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GLI STATI GENERALI

DELL’ESECUZIONE PENALE
visti dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane

Pacini
Questo libro è stato ideato, curato e redatto dai componenti l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere
Penali Italiane, composto dagli Avvocati:

Riccardo Polidoro, Resposabile Osservatorio Carcere


Simone Bergamini
Gianluigi Bezzi
Fabio Massimo Bognanni
Giuseppe Cherubino
Roberta Giannini
Davide Mosso
Ninfa Renzini
Cinzia Simonetti
Gabriele Terranova
Renato Vigna
Franco Villa

© Copyright 2016 by Pacini Editore Srl

ISBN 978-88-6995-047-6

Realizzazione editoriale

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56121 Ospedaletto (Pisa)

Responsabile di redazione
Gloria Giacomelli

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Un’ idea, un concetto,
un’idea finché resta un’idea
è soltanto un’astrazione...

Giorgio Gaber - Un’idea (1972)


Il carcere è un ozio,
senza riposo,
dove le cose facili
sono rese difficili
da cose inutili

Frase di autore anonimo, letta sul muro di un carcere e citata dal Ministro della Giustizia alla
cerimonia conclusiva degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale.
(Roma, Rebibbia 18 / 19 aprile 2016)
INDICE

Prefazione di Andrea Orlando........................................................................ p. 9


Prefazione di Glauco Giostra.......................................................................... » 13
Prefazione di Beniamino Migliucci................................................................. » 19

Introduzione.................................................................................................... » 21

Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale


di Riccardo Polidoro........................................................................................ » 29
1. L’iniziativa.................................................................................................... » 29
2. Una grande occasione, che non va sprecata............................................... » 30
3. L’obbligo....................................................................................................... » 32
4. La scelta dei media...................................................................................... » 36
5. La chiusura dei lavori.................................................................................. » 38

L’Osservatorio Carcere U.C.P.I.(il titolo dei capitoli corrisponde al nome dato al Tavolo
a cui ha partecipato il componente del direttivo dell’Osservatorio)
1. Spazio della pena. Architettura e carcere-città
di Simone Giuseppe Bergamini....................................................................... » 43
2. Donne e carcere
di Gianluigi Bezzi........................................................................................... » 47
3. Minorità sociale, vulnerabilità, dipendenza
di Fabio Massimo Bognanni........................................................................... » 53
4. Mondo degli affetti e territorializzazione della pena
di Giuseppe Cherubino.................................................................................... » 55
5. Lavoro e formazione
di Roberta Giannini........................................................................................ » 59
6. Istruzione, Cultura e Sport
di Davide Mosso............................................................................................... » 61
7. Misure e Sanzioni di Comunità
di Ninfa Renzini.............................................................................................. » 69
8. Esecuzione Penale: esperienze comparative e Regole Internazionali
di Cinzia Simonetti.......................................................................................... » 71
9. Operatori penitenziari e formazione
di Gabriele Terranova..................................................................................... » 83
10. Trattamento. Ostacoli normativi alla individualizzazione
del trattamento rieducativo
di Riccardo Polidoro........................................................................................ » 87
11. Processo di reinserimento e presa in carico territoriale
di Renato Vigna............................................................................................... » 95
12. Organizzazione e Amministrazione dell’Esecuzione Penale
di Franco Villa................................................................................................. » 103
PREFAZIONE

L’anno in cui in Italia fu approvata la riforma dell’ordinamento penitenziario, il


1975, è l’anno in cui esce in Francia, da Gallimard, il libro di Michel Foucault, Sor-
vegliare e punire. Sottotitolo: Nascita della prigione. Sarà tradotto immediatamente
in italiano, e pubblicato l’anno successivo da Einaudi. Perché ricordare questa cir-
costanza? Non certo per rievocare nostalgicamente i fasti di un paradigma teorico
e pratico di contestazione delle strategie repressive del potere, che puntava ad una
radicale deistituzionalizzazione della società. Ma per mostrare quanto velocemente
mutino gli orizzonti culturali e ideologici. Nulla è infatti oggi più lontano dal senso
comune dell’analisi genealogica della società disciplinare che Foucault praticava,
tra passione filosofica e militanza politica.
I risultati di quella stagione sono stati ovviamente molto diversi: altri hanno
provato a tirarne un bilancio. Io mi limito a immaginare quale eco avrebbe avuto,
in quegli anni, un’iniziativa come gli Stati Generali dell’Esecuzione penale, che
abbiamo preso proprio per assicurare la più ampia circolazione ad una riflessione
sulle condizioni della detenzione nel nostro Paese, su cui sarei generoso se parlassi
di un’attenzione intermittente da parte dell’opinione pubblica.
La verità è che questa attenzione manca. La temperie sociale e culturale è, oggi,
tutt’altra. Oggi prevalgono paure e insicurezze che si traducono in una forte richie-
sta di risposte di tipo securitario. Non ho bisogno di fornire esempi di questa diffe-
renza di clima. Citerò solo una vicenda, che mi pare emblematica. Mi riferisco alla
chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dall’entrata in vigore del decreto-
legge 31 marzo 2014, n.52 – convertito, con modificazioni, con la legge 30 maggio
2014, n.81 – il giudice deve richiedere, nei casi di infermità o seminfermità mentale,
l›applicazione di una misura diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudi-
ziario o in una casa di cura e di custodia, eccezion fatta per i casi in cui manchi la
possibilità di fronteggiare la pericolosità sociale o di fornire cure adeguate.
Si tratta, insomma, del superamento del sistema degli OPG. Quello che negli
anni scorsi sembrava un traguardo lontano è stato dunque raggiunto. Si tratta un
passaggio storicamente e culturalmente di grande rilievo: si abbandona un modello
di cura istituzionalizzato, fondato sulla reclusione, e si adotta un nuovo paradigma,
incentrato sui trattamenti personalizzati a fini riabilitativi ed inclusivi.
Ho citato prima Foucault: basterebbe ricordare la sua Histoire de la folie, e i
dibattiti che allora ne scaturirono (e che in Italia portarono alla cosiddetta legge
Basaglia, la 180 del 1978) per valutare il significato del decreto dello scorso anno.
Ma quale attenzione si è prestata ad essa? E con quali argomenti è stata presentata
una simile riforma?
Sul carcere, sull’istituzione carceraria, non si avverte un atteggiamento molto
diverso. La soluzione penale viene richiesta non in ultima analisi, ma in prima
battuta, con il non infrequente corollario della richiesta di restrizione in carcere
e infine dell’incrudimento della condizione carceraria. Un passo segue l’altro: più
pene, più carcere, più carcere duro.
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

In queste condizioni, cambiare passo e direzione è difficile, ma è quello che


abbiamo provato a fare.
Poiché si trattava e si tratta di favorire non un incremento della conoscenza
scientifica, ma una diversa consapevolezza di quello che avviene nelle carceri, ho
pensato che non aveva molto senso limitarsi a discutere fra esperti. Non era suffi-
ciente, perché gli esperti fanno ormai da molti anni questa discussione, e non han-
no bisogno di ripetersela fra di loro. Manca invece un più ampio coinvolgimento
della società. Manca un confronto fra tutti coloro che, nei loro percorsi di vita e
professionali, si incontrano a vario titolo con la realtà dell’esecuzione penale. Per
ampiezza di confronto, per larghezza di visione, abbiamo cioè provato a fare qual-
cosa che non era mai stata fatta, finora. Sono sicuro che i frutti di questo lavoro si
vedranno nei prossimi mesi: il Parlamento saprà farne tesoro.
Proprio nel Parlamento italiano, in occasione della relazione sull’amministra-
zione della giustizia presentata alla fine di gennaio 2016, ho citato le parole pro-
nunciate poco più di cent’anni fa, nel 1904, da una delle prime e più eminenti
personalità del socialismo italiano, Filippo Turati.
Il suo intervento di denuncia delle condizioni della reclusione smosse i senti-
menti dell’Aula, come lo stesso Presidente del Consiglio dell’epoca, Giovanni Giolitti,
ebbe a riconoscere. Oggi non useremmo le sue stesse parole per descrive le carceri
italiane: non parleremmo più di «cimitero dei vivi». Ma voglio qui citare per intero
la frase del deputato socialista, perché essa contiene il principio che ha ispirato l’i-
niziativa degli Stati Generali: «Non vi è comunicazione alcuna tra il nostro mondo e
quel cimitero dei vivi che sono le carceri», diceva infatti Turati. Noi abbiamo cercato
e cerchiamo di fare nient’altro che questo: ristabilire quella comunicazione.
Ancora una citazione, questa volta di Pietro Calamandrei, in un altro momento
della storia d’Italia. Siamo infatti nel 1948, la guerra è finita e l’Italia è ormai una
repubblica democratica. Ma il problema delle carceri ancora assilla la sensibilità dei
più fini giuristi del Paese: «in Italia – scrive allora Calamandrei – il pubblico non sa
abbastanza che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci
stati, per rendersene conto».
Calamandrei aveva ragione: bisogna andare in carcere. E hanno ragione i radi-
cali italiani, che coltivano la bella consuetudine di recarvisi nei giorni di festa. L’ho
ricordato in Parlamento, in occasione della commemorazione di Marco Pannella,
e voglio ricordarlo anche in questa circostanza. Il carcere – uso allora sue parole
– non può essere una «struttura di persecuzione sociale» per la soluzione dei pro-
blemi che la società non sa affrontare.
A piazza Navona, in occasione dell’ultimo saluto a Pannella, ho riconosciuto
che quel che si è fatto in questi anni, i riflettori che abbiamo provato ad accendere
sugli istituti penitenziari, per restituire alla pena il senso di umanità che la Costi-
tuzione le assegna, lo dobbiamo anzitutto al leader radicale, e a Papa Francesco.
È così, ed è singolare che sulla stessa tematica si siano incontrati profili tanto
distanti fra di loro: da un lato il vecchio leader radicale, libertario e anticlericale;
dall’altro il Papa cattolico, gesuita, venuto da un paese alla fine del mondo. In real-
tà, la dignità dell’uomo è il principio che li avvicina. E li avvicina anche la convin-
zione che essa va cercata e difesa proprio là, dove più facilmente è calpestata: nei
luoghi marginali, negli angoli invisibili della società.
Bisogna dunque conoscere le carceri. Gli Stati Generali sono serviti, io cre-
do, anzitutto a questo: favorire una più ampia conoscenza di cosa significa vivere

10
Prefazione

nell’orizzonte ristretto di un carcere, e di come «buttar via la chiave», trascurare le


esigenze dei detenuti, calpestare la loro dignità non sia solo moralmente e giuridi-
camente inammissibile, ma persino controproducente, dal momento che aggrava il
rischio di recidiva.
Tornano anche qui le parole di Filippo Turati: «Non è scritto in alcun libro del
destino che le nostre carceri debbano essere dei semenzai di criminalità».
Vorrei far mie queste parole. Credo di poter dire infatti che dalla sentenza
Torreggiani in poi qualcosa è stato fatto, per dimostrare che non c’è alcun libro del
destino. In questi anni, abbiamo portato la popolazione carceraria in linea con la
capacità del sistema. Non mi nascondo che vi sono ancora problemi e squilibri fra
le diverse realtà della detenzione, ma il sovraffollamento carcerario, per il quale
il nostro Paese era andato ignominiosamente incontro alla condanna della Corte
europea di Strasburgo, non ha più i caratteri dell’emergenza drammatica che ho
trovato al momento del mio insediamento in via Arenula.
Resta però che il sistema produce tassi di recidiva troppo alti: fra i più alti
d’Europa. Sono troppi i detenuti che hanno alle spalle precedenti esperienze carce-
rarie. È il segno che dobbiamo ripensare l’intero orizzonte della pena, e dobbiamo
farlo per senso di umanità, per rispetto del dettato costituzionale, ma avendo anche
la pazienza di spiegare che un carcere il quale contempli trattamenti individualiz-
zati e l’utilizzo integrato di pene alternative – la direzione lungo la quale ci stiamo
muovendo – non è un regalo ai delinquenti, come strillano gli imprenditori della
paura, né la dimostrazione del fiacco lassismo dello Stato. È invece l’intelligente
investimento di una società che decide di non trasformare il carcere in una scuola
di formazione della criminalità.
Spiegare questo cammino è importante. La pubblicazione di questo volume a
cura dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane va dunque
salutata con vivo compiacimento, e la speranza che gli Stati Generali dell’Esecuzio-
ne Penale si prolunghino ancora, nel dibattito pubblico e nell’impegno politico e
legislativo, è da me condivisa.
M i accorgo di avere scandito attraverso date e discorsi un percorso, e deline-
ato un cammino: prima l’alba del secolo ventesimo, tra miti di progresso e nuove
speranze di riscatto e di emancipazione, e la denuncia di Turati sul lato in ombra
della società italiana; poi la rinascita democratica del secondo dopoguerra, il clima
febbrile della ricostruzione economica, politica e civile del Paese, e la preoccupa-
zione di Calamandrei perché non si dimentichino e non si lascino indietro i luoghi
della pena e dell’afflizione; infine, gli impetuosi anni Settanta, attraversati da pro-
fonde scosse e movimenti di contestazione che, in mezzo alla violenza politica e al
radicalismo ideologico, comportarono pure un avanzamento dei diritti nel nostro
Paese, e tra questi quelli dei detenuti, con la riforma dell’ordinamento penitenzia-
rio del 1975.
Sono trascorsi altri quarant’anni, da allora: abbiamo il dovere di segnare un’al-
tra volta il cammino, e di provare a riprendere il filo di un chiaro avanzamento del
nostro Paese in termini di umanità e di civiltà.

Andrea Orlando
Ministro della Giustizia

11
PREFAZIONE

Che l’incontro del 18 e 19 aprile nel carcere romano di Rebibbia non costi-
tuisse l’evento conclusivo degli Stati generali dell’esecuzione penale, lo dimostra
questa bellissima iniziativa editoriale. Le relazioni finali dei Tavoli tematici e del
Comitato scientifico che in quella sede sono stati presentati, infatti, non volevano
costituire un frutto, ma un seme. Gli Stati generali fallirebbero lo scopo se non
andassero oltre se stessi. Ciò non significa, naturalmente, ignorare le difficoltà po-
litiche e culturali, che si frappongono al pieno dispiegamento degli effetti del loro
ambizioso progetto. Perché le soluzioni propugnate richiedono democratica condi-
visione; le parole d’ordine, ascolto sociale: il seme ha bisogno di terra accogliente.
E temo che questa terra accogliente sinora (mi concedo il conforto dell’avverbio)
ancora non ci sia.
Gli Stati generali muovevano da una diagnosi e da un’idea.
La diagnosi. Era doveroso chiedersi come mai, dopo aver introdotto ben qua-
rant’anni fa uno degli ordinamenti penitenziari più avanzati del mondo, fossimo
giunti a subire una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo
(sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia), per violazione dell’art. 3 C.e.d.u.
(divieto di tortura). Come mai il Parlamento stesse discutendo un disegno di legge
delega intitolato «Modifiche (...) all’ordinamento penitenziario per l’effettività rie-
ducativa della pena», quando la nostra Costituzione da quasi settant’anni pretende
che le pene tendano alla rieducazione del condannato. Come mai oggi l’aratro
della riforma insistesse sostanzialmente sugli stessi solchi aperti dalla legge peni-
tenziaria di quarant’anni fa. Domande ineludibili, se si voleva evitare che il nuovo
a cui si intendeva lavorare facesse la fine del vecchio. Ebbene, sembra difficilmente
contestabile che la quarantennale storia del nostro ordinamento penitenziario stia
a dimostrare che qualsiasi riforma meramente legislativa è destinata a rimanere
in gran parte inattuata, se non vi sono persone e luoghi che sappiano accoglierla
(non basta, ammoniva il sen. Gozzini, versare vino nuovo in otri vecchi). Stia a
dimostrare soprattutto che, se non si riesce a contrastare la diffusa convinzione
che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e la corrispondente
tendenza politica – elettoralmente molto redditizia – ad affrontare ogni reale o sup-
posto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento, meno impegnativo e
più inefficace, dell’inasprimento della repressione penale e della restrizione delle
possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile, ogni
innovazione normativa resterà precariamente esposta a “scorrerie legislative” di
segno involutivo e “carcerocentrico”. “Scorrerie” giustificate dal potere politico con
indifferibili esigenze di tutela della collettività, ma in realtà motivate dall’intento
di procacciarsi facile consenso, esibendo “muscolarità normativa” per affrontare
l’emergenza di turno.
L’idea. Se si voleva dunque evitare che anche la riforma legislativa in corso
finisse sul telaio di Penelope, bisognava battere strade nuove. Gli Stati generali
sull’esecuzione penale hanno inteso appunto far ricorso ad un approccio metodo-

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GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

logicamente inedito, caratterizzato da due momenti fondamentali: una prima fase,


nella quale mobilitare professionalità ed esperienze diverse che per le loro peculia-
ri conoscenze potessero offrire un’attenzione multiprospettica ai temi nevralgici e
qualificanti dell’esecuzione penale, al fine di svolgere analisi e di formulare propo-
ste che avessero come punto di fuga ideale un modello di esecuzione penale all’al-
tezza dell’art. 27 comma terzo della Costituzione; una seconda fase, volta a sotto-
porre ad un riscontro democratico i risultati scaturiti dalla prima, sia per sollecitare
rilievi e suggerimenti, sia per cercare di mettere al centro del dibattito pubblico il
problema del carcere, promuovendo una nuova cultura sociale della pena. Per dare
a quei semi un terreno su cui germogliare.
Al di là del valore e della condivisibilità delle singole proposte, è difficile di-
sconoscere, anche ad un primo bilancio, che l’approccio adottato abbia conseguito
risultati culturalmente molto importanti, di cui questo volume dà puntuale e indi-
scutibile conferma.
Ha prodotto un patrimonio di documentazione, di indagini conoscitive con-
dotte in Italia e all’estero, di riflessioni critiche, di articolate proposte normative, di
indicazione di prassi virtuose e di sperimentati modelli organizzativi, che resterà
quale giacimento di conoscenze e di proposte a disposizione di chiunque – politi-
co, studioso, operatore – intenda promuovere cambiamenti, riflettere, intervenire
in subiecta materia.
Si è inaugurato un metodo di lavoro imperniato su un network di professiona-
lità, culture, esperienze e linguaggi diversi, che appare l’unico modo per affrontare
un problema complesso e poliedrico come quello dell’esecuzione della pena. I
contributi raccolti in questo libro ne danno vivida ed efficacissima testimonianza.
Più di duecento persone, che non avevano avuto né occasione, né intenzione di
lavorare insieme hanno messo a disposizione, con generosa dedizione, le loro
complementari competenze, trovando l’esperienza così proficua e stimolante che,
pur dopo la consegna delle Relazioni finali, continuano a consultarsi e a progettare
iniziative comuni. Ed è ragionevole ritenere che la rete delle conoscenze e delle
interrelazioni sia destinata ad ampliarsi e ad essere replicata.
Gli Stati generali hanno anche ispirato un’iniziativa, unica nella storia peniten-
ziaria, di detenuti che, organizzati anch’essi intorno a Tavoli tematici e coordinati
da un professionista esterno nel ruolo di “facilitatore”, si sono confrontati, hanno
discusso ed hanno elaborato un interessante documento di riflessioni critiche e
proposte (Convegno tenutosi presso la Casa di reclusione di Opera, a Milano, il 7
novembre 2015 su “La pena vista dal carcere, riflessione dei detenuti sui temi degli
Stati generali sulla Esecuzione penale”).
Ma il conseguimento dell’obbiettivo finale – il radicale cambiamento della cul-
tura sociale della pena – avrebbe richiesto e richiede il contributo determinante
dei mass media, come viene fatto opportunamente osservare più volte in questo
volume. È fondamentale che gli operatori dell’informazione abbiano la piena con-
sapevolezza dell’insostituibile funzione che potrebbero svolgere in questo settore.
È con particolari aspettative, quindi, che il lavoro dei Tavoli e del Comitato è sta-
to offerto alla loro attenzione, perché essi avrebbero gli strumenti, per capacità
comunicativa e potenzialità diffusiva, di far capire come sia socialmente ottusa,
oltreché costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il carcere sia una sorta di buio
caveau, in cui gettare e richiudere monete che non hanno più corso legale nella
società sana e produttiva. Come sia fallace la diffusa convinzione che un maggior

14
Prefazione

tasso di carcerazione produca più sicurezza sociale, essendo vero al contrario che
l’espiazione extracarceraria della pena riduce notevolmente il tasso di recidiva.
Come sia miope la convinzione che la vittima del reato riceva tanto più rispetto
e risarcimento morale, quanto più ciecamente afflittiva sia la pena per il suo so-
praffattore. Come sia importante promuovere un’assunzione di responsabilità del
colpevole che lo sospinga a condotte materialmente e psicologicamente risarcitorie
nei confronti di chi il torto ha subito. Come sia socialmente proficuo (sia in termini
economici, che di minor recidiva) ricorrere, quando ne maturino i presupposti, alle
misure di comunità per proiettare l’autore del reato in una dimensione di riparato-
ria operosità. Come la giustizia riparativa non sia un modo di abdicare al compito
di rendere giustizia, ma un tentativo di sostituire al grossolano rammendo con cui
la pena riduce lo strappo del tessuto sociale provocato dal reato una paziente e
delicata opera di ritessitura dei fili relazionali tra il reo, la vittima e la società.
Dobbiamo purtroppo riconoscere che sino ad ora è mancato questo supporto
dei mezzi di informazione, indispensabile affinché penetri nell’opinione pubblica
un diverso modo di percepire il senso e il fine della pena. È possibile, ed anzi
fortemente auspicabile, che l’enorme lavoro “istruttorio” degli Stati Generali par-
torisca innovazioni legislative ed organizzative, ma il libro della riforma sarebbe
facilmente scompaginato dalla prima folata emergenziale, se non potesse contare
sulla robusta rilegatura di un sentire sociale nuovo e sintonico. Per questo, ed op-
portunamente, Riccardo Polidoro nel suo contributo ripete con forza che nessuno
stabile obbiettivo sarà conseguito «senza una campagna d’informazione», senza che
« si coinvolgano le scuole, le università, si entri nelle case con l’immenso potere dei
mass media ». I segnali, va detto, non sono incoraggianti. Già non erano mancati
indizi inquietanti, puntualmente sottolineati nelle pagine che seguono: dal silenzio
dei mass media rispetto ad eventi simbolicamente e “pedagogicamente” istruttivi
(come l’impeccabile lavoro svolto da circa cento detenuti all’expo di Milano) alla
chiassosa risonanza suscitata da un fatto che avrebbe dovuto, invece, essere accom-
pagnato da un rispettoso silenzio (l’idea di chiamare Adriano Sofri a coordinare il
Tavolo dedicato a “Cultura e carcere”). Ma è ciò che è accaduto in occasione delle
giornate di presentazione del lavoro degli Stati generali ad essere sintomaticamen-
te preoccupante. L’incontro a Rebibbia annoverava un parterre (il Presidente della
Repubblica, alcuni Ministri, i Presidenti delle Commissioni giustizia di Camera e
Senato, il vicepresidente del Csm, la Commissaria per la giustizia della Commis-
sione europea, il Procuratore nazionale antimafia, la Presidente della Rai ed altre
autorevolissime personalità), che da solo avrebbe garantito larga risonanza me-
diatica all’evento anche se il tema fosse stato “La dieta mediterranea”. Salvo rare
eccezioni, invece, l’evento è rimasto, per così dire, al centro della disattenzione
generale, a causa della sostanziale indifferenza dei mass media. Le ragioni di tale
disinteresse verosimilmente dipendono dalle regole che attualmente governano il
mondo dell’informazione e dalla specificità del tema carcere. Da sempre la notizia
mediaticamente appetibile è una cattiva notizia; oggi deve anche superare un certo
livello di decibel emotivi per essere letta o ascoltata. Persino i siti di previsione
meteorologica ricorrono a locuzioni allarmistiche (ciclone Spartacus, Nerone, Pop-
pea, la morsa del maltempo, codice rosso per la protezione civile) per annunciare
normali peggioramenti del tempo, pur di attirare l’attenzione. L’Osservatorio di
Pavia ha effettuato, su commissione dell’ordine nazionale dei giornalisti, un’analisi
di alcuni programmi di intrattenimento o a metà tra informazione e intrattenimento

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GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

(infotainment), rilevando la deprecabile tendenza a “zoomare” sul dolore delle per-


sone con eccessi patemici per aumentare l’audience, tanto che lo studio è intitolato
“La TV del dolore”.
Quanto a dolore, si potrebbe pensare, il carcere è senz’altro “competitivo” e,
non foss’altro per questa morbosa ricerca della sofferenza da esibire, potrebbe es-
sere al centro dell’attenzione mediatica. Non è così. Non è così perché la sofferenza
del condannato non ci riguarda e, pensiamo, non ci riguarderà mai; non c’è alcuna
immedesimazione; si tratta di una sofferenza sacrosanta – visto che colpisce chi ha
procurato ingiusto dolore – da scontare in una sorta extraterritorialità sociale, lon-
tana dallo “sguardo” dell’opinione pubblica. In genere, i media si occupano di fatti
che riguardano la giustizia penale solo quando sono in grado di attivare sentimenti
di insicurezza, di compassione o di angoscia. Anche in tal caso, naturalmente, la
cronaca ricorre a toni sensazionalistici e fortemente emotivi, rimandando un’im-
magine alterata della realtà. Ma, in questa materia, lo specchio dell’informazione
non si limita – come in altri casi (vedi l’esempio del meteo) – a riflettere un’im-
magine distorta della realtà, bensì cambia la realtà stessa. Infatti, la frequenza e la
tipologia dei fatti narrati, nonché l’enfasi e la mistificazione delle parole impiegate
nella narrazione determinano mutamenti significativi della politica penitenziaria,
in definitiva della qualità della vita delle persone condannate. Da un altro studio
dell’Osservatorio di Pavia emerge che le nostre principali emittenti televisive de-
dicano al tema della criminalità uno spazio fino a tre volte superiore a quello che
gli riservano le omologhe emittenti straniere. Non è senza significato che si registri
tra i medesimi Paesi presi in considerazione un rapporto sostanzialmente inverso
quanto a ricorso alle misure alternative al carcere: i riflettori insistentemente punta-
ti sui fatti di criminalità, evidentemente, inducono un senso di insicurezza collettiva
che poi finisce per trovare espressione politica in una restrizione normativa delle
possibilità di ammissione alla libertà dei condannati. Ed ancora. La periodica insi-
stenza su una determinata tipologia di reati, quasi mai corrispondente ad una effet-
tiva recrudescenza degli stessi, induce sovente il legislatore a draconiane risposte
sanzionatorie nei confronti del reato “stagionale” di turno: sequestro di persona,
estorsioni, traffico di stupefacenti, stalking, furti d’appartamento, omicidio stradale,
ecc. Il ricorso ad espressioni cariche di significati emotivi, ancorché improprie e
mistificatorie, s’incarica poi di completare l’opera di manipolazione dell’opinio-
ne pubblica e di “corruzione” della risposta normativa. Si pensi all’espressione
“pentiti” con cui sono stati tempo addietro denominati i collaboratori di giustizia,
operando una subdola traslazione concettuale: un atteggiamento processuale di co-
operazione con l’autorità giudiziaria per l’individuazione di correi viene tramutato
in contrassegno inequivocabile di ravvedimento etico. Ebbene, è ragionevole rite-
nere che una tale traslazione non sia estranea alla scelta politica di ravvisare nella
collaborazione il necessario indice di un positivo percorso rieducativo, al punto
da escludere dall’accesso alle misure alternative i soggetti condannati per delitti di
criminalità organizzata renitenti alla collaborazione (art. 4-bis ord. penit). Non v’è
dubbio che l’atteggiamento collaborativo possa essere un importante segno della
maturata volontà di scegliere la via della legalità e del reinserimento sociale, ma è
del pari indubbio che vi possa essere rieducazione senza collaborazione e vicever-
sa, e che pertanto sia una forzatura costituzionalmente inaccettabile stabilire una
presunzione assoluta di inemendabilità per il non collaborante, assimilandolo al
“non pentito”. Ma l’esempio ancora più prossimo e più eclatante dei guasti che la

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Prefazione

corruzione delle parole può provocare ci riporta all’evento conclusivo degli Stati
generali, da cui abbiamo preso le mosse.
Com’è noto, i provvedimenti di urgenza con cui si cercò di porre rimedio all’u-
stionante condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, vennero disinvoltamen-
te etichettati dai mezzi di informazione con il termine “svuotacarceri”. Il “messaggio”
mediatico, diretto a suscitare ansiosa attenzione, ha spacciato l’idea di una sorta di
cieco “sversamento” nella società del pericoloso contenuto dei penitenziari. In real-
tà, soltanto i condannati che si fossero dimostrati più meritevoli e meno pericolosi
avrebbero potuto fruire di misure alternative o di contenute anticipazioni di libertà,
e ciò – come studi criminologici, esperienze comparative e dati statistici attestano
– avrebbe semmai indotto un significativo abbattimento dell’indice di recidiva. Ma,
nell’odierna informazione fast-food, le parole-concetto contano più della realtà che
rappresentano e ne segnano in qualche modo il destino: la tossina della mistificazio-
ne, una volta inoculata nelle vene mediatiche, non conosce antidoto efficace. L’ansia
collettiva trovò ovviamente non disinteressati paladini in Parlamento: i condannati di
cui all’art. 4-bis ord. penit., ancorché meritevoli della liberazione anticipata “ordina-
ria”, dovevano essere esclusi dal supplemento di premialità costituito dalla liberazio-
ne anticipata “speciale”. Cionondimeno, i provvedimenti “svuotacarceri” del 2014 de-
terminarono una diminuzione della popolazione penitenziaria di circa 15000 unità.
Ebbene, il Ministro dell’interno Angelino Alfano, intervenendo all’incontro di Rebib-
bia, ha dichiarato che il tasso di criminalità, anche nelle sue manifestazioni più gravi
(omicidi), nel 2015 è risultato il più basso dall’inizio del secolo. Una buona ragione
per insistere nel ricorso alle alternative al carcere, concluderebbe la logica; nessuna
ulteriore apertura, ha concluso con il ministro Alfano la politica, «perché la gente non
capirebbe». Non potrebbe essere rappresentato in modo più plastico il circuito per-
verso che si instaura a seguito di un certo modo di rappresentare allarmisticamente il
fenomeno criminale e la problematica carceraria. Non più la fisiologica circolarità de-
mocratica di una società che si dà le regole attraverso i propri rappresentanti politici
e che poi, informata di come viene amministrata giustizia, sollecita il potere politico
ad introdurre i cambiamenti eventualmente ritenuti necessari; ma una società che,
condizionata da una rappresentazione mediatica allarmistica ed emotiva, invoca scel-
te securitarie avendo presente la giustizia “percepita” e non quella reale. Lo specchio
dell’informazione giudiziaria, rimandando una realtà distorta ed ansiogena, induce
cambiamenti o resistenze al cambiamento sulla base di presupposti fuorvianti.
Per tradursi in un profondo cambiamento dell’esecuzione penale il grande
lavoro di analisi e di proposte svolto dagli Stati generali ha bisogno, dunque, non
solo di una forte determinazione politica, ma soprattutto di una “rieducazione
dell’opinione pubblica”, come icasticamente da tempo auspica Riccardo Polidoro.
Nessuna importante novità legislativa farà mai presa sulla realtà, infatti, se prima le
ragioni che la ispirano non avranno messo radici nella coscienza civile del Paese.
È necessario che gli operatori dell’informazione prendano consapevolezza
dell’importantissimo ruolo che sono chiamati a svolgere e della loro conseguente,
enorme responsabilità culturale. In questa prospettiva, stiamo cercando di organiz-
zare seminari di aggiornamento permanente per giornalisti giudiziari che, replican-
do il “metodo Stati generali”, mobilitino professionalità diverse per una proficua
contaminazione di conoscenze e di esperienze.
Sempre in un’ottica di crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica, sa-
rebbe auspicabile che si riuscissero a moltiplicare le occasioni in cui la collettività

17
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

possa avvicinarsi al carcere per conoscere di quale sordida e misera materialità


sia fatta la giornata del recluso, quanto disperante e demotivante sia per taluni
condannati l’impossibilità di sognare un domani degno di essere vissuto. «Bisogna
aver visto», ammoniva Piero Calamandrei, prima di parlare di pena e di carcere. La
conoscenza avvicina sempre le persone e allontana le paure. Bisogna abbassare i
“ponti levatoi” tra collettività e carcere in modo che la società non lo percepisca più
come una sorta di enclave del male e del pericolo, ma come una parte della società
a cui dare (moltissimo sta già facendo in Italia il volontariato) e da cui pretendere
di più (lavoro di pubblica utilità, condotte riparatorie).
L’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali, che da tempo svolge un’o-
pera meritoria di monitoraggio, di conoscenza e di denuncia, ha di recente pro-
posto al Ministero della giustizia di promuovere una campagna istituzionale (c.d.
pubblicità progresso) sul senso della pena, mostrando così di aver ben compreso
che oggi giorno può essere più importante per la causa uno slogan ben riuscito o
una fiction ben costruita di un articolato progetto di riforma. Un aspetto, questo,
che certo può non piacere, ma che sarebbe irresponsabile ignorare. Bisogna far
ricorso senza snobismi culturali ad ogni strumento utile per cercare di indurre una
“conversione” culturale nell’opinione pubblica, che la avvicini al senso e al fine
costituzionale della pena, emancipandola da un approccio miopemente difensivo
e securitario.
È tuttavia inutile nasconderselo: sono iniziative che devono resistere ad una
forte corrente contraria, anzi che devono –  come storioni  – cercare di risalirla.
Anche per questo ho accettato volentieri l’incarico di scrivere qualche pagina di
prefazione a questo bel volume a più mani: per stare insieme ad altri idealisti “ana-
dromi”, che provano a risalire una corrente impetuosa, non sapendo se, unendosi,
riusciranno un giorno ad invertirne la direzione, ma con la certezza che non mu-
teranno mai la propria.

