò il fidato.
Il militare lo squadrò, poi comunicò: “Da oggi sarete un ricercato.”
“Lo so.”
Il regime aveva già testato la lealtà di alcuni kadaja. Il supervisore non lo dava a vedere, ma la
paura che si trattasse di una trappola mortale lo stava divorando.
“Tranquillo, può fidarsi di loro”, lo rassicurò il telepate.
Ignoro se amarlo o odiarlo, pensò il fidato.
Dieci

Al contrario di altri membri della Nexus, Cassius non aveva alcun legame familiare. La madre
era morta poco dopo la sua nascita, relegandolo così alle cure di un padre egoista che, dopo la
maggiore età, aveva deciso di escluderlo dalla propria esistenza. L'unico parente degno di nota era lo
zio Tom, fratello della madre, con cui si vedeva di rado. Pertanto uscire da quella prigione non
avrebbe fatto molta differenza per la sue relazioni interpersonali. Tutta la sua vita era stata la
Galactic Fleet, e la maledetta sfera gliel'aveva portata via. Malgrado ciò gli eventi avevano assunto
un risvolto positivo: essere il tramite di due mondi stava divenendo motivo di riscatto. Aiutare
l'umanità a superare la più grande crisi della sua storia, avrebbe rimediato a ogni suo errore.
Ripresa coscienza di sé, poteva ritenersi soddisfatto, anche se alcuni ricordi successivi al
rapimento perseveravano confusi. Ciò che più continuava a sorprenderlo era la capacità di enunciare
complesse formule di fisica subquantistica senza comprenderne il significato. Poi si presentò il
momento in cui ebbe la sensazione di aver esaurito i dati da rivelare; cominciò a sentirsi inutile e a
vivere un profondo stato di frustrazione. Per sua fortuna dovette resistere pochi giorni, giacché
all'improvviso avvertì una nuova voce nella testa. Stavolta era in grado di carpire ogni singola
informazione, come se qualcuno avesse installato un auricolare nel suo cervello. Non udiva un timbro
vocale, ma l'effetto era lo stesso. Qualcuno gli stava parlando, anche se una simile definizione non
avrebbe reso giustizia al fenomeno. Si trattava di una connessione mentale. Quando l'essere che
aveva agganciato la sua mente si qualificò come un telepate kadaja, tutto gli fu chiaro.
L'alieno era capace di attivare le ghiandole cerebrali del soggetto controllato e regolarne così
umore e stato fisico. Fuller si sentì tranquillo come non gli capitava da tempo. Mansueto, ascoltò tutto
quello che gli disse l'essere. Terminato di istruirlo, il telepate si scollegò, provocando una scarica di
adrenalina nel flusso sanguigno del controllato.
Cassius, che sino a quel momento era stato seduto, scattò in piedi e richiamò l'attenzione delle
guardie. Quando non si trovava nella cerchia di studiosi, era confinato in un appartamento
accogliente. Campbell non lo considerava né un prigioniero né un criminale, ma la risorsa più
importante del genere umano per liberarsi dall'oppressore. Andava preservata a ogni costo.

Lo psicotrico Quarantacinque era poco più di un ragazzo. Avere l'autorizzazione di entrare nella
mente di un extrakadaja posto ad anni luce di distanza, era la più bella cosa che potesse capitargli.
Estendere e portare al limite i propri poteri gli conferiva un benessere senza eguali. Apprese le
intenzioni dei fidati, si era compiaciuto di diventare uno strumento chiave per abbattere l'imperatore.
Gli emendamenti di questi circa la schiavitù degli psicotrici erano il sunto delle peggiori norme che
avevano rovinato la vita dei telepati.
Per riuscire nell'impresa, Quarantacinque si era dovuto esercitare sulle frequenze cerebrali
emesse dai neuroni artificiali impiantati nella mente dell'umano e studiarne la complessa struttura. Le
onde psicotriche emesse dal suo encefalo viaggiavano in un campo subspaziale che gli permetteva di
coprire istantaneamente distanze siderali come un segnale warp; al contrario di questo, un'onda
piscotrica non poteva essere intercettata dagli strumenti di spionaggio imperiali, poiché viaggiava in
una forma troppo dissimile dai formati warp standard. Sua peculiarità era quella di attraversare la
materia come i neutrini per poi arrestarsi in presenza di specifiche reti neuronali biologiche;
caratteristica che avrebbe permesso a Quarantacinque di inviare informazioni a Cassius Fuller.
L'individuazione di un essere a quella distanza rimaneva comunque un'impresa ardua.
Lo psicotrico dovette isolarsi dal mondo circostante e puntare ogni sua attenzione verso la base
situata sotto al deserto di quel remoto pianeta roccioso chiamato Terra. Giorni estenuanti, in cui
l'ardore della sua giovane età, la sensazione di essere libero e l'odio verso il tiranno gli permisero di
agganciare la mente dell'umano. Dapprima modificò i livelli di serotonina e acido γ-amminobutirrico
nell'organismo del controllato, poi gli comunicò della necessità di riuscire nella missione. Se
l'offensiva imperiale fosse partita, nessuno sarebbe stato capace di resisterle; la Grande Alleanza
sarebbe stata schiacciata e gli umani insieme a loro. Mondi come la Terra sarebbero divenuti parchi
da caccia per i kadaja più abbienti e campi di addestramento militari in cui straziare gli esseri umani
come bestie al massacro. Nelle epoche passate più buie era già successo, e con l'odierno despota
sarebbe accaduto altrettanto se non di peggio. In troppi settori galattici si credeva a torto che
l'imperatore fosse un conquistatore magnanimo e illuminato; chi lo conosceva sapeva quanto fosse
spietato e, allo stesso tempo, intelligente abbastanza da nasconderlo per emergere improvvisamente
più efferato che mai. Discrezioni che colpirono profondamente Cassius. Poi fu il turno di tecnicismi
quali l'importanza di accelerare al massimo il tempo di realizzazione dell'arma senza apporre la
minima modifica, e la predisposizione perpetua di una rampa di lancio. Rotazione e posizione della
Terra non avrebbero influito sull'esito dell'operazione. Data e coordinate esatte da inserire nel
disgregatore sarebbero state comunicate nel momento più idoneo. Questa fu l'ultima disposizione che
lo psicotrico riferì a Cassius.
Distaccatosi dalla sfibrante connessione, Quarantacinque si accorse di avere un folto gruppo di
fidati addosso. Lo fissavano con un elevato grado di apprensione.
“Allontanatevi. Sto bene. Comunicazione avvenuta con successo.”
Egek-le lo guardò con occhi spalancati.
“Non parlo come un computer”, gli si rivolse il telepate.
“Trovo scorretto che lei ci legga la mente”, commentò il ministro.
“Per me è una violenza inibirmi dal farlo. Mi adopererò, ma adesso sono troppo provato.”
Più di un kadaja non riusciva a distogliere lo sguardo dallo psicotrico.
“È inutile che si domandi cosa provo”, disse il telepate a uno di loro. “Non lo capirà mai.”
In verità neanche Quarantacinque avrebbe saputo decifrare il tipo di emozioni sperimentate. Era
qualcosa di nuovo, mai provato prima. Forse aveva un nome.
Felicità.
Undici

Suo malgrado, Campbell dovette richiamarlo. Al diavolo se aveva contestato gli ordini. In ballo
non c'erano disciplina e orgoglio, bensì il destino del genere umano. Per quanto preparato e geniale,
senza il contributo di Donaldson, il team del professor Belfort avrebbe faticato a rispettare i termini
del progetto. Oltre duecento fra tecnici e ricercatori lavorarono alacremente per quattro mesi, con
turni che sfiorarono le diciotto ore, sette giorni su sette. Poi, un mattino, senza quasi rendersene
conto, si parò dinanzi a loro una sonda spaziale non più grande di un Elettro-SUV cinque porte.
Esteticamente assomigliava a un piccolo dodecaedro stellato. Al suo interno vi era un nucleo
elicoidale in grado di contenere e stabilizzare il buco nero propulsivo.
“Siamo sicuri che non collasserà in una singolarità che inghiottirà la Terra?”, domandò
preoccupato uno degli scienziati.
“No”, risposero in coro i colleghi.
“Non ci capisco un tubo”, ammise Russo dopo il primo mese di lavoro. Una condizione che non
escludeva nessuno. Le teorie fisiche più avanzate suggerivano che quell'affare non avrebbe mai
dovuto funzionare. Eppure i kadaja erano stati chiari: “Attenetevi alle istruzioni e fidatevi.” Una
questione più facile a dirsi che a farsi; sorgente di litigi e dissapori mitigati da un ammiraglio intento
a proseguire per la propria strada. Il presidente era stato informato e persuaso dallo stesso Campbell
in una maniera tale che a nulla erano valse le rimostranze del suo staff. Gli Stati Uniti si erano
arrogati il diritto di decidere per il futuro del mondo intero.
“E ora che si fa?”, chiese Charan scrutando il risultato di tanta fatica e ingegno.
“Si predispone per il lancio e si aspetta”, rispose Belfort, rigido quanto e più dell'ammiraglio.

La più fedele riproduzione fluttuante della galassia era sita nel planisfero quadrimensionale del
Kanth-Vahal. Un osservatore avrebbe potuto correre per cinque minuti prima di riuscire a coprirne il
diametro. Il suo piano virtuale galleggiava all'altezza del bacino di un adulto. Ogni stella, pianeta,
luna e asteroide conosciuto era rappresentato in olografica semi-solida. Bilioni di oggetti stellari che
danzavano eleganti seguendo gli equilibri gravitazionali della galassia. A ognuno di essi era
associato un nome, un numero di riferimento e una brevissima descrizione. Era sufficiente sfiorarli
due volte consecutive con un dito della mano per aprire una oloscheda dettagliata.
Khrun-le, tiranno supremo di Kajda, si beava nel mirare la vastità del suo impero.
Una delle principali menti del reticolo dimensionale richiamò la sua attenzione: “Sire, la sottile
linea rossa appena comparsa lega gli oltre cento nodi della rete.”
“Ogni nodo corrisponde a un portale?”
“Sì, maestà.”
“Ci assicurate che ognuno di essi sia più efficiente di una sfera liyana?”
“Sono millenni che ne studiamo la tecnologia. L'abbiamo fatta nostra e implementata.”
“La sua estensione è ridicola se paragonata a quella liyana”, osservò deluso l'imperatore.
“È soltanto lo stadio iniziale. Al contrario dei vetusti cancelli di quegli shart-ne6, i nostri portali
non sono enormi globi che squilibrano lo spazio-tempo. Si tratta di quattro braccia metalliche curvate
che circondano cinque anelli giroscopici rotanti con un diametro maggiore della nostra più grande
nave ammiraglia7.”
“Potremo balzare istantaneamente con qualsiasi astronave”, ragionò Khrun-le pregustando la
disfatta del nemico.
“Esatto, signore.”
“Ci auguriamo siano più resistenti dei cancelli.”
“Sono circondate dallo scudo subquantico più evoluto di tutti i tempi”, garantì il kadaja.
“Bloccano energia e materia a livello subatomico e subspaziale. Perfino un segnale warp
rimbalzerebbe. Attualmente non conosciamo arma che sia in grado di annientarli. I portali
sopravvivrebbero persino all'esplosione di una supernova; quando sono inattivi non emettono alcuna
radiazione, risultando così invisibili.”
Il tiranno immaginò navi grandi come città varcare i portali e scaricare terawatt di plasma contro
chiunque si frapponesse fra sé e il dominio assoluto.
“Sono lieto che sia soddisfatto, maestà.”
L'imperatore l'osservò maligno, quindi disse:“Lo sapete che se qualcosa non funzionerà verrete
dato in pasto alle belve di Vrandar-la?”
“Non c'è alcun pericolo, sire”, rispose il kadaja che tremò all'idea di essere sbranato da quelle
enormi bestie a tre zanne.
“Quando avverrà il primo test?”
“Quaranta giorni, sire.”
“Non vogliamo che si tratti di una semplice prova.”
“Cosa ordinate?”
“Baros.”
“Il pianeta dei barasiani?”, domandò il kadaja sorpreso.
“Una specie inutile e sottosviluppata. Peggio dell'ultima conquistata, quella dei...”
“Terrestri, signore.”
Khrun-le neppure stette a sentire il suggerimento e, preso da altri pensieri, comandò:
“Manderemo una nave classe Xing-ne.”
“Avete intenzione di raderlo al suolo quel pianeta...”
“È dai tempi di Liy'n che non bonifichiamo mondi infestati.”
“Dopo Baros, toccherà all'alleanza”, l'istigò il kadaja, attento a omettere l'aggettivo grande;
l'imperatore non avrebbe potuto sopportarlo.
“Inizieremo con Zartha o Erothe”, sancì il tiranno.
“C'è l'imbarazzo della scelta.”
“Ci sarà il generale Atkel-le al comando della nave. Informatelo.”
“Eseguo, signore.”
Khrun-le aveva deciso di essere meno sanguinario del padre, nell'intenzione di scongiurare
schermaglie e rivolte che avrebbero distratto la flotta imperiale. Sua intenzione era di annientare
l'alleanza, vero baluardo che gli impediva di estendere il proprio regno come nessuno aveva mai
fatto prima. Tuttavia, educato alla tirannia e all'empietà, il richiamo al mero esercizio distruttivo del
proprio potere fu irresistibile. Era il momento di sbarazzarsi dei sistemi inutili. La più proficua età di
conquista era alle porte.
Il tiranno passeggiò verso la riproduzione del sistema di Erothe. Con un dito sfiorò il mondo
degli oaata. Poi eseguì un comando e il pianeta si disfece in olopixel informi.

Continua
Sfida all'Impero

Verso l'Infinito – Episodio VI

di
Gianluca Ranieri Bandini

Ebook protetto dal Digital Right Management


© 2015 Tutti i diritti riservati all'Autore
All rights reserved
Prima edizione novembre 2015
Questo libro è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, organizzazioni ed eventi sono frutto
dell'immaginazione dell'autore o vengono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con fatti o
persone reali, vive o defunte, è assolutamente casuale.

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche
parziale, non autorizzata.
Uno

“È ancora sicuro questo sito?”, domandò uno dei fidati nascosti nel sottosuolo della capitale.
“Se io e il ministro la smetteremo di venire qui, lo sarà”, rispose Atkel-le.
“Quaranta giorni è il tempo a nostra disposizione”, riferì Egek-le.
“Non sembrano molti.”
“Già...”
Seguì un momento di silenzio in cui gli astanti rifletterono circa le asperità della missione.
“Manca troppo poco. Dobbiamo avvisare i terrestri”, dichiarò il generale.
“La velocità di rotazione dei nostri mondi è simile. Non sarà difficile coordinarsi”, ragionò il
matematico del gruppo.
“Quanto tempo occorre per i calcoli?”, chiese il ministro.
“La sonda dovrà viaggiare al massimo della potenza. L'ultimo salto sarà il più delicato, poiché
dovrà riemergere nell'esatto momento in cui la Xing-ne varcherà il portale.”
“Dunque?”, lo sollecitò Atkel-le.
“Non meno di un paio di giorni.”
“Siamo davvero al limite.”
“Lo so.”
I congiurati sapevano delle difficoltà che avrebbero incontrato, ma scoprire di poter contare su un
intervallo di tempo così ridotto fu un trauma.
“Chi guiderà la nave verso Baros?”, chiese uno di loro.
Ci furono dei sospiri, poi Atkel-le rivelò: “Io.”
Per quanto i nativi di Kajda disponessero di uno spirito guerriero, la cerchia si mostrò poco
entusiasta della notizia.
“Ma così morirete”, obiettò il gruppo.
“L'idea di trovarmi lì non mi esalta”, ammise il generale.
Più di un fidato si immedesimò. C'era da farsi venire i brividi.
“Esiste un modo per sottrarvi all'incarico?”, domandò il matematico.
“Desterei i sospetti dell'imperatore”, rispose di getto Atkel-le. “Credo che già ne nutra alcuni,
anche se non detiene prove.”
“Se le avesse, lei non sarebbe qui a disquisirne.”
“Potete scommetterci, ministro.”
“Una scelta casuale quella di affidarle la nave? Non credo”, rifletté ad alta voce Egek-le.
“Obbligandomi a bordo, il tiranno confida di tutelarsi da un possibile attacco alla nave.”
“Escludo che avrebbe affidato il comando a un sospettato”, ponderò il ministro. “Si tratta sempre
di concederle l'agio di muoversi all'interno della Xing-ne.”
“Qualunque sia l'origine di tale disposizione, non influisce sui nostri programmi”, affermò il
matematico.
I presenti lo fissarono: aveva ragione.
“Quindi, generale, ci conferma con assoluta certezza la sua presenza sulla Xing-ne?”, volle
accertarsi il responsabile del calcolo di rotta.
“Sì. Questa è la mia ultima riunione. Da stasera vivrò recluso in Accademia per plasmare il
piccolo esercito che mi porterò dietro.”
“Rischieremo di sacrificare migliaia di kadaja”, osservò uno della cerchia.
“In guerra c'è sempre un prezzo da pagare”, replicò il ministro.
“Stavolta sarà altissimo.”
“Proporzionale alla gravità del conflitto.”
Vicini alla messa in opera della loro cospirazione, ogni entusiasmo crollò. Il timore di fallire e di
uccidere migliaia di fratelli era opprimente.
“Con lei al comando, le probabilità che la missione riesca salgono notevolmente”, avvisò il
matematico. “Faremo riemergere il disgregatore in un modo del tutto particolare.”
“Di cosa si tratta?”, volle sapere Atkel-le.
“Glielo riferirò dopo i saluti, in separata sede.”
“Muteranno i calcoli da effettuare”, fece notare con una certa apprensione il responsabile della
rotta.
“Senz'altro”, confermò il matematico.
“Non mi piace”, asserì l'esperto di calcolo delle traiettorie.
“I tempi rimarranno i medesimi”, garantì il collega.
L'espressione facciale del responsabile fu un tripudio alla perplessità.
“Accetto di mal grado che lei perisca per la causa”, si rivolse al generale uno dei congiurati.
“Me la caverò.”
“Frase fatta.”
“Può darsi.”
Era rimasto poco da aggiungere. Atkel-le doveva varcare l'ingresso dell'Accademia entro poche
ore. Rammentando di farsi rivelare i dettagli sulla riemersione del disgregatore, si preparò all'addio.
Riflessioni che vennero interrotte dall'arrivo del supervisore della torre di Bremvarr-la.
“Sembra un fatto grave”, evidenziò il ministro che aveva letto del terrore negli occhi del kadaja
appena sopraggiunto.
“C'è un... un problema”, ansimò il supervisore. “Il... lo... quarantacinque... Quarantacinque sta
morendo.”
Due

La situazione non gli andava per niente a genio. Pur essendo specializzato in quanto-medicina,
Henry adorava curare le persone; una vocazione assai diversa dall'essere confinato in un laboratorio
claustrofobico. Fare ricerca, manipolare il DNA e sviluppare protesi sintetiche erano delle attività
tanto tediose da risultargli soffocanti. Senza tali branche non avrebbe avuto i fantastici mezzi di cui
disponeva per guarire i pazienti, ma soffocare quell'inclinazione naturale gli sembrava l'impresa più
ardua dell'universo.
Prossimo ad effettuare una centrifugazione in gradiente di densità, per consentire la separazione
di molecole e particelle sulla base del loro differente comportamento in un campo gravitazionale,
Davis venne strattonato violentemente. Cogitabondo, sobbalzò per lo spavento e per poco non gridò.
Kate lo aveva afferrato per il camice.
“Vieni!”, ruggì la donna che lo sbatté contro un angolo.
Henry, imbarazzato e confuso, chiese: “Ti è presa voglia?”
“Evita di fare il finto tonto.”
“Come?”
“Sai benissimo di cosa sto parlando.”
“Dimmelo tu.”
“Ti rendi conto di cosa cazzo stai facendo?”
La Aniston era fuori di sé.
“Benissimo, e tu?”
“Non fare lo spaccone. Sabotare le ricerche è la peggiore mossa che tu possa fare”, lo accusò la
donna.
“Tutto quello che si sta facendo qui dentro va contro ogni etica”, contestò Davis.
“Ancora con l'etica, Henry? Svegliati! Alieni, guerre, distruzione. Non ci è permesso l'agio di
occuparci di morale, di filosofia, di... deontologia. Lo capisci?”
“Ti gusta quello che stiamo facendo?”
“A te piacerebbe andare in prigione o finire con un proiettile nella testa?”
“Già siamo in prigione.”
“Grazie!”, esclamò Kate indignata.
Accorgendosi dell'espressione offesa, Henry le domandò: “Che vuoi dire?”
“Sei un insensibile”, lo apostrofò lei puntandogli contro l'indice destro.
Il medico, del tutto incredulo, balbettò: “Io... io sa-sarei un insensibile?”
“Possibile che non ti renda conto? Cooperare qui dentro è il solo modo per restare insieme, per
sperare di rivedere un giorno la luce del sole ed essere una coppia felice. Ma tu niente. Non lo
capisci.”
“Lo capisco, ma...”
“Ma cosa, Henry? Cosa?”, gridò con gli occhi lucidi. “Se riusciremo a inventarci un modo per
contrattaccare una di quelle esaltate razze aliene, tanto meglio. O no? Che dici? Preferisci essere
spazzato via?”
La Aniston era talmente collerica che Henry si concentrò unicamente sull'intensità dei suoi urli.
Doveva farla smettere.
“Ci farai scoprire”, le sussurrò, afferrandola a sua volta per il bavero.
“Qui non ci sono olocamere”, puntualizzò lei.
“Ne sei sicura?”
“No.”
“Allora molla la presa e torniamo a parlare civilmente.”
Henry ha ragione, pensò Kate.
Appena staccò le mani dal camice, lui fece altrettanto.
Kate rivolse lo sguardo verso il basso, emise un respiro profondo, si sistemò i capelli e poi
suggerì: “Se ci chiederanno qualcosa, giustificheremo la discussione come un fraintendimento
personale. Ormai sospettano tutti di un nostro rapporto speciale.”
“Con una scusa simile ci assegneranno in due settori agli antipodi. Sai meglio di me quanto in
determinati ambienti amino poco le relazioni fra colleghi.”
L'astrobiologa lo guardò come se stesse scrutando un perfetto idiota.
“Che c'è?”, chiese Henry notando la strana smorfia.
“Forse ti meriti di fare una brutta fine”, affermò la donna.
“Che stupidità vai dicendo?”
“Non ti entra proprio in quella zucca l'orrendo destino a cui andrai incontro se ti scopriranno?”
“Datti una calmata.”
“Sei tu a doverti controllare.”
In quell'esatto momento Davis desiderò di sparire dalla faccia della Terra. La situazione che
stava vivendo non aveva nulla a che fare con la vita che si era immaginato.
Tre

