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Il padre selvaggio
0042
EINAUDI
Pier Paolo Pasolini
Il padre selvaggio
Einaudi
Il padre selvaggio è qualcosa a mezza strada tra il racconto e la sceneggiatura. Pasolini lo scrisse per un film che non ha
realizzato. È la storia di una educazione alla vita o, se vogliamo, della scoperta della propria identità da parte di un ragazzo
negro, Davidson 'Ngibuini: un adolescente come tanti altri, che venuti dalle tribù lontane vivono e studiano tra i cortili e le
baracche-dormitorio della scuola di Kado, in Africa.
Ogni classe ha il suo insegnante, e anche Davidson e i suoi compagni - Idris, Paolino, 'Ngomu - hanno il loro. Gran parte del
racconto è proprio la storia dei rapporti difficili, passionali, tra il professore bianco e i suoi scolari. Sullo sfondo si agitano
inquieti i fantasmi del neo colonialismo, tra truppe mercenarie, campi di concentramento per tribù negre, villaggi in preda ad
uno spaventoso decadimento. Davidson e i suoi coetanei, con il loro povero bagaglio di conoscenze, intuiscono confusamente
l'intrico di questa orribile situazione di sfruttamento e di morte: non sanno ancora se immergervisi o se assistere al turbine del
disordine e della violenza come spettatori, come estranei. Dopo le vacanze - una parentesi che lo ha immesso di colpo nel
magma delle contraddizioni della sua gente - Davidson torna a scuola: ma per lui non è più come prima. Una lacerazione si è
aperta in lui: la ferita è il prodotto del contrasto tra storia e preistoria, tra natura e «civiltà»: ma è con questa ferita che
Davidson ha acquistato «un duro sentimento di passione razionale»: sul suo viso si è aperto «un fosco, innocente sorriso».
Di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) in edizione Einaudi: La Divina Mimesis (1975); La nuova gioventù (1975); Lettere
luterane (1976); L'usignolo della Chiesa Cattolica (1976); San Paolo (1977); La religione del mio tempo (1982); Passione e
ideologia (1985); Lettere 1940-1954 (1986) e Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini (1988); Affabulazione Petrolio
(1992); Antologia della lirica pascoliana (1993);] attraverso le lettere a cura di Nico Naldini (1994); Poesia lettale del
Novecento, con Mario Dell'Arco (1995); della città di Dio, a cura di Walter Siti (1995).
ISBN 88-06-4141
© 1975 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino
Impostazione grafica di copertina: Federico Luci
ISBN 88-06-41483-6
Einaudi
1. Strada scuola Kado.
Esterno giorno.
Attraverso uno spiazzo di capanne, di mogani, l'insegnante arriva alla scuola. È il primo giorno. Tremore, voce
interna che parla, ecc. Sente delle grida: «Fratello, fratello!», è così che si chiamano i ragazzi giocando a pallone in
un prato funebremente rosa davanti alle baracche della scuola.
L'insegnante sta ad ascoltare quei ragazzi che giocando con goffaggine di contadini, si chiedono il pallone
gridandosi: «Fratello, fratello!»
Interno giorno
L'insegnante entra, guarda.
Un banco è vuoto, il banco di Davidson.
Offeso, traumatizzato per l'ira dell'insegnante — che ha creduta tutta rivolta contro di lui — Davidson non è
venuto a scuola. Dalle informazioni sconnesse e quasi ostili degli scolari l'insegnante lo viene a sapere. Capisce
che è grave, «precedente» che non si deve ripetere, non deve essere, che va subito risolto.
Cosi esce dall'aula, imprevisto, sempre più assurdo, ecc.
7. Scuola Kado.
Interno-esterno giorno.
Cortili, baracche e dormi tori. La scuola di Kado è anche una specie di misero «College». Gli interni - venuti
dalle tribù lontane — vi alloggiano, a pensione.
L'insegnante va in cerca di Davidson: attraverso quei cortili rossicci... le mortuarie ombrelle di manghi... La
cucina, coi servi negri che, nell'ora tranquilla, ridono come bambini... Le camerate, coi poveri bagagli degli
«interni»: vestiti di tela bianca in disordine... qualche giornale... qualche strumento musicale... qualche fotografia
in capo al letto: il padre, la madre, coi loro terribili sorrisi quasi di bestie, in un angolo dell'Africa, contro qualche
baracca... contro gli «stores», dei magazzini con dei negretti sbandati e anche loro ridenti.
Davidson è seduto laggiù, dove lo spiazzo della scuola finisce con una specie di boscaglia, torva splendida, ma
infeconda.
L'insegnante lo avvicina.
Dialogo tra i due. Primi tentativi inutili dell'insegnante, coi mezzi consueti della persuasione. Ma Davidson è
chiuso nella sua misteriosa offesa, nel suo oscuro trauma.
Solo ricorrendo a mezzi disperati, alla fine, il professore riesce a convincerlo: facendo un po' il buffone,
imitando un vecchio negro che parla il dialetto di Davidson che l'insegnante sa male, e che quindi strappa un
sorriso fanciullesco nel giovane.