Glauco Giostra
Coordinatore del Comitato Scientifico degli Stati generali dell’Esecuzione penale
Ordinario di Procedura Penale
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università la “Sapienza”

18
PREFAZIONE

Gli Stati Generali dell’Esecuzione penale sono stati pensati, voluti e convocati
con grande determinazione dal Ministro della Giustizia, On. Andrea Orlando, nella
consapevolezza che la condizione del detenuto non si possa esclusivamente ridurre
ad una questione di metri di ampiezza della cella.
La sentenza Torreggiani ha tuttavia aperto una riflessione sul carcere e sulla
pena detentiva che non poteva certo essere posta nel dimenticatoio. Chi sbaglia, e
persino chi è in attesa di giudizio, non viene considerato per ciò che è: un essere
umano. La vergogna del sovraffollamento e del degrado in cui versa la stragrande
maggioranza degli istituti di pena era ignorata e trascurata da tutti. Le battaglie
dell’Unione delle Camere Penali Italiane e dei Radicali poco considerate.
È triste constatare che il risveglio delle coscienze sia stato determinato dal
richiamo dell’Europa. Ma tant’è. Meglio tardi che mai.
La volontà di cambiare atteggiamento verso la situazione carceraria era, però,
tutta da verificare. Il nostro Paese doveva, infatti, necessariamente attenersi, per
evitare condanne pesanti anche sotto il profilo patrimoniale, alle indicazioni prove-
nienti dalla Corte di Strasburgo in merito alle condizioni minime di dignità dell’ese-
cuzione e della permanenza in carcere, ma per nulla scontato era il desiderio della
politica di affrontare un tema che non determina consenso elettorale.
Parlare di lavoro, studio, sport, affettività, maternità in carcere, salute e disagio
psichico, sembrava e sembra complicato in un Paese disattento anche ai moniti
del Papa, che ha voluto più volte insistere sul significato della pena, evidenziando
come questa non possa mai tradursi in vendetta sociale e non debba mai allonta-
narsi dalla funzione rieducativa.
L’iniziativa, dunque, è stata accolta dall’Unione delle Camere Penali Italiane
positivamente, anche per la predisposizione di diciotto tavoli che dovevano appro-
fondire ogni aspetto dell’esecuzione penale.
Non abbiamo, però, trascurato di ribadire che gli intenti sarebbero stati traditi,
qualora alle parole e alle elaborazioni non fossero seguiti i fatti. Abbiamo, altresì,
segnalato le contraddizioni di chi ritiene finalmente giusto e corretto adeguare l’i-
dea di pena ai principi costituzionali e poi difende il 41 bis o l’ergastolo ostativo;
o ancora pensa che, pur se una persona è in fin di vita, non debba essere sottratta
al carcere duro.
Ora si tratta di essere operativi, consci delle difficoltà rese evidenti anche dalla
giornata conclusiva degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, nella quale tutti
hanno inteso offrire il proprio contributo, comprese le più alte cariche dello Stato,
senza che vi fosse corrispondente interesse da parte dei media.
Questo fa comprendere come la nostra società sia, purtroppo, ancora imper-
meabile non solo a ragioni umanitarie e di rispetto della dignità delle persone
ristrette, ma anche alle indicazioni statistiche e scientifiche che dimostrano come
il carcere produca solo recidiva e, dunque, anche costi sociali, mentre le misure
alternative e gli approcci risocializzanti allontanano dal crimine.

19
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

L’emergenza carcere, intesa come sovraffollamento e pessima condizione delle


strutture non è per nulla superata, come dimostrato anche dalla disomogeneità dei
dati riferibili a ogni singolo istituto di pena – perché non è possibile che vi siano
carceri-modello e carceri-inferno  –, così come non sono superate le carenze del
personale e delle risorse necessarie all’opera di rieducazione e di recupero dei
detenuti.
Le risorse per investire in personale e formazione vanno reperite e bene in-
dirizzate, nella consapevole certezza che solo così si potrà dare attuazione seria
e concreta alla iniziativa e valorizzare principi di civiltà giuridica affermati dalla
nostra Costituzione.
Ma non basta. È necessario anche investire nella informazione: occorre rende-
re partecipe l’opinione pubblica delle finalità della pena e pubblicizzare gli effetti
positivi, non solo teorici, della rieducazione, non solo per il detenuto, ma anche
per l’intera società.
Abbiamo avuto modo di apprezzare lo slancio sincero e l’impegno del Ministro
Orlando. Sarebbe un vero peccato se il lavoro dei tavoli, magistralmente coordinato
dal Prof. Glauco Giostra, non avesse seguito e si limitasse a rimanere uno studio
privo di concrete ricadute sull’esecuzione delle pene detentive.
Anche con la pubblicazione di questo libro, l’Osservatorio carcere dell’Unione
delle Camere Penali Italiane intende offrire il proprio contributo per impedire che
ciò avvenga.

Beniamino Migliucci
Presidente Unione Camere Penali

20
INTRODUZIONE

L’espressione “Stati Generali” , nasce per la prima volta nel 1302, quando Fi-
lippo il Bello prese tale inziativa per chiedere alle forze sociali la distinzione tra
potere spirituale e temporale, mettendo sotto accusa papa Bonifacio VII. Ma è con
la Rivoluzione Francese, che il termine assunse una vera e propria valenza politica,
quando nel 1789 fu convocata l’assemblea che raccoglieva tutte le forze istituzio-
nali: clero, nobiltà e terzo stato.
In epoca contemporanea il termine è molto usato e non ha sempre un signifi-
cato politico. Conserva il suo significato di riunione aperta a tutti gli enti portatori
di interessi rispetto ad una precisa tematica.
Gli “Stati Generali dell’Esecuzione Penale”, voluti dal Ministro della Giustizia
Andrea Orlando, rappresentano la prima esperienza del genere in materia. Hanno
coinvolto circa duecento esperti, quali componenti dei diciotto Tavoli tematici, mo-
tivati solo dalla grande passione per una battaglia giusta quanto impopolare.
Per ragioni di spazio, non è stato possibile pubblicare le relazioni finali dei
Tavoli e quella conclusiva del Comitato Scientifico, comunque disponibili sul sito
del Ministero della Giustizia, ma ci è sembrato giusto menzionare i partecipanti,
quale ringraziamento – anche a nome dell’Unione Camere Penali Italiane – per il
lavoro svolto.

Comitato di esperti
Comitato di esperti per predisporre le linee di azione degli “Stati generali
sull’esecuzione penale”
[d.m. 8 maggio 2015 e d.m. 9 giugno 2015 di costituzione e integrazione del Comi-
tato degli esperti]

Coordinatore del Comitato


Glauco Giostra, Università Roma Sapienza
Componenti
Adolfo Ceretti, Università Milano Bicocca
Luigi Ciotti, presidente Libera, associazione per la lotta alle mafie
Franco Della Casa, Università di Genova
Mauro Palma, Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzio-
ne penale, Consiglio d’Europa
Luisa Prodi, presidente Seac – Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato
Penitenziario
Marco Ruotolo, Università Roma Tre
Vladimiro Zagrebelsky, direttore del Laboratorio dei Diritti Fondamentali (LDF),
Torino
Francesca Zuccari, Comunità di Sant’Egidio 

21
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Tavoli di lavoro
Elenco pubblicato sul sito del Ministero della Giustizia

Tavolo 1 - Spazio della pena: architettura e carcere


Coordinatore Luca Zevi, architetto
Viviana Ballini - Progetti inclusione socio - lavorativa per detenuti ed ex detenuti
Rita Barbera - Direttore istituto penitenziario Palermo Ucciardone
Simone Bergamini - Avvocato
Cesare Burdese - Architetto
Franco Corleone - Garante diritti detenuti Regione Toscana
Gianfranco De Gesu - Direttore generale Risorse materiali, beni e servizi ammini-
strazione penitenziaria
Corrado Marcetti - Direttore Fondazione Michelucci
Giancarlo Paba - Docente Architettura Università Firenze
Mario Paciaroni - Già Procuratore capo, procura della Repubblica La Spezia
Enrico Sbriglia - Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per Veneto, Tren-
tino AA, Friuli VG
Leonardo Scarcella - Architetto amministrazione penitenziaria
Mario Spada - Architetto urbanista coordinatore della Biennale dello spazio pubblico
Maria Rosaria Santangelo - Docente Architettura Università Federico II Napoli

Tavolo 2 - Vita detentiva. Responsabilizzazione del detenuto, circuiti e sicu-


rezza
Coordinatore Marcello Bortolato, magistrato Ufficio di sorveglianza di Padova
Annamaria Alborghetti - Avvocato
Giuseppe Altomare - Direttore istituto penitenziario San Gimignano
Silvia Buzzelli - Docente di Procedura penale europea e diritto penitenziario Dipar-
timento di giurisprudenza Università degli Studi di Milano Bicocca
Mauro D’Amico - Direttore del Gruppo operativo mobile e dell’Ufficio traduzioni e
piantonamento dell’Amministrazione penitenziaria
Federico Falzone - Dirigente Direzione generale detenuti e trattamento dell’Ammi-
nistrazione penitenziaria
Ornella Favero - Direttore rivista “Ristretti orizzonti“ e del sito www.ristretti.org
Fabio Gianfilippi - Magistrato di sorveglianza di Spoleto
Alessandra Naldi - Garante diritti delle pwersone private della libertà del Comune
di Milano
Silvia Talini - assegnista di ricerca in diritto costituzionale,Università degli Studi
Roma Tre

Tavolo 3 - Donne e carcere


Coordinatore Tamar Pitch, docente Università degli Studi di Perugia
Gianluigi Bezzi - Avvocato
Laura Cesaris - Docente di Diritto dell’esecuzione penale dell’Università degli Studi
di Pavia
Ida Del Grosso - Direttore dell’istituto penitenziario femminile Roma Rebibbia
Marina Graziosi - Sociologa del diritto

22
Introduzione

Elisabetta Pierazzi - Giudice istruttore Tribunale di Roma


Donatella Stasio - Giornalista “Il sole 24 ore”
Sergio Steffanoni - Garante dei detenuti del Comune di Venezia
Elena Lombardi Vallauri - Direttore istituto penitenziario di Asti

Tavolo 4 - Minorità sociale, vulnerabilità, dipendenze


Coordinatore Emanuele Bignamini, direttore del Dipartimento dipendenze ASL 2
Torino
Virgilio Balducchi - Ispettore generale dei cappellani dell’amministrazione peni-
tenziaria
Fabio Bognanni - Avvocato
Pietro Buffa - Provveditore dell’amministrazione penitenziaria Emilia Romagna
Marcello Chianese - Avvocato legale di “San Patrignano“ ( ha dichiarato di disso-
ciarsi dal lavoro presentato)
Alfio Lucchini - Direttore del Dipartimento dipendenze dell’ASL Milano 2
Achille Orsenigo - Psicologo
Massimo Pirovano - Responsabile della Comunità “Il Gabbiano” onlus
Carlo Renoldi - Magistrato Ufficio studi del CSM
Fabrizio Siracusano - Docente di Diritto penitenziario Dipartimento di giurispru-
denza Università degli Studi di Catania
Orazio Sorrentini - Direttore istituto penitenziario Busto Arsizio
Grazia Zuffa - componente del Comitato nazionale per la bioetica

Tavolo 5 - Minorenni autori di reato


Coordinatore Franco Della Casa, professore ordinario di diritto processuale pe-
nale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Ge-
nova 
Enrico Formento Dojot - Difensore civico della Valle d’Aosta
Marco Rossi Doria - Insegnante
Orlando Iannace - Direttore presso il Dipartimento della Giustizia minorile e di
comunità
Cristina Maggia - Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni
di Genova
Susanna Marietti - Coordinatrice nazionale Associazione “Antigone“
Vania Patané - Professore ordinario di Diritto processuale penale presso il Diparti-
mento di Giurisprudenza, Università degli Studi Catania
Fabio Prestopino - Direttore istituto penitenziario Pisa
Francesca Stilla - Magistrato Ufficio del Capo dipartimento della Giustizia minorile
e di comunità
Anna Ziccardi - Avvocato componente del Direttivo della Onlus della Camera Pena-
le di Napoli “Il carcere possibile“

Tavolo 6 - Mondo degli affetti e territorializzazione della pena


Coordinatore Rita Bernardini, già deputato
Carmelo Cantone - Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Toscana
Giuseppe Cherubino - Avvocato
Maria Gaspari - Magistrato Tribunale di Sorveglianza di Roma

23
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Gustavo Imbellone - Rappresentante Associazione “A Roma insieme“


Paolo Renon - Docente di Diritto processuale penale Università degli Studi di Pavia
Adriana Tocco - Garante dei diritti dei detenuti Regione Campania
Lia Sacerdote - Responsabile dell’Associazione “Bambini senza sbarre“
Silvana Sergi - Direttore istituto penitenziario Roma Regina Coeli

Tavolo 7 - Stranieri ed esecuzione penale


Coordinatore Paolo Borgna, procuratore aggiunto Tribunale di Torino
Marco Borraccetti - Ricercatore Facoltà di Scienze politiche Università degli studi
di Bologna
Leopoldo Grosso - Vice presidente del “Gruppo Abele“
Rosanna Lavezzaro - Dirigente Questura di Torino
Elena Nanni - Commissario capo della Polizia penitenziaria
Valter Negro - Sostituto commissario Polizia di Stato – Sezione di polizia giudiziaria
Procura della Repubblica di Torino
Maria Teresa Pelliccia - Funzionario del Dipartimento della giustizia minorile e di
comunità
Luisa Ravagnani - Garante diritti dei detenuti del Comune di Brescia
Antonella Reale - Direttore istituto penitenziario Padova
Arturo Salerni - Avvocato
Stefania Tallei - Rappresentante della “Comunità di Sant’Egidio“

Tavolo 8 - Lavoro e formazione


Coordinatore Stefano Visonà, capo dell’Ufficio legislativo Ministero del lavoro e
delle politiche sociali 
Pasquale Bronzo - Ricercatore presso l’ Università degli Studi di Roma “La Sapien-
za”
Giuseppe Caputo - Ricercatore
Irma Civitareale - Direttore istituto penitenziario Cassino
Riccardo Del Punta - Docente Dipartimento di scienze giuridiche Università degli
Studi di Firenze
Paola Giannarelli - Architetto - Responsabile del Servizio programmazione delle
politiche di innovazione e controllo di gestione Ministero della Giustizia
Roberta Giannini - Avvocato
Marcello Marighelli - Garante diritti dei detenuti del Comune di Ferrara
Luigi Pagano - Provveditore dell’amministrazione penitenziaria Piemonte Valle d’A-
osta
Michele Tiraboschi - Docente Facoltà di economia Università degli Studi di Modena
e Reggio Emilia
Giovanni Torrente - Docente di diritto penale Dipartimento di Giurisprudenza Uni-
versità degli Studi di Torino

Tavolo 9 - Istruzione, cultura, sport


Coordinatore ad interim Mauro Palma
Demetrio Albertini - Dirigente sportivo, ex calciatore
Fabio Cavalli - Registra teatrale, rappresentante del Centro studi Enrico Maria Sa-
lerno

24
Introduzione

Speranzina Ferraro - Direzione Generale per lo studente, l’integrazione, la parteci-


pazione, la comunicazione Ministero dell’Istruzione, università e ricerca
Cristina Marzagalli - Magistrato Tribunale di Varese
Davide Mosso - Avvocato
Stefano Rossi - Funzionario della professionalità giuridica pedagogica
Marcello Tolu - Responsabile Gruppo sportivo “Fiamme azzurre” dell’ Amministra-
zione penitenziaria
Antonio Vallini - Docente diritto penale Dipartimento di Scienze Giuridiche Univer-
sità degli Studi Firenze
Valentina Venturini - Docente di storia del teatro, Dipartimento di Filosofia, Comu-
nicazione e Spettacolo Università degli Studi Roma tre

Tavolo 10 - Salute e disagio psichico


Coordinatore Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bolo-
gna
Antonella Calcaterra - Avvocato
Marta Caredda - Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale, Università Roma Tre
Angelo Cospito - Coordinatore regionale della sanità penitenziaria della regione
Lombardia
Angelo Fioritti - Direttore sanitario dell’Azienda USL di Bologna
Fabio Gui - Segretario generale Forum Nazionale Salute in Carcere
Luciano Lucania - Presidente 2016 - 2018 della “Società Italiana di Medicina e Sanità
Penitenziaria onlus“
Paola Montesanti - Dirigente penitenziario - Direttore dell’Ufficio IV Servizi sanita-
ri - Direzione generale detenuti e trattamento - Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria
Felice Alfonso Nava - Responsabile U.O. Sanità penitenziaria Azienda ULSS16 Pa-
dova
Gianfranco Oppo - Garante diritti dei detenuti del Comune di Nuoro
Antonella Tuoni - Direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario Montelupo Fio-
rentino
Paolo Veardo - Rappresentante di “Federsanità“
Daniele Vicoli - Docente di diritto processuale penale Dipartimento Scienze giuri-
diche Università degli studi di Bologna

Tavolo 11 - Misure di sicurezza


Coordinatore Nicola Mazzamuto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Mes-
sina
Desi Bruno - Garante diritti dei detenuti della Regione Emilia Romagna
Alessandro De Federicis - Avvocato
Ugo Fornari - Docente di psicopatologia forense Università degli studi di Torino
Michele Miravalle - Coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni detentive di
Antigone
Francesco Patrone - Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Roma
Daniele Piccione - Avvocato
Angela Anna Bruna Piarulli - Direttore istituto penitenziario di Trani
Nunziante Rosania - Direttore ospedale psichiatrico giudiziario Barcellona Pozzo di Gotto

25
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Massimo Ruaro - Professore a contratto di diritto penitenziario Università degli


studi di Genova
Emilio Santoro - Docente di Filosofia del diritto Dipartimento di Scienze Giuridiche
Università degli studi di Firenze

Tavolo 12 - Misure e sanzioni di comunità


Coordinatore Gherardo Colombo, già magistrato di cassazione
Stefano Anastasia - Ricercatore di filosofia e sociologia del diritto all’Università
degli studi di Perugia
Roberto Bezzi - Responsabile dell’area educativa dell’istituto penitenziario di Mi-
lano Bollate
Lina Caraceni - Ricercatore di Diritto processuale penale Dipartimento di Giuri-
sprudenza Università degli studi di Macerata
Milena Cassano - Dirigente provveditorato amministrazione penitenziaria Lombar-
dia
Guido Chiaretti - Rappresentante dell’associazione “Sesta Opera San Fedele“
Roberto Cornelli - Ricercatore Dipartimento dei sistemi giuridici Università degli
Studi di Milano Bicocca
Francesco Cozzi - Procuratore aggiunto della Procura della Reppublica di Genova
Lidia De Leonardis - Direttore istituto penitenziario di Bari e Altamura
Elisabetta Laganà - Garante diritti dei detenuti del Comune di Bologna
Giorgio Pieri - Responsabile servizio carcere della “Comunità Papa Giovanni XXIII“
Ninfa Renzini - Avvocato
Rita Romano - Direttore istituto penitenziario di Eboli

Tavolo 13 - Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato


Coordinatore Grazia Mannozzi, docente Università degli Studi dell’Insubria
Elena Buccoliero - Dirigente servizio regionale per le vittime di reati gravi Emilia
Romagna
Federica Brunelli - Docente Dipartimento di Giurisprudenza Università degli studi
Milano Bicocca
Carmela Campi - Direttore istituto penitenziario Carinola
Maria Laura Fadda - Magistrato Tribunale di Sorveglianza di Milano
Benedetta Galgani - Ricercatore presso il Dipartimento di Giurisprudenza Univer-
sità degli studi di Pisa
Daniela Grilli - Direttore ufficio detenuti provveditorato Marche
Maria Pia Giuffrida - Presidente “Spondé“ ONLUS, Organizzazione non lucrativa di
attività sociale
Stefano Marcolini - Professore associato in Diritto processuale penale presso il Di-
partimento di diritto, economia e culture Università degli Studi dell’Insubria
Giuseppe Mosconi - Docente Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia
applicata Università degli studi di Padova
Michele Passione - Avvocato
Pietro Rossi - Garante diritti dei detenuti della Regione Puglia

Tavolo 14 - Esecuzione penale: esperienze comparative e regole internazionali


Coordinatore Francesco Viganò, docente Università degli Studi di Milano

26
Introduzione

Angela Della Bella - Ricercatore Dipartimento di scienze giuridiche Università degli


studi di Milano
Alberto Di Martino - Garante reclusi del Comune di Pisa
Daniela Verrina - Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Genova
Riccardo Turrini Vita - Direttore generale personale e formazione dell’amministra-
zione penitenziaria
Cinzia Simonetti - Avvocato
Patrizio Gonnella - Presidente associazione “Antigone“
Maria Perna - Magistrato del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità
Antonia Menghini - Ricercatrice Diritto penale Facoltà di Giurisprudenza Università
degli Studi di Trento
Carla Ciavarella - Direttore istituto penitenziario Tempio Pausania

Tavolo 15 - Operatori penitenziari e formazione


Coordinatore Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto Tribunale di Messina
Massimo De Pascalis - Direttore Istituto Superiore studi penitenziari
Ezio Giacalone - Commissario Capo polizia penitenziaria
Mario Antonio Galati - Direttore istituto penitenziario Vibo Valentia
Gloria Manzelli - Direttore istituto penitenziario Milano San Vittore
Antonio Mattone - Rappresentante “Comunità di Sant’Egidio“
Silvana Mordeglia - Presidente del “Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti
sociali“
Francesco Picozzi - Commissario polizia penitenziaria direzione detenuti e tratta-
mento dipartimento amministrazione penitenziaria
Maria Laura Scomparin - Docente di diritto processuale penale Dipartimento di
Giurisprudenza Università degli studi di Torino
Riccardo Secci - Comandate polizia penitenziaria istituto penitenziario Lecce
Gabriele Terranova - Avvocato
Ione Toccafondi - Garante dei diritti dei detenuti Comune di Prato

Tavolo 16 - Trattamento. Ostacoli normativi all’individualizzazione del tratta-


mento rieducativo
Coordinatore Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unio-
ne Camere Penali Italiane
Maria Grazia Coppetta - Docente diritto processuale penale Università degli studi
di Urbino
Giovanna Di Rosa - Magistrato Tribunale di Sorveglianza di Milano
Fabio Fiorentin - Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Vercelli
Francesca Gioieni - Direttore istituto penitenziario Brescia
Lorena Orazi - Responsabile area educativa della Casa di reclusione di Padova
Andrea Pugiotto - Docente diritto costituzionale Dipartimento di Giurisprudenza
Università degli studi di Ferrara
Roberto Piscitello - Direttore generale detenuti e trattamento dipartimento dell’am-
ministrazione penitenziaria
Agostino Siviglia - Garante dei diritti dei detenuti Città di Reggio Calabria
Armando Zappolini - Presidente “Coordinamento Nazionale delle Comunità di Ac-
coglienza”

27
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Tavolo 17 - Processo di reinserimento e presa in carico territoriale


Coordinatore Claudio Sarzotti, docente Università degli Studi di Torino
Alessandro Bruni - Psicoterapeuta, psicoanalista
Cinzia Calandrino - Direttore ufficio rapporti con le regioni dipartimento dell’am-
ministrazione penitenziaria
Lucia Castellano - Consigliere della Regione Lombardia
Eros Cruccolini - Garante diritti dei detenuti del Comune di Firenze
Riccardo De Facci - Rappresentante “Coordinamento Nazionale Comunità di Acco-
glienza“
Daniela De Robert - Giornalista, presidente associazione “Vic-caritas onlus“
Antonietta Fiorillo - Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze
Francesca Paola Lucrezi - Direttore istituto penitenziario Brescia Verziano
Tommaso Minervini - Capo area giridico pedagogica Bari e Altamura
Renato Vigna - Avvocato

Tavolo 18 - Organizzazione e amministrazione dell’esecuzione penale


Coordinatore Filippo Patroni Griffi, presidente di sezione del Consiglio di Stato
Vittorio Campione - Direttore della “Fondazione Astrid“
Cristina Capranica - Magistrato Tribunale per i minorenni Roma
Maria Luisa de Rosa - Magistrato dirigente dell’Ufficio del contenzioso dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria
Luigi Di Mauro - Dirigente generale del personale e formazione del Dipartimento
della giustizia minorile e di comunità
Eustachio Vincenzo Petralla - Dirigente dell’amministrazione penitenziaria
Paolo Mancuso - Procuratore capo di Nola
Gianfranco Marcello - Direttore istituto penitenziario Ariano Irpino
Valeria Procaccini - Magistrato Tribunale di sorveglianza Roma
Andrea Nobili - Ombudsman regionale con funzioni di garante dei diritti dei dete-
nuti Regione Marche
Francesca Vianello - Ricercatore Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e
psicologia applicata Università degli studi di Padova
Franco Villa - Avvocato
Salvatore Filippo Vitello - Magistrato Procura della Repubblica Siena

28
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Riccardo Polidoro
Responsabile “Osservatorio Carcere” dell’Unione Camere Penali Italiane

1. L’iniziativa
L’essenza e il valore politico degli “Stati Generali dell’Esecuzione Penale”, ri-
salta con estrema chiarezza, nelle parole pronunciate dal Ministro della Giustizia,
Andrea Orlando, nell’annunciare l’iniziativa:

L’articolo 27 della nostra Costituzione stabilisce che le pene non possono con-
sistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla riedu-
cazione del condannato. … un principio che ripetiamo spesso ma non possiamo
dire che abbia ancora trovato la sua piena applicazione. Le sentenze della Corte
di Strasburgo ce lo hanno ricordato e l’esperienza quotidiana di chi con difficoltà
opera ogni giorno negli Istituti ce lo testimonia.
Per questo ho voluto avviare il percorso che abbiamo chiamato Stati Generali
dell’esecuzione penale: sei mesi di ampio e approfondito confronto che dovrà por-
tare concretamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una mi-
gliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto.
Gli Stati Generali devono diventare l’occasione per mettere al centro del dibattito
pubblico questo tema e le sue implicazioni, sia sul piano della sicurezza collettiva
sia su quello della possibilità per chi ha sbagliato di reinserirsi positivamente nel
contesto sociale, non commettendo nuovi reati.
L’articolazione che abbiamo previsto avverrà attraverso 18 tavoli tematici a
cui contribuiranno innanzitutto coloro che operano nell’esecuzione penale ai di-
versi livelli, dalla polizia penitenziaria agli educatori, agli assistenti sociali, a chi
ha compiti amministrativi o di direzione e di coordinamento del sistema. Contri-
buiranno inoltre anche tutti coloro che studiano questo sistema o che di esso si
occupano su base volontaria, secondo una specificità del nostro Paese molto ap-
prezzata dai nostri partner europei.
La nostra ambiziosa scommessa è che attraverso gli Stati Generali su questi
temi si apra un dibattito che coinvolga l’opinione pubblica e la società italiana
nel suo complesso, dal mondo dell’economia, a quello della produzione artistica,
culturale, professionale.
I lavori degli Stati generali procederanno in parallelo al percorso della legge
delega in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzio-
natorio e alla riorganizzazione dell’amministrazione penitenziaria e dell’esecu-
zione penale esterna. Una coincidenza che permetterà di arricchire di contenuti la
delega e di progetti le nuove articolazioni. La sfida è quella di vedere affermato al
termine di questo lavoro comune un modello di esecuzione della pena all’altezza
dell’articolo 27 della nostra Costituzione: non solo per una questione di dignità e

29
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

di diritti ma anche perché ogni detenuto recuperato alla legalità significa maggiore
sicurezza per l’intera comunità.
È la prima volta, dall’entrata in vigore dell’Ordinamento Penitenziario del 1975,
che un Ministro della Giustizia indica la strada per giungere finalmente al rispetto
della Legge in quell’area buia e troppe volte dimenticata, della detenzione in Italia.
Le sue parole hanno una valenza politica enorme. Si chiede e si vuole un ef-
fettivo cambiamento, attraverso un approccio diverso, che tenga conto dei principi
costituzionali e delle indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Sono circa duecento le persone che, convocate, hanno composto i diciotto
Tavoli. Scelte tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, garanti, rap-
presentanti della cultura e dell’associazionismo civile. Nove, quelle che fanno parte
del Comitato di Esperti con il compito di raccogliere e uniformare quanto prodotto
da ciascun Tavolo.
Una forza lavoro, dunque, imponente e qualificata a cui vengono assegnati i
temi principali che interessano l’esecuzione penale.
Una “macchina da guerra”, perché in un certo senso si era chiamati a dirimere
il conflitto storico tra diritto e prassi, davvero fenomenale. Il compito assegnato era
quello di scrivere e spesso riscrivere le regole dell’esecuzione penale in Italia. “Ri-
scrivere” perché, su alcuni temi, l’ordinamento e il regolamento penitenziario sono
già molto chiari e quello che manca è solo la concreta applicazione delle norme.