L'Accademia imperiale si affacciava sulla baia di Saur-le, guerriero delle antiche leggende.
Posta a poche miglia dalla capitale, era un'ovazione alla geometria solida e al riflettente cristallo
bruno di Gragik-le, per colore simile all'onice nera terrestre. Edifici a forma di calotta sferica
facevano da contorno a costruzioni piramidali e cilindriche alte più di settecento piedi. Al centro
dell'agglomerato emergeva un fabbricato a cuneo, anche se il più riconoscibile era quello toroidale
che, supportato da pilastri foto-distorsori, sembrava sospeso a mezz'aria.
L'accademia vantava le migliori strutture della flotta imperiale e un programma di addestramento
fra i più duri della galassia. Dal corpo a corpo alla sopravvivenza in ambienti estremi, dal volo
spaziale all'interno di nebulose alle battaglie nelle fasce di asteroidi. Nelle esercitazioni tattiche
venivano adoperati simulatori che riproducevano la plancia e le postazioni di fuoco di una nave da
guerra, ma i cadetti si addestravano sovente anche su vere navi stellari.
Adesso, all'interno della calotta cinque, attorniato da colleghi e scienziati, Atkel-le
supervisionava i combattimenti nel campo ologrammi. Decine di sottoposti che giocavano alla guerra
in un universo virtuale perfettamente ricostruito. Tuttavia era distratto. I pensieri che lo affliggevano
gli inibivano la concentrazione. Ignorare l'esito della connessione dello psicotrico rischiava di farlo
impazzire. Lo aveva lasciato in pessime condizioni. Fidarsi dei terrestri era stata un'enorme
scommessa, figurarsi credere che persino Quarantacinque ce l'avesse fatta. Obbligato in Accademia,
non aveva modo di comunicare con i fidati in maniera sicura. Provare sarebbe stato un azzardo
inutile. Anche se fosse riuscito a sapere del buon esito del telepate, nessuno avrebbe potuto garantire
per l'efficienza dei terrestri. E in qualsivoglia modo fosse andata, avrebbe finto lealtà all'imperatore,
avesse dovuto costargli l'annientamento di Baros. Si sarebbe dato almeno la speranza di tornare e
pianificare una nuova e più efficace congiura.
Un pianeta di primitivi è ben poca cosa se paragonato alla vastità delle società galattiche.
Era persuaso di essere un sorvegliato speciale. Temeva che l'assegnazione del comando della
Xing-ne fosse avvenuta per isolarlo. Come sosteneva il ministro Egkel-le, era ovvio che il tiranno
non avesse prove per incolparlo, altrimenti sarebbe stato già il pasto digerito di chissà quale belva.
Avrebbe potuto altresì ritenerle delle paure figlie della propria coscienza sporca. Torturarsi la mente
era da stupidi. Doveva annullare ogni incertezza e persuadersi di essere un imperialista convinto, con
il fine di mantenere la credibilità necessaria.
Atkel-le ammirò decine di soldati e ufficiali muoversi tra le proiezioni virtuali del ponte di
comando e delle postazioni di fuoco. Con quanta facilità riescono ad ardere immensi territori
meditò il generale. Sono sufficienti le mani di pochi kadaja per sterminare le popolazioni di interi
mondi. Quale mostruosità stiamo mettendo in atto?
Al disgregatore spazio-temporale occorrevano trentadue giorni kajdani di viaggio per giungere
alla meta designata. Doveva arrivare nell'esatto secondo in cui la nave avrebbe traversato il portale.
Pochi minuti in anticipo e sarebbe stata intercettata, pochi istanti di ritardo e le sarebbe stato
precluso l'ingresso del reticolo.
Il punto di emersione stabilito, almeno secondo i suoi ideatori, aveva del geniale. La presenza di
Atkel-le sarebbe risultata indispensabile per il buon esito della missione. Distruggere i portali era il
migliore attacco che si potesse infliggere all'impero. Neutralizzarli avrebbe significato difatti negare
a Khrun-le la possibilità dello spostamento istantaneo. Una sfida da vincere a tutti i costi, poiché
nessuna arma avrebbe potuto infliggere danni alla superficie della luna madre. Ogni tentativo si
sarebbe mostrato vano. Il sistema di sicurezza e la flotta di sorveglianza avrebbero individuato ed
eliminato, nell'arco di pochi istanti, qualsiasi marchingegno avesse mai pensato una mente
intelligente nell'intera storia della galassia.
Quattro

Era logico supporre che prima di Quarantacinque nessuno fosse stato chiamato a connettersi con
una mente aliena posta ad anni luce da Kajda. Stabilire e mantenere il collegamento aveva sollecitato
il suo cervello sino a provocargli un gravissimo edema. Il problema aveva cominciato a manifestarsi
poco dopo aver fornito le ultime istruzioni a Fuller. Dapprima era apparso come un innocuo mal di
testa, poi nel corso delle settimane si era acuito fino a trasformarsi in qualcosa di insopportabile. La
medicina kadaja consentiva di vivere per secoli, ma lo psicotrico non disponeva di organi sintetici,
tanto meno della possibilità di usufruire di un ospedale di superficie. Per uno degli esseri più
ricercati della luna, rimanere segregato era l'unica via. Tra i fidati vi era un bravo medico, ma
trattare l'encefalo di un telepate era una faccenda per pochi eletti.
“Migliorerà?”, chiesero al dottore.
“Lo escludo.”
“Se non comunicherà i dati ai terrestri, tutti i nostri propositi verranno meno.”
“Sta a lui. Non posso aiutarlo in nessun modo, se non spronarlo assieme a voi nella speranza che
trovi l'energia necessaria.”
Fu così che Egkel-le, nella sua ultima visita prima di essere costretto ad affiancare l'imperatore
nella programmazione del grande evento, diede fondo a tutte le proprie conoscenze storiche per
motivare lo psicotrico. Mentre egli si dimenava sofferente su una lettiga, il ministro gli rammentava i
giorni di prigionia, le agonie inferte ai suoi simili, le epoche delle torture e il primo genocidio a
opera dei predecessori di un tiranno che si apprestava a essere il più efferato di tutti.
“Se solo tu riuscissi a inserire nella testa dell'umano queste poche coordinate, una nuova epoca di
libertà si affaccerebbe su Kajda”, insisteva Egek-le, persuaso a continuare finché lo psicotrico fosse
rimasto in vita.
Nel ridestare l'odio e conscio di avere un'ultima flebile possibilità prima che il corpo cedesse
definitivamente, in un rantolo, Quarantacinque disse: “Va bene.”
“Significa che tenterai?”, volle assicurarsi il ministro.
Lo psicotrico confermò con il cenno di una mano, poi, mettendosi seduto sulla barella, prese
l'olofoglio con impressi i dati. Li osservò e li memorizzò in uno scompartimento del cervello, alla
stregua di un hard disk. Poi mise le mani attorno al capo, pregando l'universo di donargli quell'ultima
occasione. Il malessere fisico gli rese arduo perfino individuare il pianeta del controllato. Vagò per
un intero quadrante della galassia, come un naufrago disperato, sin quando ritrovò la concentrazione
e incrociò l'esatto sistema stellare. Contrasse ogni muscolo del corpo e il respiro si fece affannoso,
come se stesse scalando la più ripida delle montagne. Scorse la mente di Cassius, ma gli sfuggì.
“Non posso”, lamentò.
“Devi farcela”, lo incitò il ministro.
“Non ci riesco.”
“Devi farcela, per la galassia maledetta!”, gridò Egek-le.
“Ministro”, lo riprese il medico.
“Se fallisce”, sbraitò Egek-le, “centinaia di mondi subiranno la tirannia più terrificante di cui
l'intero universo abbia memoria.”
Il telepate si sgolò, sbatté i pugni, ebbe le convulsioni e per poco non rigettò. Il dottore provò a
sedarlo, ma Quarantacinque rifiutò.
“No, così non potrò mai riuscire”, mormorò a sé stesso lo psicotrico. Sentiva il cranio
esplodergli, ma provò ancora una volta, per lui e tutte le migliaia di telepati straziati da quella
dittatura infernale.
Si rituffò lungo quel corridoio multidimensionale che soltanto uno psicotrico poteva intendere.
Afferrò la mente del terrestre assicurandosi che immagazzinasse le informazioni indispensabili al
lancio. Seguì un formicolio lungo la schiena e gli arti. Poi il dolore cessò e gli parve di galleggiare
sospeso su una nuvola. Infine fu come se qualcuno avesse staccato la corrente. Buio, totale e
improvviso.
I fidati lo videro stramazzare.
Il medico si avvicinò alla ricerca di segni vitali. Qualche istante dopo disegnò un cerchio con la
testa; uno dei modi kadaja per intendere il no.
“Ma ce l'ha fatta?”, domandò il ministro angustiato.
“Chi può dirlo”, rispose il dottore.
“Ma dobbiamo saperlo.”
“Un modo c'è.”
Egek-le si illuse di una soluzione imminente e con sguardo fiducioso invitò il medico a parlare.
“Aspettare che il generale Atkel-le varchi il portale”, disse il dottore, e ogni speranza crollò.
Cinque

“Sbrigatevi, non c'è tempo!”, aveva preso a strepitare Fuller come un pazzo. Mentre le istruzioni
di lancio erano state parcheggiate in una zona della sua mente, le sofferenze del telepate persistevano
a inondarlo come un mare in tempesta. Cassius dovette faticare le pene dell'inferno per quietarsi ed
estrarre i preziosi dati infilatigli a forza nel cervello. Un'impresa che parve poco più di un gioco per
infanti se paragonata agli sforzi di persuasione di Campbell.
“Non è un pazzo. I kadaja sono venuti qui. Li abbiamo visti tutti. L'allarme di Fuller non è la
fantasia di uno schizoide”, ribadì più volte l'ammiraglio per abbattere il muro di perplessità innalzato
da molti degli scienziati che avevano lavorato al progetto. “Potrebbe una mente folle fornire le
specifiche per realizzare un avveniristico dodecaedro stellato?”
Qualcuno rispose di no, mentre quasi tutti rimasero in silenzio. Osservando quella cortina di
scetticismo, Campbell estrasse la pistola a impulso e intimò: “Fate decollare quella cazzo di sonda.”

Per dimensioni e forma, la rampa di lancio era quasi deludente se paragonata alla missione che
avrebbe dovuto svolgere il dodecaedro. Montata in superficie ad appena un miglio di distanza
dall'entrata principale della base, il sito del decollo constava di una piattaforma che inchiodava a
terra un tubo poliplastico ad altissima resistenza, con un diametro di circa ventuno piedi e un'altezza
di settanta. Per quanto ne sapevano, la sonda, l'arma, o qualsiasi cosa fosse, avrebbe iniziato a
vibrare per poi innalzarsi ed essere sputata da quel tubo come il dardo di una cerbottana, soltanto
che, invece di decelerare, avrebbe aumentato la sua velocità in modo vertiginoso.
Poco prima che l'ultimo conto alla rovescia fosse stabilito, con tutti gli uomini che avevano
partecipato al progetto ammassati di fronte a un olomonitor, Charan riuscì a introdursi nella sala di
controllo grazie a un badge clonato e all'hackeraggio di un collega, compiacente ai sensori di
riconoscimento del movimento.
“Fermi!”, urlò disperato. “Se farete decollare quell'affare, diventerà una singolarità che
inghiottirà la Terra.”
“Fatelo uscire da qui”, comandò l'ammiraglio senza neppure rivolgere lo sguardo all'ingegnere.
“Ci ammazzerete tutti quanti!”, continuò a gridare Charan.
“Fandonie”, rimbeccò Campbell.
Due uomini della sicurezza acciuffarono Agraj che, in un gesto del tutto inaspettato, sfilò dal suo
camice una piccola lama e colpì gli agenti ferendoli in modo superficiale, ma sufficiente per
scrollarseli di dosso.
“Impedirò questa pazzia”, affermò l'ingegnere scagliandosi verso la consolle centrale.
Gli addetti ai lavori sgranarono gli occhi. Concentrati sulle operazioni di lancio, affrontare un
invasato armato di coltello era l'ultima cosa che si aspettavano di dover fare.
Charan scavalcò letteralmente colleghi e scrivania ma, giunto a pochi passi dalla consolle, crollò
a terra ancora prima di sentire il suono della pistola a impulsi. Vedendolo diretto a quel modo verso
il pannello di controllo, l'ammiraglio aveva estratto la pistola, mirato, puntato e fatto fuoco. Adesso
l'ingegnere era riverso al suolo, privo di coscienza. Campbell sapeva di non avergli inferto un colpo
fatale, quindi all'arrivo dei rinforzi ordinò: “Portatelo in infermeria, rimettetelo in sesto e sbattetelo
nella cella detentiva. Poi ci penserò io.”
I cinque agenti arrivati in soccorso prelevarono l'ingegnere esanime.
Poi l'ammiraglio si rivolse ai due feriti: “Soldati, state bene?”
“Un taglietto da niente”, rispose uno.
“Idem”, disse l'altro.
“Fatevi medicare e dite ai vostri colleghi di sbarrare la porta. Da qui non entrerà o uscirà
nessuno fino a contrordine.”
I due annuirono e si avviarono verso l'uscita.
“Signori, ripartiamo con il conto alla rovescia.”
Il direttore di volo riprese il controllo della situazione. Dodici minuti e trenta secondi e il
velivolo alieno sarebbe schizzato verso le stelle.

Non emise suoni. Sembrò essere spenta, priva di qualunque energia. Eppure, vibrante, la
macchina kadaja si mosse verso l'alto. Il tubo-rampa ondeggiò appena, aiutando la sonda a
convogliare il moto nella giusta direzione. L'arma che avrebbe dovuto salvare la galassia fuoriuscì a
una velocità modesta e, invece di acquistare velocità, la perse, sino ad arrestarsi e prendere a
galleggiare a poco più di trecento piedi di altezza.
Belfort, incantato dinanzi all'olomonitor, si girò verso Donaldson: “Cosa abbiamo sbagliato?”
“Niente, professore. Niente.”
In sala di controllo la tensione salì alle stelle. Il direttore di volo sperimentò una frustrazione
incredibile. Quell'arnese non era frutto del loro ingegno, un artificio tecnologico di cui sapevano ogni
cosa. Quali letture avrebbe dovuto richiedere, quale procedura attivare? Nessuna. Questa era la
tremenda risposta a cui doveva attenersi.
“Aspettiamo”, suggerì qualcuno. “Magari accade qualcosa.”
Più di un persona paventò che quel pazzo di Charan potesse avere ragione. C'era l'eventualità che
la macchina fosse impegnata a ingenerare un buco nero che, nel giro di minuti, avrebbe fatto sentire
gli effetti, sino a divorare la Terra e l'intero sistema solare. Che fossero veramente i responsabili
della fine del proprio mondo? Che il perentorio ammiraglio Campbell li avesse spinti a tal punto?
Qualunque fosse stata la risposta, niente e nessuno avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi.
Luca Russo, uno dei dieci addetti alla consolle di controllo, fu il primo ad accorgersi di un
mutamento. Prese fiato per avvertire i colleghi ma, quando vide la sonda iniziare a roteare su sé
stessa, intuì che non ci fosse più bisogno. Rimasero esterrefatti per la velocità di rotazione che il
dodecaedro raggiunse in una manciata di secondi. Il movimento era così rapido da non riuscire a
distinguerne la forma geometrica. Il velivolo cominciò a emettere un'intensa luce blu, poi svanì
generando un'onda d’urto che scosse violentemente le olocamere installate all'esterno della base.
Poco dopo seguì un boato impressionante.
“È andata”, commentò Angela Horn al fianco del professore Belfort.
“Siamo nelle mani del Signore”, esclamò Donaldson.
“Lei crede in Dio?”, gli chiese la donna.
“Quando mi fa comodo.”
Sei

I canali e le strade della capitale vennero invasi da insegne, bandiere e drappi impreziositi da
ologrammi che risaltavano l'immagine di un'antica daga e il profilo trasversale di un'astronave da
guerra. Il tiranno ammirava eccitato gli stemmi imperiali che inneggiavano i due strumenti da
battaglia con cui i kadaja avevano conquistato l'antico e il nuovo mondo.
Dinanzi all'ingresso del Kanth-Vahal, il reggimento delle truppe aviotrasportate prese parte alla
breve parata militare che avrebbe inaugurato la terza rivoluzione dei viaggi interstellari. Gli antichi
motori nucleari e i più moderni propulsori a balzo sarebbero apparsi ridicoli.
Dal grande spazioporto situato alla periferia nord della capitale, sfruttando le sua tecnologia
antigravitazionale, la nave classe Xing-ne prese quota in un cielo reso terso dal diradatore
meteorologico. Atkel-le, suo malgrado, capitanava simulando la frenesia di raggiungere Baros e
annientarne la popolazione. Pur essendo isolato dal gruppo dei fidati, molti dei quali adesso
ammiravano angustiati l'innalzarsi della gigantesca nave, il generale aveva avuto modo di
perfezionare i dettagli del suo piano: se il disgregatore fosse riemerso nel luogo e nei tempi giusti,
non solo egli avrebbe inferto un colpo letale al reticolo, ma sarebbe sopravvissuto. Giunti alla fase
inaugurale dei portali, soltanto cinque fidati sapevano se l'arma aveva compiuto il penultimo balzo
nel sistema kadaja.
Dopo un primo momento in cui la Xing-ne si sollevò pigramente facendo mostra di uno scafo
abbagliante, cominciò ad accelerare sino a diventare una macchietta nel cielo.
Il despota, circondato da ministri, direttori del progetto e guardie imperiali, iniziò a gongolare
fantasticando il dominio definitivo della Via Lattea.
Fra coloro che dovettero esercitarsi maggiormente per dissimulare l'odio verso l'imperatore, vi
era Egek-le; situato a pochi passi dal tiranno, aveva complottato di ucciderlo, ma introdurre un
fulminatore nella zona degli spalti sarebbe stato impossibile anche per uno come lui.
Toccati i limiti della stratosfera, Atkel-le impartì l'ordine dell'avanti tutta. A quel punto ci
sarebbe voluto davvero poco per raggiungere il portale che, a differenza delle sfere, non necessitava
di trovarsi a pochi milioni di miglia dal sole. Le microcamere dei satelliti e dei pattugliatori
avrebbero restituito sulla superficie di Kajda le immagini della Xing-ne che lo varcava.
Il momento della verità, meditò il generale mentre il timoniere rallentava la nave oramai attigua
all'ingresso del tunnel spaziale.
A dieci miglia di distanza dal portale, la nave si arrestò. Tutti gli occhi del ponte di comando
furono per lui, il capitano della Xing-ne.
Atkel-le si rese conto di non poter indugiare.
“Attivare il portale”, ordinò perentorio.
I bracci metallici si mossero e i cinque anelli giroscopici iniziarono a roteare.
Gli astanti ammirarono l'intensa luce che si andò formando all'interno dei cerchi. Per il generale
fu complicato arginare il fiume di emozioni che gli scorreva nelle vene. Conscio che il momento di
dover attraversare il portale fosse imminente, pregò per il sopraggiungere del segnale sperato.
“Portale in linea”, annunciò il computer di bordo.
“Siamo pronti”, avvisò entusiasta il timoniere.
Se entro dieci secondi non fosse arrivata la chiamata attesa, anni di complotto sarebbero andati a
farsi benedire.
“Signore”, pronunciò una voce, spezzando il momento aulico. “La desiderano in cambusa.”
Atkel-le, anche se si era augurato che l'impellenza provenisse da un altro settore, ringraziò
ugualmente gli antichi dèi, poi, perseverando nella recita, stizzito disse: “Non è il momento.”
“Ma...”
“Siamo prossimi a varcare il portale. Vuole forse deludere l'imperatore?”
L'addetto alle comunicazioni sussultò al solo pensiero, tuttavia, costretto dall'urgenza della
situazione, insistette: “Scusi, signore, ma sembra essere un fatto grave.”
Puoi giurarci che lo sia, ponderò Atkel-le soddisfatto.
“Stand by per dieci minuti, poi attraverseremo”, dispose il generale prima di recarsi di gran
carriera verso il deposito dei viveri. Il solo pensiero fu quello di procedere il più in fretta possibile,
per evitare qualsivoglia sospetto. Si era studiato i percorsi più brevi fra la plancia e i settori
principali della nave; con il solo ausilio di due turbo-ascensori e qualche passo lungo il ponte
numero undici, giunse a destinazione.
L'addetto alla cambusa, indicando un dodecaedro grande come una navetta monoposto,
sconcertato riferì: “Generale, è apparso dal nulla.”
“Soldato, apri bene le orecchie. Si tratta di un'arma segretissima. L'imperatore in persona mi ha
ordinato di celarla e trasportarla su Baros. Intimo la massima discrezione. Se dovesse trapelare la
notizia... be', sai quali sono le punizioni inflitte da sua maestà.”
Il kadaja impallidì e deglutendo giurò: “Sarò muto come un pesce zarthiano.”
“Lo credo bene. Allontanati.”
Il soldato si distanziò e Atkel-le attivò il dispositivo tastando un punto preciso del disgregatore in
una sequenza simile al punto-linea del codice morse.
Ho quattro minuti esatti, rammentò adocchiando discretamente il comunicatore da polso su cui
era partito il conto alla rovescia.
“Qui il ponte di comando”, lo chiamarono. “Tutto bene, generale?”
“Tutto sotto controllo”, garantì Atkel-le. “Iniziamo ad avanzare verso il portale.”
“Non l'attendiamo, signore?”
“È di pubblico dominio la scarsa propensione all'attesa di sua maestà imperiale. Non voglio
essere responsabile di sue eventuali delusioni. Voi lo desiderate?”
“Assolutamente no.”
“Bene. Come da simulazione dobbiamo avanzare con prudenza. Programmate la velocità per
varcare il portale in... tre minuti da adesso”, comandò Atkel-le dopo aver scrutato il cronometro.
“Eseguito”, assicurarono dal ponte di comando.
“Arrivo”, esclamò il generale prima di chiudere la comunicazione.
Il cambusiere, intento a osservare quelle strane operazioni, cominciò a sospettare delle intenzioni
del comandante.
“Generale, quel timer che ha al polso...”
“Vieni, soldato, devo rivelarti una cosa.”
Il kadaja lo seguì dubbioso.
Atkel-le estrasse il fulminatore da battaglia e lo scaricò contro il cambusiere che perì all'istante.
Tanto, fra poco più di due minuti, saremo tutti ridotti in polvere.
L'apparizione del dodecaedro nella cambusa lo aveva condannato a morte.
Come da programma, tranne per un dettaglio dell'ultima fase, era filato tutto liscio. Il telepate era
riuscito ad avvisare gli umani che avevano costruito il disgregatore secondo istruzioni. L'arma aveva
viaggiato saltando fra innumerevoli sistemi stellari, sino a giungere in quello kadaja e ad occultarsi
in attesa che i fidati ne agganciassero il segnale e lo facessero riemergere all'interno della Xing-ne,
in una delle manovre più azzardate della storia imperiale. Ricomparire all'interno di un ambiente
chiuso, come quello di una stazione o di una nave stellare, era un'operazione complessa, destinata
spesso al fallimento. L'ultimo salto avrebbe dovuto condurre l'arma nell'hangar navette per consentire
al generale di fuggire in tempo. Probabilmente, dato che l'enorme cambusa era quasi del tutto vuota
per quello che si prospettava un breve viaggio, il matematico e l'addetto al calcolo di rotta avevano
optato per quella destinazione. D'altronde, materializzare il dodecaedro nell'hangar senza urtare altri
velivoli, avrebbe avuto del prodigioso. La scienza del puro teletrasporto, almeno nella galassia, era
ancora relegata al mondo della fantasia.
Era plausibile che la stiva degli alimenti fosse stata sempre il vero obiettivo. Una bugia per
quietare i timori del generale. Non c'era bisogno, pensò Atkel-le. Dovevate saperlo che mi sarei
sacrificato per la causa. Per una volta i congiurati erano stati fortunati. Con un altro comandante a
bordo, le paure per il misterioso dodecaedro apparso dal nulla, avrebbero bloccato la missione.
Un'attivazione automatica non avrebbe fatto detonare l'ordigno nell'esatto momento del passaggio
della nave nel portale. La presenza di Atkel-le si era rivelata indispensabile.
Il generale guardò il polso.
Diciannove secondi.
In quel momento, mentre buona parte della Xing-ne si era già immersa nell'accecante luce
prodotta dagli anelli, nella cambusa entrarono degli agenti di sicurezza per verificare cosa stesse
accadendo.
I due soldati videro il cambusiere a terra.
“Cos'è successo?”, chiese esterrefatto uno dei due.
Il generale fissò il cronometro. Segnava sette secondi. Quindi, alzando la mano destra, mostrò
cinque dita che nell'arco di un secondo si trasformarono in quattro e poi in tre.
Mentre un agente sgranò gli occhi, l'altro contattò il ponte di comando: “Fermate tutto!”, gridò.
“Come?”
“Indietro tutta!”, si sgolò l'agente mentre vedeva un solo dito alzato nella mano del comandante.
Fottiti, Khrun-le, fu l'ultimo pensiero del generale.
Il disgregatore, posto nella sezione di nave già dentro il portale, disattivò i propri costrittori
elettromagnetici permettendo alla singolarità di espandersi per un diametro di circa due metri, poi di
contrarsi in un punto infinitesimale a una velocità prossima a quella della luce e rimbalzare su sé
stessa con un'energia tale da percuotere lo spazio in tutte le dimensioni conosciute. La nave e il
portale si distorsero come se fossero stati colpiti da un enorme cannone a vibrazioni disarmoniche. Il
dodecaedro fu capace di estendere la torsione anche al tunnel spaziale che collegava il portale di
partenza a quello di arrivo, disintegrando entrambi in una frazione di secondo.
Da Kajda fu come vedere un potentissimo ordigno nucleare esplodere poco oltre l'esosfera.
Tutti coloro che stavano osservando le oloimmagini trasmesse dalle microcamere, compreso il
tiranno, rimasero sorpresi per l'intensità del bagliore. Gli addetti ai lavori compresero subito che
qualcosa fosse andato per il verso sbagliato. All'imperatore e alla comune gente servì che lo
scintillio si attenuasse per comprendere il tragico esito. Oltre alla nave, era scomparso anche il
portale, e questo non andava bene, affatto.
“Per la dannata alleanza! Cos'è successo?”, ruggì Khrun-le.
Qualcuno gli rispose ma, come era solito fare, il despota ignorò ogni parola. La sua mente era già
ostruita da pensieri di morte e di vendetta. Così si voltò in direzione del maggiore Zektel-le, il kadaja
che lo aveva assicurato più volte del buon esito dell'operazione.
Le belve di Vrandar-la avrebbero consumato un ottimo pasto.