8. Aula scuola Kado. Interno giorno.
(Qualche giorno dopo).
L'insegnante guarda la sua scolaresca.
Nulla è cambiato. La voce interiore lo segnala disperata, appassionata.
Tenta di ripetere la lezione su Ennio, interrompendosi ogni tanto, per chiedere a qualcuno cosa ha capito, se
conosce il senso di alcune sue parole, se gli sono nuovi alcuni concetti. Fatto per fatto, parola per parola, concetto
per concetto, i ragazzi comprendono. Ma sfugge loro l'indirizzo culturale che segue il professore, il suo metodo che
imposta le cose in modo così diverso da quello a cui i loro professori di «colonia» li avevano abituati.
Essi non sanno nulla di ciò che è fuori dalle conoscenze scolastiche.
— Ma che libri, che libri avete letto, oltre i vostri manuali?
Non hanno letto niente, non hanno mai avuto un libro proprio; nel «College» c'è una biblioteca ridicola.
9. Aula scuola Kado. Interno giorno.
(Qualche giorno dopo).
Poiché le cose già consacrate dall'insegnamento, le cose tradizionali, i concetti già resi aprioristici dalla scuola
sono diventati delle specie di tabù nelle teste dei ragazzi, irremovibili, l'insegnante pensa di agganciare con la loro
sensibilità un rapporto reale attraverso mezzi non strettamente scolastici.
Qualcosa che è fuori programma.
E comincia - col tono sempre leggermente scandaloso che caratterizza il suo idealismo sempre un po' ingenuo e
sfasato - a leggere in classe la poesia di un poeta negro moderno (Senghor, per esempio, o De Andra-deecc.).
È una poesia difficile: prodotto culturale di raffinata scuola europea (da Dylan Thomas giù ai simbolisti), e
quindi stilisticamente poco abbordabile. Inoltre, il suo contenuto è altrettanto difficile, perché prodotto da una
ideologia che mescola progressismo e nazionalismo, laicismo e rivendicazioni dello spirito ancestrale. I ragazzi
capiscono il loro poeta ancora meno di Ennio o Nevio e l'insegnante allora si accinge a parafrasarla, spiegandola
verso per verso, IMMAGINE PER IMMAGINE. Rendendo le immagini famigliari ai ragazzi, quelle ch'essi
sperimentano tutti i giorni, nella loro vita quotidiana a Kado.
9. A, B, C, D, E, F, G, H, I, L, M, N
Ambienti descritti dalla poesia, città di Kado e foresta.
(POESIA)
37.
Scontro politico tra Davidson e il padre capotribù, che è dalla parte dei capi africani d'accordo con le grandi
società minerarie neo-colonialiste, e che si accinge a lottare contro una tribù tradizionalmente nemica, fedele al
governo centrale.
38.
Danze e riti che preparano alla guerra. Davidson ne è travolto, coinvolto. È troppo debole la sua reale
conoscenza della situazione politica, dei reali interessi economici, della reale arcaicità dell'odio tribale che si
inserisce nella attualità del conflitto.
39.
Scontro fra tribù. La tribù del padre di Davidson fa razzia e commette atrocità nel villaggio nemico che rimane,
nella funebre luce del sole, un ammasso di capanne incendiate, di cadaveri riversi sulla polvere accecante.
40. Foresta. Esterno giorno.
Intervento delle truppe dell'Onu.
Il reparto cui appartengono Gianni, Piero e Bill corre attraverso la foresta, verso la regione che è il centro delle
lotte africane e degli interessi europei. È un reparto di soldati giovani. Essi scherzano, ridono, hanno lo spirito
pesante e volgare delle caserme: e, nel momento della lotta, non mancano nei loro discorsi tracce di razzismo, di
odio di colore.
— Tu mi devi aiutare, mi devi dire cosa succede a Davidson, tu sei suo amico suo coetaneo, con te forse parla...
Ma Idris scuote la testa:
— No, signore; io ne so quello che ne sa lei... Il mio villaggio è in altra parte della nostra nazione... ci sono più
di mille chilometri tra i nostri villaggi... Io sono mussulmano, e Davidson è pagano... Non so nulla, non so nulla.
Un ragazzo pagano, un ragazzo pagano, che appartenga alla tribù di Davidson. 'Ngomu... l'insegnante interroga
'Ngomu. Ma Davidson non parla con nessuno, se ne sta sempre solo. È una questione di magia... Ah, 'Ngomu;
povero, sperduto, pagano, non è magia, è una malattia che gli uomini conoscono bene ma chissà a che cosa è
dovuta... Davidson è ossessionato, ma non dagli spiriti; dalla sua coscienza, dalla sua anima. Ma perché, cosa gli è
successo in questi mesi.
'Ngomu è pagano, sì, e la sua tribù non è lontana da quella di Davidson. Ma in quei mesi sono successe cose
terribili, il caos; ed egli non sa nulla di quello che è accaduto nella provincia dov'è il villaggio del suo compagno.