2. Una grande occasione, che non va sprecata


Gli Stati Generali sull’Esecuzione Penale rappresentano un fortissimo impul-
so per modificare il sistema dell’esecuzione penale nel nostro Paese, dominato
da prassi e circostanze che hanno travolto i principi costituzionali e le norme
vigenti.
Il nostro ordinamento penitenziario ha superato i 40 anni. Entrato in vigore
con la Legge del 1975, che recepiva i principi costituzionali del 1948, non ha mai
trovato concreta applicazione in gran parte del suo testo. Sono, dunque, 68 anni
che i diritti fondamentali dei cittadini detenuti restano rinchiusi nelle pagine auto-
revoli della Costituzione e in quelle delle norme in materia, prigionieri dell’assenza
di una cultura della pena.
Diritti che stanno scontando una lunga condanna, tormentata da voci di possi-
bili mutamenti, che spesso hanno solo illuso chi subiva le ingiustizie sulla propria
pelle, ma anche coloro – pochissimi – che in tutti questi anni hanno creduto che i
tempi fossero maturi per il rispetto della Legge.
Un vero e proprio “ergastolo normativo”, che ha portato l’Italia a numerose
condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, fino a giungere a
quella umiliante inflitta con la sentenza emessa dalla medesima Corte, nella proce-
dura Torreggiani e Altri contro l’Italia, adottata all’unanimità l’8 gennaio 2013, per
violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
In questo contesto, le dichiarazioni del Ministro della Giustizia, nel novembre
del 2014, che annunciavano l’iniziativa degli Stati Generali, sottolineando la neces-
sità di dare voce alle soggettività che ruotano intorno al mondo penitenziario, per
una “rivoluzione culturale” sull’esecuzione penale, hanno costituito un’importante
novità nel tormentato mondo della Giustizia in Italia.

30
Gli Stati generali dell’Esecuzione Penale

Giustizia che ha il primato dell’inefficienza. Si naviga a vista e spesso in dire-


zione sbagliata, sulle onde di un facile consenso, che a volte fa perdere la rotta. La
bussola della Giustizia non deve essere in mano all’opinione pubblica, che invece
va meglio informata e soprattutto educata sui temi del processo e della pena.
L’Italia ha un Ordinamento e un Regolamento Penitenziario tra i migliori d’Eu-
ropa che non trova concreta applicazione per mancanza di un reale impegno politi-
co su temi che troppo spesso sono in contrasto con il comune pensiero di cittadini
disinformati e culturalmente non pronti a recepire principi di civiltà e legalità.
Una corretta informazione e un sistematico insegnamento sui principali temi
della Giustizia, che possano far comprendere all’opinione pubblica l’importanza di
una pena scontata in maniera legale, devono essere accompagnati dalla necessità
di garantire una pena che offra garanzia di sicurezza al cittadino. Il principio di
“certezza della pena”, va inteso non solo sotto l’aspetto quantitativo dei giorni, dei
mesi e degli anni da scontare, ma anche sotto quello qualitativo, del percorso defi-
nito “rieducativo” dalla nostra Costituzione.
Il tema centrale è, dunque, quello della certezza della pena, unitamente alla
sua immediatezza. Citando Cesare Beccaria, «…. ogni pena non sia una violenza
di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica,
pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata
a’ delitti, dettata dalle leggi».
Avvicinare i cittadini al mondo delle sanzioni è questo il primo passo da com-
piere, per non commettere gli errori del passato. Far comprendere qual è il senso
della pena, la sua utilità. Il carcere va indicato come luogo estremo di punizione,
non l’unico. Ma se utilizzato, deve essere anche e soprattutto di recupero del con-
dannato. Uno spazio del territorio, non ignorato, ma conosciuto e presente nella
vita comune, come lo è l’ospedale, deputato ad accogliere i malati, o la scuola per
l’istruzione. Una struttura a cui bisogna guardare con occhi diversi, con un’atten-
zione maggiore preoccupandosi delle sue inefficienze.
In questa direzione alcuno sforzo è stato sinora fatto. La storia dell’esecuzione
penale italiana è piena di contraddizioni e paradossi, privata di un progetto politi-
co omogeneo che possa orientare stabilmente l’opinione pubblica verso il rispetto
delle leggi in materia.
Da un lato, sfruttando l’onda emotiva di singoli fatti di cronaca, si cavalca il
facile e miserabile consenso, emanando leggi carcerogene, con gravi pene del tutto
sproporzionate rispetto all’intero sistema sanzionatorio, dall’altro, per sopperire
alla palese illegalità con cui vengono ristretti la maggior parte dei detenuti, si adot-
tano diminuzioni di pena che non possono trovare alcuna giustificazione, non solo
per le vittime dei reati, ma per gli stessi cittadini che non si sentono tutelati.
Potrà mai comprendere il cittadino lo sconto di pena di 45 giorni (portati,
per diminuire il sovraffollamento, a 75) ogni sei mesi di detenzione, previsto dalla
“liberazione anticipata”, che consente, ad esempio, al condannato a cinque anni
di reclusione, di scontarne circa tre? Si dovrebbe spiegare che la norma, prevista
dall’Ordinamento Penitenziario, premia il detenuto che ha partecipato ad un per-
corso trattamentale, a seguito del quale la sua personalità è stata rivalutata dal Ma-
gistrato di Sorveglianza e che, pertanto, non è un beneficio automatico. Ammettere
anche, purtroppo, che invero alcun trattamento viene effettuato – tranne in rari
casi – e che, pertanto, la norma viene costantemente tradita, in quanto la riduzione
di pena viene applicata a tutti i detenuti che non hanno avuto rapporti disciplinari,

31
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

cioè che non protestano per le condizioni in cui vengono reclusi. Far comprende-
re, dunque, che è necessario investire maggiori risorse umane ed economiche per
consentire un effettivo trattamento individualizzato, offrendo a chi è recluso un
percorso di recupero che gioverà a lui, ma anche alla società.
Potrà mai comprendere il cittadino l’ulteriore sconto di pena di un giorno ogni
dieci di reclusione, per quei detenuti che sono stati o sono sottoposti a trattamenti
disumani o degradanti?
Alla totale mancanza d’informazioni, corrisponde, pertanto, anche un sistema
schizofrenico, che, se da un lato rende ancora più difficile l’avvicinamento dell’o-
pinione pubblica alle problematiche della detenzione, dall’altro indigna coloro che
da tempo vorrebbero il rispetto delle norme in materia.
Che Stato è quello che ha una pena illegale e incerta? Che “tortura” i detenuti
e li risarcisce? Che da trenta anni non riesce a istituire il delitto di “tortura”, come
da tempo ci viene chiesto dal Consiglio d’Europa? Che non è in grado di promuove-
re percorsi rieducativi e si assicura l’ordine nelle carceri, riducendo la pena inflitta?
Che non garantisce il diritto alla salute? Che toglie la libertà, ma, allo stesso tempo,
oltraggia la dignità, bene non disponibile?
Gli Stati Generali hanno rappresentato un momento fondamentale per l’auspi-
cato cambiamento, ma sia chiaro che senza una campagna d’informazione sull’im-
portanza del rispetto dei principi costituzionali e delle norme in materia di de-
tenzione, alcun obiettivo si raggiungerà. Si coinvolgano le scuole, le università,
si entri nelle case con l’immenso potere dei mass media. Le buone intenzioni del
Ministro dovranno tenere conto soprattutto di questo, altrimenti gli Stati Generali
sull’Esecuzione Penale null’altro avranno rappresentato che l’ennesimo incontro
tra persone, tutte d’accordo su quei principi di diritto che continueranno a non
trovare applicazione. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e ci auguriamo che il
Ministro sappia riappropriarsi della bussola per condurre, finalmente, la malridotta
barca della Detenzione in Italia verso il porto della Legalità.

3. L’obbligo
L’auspicio dell’Unione Camere Penali Italiane non può che essere quello di
vedere, finalmente, realizzate le proposte che, da tempo, fanno parte del suo pro-
gramma politico.
Va fatta, pertanto, un’analisi obiettiva della reale possibilità che quanto elabo-
rato dai Tavoli degli Stati Generali possa trovare concreta applicazione.
Il Governo e, in particolare il Ministro della Giustizia, hanno affrontato il tema
dell’esecuzione penale, perché costretti dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo. Quindi non una scelta politica, ma un obbligo nei confronti dell’Europa.
Tale circostanza induce a ritenere che il percorso del reale cambiamento con-
tinuerà ad essere in salita. Potremo dire “una salita assistita”. Assistita dall’Europa.
L’enorme apparato degli Stati Generali, costituito investendo pochissime ri-
sorse e facendo affidamento sulla passione civile dei partecipanti, ha consentito al
nostro Paese di dimostrare al Consiglio d’Europa la volontà di un’effettiva riforma.
Ma non vi è ancora un chiaro impegno politico in tal senso.
Alcuni dei temi affidati ai Tavoli degli Stati Generali sono, infatti, già ben discipli-
nati nell’Ordinamento Penitenziario vigente e avrebbero solo bisogno di trovare ap-

32
Gli Stati generali dell’Esecuzione Penale

plicazione. Altri, invece, che reprimono i diritti fondamentali dei detenuti e che sono
entrati a far parte dell’Ordinamento sull’onda emotiva dell’emergenza dovuta alla
criminalità organizzata, dovrebbero essere oggetto di una concreta e doverosa azio-
ne riformatrice. Ma i segnali che giungono dal Parlamento vanno in senso contrario.
E, nel nostro Paese, il vento avverso può spirare per molti anni, se non per sempre.
La violazione contestata all’Italia, con la citata sentenza Torreggiani, è relativa
all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, intitolato «Divieto della
Tortura» e prevede che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trat-
tamenti inumani o degradanti”. L’Italia, nel 1988, ha ratificato la Convenzione delle
Nazioni Unite contro la Tortura del 1984, ma, nonostante siano passati circa trenta
anni e vi siano stati numerosi impegni internazionali da parte dei nostri Governi, il
delitto di tortura non esiste ancora nel nostro Paese.
«La carcerazione» – hanno scritto i Giudici di Strasburgo – «non fa perdere al
detenuto i benefici dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi
la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vul-
nerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsa-
bilità dello Stato. In questo contesto, l’art. 3 pone a carico delle autorità un obbligo
positivo che consiste nell’assicurare che ogni persona sia detenuta in condizioni
compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della
misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto, né ad una prova
d’intensità che ecceda il normale livello di sofferenza inerente alla detenzione e
che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere
del detenuto siano assicurati adeguatamente».
L’Italia è stata destinataria di un provvedimento c.d. “pilota”, che affronta le
problematiche strutturali del pessimo funzionamento del sistema penitenziario ita-
liano, con riferimento anche alle numerose procedure pendenti in materia e a
quelle che sarebbero giunte. In poche parole, la Corte Europea, sommersa dagli
innumerevoli ricorsi provenienti dai detenuti italiani, si è vista costretta a “chiudere
la porta” per interrompere il flusso continuo di atti e a censurare le modalità di ese-
cuzione della pena, indicando al Paese membro di seguire la strada di procedure
di risarcimento interne.
La sentenza fa riferimento alla situazione di sette persone, tra cui il Torreggia-
ni, detenute per alcuni mesi negli istituti di Busto Arsizio e Piacenza. Censura la
mancanza di superficie vitale, in quanto rinchiusi in celle con pochissimo spazio
a testa, la mancanza di acqua calda per lunghi periodi, l’illuminazione e la ventila-
zione insufficienti.
Con la sentenza CEDU, l’Italia è stata investita da un obbligo di risultato. Un
dovere di ottemperare per fare fronte ad una emergenza interna, costituita dal
mancato rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dalla necessità di risarcire il
danno a chi ha subìto la violazione di tali diritti.
In merito al primo punto, il richiamo dell’Europa è un invito all’ossequio di
norme interne già esistenti, che non trovavano concreta applicazione. L’articolo 6
dell’Ordinamento Penitenziario, infatti, disciplina le condizioni in cui devono vive-
re i detenuti, che sono quelle indicate dalla Corte. È previsto, infatti, che «i locali
nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza
sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro
e la lettura; areati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono e dotati di ser-
vizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere tenuti

33
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

in buono stato di conservazione e di pulizia. I locali destinati al pernottamento,


consistono in camere dotate di uno o più posti. Particolare cura è impiegata nella
scelta di quei soggetti che sono collocati in camere a più posti. Agli imputati deve
essere garantito il pernottamento in camere ad un posto a meno che la situazione
particolare dell’istituto non lo consenta. Ciascun detenuto e internato dispone di
adeguato corredo per il proprio letto».
Quanto chiesto dalla Corte, dunque, è già scritto. Si sarebbe potuto solo darne
applicazione senza dover ricorrere a riforme. Ma il quadro complessivo che carat-
terizza le carceri italiane non consente, pur volendo, di ottemperare. Il sovraffol-
lamento sopratutto, ma anche le condizioni strutturali della maggior parte degli
istituti sono ostacoli che, nel tempo, non sono stati mai affrontati adeguatamente,
nonostante i reiterati allarmi e le innumerevoli denunce, di chi chiedeva e chiede
legalità e rispetto dei diritti.
Nel 2010, vi erano circa 68.000 detenuti nelle 206 carceri italiane, a fronte di
una capienza massima prevista di 45.000 persone. Solo un indulto e un’amnistia
avrebbero potuto far diminuire drasticamente le presenze. Provvedimenti che, se
varati insieme ad altri mirati a investire effettive risorse, economiche ed umane,
negli istituti, nell’esecuzione penale esterna e nelle politiche sociali, avrebbero pro-
babilmente risolto alla radice le innumerevoli problematiche legate alla detenzione.
L’amnistia e l’indulto sono istituti profondamente ingiusti, ma che uno Stato ha
il dovere di emanare per porre fine e rimedio alle sue incapacità.
In un contesto così drammatico, invece, si è continuato ad emanare provve-
dimenti tampone, che i media hanno definito “svuota carceri”. Termine brutale
per intendere che mirano a diminuire il sovraffollamento, ma che chiarisce bene
il pensiero comune sulla pena e su coloro che la scontano. Si “svuotano” infatti le
cantine, le vasche, le scatole dal loro contenuto, certamente il termine non viene
mai usato in relazione ad essere umani. A nessuno verrebbe in mente di dire “svuo-
tiamo la stanza”, per far uscire delle persone.
Si è trattato, comunque, di provvedimenti a carattere straordinario e provvi-
sorio, mentre è necessario modificare l’assetto carcero-centrico del sistema, consi-
derando il maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione, che deve essere
ritenuta misura eccezionale e di ultima istanza, intesa non solo come afflizione, ma
come mezzo di recupero del condannato.
Il secondo punto evidenziato dalla Corte ha visto, invece, l’Italia del tutto priva
di norme in materia. Non era garantito un idoneo ricorso al Giudice, al fine di con-
sentire ai detenuti di ottenere una riparazione delle violazioni subìte. Il generico re-
clamo giurisdizionale attivabile dai detenuti in forza degli artt. 35 e 69 dell’Ordina-
mento Penitenziario, non rispondeva alle caratteristiche richieste, in quanto privo
di effetti sul piano preventivo, nella misura in cui non consentiva al Giudice adito
di dettare prescrizioni vincolanti all’Amministrazione penitenziaria sulle modalità
di trattamento dei detenuti ricorrenti, e del tutto privo di funzione compensativa,
essendo lo stesso Giudice sfornito, secondo il diritto vivente, del potere di liquidare
indennizzi o di impartire altre forme di ristoro. Tale situazione aveva generato una
quantità enorme di contenziosi presso la Corte Europea. Il nostro Paese veniva,
pertanto, invitato a trovare un rimedio interno che potesse soddisfare le giuste
pretese di risarcimento di coloro sottoposti a trattamenti disumani e degradanti. L’
Italia «dovrà istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi e idonei ad
offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcera-

34
Gli Stati generali dell’Esecuzione Penale

rio» e «i rimedi ‘preventivi’ e quelli di natura ‘compensative’ dovranno coesistere in


modo complementare».
Seguendo le indicazioni della Corte Europea, sono state introdotte due nuove
figure di ricorso. Gli artt. 35 bis, 35 ter e 69 c. 6 O.P. vanno certamente nella dire-
zione indicata dalla Corte.
Il primo, inserito nell’intervento operato dal d.l. 23 dicembre 2013 n. 146,
convertito con modificazioni in l. 21 febbraio 2014 n. 10, risponde alla finalità di
accertare inosservanze di leggi e regolamenti penitenziari da cui derivi un attuale
e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti di detenuti ed internati ed attribuisce al
Magistrato di Sorveglianza il potere di ordinare all’Amministrazione l’adozione dei
provvedimenti necessari al ripristino della legalità, garantendone l’effettività anche
attraverso un apposito giudizio di ottemperanza.
Il secondo, riconducibile al d.l. 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modifica-
zioni in l. 11 agosto 2014 n. 117, mira a risarcire il danno derivante da condizioni
di detenzione contrarie all’art. 3 CEDU, o in forma specifica, mediante riduzione
di pena proporzionata alla durata della detenzione sofferta in condizioni inumane
e degradanti, o mediante liquidazione monetaria, quando l’altra non sia possibile.
Entrambe sono già state positivamente vagliati dalla stessa Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo (Sent. 16 settembre 2014, Stella c. Italia e Rexhepi c. Italia), conte-
stualmente alla dichiarazione di irricevibilità, dopo la scadenza del termine fissato
dalla sentenza Torreggiani, di alcuni ulteriori ricorsi contro l’Italia in materia di
sovraffollamento carcerario.
Il ricorso preventivo specifica ormai l’obbligatorietà delle decisioni adottate dal
Magistrato di Sorveglianza. Il ricorso risarcitorio è accessibile a chiunque lamenti
di essere stato detenuto in condizioni contrarie alla Convenzione e la riduzione di
pena costituisce riparazione soddisfacente ed appropriata, mentre la compensazio-
ne pecuniaria, di cui si sottolinea la sussidiarietà, non è irragionevole.
Il giudizio positivo è strettamente correlato ad una valutazione altrettanto favo-
revole circa le misure generali di contrasto al sovraffollamento carcerario adottate
in Italia dopo la procedura della sentenza pilota. Se il sistema è al collasso e non
vi sono risorse sufficienti per contenere dignitosamente la popolazione detenuta,
qualsiasi potere di controllo o di intervento, giurisdizionale o meno, è destinato a
rivelarsi velleitario.
Decisive sono state, dunque, le statistiche fornite dal Governo italiano che rile-
vavano un apprezzabile ridimensionamento del numero complessivo dei detenuti,
un incremento del numero delle persone ammesse a fruire di misura alternative
alla detenzione ed un’accresciuta capienza degli Istituti di detenzione naziona-
li, annoverabili quali effetti del Piano d’azione per la risoluzione del problema
del sovraffollamento carcerario presentato alla Corte dallo stesso Governo italiano
all’indomani dell’adozione della procedura della sentenza pilota.
In particolare vengono ricordate pertinenti misure legislative di politica penale
adottate, quali l’allargamento dell’esecuzione pena presso il domicilio e della de-
tenzione domiciliare, la sospensione del processo con messa alla prova, la libera-
zione anticipata allargata, il mutato quadro sanzionatorio in materia di stupefacenti.
Sia sul ricorso preventivo che su quello risarcitorio, vi è stato prima il giudizio
positivo espresso dalla Corte Europea con la sentenza Stella c/ Italia, poi recente-
mente il “caso” Italia sollevato con la sentenza “pilota” Torreggiani è stato definiti-
vamente archiviato.

35
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Ma l’indagine statistica effettuata dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Came-


re Penali Italiane, grazie al contributo dei Referenti delle Camere Penali territoriali,
ha segnalato un rilevante ritardo nelle decisioni e registrato un altissimo numero
di declaratorie di inammissibilità. Gran parte di queste dovute all’interpretazione
data alle norme dalla maggior parte degli Uffici di Sorveglianza, che hanno rite-
nuto l’attualità della lesione, quale condizione necessaria per la proposizione del
ricorso risarcitorio. Requisito che mina profondamente l’effettività dello strumento
riducendone drasticamente l’ambito di applicazione. Vi è stata, poi, un’ampia rifles-
sione dottrinale e culturale, accompagnata da sentenze della Suprema Corte, che
dovrebbe prefigurare l’abbandono di tale orientamento giurisprudenziale.
I dati pervenuti dai Presidenti e dai Referenti delle Camere Penali territoria-
li sull’applicazione dell’art.  35 ter smentiscono i toni trionfalistici e strettamente
economici del Ministro della Giustizia per aver evitato la condanna dell’Italia per
il trattamento disumano e degradante riservato ai detenuti. Se è vero che, come
testualmente riferito, è stata «scongiurata un’onta politica», in quanto la Corte Eu-
ropea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato irricevibili 3.685 ricorsi, avendo l’Italia
introdotto il rimedio risarcitorio davanti al Giudice nazionale, è altrettanto vero che
la nuova norma stenta a decollare. Con la pronuncia di “irricevibilità” dei ricorsi,
ha affermato il Ministro, agli inizi del 2015, vi è stato «un risparmio per l’Italia di
41.157.765 euro. In prospettiva, se i 18.219 ricorsi pendenti davanti ai Giudici
nazionali fossero stati proposti a Strasburgo (ove il rimedio interno non fosse stato
introdotto), la stima sarebbe pari a un costo di ulteriori 203.488.011 euro, per un
totale di 244.645.776 euro» (askanews).
Ma i conti nascondono, allo stato, un vero e proprio caso di Giustizia negata.
Da un lato Strasburgo ritiene di non interessarsi più dei ricorsi provenienti dall’I-
talia, avendo tale Paese trovato una soluzione interna, dall’altro il rimedio, pur
diventato norma, non funziona affatto.
L’Unione Camere Penali, dunque, non può nascondere la sua preoccupazione
per il destino che avranno i lavori degli Stati Generali. Ha partecipato, con entu-
siasmo, all’attività dei tavoli ma è convinta che si è solo all’inizio di un’ulteriore
battaglia per il rispetto dei diritti dei detenuti. Seppure si dovesse giungere ad
un’effettiva riforma del sistema, occorrerà vigilare perché le nuove norme vengano
applicate e rispettate. Sono troppe le Leggi tradite in materia di esecuzione penale,
prima tra tutte lo stesso Ordinamento Penitenziario.

4. La scelta dei media


Quanti cittadini sono a conoscenza che, per sei mesi, circa 200 persone hanno
lavorato per riformare il sistema dell’esecuzione penale in Italia, su incarico del Mi-
nistro della Giustizia? Che è stato nominato un Comitato Scientifico per uniformare
le proposte provenienti da 18 Tavoli tematici? Pochissimi.
È vero che la detenzione non fa notizia, perché le regole della comunicazione
pretendono conflitti, devianze, drammaticità. Criteri che accentuano gli aspetti di
conflitto e di negatività, rispetto a quelli positivi di uno stesso evento. Sono i prota-
gonisti di evasioni, aggressioni, omicidi che fanno notizia, certamente non l’opera
virtuosa di detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità. Eppure questi ultimi
sono innegabilmente molto più numerosi dei primi.

36
Gli Stati generali dell’Esecuzione Penale

È altresì vero che, nel caso di specie, non era l’azione di un detenuto che an-
dava diffusa, ma un percorso tracciato dal Governo per modificare un segmento
rilevante della Giustizia in Italia. Non un fatto di cronaca, dunque, ma politico. Un
evento che poteva e doveva interessare l’opinione pubblica.
Le ragioni del silenzio si possono solo ipotizzare. Ci potrebbe essere stato un
deficit di comunicazione da parte del Ministero ovvero un totale disinteresse dei
media.
Entrambe le possibilità, destano preoccupazione. Nel primo caso, l’insufficien-
te divulgazione da parte della fonte ministeriale, indicherebbe una chiara volontà
di agire senza destare allarme nell’opinione pubblica, impreparata a recepire il pur
dovuto cambiamento. Nel secondo, la volontà di non pubblicare la notizia dimo-
strerebbe un colpevole disinteresse da parte dei media.
Dopo la manifestazione di chiusura degli Stati Generali, tenutasi presso l’Isti-
tuto di Rebibbia a Roma, il 18 e 19 aprile scorso, la seconda ipotesi è certamente
la più attendibile.
Va riconosciuto al Ministro Andrea Orlando di avere fatto il possibile per ac-
cendere i riflettori sui lavori dei 18 Tavoli e su quanto andava programmato per l’
indispensabile riforma del sistema penitenziario. La presenza del Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella, del Presidente Emerito Giorgio Napolitano, di ben 4
Ministri, del Lavoro, della Sanità, dell’Istruzione e dell’Interno, oltre a quella dell’at-
trice Valeria Golino e l’intervento in video del comico Checco Zalone, non sono
bastati ad avere la giusta e dovuta rilevanza mediatica. È stata proprio l’ironia di
Zalone a far comprendere la volontà del Ministro di usare tutti i mezzi possibili –
anche impropri –per attirare l’attenzione sull’evento: «… Sono stato contattato dal
Ministro Orlando per partecipare a questo evento. Purtroppo non posso essere lì.
Ne ricevo tante di richieste di partecipazione ad eventi. Questo Ministro mi è stato
simpatico, per telefono devo dire, perché mi ha detto che sta tentando di parlare
di detenzione, di problemi legati alla detenzione, nelle trasmissioni televisive, ma
non se lo caga nessuno, perché dice che non fa audience e quindi gli chiudono le
porte…».
Di porte chiuse ne deve avere avute effettivamente molte il Ministro della
Giustizia, perché dal novembre del 2014, quando, per la prima volta, lanciò la
formidabile idea degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, la rilevanza mediatica
è stata del tutto irrisoria, rispetto all’importanza politica dell’argomento. La stessa
cerimonia inaugurale del 19 maggio 2015, presso l’Istituto di Bollate, alla presenza
di moltissime autorità e di tutta la dirigenza dell’Amministrazione Penitenziaria,
non ebbe un solo rigo sui maggiori quotidiani, né fece notizia che, contemporanea-
mente, mentre il Ministro annunciava l’iniziativa, alla vicina Expò, ben 100 detenuti
lavoravano tutti i giorni per poi far rientro, in serata, nelle loro celle.
L’onore della cronaca è stato raggiunto solo con la nomina di Adriano Sofri,
quale coordinatore di uno dei Tavoli, quello relativo alla “cultura in carcere”. Si è
dato spazio ad un’ingiustificata polemica da parte di coloro che non avevano gra-
dito quella presenza in un’iniziativa ministeriale. Discussione che ha coinvolto i
media per alcuni giorni, fino a costringere Sofri a rinunciare.
L’Unione Camere Penali Italiane manifestò immediatamente solidarietà ad
Adriano Sofri, mostrando preoccupazione per le contestazioni mosse. Il dibattito
pubblico che s’intendeva finalmente promuovere sulla detenzione in Italia non po-
teva fare a meno delle voci di coloro che sono stati effettivamente ristretti in carce-

37
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

re. La scelta del Ministro si rivelava opportuna, in quanto ricadeva su una persona
da tutti riconosciuta – al di là delle idee manifestate – come giornalista e scrittore
e che, negli anni del carcere, aveva continuato a collaborare con importanti testate
giornalistiche e a scrivere libri. Chi meglio di lui avrebbe potuto dare un contri-
buto effettivo e concreto, alla luce della sua lunga esperienza detentiva? I giudizi
espressi sulla sua nomina, che praticamente si concretizzavano nella condanna a
morte del pensiero di un uomo di cultura, ritenendo che egli – addirittura dopo
aver scontato la pena – non poteva esprimere le sue idee e contribuire al richiesto
rinnovamento, erano in aperto contrasto con la strada che s’intendeva percorrere.
Strada, dunque, buia per volere dei media che preferiscono parlare alla “pan-
cia” degli italiani, invece di nutrire il loro cervello, contribuendo in modo determi-
nante al corto circuito legislativo e delle prassi – anche contra legem – che vede
protagonisti giornali, tv, opinione pubblica e politici.