Un barosiano, nel contemplare il cielo notturno, ebbe l'impressione di scorgere un fugace


bagliore. Un cattivo presagio nella sua cultura. Spaventato, corse verso il villaggio della tribù. Da lì
a poco si sarebbe parlato di profezie maligne. Mai più di quella volta la comunità avrebbe avuto
torto. L'esplosione di un portale cosmico, situato nel sistema stellare di Baros, l'aveva appena
salvata dall'estinzione.
Sette

“Ci sono novità?”


Fuller non sapeva cosa rispondere alla domanda di Campbell. Pochi giorni dopo la partenza
dell'arma, dentro di sé aveva iniziato a sentire un vuoto incolmabile. Ciò era dovuto al
deterioramento della sottorete neurale. Era come se qualcuno gli avesse portato via una parte di
anima, di cervello o qualcosa di simile. Era complesso spiegare una sensazione che nessun altro
essere umano aveva mai sperimentato.
“Ebbene?”, lo incalzò l'ammiraglio che lo fissava con lo sguardo di un lupo famelico.
I due uomini si trovavano in uno stanzino che l'ufficiale era solito utilizzare come il proprio
studio privato. Non stavano affrontando un colloquio formale, ma quando si aveva a che fare con
Campbell sembrava sempre di partecipare a una cerimonia solenne. Esclusa quella sensazione di
mancanza, l'ex capitano poteva dirsi guarito da quasi ogni malessere. Si giudicava più vigile, e gli
incubi erano svaniti da tempo. Anche chi lo conosceva aveva la percezione che stesse tornando
quello di una volta.
“Delle novità ci sono, ma non nel senso che intende lei.”
Il silenzio e lo sguardo dell'ammiraglio furono un invito a proseguire: “È come essersi
disintossicati, o ripresi dopo una sbornia e provare un senso di desolazione.”
“Le manca la voce nella sua testa?”
“È più complicato. Mi sento disabitato.”
“Può spiegarsi meglio?”
“Provi ad associare un cervello alla complessità di un'enorme megalopoli. È come se
all'improvviso tutti gli abitanti della città svanissero, con i loro ricordi, le loro esperienze, i loro
sogni.”
Campbell parve elaborare quelle dichiarazioni, poi disse: “So che i dottori non ci stanno
capendo molto.”
“È ovvio che sia stato vittima di una tecnologia troppo avanzata per essere individuata e
compresa.”
L'ammiraglio annuì, poi tentò di fare una delle cose a cui era abituato: motivare esseri umani.
“Lei si vede come una vittima, ma io la identifico come uno dei maggiori protagonisti del
compito più importante che l'umanità abbia mai affrontato.”
Campbell, convinto che Fuller non fosse altro che un mezzo degli alieni, si guardò bene dal
definirlo eroe.
“Ignoriamo l'esito della missione”, evidenziò Cassius.
“Non sapere è una delle peggiori angherie”, ammise l'ammiraglio. “Malgrado ciò, possiamo
provare un discreto entusiasmo per il fatto che non sia accaduto nulla di spiacevole.”
“A volte penso che ci abbiano usati come degli strumenti usa e getta.”
“Ma secondo lei è andata a buon fine?”
“Chi non lo spera?”
Senza l'ausilio di uno psicotrico, i fidati non sarebbero mai stati in grado di comunicare con i
terrestri in sicurezza. Se dopo la distruzione del portale l'imperatore fosse veramente caduto,
qualcuno fra i congiurati si sarebbe ricordato di avvertire gli umani tramite comunicatori warp
convenzionali.
Per quanto fantasioso e ingegnoso, senza la volontà di una specie aliena il genere umano sarebbe
annegato nell'oblio dell'attesa.
Otto

“È innegabile che qualcosa sia balzato sulla nave poco prima che esplodesse”, affermò uno degli
ispettori imperiali.
Khrun-le, seduto sullo scranno, tentava di prestare attenzione ai riscontri delle prime indagini.
Perdersi con la mente era più forte di lui. Al di là degli esiti dell'inchiesta, gli era chiaro che il
reticolo sarebbe rimasto compromesso per un tempo indefinito e, per un tiranno che pazientava da
una vita per la conquista definitiva, risultava inaccettabile doverla rinviare di decenni. La sua sete di
potere aveva toccato un livello insoffribile. In una maniera o nell'altra avrebbe dovuto soddisfarla.
Non poteva più attendere. E poco gli importava di quello che avrebbero suggerito consiglieri e
generali. Forse non sarebbe mai riuscito a spostarsi istantaneamente da un punto all'altro della
galassia, ma la sua flotta aveva raggiunto dimensioni e livelli tecnologici spaventosi. Anche dopo la
distruzione dell'ammiraglia capitanata da Atkel-le, la potenza di fuoco restante gli avrebbe permesso
di schiacciare qualsiasi nemico.
Riconcentratosi sull'assemblea senatoria, gli parve sciocco dedicare tutto quel tempo a discutere
i particolari dell'emersione dell'arma che aveva rovinato i suoi piani. Che importanza poteva avere
se la maledetta bomba a vibrazioni disarmoniche si fosse attaccata a prua anziché a poppa? C'era chi
affermava si fosse insinuata nei motori e chi direttamente nel portale, ma a nessuno venne in mente di
un ambiente all'interno della Xing-ne; tanto meno che potesse essere stata lanciata dalla Terra. Era
logico che strateghi e scienziati volessero conoscere i dettagli per capire contro chi o cosa avevano a
che fare. Eppure Khrun-le li detestava proprio per questo, così come odiava i senatori: kadaja
arrivisti a cui aveva concesso ricchezza e potere in cambio di favori, fra cui il più importante era
quello di illudere il popolo che un organo eletto tutelasse i suoi interessi; un'istituzione che aveva ben
poco di democratico; divenirne membro era possibile solo per mezzo di elezioni effettuate tra kadaja
di rango senatorio, e per risultare tale un individuo doveva essere figlio di un senatore o aver
ottenuto la candidatura per decreto imperiale, il quale poteva anche assegnare direttamente lo status.
Khrun-le li stava biasimando per l'assenza di perspicacia verso una situazione che gli appariva
cristallina: uno dei maggiori gruppi di terroristi, certamente quello dei fidati, in combutta con
l'Alleanza aveva utilizzato e implementato una bomba a tecnologia kadaja per minare la solidità
dell'impero. Ma egli era più forte e risoluto di quello che i nemici pensassero. Non avrebbe
permesso a nessuno di metterlo in discussione e negargli la vittoria finale. Poveri idioti, pensò, mi
avete persino stimolato ad accelerare i tempi. Vi siete condannati a morte prima del necessario.
“Pur disponendo di migliaia di inquadrature delle microcamere, non siamo riusciti a individuare
il momento in cui l'arma è apparsa. Ma la traccia di un salto iperspaziale nei pressi della Xing-ne è
innegabile”, ribadì l'ispettore.
Innegabile, innegabile, ripeté mentalmente Khrun-le del tutto spazientito. L'unica cosa innegabile
era che i responsabili avrebbero pagato con la vita.
“Abbiamo inteso”, tuonò il despota.
L'assembla tacque. Era raro che i suoi membri osassero muovere contestazioni. L'ultimo senatore
che si era opposto pubblicamente era scomparso; nessuno ne aveva avuto più notizie e mai ne
avrebbe avute, poiché era stato rapito nel sonno e trascinato nella base ricevente di un impianto
jrank-ne. Il raggio laser in arrivo da una delle lune lo aveva atomizzato istantaneamente.
“Veniamo alle esecuzioni”, stabilì il tiranno eccitato. Con il fine di appagare la sensazione di
potere dei senatori, sovente permetteva loro di votare la modalità con cui infliggere pene capitali ai
traditori e agli attentatori. Di competenza della magistratura erano soltanto i reati fra semplici
sudditi.
Per il compiacimento di Khrun-le, l'assemblea votò l'impiego delle belve di Vrandar-la. Non
c'era tecnologia o metodo più efferato per porre fine alla vita di un kadaja. Le enormi bestie
ricordavano le tigri terrestri, ma erano grandi come elefanti africani e disponevano di un vello glabro
color malva, spesso un pollice e duro come una corazza di acciaio. Animali che avrebbero potuto
divorare un kadaja in un sol boccone e che invece, se chiusi in grandi gabbie, amavano giocarci come
se fossero bambole di pezza, per divorarli poi a partire dalle gambe. Un processo che assicurava alle
vittime una lunga e dolorosissima agonia a cui avrebbero preso parte il responsabile maggiore
Zektel-le e un noto oppositore politico che aveva insultato platealmente l'imperatore. Dopo l'evento
dei portali era logico supporre che sarebbero stati i primi due di una lunga lista.
Discusso l'ordine, Khrun-le si congedò e si diresse verso l'anticamera dei suoi appartamenti ove
lo stavano attendendo il generale supremo delle forze armate e il capo del primo dipartimento della
polizia imperiale. Avrebbe avuto da discutere con entrambi. Gli oppositori stavano cercando di
aizzare il popolo facendo leva sul tragico fallimento del reticolo. Una gigantesca nave distrutta, un
piano di conquista decennale andato in fumo e migliaia di famiglie umiliate per la perdita dei propri
cari, erano delle questioni estremamente delicate. Per la cultura kadaja morire in divisa senza
combattere rappresentava un grande disonore, al pari del suicidio.
Compito del capo della polizia sarebbe stato quello di reprimere ogni focolaio di protesta nella
capitale e applicare una politica di terrore. Il tiranno non si sarebbe mai piegato e avrebbe altresì
rafforzato la propria immagine. I reparti speciali avrebbero invece dato la caccia ai fidati. Una volta
catturati, i terroristi sarebbero andati incontro a una tale sorte che, da allora in avanti, la pena delle
belve di Vrandar-la sarebbe stata intesa come misericordiosa.
Con il generale si doveva invece esaminare un nuovo piano di conquista; meno elegante, più
convenzionale, ma davvero risolutivo.
Mi avete sfidato, pensò Khrun-le rivolto all'Alleanza. Ne pagherete le conseguenze.
Nove

Nel maggio 2192, l'ammiraglio Campbell, di concerto con le massime autorità militari e
governative, decise che persistere nel confinare i superstiti delle due navi sarebbe stato perverso e
crudele. Il momento di ricongiungerli ai propri cari era maturo. Persuadere e aiutare una persona a
mantenere il massimo riserbo su questioni segretate, appariva affrontabile e plausibile. Tuttavia,
riuscirci con una sessantina di individui che dovevano essere morti nello spazio da decenni, era ben
altra faccenda. Risultava inevitabile supporre che alcuni di loro sarebbero stati riconosciuti o
inquadrati da una tra i miliardi di olocamere installate per le strade del mondo. Immaginare di
obbligarli agli arresti domiciliari per tutta la vita era fuori questione. Tanto valeva mantenerli
relegati nel sottosuolo. Illudersi poi di poter costringere tutti i loro parenti alla discrezione assoluta,
sarebbe stato come convincersi di poter annientare l'impero kadaja tirandogli addosso coriandoli.

Prevenzione fu la parola chiave della riservatissima oloconferenza presenziata da Daisuke Sato,


il secondo Presidente degli Stati Uniti d'America di origini asiatiche. In collegamento vi erano il
direttore dell'FBI, l'ammiraglio Campbell, il professor Belfort e i Segretari di Stato, della Difesa e
della Sicurezza Interna.
“Nostro compito è quello di eludere la maggior quantità di critiche che ci pioveranno addosso”,
chiarì subito Sato.
“Visualizzeremo ogni loro movimento, ascolteremo ogni singola parola. Li controlleremo persino
al cesso”, affermò il direttore dell'FBI con una buona dose di esaltazione.
“Lo faremo”, confermò il presidente. “In ogni caso ribadisco l'esigenza di fornire risposte
plausibili alle numerose osservazioni che dovremo combattere.”
“Bisogna andare oltre”, intervenne l'ammiraglio. “Evitare che quelle domande siano poste.
Anticiparle fornendo spiegazioni dapprincipio.”
“Più facile a dirsi che a farsi”, sottolineò il Segretario di Stato.
“Per questo Richard è qui”, ricordò Campbell.
“Professore?”, lo invitò a parlare Sato.
Belfort si schiarì la gola, quindi spiegò: “Daremo la colpa a una stringa cosmica, ossia a una
regione anomala di spazio in cui le comuni leggi della fisica non sembrano avere senso.”
“Intende dire che dovremo convincere il mondo che entrambe le navi siano finite in questa...” Il
Segretario di Stato s'interruppe, alla ricerca della parola giusta.
“Stringa cosmica”, lo aiutò il professore.
“E avrebbe comportato cosa? Il ringiovanimento dell'equipaggio?”
“Avrebbe impedito ai cosmonauti d'invecchiare”, lo corresse Belfort. “Per loro il tempo sarebbe
trascorso più lentamente. Dopotutto, signori, non si tratta di una bugia. È quello che accade all'interno
delle sfere.”
“Al posto di globi alieni parleremo di naturali stringhe cosmiche che hanno procurato delle
anomalie spazio-temporali”, sintetizzò Campbell.
“Dovremo spiegare agli addetti ai lavori come i prodigiosi cosmonauti siano riusciti a uscirne”,
evidenziò il Segretario alla Difesa.
“Per mezzo di impulsi emessi dai deflettori”, affermò il professore.
Il Segretario alla Sicurezza espresse i propri timori: “I profani se ne convinceranno, ma gli
esperti?”
“La teoria è stata sviluppata dalle migliori menti. Faremo in modo tale che scienziati rinomati ci
sostengano.”
I presenti elaborarono la risposta in silenzio, poi il direttore dell'FBI osservò: “Trovo curioso
affermare che entrambe le navi siano finite in questa stringa.”
“Meno di quello che crede”, rispose prontamente Belfort. “Indicheremo la stringa come una
distesa assai ampia, se paragonata alle dimensioni di un'astronave. La Deep e la Nexus, almeno
ufficialmente, anche se con modalità differenti, hanno percorso le medesime traiettorie. Persino le
problematiche tecniche che hanno anticipato la loro sparizione, sono sempre apparse similari.
Elementi che giocano a nostro favore.”
“Mi perdoni se continuerò a contestarla”, persistette il direttore, “ma devo accertarmi che anche i
giornalisti più accaniti siano messi a tacere.”
“Ben venga, siamo sulla stessa barca.”
“Se ascoltassi una storia del genere”, intervenne il presidente, “mi preoccuperei che l'anomalia
spaziale possa raggiungere la Terra e creare gravi danni.”
“I dati che divulgheremo dimostreranno che la distesa viaggia nella direzione opposta al sistema
solare”, garantì l'ammiraglio che aveva studiato la menzogna.
“Qualche sedicente astronomo non potrebbe puntare un telescopio nella direzione dell'anomalia e
riscontrare il nulla?”, chiese il Segretario alla Sicurezza Interna.
“Non sarà un fenomeno rintracciabile per mezzo di semplici osservazioni”, rispose Belfort.
Il direttore scosse la testa e obiettò: “Il sistema solare è disseminato di strumenti all'avanguardia
che consentono qualcosa di più complesso di una mera osservazione.”
“Sì, ma le nostre equazioni indicheranno come la stringa cosmica non alteri in nessun modo la
radiazione luminosa.”
“Quindi non si tratta soltanto di luce visibile, ma anche di raggi x e infrarossi?”
“Tutte le lunghezze d'onda della radiazione elettromagnetica. Dai raggi cosmici alle onde
elettriche. In sintesi è un fenomeno invisibile.”
“Mmh.”
Fra gli olocollegati nessuno fu in grado di nascondere il proprio scetticismo.
Sato pose il suo dubbio: “E neanche uno scienziato tenterà di operare o teorizzare metodi indiretti
per riscontrare l'anomalia?”
“Brancoleranno nel buio per molto tempo. Non abbiamo mai avuto a che fare con simili
fenomeni. Con le conoscenze attuali, il solo modo di rivelare una stringa cosmica sarebbe quella di
finirci dentro”, delucidò Belfort.
“La Deep e la Nexus non sono di esclusiva proprietà degli Stati Uniti d'America”, ricordò il
presidente. “Altre nazioni, compagnie private e la Galactic Fleet hanno cooperato per la loro
realizzazione. All'ingresso della Casa Bianca avrò la fila di gente che pretenderà di visionarle e
ispezionarle.”
“La Galactic Fleet è defunta”, puntualizzò Belfort.
“I vertici della Star Fleet si ricorderanno di esserne gli eredi”, replicò il Segretario alla Difesa.
“Non ci inventeremo una balla nell'affermare che la Deep Star sia andata distrutta”, osservò
Campbell.
“E chi avrebbe recuperato l'equipaggio?”
“Noi”, asserì l'ammiraglio.
“Dove?”
“Nel sistema solare, dopo che i superstiti hanno fatto ritorno con una nave compromessa.”
“E quelli della Nexus sarebbero riapparsi insieme a loro?”, fece derisorio il numero uno
dell'FBI.
“Assolutamente no!”, tuonò l'ammiraglio, stizzito dall'atteggiamento del direttore. “In un secondo
momento, è ovvio.”
“E allora perché li presenteremmo assieme?”
“Perché ci siamo presi del tempo per tutelare un gruppo di cosmonauti sconvolti e studiare il
fenomeno della stringa”, s'intromise Belfort.
Campbell scrutò attentamente le reazioni dei presenti. I loro volti non promettevano nulla di
buono.
“Come evitare che altri recuperino i diari della Nexus?”, volle sapere il presidente.
“I quanto-disk sono già sotto modifica”, garantì l'ammiraglio.
Sato scosse la testa. “Se scopriranno mai quello che stiamo facendo...”
“Ci accuseranno, come accade da secoli”, terminò Belfort. “È il gioco della politica.
Correggetemi se sbaglio, ma essere incolpati di qualche assurdo complotto, per voi dovrebbe essere
ordinaria amministrazione.”
La metà dei presenti sorrise, l'altra rimase impassibile.
“Più o meno, professore”, rispose per tutti il Segretario di Stato.
Il presidente fissò Richard Belfort, quindi lo interrogò: “In definitiva, quali reazioni si prevedono
dall'opinione pubblica, quali dai nostri partner e quali dalla comunità scientifica?”
“Io mi sento di parlare per quest'ultima”, chiarì il professore.
“Ci illumini.”
“Si spaccherà in due. Gli avversi ci tacceranno di aver diffuso delle teorie meramente
speculative, ma dalla nostra avremo veramente i cosmonauti della Deep e della Nexus. Test del
DNA, se ce ne sarà bisogno, placheranno ogni contestazione. Certamente sarà più facile accettare la
stringa cosmica che fantasticare il coinvolgimento in una guerra fra specie aliene.”
Il presidente e il direttore annuirono.
“Se non erro”, s'intromise il Segretario alla Difesa, “la matematica inerente l'anomalia spaziale
suggerirà che soltanto navigando all'interno della stessa se ne possano registrare gli effetti.”
“È ciò che ho detto”, confermò Belfort.
“Va bene, ma non c'è da temere che qualche agenzia spaziale o la Google Inc. della situazione
inviino delle sonde verso la stringa?”
“Improbabile. Dall'attentato di Marte i programmi spaziali languono. E le nostre equazioni
indicano che dopo un determinato lasso di tempo le stringhe possono mutare intensità e posizione.”
“Sa che le dico, professore? Questa vostra matematica, se spiegherà ogni cosa, sembrerà creata a
tavolino. Non le pare?”, contestò il numero uno dell'FBI.
“Ci abbiamo già pensato. Lasceremo delle lacune inerenti a questioni secondarie. In un modo o
nell'altro, tutti dovranno prendere atto della situazione. Negli ultimi decenni la scienza ha reso
possibile quello che fino a poco tempo fa sarebbe stato esagerato persino per un olofantasy. Vi
assicuro che sotto il profilo fisico-matematico, un motore ipergravitazionale è assai più incredibile
di una stringa cosmica.”
“E va bene!”, esclamò il presidente. “Direi che il professore ci ha detto tutto quello che
volevamo sapere.”
Gli olocollegati annuirono. Per quante obiezioni gli si muovessero contro, Belfort e l'ammiraglio
avevano sempre la risposta pronta. Se anche rischioso, poteva essere logico tentare di anticipare gli
eventi per incanalarli nella direzione desiderata.
“Procediamo su questa strada, signor presidente?”, chiese per tutti il Segretario di Stato.
L'uomo più potente d'America rispose con una domanda: “Vie alternative?”
Il silenzio che seguì bastò a fargli decretare: “Vada per la stringa cosmica.”
I partecipanti alla riunione si salutarono più o meno appagati, ma in realtà Daisuke Sato non era
per nulla felice della situazione. Insieme al suo entourage avrebbe dovuto fare gli straordinari su
questioni a cui si era sempre dedicato con scarso interesse. Il centro della sua politica era legato
all'economia e alla sanità. Anche se sussistevano delle colonie sparse nel sistema solare, queste
rappresentavano una esigua minoranza della popolazione umana. Nell'immaginario collettivo, per
quanto in molti sognassero avventure spaziali, la vita al di fuori della Terra era considerata ancora
per pochi eletti, spesso fomentati, raccomandati o super graduati. A seguito del grande attentato
marziano, nell'ultimo decennio le tematiche riguardanti l'esplorazione interstellare erano divenute
spinose.
Questa volta il presidente avrebbe necessitato dei migliori autori in circolazione per farsi
scrivere dei discorsi convincenti; e almeno due giorni di simulazioni in cui parte del suo staff
avrebbe interpretato il ruolo del giornalista rognoso. Ancora più scabrose sarebbero state le
rimostranze di coloro che avevano partecipato alla realizzazione del progetto Nexus. Più o meno
mezzo mondo, pensò disperato Daisuke. La sua presidenza stava filando troppo liscia per farsela
rovinare dalla venuta di maledetti alieni. E tuttavia non poteva di certo lamentarsi. Ogni mattina si
sentiva in dovere di ringraziare Dio che la Terra non fosse stata invasa e che quel benedetto
dodecaedro avesse spiccato il volo in sordina.
Dieci