Appendice
È stato il processo alla «Ricotta», per vilipendio alla religione, che mi ha impedito di realizzare «Il padre
selvaggio». Il dolore che ne ho avuto - e che ho cercato di esprimere in questi ingenui versi di «E l'Africa?» —
ancora mi brucia dolorosamente. Dedico la sceneggiatura del «Padre selvaggio» al pubblico ministero del processo
e al giudice che mi ha condannato.
E l'Africa?
La faccia gialla e rossa, sfumata
nella stempiatura, in alto, nel liscio,
tondo mento, in basso: col mezzo baffo
rosso, crudele, di profilo, come
d'un Lanzichenecco di mezza età,
sceso da Terre coi tetti a guglia e i fiumi gelati...
Era questa faccia,
che, dietro un tavolo, di gusto rustico,
per grandi burocrati,
mi fissava coi suoi occhi azzurri ma classici,
mentre fuori scoppiavano le bombe atomiche
nel cielo giallognolo di un pomeriggio di vent'anni fa.
Poi cominciò — gonfia
di isterismo, e rossa
come un prepuzio di sangue —
a rimproverarmi, a darmi del pazzo...
E io... innocente, offeso... ascoltavo,
rimescolando nella gola di adolescente vestito
dalla madre,
lacrime e rimostranze: inutilmente! Egli,
uomo pratico, aveva ragione:
avevo speso troppo denaro per raffinatezze inutili,
e, inoltre, avevo toccato suscettibilità di grandi,
innocenti, anche loro, nella loro gloriosa vita privata.
Lo ascoltavo. Non esplodeva, ancora:
anche la sua gola di Lanzichenecco era una gola di ragazzo,
e, anche li, al rimprovero, si mescolavano sorde lacrime.
Il broncio sotto il baffo rosso, giallognolo,
era spia di qualcosa di sacro
che gli succedeva nel petto.
E io: «Non lo sapevo, come potevo
saperlo, è solo un anno che faccio questo lavoro!»
E altre confuse, offese parole che non ricordo.
E, intanto, la sua faccia si sdoppiava:
anzi, prima, per qualche istante,
egli fu un altro, che si affacciò a una soglia,
non lontana dal tavolo, nella luce
di quell'antico pomeriggio di una guerra ingiallita.
Era lui, il vero padrone, e infatti, diceva
all'armigero (per un po', così, tacitato):
«Che importa, qualche spesa in più, ora
che sono fermo con la produzione!»
E io ero un po' sollevato.
Ma quell'altro, li, che per osmosi
era uscito dal costato di Bini, era mio padre.
Il padre non nominato, non ricordato
dal dicembre del cinquantanove, anno in cui mori.
Ora era lì, padrone quasi benevolo:
ma subito rifu il mio coetaneo goriziano
di pelo rosso, le mani in saccoccia,
pesante come un paracadutista dopo il rancio.
Risolta, così, a mio parziale vantaggio
la questione dell'altro film
— sognato poco prima e persistente
con immagini agresti e desertiche nel nuovo sogno —
ci fu un breve silenzio, carico,
in apparenza, di consolazione, in realtà di lucido dolore.
Mi avvicinai a lui, che frattanto
s'era appoggiato a una parete della stanza
alle mie spalle, in raccolto silenzio,
mi avvicinai a lui, e timidamente quasi sul suo viso...
che ormai era solo il viso di mio padre,
con la sua pelle grigia di ubriaco e di morente,
gli sussurrai: «E...L'Africa?
E i flamboyants di Mombasa?
I rami rossi, contro il fogliame verde,
campione stilistico rosso sul fondo verde, rosso e verde
senza di cui la mia anima non poteva più vivere? »
Ah, padre ormai non mio, padre nient'altro che padre,
che vai e vieni nei sogni,
quando vuoi,
come un cinghiale appeso a un uncino, grigio di vino e
morte
presentandoti a dire cose terribili,
a ristabilire vecchie verità,
col gusto di chi le ha sperimentate,
morendo nel vecchio letto matrimoniale da pochi soldi,
vomitando il sangue delle viscere sui lenzuoli,
viaggiandosene per una notte e un giorno
in una cassa da morto verso l'inospitale Friuli
di un soleggiato giorno d'inverno del cinquantanove!
II mondo è la realtà che tu hai sempre paternamente
voluto.
E io, figlio, a sperimentare sistematicamente tutto,
tutto quello che di straziante devono sperimentare i figli,
mi ritrovo qui, prima cavia di un dolore ignoto,
a prefigurare il caso dell'impossibilità
«a esprimersi per ragioni di forza maggiore»;
cosa che mai poeta, severo possessore almeno di un'umile
penna,
ebbe nei secoli a temere.
Martirio, un po' ridicolo come tutti i martirî.
Ma in questa grande normalità paterna dei sogni e della
vita
dopotutto, com'è commovente,
il mio voler morire, nel sogno,
per la delusione d'un rosso e d'un verde perduti!
30 gennaio 1963.