5. La chiusura dei lavori


Nel teatro di Rebibbia, il 18 e il 19 aprile, si è tenuta la chiusura ufficiale degli
“Stati Generali dell’Esecuzione Penale”. Due giorni d’intenso dibattito sulla deten-
zione, che hanno visto protagonisti coloro che hanno partecipato a questa vera e
propria “chiamata alle armi”, voluta dal Ministro della Giustizia, per elaborare pro-
poste che possano avvicinare l’esecuzione penale al dettato costituzionale.
Il primo giorno vi è stata, per alcune ore, la presenza del Presidente della Re-
pubblica Sergio Mattarella, che non ha preso la parola, ma ha ascoltato le relazioni
del Ministro Orlando e del Professore Giostra, coordinatore del comitato scientifico
degli Stati Generali. L’ex Presidente Giorgio Napolitano è stato protagonista di un
sentito e partecipato intervento. La presenza dei Ministri della Sanità, del Lavoro,
dell’Istruzione e dell’Interno ha contribuito a far ritenere all’affollata platea che
il Governo è sensibile al necessario (per l’Europa) e dovuto (per un Paese civile)
mutamento della politica in materia di esecuzione della pena.
Gli interventi del Ministro Orlando e del Professore Giostra ben riassumono,
da un lato, lo spirito con cui si è voluto portare avanti l’iniziativa degli Stati Gene-
rali, dall’altro il lavoro che i 18 Tavoli hanno portato a termine. Stralci di quanto
hanno detto possono essere indicativi per comprendere quello che è stato fatto e
quello che s’intende fare.
Il Professore Glauco Giostra nel prendere la parola ha innanzitutto sottolinea-
to l’importanza del lavoro svolto, definito una coraggiosa e lungimirante iniziativa
politico-culturale. Ha ricordato che all’esame del Parlamento vi è un Disegno di
Legge Delega per la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, che mira ad assicurare
l’effettività rieducativa della pena, principio sinora rimasto soltanto enunciato e non
attuato. Vanno esplorate le ragioni di questa mancata applicazione, che ha visto l’Ita-
lia subire l’umiliante condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel sinte-
tizzare il lavoro svolto dai Tavoli, il Professore Giostra si è soffermato sulla necessità
di dare un volto nuovo all’esecuzione penale, un modello che sia finalmente all’altez-
za dell’articolo 27 della Costituzione. Compito del Comitato Scientifico è stato quello
d’individuare le coordinate entro cui va iscritto qualsiasi modello di esecuzione pe-
nale autenticamente rispettoso del principio secondo cui le pene non possono con-
sistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione

38
Gli Stati generali dell’Esecuzione Penale

del condannato. Si dovrebbe ricorrere alla sanzione del carcere, strutturalmente la


meno idonea alla risocializzazione, solo quando ogni altra si appalesa inadeguata.
Ciò dovrebbe comportare un deciso spostamento del baricentro della risposta san-
zionatoria penale, oggi imperniata sulla pena detentiva, verso sanzioni di comunità
meno onerose per lo Stato e meno desocializzanti per il condannato. Dove possibile,
perché ne ricorrono i presupposti e le condizioni soggettive, vanno intrapresi per-
corsi di giustizia ripartiva che rappresenta un paradigma di giustizia culturalmente e
metodologicamente autonomo. Quando il ricorso al carcere è inevitabile, l’attenzione
non può limitarsi all’espiazione intramuraria della pena. La funzione rieducativa im-
plica la possibilità di un graduale reinserimento del condannato nella collettività. Il
Professore Giostra ha definito la misura alternativa come “convalescenza sociale” del
soggetto alle regole della comunità. … impossibile rieducare alla legalità un soggetto
illecitamente umiliato nella sua dignità di uomo, in considerazione di speciali esigen-
ze di sicurezza. In merito alla detenzione prevista dall’art. 41 bis dell’Ordinamento
Penitenziario, il coordinatore del comitato scientifico ha evidenziato che, se si rendo-
no necessarie limitazioni eccezionali, queste devono essere strettamente e solamente
collegate allo scopo della norma, che è quello di evitare che il soggetto abbia con-
tatti con la criminalità organizzata. Il condannato va responsabilizzato nel percorso
rieducativo, in quanto la rieducazione d’autorità non può esistere ed è senz’altro un
ossimoro non solo da un punto di vista pedagogico, ma anche da un punto di vista
costituzionale. L’offerta trattamentale deve impegnare il soggetto in una scelta con-
vinta del percorso da effettuare. Il principio rieducativo va concretizzato in un pro-
getto individualizzato di risocializzazione e nessuna situazione soggettiva – immigra-
to, senzatetto – nessun tipo di reato commesso dovrebbe costituire esclusione dalle
opportunità di recupero sociale. Il Legislatore potrà subordinare l’accesso alle misure
alternative a condizioni particolarmente rigorose in ragione della natura del reato e
della gravità della pena, ma il diniego della misura non dovrebbe mai dipendere dal
solo titolo di reato e dalla condanna in esecuzione. Ogni automatismo va bandito,
perché in contrasto con la finalità rieducativa della pena. Il percorso di risocializza-
zione va modulato sull’uomo e non sul reato e non sono ammesse presunzioni legali
d’irrecurabilità sociale. Va riconosciuto anche al condannato all’ergastolo il diritto
alla speranza. Il Professore Giostra ha poi ribadito che non vi è alcuna prospettiva
di reale riforma del sistema senza una vera e propria rivoluzione culturale. Un così
radicale cambiamento richiederà il contributo determinante dei mass media ed è
fondamentale che gli operatori dell’informazione abbiano la piena consapevolezza
dell’insostituibile funzione che potrebbero svolgere. … necessario far comprendere
come sia socialmente ottusa, oltre che costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il
carcere sia una sorta di buio cavou in cui gettare e richiudere monete che non hanno
più corso legale nella società; come sia fallace la diffusa convinzione che un maggior
tasso di carcerazione produca più sicurezza sociale, essendo vero il contrario, che le
misure alternative riducono notevolmente il tasso di recidiva; come sia socialmente
proficuo, anche in termini economici, ricorrere alle misure di comunità. Nel chiudere
il suo intervento il Professore Giostra ha ribadito che gli Stati Generali hanno indica-
to la direzione da seguire per il percorso costituzionale da intraprendere e ha voluto
ringraziare il Ministro della Giustizia per la coraggiosa iniziativa politica.
Il Ministro è intervenuto nella prima giornata e a conclusione dei lavori. Ha
sottolineato che quando ha assunto l’incarico di Ministro della Giustizia, il dossier
più caldo era quello della situazione carceraria. Ha visitato molti istituti, anche

39
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

senza preavviso, per capire le reali condizioni in cui sono ristretti i detenuti. Si
è soffermato su una frase letta sulle mura all’interno di un carcere: «il carcere è
un ozio senza riposo, dove le cose facili sono rese difficili da cose inutili». Questa
frase, a suo avviso, riguardava alcuni dei tratti essenziali del sistema penitenziario.
Faceva comprendere che oltre a sconfiggere il sovraffollamento era necessario
andare oltre. Da qui l’idea degli Stati Generali, per una discussione e un confronto
tra persone che operano nel carcere e altre per le quali il carcere è oggetto delle
loro ricerche, dei loro studi, delle loro riflessioni. Un dibattito aperto alla società
nelle sue molteplici articolazioni. Gli Stati Generali rappresentano – ha continuato
Orlando – un’iniziativa unica, per dimensione della riflessione, per ampiezza di
visione, per ambizione. La detenzione in Italia – ha riferito il Ministro – costa quasi
3 miliardi di euro, ma genera tassi di recidiva tra i più alti d’Europa. L’articolo 27
della Costituzione prevede una pena umana, finalizzata al recupero della persona
condannata. Gli Stati Generali hanno l’ambizione d’indicare una strada convincen-
te, per evitare il rischio dell’illusione che le norme bastino da sole. Le norme fun-
zionano se sorrette da adeguati moduli organizzativi, sostenuti da un’omogenea e
innovativa impostazione culturale. Per tale ragione ai Tavoli non si è discusso solo
di norme, ma si è partiti dalle buone prassi. Si è ragionato in concreto su come uti-
lizzare risorse umane e finanziarie in modo intelligente, su come integrare le reti,
che si strutturano intorno al carcere, con il territorio circostante. Ricordare a tutti
che il carcere fa parte della società e sul carcere finiscono con lo scaricarsi, in modo
più o meno deformato, le contraddizioni della società stessa. Fare in modo che la
società si occupi di come funzioni il sistema penitenziario. Con gli Stati Generali
si chiede maggiore attenzione alle problematiche legate alla detenzione, anche
se occuparsi di questi temi – ha evidenziato Orlando – non porta voti, non rende
celebri, raramente suscita simpatia. … necessario sconfiggere le convinzioni errate
aumentate dalla demagogia. La prima è che basti dire carcere per generare sicurez-
za. Va affermato, invece, che un carcere che preveda trattamento individualizzato e
l’utilizzo integrato di pene alternative, non è un regalo ai delinquenti, come grida-
no spesso gli imprenditori della paura, è invece, l’intelligente investimento di una
società che decide di non consegnare al carcere la funzione di scuola di formazione
della criminalità. I problemi del carcere, sono i problemi della società. I due mondi
non sono separati. Non sarà mai il carcere la soluzione dei problemi che la socie-
tà non riesce a risolvere. Un carcere che sia in grado di chiedere un’assunzione
di responsabilità in termini di lavoro, d’impegno, di scuola, è un carcere che non
corrisponde soltanto ad un’esigenza educativa del detenuto, ma corrisponde so-
prattutto ad un’esigenza di sicurezza della società, perché quell’individuo restituito
alla società, dopo un periodo di mera segregazione, inevitabilmente sarà uguale,
se non peggiore di quando è entrato. Il punto di riferimento, dunque, deve essere
il momento del ritorno all’esterno, se vogliamo che gli interventi riformatori siano
efficaci, se vogliamo che la reclusione non sia soltanto una parentesi afflittiva del
tutto scollegata ed indifferente ai percorsi individuali e sociali dell’autore del reato.
… questo il principale cambio di prospettiva da realizzare, anche concretamen-
te, spostando risorse dal funzionamento ordinario, al trattamento e all’esecuzione
penale esterna. Viviamo, certo, un momento di grave giustificata preoccupazione
per la sicurezza individuale e collettiva. Ma è proprio in queste circostanze che la
politica è chiamata ad usare coraggio e responsabilità. Il carcere è ineliminabile,
come unica forma di pena nel percorso trattamentale per determinati reati, sopra-

40
Gli Stati generali dell’Esecuzione Penale

tutto quando si tratta di rompere legami criminali profondi e pericolosi. Non è un


caso, però, se il Costituente parla di “pene”, all’articolo 27. C’è voluto tempo per
dare sostanza a questa previsione, ma sono stati fatti importanti passi avanti. Passi
che cambiano l’assetto strutturale del nostro sistema. Il contributo del Parlamento
è stato decisivo nell’estensione della messa alla prova per gli adulti. Sono attual-
mente quasi 8.000 i soggetti che usufruiscono della messa alla prova. Il numero dei
soggetti condannati in esecuzione penale esterna, negli ultimi tre anni, cresce. Nel
2010, c’erano 4 detenuti per ogni misura alternativa, oggi ci avviciniamo ad avere
una misura esterna per ogni recluso. L’insieme delle idee prodotte dagli Stati Ge-
nerali, potrà essere realizzato in un arco di tempo che va ben al di là di questa le-
gislatura. Qualche risultato è stato già conseguito. Penso al riordino – ha affermato
Orlando – del Ministero, alla costituzione del Dipartimento della Giustizia minorile
e di Comunità, all’istituzione dell’Ufficio del Garante Nazionale dei Diritti dei Dete-
nuti. … stato fatto un importantissimo lavoro che servirà a riformare l’ordinamento
e a cambiare le prassi e a rivedere un modello di esecuzione della pena europea,
che abbiamo sollecitato e che appare sempre più essenziale di fronte alle nuove
aggressioni alla sicurezza comune. Nel lavoro dei Tavoli vi è stata una cifra comune:
la sicurezza dei diritti. È stato fatto giusto esigere che la pena affermi il diritto, ma
perché ciò accada è necessario che la sua esecuzione sia conforme al diritto e ciò
implica anche pretendere l’adempimento dei doveri da parte di chi sconta la pena.
Un concorso attivo che rompa quella spirale regressiva che può indurre all’assenza
di responsabilità.
Nel concludere i lavori, il Ministro Orlando ha evidenziato che sono state pre-
senti le massime cariche dello Stato, ma, nonostante tale importante circostanza,
la copertura mediatica dell’evento è stata contenuta. Non sorprende, perché è un
tema che non piace e non affascina, che è bene tenere distante. Tra le ragioni di
questo silenzio mediatico è l’esigenza di sostenere una verità virtuale, che non
va messa in discussione, perché altrimenti cade tutto. Stereotipi che vanno difesi,
evitando che ci si faccia un’idea diversa del carcere, per la sua dimensione reale,
per ciò che contiene, nel bene e nel male e soprattutto per ciò che non funziona.
Constatazione, invece, utilitaristica, perché si spendono molti soldi, ma il grado di
sicurezza realizzato non è affatto sufficiente. Il Ministro ha poi rivolto un appello
pubblico, non soltanto alle forze politiche, ma anche alla magistratura associata che
esprime valutazioni su qualunque tipo d’innovazione legislativa, ma sul tema del
carcere, da molto tempo non dice nulla. Il lavoro svolto dagli Stati Generali può
essere sintetizzato così: non solo carcere e per quale carcere. Sono i due punti da
dove partire. Significa sviluppare il sistema delle pene alternative o integrate, con
il sistema dell’esecuzione penale in carcere. Abolire gli automatismi. Qualunque
tipo di automatismo, perché la generalizzazione non consente di tenere conto delle
condizioni individuali di chi è sottoposto alla pena. La segregazione è necessaria,
ma da sola non è sufficiente a garantire sicurezza. … necessario investire in stru-
menti diversi dentro il carcere e che accompagnano il reo alla fine dell’esecuzione
della pena. Questo significa cambiare profondamente l’impostazione del tratta-
mento. Va riempito il tempo che la persona trascorre in carcere. La stessa vigilanza
dinamica, che oggi vede posizioni contrastanti sul suo utilizzo, avrà più senso. La
certezza della pena non è semplicemente una sospensione esistenziale, un modo
attraverso il quale il reo è chiamato a fare i conti con l’errore commesso. La stessa
polizia Penitenziaria dovrà rivedere il suo ruolo, verso una dimensione che sia

41
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

più esplicitamente di polizia del trattamento, orientato secondo le indicazioni e


garanzie costituzionali. Vanno poi aumentati i numeri di educatori, psicologi, assi-
stenti sociali. Vanno potenziati gli Uffici dell’ Esecuzione Penale Esterna. Saranno
sottoscritti protocolli con il Ministero del Lavoro, per il lavoro infra murario, con il
Ministero dell’Educazione, per l’istruzione in carcere, con il Ministero della Sanità,
per aumentare il controllo e gli interventi. Sarà bandita una gara per aumentare
il numero dei braccialetti elettronici. Si potrebbe lavorare subito su una proposta
di legge che abbia ad oggetto la giustizia riparativa. Vi è la possibilità di costruire
un programma minimo che possa essere attuato in tempi brevi. Su questo vorrei
incontrarmi – ha affermato il Ministro – con i coordinatori ai quali chiedo anche
di evidenziare quello che può essere fatto subito senza grandi riforme di carattere
ordinamentale. Gli Stati Generali possono costituire anche per il futuro una struttu-
ra con personalità propria, una rete al servizio del Paese, per sottrarre all’impulso
emozionale la legislazione in materia di detenzione.
Questi gli interventi del Ministro e del Professore Giostra. Parole che manife-
stano la concreta volontà di portare avanti la necessaria riforma. È prevista per il
15 giugno prossimo l’incontro tra il Ministro, i componenti il Comitato Scientifico
e i Coordinatori dei Tavoli. Ma è bene ribadire che il primo passo è la rivoluzione
culturale, senza la quale scrivere e riscrivere norme di alto valore civile e giuridico
sarà ancora una volta opera vana e puro esercizio di stile.

42
1. SPAZIO DELLA PENA. ARCHITETTURA E CARCERE-CITTÀ

Simone Giuseppe Bergamini

Quale componente del Tavolo n° 1 degli Stati Generali dell’Esecuzione penale


mi sono occupato del tema concernente lo spazio della pena, ed in particolare i
rapporti intercorrenti tra lo spazio e le misure alternative alla detenzione.
Devo ammettere che inizialmente, visto l’oggetto del tavolo ed i componenti
dello stesso (prevalentemente architetti e funzionari del Ministero della Giustizia),
temevo che la mia esperienza di Avvocato che pressoché quotidianamente varca la
soglie del carcere potesse risultare marginale.
Mi sono invece subito ricreduto. Sin dal primo incontro virtuale sulla piattafor-
ma telematica creata dal Ministero e poi grazie agli incontri “fisici” tra noi compo-
nenti, ho compreso l’importanza degli Stati Generali, quale strumento di confronto,
che ha avuto il grande merito di riunire attorno ad uno stesso enorme tavolo oltre
200 persone che per mesi hanno discusso, studiato e avanzato proposte concrete
per portare avanti quella rivoluzione culturale dell’esecuzione penale che noi Avvo-
cati abbiamo da anni invocato come battaglia di civiltà, prima che di diritto.
Il rapporto davvero stringente che esiste tra spazio ed esecuzione della pena è
emerso in tutti gli argomenti affrontati. Il primo diventa esso stesso uno strumento
per affrancarsi da una concezione meramente “carceraria” della pena, per aprire i
propri orizzonti al di là delle mura e creare un ponte tra “dentro” e “fuori”
Uno degli elementi fondanti l’esperienza degli Stati generali dell’esecuzione
penale è legato alla volontà di affrancarsi dallo spazio penitenziario, come unica
soluzione al concepimento e all’esecuzione della pena.
Le misure alternative, al carcere appunto, rappresentano la via maestra per
ridurre il numero dei detenuti e per migliorarne le condizioni di vita. La questione
del reinserimento nella vita civile muove dal momento stesso in cui si condanna il
colpevole, riconoscendone l’errore e valutando, come unica possibilità, quella di
dare l’opportunità per ripensare a se stessi, ritrovare la propria dignità e così la
voglia di riscattarsi.
Il tema dei luoghi e degli spazi in cui ciò avviene è fondante il sistema penale.
Pensando alla pena si pensa al carcere, pensando al carcere si pensa ad uno
spazio interno dal quale non si può uscire.
Ma il concetto di interno è assai complesso; questo spazio ha caratteristiche
varie e diverse, e per la condizione propria della reclusione assume ruoli e conno-
tazioni del tutto peculiari, comportandosi da interno ed esterno al contempo.
Le misure alternative comportano una flessibilità della pena, consentendo al
contempo una valutazione in itinere del percorso di risocializzazione del detenuto
e, come molti esperti affermano da tempo, rappresentano un investimento in ter-
mini di sicurezza.
Parlare di misure alternative e spazio della pena può sembrare una contrad-
dizione in termini, in quanto le misure alternative “classiche” (semilibertà, deten-
zione domiciliare ordinaria, affidamento in prova ordinario, affidamento in prova

43
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

terapeutico, ed anche i permessi premio) per definizione si eseguono al di fuori


delle mura dei nostri istituti di pena e sono state pensate dal legislatore proprio in
alternativa al carcere.
Si tratta tuttavia di una contraddizione solo apparente. È vero che le misure
alternative “classiche” si eseguono al di fuori, ma le stesse, pur essendo state con-
cepite nel ’75 come alternative al carcere, cioè come misure da applicarsi in luogo
del carcere stesso, in realtà nella maggior parte dei casi prevedono e comportano
un necessario passaggio in carcere del condannato (più o meno lungo in ragione di
una serie di variabili giuridiche: tipo di reato commesso da cui dipende ad esempio
il tipo di osservazione intra-muraria da svolgere, lunghezza della pena da espiare
ed altro) e un percorso da intraprendere all’interno dell’istituto di pena che, per
essere compiuto con successo, necessita, come si dirà, in seguito di spazi adeguati.
Inoltre, de iure condito, cioè in base o sulla base della legge vigente (O.P. e
leggi speciali), accanto alle misure alternative “classiche” sopra indicate, ne sono
state individuate altre che, nel tempo, sono state ad esse affiancate e che, per loro
definizione, prevedono che una parte del tempo del condannato ad esse sottoposto
venga consumato in spazi adeguati di tipo comunque coercitivo.
Prima fra tutte è la misura relativa al lavoro esterno, prevista dall’art. 21 dell’Or-
dinamentoPenitenziario, cioè per coloro i quali possono uscire a lavorare ma per
la notte devono rientrare in Istituto; i detenuti sottoposti a custodia attenuata; i
giovani adulti; i dimittendi; le madri con prole. Questi casi sono accomunati dalla
necessità per il loro conseguimento o per la loro stessa esecuzione di spazi adegua-
ti, oggi rintracciabili quasi unicamente all’interno degli istituti di pena.
Infine, de iure condendo, e quindi nella prospettiva, non solo e non tanto di
costruire nuovi istituti o di trasformare quelli esistenti, ma di introdurre nuove
misure alternative, diviene centrale il tema dello spazio e dell’architettura di questi
luoghi.
Purtroppo, ad oggi, per tutta una serie di meccanismi giuridici, l’intendimento
(assai perspicace ed innovatore) del legislatore del ‘75 di creare normativamente
delle misure realmente alternative al carcere, e cioè che permettessero ai condan-
nati (o perlomeno alla gran parte di essi) di evitare nell’esecuzione della pena un
passaggio carcerario, è stata in gran parte svilita.
Oggi, infatti, nella maggioranza dei casi si accede alle misure alternative non
dalla libertà (come dovrebbe essere la regola), ma dopo un passaggio carcerario.
E l’approdo alla misura alternativa classica dall’interno dell’istituto di pena
prevede un percorso a volte assai tortuoso; per arrivare oggi ad ottenere una mi-
sura alternativa, il condannato deve svolgere tutta una serie di attività ed interagire
con tutta una serie di soggetti; l’iter necessario richiede momenti di incontro e
verifica e anch’essi dovrebbero prevedere spazi adeguati.
Alcune misure alternative, ad esempio la semilibertà, necessitano per sé stesse
di spazi adeguati addirittura all’interno dell’istituto di pena.
Le nuove carceri o gli interventi che si andranno a fare in quelle esistenti, da
un punto di vista spaziale, dovranno necessariamente tenere conto di ciò.
Ad esempio servono spazi adeguati per le attività trattamentali, sia per gli edu-
catori, sia per coloro che sono sotto osservazione; oggi tale fondamentale attività,
che dovrebbe portare per legge all’osservazione scientifica del condannato (magari
per reati oggettivamente gravi e delicati: omicidi, violenze sessuali, violenze contro
minori) e sul cui esito si basa in gran parte la scelta del Tribunale di Sorveglianza

44
Spazio della pena. Architettura e carcere-città

sulla possibilità di concedere o meno la misura alternativa, si svolge nell’anonimato


degli spazi attuali che svilisce sia l’attività di osservazione che la partecipazione
consapevole dell’osservato.
È necessario quindi progettare e creare all’interno degli istituti di pena degli
spazi idonei, che consentano a questi soggetti di operare professionalmente in ma-
niera adeguata ed effettuare realmente quell’osservazione scientifica che la legge
demanda loro.
Negli Istituti esistenti, come in quelli di nuova realizzazione, è ormai indero-
gabile la necessità di individuare luoghi e percorsi destinati a queste fondamentali
attività. Sono momenti importanti in cui il detenuto è sottoposto ad un grande
stress psicologico legato al suo futuro immediato, momenti nei quali si deve dimo-
strare di essere pronti ad un cambiamento di vita e ad una relazione nuova e di-
versa con l’esterno. Spazi misurati, luminosi e debitamente arredati, possibilmente
lontani dalle unità residenziali, in cui si possa fisicamente avere la percezione del
cambiamento.
Inoltre il percorso di approdo alla misura alternativa prevede il confronto con
molti soggetti: l’assistente sociale dell’UEPE, gli educatori interni, gli avvocati, i ma-
gistrati, i medici che devono svolgere le analisi sui condannati (campioni urinari;
analisi del capello), gli operatori di comunità interne ed esterne, i possibili datori di
lavoro, ad esempio le cooperative che a volte trovano, o reclamano, una loro sede
secondaria proprio all’interno dell’istituto di pena; soggetti (e non sono sempre e
solo i familiari) che offrono ospitalità.
Sono degli spazi che devono supportare il percorso in atto, creare condizioni
di comfort e privacy, che devono consentire ai condannati di presentarsi nella loro
dignità di uomini pronti a nuove esperienze.
Attualmente i detenuti, destinati alle misure alternative, alloggiano ancora nel-
le sezioni ordinarie o, in alcuni casi, in altre ricavate da spazi esistenti, che però
non rispondono ai bisogni di questo tipo di soggetti.
Le persone sottoposte al regime di cui all’art. 21 O.P., così come i semiliberi,
hanno bisogno di spazi separati da quelli ordinari, che dovrebbero essere realizzati
all’esterno del carcere, in stretto contatto con l’area educativa/trattamentale e con
l’area dedicata al mondo del lavoro.
Le esigenze di questi detenuti sono, infatti, assai diverse da quelle degli “ospiti”
ordinari, anche perché di regola si tratta di soggetti definitivi che hanno già sconta-
to oltre la metà della pena, che si sono sottoposti ad un osservazione scientifica di
lungo periodo, che non hanno commesso reati ostativi (4-bis O.P.) e che non hanno
profili di pericolosità sociale.
Gli stessi, del resto, svolgono stabilmente attività lavorativa, sempre più spes-
so all’esterno delle mura del carcere e sempre più spesso non alle dipendenze
dell’Amministrazione penitenziaria ma di cooperative sociali o datori di lavoro or-
dinari.
Nel momento in cui ottengono tali misure, e di solito anche nel periodo imme-
diatamente precedente, i detenuti usufruiscono con continuità di permessi premio,
per la fruizione dei quali bisognerebbe concepire, anche in questo caso, appositi
spazi; pensando a luoghi per l’avvicinamento e la condivisione con i familiari con
i quali sperimentano un nuovo modello di vita.
Sarebbe interessante utilizzare parte del patrimonio penitenziario in disuso o
sottoutilizzato, per il quale, in molti casi, da anni, si parla di dismissione, come sedi

45
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

da destinare proprio alle misure alternative, all’interno delle quali realizzare unità
residenziali con adeguati servizi, per coloro i quali trascorrono ormai poco tempo
reclusi, ma che hanno quotidiane e continue relazioni con l’esterno. In particolare
ci si riferisce a strutture ubicate nel centro urbano, riducendo così le enormi diffi-
coltà di collegamento e connessione con i luoghi di lavoro che oggi rappresentano
un ulteriore ostacolo nella concessione delle stesse misure alternative. Organizzan-
do gli spazi in forme di autogestione da parte degli ospiti (siano di esempio i molti
casi esteri in cui ciò accade) si potrebbe dare una spinta importante al processo di
reinserimento nella vita civile dei detenuti.
Il lavoro è ormai riconosciuto come lo strumento più efficace per il reinseri-
mento nella società, alla misura alternativa al carcere in se stessa è indispensabile
affiancare luoghi di vita che contribuiscano a questo processo.
In conclusione appare evidente come per l’applicazione delle misure alterna-
tive il modello non possa e non debba essere quello carcerario, bisogna pensare
ad una tipologia abitativa che privilegi il senso di comunità e di condivisione di
spazi e di cose.
Appare, dunque, fondamentale la distinzione tra istituti destinati all’esecuzione
penale e alla custodia cautelare, tra istituti destinati alla residenza di chi gode di
semilibertà immaginando forme abitative diverse; così come la creazione di nuovi
spazi per le camere detentive, i soggiorni, le mense, le cucine autogestite, gli spazi
per il lavoro, lo studio e le attività sportive. Bisogna creare anche fisicamente un
ponte tra dentro e fuori, tra l’intra moenia, la famiglia ed il mondo esterno.
Queste riflessioni sono strettamente legate al tema della localizzazione. Tutte
le ipotesi avanzate portano a dire che gli istituti destinati a ospitare forme alter-
native di detenzione devono essere in città, a contatto con la vita quotidiana delle
persone libere, a contatto con il mondo del lavoro, dell’istruzione, con tutti quegli
ambiti attraverso i quali il detenuto possa sentirsi ancora parte di una comunità
civile.

46
2. DONNE E CARCERE

Gianluigi Bezzi

L’esperienza degli Stati Generali ha visto il coinvolgimento di diverse anime


con un unico denominatore comune e cioè la conoscenza, rectius, l’interesse per
il fenomeno carcerario.
Al tavolo tre si sono così seduti professori universitari, giornalisti, magistrati,
direttori di case circondariali, operatori carcerari oltre al sottoscritto avvocato pe-
nalista.
Al di là di difficoltà ed impedimenti logistici, legati soprattutto alla distanza
geografica dei componenti e alla poca dimestichezza con le moderne tecnologie
indispensabili per gestire i contatti, ho avuto modo di apprezzare la grandissima
sensibilità nei confronti delle problematiche relative al carcere, unita ad una ferma
critica rispetto alle numerose e croniche criticità del sistema penitenziario.
A livello personale, l’aver constatato tanta attenzione, conoscenza ed interesse,
mi ha fatto sentire meno “solo”, nel senso che non ci sono solo gli avvocati penalisti
che lottano perché il carcere sia davvero un’extrema ratio e perché, comunque, lo
stesso sia luogo di reinserimento e rieducazione.
L’argomento trattato al tavolo 3 Donne e carcere ha richiesto un’analisi appro-
fondita sulle caratteristiche particolari della detenzione femminile, con riguardo a
problemi, quali l’affettività, la sessualità e, ovviamente, la maternità, che hanno o,
meglio, dovrebbero avere una particolare attenzione da parte del legislatore e di
tutte le forze in campo.
La presenza dell’avvocatura in questo come negli altri tavoli, ha a mio avviso
un importante significato non tanto e non solo per la nostra categoria, quanto per
le istituzioni che hanno voluto riconoscere agli avvocati penalisti e, sia consentito,
all’Unione Camere Penali Italiane un ruolo sociale che va al di là del semplice am-
bito professionale.
Per tale motivo ritengo che questo riconoscimento, questa volontà da parte
delle istituzioni di ascoltare tutte le voci di chi è impegnato in questo universo
parallelo e dimenticato, sia stato un elemento importante e coinvolgente che ha
permesso anche di superare molte incertezze e perplessità legate all’utilità dell’in-
tera operazione.
I risultati, di questo e degli altri tavoli, sono da leggere.
Si tratta di un condensato di analisi, idee, progetti e proposte che hanno un
unico scopo: far sì che il carcere non sia più una discarica sociale.
Certo, più di una voce si è levata a sottolineare come il nostro lavoro potesse
essere una sterile attività priva di sbocchi e di conseguenze.
Altri hanno etichettato questa esperienza come l’ennesima riforma a costo
zero che consente di inviare messaggi tanto rassicuranti quanto privi di contenuto
all’Europa che da anni monitora e condanna il nostro disastrato sistema peniten-
ziario.
Tutte queste opinioni sono valide ed hanno indubitabilmente fondamento.