“È stato un successo senza eguali”, constatò Egek-le, che poi amareggiato aggiunse: “Eppure non
riesco a gioirne.”
Dopo l'eclatante annuncio del tiranno sulla caccia aperta ai fidati, la cerchia dei congiurati aveva
deciso di abbandonare lo storico nascondiglio a favore di un rifugio più decentrato. Si trattava di un
ex impianto di riciclo delle acque bianche appena fuori la capitale.
“Come potreste, ministro?”, ragionò colui che era stato il responsabile della traiettoria del
disgregatore. “Le nostre aspettative sono state tradite. Nessuno fra le schiere dei rivoluzionari si è
mostrato abbastanza forte da colpire l'imperatore.”
“Gente che chiacchiera e nulla più”, criticò Egek-le. “Maledetti i kadaja che illudono gli altri e
sé stessi di un carisma e un potere che non possiedono.”
Fra i congiurati lo scoraggiamento si andava diffondendo come una sottile nebbia.
“E intanto il generale è morto”, proferì qualcuno.
“Suvvia, cerchiamo di essere più fiduciosi”, li spronò il matematico. “È da miserabili pensare
che il sacrificio di Atkel-le sia stato vano. A parte il legame che ci univa, era una delle pedine più
importanti. Senza di lui, accedere a tecnologie e armi avanzate sarà un percorso molto tortuoso.”
“Per questo siamo tristi”, disse uno di loro.
“Esserlo non è nello spirito kadaja. Il generale si è sacrificato per spianarci la strada. Per questo
glielo abbiamo permesso”, recriminò il ministro.
“Siamo sicuri che adesso la via sia più semplice?”, domandò un fidato mettendo in dubbio i
risultati conseguiti dalla distruzione del portale.
“È normale che gli squilibri interni non siano ancora visibili”, calcolò il matematico. “Khrun-le
ha un controllo assoluto. Ci vuole ben altro per destabilizzarlo nel breve termine. Chiunque osi alzare
un dito viene vaporizzato all'istante. In un simile scenario è difficile agire, ma l'ingente danno al
reticolo ha messo in discussione le sue mire espansionistiche.”
“È un fatto che gioverà ai mondi esterni e all'Alleanza, ma che non porterà cambiamenti su
Kajda”, affermò il ministro.
“Si sbaglia!”, esclamò il matematico.
“Si spieghi”, lo invitò Egek-le.
“Non s'illuderà che soltanto l'impero operi azioni di spionaggio?”
“Certo che no!”
Il matematico accennò un sorriso, poi riferì: “Gli zartha detengono una grande abilità e gli oaata
non sono da meno. È logico supporre che si siano goduti in diretta l'esplosione della Xing-ne e che
abbiano ringraziato chissà quale dio.”
“E con questo?”
“Con questo, se non sono stupidi, avranno capito che è il momento di organizzarsi per sferrare un
attacco all'impero. Per quanto Khrun-le non lo ammetterà mai, sta attraversando un momento di
debolezza.”
“Ne siete davvero convinto?”, domandò il ministro perplesso.
“Ha perduto una delle navi da guerra più importanti, è impegnato a riassettare i vertici della
flotta e a rinforzare la sua autorità. Se c'è un momento adatto per colpirlo, è adesso.”
“Sì, ma non credo che l'Alleanza sia in grado di muoversi tanto velocemente.”
“Dispone dei cancelli”, ricordò uno degli astanti.
“Attraverso cui dovrebbe passare una flotta immensa”, rifletté a voce alta Egek-le.
“Impiegherebbero meno di quello che si possa immaginare”, asserì il matematico.
“Non è in discussione la loro possibilità di giungere qui in brevissimo tempo”, replicò il
ministro. “La questione è: sono in grado di affrontare undici navi classe Xing-ne equipaggiate con
ipercannoni a vibrazioni disarmoniche? Saranno capaci di superare gli oltre mille pattugliatori
automatizzati che difendono il nostro mondo?”
“Non devono vincere la guerra, ma provocare danni sufficienti perché l'imperatore si trovi in una
situazione di emergenza e venga tradito, destituito, giustiziato, esiliato, fate voi.”
“Finché penseremo soltanto a destabilizzarlo, falliremo”, esordì Prent-le, esperto di
comunicazioni criptate. “Bisogna pensare di annientarlo senza pietà per porre fine al suo regno.”
“In linea teorica è semplice. Ma in pratica, cosa suggerite?”, domandò Egek-le.
“Un sodalizio con civiltà di extrakadaja.”
“Con gli alieni?”, s'interrogò il ministro come se avesse udito un'assurdità.
“Perché no? Non sarebbe la prima volta. Abbiamo i medesimi obiettivi.”
“Gli extrakadaja ci odiano tutti, indistintamente. Se ne fossero in grado polverizzerebbero l'intera
luna su cui abitiamo.”
“Questo sarebbe il credo di un alieno qualunque, un essere stolto dei bassi ranghi del popolo. Al
contrario, una mente brillante intuirebbe la convenienza di un patto volto all'eliminazione di Khrun-
le.”
“Se ci sfuggisse la situazione, invece che liberi, ci ritroveremmo assoggettati a una razza aliena.”
“Agiremo con intelligenza. Oramai abbiamo avviato una nuova epoca.”
“Quale?”, gli chiese il matematico.
“L'era in cui non si ha più paura nell'osare contro il persecutore”, rispose Prent-le con trasporto.
Il ministro lo guardò sfregandosi il mento, poi accigliato disse: “Ritengo improbabile l'esistenza
di una specie che voglia collaborare.”
“Me ne sono già occupato io”, riferì Prent-le elettrizzato. “Il gruppo dei fidati è ben voluto in
molti dei mondi extrakadaja.”
Fra i presenti, in tanti annuirono.
“Avreste dovuto consultarmi”, li ammonì Egek-le.
“Bell'azzardo!”, esclamò il matematico con una nota di compiacimento.
Il ministro sbuffò, quindi volle sapere: “Con chi avremo a che fare?”
“Con il nuovo Dominatore di Erothe”, rispose Prent-le.
“Il suo nome?”
“Pil.”
Undici

“È una fesseria!”, esclamò la first lady.


Anche se i detrattori gli imputavano di aver sposato Lisa Klink per l'esorbitante patrimonio che
gli aveva assicurato una grande campagna elettorale, Sato l'amava sinceramente e considerava le sue
opinioni con tanto rispetto da esserne spesso influenzato. La trentanovenne originaria del Nord
Dakota era l'emblema della donna imprenditrice di fine secolo. Laddove in molte si dedicavano alla
cosmesi o alla moda, lei aveva scelto l'agricoltura, fino a divenire una delle maggiori proprietarie di
grattacieli serra. Posti al centro di città come New York e Chicago, ospitavano centinaia di colture
prodotte per mezzo di un sistema più economico e sostenibile di quello tradizionale. La loro
diffusione, che risaliva già al secolo trascorso, era stato uno dei modi per risolvere la crescente
domanda di cibo legata all'aumento della popolazione mondiale. L'uso di acqua arricchita, il clima
controllato e l'assenza di pesticidi avevano finito per rendere le colture più apprezzate di quelle
lavorate a terra.
“Davvero una fesseria”, ripeté la donna di fronte al marito che, dopo anni di matrimonio, riusciva
ancora ad apprezzarne la bellezza. Mora, di carnagione e occhi chiari, esercitava un gran fascino
sulla maggior parte degli uomini.
“È per questo che bloccherò le idee di Campbell e Belfort”, affermò il presidente risoluto. “Ho
risentito i Segretari e mi hanno fatto capire a quale errore stessi andando incontro.”
“E tu ne sei convinto?”, volle accertarsi la moglie.
“Più di tutti voi”, rispose Daisuke afferrando il manico della padella su cui due uova al tegamino
avevano completato la cottura. I due coniugi erano soliti preparare e consumare la colazione insieme,
un rito che seguivano ogni volta che potevano e che amavano svolgere senza l'ausilio di robot. Era
una maniera per condividere le proprie questioni e sostenersi l'un altro. Fin da quando Lisa aveva
finanziato la campagna, i due avevano cominciato a vedersi come un team affiatato e vincente. Un
matrimonio basato sul rispetto e la condivisione di comuni passioni quali l'equitazione, la lettura e la
cucina.
“Come gli è venuta in mente una cosa del genere?”, si chiese la first lady, alimentando la sfiducia
del marito verso la resa pubblica del ritorno dei cosmonauti. “La Cerimonia sarebbe oggetto di
attentati della TEIOH, e in troppi inizierebbero a tramare sospetti che neppure possiamo immaginare.
Probabilmente scoprirebbero la verità o ne fantasticherebbero una peggiore. Avversari politici,
opinione pubblica e partner internazionali ti attaccherebbero senza alcuna pietà, sempre se
sopravvivessi al Congresso. Persino il gabinetto presidenziale e la comunità scientifica ti
creerebbero delle noie.”
“Mi farebbero passare la voglia di fare il presidente”, commentò l'uomo con un sorriso che
sapeva d'isterico.
“Nella migliore delle ipotesi rischieresti l'impeachment”, continuò la moglie.
“E nella peggiore condurrei il Paese verso il baratro, poiché anche nell'eventualità di riuscire a
schivare tutti gli ostacoli, perderei eccessivo tempo e distrarrei troppe risorse. Dopo la scalata della
Cina e della Super Lega Araba, la leadership mondiale americana è in discussione.”
“Anche l'India si sta rifacendo sotto.”
“Non me ne parlare, Lisa.”
Seguì un breve momento di silenzio in cui finirono di imbandire la tavola con succo d’arancia,
frutta fresca, cereali con latte freddo, toast imburrati, uova al tegamino, bacon fritto e pancake con
sciroppo d’acero.
Dopo essersi seduti, fu Lisa a riaprire il discorso: “Perché durante la riunione hai fatto intendere
di essere propenso a una simile soluzione?”
“Non volevo scontrarmi con l'ammiraglio e il professore. Il controllo di Campbell sulla base
New Test Site è totale. Ci sono stati presidenti che ne hanno sempre ignorato l'esistenza. Invece le
parole di Belfort godono di più risonanza mediatica rispetto a una mia eventuale dichiarazione di
guerra alla Russia. Così ho ripreso l'assemblea senza di loro.”
“Sentirai oggi l'ammiraglio?”
“Andrò personalmente alla base e spiegherò a Campbell il da farsi.”
“Non mi sembra uno sprovveduto. Capirà.”
“È un uomo testardo.”
“Che tuttavia si attiene alle regole. E tu sei il presidente. Farà quello che gli ordinerai.”
“Questo è certo.”
La donna esercitava un gran controllo sul marito. Avversari politici e alcuni giornalisti
asserivano da tempo che il vero presidente fosse Lisa Klink.
“Una volta date queste disposizioni, potrai rasserenarti. Il tuo governo correrà meno rischi se
qualcuno dei cosmonauti sarà visto o addirittura intervistato. Alla gente piace speculare su cloni,
alieni e androidi. Qualunque cosa accadrà, si alimenteranno soltanto le voci su questi misteri.
L'industria dell'intrattenimento sulle teorie degli antichi astronauti aumenterà il proprio fatturato. La
gente è superstiziosa per natura.”
A Daisuke sembrava che Lisa avesse ragione su ogni punto, quindi riferì le sue intenzioni: “Alla
base parlerò con ognuno dei sopravvissuti. Li convincerò a tenere la bocca chiusa.”
“Intendi liberarli?”
“Non verranno mai consegnati alla storia per le loro imprese, ma soltanto per essere periti come
degli sprovveduti, vittime dell'incapacità dei propri simili. Non sussisterà alcuna cerimonia per loro.
Devo almeno concedergli di riabbracciare un proprio caro e riassaporare assaggi di vita e libertà.
“Se non ricordo male, erano stati selezionati degli individui privi di vincoli affettivi.”
“Non avere un compagno o un figlio non equivale a essere soli al mondo.”
Lisa ponderò che il marito avesse ragione. Pur mettendolo in guardia, avrebbe appoggiato il suo
proposito.
“Come li persuaderai a renderti la vita facile?”
“Gli farò intendere che qualunque imprudenza costerà loro la libertà. Sono degli astronauti e
immagineranno come saranno sorvegliati da micro-droni stealth.”
“A volte sai essere diabolico”, disse lei compiaciuta.
L'uomo fece suo quello che interpretò come un complimento, quindi proseguì: “Alle minacce
seguiranno gli encomi. Li celebrerò come dei grandi eroi che purtroppo dovranno nascondersi da un
mondo che non è ancora pronto a raccogliere l'esistenza di civiltà extraterrestri, tantomeno quella
kadaja.”
La moglie, che lo aveva ascoltato con attenzione, deglutì del pancake, quindi osservò: “Come
convincerai i loro parenti? Un fratello o una madre potrebbero sempre divulgare la notizia.”
“Se ne occuperanno unità speciali di agenzie governative”, rispose prontamente Sato. “I
cosmonauti saranno reintrodotti nella società con identità diverse e in posti distanti dai loro luoghi di
origine. Sarà il governo a guidare il primo incontro con un membro della loro famiglia.”
“Assomiglia a un avanzato programma di protezione testimoni”, commentò Lisa, soddisfatta delle
intenzioni del marito.
“Lo è. Dobbiamo proteggere l'integrità degli Stati Uniti d'America.”
Un breve allarme acustico rimbalzò fra le pareti della cucina.
“Il caffè è pronto”, avvisò la voce della caffettiera automatica.

Dopo l'intenso diverbio, il rapporto fra Henry e Kate non era più lo stesso. Il medico aveva finito
per arrendersi e attenersi alle istruzioni dei superiori, nell'attesa che il trascorrere del tempo
lavorasse a suo favore. Chi aveva a che fare con la quanto-medicina possedeva la vera cognizione di
come nulla durasse per sempre. Per quante terapie anti-aging si potessero applicare, la medicina
terrestre non era capace di arrestare il processo d'invecchiamento dell'intero corpo umano. Superati i
centoventi anni, arginare la senescenza si mostrava quasi impossibile. E seppur prossimi a scoprire i
segreti dell'immortalità biologica, sarebbe bastato inciampare su un gradino e sbattere la testa per
diventare il protagonista indiscusso del proprio funerale. Il secondo principio della termodinamica e
l'entropia avrebbero posto fine a qualsiasi evento. Nel proprio delirio interiore, Henry era arrivato
ad aggrapparsi a taluni pensieri. Non gli piaceva dove si trovava, disprezzava il tipo di mansione a
cui era assegnato e detestava lo squilibrio che si era creato con Kate. Un vero disastro, almeno fin
quando la scalogna decise di prendersi una vacanza il giorno in cui il capo dell’équipe lo richiamò
nel suo ufficio. Sapeva di esserle poco simpatico. Se era venuta a conoscenza del sabotaggio, poteva
essere certo che non avrebbe mai più indossato un camice bianco, neanche da morto.
“Si sieda”, lo invitò la donna con tono acido. “Credo che ci siano buone possibilità che lei saluti
questo posto.”
Ecco. Addio carriera, addio Kate.
“Sato in persona sta venendo alla base”, lo avvertì senza giri di parole.
Dal suo ritorno sulla Terra, il medico non aveva mai avuto occasione e interesse di aggiornarsi
sul presidente in carica. Il nome di Sato non gli diceva proprio nulla.
Notando la scarsa reazione dell'uomo, il capo sillabò: “Daisuke Sato. Il Presidente degli Stati
Uniti d'America.”
Henry non credette alle sue orecchie. Di certo il residente alla Casa Bianca non si sarebbe
smosso per un dottore che aveva sabotato alcuni test di laboratorio.
“Che significa?”, domandò confuso.
“Significa che rivedrà la luce del sole.”

Continua
L'Ira di Khrun-le

Verso l'Infinito – Episodio VII

di
Gianluca Ranieri Bandini

Ebook protetto dal Digital Right Management


© 2015 Tutti i diritti riservati all'Autore
All rights reserved
Prima edizione novembre 2015
Uno

“Vi siete convertito al traduttore”, constatò Om'Imy.


“Adesso ricopro il ruolo istituzionale per eccellenza, darsi un tono è d'obbligo”, spiegò Pil
intento a esaminare l'arredamento dai toni chiari e dalle forme lineari. I mobili erano insolitamente
bassi per appartenere alla casa di un liyano.
“Siete un oaata molto scaltro.”
Om'Imy era noto per la sua diplomazia. Lo si poteva definire come il più famoso e rispettato
della comunità liyana di Erothe. Ex ambasciatore, il suo nome era celebre su ogni mondo
dell'Alleanza. Oramai anziano, i biondi capelli avevano perso il tipico splendore della gioventù. I
vecchi della sua specie raramente optavano per una tintura; l'esser canuti era segno di sapienza.
“Non è stata mia l'idea di infiltrarmi nell'operato del Consiglio”, ricordò l'oaata.
“Merito dei vertici dell'Alleanza.”
“Lì sì che ci sono degli individui astuti.”
“A voi piace fare fessa la gente”, affermò il liyano sorridente.
“Non mi permetterei mai”, si affrettò a controbattere il nuovo Dominatore.
“È un elogio, Onorevolissimo.”
“Mi chiami Pil.”
L'oaata detestava il riguardo esasperato che si aveva nei confronti del suo ruolo, come amava
poco le pareti bianche e i tessuti lisci che caratterizzavano l'appartamento di Om'Imy. Le scarse
decorazioni presenti avevano tutte una funzione concreta, come quella di oloproiettore o
appendiabiti. La mancanza di suppellettili non rientrava nei criteri di un nativo di Erothe.
“Lei è un tipo sobrio”, osservò Pil.
Il liyano non rispose e, a sua volta, porse una domanda che sviò il discorso: “E così vi hanno
eletto?”
Il Dominatore fece spallucce e rispose: “Se ti fanno passare per l'eroe che ha estirpato il male, è
probabile che la tua vita cambi.”
“In meglio?”
“Solo il tempo lo dirà. Lungi da me invidiare onorevoli ricchi e potenti e ambire al ruolo di
Dominatore.”
“Vi credo.”
Pil sapeva che Om'Imy l'avrebbe affermato anche se non fosse stato vero. Il passato da console lo
confinava inevitabilmente nella diplomazia.
“Perché ha chiesto d'incontrarmi con tanta solerzia?”
“Innanzitutto vi porgo le mie scuse da parte della comunità.”
“Le vostre scuse sono state diramate e accettate pubblicamente. C'è da dire che la maggior parte
delle responsabilità sono state della mia gente”, ammise l'oaata.
“Ognuno sa prendersi le proprie colpe.”
“Non le nostre, ma di coloro che rappresentiamo”, puntualizzò Pil.
“È meno differente di quello che si possa pensare.”
“Né io né lei ci troviamo in un bagno penale”, sottolineò il Dominatore.
Il liyano sorrise, poi, ritornato serio, offrì all'ospite del jet'rarh.
“La ringrazio, ma preferisco relegare i vini liquorosi alle feste.”
“Non sa cosa si perde”, commentò Om'Imy che mandò giù il contenuto del bicchiere tutto d'un
fiato.
“Qual è la vera ragione per cui mi trovo qui?”, pretese di sapere Pil.
“Vi dispiace seguirmi?”
“Loro verranno con noi”, ribatté il Dominatore indicando i suoi agenti di scorta. “Non posso
impedirglielo.”
“Mi pare ragionevole.”
Gli oaata seguirono il liyano fino alla sala più lontana dall'ingresso.
Pil si stupì nell'ammirare un laboratorio d'ingegneria olografica attrezzato di tutto punto.
“Ignoravo che si dilettasse con la tecnologia. La intendevo più come un appassionato di scienze
letterarie.”
“Intendevate bene.”
Che vuole dire?, s'interrogò il Dominatore.
“An'Issa”, chiamò il padrone di casa.
Da un recesso del laboratorio sbucò una giovane liyana. Pil e le guardie se la sarebbero ricordata
per sempre. Al contrario dei suoi simili aveva i capelli color ossidiana e gli occhi verdi come i
bottoni di giada erothiana degli antichi vestiti nobiliari oaata.
“Omaggiata della vostra presenza, Onorevolissimo.”
“Lei è il motivo della mia visita?”, domandò Pil alla liyana.
“La sua mente ne è la ragione”, chiarì Om'Imy.
“Ha dei poteri?”, chiese Pil dal tono appena canzonatorio.
“No, ma ha delle conoscenze di fisica e un'immaginazione tale che ne hanno fatto la direttrice del
nostro progetto più ambizioso.”
“Se mi avete convocato, deve trattarsi di qualcosa di sbalorditivo.”
“Potete starne certo. Ed è anche grazie ai mezzi che ci avete concesso per continuare a fare
ricerca.”
“La mia gente ha sempre convenuto che fosse vantaggioso finanziare gli inventori dei cancelli.”
“Semplici manutentori”, evidenziò Om'Imy. “I veri creatori sono morti da tempi immemori.
Tuttavia, ci troviamo all'alba di una nuova rivoluzione tecnologica.”
“Dimostratelo”, lo sollecitò Pil.
Il liyano indicò la ricercatrice che esclamò: “Navi di terzo livello.”
Il Dominatore si girò verso le guardie per capire se avessero cognizione di cosa si trattasse. Gli
sguardi vacui confermarono l'estraneità a quella tecnologia.
“Possono accedere ad altre dimensioni della realtà e attraversare la materia del primo livello al
pari di fantasmi”, chiosò An'Issa mentre veniva proiettato l'ologramma di una nave.
“Perdonatemi”, la interruppe il Dominatore, “ma ignoro cosa intendiate per livelli.”
La ricercatrice fece apparire le immagini fluttuanti di tre sistemi propulsivi, quindi spiegò: “Il
primo livello è quello relativo alla realtà in cui saremmo confinati senza tecnologia. Quella di ogni
giorno, ove per esempio operano i motori nucleari o ad antimateria. Con il secondo livello
indichiamo l'iperspazio in cui si muovono le navi a balzo come quelle kadaja o i nostri propulsori a
energia oscura. Infine, esiste una dimensione che interagisce con la realtà ordinaria solo
parzialmente. Abbiamo deciso di chiamarla terzo livello.”
“Siamo certi di essere i primi ad avervi avuto accesso”, asserì Om'Imy entusiasta.
“Quali sono i vantaggi di navigare nel terzo livello?”, domandò Pil.
L'esperta di fisica fece materializzare la simulazione di un combattimento spaziale, poi illustrò:
“Come vedete, pur essendo invisibili al nemico si riesce a osservarlo nella sua dimensione.”
“Un occultamento sofisticato”, commentò l'oaata.
“Molto di più”, garantì An'Issa. “Un oggetto occultato, grazie a metodi indiretti, può essere
scoperto e colpito poiché la materia continua a esistere. Invece, una nave di terzo livello appartiene a
un'altra dimensione. In pratica non si trova nel mondo ordinario.”
“Ora capisco perché ha menzionato i fantasmi”, ragionò Pil.
“L'eccezionalità è quella di poter saltare a piacimento da una dimensione all'altra”, disse il
liyano eccitato. “Potremmo collocare un'intera flotta di fronte al Kanth-Vahal senza che venga
intercettata.”
“Spazzare via il nemico nel giro di pochi secondi”, rincarò An'Issa.
“La propulsione è superluminale?”, li interrogò Pil.
La studiosa rispose prontamente: “L'impiego dell'energia oscura e dei motori a buchi neri
comprometterebbe la permanenza nel terzo livello.”
“Potreste utilizzare la nostra tecnologia”, propose il Dominatore, conscio di come le navi oaata
disponessero di alimentazioni alternative.
“Non è adattabile”, chiarì subito An'Issa. “La costruzione deve partire da zero. I motori saranno
realizzati con la tecnologia terrestre. Abbiamo avuto modo di studiare i propulsori ipergravitazionali.
Nel nostro caso risultano essere i più compatibili.”
“Quindi abbiamo la soluzione a tutto”, concluse Pil strofinandosi le mani.
“Non mi ha fatto la domanda più importante”, lo pungolò la ricercatrice.
L'oaata si accigliò, quindi chiese: “Il vostro progetto è relegato alla teoria o si trova già in una
fase più avanzata?”
“Se ci farete accedere ai migliori cantieri di Hok't, le costruiremo in pochi mesi.”
“Meraviglioso”, valutò Pil.
“Comunque An'Issa si riferiva a un'altra questione”, evidenziò il liyano.
“Quale?”
“Le navi di terzo livello sono in grado d'attraversare i cancelli?”
“Se non lo fossero riterrei questa discussione davvero sciocca”, rimbeccò il Dominatore
infastidito.
“Avete ragione, Pil”, intervenne l'ex ambasciatore che in realtà ignorava la risposta.
Rassicurato da Om'Imy, l'oaata riferì le sue intenzioni: “Giacché sono stato eletto per governare
secondo le regole, farò in modo tale che venga convocata dall'Alleanza un'assemblea urgente.
Dovremo esporre il progetto del terzo livello molto dettagliatamente. Domani mattina partiremo alla
volta di Zarth.”
“A che ora?”, volle sapere Om'Imy.
“Verrete svegliati all'alba. Portate tutto l'occorrente, compresi altri liyani, se necessitano.”
“Bastiamo noi”, affermò An'Issa con vigore.
“Bene, a domani”, salutò il Dominatore che venne accompagnato alla porta.
Rimasti soli in casa, Om'Imy irruppe con una certa apprensione: “Le navi di terzo livello possono
varcare gli anelli dei cancelli, non è vero?”
“State tranquillo.”
“Se mi regalaste un sì...”
“Emergeremo dal cancello più vicino a Kajda e disgregheremo il Kanth-Vahal a suon di laser.”
Il liyano si rasserenò, poi deviando il discorso disse: “Si è fatto troppo serio.”
“Vi riferite all'Onorevolissimo?”
“Sì, lo conosco da prima che lo diventasse. Era più simpatico.”
“Cosa intendete?”
“Avete presente un oaata che parla liyano?”
“Ya ya. Orriendo”, rispose la ricercatrice sghignazzante.
Due

Jack Cabot era stato il primo a essere convocato dal presidente che, con estrema pazienza, aveva
deciso di dedicare tempo a ognuno dei cosmonauti. Isolarli per evitare che facessero fronte comune
era stato un diktat.
L'ex comandante si era sorbito fiumi di parole sfociati in mari di encomi, paure, responsabilità e
minacce. Obbligato per anni nella sfera, Cabot aveva imparato a riconoscere le emozioni umane più
recondite. L'uomo di fronte a sé stava sciorinando un discorso preparato a tavolino, senza cuore,
privo di alcun interesse.
“Ho capito”, lo interruppe Jack che aveva smesso di seguire il soliloquio di Sato. “Terrò la
bocca chiusa.”
“Sono contento che abbia inteso.”
“Potrò rivedere i miei compagni?”
“No, mi spiace. Violerebbe il sistema di protezione a cui sarete sottoposti.”
“Vorrà dire di spietata sorveglianza?”
Daisuke sospirò, poi con voce garbata provò a calmare l'ex capitano: “So che le mancheranno gli
uomini della Deep, ma...”
“Non c'entra nulla la Deep. Si tratta della Nexus e di una donna.”
“Dovrà dimenticarsene”, gli intimò Sato appena fiutò rischiosi legami sentimentali.
“Peccato”, bisbigliò Cabot. “Linda mi piaceva, anche se discutevamo spesso.”
“Allora sarà più agevole scordarla.”
Interpretandolo come l'ennesimo sciocco commento di un uomo che desiderava sbrigare le sue
faccende senza avere la cognizione e il minimo interesse di cosa stessero provando i sopravvissuti,
Cabot esplose: “Lei non sa proprio un cazzo, signor presidente.”
Sato sgranò gli occhi e spalancò la bocca come se fosse stato vittima di un pugno allo stomaco,
quindi risentito minacciò: “Potrei farla processare per oltraggio.”
Jack lo fissò per un attimo, poi sbottò in una risata che probabilmente non si faceva dagli anni
Trenta.
“Le ha dato di volta il cervello?”, lo rimbrottò il presidente più stupito che offeso.
“Parla di lei?”, gli rispose l'uomo ancora sghignazzante.
Daisuke, inviperito, si alzò dalla sedia con tale veemenza da ribaltarla, poi collerico dichiarò:
“Voglio fingere di non aver sentito. Meglio che vada, prima che lei si rovini.”
Udendo quelle parole, Cabot si rifece serio e a gran voce urlò: “E mi sbatta in galera?”
Lo sguardo di Sato fece intendere che avesse cominciato a ponderare quell'eventualità.
“Sveglia!”, gridò Jack. “Io già ci sono in galera.”
Con i pugni chiusi e una voce controllata a stento, il presidente controbatté: “Le ho appena offerto
la libertà.”
“Grazie tante.”
“Qual è il suo problema, Jack?”
L'ex comandante spalancò le braccia come se davanti a sé avesse il più grande idiota della storia
umana, quindi replicò: “Noto che la perspicacia non fa più parte di questo mondo. Quando lei è nato,
la Deep era scomparsa da più di un decennio. Lei mi ha parlato di rivedere parenti e cose simili.
Andremo a fargli visita all'ospizio o direttamente al cimitero?”
“La longevità...”
“No, la prego, mi risparmi di presentarmi un vecchio decrepito nel corpo di un ragazzino o un
essere che sembra un robot. Le terapie anti-aging c'erano già ai miei tempi, cosa crede? Ricordo mio
nonno. Aveva la pelle di un bambino, ma la sua mente no, era rimasta quella di un povero anziano in
preda alla demenza senile.”
“Non starò qui a convincerla”, riferì Sato che non aveva voglia di avvelenarsi il sangue
ulteriormente. “Ho ancora una sessantina di persone a cui dare la grande notizia. Sono certo che al
contrario di lei apprezzeranno.”
“Davvero? Mi dica: i kadaja sono stati sconfitti?”
Colto impreparato, Daisuke rimase in silenzio.
“Vede? Lei non sa proprio un cazzo.”
Tre

La vendetta era stata pianificata. Il tiranno non si sarebbe quietato fin quando non avrebbe visto
l'Alleanza in macerie. Le manipolazioni genetiche, gli impianti di organi sintetici e i nanorobot
immunitari, per un imperatore kadaja erano sinonimi di longevità; ma nessuno poteva garantire una
lunga sopravvivenza o l'immortalità: attentati, incidenti, calamità naturali e l'insorgenza di virus
sconosciuti potevano spezzare l'esistenza in qualunque momento.
A un passo dalla realizzazione di un'attesa lunga una vita, tutto era sfumato improvvisamente;
insoffribile per l'imperatore. Ripristinare il reticolo sarebbe stato un processo interminabile e
dispendioso. C'era chi parlava di decenni e chi menzionava i secoli. Se i terroristi e gli alleati erano
arrivati a distruggere un portale e l'ammiraglia, era probabile che sarebbero riusciti a spedire
l'imperatore nella tomba molto prima che egli ridisponesse dello spostamento istantaneo. Khrun-le ne
era cosciente e non voleva morire prima che la storia lo incoronasse come il più grande
conquistatore di ogni epoca. Accecato dall'ira, lungimiranza e raziocinio erano evaporati. Al tiranno
non interessava più annettere civiltà e operare con attacchi chirurgici. Avrebbe fatto alzare nei cieli
ogni Xing-ne a sua disposizione, mentre il resto della flotta e dell'esercito avrebbero assicurato la
protezione di Kajda.
Il tiranno sarebbe partito insieme al suo generale, verso gli antipodi della galassia, in un viaggio
lungo nove mesi, sfruttando al massimo l'efficienza dei propulsori. Sotto i suoi comandi, i cannoni a
vibrazione avrebbero abbattuto migliaia di agglomerati urbani distribuiti in sei sistemi stellari,
facendogli così seguire le stesse sorti di Liy'n. E poco male, pensava il despota, se i kadaja
subiranno gravi perdite e se al posto di floridi pianeti si ritroveranno con un pugno di sabbia. A
quel punto lo spazio che conta apparterrà all'impero. Le generazioni future riedificheranno i
pianeti kajdaformandoli8. Poi verrà il tempo di godere nell'amministrare altre razze, meno evolute
e meno problematiche, come quella barosiana.

I frammenti di due Xing-ne erano disseminati lungo l'intera costa nord del più grande continente
zarthiano. Attorno al pianeta, sede dell'Alleanza, orbitava una flotta kadaja più che dimezzata.
“Cos'è questo scempio?”, domandò l'imperatore poco dopo il suo ingresso nella calotta cinque
dell'Accademia.
“Non è come sembra, sua maestà”, spiegò prontamente il capo addestratore Frintor-le. “Su tutto
Zarth non è rimasto in piedi un edificio degno di nota.”
“Perdite eccessive per un solo pianeta”, lamentò il tiranno.
“Era l'ultimo della serie.”
“L'ultimo?”
“Erothe non esiste più”, affermò con soddisfazione il capo addestratore. “Oltre duecento Wing-ne
distrutte e venti miliardi di caduti fra le popolazioni nemiche.”
“Dunque, abbiamo vinto”, constatò Khrun-le ancora dubbioso.
“Sì, maestà.”
“Con quale grado di difficoltà?”
“Livello nove.”
“Esistono solo otto livelli”, ricordò l'imperatore stizzito.
“Ne abbiamo creato uno nuovo. Si tratta dello scenario peggiore che potremmo mai affrontare.”
Recepita l'informazione, il tiranno gongolò e quindi asserì: “Il nemico non ha speranze.”
“Nessuna, maestà.”
Khrun-le sorrise di gusto. Non rimaneva altro che salpare e lasciare la capitale in buone mani. Il
capo della polizia avrebbe fatto le sue veci. Era un kadaja tutto d'un pezzo, ligio al dovere e
imperialista convinto. Un vero fanatico delle armi e delle regole. Avrebbe ripulito Kajda dalla feccia
fidata. L'imperatore non aveva mai ritenuto opportuno lasciare il trono sguarnito, ma osservare le
proiezioni olografiche dei nemici agonizzanti non avrebbe sedato la sete di vendetta. Sarebbe partito
insieme alla sua flotta, come gli antichi conquistatori in groppa agli antrar-la9. Soltanto l'odore di
morte e di terra bruciata avrebbe appagato i suoi sensi.
Con sguardo demoniaco, Khrun-le decretò: “È ora di portare in giro un po' di sana cultura
kadaja.”
Quattro

Bruce Wade, teleconsulente medico, sorriso smagliante, pelle vellutata e sguardo magnetico.
Henry studiava l'immagine olografica di sé stesso. Avevano fatto un buon lavoro, nulla da eccepire. I
denti erano perfettamente allineati, il naso disegnato da un artista, l'epidermide priva di imperfezioni
e il taglio degli occhi assai accattivante. Persino la voce possedeva qualcosa di più suadente.
Operazioni da almeno centocinquantamila credit che lo avevano reso un adone. Al suo posto in molti
avrebbero festeggiato, ma non lui. Si era sempre piaciuto come mamma lo aveva messo al mondo. In
un'epoca in cui le modificazioni corporali andavano di moda, mantenere il proprio corpo al naturale
gli sembrava la vera trasgressione. Nelle sembianze di Bruce Wade si sentiva violentato o, ancora
peggio, morto. Nessuno lo aveva costretto con la forza. Avevano soltanto fatto intendere come fosse
la sola via per la libertà. Un treno da prendere al volo, poiché non sarebbe più passato, a detta del
presidente Sato. E trascorrere il resto della vita a effettuare immonde manipolazioni genetiche lo
orripilava più di qualunque altra cosa; finire a prestare teleassistenza al paziente di turno in
un'abitazione a oltre mille miglia dalla famiglia, non era granché, ma pur sempre meglio del
sottosuolo. Non avrebbe mai più rivisto gli uomini della Nexus. Poco male, pensò. Non era mai stato
legato sentimentalmente a quella nave o allo spazio. Neppure ai compagni, fatta eccezione per
quell'astrobiologa di nome Kate che lo aveva stregato. L'amava profondamente, ma dal ritorno sulla
Terra il loro rapporto si era spezzato in una crepa che sembrava impossibile da riconsolidare.
Seppur diverso nei connotati, chi conosceva bene Henry, in quel Bruce avrebbe comunque
riconosciuto molto del dottor Davis. Nulla di così drastico, gli avevano spiegato, giusto il necessario
per ingannare qualche software di riconoscimento facciale.
Quando finalmente rivide la luce del sole, ebbe la sensazione che quello fosse il vero primo
rientro sulla Terra. Si era dimenticato quanto incantevole potesse apparire un cielo azzurro. Una
malìa che durò pochi minuti. Sapeva già come quella relazione terminata bruscamente, senza neanche
la possibilità di dirsi addio, lo avrebbe torturato per anni. Era stata proprio la Aniston a fargli
dimenticare Janet. Ora l'incubo si era raddoppiato. Insediato nella nuova casa, gli avrebbero
concesso di stringere qualche amicizia, di uscire la sera, di fare sesso con qualcuna e forse persino
di andare allo stadio. Lentamente, se non avesse fatto lo stronzo, parola usata durante il briefing sulla
reintroduzione in società, la sua vita avrebbe preso a scorrere verso orizzonti di normalità. Nel
complesso gli sarebbe potuta andare molto peggio, ma anche meglio.
Dannato il giorno che accettai l'incarico sulla Einstein II.

Una settimana dopo.

Un soggiorno con l'angolo cottura, una camera da letto e un piccolo studio attrezzato per
oloconferenze e teleassistenza medica. Una dimora leggermente diversa da quella che avrebbe
immaginato di vivere in quegli anni novanta. Era partito alla volta della Einstein II per comprarsi una
villa e mettere su famiglia. Era tornato senza un credit, due amori finiti malissimo, una carriera
buttata nel cesso, videosorvegliato da microdroni e l'incubo che potessero arrivare i kadaja da un
momento all'altro. Nessuno lo aveva più aggiornato circa gli alieni. Costretto nel laboratorio di alta
ingegneria genetica, ignorava persino il lancio del dodecaedro. In quei primi sette giorni di nuova
vita, il più grande svago era stato scolarsi due pinte di birra al doppio malto in un locale al centro
della città. Perlomeno un lampo di emozioni c'era stato. Era accaduto quando il miniolopad
rilasciatogli dal governo aveva archiviato un olomessaggio. La visita di un parente era stata
programmata per lunedì all'ora di pranzo. Un po' vago come orario, ma adesso che la settimana era
appena iniziata e che l'orologio segnava le dodici e venticinque postmeridiane, il segnale acustico
del citofono ne decretò l’istante con precisione risuonando all'interno della casa. Henry spalancò la
porta senza accertarsi chi fosse. Si aspettava di vedere la sorella, sicuramente più in forze e abituata
ai viaggi rispetto agli oramai anziani genitori. Invece, con sua sorpresa, si trovò di fronte la mamma
che lo fissava incredula e con gli occhi lucidi, come per convincersi che quel prodigio fosse
possibile, che il figlio fosse davvero vivo. I tratti del viso mutati e l'improbabilità di quella
circostanza la fecero vacillare un attimo ma, quando Henry pronunciò la parola mamma, Nita
spalancò le braccia, e madre e figlio si ricongiunsero dopo un'eternità che li aveva persuasi al
reciproco addio.
“Hank”, pronunciò la donna con voce spezzata. “Sei veramente tu?”
“Sì, mamma, sono tornato, sono qui.”
Solo in quel momento Davis si accorse dei veicoli governativi parcheggiati sul lato opposto della
carreggiata. C'era da giurare, pensò Henry, che avrebbero udito ogni loro singola parola e registrato
qualunque movimento.
“La fai accomodare una madre commossa?”, chiese Nita tremolante.
Seduta sul divano, dopo un bel sorso d'acqua e il naso soffiato più volte in un fazzoletto di seta,
Nita si riprese.
“Mi ero immaginato che venisse Betty, ma sono contento che abbia suonato tu.”
“Tua sorella sa quanto l'amore di una madre per il proprio figlio sia impareggiabile. Mi ha
lasciato quest'opportunità. Tanto più che ha appena dato alla luce una meravigliosa bambina.”
“Wow. Sono zio!”, esclamò entusiasta.
“Di ben tre nipotini.”
“Tre?”, ripeté sbalordito.
“Sì, Betty è diventata mamma per la terza volta.”
“Fantastico. E chi è il pover'uomo che ha deciso di sopportarla per tutta la vita?”, domandò
scherzoso.
“Un imprenditore tedesco. Ha un'azienda che produce nanoprocessori per proiettori olografici.”
“Diamine. Ho salutato una sorella da duemila credit al mese e me ne ritrovo una milionaria”,
commentò divertito.
“Sai che non l'ha fatto per i soldi.”
“Infatti sono incredulo. Non riesco a immaginarmela come moglie di un riccone europeo.”
“Markus è un filantropo, ambientalista, amante dell'avventura e dei bambini.”
“Ora ho capito tutto. Non c'è bisogno che tu aggiunga altro.”
Madre e figlio sorrisero di gusto.
“E papà? Come ha preso la notizia del ritorno di quel pazzo sciagurato di un figlio che si è
imbarcato su un'astronave?”
La donna non rispose e i suoi occhi ridivennero umidi.
Henry capì subito e il respiro gli mancò. Poi, dopo un primo momento di smarrimento e
malessere, imprecò: “Quel maledetto cuore sintetico!”
“No, Hank. Non è stato l'organo artificiale.”
“Allora cos'è stato?”, chiese schiacciato dallo sconforto.
“Il cuore lo sostituirono dopo la tua partenza. Era perfetto. Lo hanno confermato tutte le perizie.
Tua sorella si è avvalsa di oltre cinque consulenze. Non c'era nulla che in quel cuore non andasse,
eppure si è fermato.”
“Qual è stato l'esito dell'autopsia?”, insistette Henry con un timbro inquinato da rabbia e tristezza.
Nita scosse la testa. “I patologi avranno prodotto un rapporto!”
“Hank, papà è morto per il dolore.”
Il volto di Bruce Wade s'impietrì.
“Dopo la tua scomparsa non si diede mai pace”, iniziò a spiegare Nita. “In alcuni momenti la
pressione gli schizzava alle stelle. Non ci dormiva la notte. Poi, una sera prese sonno e non si
risvegliò mai più.”
Henry si chinò in avanti con la testa fra le mani.
“È orribile”, proferì.
“Scusa, non avrei dovuto dirtelo.”
“No, hai fatto bene.”
Nita si detestò. Non aveva fatto tutta quella strada per andare a colpevolizzare un figlio ritrovato.
“Perdonami, papà”, sussurrò Henry.
“Non è colpa tua”, cercò di rassicurarlo la madre. “Incidenti fatali capitano tutti i giorni. Non c'è
bisogno di salpare su un'astronave per morire. Vieni qua e abbracciami.”
Il medico si tuffò fra le braccia della mamma. Erroneamente aveva sempre pensato che fra tutti
sarebbe stata proprio lei a non perdonargli quella sua partenza. Lei che neppure aveva voluto
salutarlo quando aveva saputo della volontà di imbarcarsi.
Dopo l'intenso abbraccio, Nita fissò qualche attimo Henry, poi gli domandò: “Che ti hanno fatto?”
“Non te l'hanno detto del lifting?”
“Mi riferisco a bordo della Nexus. Cos'è accaduto veramente? Hanno parlato di un'anomalia
spaziale. Ma non ho capito nulla. Non ho mai compreso queste cose.”
“Neppure io, mamma, ma tant'è che è andata proprio così.”
“Allora perché nasconderti?”
Non poter rivelare neppure alla madre parte di quell'allucinante verità, era l'ennesima sofferenza
a cui essere sottoposti.
Henry abbozzò una risposta: “Credo che ci sia stata troppa negligenza. Trascuratezze che hanno
portato al fallimento della missione, a miliardi di credit spesi e alla sofferenza di tante persone. Non
sarebbe una buona pubblicità per i governi e i loro partner.”
Nita lo guardò con l'espressione fortemente scettica. “Ci stanno spiando. Lo so. La verità
probabilmente rimarrà per sempre dentro di te.”
“Ma mamma, è proprio quello che è successo”, tentò di convincerla.
Nita accennò un sorriso. “Hank, ricordi quando da bambino mi dicevi che avevi fatto tutti i
compiti? Non avevo bisogno di collegarmi al server della scuola per scoprire che non era vero.”
“Ero solo un ragazzino.”
“Eri e sarai sempre mio figlio. Mi auguro solo che riuscirai a superare quello che hai vissuto.”
“Già”, constatò Henry.
Improvvisamente bussarono alla porta.
“Forse abbiamo parlato un po' troppo”, ragionò Nita.
“Forse.”
“Sono la madre più felice del mondo. Grazie per essere sopravvissuto.”
“Grazie a te per aver sopportato tutto ciò.”
“Signora?”, chiamarono da fuori gli agenti.
“Vado prima che ti buttino giù la porta. Arrivo!”, gridò poi la donna.
Henry e Nita si abbracciarono ancora.
“Ciao, mamma.”
“Ciao, amore mio.”
Cinque

“Quando si trova qui, il suo sguardo è rivolto sempre verso l'alto”, constatò Mejhaar riferendosi
a Pil.
“Se il cielo è visibile e sgombero da nuvole”, precisò l'oaata.
“Quale pianeta le aggrada di più?”, chiese il colonnello.
“Trarth”, rispose d'impeto il Dominatore di Erothe. “Sembra fatto d'oro.”
“Impurità di ferro all'interno dei cristalli di quarzo della sabbia”, spiegò lo zartha.
“Un mondo di brillante polvere”, poetizzò Pil.
Il colonnello si inorgogliva ogni volta che uno straniero giungeva su Zarth e spalancava la bocca
per la meraviglia. Bisognava essere davvero degli individui insensibili per non rimanere affascinati
da una volta punteggiata da quattro pianeti danzanti tanto vicini da sembrare lune. Anche Om'Imy era
solito apprezzare quello spettacolo della natura. Uno scenario paragonabile soltanto a quello che si
poteva ammirare da Kajda, grazie al maestoso gigante gassoso e ai suoi numerosi satelliti; un incanto
che il liyano avrebbe distrutto volentieri.
An'Issa era la sola ad apparire immune a quella attrazione. Nella sua testa vi erano ben altri
pensieri. Il suo io era incentrato sulla presentazione che avrebbe tenuto dinanzi all'assemblea
straordinaria. Per la prima volta avrebbe visto negli occhi tutti i sei Dominatori dell'Alleanza, anche
se alcuni di loro sotto forma di ologrammi. Pil e i suoi avrebbero potuto partecipare per mezzo di una
oloconferenza, ma presenziare in carne e ossa induceva interlocutori e platea a dare maggior credito
a chi esponesse le proprie ragioni. Scomodarsi e tuffarsi negli abissi dello spazio-tempo, quando era
sufficiente oloproiettarsi tramite un segnale subspaziale, denotava grande motivazione e spirito di
sacrificio. Valori apprezzati fra coloro che si apprestavano a giudicare le navi di terzo livello.
L'architettura della Sala del Consiglio era quanto di più distante ci fosse dalla sua omonima
oaata. Mentre su Erothe era un trionfo di pietra e alabastro, nella sede del lago di Krantaar a far da
padrone erano il vetro e i metalli.
Fra gli ospiti del Consiglio, il primo a prendere parola fu Mejhaar. Espose l'urgenza di attaccare
il cuore dell'impero, prima che Khrun-le mettesse in opera uno dei suoi piani diabolici. Alle
rimostranze circa le difficoltà di superare le mortali difese kadaja, il colonnello approfittò per
annunciare l'invenzione di un'astronave da guerra che avrebbe risolto il conflitto a loro favore.
Grazie all'alta credibilità di Mejhaar e di Pil, nessuno le giudicò come le tipiche conclusioni
affrettate che solitamente portavano a credere che si trattasse dell'ennesima chimera.
An'Issa e Om'Imy esposero il progetto delle navi di terzo livello con estrema professionalità. Il
Consiglio ascoltò in religioso silenzio, attento a osservare le numerose oloproiezioni di supporto.
Terminata l'efficace presentazione, che di per sé risolveva già tutte le questioni sollevate dallo stesso
Pil, uno dei Dominatori chiese la parola.
“Come sarà possibile costruire in pochi mesi delle astronavi tanto sofisticate?”
“Saranno contenute nelle dimensioni”, rispose prontamente la liyana. “Verranno impiegate per un
attacco lampo che sbriciolerà il Kanth-Vahal e manderà in rovina la solidità dell'impero. Poi avremo
il tempo di costruirne di migliori, con arsenali più grandi e maggiore potenza di fuoco.”
“Ambasciatore Om'Imy”, lo apostrofarono nel Consiglio, con un titolo che non si sarebbe mai
scrollato di dosso, “lei che è un liyano di grande esperienza, ritiene saggia tutta questa fretta?”
“Le vostre preoccupazioni sono più che condivisibili, tuttavia dobbiamo evitare di confondere la
fretta con la rapidità di esecuzione. Questo Consiglio è informato su come i servizi segreti abbiano
riferito della possibilità di un attacco imminente da parte di Khrun-le. Dobbiamo anticiparlo negli
intenti. E laddove non ci riuscissimo, avremo sviluppato una tecnologia che permetterà di
resistergli.”
Il Dominatore dei Lhot, una razza di esseri robusti dalla pelle albina, il volto squadrato, gli occhi
rossi e la peculiare maschera indossata per rimodulare la composizione chimica dell'aria, chiese e
ottenne la parola.
“È un momento poco facile per le nostre economie. In quale quota dovrà partecipare ogni alleato?
Chi si occuperà di reperire le materie prime per la costruzione delle navi? Quale sistema accetterà di
vedersi occupare i propri cantieri?”
Pil alzò entrambe le mani e, spiazzando il Consiglio, annunciò: “Tutti gli oneri saranno a carico
di Erothe.”
Dopo un primo silenzio, si alzò un grande brusio. Fu il Primo Dominatore, capo e rappresentante
del Consiglio della Grande Alleanza, a riportare l'ordine e a chiedere all'oaata: “Perché una simile
esposizione da parte vostra?”
Pil si era già preparato a quella domanda. In un universo in cui nessuno faceva niente per niente,
era proprio l'oaata a essere uno dei massimi teorici della prima legge galattica.
“Rendere vittoriosa la Grande Alleanza equivale a far trionfare Erothe, a liberare la mia gente
dal peso di un'oppressione che perdura da millenni. Conscio della fortuna di disporre dei necessari
mezzi per la realizzazione delle navi, ritengo giusto assumermi l'onere di farle costruire nei cantieri
di Hok't.”
I volti dei partecipanti si distesero come se nell'aria fosse stato immesso un gas anestetizzante.
Accortosi di ciò, l'oaata concluse: “Sono certo che, quando l'utilizzo delle risorse dei vostri
sistemi stellari si mostrerà indispensabile per la risoluzione di una comune causa, farete altrettanto.”
Ai presenti fu chiara la polemica di Pil, che rimarcava come fosse stato il solo ad assumersi un
impegno gravoso, ma profittando di un'offerta tanto generosa, nessuno ebbe nulla da ridire.
La mozione venne discussa e approvata e, mentre An'Issa e Om'Imy ne gioivano, l'oaata fu scosso
da un vero brivido di terrore. L'impegno assunto non gli avrebbe permesso di abbassare le tasse
come giurato durante il suo discorso di insediamento. Se il finanziamento ai cantieri di Hok't non
avesse portato il regresso delle regioni dominate dai kadaja e la conseguente ripresa dei commerci
spaziali, il popolo oaata avrebbe chiesto la sua testa, mentre quelle degli altri Dominatori sarebbero
rimaste ben salde al proprio collo.
Sei