47
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Tuttavia non deve sfuggire un particolare importante: le riforme, quantomeno


le migliori, nascono dalle idee, dal loro confronto e dalla loro rielaborazione.
Quando le opinioni vengono poi da persone con diverse culture, idee e posi-
zioni anche professionali, il risultato sarà senz’altro migliore.
Non a caso la nostra Carta Costituzionale è nata dal confronto di idee e modelli
di rappresentanti dell’intero arco politico e sociale italiano.
Allo stesso modo, gli Stati generali hanno visto il confronto tra universi e pro-
fili di pensiero diversi.
Il risultato del lavoro del Tavolo tre è una rielaborazione attenta e puntuale
effettuata dalla responsabile, la Prof. Tamar Pitch, che ha tenuto conto di tutte le
opinioni espresse nel corso degli incontri avuti e dei documenti elaborati dai par-
tecipanti.
Per quanto mi concerne, ho cercato di sottolineare l’esigenza di una rivisita-
zione dell’Ordinamento Penitenziario che riconosca la presenza di una differenza
di genere e di una specificità della detenzione femminile rispetto a quella maschile
come peraltro indicato chiaramente dalle Regole Penitenziarie Europee.
Viceversa il nostro ordinamento penitenziario non prevede alcuna disciplina
con riferimento alla detenzione femminile: l’unica previsione in esso contemplata
è infatti quella contenuta nell’art. 11, del “servizio sanitario”, che ai commi 8 e 9
recita: «In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per
l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Alle madri è consentito di tenere
con sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono or-
ganizzati appositi asili nido».
Emerge con evidente immediatezza che il carcere è un luogo pensato da uo-
mini per “contenere” uomini.
Dal 1975 ad oggi il legislatore non è mai intervenuto per porre rimedio alla
mancata previsione di una apposita disciplina per la detenzione femminile, man-
canza che non si ritiene più ulteriormente procrastinabile.
Secondo i dati forniti a questo Tavolo dal Ministero e dall’Amministrazione
Penitenziaria alla data del 13.5.2015 erano 2293 le donne presenti nelle carceri
italiane, pari a circa il 5% del totale dei detenuti.
Si osserva che il dato non consente di ricavare quante di esse fossero presenti
in carcere in applicazione di misura cautelare, ovvero in esecuzione di pena defi-
nitiva. Tale dato non è certamente di secondaria rilevanza, poiché dovrebbe essere
garantita una convivenza separata tra le detenute in misura cautelare e quelle defi-
nitive: si utilizza il condizionale in quanto, come rileva lo stesso DAP, generalmente
non è possibile ospitare separatamente le detenute con posizioni giuridiche dif-
ferenti, poiché gli spazi e le strutture carcerarie non consentono tale separazione.
A tal proposito si osserva che gli istituti penitenziari presenti sul territorio na-
zionale riservati in via esclusiva alla detenzione femminile sono solamente 5 (Trani,
Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca), mentre esistono 52 reparti
isolati all’interno di penitenziari maschili.
Tale situazione comporta serie problematiche.
Anzitutto il limitato numero di istituti in grado di ospitare detenute implica
che, spesso, la pena (o peggio ancor alla misura cautelare) venga eseguita in un
istituto situato a distanza rispetto al nucleo familiare di provenienza, non potendosi
pertanto dare effettiva applicazione al principio di territorialità dell’esecuzione del-
la pena. Spesso, infatti, i familiari si trovano nella estrema difficoltà, se non nell’im-

48
Donne e Carcere

possibilità, di affrontare le spese o comunque di effettuare impegnativi e disagevoli


spostamenti per poter andare a colloquio dai propri cari. La problematica si acuisce
ulteriormente in tutti quei casi in cui le detenute hanno figli affidati all’esterno (è
infatti difficile conciliare le limitazioni concernenti i giorni e gli orari dei colloqui
con gli impegni scolastici dei minori).
In un’ottica di investimento strutturale si evidenzia che dovrebbe essere imple-
mentato l’impiego della tecnologia informatica in tutti gli istituti di pena, mediante
l’utilizzo, ad esempio, di skype, onde consentire i colloqui tra i detenuti e i fami-
liari anche a distanza. (Detto investimento, peraltro, potrebbe avere considerevoli
risvolti positivi anche con riferimento al problematico aspetto dell’istruzione all’in-
terno del carcere, consentendo di frequentare corsi on-line).
Ulteriore problematica che affligge la detenzione femminile è rappresentata
dalla minore possibilità, per le donne, di accedere alle attività trattamentali: ciò in
quanto la collocazione delle sezioni femminili in istituti maschili non consente di
condividere con gli uomini le strutture e, spesso, a fronte del limitato numero delle
donne detenute, non sono si sono attuati investimenti per creare strutture nelle
sezioni femminili.
Analoga problematica investe la possibilità, per le donne, di accedere al lavoro
sia all’interno che all’esterno dell’istituto penitenziario. Con riguardo ai lavori all’in-
terno del carcere si evidenzia che grave freno è costituito anche dalla mancanza
di una visione “manageriale” del carcere, che consenta alla direzione una gestione
imprenditoriale delle attività e dei laboratori che spesso vedono coinvolte le donne,
che producono beni di elevata qualità, la cui vendita è tuttavia resa impossibile da
una normativa datata, superata e antieconomica.
Non può quindi prescindersi da una rivisitazione dell’Ordinamento peniten-
ziario che riconosca la presenza di una differenza di genere ed una specificità della
detenzione femminile rispetto a quella maschile.
Si segnala che gli artt. 64 e 65 delle Regole Penitenziarie Europee stabilisco-
no che «…la detenzione, comportando la privazione della libertà, è punizione in
quanto tale. La condizione della detenzione e i regimi di detenzione non devono
quindi aggravare la sofferenza inerente ad essa, salvo come circostanza accidentale
giustificata dalla necessità dell’isolamento o delle esigenze della disciplina», «…ogni
sforzo deve essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano regolati e
gestiti in maniera da: …mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri
della famiglia e con la comunità esterna al fine di proteggere gli interessi dei dete-
nuti e delle loro famiglie».
Analogo principio viene stabilito nella relazione “Women in Prison and
children of imprisoned mothers” redatta nel 2007 dal Quaker United Nation Office
che sancisce: «Women and men are different. Equal treatment for men and women
does not result in equal outcomes».
Si ritiene pertanto che qualunque intervento di rivisitazione della disciplina
penitenziaria da parte del legislatore non possa prescindere da una presa d’atto
delle peculiarità della detenzione femminile e della ormai improcrastinabile neces-
sità di normare tale fondamentale situazione.
Ciò anche in un’ottica di adeguatezza della pena detentiva femminile, di rein-
serimento sociale delle donne e di abbattimento della recidiva: tutto ciò avendo
riguardo anche alla ricaduta sociale della detenzione femminile, certamente ed
all’evidenza molto più ampia di quella maschile.

49
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Alle già gravose condizioni della detenzione femminile si aggiunge le vergo-


gnosa situazione dei bambini “ospitati” negli istituti penitenziari.
Trattasi dei casi in cui le donne detenute hanno la prole al seguito, non essen-
do questa stata affidata all’esterno. Per l’effetto il minore si trova ad essere “ospita-
to” nella struttura detentiva unitamente alla madre.
Secondo i dati forniti dagli organi istituzionali a questo tavolo alla data del
31.12.2014 negli istituti penitenziari femminili e maschili con sezioni femminili
risultavano complessivamente presenti 27 detenute madri con 28 figli al seguito di
età inferiore a tre anni e risultavano altresì detenute 9 donne in stato di gravidanza.
Nell’ottobre del 2015 ho potuto constatare personalmente tale situazione nel
corso di una visita effettuata con l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali
alla casa circondariale di Como, dove si trovavano quattro bambini di età inferiore
ai tre anni con le loro madri.
Secondo i dati più aggiornati forniti dal Ministero della Giustizia (Ufficio per lo
Sviluppo e la Gestione del Sistema Informatico Automatizzato – Sezione Statistica)
alla data del 4 giugno negli istituti penitenziari risultavano complessivamente pre-
senti 36 detenute madri con 38 figli al seguito (tali dati non indicano tuttavia l’età
dei minori e la presenza di donne in stato di gravidanza).
Sempre secondo i dati aggiornati al 31.12.2014 gli asili nido funzionanti pres-
so gli istituti di reclusione e gli ICAM risultano essere 15: si evidenzia che è stato
fornito unicamente il dato aggregato. Stante l’operatività, alla data della rilevazione,
dell’ICAM di Milano, di quello di Venezia-Giudecca e di quello di Cagliari, gli asili
nido attivi nei 5 penitenziari femminili e nelle 52 sezioni femminili ammontano
complessivamente a 12.
È di tutta evidenza come la gran parte degli istituti sia sfornita di questo fonda-
mentale servizio e supporto per i bambini i quali, se presenti in detti istituti, si ve-
dono costretti a crescere nei primi anni di vita in un ambiente certamente non con-
sono alle loro fondamentali esigenze e non rispettoso dei loro diritti fondamentali.
Deve infatti sottolinearsi che il rapporto esistente tra madre e figlio viene per
lo più esaminato in modo avulso dal contesto: tale rapporto, tuttavia, non può esse-
re considerato solo duale, ma si compone necessariamente di un terzo elemento, di
fondamentale rilevanza, costituito dall’ambiente. Ed allora, per poter comprendere
e regolare adeguatamente tale problematica dovranno necessariamente prendersi
in considerazione tutti gli aspetti del fenomeno.
La condizione di infanzia “sospesa” in cui si trovano costretti i bambini ospitati
negli istituti di pena comporta una deprivazione relazionale in una fase di fonda-
mentale importanza per il loro sviluppo (ulteriormente aggravata dalla mancanza,
spesso, di adeguati spazi e dei più fondamentali servizi) e tale condizione ha per di
più l’ulteriore effetto di incidere negativamente anche sulle madri, che si sentono
inevitabilmente private non solo della libertà personale, ma anche della loro capa-
cità di essere genitori.
Ed allora dovrebbe essere seriamente ripensata la politica dell’esecuzione pe-
nale con particolare attenzione al mondo femminile ed alle specificità ad esso con-
nesse. Si osserva che serie riflessioni dovrebbero essere svolte non solo sulla scarsa
propensione delle donne a violare le norme penali (solo il 5% della popolazione
detenuta è rappresentato da donne), ma anche sulla tipologia dei reati commessi
che, per la gran parte, sono quelli contro il patrimonio e quelli legati alla normativa
sulle sostanze stupefacenti.

50
Donne e Carcere

Ciò anche al fine di scongiurare il reiterarsi della presenza di bambini in car-


cere in spregio dei più elementari diritti dell’infanzia.
Si è posto parziale rimedio a tale situazione attraverso l’istituzione, con la leg-
ge 21.4.2011, n. 21 degli Istituti di Custodia Attenuata per le Madri (“ICAM”), nei
quali vengono ospitate detenute e detenuti con figli al seguito. Queste strutture, a
tutti gli effetti contenitive, consentono di scontare la pena in regime di detenzione
in luogo più consono alle esigenze dei bambini.
Sul territorio nazionale risultano operativi l’ICAM di Milano, quello di Venezia-
Giudecca e quello di Cagliari.
Deve tuttavia evidenziarsi come tali istituti abbiano un costo di realizzazione
e gestione alquanto elevato e, per di più, la mancata diffusione sul territorio non
garantisce al condannato di poter espiare la pena sul territorio ove insiste il proprio
nucleo familiare.
A ciò si aggiunga che tali strutture hanno un costo elevato e non mancano
certamente profili di inadeguatezza rispetto alle esigenze dei bambini.
La stessa L. n. 21/2011 prevede che le donne incinte o con prole di età inferio-
re agli anni dieci possano espiare le pene detentive non superiori a quattro anni
(anche se residuo di maggior pena) in regime di detenzione domiciliare anche
presso la nuova figura della casa-famiglia protetta.
Tale previsione non risulta tuttavia ancora realizzata.
Si ritiene che forte freno alla realizzazione di tali strutture sia rappresentato
dalla carenza di fondi in capo agli enti territoriali: infatti, ai sensi dell’art. 4 l. cit. «Il
ministero può stipulare convenzioni con enti locali per l’individuazione delle case
famiglia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
Si ritiene altresì che la realizzazione di tali strutture non possa e non debba
essere ulteriormente procrastinata: attualmente, infatti, alle detenute recluse con
i propri figli che si trovano nelle condizioni di poter scontare il residuo di pena
nelle case famiglia protette è impedita la fruizione della detenzione domiciliare per
assenza di tali strutture.
L’incentivazione della creazione di tali strutture si pone peraltro nel solco della
strada intrapresa dal Ministero della giustizia, che è tra i sottoscrittori della “Carta
dei diritti dei bambini dei genitori detenuti” (Protocollo d’Intesa sottoscritto in data
14 marzo 2014).
A fronte di quanto sopra osservato esprimevo la forte preoccupazione per la
mancata previsione di delega per la legiferazione in materia di esecuzione penale
con specifico riferimento alle peculiarità del genere femminile in seno alla bozza
della legge delega intitolata “Modifiche al codice penale e al codice di procedura
penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la ragionevole durata dei pro-
cessi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”.
Concludevo il mio contributo suggerendo che la “Delega al Governo per la
riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario” debba prevedere,
all’art. 31 (“Princìpi e criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario):
- l’introduzione di apposita disciplina che riconosca e garantisca la differenza di
genere e la specificità della detenzione femminile rispetto a quella maschile;
- previsione per le donne di misure di probation e di giustizia riparativa alternati-
ve al carcere mirate a reintegrare la donna(e i figli) nel tessuto sociale;
- tutela della genitorialità dei detenuti e con essa dei rapporti e del legame con i
figli all’esterno;

51
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

- previsione di “standard minimi” in caso di eccezionale permanenza di bambi-


ni all’interno dell’istituto penitenziario improntati alla preminente tutela del
minore.
Il contributo del sottoscritto e degli altri partecipanti al Tavolo è stato conden-
sato dalla coordinatrice, la Professoressa Tamer Pitch, in un abstract che ha ripor-
tato varie proposte operative (ampliamento e/o maggiore applicazione degli artt.
21 bis e 30 dell’O.P., maggiore partecipazione e fruibilità delle attività educative,
ricreative, sportive, maggior utilizzo di mezzi di comunicazione) rivolte ad un mi-
glioramento delle condizioni carcerarie in relazione ai rapporti familiari, alla salute
fisica e psichica ed alla quotidianità.
Segnalo, da ultimo, come l’esperienza del Tavolo tre non si sia esaurita con la
consegna della relazione finale ma stia ad oggi continuando.
Le sinergie create dal Tavolo ci spingono infatti a frequenti contatti telematici
che hanno ad esempio portato nel gennaio 2016 all’invio di una missiva al Ministe-
ro della Giustizia, nella quale si stigmatizzava il progetto di accorpamento di alcuni
istituti penitenziari femminili.
Il fatto che nelle settimane successive sia stato deciso il rinvio sine die della
promulgazione di tale decreto, testimonia l’autorevolezza conquistata sul campo
dal Tavolo in uno con l’attenzione e la sensibilità non solo di facciata da parte del
Ministero di Grazia Giustizia.

52
3. MINORITÀ SOCIALE, VULNERABILITÀ, DIPENDENZA

Fabio Massimo Bognanni

Considerata l’eterogeneità delle materie affidate, sono stati offerti, alla piattafor-
ma telematica del tavolo 4, tutti i lavori che sul punto hanno compiuto l’U.C.P.I e il
suo Osservatorio Carcere, nonché gli esiti delle iniziative da questi organismi intra-
prese volte a contrastare, tra l’altro, l’allarmante fenomeno dell’autolesionismo e dei
suicidi nelle carceri italiane, l’uso eccessivo delle psicoterapie farmaceutiche tra i ri-
stretti, il mancato recupero dei tossicodipendenti e la insufficiente prevenzione delle
dipendenze, il potenziamento dell’esecuzione penale esterna, in uno all’ampliamento
della soglia d’ingresso alle pene alternative alla detenzione in carcere, anche come
mezzo di deflazione delle minorità sociali sopravvenute nel regime intramurario.
Impegni tutti questi tesi ad affrontare, ad esempio, le principali cause di males-
sere, di autolesionismo, ma anche di rancore e odio verso sé stessi, che spingono
fino alla fantasia e al gesto effettivo del suicidio.
Tra questi sicuramente spiccano l’inerzia e l’impotenza che, a loro volta sono
generate da una comprovata sensazione di marginalità, di abbandono, difficoltà a
progettare, difficoltà a individuare, impiegare e valorizzare le proprie risorse.
Nell’ambito di questa cornice problematica, grazie anche al prezioso contri-
buto offerto dal dott. Angelo Aparo – esperto in psicologia presso la 1° Casa di
Reclusione di Milano Opera, sono state considerate varie proposte:
- aumentare il numero degli operatori interni (educatori e psicologi), nonché in-
tensificare la frequenza di contatti fra operatore e detenuto, così da potere de-
dicare maggiore attenzione ai percorsi individuali, intensificare i colloqui con
i nuovi giunti, avere incontri più regolari e affidabili fra detenuto e psicologo,
avere dei tempi più a misura d’uomo nel monitoraggio dei progressi verso l’o-
biettivo.
- permettere, già poco dopo l’ingresso in carcere, l’accesso del detenuto alle atti-
vità trattamentali;
- favorire l’autonomia del detenuto, anche mediante l’incremento di opportunità
lavorative, così da ridurre quel parassitismo verso i familiari e l’istituzione che,
a sua volta, comporta un’ulteriore autosvalutazione della persona, ovvero con-
ferma l’immagine negativa che il detenuto ha di solito del proprio rapporto col
mondo;
- favorire più in generale la collaborazione e il sostegno reciproco tra detenuti;
- implementare la figura del peer support (N.d.R. uno specialista Peer Support è
una persona con esperienza significativa di vita alterata che lavora per aiutare le
persone con dipendenza chimica, disturbo mentale o abusi domestici e di altre
problematiche simili. A causa della loro esperienza di vita, queste persone han-
no una esperienza che la formazione professionale non può replicare o ripro-
durre) o come agente di supporto e di training per detenuti nuovi, giunti e/o più
giovani, o la predisposizione di un Centro ascolto per un primo accoglimento
delle problematiche di altri detenuti;

53
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

- migliorare le condizioni, aumentare e facilitare i colloqui con i familiari ma


anche con gli amici, tenendo conto che non tutte le persone detenute hanno la
possibilità di effettuare colloqui con i propri parenti;
- favorire il confronto fra operatori interni al carcere e mondo esterno;
- favorire iniziative e progetti a breve e a lungo termine che alimentino un costan-
te contatto fra detenuti e mondo esterno
- favorire, in particolare, quei progetti che comportano una tangibile continuità
fra il tempo della pena in carcere, quello delle misure alternative e, infine, il
primo periodo di completa libertà;
- promuovere con maggiori risorse l’istruzione per favorire l’emancipazione del
ristretto;
- potenziamento di una rete tra servizi, istituzioni, cittadini privati, imprenditori;
- favorire nuove relazioni all’interno del carcere promuovendo la nascita di rap-
porti con gli esterni che possano essere coltivati una volta fuori dal carcere;
- allargamento della platea delle misure alternative al carcere.
Un particolare approfondimento è stato poi dato al tema della tossicodipen-
denza, considerata anche la specifica competenza di alcuni dei componenti il ta-
volo.
Si è inoltre tenuto conto dei limiti e difficoltà nell’applicazione degli interventi
proposti; si guardino ad esempio le resistenze legate al detenuto in occasione di
trasferimento da un istituto all’altro o fra reparti diversi dell’Istituto, che rompono
un equilibrio faticosamente raggiunto, che elidono rapporti intrecciati e che pos-
sono generare una sensazione di frustrazione; la mancanza di criteri nitidi circa i
comportamenti da tenere per avere l’accesso ai benefici, per la non omogeneità dei
regolamenti interni carcerari sul territorio nazionale; la sovrabbondanza di inter-
venti disciplinari in caso di deroga a tali regole; la carenza di concreti riconosci-
menti per le condotte e le iniziative positive.
Affatto rilevanti, infine, le criticità logistiche e ambientali della vita quotidiana
intramuraria che, oltre a non riuscire a dirimere le originarie minorità che i detenuti
portano con sé in entrata, molte altre volte ne alimentano di nuove; si considerino
ad esempio i problemi di omosessualità originari e i frequenti episodi di omoses-
sualità successivamente scaturiti e causati anche dal mancato rispetto delle più
elementari regole di privacy e d’intimità del detenuto in quanto individuo.
Si è avuto occasione di apprezzare la professionalità, la competenza, l’impegno
e la passione di tutti i componenti del tavolo che, indipendentemente dalla non
unanime convergenza di opinioni (fra tutte, la distanza dall’esito dei lavori presa
dalla Comunità di San Patrignano, come evidenziato negli allegati al documento
finale del Tavolo 4), hanno fornito ogni possibile contributo volto a rispondere ai
temi affidati dal Ministro di Giustizia, nell’obbiettivo di creare degli spunti che pos-
sano tradursi in atti normativi o regolamentari migliorativi dello status quo.
L’esperienza è stata, dunque, intensa e formativa poiché ha contribuito ad ar-
ricchire in modo significativo il proprio bagaglio umano e professionale.
C’è ancora molto lavoro da fare: i temi oggetto del tavolo focalizzano l’imma-
nenza di rilevanti disagi psico-fisici del detenuto, alcune volte ai limiti della soste-
nibilità, portando inevitabilmente a tenere vivi l’impegno e l’attenzione su questi
temi anche al di fuori di queste prestigiose occasioni.

54
4. MONDO DEGLI AFFETTI E TERRITORIALIZZAZIONE DELLA
PENA

Giuseppe Cherubino

Il Perimetro tematico del Tavolo a cui ho partecipato si è occupato di tutti i


problemi legati al riconoscimento e all’esercizio del diritto all’affettività del dete-
nuto, del reperimento delle provvidenze economiche necessarie al suo soddisfa-
cimento, soprattutto in tema di territorializzazione della pena. E, ancora, del diffi-
cilissimo contemperamento sussistente tra l’obbligo dell’esecuzione della pena ed
il rispetto dei diritti dei detenuti che fossero anche genitori di figli minori, nonché
della possibilità di fornire la garanzia dei predetti diritti anche ai detenuti stranieri.
Una trattazione a parte meriterebbe quello che, da subito, è apparso a tutti i
partecipanti al tavolo più che un tema da sviluppare, un’indagine esplorativa circa
la possibilità di garantire il diritto all’affettività anche a quei detenuti che, in ragio-
ne della loro pericolosità, erano inseriti nel circuito carcerario di alta sicurezza e/o
sottoposti al regime del 41-bis ordinamento penitenziario.
Il punto non ha mancato di fornire occasione di contrasto tra i partecipanti
al tavolo che, al netto di posizioni personali che erano direttamente collegate alle
specifiche esperienze professionali e di vita, potrei sin da ora riassumere in due
diversi orientamenti: da un lato, quelli tra noi che ritenevano che, trattandosi di
diritti fondamentali della persona (e, certamente, il diritto all’affettività non scema
in ragione di un titolo esecutivo) lo stesso non poteva subire arresti in ragione
del titolo di reato che aveva colpito il detenuto e che ne aveva, quindi, segnato le
modalità di espiazione della propria pena; dall’altro, quelli che ritenevano che il
tema non potesse costituire oggetto tematico del tavolo a ciò ostando il concor-
so, negativo, sia dell’esistenza di due tavoli tematici (il 2 ed il 3) a cui erano stati,
esplicitamente, demandati la trattazione dei circuiti di sicurezza e la posizione della
donne detenute, nonché, in ultimo, l’esistenza del vincolo normativo attinente al
regime del 41-bis O.P.
Dico subito che, senza far torto a tutti gli altri partecipanti al tavolo, se l’espe-
rienza ed il lavoro del tavolo ha portato al conseguimento degli obiettivi assegna-
teci, tutto è dovuto all’opera del coordinatore Rita Bernardini che, molto proba-
bilmente, forte dell’esperienza di parlamentare di lungo corso (qui, sicuramente,
usato nell’accezione positiva del termine) ha, da subito, imposto una linea ed una
tempistica che, al netto delle mail, sms, telefonate, ci ha consentito d’incontrarci
sulla piattaforma audio/video approntata dal Ministero della Giustizia ben 12 volte.
Ma la capacità del nostro coordinatore non si è esaurita, ovviamente, nel con-
tingentare i lavori del gruppo ma, piuttosto, nel sapere smussare ogni naturale
contrasto insorto tra i membri dello stesso consentendoci, attraverso la rinunzia di
parte delle personali aspettative sugli obiettivi (ivi inclusi quelli dello stesso coor-
dinatore) il raggiungimento di proposte condivise.
Penso di poter affermare che, ognuno, ha potuto vedere cristallizzato nell’e-
laborato finale il proprio punto di vista rispetto al perimetro tematico assegnato e

55
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

ciò, invero, costituisce un risultato non disprezzabile ove solo si consideri come,
all’interno del tavolo si agitassero le diverse anime del mondo accademico, istitu-
zionale, della magistratura e dell’avvocatura e, infine ma non ultimo, dell’associa-
zionismo.
Non si è trattato, come immaginabile, di una “passeggiata di salute”, vi sono
stati scontri anche “aspri” tra le diverse anime ma, penso di poterlo dire, alla fine
ne siamo usciti compatti sviluppando, senza retorica, una sincera e leale amicizia
tra tutti i partecipanti il che, a dire il vero, risulta ancora più inspiegabile ove solo
si consideri che il contatto tra noi è stato sempre e solo “virtuale”.
Una premessa di metodo che ha contraddistinto il Tavolo nel perseguimento
degli obiettivi era, ed è stata, che «…. i componenti del tavolo considerano il diritto
all’affettività come un diritto umano fondamentale…».
È apparso subito chiaro che, tale assunto di principio, non avrebbe trovato
piena e sicura affermazione come diritto dei detenuti, sino a quando il Legislatore
non interverrà, riformandole, su quelle norme dell’Ordinamento Penitenziario che
escludono dai benefici alcune categorie di detenuti o che prevedono per essi il
regime speciale di detenzione di cui all’art. 41-bis.
Sotto il profilo pratico il gruppo si è mosso, in una prima fase, acquisendo
i dati numerici della popolazione carceraria, al fine di consentirci di sapere non
tanto il numero dei detenuti (quanti stranieri, madri, padri fossero al momento
ristretti), quanto di sapere in che misura e, in quale modalità, i diritti che noi inten-
devamo garantire fossero già stati assicurati agli stessi.
In quest’ottica, su proposta di Rita Bernardini, subito accolta da tutti, si è predispo-
sto un questionario (prassi, peraltro nota a noi appartenenti all’osservatorio carcere) da
inviare a tutti i Direttori degli Istituti di pena che, con grande sorpresa di tutti, hanno
immediatamente risposto restituendo il questionario all’attenzione del tavolo.
Si è passato, quindi, alla specifica trattazione dei temi assegnati così suddivisi:
1. assicurare la vicinanza territoriale dei detenuti ai propri familiari;
2. umanizzare gli incontri dei detenuti con le persone (familiari e non) ammesse ai
colloqui;
3. consentire un maggiore e più agevole uso dei colloqui e delle visite, dei permes-
si, delle telefonate, delle videochiamate e della corrispondenza,
4. assicurare il diritto alla sessualità e, comunque, visite prolungate senza controllo
visivo e/o auditivo con i familiari e le persone anche minori ammesse ai collo-
qui;
5. assicurare i diritti dei minori nel rapporto con i propri genitori detenuti o arre-
stati;
6. agevolare, intensificandoli, i rapporti con il mondo esterno, gli enti locali, il vo-
lontariato.
Si è proceduto all’assegnazione, per singoli componenti, delle varie tematiche
ed al sottoscritto, insieme al Dott. Carmelo Cantone, è stata assegnata la materia
relativa “AI COLLOQUI” e alle “TELEFONATE E CORRISPONDENZA”.
Gli elaborati dei sottogruppi, tutti ridiscussi in seno al Tavolo, hanno portato
all’elaborazione delle proposte e degli articolati che costituiscono, in uno, le pro-
poste da inserire nel progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario.
Il risultato conseguito dal tavolo, che potrà essere oggetto di verifica nella
lettura degli elaborati allegati, mi porta a formulare delle considerazioni personali
sull’esperienza vissuta.

56
Mondo degli affetti e territorializzazione della pena

L’iniziale preoccupazione, quella di essere capace di assolvere proficuamente il


compito a cui ero stato chiamato, presto ha ceduto il passo ad una, a mio giudizio,
ben più importante: il lavoro del Tavolo 6, ma più in generale quello di tutti i 18
tavoli degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, ha, forse meglio dire avrebbe,
portato alla riforma di un ordinamento ormai vecchio di oltre 40 anni?
E, ancora, sarebbe stato opportuno mettere mano ad una legge che, pur con i
limiti che tutti noi conosciamo e che, a dire il vero, non sono propri ma, piuttosto, il
frutto delle modifiche alla stessa apportate (in particolar modo dalle leggi speciali e
carcerogene) ha consentito, negli anni, il conseguimento di risultati ottimi in tema
di detenzione e di misure alternative alla pena?
A tali quesiti penso si possa rispondere positivamente e ciò, non tanto, sulle ali
dell’entusiasmo provato nell’essere parte di un tentativo di modifica di una materia
con la quale mi sono misurato in tanti anni di attività professionale, quanto perché,
per la prima volta fuori da logiche emergenziali e/o censure rivenienti dalla Co-
munità Europea, il Governo ha ritenuto fosse giunto il momento di mettere mano,
attraverso un opera sistematica, al miglioramento della condizione del cittadino/
detenuto.
Che poi, quale ulteriore titolo di merito, si sia voluto cooptare alla proposta di
riforma soggetti diversi (per pudore non dico “competenti”) che fornissero, in via
prodromica, la base all’elaborato legislativo (ovviamente rimesso al normale iter
parlamentare), a mio giudizio, ha dato un senso al lavoro che tutti noi siamo stati
chiamati a svolgere.

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5. LAVORO E FORMAZIONE

Roberta Giannini

Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale: una singolare opportunità di incon-


tro e di studio su un tema a cui tengo molto: il carcere, la vita in carcere, le speran-
ze in carcere, le opportunità in carcere.
Gli Stati Generali: l’espressione di una volontà politica di intervenire per cam-
biare il senso dell’espiazione della pena detentiva, perché oggi il carcere è solitu-
dine, sofferenza, diniego dei più semplici diritti.
Esistono rare eccezioni, quelle realizzate da direttori più o meno illuminati che
rendono un singolo istituto più vivibile di un altro, ma è troppo poco. Inoltre vi è
un’evidente disparità di trattamento che genera istituti di serie A o di serie B.
L’idea di mettere a confronto intorno ad un tavolo di legno o ad un tavolo
virtuale 11 persone – un magistrato, due ricercatori universitari, un direttore di un
istituto penitenziario, tre docenti universitari, un architetto, un avvocato, un garante
dei detenuti, un provveditore dell’amministrazione penitenziaria – è espressione di
una volontà precisa: chiedere agli esperti nella materia, a chi il carcere lo conosce,
di modificare quelle norme del diritto penitenziario che impediscono di fatto il
reinserimento sociale della persona detenuta (persona detenuta, preferisco chiama-
re così l’ospite dell’istituto penitenziario che è sempre etichettato con un participio
passato: “il detenuto, il ristretto, il condannato” e non come un nome).
È stato un confronto tra persone molto diverse, con bagagli culturali diversi,
con un approccio diverso sul tema carcere. Si pensi all’apparente contrasto tra un
magistrato o un direttore di istituto ed un avvocato, che si siedono ad un tavolo con
un preciso impegno, quello di migliorare la vita in carcere, nella consapevolezza
che la persona ristretta prima o poi rientrerà nella nostra società (che è anche la
sua) e potrà essere proiettata verso un futuro che non sia impossibile da realizzare.
Solo così “la sua pena” avrà avuto un senso.
Il tavolo che mi ha visto partecipe ha affrontato un tema che rispecchia pro-
prio questo obiettivo: Lavoro e Formazione all’interno del carcere.
Un tema che consente alla società di entrare nel carcere e che corrisponde ad
uno degli obiettivi degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale: consentire al mondo
sociale di entrare nel mondo recluso. Far comprendere che la persona reclusa rien-
trerà nella società e, se avrà avuto la possibilità di formarsi professionalmente o di
apprendere un “mestiere”, sarà agevolata nel reineserimento sociale.
Questo significa anche diminuire il rischio di recidiva.
Nelle varie riunioni che si sono tenute, gli 11 componenti si sono messi a
confronto, a volte si sono trovati in contrasto anche su temi delicati, ma ognuno ha
portato il proprio contributo che ha consentito la realizzazione di uno scritto con-
diviso basato sul principio sancito dall’art. 35 della Carta Costituzionale che tutela
il lavoro in tutte le sue forme per cui non si può definire lavorante colui che svolge
attività all’interno di un struttura carceraria ma lavoratore-detenuto.
Tale concetto si fonda sul principio che esiste totale uguaglianza tra la posi-
zione del lavoratore detenuto alle dipendenze di un privato e il lavoratore libero e
sulla quasi uguaglianza tra lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione. Il Tavo-

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GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

lo ha anche proposto lo svolgimento di un lavoro gratuito in cambio di uno sconto


di pena. Tale possibilità è prevista in altri Paesi Europei (ad esempio la Romania),
nei quali, però, non esiste l’istituto della Liberazione Anticipata.
A mio avviso (opinione contenuta nel rapporto finale che può essere consul-
tato sul sito del Ministero della Giustizia)) è pericoloso configurare un’ipotesi di
lavoro gratuito dei detenuti, poiché questo violerebbe i principi costituzionali sul
diritto alla retribuzione (art. 36) e l’art. 4 della Convenzione EDU così come inter-
pretato dalla Corte EDU, secondo una recente sentenza della Corte EDU (nel caso
Floroiu v. Romania – n. 15303/10 del 12 marzo 2013).
Si è giunti tuttavia a condividere che il rapporto di lavoro (prestazione lavo-
rativa/retribuzione) è rispettato anche quando in luogo della retribuzione viene
previsto il beneficio di uno sconto di pena, trattandosi di lavoro volontario.
Su tale tema ho avvertito più di una perplessità – al pari di altri i componenti
il Tavolo – ma che comunque è stata segnalata come possibile soluzione, in quanto
potrebbe garantire una maggior diffusione del lavoro in carcere.
Il problema che mi sono posta è quello del rapporto tra questo principio e
l’istituto della liberazione anticipata ex art. 54 O.P. Nel caso concreto, tra l’altro,
potremmo trovarci ancora una volta di fronte ad istituti penitenziari di serie A
(quelli che sono in grado formare e di fornire professionalmente o fornire attività
lavorativa) e quelli di serie B (che non hanno tali requisiti).
È evidente che lo sconto di pena in luogo della retribuzione dovrebbe avvenire
sempre su richiesta e, comunque, con il consenso del detenuto, cui sarebbe consentito di
decidere, entro limiti dati, quanti giorni di lavoro annuo scambiare con lo sconto di pena.
Per la quantificazione del rapporto tra lavoro retribuito e libertà, si è previsto,
così, un limite massimo di 30 giorni di sconto di pena per ogni semestre o per ogni
anno (giorni quantificati anche per la liberazione anticipata speciale non più in
vigore dal 1 gennaio 2016).
Il tavolo ha anche previsto alcuni interventi che potrebbero rivelarsi utili per pro-
muovere la qualità e la quantità della formazione e del lavoro negli istituti penitenziari,
auspicando la creazione di un’organizzazione centralizzata, così come previsto in altri
Stai europei (ad esempio in Spagna), avvalendosi di personale dotato delle compe-
tenze che servono ad individuare le reali necessità formative del mercato del lavoro, a
procurare occasioni di lavoro per il carcere, ad organizzare e sovrintendere alle lavora-
zioni e a sostenere il detenuto quando esce dal carcere nella ricerca di un’occupazione.
In relazione all’altro aspetto oggetto di studio del tavolo, la formazione dei detenu-
ti, si è prevista la ricerca di attività lavorative da svolgere all’interno del carcere, la loro
organizzazione, l’assistenza dei detenuti rimessi in libertà nel reinserimento lavorativo,
attività che presuppongono attitudini e professionalità specifiche, differenti da quelle
tipiche dell’Amministrazione penitenziaria. Per tale motivo si è prospettata l’istituzione
di un apposito organismo/ente cui sia affidato l’esercizio e la gestione di tali attività.
In effetti il problema attuale risiede nel fatto che chi organizza il lavoro o individua un
lavoro all’esterno della persona detenuta, in regime di art. 21 o art. 50 O.P., è la Polizia
Penitenziaria, che non ha assolutamente competenza nel mondo del mercato del lavo-
ro, mentre sarebbe auspicabile individuare dei tecnici, esperti della materia.
Sono convinta che le proposte contenute nel rapporto finale possano in con-
creto migliorare la vita all’interno del carcere, ma soprattutto consentire alla perso-
na che ritorna in libertà di inserirsi nel mondo del lavoro e al contempo salvaguar-
dare la società dal pericolo di reiterazione dei reati.