“Vi prego, non fatemi vedere nessuno”, era l'ultima cosa che Fuller aveva detto agli agenti che lo
avevano scortato nella sua nuova realtà. Senza saperlo aveva finito per esprimere lo stesso desiderio
di Cabot. Ma mentre il comandante della Deep era stato motivato da una questione temporale
insormontabile, Cassius era rimasto vittima di quel vuoto interiore che lo condannava a cercare
l'isolamento, come per proteggere se stesso e gli altri da qualcosa di sbagliato e pericoloso. Un
trauma che aveva finto di aver superato dopo averlo confessato all'ammiraglio. Una menzogna per
ritornare fra gli uomini liberi. Immaginava che la concessione del governo ai sopravvissuti fosse
stato un metodo per evitare che gli stessi impazzissero. Per quanto lo riguardava, Fuller era convinto
di essere uscito fuori di senno da un bel pezzo. L'attuale uomo non avrebbe potuto guidare in
sicurezza neppure una bicicletta, figurarsi un'astronave. Lo stesso Sato gli aveva promesso una
sorveglianza più che straordinaria. La sua mente si era rivelata un grande dono, e al sopraggiungere
di qualsiasi informazione aliena, avrebbe dovuto informare il governo tempestivamente.
“Osserverete ogni mio passo?”, aveva domandato Fuller al presidente.
“Sì.”
“Posso chiedere di fare in modo tale che non vi veda? Che viva l'illusione di starmene solo per
conto mio?”
“Lei è il primo a farmi una richiesta sensata.”
“Pertanto la soddisfarete?”
Daisuke Sato aveva accennato un sì con la testa.
Gli agenti avevano evitato di installargli dei rivelatori nel cervello o sopra la casa, poiché i
segnali del telepate che aveva comunicato le direttive per la costruzione del dodecaedro, non erano
individuabili. Si sarebbero limitati alle intercettazioni ambientali tradizionali.
All'ex capitano della Nexus era stato assegnato un bungalow a Ogden, capoluogo della Contea di
Weber nello Stato dello Utah, situato presso la costa orientale del Great Salt Lake. La casa era
completamente di mattoni, una vera rarità. Si vedeva come fosse stata restaurata recentemente. La
cucina, le piastrelle, la tintura, il parquet, gli infissi e persino i robot domestici odoravano di nuovo.
Anche il piccolo cortile era curato e recintato. Una garanzia di pace e privacy. Era logico supporre
che l'abitazione non gli fosse stata consegnata per caso.
Ciò che più amava della nuova residenza era la posizione a ridosso delle montagne. Tutto ciò che
si trovava in alto o si ergeva verso di esso lo aveva sempre affascinato, che fossero nuvole, monti o
stelle. Erano proprio gli astri che contemplava nei cieli notturni. Al contrario di molti dei cosmonauti
che aveva guidato verso Epsilon Eridiani, non fu reinserito nel mondo del lavoro. Il governo preferì
conferirgli un vitalizio, con cui Fuller comprò subito un telescopio. Scrutando la volta celeste, si
chiese più volte che cosa stesse accadendo nelle sue profondità , là in fondo, oltre il centro galattico.
Proprio in una di quelle sere, per un istante ritrovò sé stesso. Una mente psicotrica era di nuovo
dentro lui. Metterò ordine, gli parve di capire. L'evento fu rapido come un lampo, tanto da apparirgli
simile a una fugace allucinazione. Passò più notti in attesa del ritorno della voce, ma non accadde
nulla. Si chiese se il cervello non iniziasse a tirargli brutti scherzi. Ma di una cosa poteva stare certo.
Non avrebbe rivelato niente a nessuno. Se alzavi su la testa, a New Test Site non vedevi le stelle.
Dopo che l'amato fratello era andato a trovarla, Linda aveva capito quanto le mancassero la
famiglia e la Florida. Come gli era venuto in mente di relegarla in Montana? Le fila governative
dovevano pullulare di idioti. Con gli occhi leggermente a mandorla e nel nome di Nadia, l'avevano
reintrodotta come personal trainer e insegnante di autodifesa. Riponevano in lei molta fiducia se le
avevano concesso una professione che le permetteva di stare a contatto con tanta gente. E come gli
capitava spesso, avevano preso un abbaglio. Sprovvista di biglietti nominativi e di apparecchi
mobili che potessero rintracciarla, Linda aveva attraversato gli Stati Uniti in autostop. Riteneva
strano che non le avessero impiantato un chip geolocalizzante, ma in una logica perversa, si poteva
supporre che fosse un modo per stimolarla alla fuga per poi arrestarla e confinarla nei meandri di
New Test Site per tutta la vita. Era certa che il ragionamento fosse stato applicato anche ai suoi ex
colleghi. A ogni modo era bastato cambiare tre hover-car per giungere a Miami in poco più di un
giorno. Era arrivata in un pomeriggio insolitamente bigio, nonostante ciò la prima cosa che le venne
in mente fu quella di recarsi sulla spiaggia. Non fece in tempo neppure a togliersi le scarpe e
bagnarsi i piedi. Qualcuno l'afferrò al collo in una stretta micidiale. La marzialista che era in lei
riuscì a divincolarsi. Voltatasi contro il nemico, prima smarcò un jab e un diretto, poi un gancio e
infine colpì l'avversario in mezzo alle gambe. L'aggressore cadde a terra, ma subito due energumeni
le saltarono addosso. Linda si sbarazzò del primo con un pugno al pomo di Adamo e del secondo con
un calcio volante che si arrestò sulla tempia destra. Fu il quarto uomo che la mise fuori
combattimento. Sbucato all'improvviso, gli piazzò un colpo alla bocca dello stomaco che le mozzò il
fiato, poi qualcosa o qualcuno la investì come un treno e tutto si fece buio.
Si risvegliò piegata in due dal dolore in un hover-van blindato.
“Chi cazzo siete?”, protestò. “Cosa volete?”
“Si torna nel sottosuolo”, ripose una voce glaciale e priva di inflessioni.
Sette

Dopo che i diradatori meteorologici entrarono in funzione nei pressi dei tre maggiori spazioporti
militari, milioni di kadaja videro il cielo oscurarsi. Navi grandi come quartieri cittadini si erano
issate con la promessa di conquistare la galassia. Uno spettacolo come non si era mai visto. Un intero
pianeta paralizzato, impegnato ad assistere alla partenza della più grande flotta che la storia avesse
mai conosciuto. Centinaia di migliaia fra poliziotti, soldati e droni intenti a garantire una sicurezza
innalzata oltre il massimo livello conosciuto. Qualunque oggetto o individuo che si fosse trovato
anche per un solo istante fuori posto, sarebbe stato disgregato immediatamente. Il popolo suddito non
avrebbe sopportato l'umiliazione di perdere altri figli di Kajda senza che questi si facessero onore
sul campo di battaglia. Frustrazioni e risentimenti, quelli maturati dalla tragedia del portale, vinti
soltanto dalla promessa di sterminarne i responsabili senza alcuna pietà. Niente era più sacro della
parola data dall'imperatore; nulla era più valoroso del governatore supremo che, in capo alle armate
imperiali, salpava verso territori di conquista.
Non furono issati stendardi, gonfaloni e bandiere a sventolare daghe e navi. La parata del
millennio sarebbe stata riservata all'effettivo trionfo, quando Khrun-le in persona avrebbe mostrato le
teste mozzate dei sei dominatori, come i suoi avi avevano fatto con il Signore di Liy'n.
I motori da manovra vennero spinti al massimo, per diffondere delle potentissime onde sonore.
Un fragore che emulava l'acuto grido di battaglia degli antichi eserciti. Un urlo che venne accolto e
ampliato dalle folle a terra.
Lentamente le fortezze volanti scomparvero dai cieli per riunirsi in formazione da salto oltre la
ionosfera. Ventisei Xing-ne capaci di contenere porta-navicelle spaziali, ricognitori invisibili, caccia
stellari, sonde schermanti, pattugliatori, intere stive di proiettili cinetici e Wing-ne, navi da guerra in
grado di ingaggiare oltre cinquanta bersagli simultaneamente; una delle armi kadaja a più basso costo
e allo stesso tempo più efficaci per attaccare un pianeta nei pressi della sua orbita; ammassi di ferro
grandi come case e ricoperti da superleghe per resistere all'attrito atmosferico e giungere al suolo
con la violenza di meteoriti.
Il tiranno, eccitato come un mosz-ne10, si pregustava l'inizio del viaggio che avrebbe cambiato la
sua esistenza e quella dell'impero. Nell'esaminare i mondi nemici, era emerso come la miglior mossa
strategica fosse quella di sferrare il primo micidiale attacco su Hok't. La luna oaata era sede dei
centri di ricerca e dei cantieri navali più avanzati fra le fila nemiche. Nel frattempo, la parte di
armata navale rimasta su Kajda avrebbe utilizzato tutte le risorse per neutralizzare eventuali cancelli
liyani che non fossero stati ancora individuati in un raggio di almeno cinquecento anni luce. Se
durante l'avanzata verso Erothe, il nemico avesse tentato di attaccare un Kajda privo della protezione
delle Xing-ne, avrebbe avuto comunque delle brutte sorprese. Non solo sarebbe stato costretto a
emergere da cancelli molto distanti dall'obiettivo, ma avrebbe trovato un mondo pronto ad
accoglierli. L'imperatore e i suoi generali non erano degli sprovveduti. Se l'Alleanza si fosse mossa
verso Kajda prima dell'arrivo della flotta imperiale, non avrebbe poi disposto dei mezzi per
difendersi e sarebbe stata spazzata via. Se avesse invece tentato di attaccare mantenendo una flotta in
grado di proteggere i propri sistemi stellari, avrebbe inviato un'armata troppo debole per riuscire
nell'impresa di colpire Kajda. Lo spionaggio non era una prerogativa zarthiana. Khrun-le, al
contrario, era ben informato circa i mezzi a disposizione del nemico. Per quanto ne sapeva, niente e
nessuno avrebbe potuto fermare la sua avanzata. Neppure la feccia fidata. Wrunt-le, capo del primo
dipartimento della polizia imperiale, durante l'ultimo saluto al tiranno aveva giurato secondo le
regole del Yny-ne, antica norma che prevedeva di pagare con la propria vita l'inosservanza di una
promessa. E Wrunt-le aveva giurato personalmente al suo imperatore che, prima del suo ritorno
vittorioso, avrebbe scovato e giustiziato la marmaglia fidata.
Otto

Era tutto iniziato con un video caricato in rete. Un filmato in 2D di appena tre secondi. La
persona inquadrata da un miniolopad assomigliava in modo inquietante a uno dei cosmonauti
scomparsi con la Nexus. Poi si era ripetuta la stessa cosa almeno con cinque individui differenti. Una
certa Amanda Hill aveva diffuso un olofilmato dove asseriva di essere una cosmonauta svanita nella
prima metà del secolo a bordo della Deep. Alcuni ologiornali avevano dedicato spazio alla vicenda
per poi concludere che si trattasse di una mitomane che le somigliava appena. Della ragazza in
questione non si era saputo più nulla, e la moda de Il complotto dei cosmonauti durò appena un
semestre, con l'indignazione di tutti coloro che avevano sofferto a causa della vicenda. Una parente
di una delle vittime aveva asserito che effettivamente suo figlio fosse tornato dallo spazio, ma
relegarono il tutto alla disperazione di una povera donna anziana. La crisi nord-africana spostò su di
sé ogni attenzione, e non interessò più a nessuno la vetusta vicenda della Nexus. A causa di continue
tensioni politiche, la Coalizione Nord-Africana e la Super Lega Araba avevano deciso di spegnere i
superconduttori che trasportavano energia dal Sahara Solar Hyper Breeder all'Europa. La capillare
struttura di centrali solari termiche, che riforniva energia a due quinti del pianeta, era sparsa lungo il
perimetro dell'abnorme deserto che ricopriva nove milioni di chilometri quadrati.
Daisuke Sato era lieto di essere tornato a occuparsi di quel genere di crisi. Nessuno lo aveva più
disturbato con la questione degli alieni. Era logico concludere che l'arma avesse funzionato e che ci
si potesse tornare a divertire e concentrare sulla spartizione dei poteri nel mondo e a fare a gara sulla
nazione che avrebbe prodotto più Pil. Se fosse stato protagonista nel risolvere le tensioni fra Nord-
Africa e Stati Uniti d'Europa, nel far crescere l'economia americana e nell’estendere alcuni servizi
sanitari, si sarebbe assicurato un altro mandato. Non era tanto il potere che lo soddisfaceva, quanto
mantenere il ruolo di primo cittadino. Era stato educato in una famiglia in cui contava soltanto
arrivare al primo posto. Nessuno avrebbe potuto affermare che non ne avesse seguito l'esempio.

Sakinah era partita alla volta dell'infinito nella speranza di codificare idiomi di civiltà
extraterrestri. Il fato le aveva fatto incontrare più di una specie aliena, facendola però fallire nel suo
compito e obbligandola tristemente a tenersi per sé tutta la storia. Mentre il traduttore terrestre si era
mostrato un completo disastro, quello liyano si era rivelato un vero portento. Così, suo malgrado, era
finita a svolgere la professione per cui forse aveva sempre studiato: insegnante di lingue. A sua
insaputa, a meno di cento miglia dalla casa assegnatole, risiedeva José Casillas Campos. Incaricato
alla supervisione di droidi buttafuori, tutto sommato la sua vita aveva preso una piega divertente e
assai meno pericolosa di quella di Izo Miura, riuscito a fuggire in Giappone e diventato corriere
della malavita. Non era propriamente la figura professionale che si sposava meglio con la sua
indole, ma essere relegato ad autista di hover-bus non faceva per lui. Ancor meno tornare prigioniero
sottoterra. Decisamente più pacata era l'indole di Luca Russo, dalla mente e dalle conoscenze troppo
evolute per sfuggire al governo americano. Da recluso nella New Test Site era finito a essere un
dipendente della base, riappropriandosi così del ruolo di scienziato. Nessuno ebbe da ridire
dell'officina aperta da Agraj Charan al centro di Oklahoma City. Si trattava di una condizione che
aveva espresso apertamente. Una concessione ottenuta in cambio dell'accettazione di pesanti
modifiche corporali. Somigliava davvero poco al capo ingegnere della Nexus. Le Officine Suri, che
portavano il cognome della sua nuova identità, in poche settimane erano divenute famose per la loro
efficienza. “Più ordinata e pulita di una sala operatoria”, erano soliti dire i clienti.
Richard Belfort avrebbe continuato ad essere uno dei personaggi pubblici più noti e soprattutto
uno dei maggiori consulenti del governo statunitense.
“Ancora nessuna notizia è pervenuta sull'esito del dodecaedro. Tutto tace. Forse è un bene”,
ragionò a voce Campbell di fronte allo scafo della Nexus trasportato nei meandri della New Test
Site.
“La condizione di ignoranza in cui versiamo è il risultato dell'inferiorità e della supponenza
umana”, commentò Belfort, al fianco dell'ammiraglio.
“Ci siamo spinti verso l'infinito con una zattera priva di armi.”
Nell'udire quel paragone, il fisico guardò l'ammiraglio come se volesse ucciderlo da un momento
all'altro.
“I motori erano la sola cosa degna di nota”, si affrettò ad aggiungere Campbell con un certo
vigore.
Allo scienziato venne da ridere, ma si represse e mantenne un'espressione severa. Era la prima
volta che percepiva dell'imbarazzo nell'ammiraglio. Quindi provò a vedere quanto tempo sarebbe
riuscito a confinarlo in quello stato emotivo. Uno degli esperimenti più gustosi della sua carriera.
Nove

La costruzione delle navi di terzo livello aveva finito per assorbire la maggior parte delle risorse
di Hok't. Il malcontento del popolo oaata era stato moderato dalla prospettiva di essere invaso se non
addirittura distrutto dall'impero. Se pagare dei cospicui tributi avesse voluto dire salvarsi il rosso11,
allora sarebbe stato giusto sostenere il progetto. La creazione di armi più potenti era stata presentata
come un'idea figlia delle menti più brillanti dell'Alleanza. Nascondere la paternità liyana era stato
d'obbligo dopo che i biondoni si erano distinti per loschi sotterfugi e macchinazioni che avevano
danneggiato l'immagine di Erothe. Estremizzare la pericolosità di Khrun-le si era rivelata una scelta
giusta, non solo per spronare il lavoro degli operai di Hok't e tenere mansueta la popolazione, ma
anche per prevenire l'eventuale accelerazione di quei programmi imperiali che difatti erano stati poi
ravvisati dagli agenti segreti. L'arrivo del tiranno sarebbe stato imminente e, a quanto si diceva, non
avrebbe applicato alcuna misericordia, nessun assedio, ma solo fatto fuoco e colpito sino al
conseguimento dell'annientamento totale. Pil aveva sperato che il gruppo dei fidati potesse
sostenerlo, ma alla fine aveva compreso come fosse lui una speranza per loro e non viceversa.
Attualmente quei ribelli erano così deboli e poveri di infrastrutture che non riuscivano neppure a
stabilire una oloconnessione duratura e sicura. L'unico risultato conseguito era stato quello di
inasprire Khrun-le e sollecitarlo a impadronirsi della galassia con straordinaria crudeltà. Per evitare
di essere spazzati via, nei mesi successivi alla risoluzione di Zarth, le difese oaata erano state
implementate e preparate a onorare lo scontro con la flotta imperiale. Difese che si sarebbero
rivelate del tutto insufficienti a fronteggiare la potenza di fuoco delle Xing-ne. Ciò che lasciava vive
le speranze di Pil era solo l'imminente prova di collaudo di tre navi di terzo livello appena ultimate.
Erano sufficienti due oaata per pilotarle. Essenzialmente si trattava di una microscopica cabina
circondata da motori e missili di antimateria ad altissimo potenziale. Il processo di fabbricazione era
stato facilitato dalla decisione di abbandonare qualunque criterio di fluidodinamica. Quello della
portanza alare era un problema riscontrabile solamente in presenza di atmosfera. Poiché era stato
chiaro che non si sarebbero mai ritrovati a sorvolare il Kanth-Vahal, ma a difendersi nello spazio fra
Hok't ed Erothe, non sussisteva il problema della resistenza aerodinamica. Pertanto, la prima
generazione di navi di terzo livello era sprovvista di ali e somigliava a un prisma triangolare.
Successivamente al collaudo, in pochi giorni sarebbero state disponibili altre undici navi. Una flotta
di soli quattordici elementi poteva sembrare ben misera cosa se paragonata a ventisei città volanti,
ma poter sparare missili antimateria rimanendo intangibili avrebbe inflitto danni fatali nel giro di
pochi minuti. Una facoltà, quella di trasformarsi in veri e propri fantasmi, in grado di sbaragliare
qualsivoglia armata.

La prima nave di terzo livello della storia decollò dallo spazioporto numero uno di Hok't.
Dall'esito dell'operazione sarebbero dipese le sorti di sei sistemi stellari. L'astronave non solo
lasciava a desiderare nella forma, ma aveva uno scafo opaco che sapeva di vecchio. D'altronde non
c'era stato tempo per curare l'estetica di uno strumento che fra l'altro era stato ideato per essere
invisibile. La nave sbucò dal grande cratere artificiale in un leggero bagliore arancio prodotto dai
propulsori. I cinque Dominatori olo-warp-connessi videro la nave raggiungere la distanza di
sicurezza mentre ai piloti veniva ordinato di azionare il comando per saltare nel terzo livello. I
collaudatori eseguirono e l'apparecchio non solo rimase visibile, ma perse i motori di schianto. In
pochi attimi l'avaria si estese a tutti i sistemi, rendendo la nave ingovernabile. Pil afferrò il primo
oggetto a portata di mano, un bicchiere colmo di succo ai frutti verdi, e lo lanciò contro la base
dell'oloproiettore, impiastrando il muro. La situazione precipitò ulteriormente quando i piloti
avvertirono la base dello scoppio di un incendio. Per loro fortuna la navetta di soccorso li raggiunse
e li recuperò prima che finissero arrostiti. Un Dominatore imprecò nella sua lingua, un altro prese a
calci il mobilio, un altro ancora pianse e i restanti spensero la connessione senza proferire parola.
Mentre Pil ripeteva come un pappagallo terrestre “siamo fottuti, siamo fottuti”, An'Issa esclamava
imbambolata: “Non è possibile!” La matematica che reggeva la sua fisica di terzo livello era più
solida del tungsteno, e gli ingegneri che l'avevano supportata avrebbero fatto invidia ai creatori dei
cancelli. Persino gli operai e i robot coinvolti erano i più efficienti dell'intero quadrante galattico. Di
conseguenza alla scienziata liyana pareva impossibile che il collaudo fosse terminato in un tragico
fallimento.
Quando Pil scese nei laboratori menzionando tutti gli organi di riproduzione oaata e le antiche
divinità in un concerto di bestemmie e imprecazioni, An'Issa si difese affermando: “Quella non è la
mia nave.”
“Per A'ayas12!”, gridò Pil. “Che fandonie va dicendo?”
“La mia creatura non avrebbe mai preso fuoco.”
“Ah no? E quel cumulo di metallo accartocciato sopra le nostre teste, come lo spiega?”
“Qualcuno deve aver sbagliato qualcosa, non io.”
“Tipico di un liyano addossare le colpe agli altri.”
“Dimostrerò le mie ragioni”, asserì l'inventrice, più determinata che mai.
“Lo credo bene.”
Il Dominatore si felicitò che la nave di collaudo non fosse stata armata con missili antimateria,
che altrimenti avrebbero provocato chissà quali ingenti danni. Poi afferrò il proprio comunicatore e
dispose subito l'apertura di un'inchiesta.

Furono sufficienti due giorni erothiani per scoprire il chiaro intervento di un sabotatore. An'Issa
aveva ragione. La liyana ricevette le scuse ufficiali di Pil, ma ebbe ben poco da rallegrarsi: l'identità
dell'infiltrato imperialista si ignorava, e il guasto che aveva portato alla distruzione non era limitato
alla nave di collaudo. Si trattava di un sabotaggio sistematico che riguardava tutti gli apparecchi, sia
quelli costruiti che quelli prossimi all'ultimazione. Riportavano tutti i medesimi difetti provocati da
una serie di manomissioni nelle specifiche dei progetti. Una situazione irreversibile, giacché
rettificare le navi avrebbe richiesto un tempo superiore alla ricostruzione delle stesse. E nemmeno
con tutta la volontà dell'universo le avrebbero fabbricate prima dell'arrivo di Khrun-le.
“Siamo fregati?”, chiese An'Issa a Om'Imy.
“No, siamo morti”, rispose il liyano.
Dieci

Quando i suoi kadaja confermarono il nascondiglio dei fidati, Wrunt-le si rammaricò di non poter
far parte della squadra di incursori. Avrebbe goduto come un mosz-ne nel mettere le mani addosso a
una di quelle scorie viventi. Ciò nonostante, oltre a ripulire la capitale, aveva promesso di
salvaguardare il trono con la sua persona. Guidare un'operazione sul campo l'avrebbe esposto a un
pericolo eccessivo.
Il blitz fu irruento. Gli incursori del settimo dipartimento, equipaggiati di esoscheletro in
carbonio e plastica termo-formante, forzarono l'ingresso con un fucile ipersonico ad altissima
frequenza. L'onda generata dall'arma si abbatté con tale energia da divellere la porta blindata.
L'obiettivo era di arrestare, processare e giustiziare pubblicamente ogni attentatore. Chiunque avesse
avuto l'audacia di resistere, sarebbe stato colpito senza pietà.
Poco dopo, fuori dal rifugio riversavano a terra i corpi di tre fidati; uno senza testa, uno con tutte
le ossa rotte e l'altro diviso in due da un raggio laser. Venne punita severamente persino l'opposizione
verbale. Chi proferiva parola contro un incursore o l'impero veniva colpito a suon di pugni che,
fortificati dall'esoscheletro, equivalevano a martellate. Solitamente era sufficiente un solo colpo per
assicurarsi il silenzio della vittima, che si ritrovava con i denti spezzati e la mascella rotta. I più
arrendevoli erano stati semplicemente ammanettati e trascinati malamente sino ai pattugliatori volanti
della polizia.
Wrunt-le si congratulò con sé stesso. Fra poliziotti, soldati, animali da fiuto e droni tracciatori,
aveva scatenato l'inferno per scovare gli ideatori dell'attentato. La violenza fisica e la minaccia di
morte erano stati fra gli strumenti più importanti. Seduto nella sala di potere più influente della
galassia, il facente funzione tiranno esultava per la raggiunta osservanza del Yny-ne. Non rimaneva
altro che comunicare il grande successo all'imperatore e godersi insieme a lui l'imminente
annientamento di quei disgustosi nanerottoli color porpora che tanto osavano.

Quella kadaja era la sola razza galattica che poteva infischiarsene dell'antica massima dei
viaggiatori interstellari: lo spazio è sacro, lo spreco è bandito e il superfluo non esiste. Tali erano
maestose le dimensioni delle Xing-ne, che il volume di ognuna era pari o superiore a quello occupato
da intere flotte nemiche. Nella sezione di prua di queste città volanti fortificate, due ponti sopra la
plancia, vi era l'osservatorio imperiale, una sala con tanto di trono riservata all'uso esclusivo di sua
maestà. Un luogo da cui Khrun-le avrebbe visto realizzarsi i sogni di gloria. Prossimo all'ultimo salto
che lo avrebbe condotto direttamente nel cuore del sistema oaata, aveva appena ricevuto la notizia
della disfatta fidata, soffermandosi sulle oloimmagini dei corpi straziati di coloro che si erano
macchiati di altissimo tradimento. Dopo le congratulazioni a Wrunt-le, che sarebbe stato premiato
con il massimo degli onori, dispose di attendere il suo ritorno per l'esecuzione dei terroristi. Li
avrebbe guardati negli occhi morire uno ad uno.
Il tiranno si crogiolò osservando l'imponenza della sua armata. Posizionata in orbita intorno a un
pianeta, avrebbe fatto ombra a mezzo emisfero. Tuttavia la strategia di attacco non prevedeva di
avvicinarsi tanto al pianeta oaata. I kadaja si attendevano un Erothe difeso con audacia e ampi mezzi.
Esistevano modalità di attacco ben più valide. Nel rimirare le Xing-ne, le avvertì come estensioni
dei suoi arti. Sentiva di avere fra le mani un potere divino, dispensatore di vita e di morte. Soltanto
da lui sarebbero dipese le sorti di interi sistemi stellari che ospitavano ecosistemi, civiltà e miliardi
di organismi viventi. Se non era questo essere dio, cos'altro poteva esserlo, meditò Khrun-le.
Le Xing-ne riemersero a tre micro-quur-na13 da Erothe, ovvero una distanza che le poneva in una
condizione di estrema forza. Grazie a satelliti warp il nemico li aveva sicuramente rilevati appena
apparsi nel sistema. Una massa importante come quella kadaja sarebbe stata individuata in qualunque
punto. In ogni caso, agli abitanti di Erothe sarebbe servito a poco, giacché colpire un pianeta o una
luna, nell'era delle guerre spaziali, era il tipo di attacco più semplice da portare a segno. Al contrario
di un'astronave, i corpi celesti non potevano scartare i colpi. Quello che gli oaata avrebbero potuto
fare per limitare i danni, sarebbe stato alzare al massimo l'energia degli scudi elettromagnetici e
tentare poi di danneggiare il nemico sparando raggi laser iperconcentrati.
La prima fase di aggressione kadaja partì pochi istanti dopo la riemersione. Non vi fu neanche
bisogno dell'ordine di Khrun-le. Si trattava di un comando già deciso in precedenza al fine di
risparmiare tempo. Ogni fase successiva sarebbe stata gestita direttamente dal generale che avrebbe
coordinato i vari comandanti. Quando si disponeva di un potenziale energetico di fuoco che avrebbe
fatto invidia a una supernova, la strategia da mettere in atto per abbattere un nemico era di una
semplicità disarmante: mantenere la distanza di sicurezza, lanciare parte dell'arsenale e procedere
all'occultamento.
I cannoni vlaster-ne di venticinque Xing-ne scagliarono alla massima potenza migliaia di colpi
che avrebbero raggiunto Hok't, primo obiettivo kadaja. I vlaster-ne imperiali rappresentavano un
significativo passo in avanti rispetto ai laser oaata; al contrario di questi, i vlaster-ne erano
energizzati a tal punto da raggiungere lo stato di plasma e una velocità superiore a quella della luce
curvando lo spazio-tempo lungo la propria traiettoria.
Ai vlaster-ne seguì subito l'innesco di una vibrazione disarmonica ingenerata da venticinque onde
più piccole che, sommandosi le une alle altre, ne avrebbero prodotta una di proporzioni epiche.
Nessuno scudo energetico avrebbe retto a un simile impatto. Non appena l'ultima onda partì, le navi
si occultarono e cambiarono repentinamente la loro posizione. Nel frattempo la ventiseiesima Xing-
ne stava riservando il medesimo trattamento al cancello erothiano.
Il tiranno, solo nell'osservatorio, intento a limarsi le unghie, eccitato cantilenava: “Addio
piccoli... addio addio... piccoli esseri rubizzi.”

“Non si può attenuare questo dannato chiasso?”, protestò Pil riferendosi agli assordanti allarmi.
Il Dominatore non aveva accettato di fuggire verso altri sistemi stellari o di recarsi nei meandri
reconditi del proprio. Assistere alle operazioni dal centro di comando per la difesa planetaria, era
stata probabilmente la sua ultima volontà. Avrebbe affrontato il nemico e sarebbe perito insieme al
suo mondo. Dovrei divenire un reietto esiliato chissà in quale fogna dell'universo?, si era
interrogato più volte per concludere infine: No, non è e non deve essere nell'indole di un vero
Dominatore. Tanto più che a breve non ci sarà nessun luogo dell'Alleanza dove ricevere asilo,
poiché sarà l'Alleanza stessa a sparire dalla faccia della galassia. Pil era conscio che lui e gli
alleati avrebbero dovuto fare fronte comune, mettere su un'imponente armata, ma chi sarebbe stato
disponibile a sguarnirsi di una flotta nel momento in cui non si conosceva ancora il primo obiettivo
kadaja? Poteva essere intuibile che la guerra avrebbe avuto inizio fra i cieli di Erothe ed Hok't, ma
senza una conferma, che era giunta troppo tardi, nell'attesa di capire gli sviluppi, ognuno aveva
pensato a sé. Davvero un grande errore quello di affidarsi alle navi di terzo livello, strumenti sorretti
da una matematica e una fisica che apparivano infallibili, ed effettivamente lo sarebbero stati se un
infiltrato, un traditore o chi per esso non avesse sabotato il progetto. Un kadaja su Hok't non sarebbe
passato inosservato, ma le avanzate tecniche di mimetizzazione olografica supportavano la faccenda.
E così agli errori si era sommato anche quello di aver sottovalutato l'aspetto dei sabotaggi. Giorni di
estenuanti indagini non avevano indicato nessun responsabile. Ma a quel punto, quando con ogni
probabilità sarebbero stati polverizzati da un vlaster-ne o da un'onda disarmonica, ragionò Pil, quale
importanza avrebbe avuto conoscere il nome del responsabile? Vendere caro il rosso era nell'intento
di ogni soldato oaata, ma sparare raggi laser verso una flotta che ogni volta si occultava dopo aver
fatto fuoco, risultava davvero ostico. Per quanto fossero grandi, le Xing-ne erano in grado di
compiere rapidi spostamenti e di balzare nell'iperspazio celermente.
Cominciò con un luccichio nei cieli di Hok't. Si trattava di un primo getto di plasma che si andava
abbattendo sulla barriera energetica lunare. Poi ne seguirono altri due, altri quattro, altri dieci e in un
attimo fu una pioggia di vlaster-ne. Un emisfero di Hok't si illuminò come se un intero sole si stesse
schiantando su di essa. La difesa assolse il suo compito e impedì che il plasma raggiungesse gli
spazioporti e penetrasse nei laboratori e nei cantieri lunari, ma certamente non avrebbe resistito a un
secondo bombardamento vlaster-ne. E purtroppo gli oaata erano coscienti di come le navi imperiali
avrebbero potuto sferrare numerosi attacchi di quel genere prima di vedere esaurito il proprio
arsenale. Ma non furono i vlaster-ne a far cadere lo sbarramento. Ci pensò la mega onda disarmonica
che, non solo dissolse la barriera, ma scosse Hok't al pari di una cascata di grandi meteoriti. I lunghi
e profondi condotti lunari si spezzarono come fuscelli secchi; puntoni e griglie saltarono in ogni dove
e un intero spazioporto crollò. Un'altra ondata come quella e non sarebbe rimasto al suo posto
neppure un bullone.
Undici

Una microsonda inviata nell'iperspazio era emersa in fase di occultamento di fronte a Hok't. Le
immagini riprese e modulate in segnale warp mostravano il crollo del cratere che fungeva da entrata.
Era logico supporre che lì dentro la situazione fosse molto simile al contenuto della vaschetta di un
frullatore. Da lì a poco la sonda si sarebbe mossa verso l'interno della luna, confermando la
distruzione ipotizzata. Sarebbe stato sciocco sprecare energia per inviarle contro un'altra onda
disarmonica. Oberata da una lunga lista di mondi da annientare, la flotta doveva applicare una sana
parsimonia con i cannoni a vibrazioni.
Prima di godersi le immagini della disfatta di Hok't, il despota si sarebbe intrattenuto con la
devastazione delle isole erothiane. Sapeva bene come il suo generale non avrebbe atteso troppo
prima di iniziare a straziare la superficie del pianeta oaata. Il tiranno si rimise così a sedere sul
proprio scranno, felice come un cucciolo di Durr-la14. In attesa delle mosse del suo generale, chiuse
gli occhi e si rilassò raggiungendo uno stato di dormiveglia. Si ridestò di colpo quando udì il sibilo
della porta. Gli parve molto strano che qualcuno si fosse intrufolato nella sala. Il codice di apertura
era di esclusiva conoscenza del comandante, del generale e del capo ingegnere. Non vedeva come
potesse essere uno di loro. In quel momento si trovava con le spalle verso l'ingresso, quindi fece
roteare il trono fluttuante. Dal fondo della sala osservò un kadaja avanzare con passo flemmatico.
“Chi sei?”, domandò l'imperatore senza ricevere alcuna risposta. “Soldato, ti ho posto una
domanda e ti ordino di rispondere.”
Il kadaja continuò ad avanzare verso il tiranno. Spaventato, Khrun-le si mosse per chiamare la
sicurezza, ma i muscoli gli si paralizzarono inspiegabilmente; non riusciva più a compiere alcun
movimento. Neppure a parlare. Anche il respiro si era affievolito. Sperimentò il vero terrore. Non
capiva cosa gli stesse accadendo. Era la sensazione più orrenda che avesse mai provato. E ciò che
più lo terrorizzava era quell'individuo, ormai a pochi passi da lui.
“Sai chi sono?”, gli chiese il kadaja con tono calmo.
Khrun-le avvertì quella morsa invisibile attenuarsi, quindi a fatica rimbeccò: “Non ne ho idea,
bastardo di un traditore. Cosa hai fatto? Mi hai avvelenato?”
“Sicuro che non mi riconosci? Un imperatore dovrebbe tenere a mente i fatti più importanti del
suo regno.”
“Ti prendi gioco di me? Ti assicuro che finirai sbranato dalle belve di Vrandar-la.”
“Non credo”, proferì derisorio l'infiltrato. “Ti rammenta niente la torre di Bremvarr-la?”
“Non ci credo”, sussurrò il despota. “Sei davvero tu?”
Lo psicotrico quarantacinque annuì con un segnale telepatico.
“Che tu sia maledetto!”, gridò il tiranno.
“Maledicimi pure, ma ti servirà a poco.”
“Come fai a essere qui?”, lo incalzò Khrun-le sconcertato.
“Ha importanza?”
L'atteggiamento di Quarantacinque mostrava a chiare lettere chi, tra loro, aveva il controllo
assoluto, chi si sentiva infinitamente superiore.
“Come fai a farmi questo?”, volle sapere Khrun-le quasi del tutto paralizzato.
“Sai che sono stato liberato dai fidati, non è vero?”
“Quei fetidi sono tutti morti.”
“Mi spiace per loro”, commentò il telepate con flemma snervante. “Non se lo meritavano. Gli
devo la libertà e soprattutto la fine del tuo impero.”
“Che vai blaterando?”
Lo psicotrico, poco avvezzo all'uso delle parole, prima di iniziare a raccontare dovette schiarirsi
la voce.
“Fuggito dalla torre, mi resi conto di come i miei poteri si stessero implementando. Non solo ero
in grado di leggere le menti altrui, di impartire informazioni e ingenerare emozioni, ma stavo
diventando capace di operare verso chiunque un'ipnosi totale. Però, quest'ultima era una abilità che
potevo applicare solamente in un raggio spaziale relativamente contenuto. Per questo non sono
rimasto su Kajda.”
“Sei riuscito ad arruolarti nell'equipaggio traviando le menti dei miei kadaja”, ragionò a voce
alta l'imperatore sempre più sconvolto.
“È stato davvero semplice”, confermò il telepate. “Immagina che ho persino convinto i fidati che
fossi morto. Mi sono fatto abbandonare in un campo. Ma forse t'interessa di più sapere che in questo
anno a bordo della Xing-ne, sono riuscito a connettermi con le menti chiave di tutta la flotta. Il
generale, i comandanti e i loro vice sono sotto il mio controllo. Basterà una sequela di input cerebrali
per attivare le istruzioni che ho introdotto nei loro encefali.”
Khrun-le, furioso, compì qualche passo, ma lo psicotrico gli si parò di fronte per illudere il
cervello dell'imperatore che fosse il momento di riposarsi e addormentarsi. Il tiranno si afflosciò a
terra come un fiore appassito.
Quarantacinque, come programmato, si recò indisturbato verso l'hangar navi. Ad attenderlo
all'interno di una Wing-ne missilistica superluminale vi era un equipaggio di quindici kadaja
ipnotizzati. La riscossa degli psicotrici era iniziata.

“Per fortuna che abbiamo evacuato Hok't”, bisbigliò Pil nella più totale prostrazione.
Anche se non vi erano state vittime, l'industria tecnologica oaata era stata appena devastata.
“Le navi kadaja sono ricomparse”, avvisò l'addetto ai satelliti warp.
“Sapete cosa significa?”, lo interrogò il Dominatore angustiato.
“Si preparano a colpire Erothe”, ribatté il coordinatore del centro di comando.
“So che è un tentativo disperato, ma proviamo a centrarli”, ordinò Pil. “Lanciamogli contro tutto
quello di cui disponiamo.”
Nella sala si misero subito all'opera per eseguire il comando, ma un grido del responsabile ai
satelliti bloccò tutti.
“Che succede?”, pretese di sapere il Dominatore.
“Un attimo, vi prego”, replicò l'addetto, occupato a persuadersi dell'assurdità che stava
ammirando. “Manovre prive di senso”, aggiunse poco dopo, rendendo visibili a tutti le immagini in
arrivo dall'orbita della flotta imperiale.
I volti dei presenti divennero un inno allo sbigottimento.
“Per tutta la galassia!”, esclamò uno dei preposti ai cannoni laser. “Si stanno schierando in due
formazioni contrapposte.”
“Avete visto?”, disse un altro.
“Cosa?”, domandò Pil.
“Un lampo.”
“Un lampo?”, ripeté qualcuno.
“Sono sicuro che una nave abbia sparato verso un'altra”, comunicò l'addetto ai satelliti.
Per la più grande meraviglia del centro di comando, gli oaata incollati agli olomonitor videro
scatenarsi un inferno di plasma incandescente che si espanse da una Xing-ne all'altra. Scafi contorti,
sezioni divelte ed esplosioni spettacolari divennero i protagonisti del più bel filmato che un essere
oaata avesse mai potuto fantasticare.
“È uno scherzo?”, domandarono in fondo alla sala.
“Per la carogna di Kajda, è tutto vero!”, esultò l'addetto ai cannoni.

La popolazione era stata informata sul rischio di una guerra devastante e l'urgenza di creare armi
rivoluzionarie, ma nessuno l'aveva avvertita delle possibilità di un arrivo imminente della flotta
imperiale. Era una prassi inconsueta quella del mancato avviso, poiché ritenuta immorale. Secondo il
credo oaata, tutti avevano diritto di essere informati e avere la possibilità di fuggire, barricarsi o
dare un ultimo addio a un proprio caro. Tuttavia, che senso avrebbe avuto diffondere il panico
quando era ben chiaro che nessuno avrebbe avuto possibilità di salvezza, giacché persino la fuga
sarebbe stata preclusa? All'interno del Consiglio di Erothe, in molti avevano sottolineato il diritto di
trascorrere gli ultimi momenti della propria vita con gli oaata e nei modi desiderati. Alla fine, per un
solo voto aveva vinto il partito del no. Il democratico Pil ne aveva preso atto annunciando di voler
rispettare la votazione; tanto più che in cuor suo non avrebbe saputo dire cosa sarebbe stato più
conveniente. Nel suo ruolo non esisteva soltanto la condizione di giustizia morale, ma il dovere di
discernere cosa fosse più fruttuoso per la vita e l'ordine della società che amministrava.
Se la massiccia evacuazione di Hok't aveva alimentato i timori di un imminente attacco, i bagliori
intorno ad essa ne avevano confermato i sospetti. L'insperata vittoria lampo derivata da un
inspiegabile quanto folle comportamento del nemico, avrebbe trasformato il crescente panico in una
gioia incontenibile. L'abbattimento dell'armata kadaja e la probabilissima morte del tiranno
avrebbero aperto una nuova era di pace e una florida stagione di commerci. A livello politico e
istituzionale sarebbe stato d'obbligo indagare a fondo prima di scendere a determinate conclusioni,
ma l'annientamento di ventisei Xing-ne annullava difatti la potenzialità distruttiva del nemico.
Apprese le dinamiche che avevano portato al miracolo, la Grande Alleanza avrebbe potuto
concretizzare il sogno di recarsi su Kajda e imporre le condizioni di resa, e magari istituire o guidare
una nuova forma di governo. Un'operazione complessa per gli alleati, poiché sarebbero divenuti gli
odiati invasori, ma in quel frangente, il vero nocciolo della questione sarebbe stato il ribaltamento di
un'avversa condizione millenaria.
Ancora incredulo nella sala di controllo, rivolto a tutti, Pil domandò: “Possibile che siano stati
tanto superbi da arrivare ad ammazzarsi l'un l'altro?”
“Non lo ritengo plausibile, ma qualunque sia la causa, credo che gioiremo per anni”, fu la prima
risposta.
“Grazie Uurrnet15”, fu la seconda.
“Credi davvero in un dio creatore?”, chiese una oaata rivolta verso colui che aveva invocato il
nome divino.
“Nella galassia regna un diffuso ateismo, eppure le preghiere devono essere state ascoltate”,
replicò l'interpellato.
“Uurrnet la sapeva lunga”, commentò qualcuno.
“Sono scettica riguardo alla questione, però sai che ti dico? Domani verrò con te a rendere gli
omaggi al tempio di Uurr.”
La maggior parte degli astanti si lasciò andare al coro di Uurr. Prima che il Dominatore li
interrompesse, urlarono quel nome una dozzina di volte. Richiamati all'ordine, Pil decretò:
“Dobbiamo annunciare al popolo la disfatta kadaja. Trasformare la paura in letizia.”
“Prevedo migliaia di pent-pent16 per le strade”, disse rallegrato il responsabile ai satelliti.
“E anni di duro lavoro su Hok't”, ricordò subito il Dominatore.
“Avvertiamo gli alleati?”, propose uno dei presenti.
“Per loro non c'è alcuna fretta”, sancì Pil con un ghigno che sapeva di vendetta.