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6. ISTRUZIONE, CULTURA E SPORT

Davide Mosso

Sabato 30 aprile 2016. Ultimo tempo.


Sono le 9,30 circa.
E sto entrando nel carcere “Lorusso - Cutugno” di Torino.
Vi si accede da una strada al confine tra la città ed un comune della cintura, a
fianco corrono le macchine sulla tangenziale.
Giunti ad un semaforo si svolta nella via lunga cinquecento metri o poco più,
intorno prati.
All’imbocco un cartello: strada senza uscita.
Consegno la tessera del consiglio dell’ordine e ricevo il pass.
Inizia il percorso segnato da cancelli che, rumorosamente, si aprono davanti
per poi richiudersi subito alle spalle.
Così attraverso il cortile esterno, la doppia porta al muro di cinta con il con-
trollo al metal detector, il cortile interno. Sono dentro la struttura muraria vera e
propria, percorro un corridoio, una rotonda, un altro corridoio. Ed eccomi infine
arrivato alla cd. sala avvocati.
Lungo la strada chiacchiero con i due avvocati incontrati all’ingresso.
Hanno poco più di cinquant’anni. Come me. Un uomo ed una donna.
Penso. … sabato mattina. Passi per me. Che vivo solo. Loro però mi pare siano
entrambi sposati. E con figli. Avranno credo di meglio da fare che venire qui ad in-
contrarsi con i loro assistiti. Oltretutto per un’attività per la quale è assai probabile
non sarà pagato onorario alcuno.
Prima che ci si saluti per entrare ognuno nella stanzetta di neanche tre metri
quadri per i colloqui chiedo: “Cosa sapete degli Stati generali dell’esecuzione pena-
le voluti dal Ministro Orlando? Risposta: “Niente. Cosa sono?”
Gliene parlerò la prossima volta.

Incontro quattro assistiti.


Due sono alla prima carcerazione; stanno scontando una pena definitiva.
Omicidio il reato. La condanna: sedici anni il primo, quindici il secondo.
Li seguo dalla fase delle indagini preliminari, poco dopo l’arresto.
L’uno non è mai uscito. Passando dalla custodia cautelare alla cd. pena defi-
nitiva.
Lavorava da qualche tempo per una cooperativa sociale all’interno del carcere.
L’ordinanza che di recente gli ha riconosciuto 405 giorni di liberazione an-
ticipata, periodo da novembre 2010 a maggio 2015, ha valutato, d’ufficio, anche
l’ultimo semestre.
Respinto perché gli hanno trovato oggetti non consentiti (rectius per i quali
non aveva richiesto l’autorizzazione?).
Un carica batterie con presa usb, un adattatore usb, un lettore MP3, un dvd.
Licenziato dalla cooperativa, senza speranze di un altro lavoro, svolge tre volte

61
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

la settimana un corso da calzolaio, spera venga accolta la domanda di trasferimento


in un altro carcere in cui ricominciare dall’inizio.
Per il resto sta chiuso in cella, salvo andare su e giù per il corridoio della se-
zione, il regime cd. “celle aperte”, per sette ore a tempi alterni nel corso del giorno.

Il secondo è rientrato in carcere a fine febbraio.


L’indomani che la cassazione ne ha respinto il ricorso.
Era da un anno e mezzo agli arresti domiciliari. Dopo che un infarto del mio-
cardio ne ha ridotto ad un terzo le funzionalità del cuore.
La procura generale lo ha autorizzato ad andare da solo in carcere ed a pre-
sentarsi in quello di Torino, perché dotato di un centro clinico.
Prima del suo reingresso ne ho comunicato a matricola e direzione sanitaria
le condizioni di salute. Con la richiesta di collocarlo nel centro clinico per l’ap-
punto.
Gli è controindicato ogni sforzo, a maggior ragione portare pesi.
Lo accompagno fin in matricola, sostenendone le borse con gli effetti persona-
li; non c’è nessuno disponibile a farlo sul momento.
Mi riferirà poi che, passata la (reim)matricolazione, si è dovuto portare le borse
da sé, trascinandosele a fatica fin in sezione.
A due mesi di distanza nel centro clinico non ci sta ancora. “Non c’è posto”.
Prende quotidianamente una ventina di pastiglie, che non sempre gli sono
somministrate con precisione. Divide la cella di sette metri quadrati con un’altra
persona.
Non fa niente tutto il giorno. Gli piacerebbe coltivare l’hobby di costruire mo-
dellini con gli stuzzicadenti ma per avere il permesso di usare colla e coltellino….
Degli altri due.
Li seguo ormai da quasi vent’anni.
Una vita dentro e fuori. E poi fuori e dentro.
Piccoli reati contro il patrimonio. Droghe e disturbi psichici.
Troppo poco gravi questi ultimi (o troppo scomodo?) per i servizi mentali ter-
ritoriali per prenderli in carico. Nessun luogo in cui andare.
L’uno rimasto solo dopo la morte della madre, che peraltro per vari motivi non
andava comunque a trovarlo.
L’altro un po’ abbandonato dai familiari, che vivono in un’altra provincia, un
po’ che è lui che non ne vuole sapere di loro.
Si sente responsabile del suicidio, avvenuto tredici anni fa in un altro carcere,
del fratello minore. Avviato da lui alla droga ed a commettere reati.
Un giorno sì e l’altro pure minaccia di farsi male. Ed ogni tanto se lo fa sul
serio.

Entrambi se ne stanno chiusi nella cella in un reparto per cd. comuni. A far
niente tutto il giorno. O quasi. Uno per qualche ora fa lo scopino.
Però l’art. 95 della legge sugli stupefacenti (D.P.R. 309/90) dispone: «La pena
detentiva nei confronti delle persone che hanno commesso reati perché tossico-
dipendenti deve essere svolta in istituti idonei per lo svolgimento di programmi
terapeutici socio – riabilitativi».
Non dovrebbero allora stare in una sorta di comunità terapeutica interna al
carcere?

62
Istruzione, cultura e sport

E forse che non ce n’è una, cosa più unica che rara, proprio a Torino, il cd.
reparto Arcobaleno?
Peccato però che i posti siano, mal contati, cento.
E che i tossicodipendenti – lo è circa un terzo di chi è in carcere – qui siano
tra i 350 e i 400.
E 17.000 in Italia.
Non si può però neppure pretendere troppo.
E che sarà mai? La norma, già presente nella prima legge in materia, ha poi
solo….41 anni.
All’uscita incrocio uno degli avvocati che più si occupano a Torino di diritto
carcerario.
Compirà settantacinque anni a luglio. Anche oggi è venuto per parlare con una
decina di persone.
Combattente di lunga data delle aule di giustizia, ha partecipato alla fondazione
della Camera penale Torinese, preso parte come difensore d’ufficio al “processo Br”
a Torino segnato dall’uccisione del presidente dell’Ordine avvocato Fulvio Croce.
Manda, per conoscenza anche a me ed alla camera penale, le lettere che di
tanto in tanto trasmette al direttore di questo o quell’altro carcere per lamentare il
trattamento di suoi assistiti.
Gli chiedo: «Nino cosa ne pensi degli Stati generali?»
Mi risponde: «Ma quali? Quelli della Rivoluzione Francese?»
Uscito dal carcere vado a trovare un giovane detenuto in esecuzione della
pena presso il domicilio. Fine pena luglio 2016.
Arrestato il 5 novembre 2015, reato una violazione dell’art. 624 bis c.p., patteg-
giati 8 mesi all’udienza direttissima.
Era ai domiciliari, raggiunto dal definitivo è stato arrestato il 5 febbraio. Vi è
rimasto 20 giorni, fin quando il magistrato di Sorveglianza gli ha applicato la cd.
“Alfano – Severino”.
Anche nel suo caso, prima dell’ingresso alle “Vallette” (soprannome del carcere
torinese) avevo fatto segnalazione a direzione sanitaria e matricola. Di trattarsi di
persona giovane ed alla prima carcerazione. Affetta da sindrome ansiosa – depres-
siva con crisi di panico. Allegati i certificati medici.
È stato trasferito dalla sezione nella cui cella stava rinchiuso 22 ore al giorno –
fatte salve le due ore d’aria – in un’altra a celle aperte solo dopo che ho inviato mail
al direttore (e per conoscenza ai garanti di Torino, Piemonte e del nuovo ufficio
nazionale diretto da Mauro Palma) lamentando la situazione.
È vero, ho atteso una decina di giorni a trasmetterla. Sono stato sadico. Intanto
però questo dà, a chi vuol vedere, modo per comprendere (sulla pelle degli altri
e chiedo ancora scusa al mio assistito) l’effetto che fa la differenza tra la teoria –
norme di diritto penitenziario, proclami del ministro, massimi principi degli stati
generali – e l’azione.

Secondo tempo (note scritte dopo chi mi era arrivato l’invito per l’evento con
cui il ministro della giustizia aveva scelto di finire gli Stati generali dell’esecuzione
penale. La due giorni – pomeriggio del 18 e giornata del 19 aprile – in cui presen-
tare i documenti conclusivi dell’iniziativa).
Intanto che scorro i nomi di coloro che si alterneranno sul palco dell’audito-
rium del carcere di Rebibbia mi si affaccia una domanda.

63
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

O meglio, si riaffaccia la stessa domanda che fece capolino nella mia mente
quando seppi che avrei fatto parte di quest’iniziativa.
Inaugurata il 19 maggio 2015 nel carcere di Bollate, iniziata effettivamente
nella prima metà di luglio con conferenze, alle quali ho partecipato in video, base
logistica l’ufficio al ministero a Roma del coordinatore del tavolo, Mauro Palma.
Ma quanti di costoro parleranno di carcere avendolo davvero visto un carcere
in vita loro? Quanti sono entrati in un carcere e quand’anche fossero entrati quanto
è il tempo che ci hanno trascorso all’interno?
E quanti carceri avranno visto? Con quante persone che in carcere ci stanno
veramente hanno parlato?
Perché ho l’impressione che, Riccardo Polidoro, Rita Bernardini e pochi altri
a parte, i relatori parleranno di qualcosa che è loro, in concreto, del tutto ignoto.
Valendo peraltro, ritengo, anche per Polidoro e Bernardini ciò che vale per me.
Per quanto in carcere ci vada da 25 anni quasi ogni settimana, sia stato in
decine di carceri, ed in ospedali psichiatrici e case di lavoro, ed abbia raccolto i
resoconti di persone detenute in ogni parte d’Italia.
Il fatto cioè che il carcere continui ad essere un mondo comunque lontano
perché la conoscenza di un fatto presuppone di averne fatto esperienza e noi per
fortuna non siamo mai stati reclusi e, ci auguriamo, di non esserlo.
Il pensiero che a ragionare di carcere e pena nei 18 tavoli degli Stati generali
si siano trovate persone che per la gran parte di carcere vero sanno poco o nulla
peraltro è strettamente legato ad un altro.
Alla mia personale idea che in fondo, ad aver mosso l’iniziativa, sia stato l’inten-
to di buttar fumo negli occhi all’Europa, così da potersi dire che in Italia la ricetta
per un carcere dignitoso è stata trovata e da far chiudere la procedura d’infrazione.
Insomma: «le sentenze del 2009 e del 2013 della Corte Europea dei diritti uma-
ni hanno dispiegato i loro effetti. E, tranquilli, ora l’Italia ha una politica peniten-
ziaria degna di un Paese civile».
Spero di essere smentito dai fatti.
E che quindi, dopo che il ministro avrà terminato i lavori con l’intervento alle
18,30 del 19 aprile “Il punto di arrivo degli Stati generali ed il loro sviluppo”, avre-
mo altro che i miliardi di parole delle migliaia di pagine prodotte in quest’anno.
Avremo davvero un carcere civile.
Che poi altro non è che il carcere in cui le regole scritte da oltre 40 anni sono
effettive e non carta straccia.

Se il buongiorno si vede dal mattino


Di questi Stati generali se n’è parlato, dal punto di vista mediatico, poco o nulla.
Un po’ di visibilità all’inizio tuttavia l’hanno avuta.
Si era infatti previsto che agli Stati generali partecipasse quantomeno una per-
sona che l’esperienza della carcerazione l’aveva vissuta sulla propria pelle.
E proprio il tavolo al quale ho partecipato aveva originariamente come coor-
dinatore Adriano Sofri.
Senonché sono bastati la protesta dei rappresentanti di qualche sindacato di
agenti penitenziari ed un tweet del sig. Calabresi.
Di fronte alla prospettiva che i lavori su istruzione, cultura e sport venissero

64
Istruzione, cultura e sport

coordinati da una persona che in carcere c’è stata, e che avendo finito di scontare
la sua pena avrebbe dovuto essere rieducata e comunque reintegrata nella società
civile (oltre che essere già di suo un autorevole esponente del mondo culturale ita-
liano), il brillante ministro non è nemmeno riuscito a rispondere, a chi gli chiedeva
conto del fatto che si dessero dei soldi pubblici ad un condannato, che la parteci-
pazione ai tavoli non era retribuita.
Ha abbozzato che: … si… insomma… se n’era parlato di Sofri… nulla però
era deciso…
Come sia andata a finire la vicenda lo sappiamo.
Quanto il suo comportamento sia stato coerente con ciò che già andava di-
cendo e continua a dire sul cambiamento culturale del paese sui temi del carcere e
della pena si commenta da sé.
C’è da riconoscere però che qualche segnale nuovo lo ha lanciato nei giorni
che hanno preceduto l’evento di Rebibbia.
Sua infatti la decisione, giusta e civile, di non prorogare il regime di 41 bis per
un noto capo mafia che pare sia in uno stato di vita pressoché vegetativo… Ah no,
chiedo scusa, mi dicono che mi sono sbagliato… il 41-bis al sig. Provenzano è stato
prorogato…

Gli stati generali da dentro


Fermo restando che tutti i componenti che ho conosciuto mi sono parse per-
sone degnissime e perbene, e che il coordinatore del mio tavolo Mauro Palma è un
gran lavoratore (come dimostrano le 127 pagine del rapporto finale alla cui stesura
non ho pressoché dato alcun contributo significativo, ed alle quali rinvio per la
ricostruzione del percorso che abbiamo seguito), dirò soltanto ciò che ho più volte
ricordato anche nel corso dei nostri incontri.
Non credo ci sia bisogno di grandi cambiamenti formali. Né, meno che mai,
di un nuovo ordinamento penitenziario. Si tratta, con qualche correzione ed in-
novazione, ad esempio in tema di affettività, uso delle nuove tecnologie, giustizia
riparativa, di applicare principi e norme che già ci sono.
Perché, come sappiamo l’Italia ha dal 1975 una legge che disegna le linee gui-
da della vita in carcere.
L’Ordinamento penitenziario, che ha formalmente attuato il principio della
Costituzione del 1948: «le pene non devono consistere in trattamenti disumani
e devono tendere alla rieducazione», che compirà 41 anni il prossimo 26 luglio
e che al comma 1 dell’art. 1 afferma: «Il trattamento deve assicurare il rispetto
della dignità della persona».
Ed all’ultimo rileva: «nei confronti dei condannati deve essere attuato un
trattamento rieducativo… che tenda al reinserimento sociale… attuato se-
condo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condi-
zione dei soggetti».
Senonché già qui potrebbero sorgere degli interrogativi.
Del tipo.
Ma le condanne della Cedu del 2009 e del 2013 non furono forse comminate
all’Italia per trattamento disumano e degradante (il che sembrerebbe ben altra cosa
che assicurare il rispetto della dignità)?

65
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Chi è in carcere è davvero una persona o non è forse piuttosto, per comincia-
re nel linguaggio di tanti tra gli stessi operatori di giustizia – giudici ed avvocati,
agenti di polizia penitenziaria e direttori di carceri – solo e soltanto il detenuto?
Continuando nella lettura delle norme si può vedere che l’art. 13 precisa: «Il
trattamento deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di cia-
scun soggetto».
E l’art.  15 individua in: «Istruzione, lavoro, religione, attività culturali,
ricreative e sportive, agevolazione dei contatti con il mondo esterno e la fa-
miglia» l’essenza del trattamento.
Elenco e rubrica degli articoli e delle norme della legge in questione, del suo
regolamento (in ultimo del 2000) e delle raccomandazioni europee sulla detenzio-
ne potrebbe proseguire.
Occuperebbero però molto spazio ed è perciò più semplice rinviare sul punto
alle 10 pagine, da 96 a 106, che vi dedica il rapporto finale del mio tavolo.
Ciò che invece è forse più interessante è vedere l’attuazione delle norme.
Prendiamo ad esempio il lavoro.
L’ultimo comma del citato articolo 15 conclude: «ai fini del trattamento riedu-
cativo… al condannato è assicurato il lavoro».
Orbene il 29 febbraio scorso erano detenute 52.846 persone (a fronte di 49.500
posti, cfr. Ministero giustizia, D.a.p., sezione statistica).
Quante occupate in un’attività lavorativa?
Premesso che dati sul punto più aggiornati di quelli della relazione 2014
sull’attuazione delle disposizioni di legge relativa al lavoro in carcere non si è riu-
sciti a trovarli (ma ritenendosi la situazione non granché cambiata nel frattempo)
possiamo dire poco più di uno su quattro.
Posto che nel 2014 furono 14.550 le persone detenute che svolsero un lavoro
in carcere.
Delle quali peraltro si ignora un dato tutt’altro che secondario.
E cioè il numero di ore che le vedeva quotidianamente impegnate.
Laddove invece è noto che per 10.185 di costoro il lavoro consistette nell’im-
pegnativa attività di scopini, spesini e portavitto.
Niente di malissimo, verrebbe comunque da dire, se la gran parte dei restanti
38.000 o giù di lì, fossero costantemente impegnati nelle attività formative, cultura-
li, ricreative e sportive di cui alla legge.
Il fatto però è che l’attività che più impegna coloro che stanno in carcere è
un’altra: fare un bel niente.
Lo attestano le esperienze della gran parte delle persone che ho assistito in
questi anni.
E ne è cartina di tornasole l’istituto della liberazione anticipata, detrazione di
quarantacinque giorni ogni sei mesi di pena.
Prevista per chi da prova di partecipazione all’opera di rieducazione (art. 54
o.p.) la sua interpretazione letterale ha avuto vita assai breve.
Ai primi provvedimenti che riconoscevano lo sconto di pena per «aver aderito
positivamente al programma di trattamento» si sono ben presto succeduti quelli per
i quali essa consegue allo starsene buoni e quieti.
La spiegazione?
Trattamento individualizzato non vuole dire niente perché nella pratica non esiste.
La grandissima parte delle persone in carcere si sveglia quando vuole; sta in

66
Istruzione, cultura e sport

una cella avendo a disposizione per sé, fino alla primavera 2014, neanche tre metri
quadrati; ove rimanere chiusa anche 22 ore; vive aspettando, chi ce li ha, i familiari
che per qualche ora in un mese verranno a far visita.
Stupisce se in questi luoghi brutti, sporchi, maleodoranti, allocati fuori dai luo-
ghi abitati, in questi spazi che non sono tali, in questo tempo che scorre nell’ozio,
si diffondono malattie e depressione, si alimentano i vizi, si sviluppano i semi che
genereranno nuovi comportamenti devianti una volta usciti da lì?
E se pur il quadro dal 2014 ad oggi si è leggermente modificato perché, grazie
alla Corte Europea per l’appunto, ora i tre metri quadrati cadauno ce li hanno tutti.
E se pur il tempo in cella è un po’ meno perché, grazie alla commissione mini-
steriale presieduta da Mauro Palma, si è previsto che le celle restino aperte per otto
ore al giorno (regime peraltro, ma che strano vero?, anche questo non rispettato
e comunque fieramente avversato per cominciare da tanta parte del personale di
polizia penitenziaria) la sostanza però non è cambiata.
Se poi almeno tutto questo si limitasse ai costi delle condanne della Corte
Europea.
Ed invece no.
Gli studi in materia indicano in una cifra compresa tra i 150 ed i 250 euro la
spesa al giorno per persona detenuta (di cui peraltro giusto 4 o 5 per l’interessato)
Ogni anno, dunque, il sistema penitenziario ci costa sui 3 miliardi di euro.
A fondo perduto.
Anzi a perdere: visto che sette persone su dieci di lì a non molto, in carcere ci
torneranno di nuovo.

Per concludere
Se voi foste il sindaco e/o l’assessore alla viabilità di una città in cui gli au-
tomobilisti passano con il rosso, stendono i pedoni sulle strisce, parcheggiano in
doppia fila, vanno contromano ecc. ecc. fareste gli stati generali del traffico o man-
dereste i vigili a sorvegliare, fare le multe, ritirare le patenti?
Come avrete capito.
In un Paese che ha sulla carta regole penitenziarie in linea con quelle di un
normale Paese civile ma nella sostanza quotidianamente, sistematicamente e scien-
tificamente disattese e non applicate, al punto da essere condannato da un Giudice
nemmeno nazionale per trattamento disumano e degradante), voi come rimedio fare-
ste gli Stati generali dell’esecuzione penale per “favorire un cambiamento culturale”?
O non mandereste piuttosto per intanto i “vigili” a farle rispettare?
Perché l’ordinamento penitenziario, e solo 40 anni fa, ha istituito una figura,
il magistrato di Sorveglianza, alla quale ha affidato il compito di vigilare perché le
regole penitenziarie siano rispettate (art. 69 o.p.).
L’Italia ha già dunque i suoi Garanti per le persone private della libertà per-
sonale.
I magistrati di Sorveglianza.
Ciò nonostante si è avvertito il bisogno di crearne altri.
Qualcuno di grazia me ne può spiegare il motivo?
E qualcuno ancora può dirmi chi siano stati, nomi e cognomi per favore, i re-
sponsabili delle condanne all’Italia della Corte Europea dei diritti umani?

67
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

E dove stiano adesso questi signori e queste signore?


Ancora.
Sono personalmente grato a Glauco Giostra, Mauro Palma, Adolfo Ceretti ed
agli altri componenti del comitato scientifico per il documento finale.
I primi tre oltretutto, a vario titolo ed in diverse occasioni li ho conosciuti
personalmente.
Ed hanno tutto il mio apprezzamento e la mia stima.
Ma, ferma restando la responsabilità del ministero di non aver saputo allo stato
evidentemente divulgare efficacemente un’iniziativa comunque pregevole, impor-
tante e che sarebbe opportuno portasse buoni frutti, che dire di un documento
conclusivo che per numero di pagine e contenuti verrà forse letto in tutto da qual-
che centinaio di persone di buona volontà in tutto il Paese? Buona parte delle quali
non vi troveranno che riaffermate idee che già condividono.

Da parte mia credo che la vera rivoluzione culturale del carcere passi attraver-
so poche linee guida concrete da applicarsi immediatamente.
A partire dalla stesura di un Regolamento interno, uguale per tutti gli istituti di
pena, che venga messo a disposizione di chi entra in carcere. Com’è previsto per
legge. E come invece non avviene.
Dalla valorizzazione, registrandole fin dal momento dell’immatricolazione, del-
le capacità personali positive (lavorative, culturali, sportive) di cui chiunque entri
in carcere è in ogni caso dotato.
Credo poi che 3 miliardi di euro all’anno, a tanto ammontando suppergiù il
costo del carcere in Italia, richieda che ad occuparsi del D.a.p. non siano, o quan-
tomeno non siano soltanto, magistrati (spesso e volentieri dell’ufficio del pubblico
ministero) e burocrati del ministero della giustizia ma bensì manager bravi e pre-
parati.
Ed infine penso che se il sig. Orlando avesse avuto il minimo di coraggio, che il
ruolo rivestito gli imponeva, di difendere la nomina del sig. Adriano Sofri a compo-
nente degli Stati generali (“magari” invitando anche il sig. Mario Calabresi a farne
parte) e di non rinnovare il regime 41 bis al sig. Provenzano, allora sì che avrebbe
contribuito a dare il la a quel mutamento culturale del Paese rispetto ai temi del
carcere e della pena che a parole sembrano stargli tanto a cuore.

68
7. MISURE E SANZIONI DI COMUNITÀ

Ninfa Renzini

Parlare di misure di comunità, di misure alternative al carcere e costruire una


reale possibilità per le persone private della libertà era un compito immane. I com-
ponenti il Tavolo hanno immediatamente riorganizzato gli obiettivi che il Ministero
aveva indicato. La divisione in sottogruppi ha consentito di elaborare nel dettaglio
l’intera materia.
Le riunioni, numerose e anche in remoto, utilizzando la tecnologia fornita dal
Ministero, sono state tenute al Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria
di Milano e nel carcere di Bollate, dove abbiamo avuto modo di gustare un ottimo
pranzo al ristorante “In galera”, dove lavorano alcune persone private della libertà.
Se si offre un’ adeguata opportunità, ognuno può uscire dal carcere migliorato.
Questo era diventato il nostro scopo principale. Con mia grande sorpresa tutti i
partecipanti al tavolo si sono impegnati nel progetto e nel perseguire gli obiettivi
che ci eravamo dati.
L’alto profilo scientifico dei partecipanti ha condotto all’elaborazione della
relazione finale e dell’articolato.
Da subito ci si è resi conto che uno dei problemi era quello di far comprendere
alla società civile cosa sia il carcere e soprattutto che la pena non necessariamente
si deve scontare in carcere. Tema questo, caro all’Osservatorio Carcere dell’Unione
Camere Penali.
Le persone private della libertà devono avere altre possibilità, altre opportunità.
Uno dei problemi principali è stato individuato nella mancanza di risorse eco-
nomiche destinate al potenziamento delle misure alternative o meglio di comunità.
Tra le iniziative individuate, è stato proposto un progetto dedicato alle scuole,
sia per formare gli insegnati sia per informare gli studenti. Iniziativa già da alcuni
anni promossa dall’Unione Camere Penali con uno dei suoi Osservatori, dopo il
protocollo d’intesa sottoscritto con il Ministero dell’Istruzione.
È stato poi prospettato il coinvolgimento del volontariato nell’esecuzione pe-
nale esterna, anche al fine di trovare strutture idonee ad ospitare persone in assen-
za di domicilio.
Molto importante a questo scopo è il rafforzamento delle infrastrutture e degli
assetti organizzativi dell’ Ufficio Esecuzione Penale Esterna. Il potenziamento e la
regolarizzazione del rapporto con il terzo settore (volontariato), utilizzando al me-
glio le risorse economiche della Cassa per le ammende e dei Fondi Europei, può
fornire un decisivo contributo. È, inoltre, importante creare sinergie con gli enti
locali per verificare che le risorse destinate all’inclusione sociale e al sostegno delle
persone svantaggiate, siano rivolte anche ai soggetti ammessi a misure penali di
comunità.
Tutto ciò per arrivare alla creazione di progetti d’intervento volti alla sensibi-
lizzazione degli Enti sul tema misure penali di comunità e territorio e su progetti
individualizzanti che pongano i soggetti a minor rischio di recidiva.

69
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Con il coinvolgimento della Società civile sarà possibile stabilire percorsi re-
sponsabilizzanti e idonei a ricostruire il patto di cittadinanza, favorendo anche
percorsi di giustizia riparativa e risocializzante.
È stato affrontato, infine, il tema delle norme.
Per meglio agevolare la realizzazione degli obiettivi, è stato previsto di modi-
ficare la normativa inerente il lavoro dei condannati.
Il Tavolo ha proposto una riorganizzazione normativa, sia della L. 354/1975
che della L. 689/1981, armonizzandole con le norme del codice penale e proces-
suale penale.
Tra le proposte, anche quella che l’Unione Camere Penali da sempre chiede: la
rivisitazione dell’art. 41 bis e l’abrogazione del 4 bis della L. 354/1975.
Ed ancora il potenziamento e l’introduzione della Sorveglianza Elettronica,
nell’ottica anche questa più volte sottolineata dall’Unione Camere Penali e dall’Os-
servatorio Carcere, di limitare o ridurre l’uso della detenzione carceraria.
Con l’auspicio che quanto contenuto nelle proposte elaborate e meglio espli-
cate nella relazione finale possa avere una rapida applicazione.
I componenti del Tavolo, e NON solo, auspicano di aver costruito il diritto alla
speranza per dare speranza alle persone private della libertà.

70
8. ESECUZIONE PENALE:
ESPERIENZE COMPARATIVE E REGOLE INTERNAZIONALI

Cinzia Simonetti

Nella mia vita professionale ho potuto constatare che, se è vero che spesso la
solitudine di un avvocato non ha confini, quella di un avvocato che si occupa di
esecuzione penale è assoluta e infinita.
Così, l’idea di poter finalmente mettere nero su bianco e denunciare i difetti
intollerabili di un sistema che non funziona è stata la mia prima sensazione quando
Riccardo Polidoro, il Collega Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’U.C.P.I.,
mi ha comunicato che avrei fatto parte di uno dei Tavoli organizzati nell’ambito
degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale.
Ho avuto la sensazione netta che fosse giunto il momento di restituire quanto
da me ricevuto nel corso di tanti anni occupati a tutelare i diritti di chi è privato
della libertà.
Credo molto nel “movimento circolare” dell’esistenza di ciascuno di noi, quella
ciclicità che ci fa sentire parte integrante di un gruppo, di un sistema, nel mio caso
di una società.
Ho affrontato il mio impegno con la consapevolezza che quella sarebbe stata
un’ottima occasione per poter contribuire a cambiare il “sistema” dall’interno, tra-
lasciando le mille battaglie quotidiane combattute in trincea da noi Avvocati che,
purtroppo, lasciano spesso in bocca il sapore della solitudine conseguente all’im-
popolarità del tema penitenziario.
Dopo l’entusiasmo iniziale ho percepito che qualcosa non andava; nel Parla-
mento, lo stesso Parlamento che aveva conferito al Ministro della Giustizia la de-
lega per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario e delle leggi ad esso collegate,
ci si avviava a emanare norme in assoluto contrasto con la ratio che a tanto aveva
finalmente portato. Si parlava di aumento del termine prescrizionale, di aumento
di pene per taluni reati che altro riguardo, secondo me, avrebbero richiesto e, con
il passare dei giorni, mi domandavo sempre più se il mio impegno avrebbe potuto
portare a qualche sperato risultato.
Contemporaneamente a ciò, il coordinatore del mio Tavolo, il Professor
Francesco Viganò, convocò la prima riunione telematica del gruppo nel corso
della quale, dopo le rimostranze di ciascun componente per quanto stava ac-
cadendo in Parlamento, si decise, concordemente, di procedere con il lavoro
assegnato.
Ho subito percepito che con i componenti del mio Tavolo di lavoro, il n. 14,
avrei collaborato volentieri e, come unico rappresentante dell’avvocatura, avevo
avuto la fortuna di potermi considerare in buona compagnia.
Le prime impressioni furono via via rafforzate nel corso delle tante riunioni a
cui ho partecipato, tant’è vero che mai uno scontro vi è stato tra i componenti del
mio Tavolo e tutte le proposte avanzate tramite il report finale sono state unanime-
mente condivise.

71
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Ciò non implica, tuttavia, il fatto che fin dall’inizio della trattazione di ciascun
argomento tutti siano partiti dalle stesse posizioni, anzi, vi assicuro che non è stato
così.
Il lavoro impagabile del nostro Coordinatore ha fatto sì che l’opera di sintesi
emersa alla fine dei lavori del gruppo sia stata frutto di un confronto serrato che,
opportunamente, ha proceduto a non tralasciare alcun aspetto del problema, fosse
anche quello da tutti noi detestato dell’invarianza economica con cui eravamo co-
stretti a fare i conti!
Il tema di ricerca del nostro Tavolo, “Esecuzione penale: esperienze com-
parative e regole internazionali” era tra i più complessi perché non ci si poteva
limitare a riportare la propria esperienza professionale ma bisognava riferirsi al
contesto europeo in chiave comparata su tutti i punti oggetto di delega, logica
necessità dettata dalle recenti condanne riportate dal nostro Paese presso la Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, vero motivo per il quale tale iniziativa, a parer mio
è stata intrapresa.
La vastità dei temi assegnati al Tavolo ha implicato in prima battuta un’opera di
selezione degli argomenti da trattare. A questo fine, si è cercato di individuare, tra
le tematiche oggetto della legge delega, quelle sulle quali un intervento riformatore
appariva più urgente.
Nell’elaborazione delle proposte ci si è ispirati a un duplice criterio: da un lato,
l’attenzione alle indicazioni provenienti dalle fonti internazionali (di hard e soft
law) in materia sanzionatoria, dall’altro, lo studio delle esperienze e delle prassi
‘virtuose’ di ordinamenti vicini a quello italiano.
Quanto all’oggetto delle proposte, si sono tenuti in considerazione due piani
diversi: quello delle misure alternative e quello dell’esecuzione intramuraria. Sot-
to il primo profilo, tutti i membri del Tavolo si sono trovati concordi nel ritenere
che l’orizzonte entro il quale occorre muoversi, in un’ottica di riforma del sistema
sanzionatorio, sia quello della riduzione del terreno oggi occupato dalla pena de-
tentiva.
Studi nazionali e internazionali corroborano, infatti, l’assunto secondo cui tale
pena è, tra tutte, quella economicamente più costosa e assieme quella meno idonea
a ridurre il rischio di recidiva dei condannati.
Nell’auspicio di una riforma del sistema sanzionatorio che introduca, già a livel-
lo di pene principali, sanzioni non detentive, il Tavolo si è impegnato – nell’ambito
del suo mandato – a formulare proposte per il potenziamento e il miglioramento
delle misure alternative. In questo senso, sono state elaborate proposte finalizza-
te, da un lato, a garantire il contenimento del rischio di recidiva del condannato
durante l’esecuzione della misura, e dall’altro a individualizzare il contenuto delle
misure, al fine di impostare un percorso realmente risocializzativo e in grado di
realizzare un’efficace funzione di prevenzione speciale nel lungo periodo.
Quanto invece al piano dell’esecuzione intramuraria, lo scopo che si è avuto
di mira, sempre in ossequio alle indicazioni provenienti dalla normativa sovra-
nazionale, è stato quello di garantire un’esecuzione rispettosa dei diritti fonda-
mentali della persona, favorendo, altresì, nella misura più ampia possibile, il
mantenimento dei legami tra detenuto e società (in questo senso si vedano le
proposte sull’introduzione delle visite familiari e sugli incontri di coppia, nonché
sul trattamento delle detenute madri). Il tutto nella consapevolezza che, para-
dossalmente, l’apertura del carcere all’esterno ‘aumenta la sicurezza’, riducendo

72
Esecuzione penale: esperienze comparative e regole internazionali

il livello di recidiva dei condannati (così come confermato da svariate ricerche


nazionali ed internazionali).
Dallo studio delle esperienze straniere che sono state esaminate dai compo-
nenti del Tavolo ha trovato conferma l’assunto, che è a ben guardare alla base della
normativa sovranazionale, secondo cui l’innalzamento dei livelli di sicurezza contro
la criminalità dipende anche da interventi di tipo inclusivo, funzionali a mantenere,
ed anzi a incentivare, i legami del condannato con la società.
A tale riguardo, il Tavolo si è occupato di esaminare i sistemi penitenziari di
Paesi stranieri anche al fine di individuare prassi, norme e istituti che possano es-
sere applicati, con i dovuti adattamenti, nel sistema italiano di esecuzione penale.
Primaria attenzione è stata posta nell’analisi dei sistemi dei principali Paesi
europei tra cui Spagna, Francia, Germania e Regno Unito anche attraverso l’utilizzo
di dati statistici.
In particolare, si è trattato di analizzare in chiave comparata diversi aspetti
dell’esecuzione penale tra cui:
- struttura organizzativa dell’amministrazione penitenziaria (uffici, gestione del
personale, figure professionali impiegate, etc.);
- struttura organizzativa degli istituti di pena e analisi dei servizi di trattamento e
riabilitazione;
- sistema delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari unita-
mente ai programmi di trattamento ed essi relativi;
- sistema delle misure di sicurezza e della cura del disagio psichico;
- regimi differenziati e circuiti di sicurezza in ragione delle diverse tipologie di
soggetti detenuti (es. minori, sex-offenders, madri detenute, reati legati all’ever-
sione dell’ordine sociale, etc.);
- condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari;
- diritti garantiti durante l’esecuzione e modalità con le quali assicurarne l’effetti-
vità (con particolare riguardo alla materia della salute, del lavoro, dell’istruzione
e della dimensione affettiva);
- modalità di accesso agli organi preposti alla tutela dei diritti soggettivi previsti
all’interno della normativa penitenziaria;
- sistemi di giustizia riparativa e tutela delle vittime del reato;
- percorso di reinserimento e presa in carico territoriale.

Gli obiettivi verso i quali puntare sono stati:


- il sistema delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari
unitamente ai programmi di trattamento a essi relativi;
- il sistema delle misure di sicurezza e della cura del disagio psichico;
- le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari;
- la tutela delle donne detenute;
- la tutela delle detenute madri;
- la tutela dei diritti dei detenuti stranieri;
- i diritti garantiti durante l’esecuzione e modalità con le quali assicurarne l’effetti-
vità (con particolare riguardo alla materia della salute, del lavoro, dell’istruzione
e della dimensione affettiva).
In merito a tali obiettivi, sono intervenute numerose proposte per la cui con-
sultazione rimando report del Tavolo 14, reperibile sul sito del Ministero della Giu-
stizia nella sezione riservata agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale.

73
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Essendomi occupata per molti anni delle misure di sicurezza per gli imputabili,
ho chiesto e ottenuto di approfondire l’argomento, riferendomi ai sistemi penali
europei che tale previsione contengono, conferendo il seguente contributo al lavo-
ro del gruppo.

Le misure di sicurezza detentive per gli imputabili nel panorama europeo


L’attività comparativa delle misure di sicurezza nei sistemi penali dei Paesi
Europei, ci suggerisce la misura della necessità che ciascuno di essi avverte
relativamente alla sicurezza dei propri cittadini ed alle connesse politiche giu-
diziarie.
Molto spesso, però, tali esigenze si contrappongono allo strumento che gli
Stati utilizzano per tali finalità, in particolare la privazione della libertà degli indi-
vidui considerati socialmente pericolosi che a esse si ritiene che debbano essere
sottoposti.
In Italia vigono le note misure di privazione della libertà personale dell’asse-
gnazione ad una Casa di Lavoro o ad una Colonia Agricola, oltre che quelle limita-
tive della libertà personale come la sottoposizione alla libertà vigilata.
Purtroppo, nonostante sia evidente che il sistema del doppio binario, risalente
al Codice Rocco, non sia più plausibile in una società che si possa definire evoluta
sotto l’aspetto socio-giuridico, tali istituti continuano a segnare il tempo di moltissi-
me persone che, a seguito della dichiarazione di delinquenza abituale, professiona-
le o per tendenza, ad esse vengono sottoposte, vedendo travolta la loro vita insieme
a quella delle loro famiglie in un’odissea senza fine.
L’U.C.P.I., dedicando una particolare attenzione al problema, organizzò nel
2012 il proprio Congresso Nazionale dedicandolo al tema dell’incostituzionalità
delle misure di sicurezza detentive e per il quale confluirono a Sulmona e a L’A-
quila i massimi esperti del tema, levando da quel Congresso un appello unanime
al legislatore nel senso dell’abolizione delle misure di sicurezza per i loro profili di
incostituzionalità.
Ad oggi nulla è mutato, inoltre nel panorama europeo, che di seguito ci accin-
giamo ad esaminare, altre realtà nazionali europee prevedono misure di sicurezza
per gli imputabili nel loro sistema di repressione della pericolosità sociale, rite-
nendo che questi, proprio in ragione del loro reiterato comportamento deviante,
facciano ravvisare una prognosi negativa per la collocazione nel tessuto sociale. In
considerazione di ciò, tali soggetti vengono individuati come destinatari di provve-
dimenti applicativi delle misure di sicurezza.

La comparazione con il sistema penale tedesco


Anche la Germania, nel momento dell’individuazione della pericolosità sociale
di una persona, annovera tra i propri rimedi di carattere penale quella delle misure
di sicurezza detentive, nel pieno ossequio del sistema del doppio binario.
A tal riguardo, va ricordato come nell’impianto tedesco tali misure siano state
introdotte dalla politica del regime nazionalsocialista che, parimenti a quanto con-
temporaneamente avveniva in Italia, riteneva in tale maniera, di potersi sbarazzare

74
Esecuzione penale: esperienze comparative e regole internazionali

in modo sommario, rapido ed efficace di tutti quegli uomini e quelle donne che il
regime riteneva non più portatori di una dignità umana, ma reificava e, all’uopo,
custodiva.
Solo nel 1953 in Germania si accese il dibattito sull’umanizzazione della cu-
stodia di sicurezza che sfociò nell’inserimento delle misure di sicurezza dell’inter-
namento in un istituto in cui potesse essere attivato un trattamento socio-terapico
quando nel 1969 si procedette alla riforma del codice penale.
Tuttavia tale recepimento fu solamente fittizio giacché lo stato tedesco non
possedeva idonee strutture necessarie per l’attuazione del novellato istituto.
Nel 1998 il legislatore tedesco valorizzando il successo della social-terapia
inserì di nuovo tale principio, prevedendo la comminazione di tale particolare
programma di trattamento a detenuti che evidenziassero problemi di carattere psi-
chico e antisociale.
È stato ampliato l’utilizzo della custodia di sicurezza nonostante l’evidente
negativa contrapposizione con le tutele costituzionali, e nel tempo, la loro conno-
tazione afflittiva si è affermata sempre di più.
Su sollecitazione dell’influsso negativo che alcuni gravi fatti di cronaca hanno
esercitato sulla popolazione e alla conseguente domanda di sicurezza e punizione,
è stata valorizzata la custodia di sicurezza che, fino all’anno 1998, era comminata
in misura non superiore a 10 anni. In risposta di tale spinta populista è stato eli-
minato detto limite decennale e riconosciuta l’adesione delle misure di sicurezza ai
principi costituzionali tedeschi.
Attraverso tortuosi e problematici passaggi, si è giunti fino all’attuale siste-
ma che prevede l’applicazione delle misure agli imputabili rigorosa ed imperniata
sull’attualità della prognosi che possa fungere da rimedio nei riguardi dei colpevoli
di gravissimi reati, ma tale pronuncia può avvenire fino al termine dell’esecuzione
della pena detentiva.
Tale estensione del rimedio si aggiunge a quanto era già previsto nel nucleo
dell’istituto della custodia di sicurezza che prevede, quindi, che oltre all’evidenza
della prognosi negativa ed a quella della riserva sulla stessa, anche la possibilità
di pronunciarsi sul punto a seguito di emergenze che intervengano durante la car-
cerazione.
A tale riguardo va evidenziato come nel 2007 sia stato ulteriormente reso
applicabile il rimedio, con la previsione anche nei casi in cui il giudice non abbia
in precedenza disposto in tal senso, pur conoscendo tutti gli aspetti del caso, e,
pertanto, potendo applicare la misura contestualmente alla condanna. Tale appli-
cazione prende il nome di “custodia postuma”.
A questo punto è evidente come sia di vitale interesse che tale strumento re-
chi con sé le sue stesse limitazioni e preveda un campo applicativo decisamente
ristretto ma, nonostante ciò, implica delle ripercussioni riguardo al trattamento dei
detenuti che vedono rallentare le loro opportunità in maniera assolutamente non
condivisibile.
Il sistema tedesco, in questo modo, ha visto raddoppiare i casi di persone
sottoposte alla misura custodiale, e ciò è stato determinato dalla deriva populi-
sta che ha alzato i toni del dibattito, deviandolo dall’alveo naturale del confronto
scientifico, spostando avanti la linea di azione e prevenendo come motivo di ap-
plicazione della misura custodiale la sola eventualità della commissione di un fatto
antigiuridico.

75
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Le misure di sicurezza nell’ordinamento elvetico


La custodia di sicurezza, già presente nell’ordinamento penale svizzero, ha
visto il suo incremento negli ultimi anni del secolo scorso vedendo, anche in Sviz-
zera raddoppiare tali condanne, destinandole a soggetti con particolari profili de-
linquenziali, venendo riservata ai componenti più violenti della società, non senza
prima intervenire con una pronuncia di pericolosità che giustifichi l’attribuzione
del profilo e della conseguente determinazione giudiziale.
Il trattamento, a differenza che nel nostro Paese, viene eseguito nell’ambito
delle carceri ordinarie, non essendo rientrata tra le scelte del legislatore elvetico la
previsione di strutture atte allo scopo, probabilmente a causa dell’esiguo numero
di persone, inferiore a trecento unità.
È viepiù inquietante quanto previsto dall’art. 123 a della Costituzione elvetica,
introdotto da un’iniziativa di legge popolare promossa a pieni voti dalla votazione
popolare dell’8 feb. 2004, in vigore dall’8 feb. 2004 che testualmente recita: 1 Con-
siderato il forte rischio di ricaduta, il criminale sessuomane o violento che nelle
perizie necessarie alla formulazione della sentenza è stato definito estremamente
pericoloso e classificato come refrattario alla terapia deve essere internato a vita.
Liberazioni anticipate e permessi di libera uscita sono esclusi.
È possibile redigere nuove perizie solo qualora nuove conoscenze scientifiche
permettano di dimostrare che il criminale può essere curato e dunque non rappre-
senta più alcun pericolo per la collettività. Se in conformità a queste nuove perizie
è posta fine all’internamento, la responsabilità per una ricaduta è assunta dall’au-
torità che ha adottato il provvedimento.
Tutte le perizie necessarie al giudizio del criminale sessuomane o violento de-
vono essere redatte da almeno due periti esperti reciprocamente indipendenti e
tenendo conto di tutti gli elementi importanti per il giudizio.
E ancora più grave, ai fini della libertà e indipendenza di giudizio della perico-
losità di tali persone è il fatto che il sistema elvetico non omette di prevedere che,
qualora il giudice chiamato a pronunciarsi sull’attualità di una prognosi decreti
il venirne meno, una “ricaduta” nella condotta delittuosa dell’internato al quale è
stata revocata la declaratoria di pericolosità sociale, è immediatamente produttiva
dell’effetto della responsabilità del giudice stesso che ne ha disposto la liberazione.
Possiamo solo immaginare quali panorami si dischiudano a seguito di tale
previsione normativa!

L’ingresso delle misure di sicurezza nel sistema penale francese


Sempre sull’onda della domanda di sicurezza dei cittadini, quello che era un
istituto assolutamente residuale del sistema penale francese, è stato reso applicabi-
le con molta più frequenza e ambito, infatti, durante la presidenza di Nicolas Sarko-
zi il Parlamento francese ha approvato il progetto di legge di “Rétention de sûreté”.
Questa legge ha istituito le misure di sicurezza da applicare nei confronti di chi
è riconosciuto penalmente irresponsabile per disordine mentale o, se imputabile, è
dichiarato socialmente pericoloso.
Questo progetto rovescia i principi dello Stato di diritto e, in particolare della
centralità dell’individuo. Il disegno di legge è stato oggetto di un rapido esame

76
Esecuzione penale: esperienze comparative e regole internazionali

dopo un’elaborazione altrettanto affrettata, come riconobbero all’epoca alcuni par-


lamentari della stessa maggioranza. Il testo approvato affronta concretamente due
aspetti. Il primo riguarda un problema di forma. La legge, in particolare, oltre ad
eliminare l’espressione di non luogo a procedere per i non imputabili, prevede
la facoltà di rinchiudere in un “centro socio-médico-judiciaire” dei criminali che
hanno scontato la loro pena, ma sono tuttavia giudicati sempre particolarmente
“pericolosi”.
Questo “pericolo” è presunto e viene valutato da una commissione pluridisci-
plinare (composta da un magistrato, da un rappresentante dei servizi penitenziari,
da uno psichiatra, da uno psicologo, da un avvocato, da un membro di un’associa-
zione d’aiuto alle vittime e dal Préfet). Successivamente la misura è confermata da
tre magistrati.
Va detto per precisione che la condanna alla misura custodiale di sicurezza
non può essere comminata se nella condanna principale non ne era stata fatta
espressa riserva.
Tale introduzione normativa non ha lasciato indifferenti molte associazioni
d’oltralpe tra le quali la Commissione nazionale consultiva per i diritti dell’uomo
(CNCDH) si è mostrata molto critica verso questo “concetto sfocato di pericolo” e “il
carattere estremamente aleatorio della previsione del comportamento futuro”. L’i-
dea che questo contenimento, riesaminato tutti gli anni, sia rinnovabile ad libitum,
ha suscitato vive condanne tra gli addetti ai lavori che non vedono, giustamente, di
buon occhio questo genere di politica giudiziaria.
Oltre alla misura custodiale, il Parlamento nel 2008 ha anche introdotto la
surveillance de sureté, molto simile alla nostra libertà vigilata che consente a chi è
preposto alla vigilanza di una persona che vi è sottoposta, di valutarne la responsi-
vità al trattamento extramurario all’uopo predisposto (lavoro, adattabilità alle pre-
scrizioni, sottoposizione ai controlli etc.)

Contributi di giurisprudenza CEDU


La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha approfonditamente esaminato gli
aspetti inerenti le misure di sicurezza detentive, definendo i requisiti irrinunciabili
perché possa essere ritenuto plausibile detto rimedio con riferimento all’autore di
reati.
A tal riguardo va riferito come la Corte non si oppone alla possibilità di appli-
care proroghe alle misure da parte dei giudici purché il periodo deputato all’esecu-
zione della misura di sicurezza veda l’impianto da parte dello Stato di un sistema
di trattamento che non vanifichi il sacrificio della privazione della libertà, anzi essa
prescrive che la permanenza di una persona in una struttura detentiva preveda un
trattamento tale che questa sia proiettata al momento della sua riconquista dello
stato di cittadino libero.
Quindi l’organizzazione di un sistema che spazi dal lavoro all’alfabetizzazione
e che, in ogni suo passaggio guardi all’individuo e alla sua dignità.
Il bilanciamento degli interessi tutelati passa, necessariamente, attraverso la
lettera dell’art. 5 CEDU che prevede che la libertà di ciascun cittadino può essere
compressa solo se si ravvisa la materialità e la concretezza del rischio di commis-
sione di un reato e delle relative conseguenze sull’incolumità dei consociati. Non

77
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

può essere vagliato, e per nessuna ragione, il discorso del pericolo generico della
reiterazione del comportamento antigiuridico.
Solo ed esclusivamente l’art. 5 lett. a) CEDU prevede che possa essere inflitta
una misura di sicurezza, sempre che questa sia connessa alla comminazione di una
condanna.
Ciò posto è assolutamente evidente come sia contraria a tale norma l’applica-
zione di una misura di sicurezza ex post, slegata dall’imminenza della pronuncia
sul merito.
A tale riguardo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo delinea le condizioni
indefettibili per l’applicazione delle misure di sicurezza che prevedono, oltre alla
giurisdizione del giudice penale del processo di merito, anche l’assoluta gravità
della sanzione, data la particolare afflittività delle misure detentive, la predisposi-
zione di programmi trattamentali personalizzati e distanti da quelli previsti per i
detenuti, data la possibilità di affrancamento della misura da parte degli internati,
diversamente da chi è chiamato a scontare una pena.
Pertanto, secondo la Corte, la misura custodiale rappresenta una punizione
addizionale e la sua imposizione per fatti slegati dalla sua comminazione a tale
riguardo disobbedisce al dettato l’art. 7 CEDU, non essendo prevedibili dal reo le
conseguenze delle sue azioni devianti.
Evidenziare tale aspetto vale a dire opporsi alla previsione della sanzione in-
condizionata, sempre e comunque, della misura custodiale che, intesa in tal modo,
altro non è che una detenzione vera e propria mascherata da misura atta al gradua-
le reinserimento del condannato, nella piena contrapposizione al dettato normativo
comunitario.

Sicurezza sociale e rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti nella giurispru-


denza della Corte Costituzionale Federale
La novella normativa ha provocato dibattiti sulla sua incostituzionalità esa-
minata in uno con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’innovazione adottata in Germania nel 2010, quale norma di diritto sostanziale
non poteva essere applicata retroattivamente, ma poteva esserlo solo “se il reato o
almeno uno dei reati, la cui commissione consente l’ordine o la riserva di custodia
di sicurezza, sia stato commesso dopo il 31 dicembre 2010”.
Pertanto, a tutti i procedimenti pregressi doveva essere applicata la vecchia
normativa che si poneva in aperto contrasto con il dettato della CEDU.
Sono questi i motivi che hanno portato la Corte Costituzionale Federale all’ema-
nazione di una sentenza che, pur affermando l’illegittimità della misura custodiale
degli internati, ha continuato a prevederla solo fino al 31 maggio 2013 nelle more
di un intervento normativo e suggerendo i criteri per la distinzione tra l’esecuzio-
ne di pene e misure di sicurezza riassumibili con il criterio dell’eccezionalità, della
conseguente osservazione della personalità dell’internato, unitamente alla logica col-
locazione in sezioni apposite, senza che vi sia promiscuità con i detenuti ed, in par-
ticolare, la concessione di benefici, laddove possibile, durante la detenzione, al fine
di riesaminare alla luce dei risultati trattamentali, la pericolosità di un condannato.
Ma la sentenza, anche se esclude che possa prevedersi nei riguardi di un sog-
getto, ex post, un provvedimento applicativo di una misura custodiale, non tiene

78
Esecuzione penale: esperienze comparative e regole internazionali

in debito conto il calcolo degli interessi, male applicando il calcolo dell’utilità con-
seguita dalla sicurezza dei consociati e dal rispetto dei diritti costituzionalmente
orientati e garantiti.
Con questa pronuncia la Corte Costituzionale Federale, pur esprimendosi in
senso sfavorevole all’applicazione retroattiva della misura custodiale non preclude,
come avrebbe fatto bene a fare, l’applicazione contestuale della misura custodiale
con la pena propriamente detta.
Il bilanciamento degli interessi, stando così le cose, ne risente profondamente
e vistosamente confligge con la ratio sottesa all’art. 7 della CEDU.
La misura custodiale trova la sua ragion d’essere solo nel fatto che essa è de-
terminata dalla necessità di comprimere i diritti costituzionalmente tutelati al fine
di consentire al soggetto di compiere un percorso di progresso ed affrancamento
dal proprio stato, grazie a sostegni terapeutici individualizzati.
Pertanto, acquisito il dato della possibilità di applicare la misura custodiale
solo in presenza di un particolare personalità del soggetto e dell’interesse alla si-
curezza dei consociati, questa non avrà ulteriormente ragion d’essere una volta che
l’internato sarà dichiarato “socialmente guarito”.
A sostegno di ciò la Corte tedesca ha trovato fondamento nella richiamata de-
cisione della Corte europea laddove questa aveva affermato la necessità di riferirsi a
un principio concreto di bilanciamento e di comparazione tra i beni oggetto di tutela.
La ragione dell’applicazione delle misure custodiali va, definitivamente, fatta
risiedere nell’unica eventualità costituzionalmente plausibile e, cioè, nel caso che
il soggetto presenti un disturbo psichico che ne faccia prognosticare la futura per-
petrazione di gravi delitti a scapito della società, ma ciò deve assolutamente essere
applicato solo in funzione della sua riabilitazione.
Qualora tale indefettibile requisito dovesse mancare o venir meno, la misura
in corso di applicazione risulterebbe incostituzionale, data la compressione per
motivi non plausibili di un bene di alto valore costituzionale come quello della
libertà personale.
Ciò posto è assolutamente evidente come siano davvero residuali i casi di
applicazione della misura di sicurezza attualmente in Germania, anche grazie alle
decisioni della sua Corte Costituzionale.

Tutelare Abele e recuperare Caino: i due volti di una pesante medaglia


Le previsioni normative degli ordinamenti europei esaminati, compreso il no-
stro, evocano quello che in Italia chiamiamo “ergastolo bianco”, con ciò intendendo
la perpetuità della sottoposizione degli internati al giogo delle misure di sicurezza
detentive e della quasi impossibilità di affrancarsi di esse, in cagione della refratta-
rietà dei soggetti al trattamento predisposto nei loro riguardi.
Ciò che campeggia al centro dell’istituto custodiale non è l’uomo ma la sua
potenziale pericolosità, nella negazione assoluta di ogni evidenza scientifica e psi-
chiatrica al riguardo, nella resa totale dello Stato di fronte a fenomeni di devianza.
È questo il momento in cui la pena assume una funzione impropriamente e
indebitamente preventiva, sulla scorta dell’emotività dei cittadini, troppo spesso
fomentata da mass media ingordi di indici di ascolto e proventi determinati dalla
pubblicità passata durante i programmi dedicati a cronaca nera e giudiziaria.

79
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Viepiù, quello che salta agli occhi è la differenza tra le normative vigenti nei tre
Paesi europei vagliati e il nostro sistema nel quale la misura di sicurezza è destinata
anche a chi si renda colpevole di reati di minore spessore criminale.
Il nostro impianto normativo di basa più propriamente sulla frequenza nel
tempo e, ovviamente, sulla reiterazione del comportamento antigiuridico, e molte
volte prescinde dall’effettiva carica offensiva che le azioni recano con sé. La gravi-
tà non viene considerata elemento essenziale per l’applicazione di una misura di
sicurezza nel nostro ordinamento che, quindi, è troppo spesso destinata a persone
appartenenti alle fasce sociali degradate.
Ad avviso di chi scrive, il destino confacente alle misure di sicurezza è quello della
loro abrogazione, dal momento che nessun beneficio può essere tratto dalla loro per-
manenza nel nostro ordinamento giuridico. Auspicando che ciò avvenga anche per gli
altri Paesi europei data la viralità con cui certe worst practices espandono il loro raggio
di azione e a tale riguardo si auspica una più vigorosa posizione della CEDU.
Il loro totale fallimento ne è l’assoluta riprova. Inoltre, non si comprende come
siano ancora plausibili, particolarmente se intese in questo senso e nei confronti
degli ultimi anelli della catena sociale, considerato l’assoluto insuccesso della loro
efficacia dimostrato nel corso di decenni.
Non si ravvisa l’ulteriore necessità della loro permanenza nel nostro ordina-
mento giuridico, dato lo sviluppo sociale e democratico del nostro Paese che non
necessita affatto di creare sacche di contenimento delle persone emarginate. L’e-
marginazione deve essere sfidata con ben altri argomenti e affrontata con strumenti
degni di uno Stato civile.
Il lavoro, l’assistenza sociale, la frequenza, magari obbligatoria, di strutture ben
corredate da figure specialistiche potranno ampiamente sostituire la coercizione, l’an-
nientamento della personalità, la prostrazione e lo smembramento di interi nuclei fa-
miliari che sempre seguono alla comminazione di una misura di sicurezza detentiva.
Le misure di sicurezza detentive sono lo scenario della non normalità, la per-
manenza forzata in stabilimenti penali in cui il lavoro manca, l’essere condannati
a questa misura anche se non si è abili al lavoro stride con i principi della nostra
carta costituzionale e incrosta le esistenze umane in una stagnazione e in un impa-
ludamento della capacità di reagire a ciascuno stimolo di recupero.
L’odissea delle porte girevoli dell’ergastolo bianco può e deve essere interrotta
con un coraggioso gesto di umanità e di coscienza politica nella piena osservanza
della Costituzione della Repubblica Italiana.
Se la pena, che con il codice Rocco aveva solo carattere retributivo, e ospitava
al suo interno il sistema denominato del doppio binario, con l’avvento della Co-
stituzione ha mutato la sua finalità in quella rieducativa, all’esito della espiazione
della condanna si presupporrebbe che il consociato sia stato recuperato, o che nei
suoi riguardi si sia comunque svolto un programma trattamentale tale che ne abbia
mutato il profilo delinquenziale.
Se, viceversa, questo non è accaduto durante l’espiazione della pena detentiva,
come potrà avvenire durante la sottoposizione ad una misura di sicurezza?
Avvalorare tale eventualità equivarrebbe a dire che non vi è cura del soggetto
privato della libertà da parte dello Stato.
E come potrebbe mai darsi che questa cura, fino ad ora inesistente o insuffi-
ciente o inadeguata possa essere di pronta fruizione durante l’internamento che si
presuppone essere di durata relativamente breve?