Una Wing-ne occultata era la sola nave integra dell'intera flotta imperiale. Portatasi a debita
distanza, i suoi occupanti erano rimasti indifferenti alle numerose esplosioni. Sembravano una via di
mezzo fra dei vegetali e dei robot privati del software della personalità. Il solo a godere di uno
smisurato appagamento era un kadaja conosciuto con il nome di Quarantacinque. Uno psicotrico che
aveva comandato alla mente del pilota di iniziare il lungo ritorno verso casa. Mesi in cui si sarebbe
impossessato di ogni singola cellula cerebrale dell'equipaggio ed elaborato un grande progetto per il
futuro dei suoi simili e di Kajda intera.
Dodici

Era la prima volta che si trovava nella periferia di Phoenix. Non era mai stata particolarmente
attratta dall'Arizona. L'aveva sempre intesa come un arido deserto dalle estati impossibili. Era partita
all'alba, dall'altra parte degli Stati Uniti, e ora non mancava molto al tramonto. Si era disfatta di ogni
dispositivo mobile, e la carta spendicredit non era la sua, ma di un cugino che aveva deciso di
aiutarla, ipotecandosi il futuro di guai. Con sé disponeva soltanto di un microproiettore offline.
Conteneva dati utili, sia per il presente che per l’avvenire prossimo. I servizi segreti ancora non le
stavano addosso, ma presto, non vedendola più entrare nella sua casa in Virginia, lo avrebbero fatto.
Capelli a caschetto neri, lenti a contatto marroni e supplente di scienze alla middle school; questa era
Alisa Green, la sua nuova identità. Che umiliazione, pensava spesso. Non l'avevano mai
entusiasmata i cognomi che ricalcavano i colori, e per di più l'odiosa ragazza dei tempi del college si
chiamava proprio Alisa. No, questa vita non poteva fare per lei.
Il tassì automatico l'aveva lasciata di fronte al grattacielo serra a nord-est della città. Il suo
obiettivo si trovava a mezzo miglio più a sud, in un'anonima strada con bianche case squadrate non
più alte di un piano. Aveva smosso mari e monti per trovarlo. Aveva persino promesso a un contatto
governativo di andare a letto con lui. L'uomo l'avrebbe attesa per la settimana successiva, convinto
che lei lo avrebbe raggiunto con tanto di valigetta erotica. Era stata brava in olocam, mostrando le
sue nudità e promettendo perversioni da scandalizzare professionisti del porno. Quando il maniaco si
sarebbe accorto di non poter riscuotere la sua ricompensa, sarebbe stato fra i primi a darle una
caccia spietata.
“Sì, eccola”, annunciò quando riconobbe la strada. Quarta casa a sinistra e il cuore che le batteva
forte. Pregò che si trovasse lì. Era un tipo calmo, dinamico nel lavoro, ma nel privato
tendenzialmente pantofolaio, anche se aveva avuto tanto coraggio nel vivere l'avventura più pazzesca
del genere umano.
Percorse il breve vialetto che la separava dalla porta di ingresso. Avvicinò il dito al sensore del
campanello, poi lo abbassò. Tremava. Rimase immobile per dei secondi interminabili. Le sembrò di
perdere la cognizione dello spazio-tempo. Sapeva bene quanto potesse essere relativo; lo aveva
imparato a sue spese. Avrebbe suonato, ne era certa. Non era arrivata sin lì per tornarsene con la
coda fra le gambe. Le serviva solo un po' di tempo, per calmare il respiro e asciugarsi il sudore sulla
fronte. Poi lo scatto improvviso della serratura e la porta che si aprì la fecero sobbalzare. Il padrone
di casa era stato incuriosito da quella mora in sosta da troppo tempo là fuori. L'aveva intravista dalla
finestra, ma non era riuscito a vederla bene in volto. Ora era di spalle.
“Posso esserle d'aiuto?”, domandò l'uomo scegliendo una via cortese.
La donna lo fissò. Le operazioni chirurgiche ne avevano modificato alcuni tratti, ma si accorse
subito di come fosse colui che stava cercando.
Il padrone di casa l'osservò pensando che fosse attraente, ma che potesse essere anche fonte di
guai, come la giornalista che si era parata di fronte a casa sua in cerca di quello che sarebbe potuto
essere lo scoop del secolo. Gli occhi di lei luccicavano. Sta piangendo?, s'interrogò l'uomo che
all'improvviso provò un brivido lungo la schiena. La donna chinò la testa e portò le mani verso gli
occhi.
Che fa?, si domandò lui. Si sta togliendo delle lenti a contatto?
Appena la donna ebbe terminato, si avvicinò facendo mostra delle sue inconfondibili pagliuzze
oro. Henry ne aveva provate di emozioni, ma quella gli parve la più forte di tutta la sua vita.
“Kat...”, provò a dire, ma lei l'interruppe baciandolo e abbracciandolo.
Conclusa l'effusione, Davis si scrutò intorno per capire se qualcuno delle agenzie li stesse
osservando. Quindi rientrò con lei in casa.
I due si guardarono, sorridenti e frastornati. Non vi erano parole che sembravano adatte.
“Io, io”, balbettò Henry, “temevo che...”
“Non ci saremmo più rivisti.”
“Che ne avessi abbastanza di me.”
“Sei uno zuccone che aveva rinunciato.”
“No, io ti ho pensato ogni secondo, giuro. Solo che, con il programma di... Ma come hai fatto a
trovarmi?”
“Sono una tipa sveglia, io.”
Lui sorrise, conscio di quanto avesse ragione. Quanto a perspicacia e spirito d'iniziativa, lei gli
era sempre stata una spanna sopra.
“Hai intrapreso un rischio incredibile. Ero certo che se uno di noi avesse tentato una simile
impresa, lo avrebbero arrestato prima di riuscirci.”
“Li ho ingannati, ma nelle prossime ore scopriranno la verità”, spiegò la Aniston dopo aver
estratto dalla tasca un cilindro argenteo grande quanto una sigaretta.
“Che intenzioni hai?”
“Zitto e guarda.”
L'oggetto proiettò l'immagine di una spiaggia paradisiaca, con tanto di effetti sonori.
“Cos'è?”
“La nostra nuova casa. Un posto in cui non ci troveranno.”
“Ma come...”
“A dopo le domande. Dobbiamo muoverci immediatamente.”
“Rintracceranno le nostre spendicredit.”
“Ho pensato a tutto. Vuoi venire o no?”
“Sto già lì.”
Uscirono di casa appena dieci minuti dopo, con il sole basso all'orizzonte. Il destino aveva
sempre avuto notevoli sorprese per loro. Svanirono in una notte di mezza estate fra i deserti
dell'Arizona.

Intanto a migliaia di parsec...

Traffico impazzito per le strade e nei cieli, raggi laser decorativi, pet-pet, antiche ballate nei
vecchi anfiteatri e fiumi di bevande fruttate e liquorose per la più grande festa a memoria di oaata.
“Vi ricordate dei terrestri?”, domandò un Consigliere all'Onorevolissimo.
“Cosa dovrei ricordarmi?”, urlò Pil nel delirio acustico dei festeggiamenti.
“I terrestri”, ripeté l'oaata, lentamente e con voce grossa.
“Ah, sì, sì, loro”, rammentò Pil intento a gustarsi Om'Imy e An'Issa scatenati in mezzo alla folla.
“Li avvisiamo?”
Il Dominatore si scolò l'ennesimo sorso della giornata.
“Ma sì.”
“Stasera?”
L'Onorevolissimo fissò il suo interlocutore come se avesse proposto la scemenza dell'anno.
Quindi, correggendosi, l'oaata avanzò: “Domani?”
“Che ne dice del prossimo novilunio?”, rilanciò il Dominatore.
“Ma mancano dodici giorni.”
“Dodici giorni di festa”, puntualizzò Pil all'ottavo bicchiere della giornata.

Ogni mondo alleato si era scatenato a modo proprio. Se per esempio su Zarth si era registrato il
più alto tasso di accoppiamenti amorosi, sul pianeta dei Lhot, miliardi di individui nudi si erano
gettati addosso polveri colorate, trasformando qualunque cosa in un arcobaleno.
La festa cosmica era iniziata.
Epilogo

Aveva fatto ogni genere di tentativo in un esperimento lungo quasi un anno. La portata dei suoi
poteri era ora inimmaginabile per qualsiasi comune mortale. Quarantacinque ignorava se fosse una
condizione meramente personale o possibile anche per altri psicotrici; una questione che andava
indagata a fondo, da una parte per comprendere sino a che punto i telepati potessero riappropriarsi
della propria vita e dare una svolta alla società kadaja, dall'altra per capire se lui disponesse di un
prodigio unico che lo eleggeva all'essere più potente della galassia. Unico punto fermo rimaneva il
dominio assoluto esercitato sulla mente dell'equipaggio che lo aveva aiutato a tornare nell'orbita di
Kajda. Individui ridotti ad automi sotto il suo controllo.
La Wing-ne si qualificò come la sola nave scampata al disastro di Erothe. Gli occupanti vennero
identificati e scortati a terra da numerosi velivoli che l'affiancarono nell'alta atmosfera. Il loro
imminente destino sarebbe stato quello di essere sottoposti a un duro interrogatorio da cui gli
investigatori difficilmente avrebbero ricavato qualcosa. Già durante le ultime fasi di avvicinamento a
Kajda, Quarantacinque aveva iniziato a compromettere la memoria dell'intero equipaggio. Una volta
scesi nello spazioporto, ottenere un lasciapassare e darsi alla macchia sarebbe stato poco più di un
gioco.

Dalla disintegrazione della flotta, Wrunt-le era divenuto ufficialmente il nuovo imperatore.
L'erede diretto al trono era una giovane kadaja di nome Grant-le. Unica figlia di Khrun-le, si era
detto avesse pubblicamente abdicato poiché le imperatrici, al contrario del loro equivalente
maschile, non avevano avuto mai vita facile. La si tacciò di codardia, rafforzando l'idea di come un
maschio fosse più idoneo. Soltanto in un secondo momento si era scoperto di un incendio che aveva
devastato la dimora di Grant-le e di uno strano incidente che le aveva ridotto in frantumi tutte le dita
della mano destra. Una faccenda che sembrò importare davvero a pochi. La popolazione era
sconvolta per l'annientamento inspiegabile della grande armata imperiale. Essere amministrati da un
kadaja che durante l'assenza di Khrun-le aveva sfoggiato tanta determinazione da riuscire a mettere in
sicurezza la capitale, rappresentava la miglior soluzione possibile. E l'entusiasmo per Wrunt-le era
salito alle stelle quando egli aveva pubblicizzato la distruzione di tutti i cancelli liyani, in un raggio
tanto ampio da richiedere al nemico anni di viaggio. I propulsori kadaja erano decisamente i più
efficienti della galassia. Nella strategia del nuovo tiranno ciò avrebbe preservato Kajda da
un'imminente invasione. Un arco di tempo in cui avrebbe investito ogni risorsa per ricostruire una
nuova flotta, senza dover richiamare le singole Xing-ne disseminate nei vari sistemi stellari per il
controllo dei mondi assoggettati. Ovviamente sussisteva il pericolo di perdere quei mondi meno
difesi o solamente osservati come quello terrestre. Era ovvio che il piano fosse di proteggere le
regioni e i siti più importanti per collocazione e disponibilità di risorse. Anche con il supporto di un
programma avanzato, l'angoscia di Wrunt-le non si sarebbe attenuata fin quando non avrebbe inteso la
causa del reciproco annientamento delle Xing-ne. Non solo era pazzesco il fatto che ci si
autodistruggesse a quel modo, ma era ancor più folle la certezza che il tutto fosse avvenuto senza che
le manovre e gli attacchi fossero stati ordinati dall'imperatore, dal generale o da un singolo
comandante. Era accaduto e basta, come se al posto di esseri senzienti vi fossero state delle
macchine programmate. Che i nemici avessero sviluppato una tecnologia in grado di manipolare la
mente? Era questa la domanda inquietante e senza riposta che assillava l'imperatore e i suoi kadaja.
Dalle attività di spionaggio non risultava assolutamente una cosa del genere. Che anche i loro
infiltrati mentissero sotto l'influenza di una sostanza o un'energia ipnotica? Sembrava davvero
un'esagerazione. A ogni modo si erano verificati anche dei risvolti positivi. Dopo che i fidati erano
stati sbranati, dilaniati e fagocitati dalle belve di Vrandar-la, il pericolo di sovversivi che volessero
destabilizzare l'istituzione imperiale, si era dissolto. In definitiva, Wrunt-le cercò di convincersi di
poter rimanere tranquillo ed esercitare il proprio potere serenamente, poiché anche nella peggiore
delle ipotesi, lo avrebbero atteso anni di governo in cui niente o nessuno avrebbe potuto minacciarlo.
E se poi fosse arrivato un aggressore, ad accoglierlo ci avrebbe pensato la più grande e potente
armata di cui Kajda avesse mai disposto.

Rinchiuso in una misera e cupa cella, lo psicotrico ventidue malediva la nottata insolitamente
gelida. Padre universo gli aveva donato una facoltà speciale ma, per colpa di coloro che ne erano
sprovvisti, era finito per essere condannato a un'esistenza tragica. Più di una volta aveva pensato al
suicidio; si trattava però di una pratica disonorevole e a cui si sentiva poco predisposto. Inoltre,
perennemente sorvegliato, persino farsi del male sarebbe stato complicato. Entrare in possesso di
oggetti taglienti o contundenti sarebbe stata una vera impresa. Le posate per mangiare erano smussate
e le pareti della cella foderate di un materiale che avrebbe attutito anche il colpo di un cannone. Al
contrario delle galere di altri mondi, non vi erano abbastanza tessuti per improvvisare una corda e
impiccarsi. I telepati non disponevano di lenzuola, ma solo di leggeri abiti termici indeformabili.
Ventidue provò in tutte le maniere a prendere sonno, senza riuscirci. Quando, finalmente, poco prima
dell'alba stava per addormentarsi, udì il risucchio che precedeva l’apparizione di un’apertura sulla
parete. Destatosi di soprassalto notò come la porta della cella si fosse aperta. Subito lo colpì
l'assenza del ronzio dell'invisibile barriera energetica posta oltre il metallo della porta. Ancor più
strano era il fatto che nessuna guardia fosse entrata. Temendo una trappola si affacciò guardingo.
Giunto sull'uscio, allungò un braccio per accertarsi che non vi fosse nessun ostacolo energetico a
inibirgli l'uscita. In un attimo si ritrovò all'esterno con tutto il corpo. Non vi era stato niente e nessuno
a fermarlo. Si guardò intorno e vide due guardie imbambolate. Sembravano drogate, ipnotizzate, o
qualcosa di simile. Poi percepì una voce dentro la sua mente. Doveva trattarsi di uno psicotrico come
lui. In qualche modo era riuscito ad arrivare fin lì, a neutralizzare la sicurezza e a liberarlo. Il suo
simile si presentò nel nome di Quarantacinque e, tramite istruzioni precise, lo guidò al piano terra
ove s'incontrarono. Seguimi, gli ordinò telepaticamente. Ventidue non se lo fece ripetere due volte e
lo tallonò. Superarono tutte le uscite con le guardie accondiscendenti. Per un attimo Ventidue credette
di sognare. Qualunque trucco stesse utilizzando il compagno, temette che difficilmente avrebbe potuto
ripeterlo su un'intelligenza artificiale ma, arrivati all'uscita principale, vide robot e droni disattivati e
abbandonati in un angolo come ferri vecchi. Era ovvio che i controllori del carcere fossero stati
indotti a spegnerli.
Una volta fuori, Ventidue si fermò in lacrime. Si stava concretizzando l'insperato sogno di una
vita.
Forza, dai, non ti fermare proprio ora, lo incitò Quarantacinque. I due corsero a più non posso,
fino a raggiungere il retro di un edificio antistante. Ad attenderli vi era una navetta fluttuante. Il
portello era aperto e delle braccia spuntarono per aiutarli a salire.
Appena misero piede nel velivolo, questo accelerò e prese rapidamente quota.
Con il fiato corto, le lacrime agli occhi e un sorriso isterico, vedendo la presenza di altri due
kadaja, Ventidue domandò: “Chi siete?”
Trentuno, piacere, rispose uno.
“Nove”, rispose l'altro.
“E tu sei Quaranta...”, disse Ventidue cercando di ricordarsi il nome esatto.
“Quarantacinque”, proferì colui che lo aveva tolto dall'incubo.
Il liberatore, evidenziò Nove.
Siamo all'alba di una nuova epoca, affermò Trentuno.
Ventidue era tanto eccitato e sorpreso da non riuscire a capire di cosa stessero parlando. Con la
mente e lo sguardo cercò di comprendere.
La nostra epoca, ribadì Trentuno.
L'era psicotrica, precisò Quarantacinque.

Mi ha ingannato. Non esiste alcuna spiaggia. Poche ore di viaggio si sono trasformate in mesi
al cardiopalma. Non riesco a incolparla per avermi trascinato sin qui. Era consapevole della mia
avversione nei confronti dello spazio. Per questo ha mentito. Ignoro cosa avrei fatto se mi avesse
rivelato la reale meta prima che tornare indietro fosse stato impossibile.
Una colonia della fascia esterna non si può definire propriamente un luogo accogliente,
soprattutto per chi come me è legato indissolubilmente alla Terra. L'unico problema è che alcuni
di coloro che amministrano il pianeta azzurro non ci ritengono i loro migliori amici. È stata
tutt'altro che una passeggiata doversi nascondere per giorni fra bobine di plasma, condotti di
areazione, pannelli isolanti e in serbatoi riciclatori. Più volte abbiamo rischiato di essere
scoperti, fulminati, annegati o smolecolarizzati. Ma alla fine ce la siamo cavata. Kate è una gran
donna. I coloni della fascia esterna sembrano odiare la Terra. Si sentono abbandonati, traditi da
progetti rinviati o mandati a monte. Per quelle poche anime che vi sono nate, l'insediamento di
Eris rappresenta la loro casa. Per tali ragioni, chiunque sia nemico di un governo terrestre, è loro
alleato. Abbiamo trovato ospitalità e, cambiando identità per la seconda volta, ci siamo
reintrodotti in questo nuovo mondo. La cosa che più mi rende felice è quella di essere tornato a
svolgere la mia professione. Non ci sono molti medici su Eris, pertanto fra la comunità sono
tenuto in considerazione. Kate pare essere soddisfatta nel fornire un prezioso aiuto con le
coltivazioni. Le sue conoscenze in ambito biologico stanno apportando degli incrementi nei
raccolti. Se devo essere onesto, tutto sommato siamo felici. Inverosimilmente, da quando ci siamo
conosciuti, questo rappresenta uno dei nostri momenti più semplici. Anche se qualcuno che non
deve scoprisse la nostra vera identità, non credo che il governo americano si darebbe tanto da
fare. Su Eris non attraccano più di due o tre navi all'anno. La distanza dalla fascia interna è
siderale, in particolar modo dopo l'abbandono delle tecnologie superluminali. Un viaggio di
andata e ritorno può costare milioni di credit. Costantemente spiati, ritengo assurdo che sulla
Terra non abbiano avuto la possibilità di scovarci e arrestarci. Fin dall'inizio devono aver saputo
le reali intenzioni di Kate. Autoconfinandoci qui gli abbiamo fatto un gran piacere.
Sovente mi interrogo sul destino degli alieni. Azzardo sperare che la guerra galattica si sia
conclusa a sfavore della razza imperialista. D'altronde sono trascorsi anni dal ritorno della Nexus
e, da quello che si può notare, nessuno è venuto a turbare il sistema solare.
Kate ha espresso il desiderio di avere un figlio. Non ritengo che la colonia sia il miglior posto
dove far crescere un bambino. Ma già so che accetterò la sua richiesta. Sono le donne ad avere
voce in capitolo su certe questioni. Sono sicuro che possa essere la miglior madre possibile. Mio
figlio erisiano. Mi viene da ridere. Fino a poco tempo fa neppure sapevo cosa fosse Eris. Forse, un
giorno, insieme al nostro primogenito, potremo tornare a respirare l'aria del pianeta azzurro.
Ma non ora, non ancora.

Fine
(per ora)
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Il primo messaggio è di pace, tuttavia ci si può fidare?
Questa è la storia del primo contatto fra l'umanità e la civiltà di un altro mondo, con tutte le
vicissitudini, gli interrogativi, gli inganni, le curiosità, le paure e le problematiche etiche che
possono seguire; ma è anche la storia della grande astronave in orbita attorno alla Terra, e del diario
di un agente segreto che ha la missione di sventare l'eventuale conquista aliena.
Protagonisti incontrastati saranno intelligenze artificiali, agenti segreti sospesi fra la vita e la
morte, minacce nucleari, simulazioni virtuali che, assieme alla forza dell'amore fra un uomo e una
donna e alla misteriosa origine di una civiltà aliena, caratterizzeranno in modo ineluttabile il destino
dell'intera umanità.

Se per un istante la sorte della Terra fosse nelle mani di un singolo individuo?
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La colonizzazione del sistema solare è iniziata e l'ingegner Jeff Baker e l'esobiologa Nicole Price
si trovano in missione esplorativa. Destinazione Callisto. Quando i due sono prossimi all'atterraggio,
lo stesso viene compromesso da un improvviso malfunzionamento dei sistemi elettronici. Conquistato
il suolo senza particolari danni i due rimangono esterrefatti dalla visione di un'astronave sconosciuta.
Ciò che osservano suggerisce che si sia schiantata. Baker è un esperto di motori spaziali e quando si
tuffa nella perlustrazione della nave, asserisce di non aver mai visto nulla di simile. Per lui le ipotesi
sono soltanto due: o si tratta di un progetto super segreto o la nave appartiene a un altro sistema
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caratterizzano la vita dell'umanità, Kira Jurevna vince un premio insperato. Lei e altri quattro
compagni hanno la possibilità di orbitare intorno alla Terra a bordo della Revival. Giunti alla quota
di oltre trecento chilometri, iniziano ad ammirare l'esclusivo panorama, ma ben presto, la magnifica
esperienza si trasforma nella più inimmaginabile delle tragedie. Sulla superficie del pianeta compare
una macchia di luce accecante, nel bel mezzo del continente europeo. Può trattarsi soltanto di una
detonazione nucleare. Gli inesperti astronauti iniziano a ragionare sulle implicazioni. Tuttavia non c'è
tempo per le riflessioni. Il segnale con la base di Nairobi è svanito, e un numero impressionante di
bagliori comincia a ricoprire il globo.
"The end of the world", esclamano a bordo.
Potrebbero essere gli unici superstiti della razza umana.
Rinchiusi in una scatola metallica.
A trecento chilometri di altezza.
Qual è il loro destino?
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1)
Tipico legno zarthiano usato fin dai tempi antichi per la produzione di carta. ↵
2)
Un anno zarthiano corrisponde a circa 31 giorni terrestri. ↵
3)
Un quur-na è la misura del diametro del sistema stellare kadaja, una delle unità
maggiormente adoperate dall'impero. Equivale a circa otto volte la distanza
Plutone-Sole. ↵
4)
Teoria del tutto che combina matematicamente le cinque teorie delle superstringhe
e la supergravità a 11 dimensioni, nonché le quattro interazioni fondamentali. ↵
5)
In fisica teorica corrispondono a corde vibratorie supersimmetriche infinitamente
più piccole di una particella subatomica. ↵
6)
Animali con la criniera bionda simili ad asini. ↵
7)
Con il lato più lungo di circa quattro miglia, appartiene alla classe Xing-ne,
categoria delle navi spaziali più imponenti. ↵
8)
La kajdaformazione è il processo artificiale atto a rendere abitabile per un kadaja
un pianeta o una luna. Creando o modificando la composizione chimica
dell'insieme dei gas che circondano l'astro, si ottiene un mondo in grado di
sostenere un ecosistema kajdano. ↵
9)
Quadrupede kadaja di grossa taglia e dal manto striato bianco e viola, d'indole
selvaggia ma addomesticabile, possiede un ampio dorso, lunghi artigli retrattili
sopra solidi zoccoli e mastodontici palchi sul capo. Le sue caratteristiche fisiche
ne hanno fatto nelle ere antiche uno degli strumenti da battaglia più letali. ↵
10)
Simile all'armadillo terrestre, è noto per essere l'animale kadaja più attivo
sessualmente ↵
11)
Frase idiomatica. Poiché lo schiarirsi della tipica pigmentazione oaata è il primo
segno del rigor mortis, avere salvo il colore rosso equivale ad avere salva la vita.

12)
Portatrice di sfortuna, l'antica dea oaata viene tuttora menzionata per imprecare
contro la sorte funesta. ↵
13)
Tre micro-quur-na corrispondono a poco meno di un'unità astronomica; una
distanza che la luce copre in circa otto minuti. ↵
14)
Piccolo quadrupede dal folto pelo verde, famoso per le spesse labbra all'insù che
gli conferiscono un illusorio perenne sorriso. ↵
15)
Dio creatore dell'ultima religione monoteistica in ordine di apparizione storica
oaata. ↵
16)
Danza tradizionale oaata tipica delle feste. La sequenza di passi risulta molto
semplice e adatta a tutte le età. ↵
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by Luca Calcinai

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