80
Esecuzione penale: esperienze comparative e regole internazionali

La risposta a tale domanda è che ciò non potrà mai essere attuato secondo i
termini in cui attualmente alla misura si da corso, non secondariamente per motivi
di carattere economico, non essendo disponibili risorse umane che seguano da
presso il percorso individuale dell’internato e non essendovi un trade d’union tra
chi assiste il detenuto durante la misura (assistenti dell’area trattamentale e dell’UE-
PE) con gli assistenti sociali che, operando nei territori dove l’internato fa ritorno
una volta dichiarata scemata la sua pericolosità sociale, non portano avanti l’opera
di chi ha, seppure con mezzi scarsissimi, lavorato per il recupero del soggetto in-
ternato.
Nel nostro Paese questo avviene in maniera molto più marcata che nel resto
d’Europa e in questo modo vengono messi in disparte concetti fondamentali delle
democrazie europee, come l’idea che la pena deve mirare al reinserimento sociale
del reo; per non parlare del fatto che si finirebbe per infliggere condanne sulla base
di reati potenziali: è assai dubbio che si tratti di norme coerenti con le Carte Co-
stituzionali delle singole nazioni e degli stessi principi europei. Ma di questi tempi
– si sa – si bada più alla sostanza che alla forma, e se una legge è anticostituzio-
nale la si approva lo stesso, magari sotto forma di decreto, in modo da cominciare
subito ad applicarla, prima che intervengano gli eventuali ricorsi.
Oggi è indifferibile una netta volontà politica che sia scevra di condizionamen-
ti elettorali, e che si imponga con forza nell’ottica della certezza che il carcere non
crea maggiore sicurezza per la società ma è un inesauribile serbatoio di criminalità,
fatto di cui la collettività deve opportunamente essere informata senza timore di
impopolarità.

81
9. OPERATORI PENITENZIARI E FORMAZIONE

Gabriele Terranova

A prima vista, il perimetro di lavoro assegnato al tavolo 15, Operatori peni-


tenziari e formazione, avrebbe potuto suggerire l’idea che esso dovesse occuparsi
dell’esecuzione penale dal punto di vista del personale demandato ad attuarla,
della sua valorizzazione e del suo benessere, piuttosto che da quello dei soggetti
chiamati a subirla.
Niente di più fuorviante. L’assetto organizzativo e la definizione delle profes-
sionalità degli operatori rappresentano le fondamenta dell’architettura dell’esecu-
zione penale poiché l’imprinting di chi se ne occupa ne determina inevitabilmente
caratteristiche e finalità. Gli operatori sono lavoratori portatori di interessi e di
aspettative, ma sono anche i depositari della funzione rieducativa della pena impo-
sta dall’art. 27 Cost.
È stato subito evidente, peraltro, per i componenti del tavolo il rischio di inter-
cettare interessi di natura fondamentalmente sindacale di questa o quella categoria,
conclamatosi nelle audizioni delle rappresentanze sindacali del settore che si è
svolta all’indomani del report di medio termine e del dibattito che aveva sollevato
(era stata, in particolare, indirizzata al tavolo una lettera aperta, sottoscritta da vari
operatori del settore, in cui si esprimevano timori e perplessità sui contenuti del
report).
La vastità dei temi emersi dai lavori del tavolo rispecchia l’eterogeneità delle
aree di provenienza dei suoi componenti (Magistratura, Polizia Penitenziaria, Ac-
cademia, Avvocatura, Dirigenza Ministeriale, Assistenza sociale, Volontariato). Per
questa ragione, alla relazione finale, che rappresenta il tentativo di offrirne una
sintesi organica, sono stati allegati i contributi di tutti i componenti del tavolo.
Il dibattito ha preso le mosse dalle proposte elaborate dalla c.d. Commissio-
ne Gratteri, di cui il coordinatore del tavolo aveva fatto parte, che sono state tra-
smesse a tutti i componenti quale spunto iniziale di riflessione e sono transitate,
in allegato, nella relazione finale, oltre a tradursi in una delle proposte in essa
formulate.
Il nucleo centrale di questa proposta è rappresentato dall’ipotesi di istituzio-
ne del Corpo di Giustizia dello Stato, un corpo di polizia ad alta specializzazione
destinato ad assorbire tutte le attuali famiglie di operatori, destinato dunque allo
svolgimento dei compiti oggi assegnati alla Polizia Penitenziaria ed al personale del
Comparto Ministeri, compreso quello dell’Area giuridico-pedagocica e gli assistenti
sociali, facendo ricorso ai ruoli tecnici per la creazione anche di ulteriori figure
professionali (psicologi, mediatori culturali ecc.).
Al Corpo di Giustizia dello Stato inoltre si proporrebbe di assegnare in via
tendenzialmente esclusiva anche tutte le funzioni inerenti lato sensu all’esecuzione
dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria concernenti l’esecuzione penale, interna
ed esterna, nonché la vigilanza sui Palazzi di Giustizia e la protezione di testimoni
e collaboratori di Giustizia.

83
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Su questa proposta, della quale è stato convinto ed accalorato sostenitore il


coordinatore del tavolo, si è concentrata gran parte del dibattito negli incontri di-
retti fra i suoi componenti. Essa ha inoltre costituito l’oggetto specifico della con-
sultazione delle rappresentanze sindacali di cui si è svolta l’audizione, che vi hanno
in prevalenza intravisto l’occasione per il riequilibrio di sperequazioni da tempo
lamentate fra il trattamento lavorativo dei dipendenti del Comparto Ministeri e di
quelli del Comporto Sicurezza, al quale appartiene la Polizia Penitenziaria, e fra
quello dello stesso personale di Polizia Penitenziaria e delle altre forze di Polizia,
ancorando soprattutto a questa legittima ma limitata prospettiva un orientamento
largamente favorevole. In ciò si è plasticamente manifestato il rischio, già sopra
ventilato, di sovrapporre gli interessi lavorativi del personale alle esigenze finali-
stiche dell’apparato.
Inutile dire che tale proposta non poteva che incontrare una vivace opposi-
zione da parte di chi, nel tavolo, rappresentava le istanze dell’avvocatura penalista
e non solo. Essa anzi, nonostante la posizione centrale riservatale nella relazione
finale del tavolo, ha registrato il dissenso, più o meno accentuato, della maggioran-
za dei suoi componenti.
É inevitabile pensare che armonizzare le diverse famiglie degli operatori pe-
nitenziari (e dell’esecuzione penale tutta, anche quella extra-muraria), superando
la tradizionale dicotomia fra sicurezza e rieducazione attraverso l’accorpamento di
tutto il personale in un corpo di Polizia (quale sarebbe evidentemente, al di là della
denominazione, il Corpo di Giustizia dello Stato) segnerebbe la definitiva prevalen-
za delle istanze di sicurezza, con immaginabili rischi di deriva autoritaria. E ciò tan-
to più ove si abbia riguardo all’attuale concreto assetto del sistema dell’esecuzione
penale, nel quale è agevole cogliere già un forte squilibrio, anzitutto numerico, fra
il personale di Polizia Penitenziaria ed il personale dell’Area giuridico-pedagocica e
degli UEPE, sostanzialmente impossibilitato a svolgere la propria funzione di osser-
vazione e trattamento individualizzato per costante carenza di organico e di mezzi.
Di qui la conclusione, poi condivisa anche dal Comitato Scientifico, che per-
mangono le ragioni che indussero il legislatore del 1975 ad attribuire un ruolo
centrale, nel trattamento, a figure professionali specializzate, ben distinte da quelle
investite della gestione della sicurezza, che possano rappresentare per i reclusi e
per i soggetti sottoposti ad esecuzione penale in genere interlocutori meno distanti
e più neutrali.
Al contempo, l’analisi dell’attuale concreto assetto dell’apparato dell’esecuzio-
ne penale pare suggerire che le diverse famiglie degli operatori penitenziari, pri-
ma ancora che armonizzate, andrebbero piuttosto riequilibrate, investendo risorse
nell’osservazione e nel trattamento individualizzato, la cui omissione rappresenta
la principale criticità del sistema.
La proposta di istituzione del Corpo di Giustizia dello Stato inoltre è apparsa
distonica sia rispetto alla recente riorganizzazione del Ministero della Giustizia, che
ha inteso rafforzare, rendendoli autonomi, i vertici dell’apparato dell’esecuzione
penale esterna, sia rispetto alle plurime raccomandazioni rinvenibili in documenti
internazionali che guardano con sfavore all’impiego di forze di Polizia nelle fun-
zioni proprie dell’esecuzione penale (cfr., anzitutto, la Raccomandazione R(2006)
2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che, nella Parte V, al punto 71,
prevede che gli Istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di
autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di in-

84
Operatori penitenziari e formazione

dagine penale, nonché il §60.2 delle Regole Minime per il trattamento dei detenuti
dell’ONU, che vieta di affidare alla Polizia il controllo sulla probation).
Nei contributi dei componenti del tavolo, è stato poi giustamente rimarcato
che l’auspicio di un rilevante rafforzamento del sistema dell’esecuzione penale
esterna costituisce oggetto di precise linee di indirizzo del Consiglio d’Europa.

Per prima la Raccomandazione (92)16 alla regola 22 afferma: «Per fare in modo
che le sanzioni e le misure applicate nella comunità siano delle alternative credibili
alle pene detentive di breve durata, è opportuno assicurare una loro efficiente ap-
plicazione, in particolare: realizzando l’infrastruttura richiesta per l’esecuzione e il
controllo di queste sanzioni comunitarie, in particolare al fine di dare assicurazioni
ai giudici e ai procuratori sulla loro efficacia: e mettendo a punto e applicando
tecniche affidabili di previsione e di valutazione dei rischi nonché strategie di su-
pervisione, al fine di identificare il rischio di recidiva del delinquente e garantire la
protezione e la sicurezza del pubblico».
Successivamente, la Raccomandazione (2010)1 del Consiglio d’Europa in ma-
teria di probation ha ribadito ed introdotto alcuni principi molto importanti. La
regola 10, in particolare, ricorda che «i servizi di probation beneficiano di uno
status e di un riconoscimento adeguato alla loro mission e sono dotati di risorse
sufficienti». Più precisamente, in materia di organizzazione e personale alla regola
18 si precisa che «la struttura, lo status e le risorse dei servizi di probation devono
corrispondere al volume dei compiti e delle responsabilità che ad essi sono affidati
e devono riflettere l’importanza del servizio pubblico che assicurano».
Alla regola 21 si aggiunge che «i servizi di probation devono agire in maniera
tale da guadagnare la credibilità degli altri organi di giustizia e della società ci-
vile per lo status ed il lavoro svolto dal loro personale. Le autorità competenti si
sforzano di agevolare il raggiungimento di tale scopo, fornendo risorse adeguate,
facendo in modo che il personale sia selezionato e assunto in maniera mirata,
correttamente remunerato e posto sotto l’autorità di una direzione competente«.
Ancora più esplicita risulta la regola 33 che prescrive: «La remunerazione, i
benefici sociali e le condizioni di impiego del personale devono essere in rapporto
con lo status della professione e devono corrispondere alla natura gravosa del la-
voro, per permettere di assumere e conservare in servizio il personale competente»
(estratto dall’elaborato della Dott.ssa Silvana Mordeglia).

Decisamente più condivisa è stata l’elaborazione dell’altra proposta articolata


nella relazione finale del tavolo, nella quale si prospetta una riorganizzazione delle
figure dirigenziali dell’Amministrazione incentrata soprattutto sull’istituzione e sul-
la valorizzazione delle figure dei Direttori di Area, con l’attribuzione diretta della
titolarità e della responsabilità dei settori dell’Amministrazione dipendenti, riser-
vando ai Direttori di Istituto funzioni di indirizzo e di controllo più propriamente
manageriali, nell’ottica di favorire sia lo snellimento dei processi di lavoro, sia la
valorizzazione degli aspetti di programmazione.
Si tratta di una proposta di cui si è fatto promotore il Dott. Massimo De Pasca-
lis e che trova compiuta illustrazione negli elaborati da lui redatti, che contengono
anche un apposito articolato.
L’auspicio è anche e soprattutto – dal punto di vista dell’avvocatura – quello
di favorire, nel quadro di un’azione più incentrata sulla programmazione degli

85
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

obiettivi e sulla verifica dei risultati, un maggiore e più razionale coinvolgimento


nel trattamento sia del personale esterno all’amministrazione, anzitutto docenti ed
operatori volontari, sia delle risorse sociali dei territori.
Sul piano più specifico della formazione del personale, con particolare riguar-
do alla formazione del personale di Polizia Penitenziaria, il nostro personale con-
tributo è stato quello di sottolineare la necessità di sviluppare, sul modello di altre
esperienze europee (in particolare di quella del Regno Unito), specifici protocolli
comportamentali, destinati a disciplinare l’uso della forza in caso di eventi critici
all’interno degli Istituti di detenzione, che forniscano dettagliati modelli operativi
uniformi, di facile apprendimento, senza lasciare spazio all’improvvisazione.
Si tratta di una proposta che mira a contemperare il rafforzamento della si-
curezza con la tutela dei diritti dei reclusi, ma che si rivolge anche all’esigenza di
favorire l’evoluzione della gestione della sicurezza verso forme più congeniali al
modello di detenzione aperta, in modo da fornire una risposta al disagio che esse
continuano a rappresentare per il personale di Polizia Penitenziaria.
Ulteriore tematica di particolare rilievo ha riguardato l’ampliamento delle fun-
zioni della Polizia Penitenziaria nell’ambito dell’esecuzione penale esterna, asse-
gnato al Tavolo, secondo il tenore degli obiettivi tracciati, più per interrogarsi sul
quomodo che non sull’an (è inoltre oggetto anche di una direttiva del disegno di
legge delega sulla riforma dell’Ordinamento Penitenziario attualmente pendente in
Parlamento).
Si è già ricordato come la proposta di istituzione del Corpo di Giustizia dello
Stato preveda l’assegnazione a questo, che del resto assorbirebbe anche gli U.E.P.E.,
di estese funzioni tradizionalmente estranee alla Polizia Penitenziaria, peraltro in
via tendenzialmente esclusiva rispetto alle altre forze di Polizia.
Anche prescindendo da tale prospettiva, tuttavia, i componenti del Tavolo si
sono per lo più pronunciati favorevolmente rispetto all’ipotesi di una maggiore
valorizzazione delle risorse e della professionalità del personale di Polizia Peniten-
ziaria nell’ambito dell’esecuzione penale esterna.
Sul punto, ci è parso necessario rimarcare che le già ricordate fonti interna-
zionali che guardano con sfavore alla commistione fra le funzioni di Polizia e la
gestione dell’esecuzione penale, particolarmente di quella riconducibile al genus
della probation, suggerirebbero di limitare un simile ampliamento al solo ambito
della detenzione domiciliare.

86
10. TRATTAMENTO. OSTACOLI NORMATIVI
ALLA INDIVIDUALIZZAZIONE DEL TRATTAMENTO
RIEDUCATIVO

Riccardo Polidoro

La nomina quale coordinatore del Tavolo, con un tema così impegnativo, ha


rappresentato motivo di soddisfazione e, allo stesso tempo, di responsabilità. Anni
di battaglie dell’Unione Camere Penali avrebbero dovuto trovare spazio nel con-
fronto tra i componenti il Tavolo, al fine di prospettare proposte conformi alla po-
litica associativa, sempre in prima linea per la difesa dei diritti dei detenuti.
Il “trattamento rieducativo” – termine assolutamente non idoneo a descrivere il
percorso che si vorrebbe far intraprendere – era stato ed è, per chi scrive, il punto
di partenza per l’iniziale approccio all’esecuzione penale. La parola trattamento
mi ha sempre fatto pensare ad una sorta di manipolazione, mentre al detenuto va
offerto un programma risocializzante, che egli deve accettare responsabilmente,
condividendo le fasi del percorso lungo o breve che sia.
Quando nel 2003, quale consigliere della Camera Penale di Napoli, avviai il
progetto “Il Carcere Possibile”, divenuto Onlus, nel 2006, concentrai l’attività as-
sociativa soprattutto su iniziative che potessero vedere i detenuti protagonisti e la
società civile testimone del lavoro che si stava compiendo.
Le “gocce di trattamento” operate dal volontariato hanno rappresentato, da
sempre, l’unico, o quasi unico, salvagente nel mare agitato e senza vicine sponde
della detenzione in Italia.
Essere chiamati, dunque, dal Ministero della Giustizia a coordinare un’azione
governativa sulla rimozione degli ostacoli normativi al “trattamento”, significava
lavorare per dare la possibilità, anche a coloro a cui era espressamente vietato, di
sperare di far parte di quella minoranza di detenuti a cui erano offerte reali chance
di cambiamento.
Alla dovuta prudenza, inoltre, si aggiungeva il dato innegabile che gli Stati Ge-
nerali dell’Esecuzione Penale erano un’iniziativa, seppur meritevole e necessaria,
dovuta essenzialmente a fornire una risposta concreta al Consiglio d’Europa, dopo
la condanna subita dall’Italia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel gennaio
2013, con la sentenza Torreggiani.
La volontà di un effettivo cambiamento ed inversione di tendenza, più volte
espressa dal Ministro della Giustizia, dal primo momento in cui manifestò l’idea degli
Stati Generali dell’Esecuzione Penale (novembre 2014), fino all’inaugurazione degli
stessi (19 maggio 2015), pur scontrandosi con una politica che ignorava, di fatto, i
principi a base dell’annunciata riforma, rappresentava comunque un incentivo im-
portante, l’unico serio – almeno sulla carta – che veniva proposto dal 1975 ad oggi.
Gratificazione, Responsabilità e Prudenza possono ben rappresentare lo stato
d’animo con il quale ho affrontato quest’esperienza.
Sin dalla prima riunione al Ministero della Giustizia con i componenti il Tavolo
ho compreso che vi era la possibilità di lavorare al meglio e prospettare effettiva-

87
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

mente, non solo proposte normative, ma anche veri e propri articolati che potesse-
ro essere una concreta fonte per le necessarie e dovute riforme nella materia che
ci era stata assegnata.
Devo, pertanto, ringraziare tutti i miei compagni di viaggio che, motivati da
quella passione civile che è il vero ed unico motore che giustifica tanto impegno,
hanno condiviso intensi momenti di confronto per un risultato finale che ritengo
– ove vi sia effettivamente la volontà politica – possa contribuire ad eliminare o
comunque ad attenuare gli effetti di norme indegne di un Paese civile.
Nell’invitare il lettore a consultare la relazione finale del Tavolo, reperibile, uni-
tamente alle altre, sul sito del Ministero della Giustizia, propongo parti della stessa
al fine di far immediatamente comprendere l’attività svolta e le proposte avanzate.
I lavori hanno preso avvio dallo studio attento del pensiero di quanti, nelle
commissioni di studio (in modo particolare le Commissioni “Giostra” e “Palazzo”,
oltre alla “Commissione Mista” istituita dal C.S.M.) e nel dibattito dottrinale cristal-
lizzatosi nel “Working Paper”, voluto da Glauco Giostra, hanno offerto un contribu-
to di idee e di proposte riformatrici della disciplina penitenziaria.
Muovendo da tali solide fondamenta dogmatiche l’impegno del Tavolo ha svi-
luppato una proposta organica di riforma dell’ attuale disciplina del c.d. “dop-
pio binario” penitenziario e della collaborazione con la giustizia, contenuta negli
artt.  4-bis e 58-ter della legge di Ordinamento Penitenziario. Da qui, l’analisi ha
toccato i temi del c.d. “ergastolo ostativo”, della liberazione anticipata, dell’isola-
mento detentivo, dei permessi, delle preclusioni normative all’accesso ai benefici
penitenziari stratificatesi nelle disposizioni della legge n. 354/75, per aprirsi, infine,
a più ampie prospettive di revisione costituzionale, in materia di indulto e “amnistia
impropria”. Pur nell’attento e doveroso rispetto delle competenze assegnate dalla
delega ministeriale ai lavori del Tavolo, non è, infine, mancato un riferimento alle
possibili direttrici di una rivisitazione della disciplina inerente al regime detentivo
speciale (il c.d. “carcere duro”) racchiusa nella disposizione dell’art. 41-bis dell’Or-
dinamento Penitenziario.
Sul piano dell’apertura all’esterno e del dialogo con l’opinione pubblica sulle
tematiche affrontate dai lavori, è stato condiviso il progetto dell’ “Osservatorio Car-
cere” dell’Unione Camere Penali italiane, inteso a sensibilizzare i cittadini sull’im-
portanza del trattamento rieducativo delle persone detenute e sulla stessa riforma
voluta dal Ministro della Giustizia, che negli Stati Generali trova un passaggio fon-
damentale del suo progressivo inverarsi.
È stata, altresì, assicurata la partecipazione di componenti del Tavolo ad alcuni
momenti salienti di confronto con realtà europee simili alla nostra (visita ad alcuni
istituti penitenziari spagnoli), con la società civile e le istituzioni, attraverso conve-
gni e incontri che hanno contribuito a far maturare in una platea più ampia di quel-
la degli “addetti ai lavori” la coscienza della necessità di una profonda revisione del
nostro sistema di esecuzione penitenziaria accrescendo il consenso sugli obiettivi
posti dal Ministro della Giustizia ai lavori degli Stati Generali, i cui risultati, nella
loro concreta attuazione, dipenderanno in molta parte dal grado di condivisione
che sugli stessi sarà possibile raggiungere.
Nella prospettiva del superamento degli ostacoli normativi alla piena attuazio-
ne del trattamento rieducativo individualizzato, il Tavolo ha elaborato una proposta
per ri-orientare secondo Costituzione l’attuale regime ostativo alla concessione dei
benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione.

88
Trattamento. Ostacoli normativi alla individualizzazione del trattamento rieducativo

L’analisi si è concentrata, anzitutto, su due disposizioni-chiave: l’art.  4-bis e


l’art. 58-ter dell’ Ordinamento Penitenziario. La proposta finale mira a trasformare
l’attuale previsione della mancata collaborazione da presunzione ordinariamente
assoluta in presunzione relativa, come tale superabile mediante adeguata motiva-
zione da parte del Giudice, fermo restando la prova dell’assenza dell’attualità di
collegamenti del reo con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
Così ridefinito, il coordinato disposto degli articoli 4-bis e 58-ter avrà conse-
guenze dirette anche sotto il profilo della neutralizzazione del c.d. “ergastolo ostati-
vo”, la cui attuale configurazione presenta non infondati dubbi di compatibilità con
il disegno costituzionale delle pene e con recenti – ma già consolidati – principi
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Nel medesimo intento di recupero di coerenza costituzionale, si è effettuata
un’opera di “bonifica” dell’art. 4 bis, condotta sull’eterogeneo elenco delle fattispe-
cie di reato incluse nella attuale previsione normativa, che è stata ricondotta alla
sua più coerente formulazione originaria, mantenendo, comunque, salvo il vigente
regime speciale previsto per i reati sessuali (comma 1-quater), anche quando a
danno di minori (comma 1-quinquies).
In tema di Liberazione Anticipata, la proposta implica la soppressione dell’attua-
le “doppio binario”, che prevedeva – come è noto – la concessione di 45 o 75 giorni
di liberazione anticipata per ciascun semestre di pena espiata, secondo si tratti di
condannati per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis, ord. penit. o di detenuti per
reati comuni – introducendo un’unica previsione di 60 giorni di riduzione di pena
per semestre di detenzione espiata. …, altresì, coerentemente proposto un intervento
di modifica al comma 2 dell’art.103, d.p.r. n.230/2000, in modo da rendere coerente
l’oggetto della valutazione dell’istanza con i nuovi e più intensi requisiti richiesti nel
contenuto e aggiunti, in relazione alle azioni di riparazione, in tema di modifica della
disciplina degli artt. 4-bis e 58-ter, Ordinamento Penitenziario.
La disciplina modificata, nel senso auspicato dai componenti del Tavolo, cri-
stallizza una scelta intermedia che contempera alcune esigenze particolarmente
avvertite: la parità di concreto riconoscimento in rapporto alla rispondenza dell’in-
teressato al trattamento proposto, senza distinzioni aprioristiche basate su reati
ovviamente anteriori ai percorsi compiuti dopo la detenzione; una più intensa e
profonda valutazione sui requisiti necessari perché il beneficio sia riconosciuto; lo
svolgimento di un’opera di semplificazione, di procedure e tempi, che favorisca
più celeri esiti anche in relazione al numero di presenze in carcere e comunque
sull’accessibilità ai benefici esterni ad esso, evitando l’attuale complessità dei tem-
pi istruttori e di decisione; l’affinamento della qualità dell’esecuzione penale, con
uno sguardo particolare alla esecuzione della detenzione domiciliare, degli arresti
domiciliari e della esecuzione domiciliare di cui alla l.199/2010, la cui gestione
operativa è spesso, di fatto, affidata alle sole Forze dell’ordine.
A fronte della riscrittura in chiave ampliativa del beneficio della Liberazione
Anticipata, si colloca la proposta di soppressione dell’art. 47 comma 12-bis, Ordi-
namento Penitenziario, concernente la liberazione anticipata per l’affidamento in
prova al servizio sociale e, di riflesso, per gli affidamenti c.d. “terapeutici” di cui
all’art.94, d.p.r. n.309/1990. Tale ipotizzata abrogazione si giustifica con l’opportu-
nità di mantenere l’istituto di matrice premialistica per le sole pene espiate in regi-
me detentivo o in regime ad esso assimilabile, quale la detenzione domiciliare, gli
arresti domiciliari e l’esecuzione della pena al domicilio prevista dalla l. 199/2010.

89
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Il Tavolo è poi intervenuto sull’Isolamento che consiste nella completa sepa-


razione del detenuto dal resto della popolazione ristretta, con potenziali effetti ne-
fasti sulla sfera psico-fisica dell’isolato. La proposta di riforma normativa elaborata
consiste in una modifica dell’attuale disciplina per rendere l’isolamento diurno
maggiormente rispettoso dei principi costituzionali relativi alla libertà personale
(art. 13 Cost.), al principio rieducativo (art. 27 comma 3 Cost.) e al diritto alla salute
(art. 32 Cost.).
Altro tema affrontato è stato quello del “permesso di necessità” (art. 30 Or-
dinamento Penitenziario), strumento normativo che assicura, in caso di eventi di
natura familiare di particolare gravità, la possibilità di concedere un permesso,
anche con la scorta della Polizia Penitenziaria, ai soggetti ristretti che, a causa
dei limiti di pena derivanti dalla condanna in espiazione, non possono fruire
di permesso premio. Allo stato attuale, l’art.  30, non costituisce uno strumen-
to del trattamento penitenziario, a differenza dei permessi premio disciplinati
dall’art. 30-ter, introdotto successivamente per consentire al detenuto di coltivare
interessi affettivi, culturali e di lavoro. La concessione di permessi-premio di na-
tura trattamentale ex art. 30-ter, è consentita quando sia superato un determinato
limite di pena, variamente fissato a seconda della tipologia dei reati e con tetti
più elevati per i condannati per taluno dei delitti dell’art.  4-bis, ord. penit., e
per i condannati recidivi reiterati. L’intervento proposto dal Tavolo mira, invece,
ad estendere l’applicabilità dei permessi ordinari ad eventi di natura familiare e
sociale “di particolare importanza”, superando così le difficoltà che derivano, sul
piano applicativo, dalla lettura limitatrice imposta dalla attuale dizione normati-
va, che si riferisce ad eventi “di particolare gravità”, tradizionalmente connotata
da sola valenza negativa.
Si potrebbe così rispondere meglio agli obiettivi di risocializzazione delle per-
sone detenute, perché risulterebbe favorito il trattamento e migliorata la qualità
della detenzione anche per soggetti per i quali la preclusione normativa determina,
di fatto, anche l’assenza di attività di osservazione finché non si approssimano i ter-
mini per l’ammissibilità dei permessi-premio. La detenzione risulterebbe, anzi, più
rispondente nel suo complesso ai bisogni e alle esigenze di tutti i detenuti, com-
presi coloro che si trovano in condizioni giuridiche più problematiche, rafforzando
vincoli familiari e situazioni tratta mentali partecipate all’interno da tutti.
Dopo ampia discussione i componenti il Tavolo hanno ritenuto di assolvere al
mandato conferito intervenendo anche sull’indulto e l’amnistia. Istituti che, per il
loro effetto deflattivo sulla popolazione carceraria, sono strumento di politica peni-
tenziaria idoneo a concorrere al recupero della legalità costituzionale compromes-
sa dal sovraffollamento detentivo. Ridefinirne l’attuale procedimento di formazio-
ne, dunque, significa rimuovere un ostacolo normativo che «oppone così rilevanti
ostacoli» (Comunicato del Presidente Napolitano, 27 settembre 2012) al ricorso agli
istituti di clemenza.
In tale prospettiva, si è proposto una revisione dell’art. 79 Costituzione. Una
riforma costituzionale che restituisca agibilità parlamentare a leggi di amnistia e
indulto, intervenendo sull’eccessiva difficoltà deliberativa attuale, garantendo nel
contempo – al Capo dello Stato in sede di promulgazione, alla Corte costituzionale
dopo l’entrata in vigore – la possibilità di un effettivo controllo di coerenza tra mez-
zo e fine. Un controllo di ragionevolezza intesa in senso teleologico, oggi agevolato
dal nuovo orientamento della giurisprudenza costituzionale in tema di sindacato su

90
Trattamento. Ostacoli normativi alla individualizzazione del trattamento rieducativo

norme penali di favore: categoria nella quale rientra anche la previsione normativa
di una causa di estinzione della pena (sentenza n. 394/2006).
Ferma restando una riserva di legge rinforzata in materia, la relativa iniziativa
legislativa andrebbe imputata al solo Governo (trattandosi di strumenti di politica
attiva e risolvendo così, alla radice, il problema dell’ambito temporale di efficacia
dell’atto di clemenza), conservando nell’orbita della riserva d’assemblea l’intera
sua discussione ed eventuale approvazione (nella logica della clemenza collettiva
quale prerogativa politica del Parlamento da esercitarsi sotto il massimo controllo
pubblico possibile).
È altresì necessario che il ricorso allo strumento legislativo della clemenza
collettiva sia subordinato alla sussistenza di presupposti («situazioni straordinarie
o ragioni eccezionali»), rimessi alla valutazione del Legislatore ma la cui ricorrenza
sia debitamente motivata mediante un apposito preambolo alla legge. In questo
modo il contenuto materiale dell’atto normativo di clemenza (la selezione dei reati
inclusi nel provvedimento, l’arco temporale di operatività della clemenza, le sue
eventuali condizioni d’efficacia) sarebbe costretto entro una trama unitaria obbli-
gatoriamente coerente con i presupposti, le motivazioni in preambolo ed il vincolo
costituzionale di scopo (individuabile – come già detto – nel fondamento e nei
limiti dell’intervento punitivo dello Stato).
Così tratteggiato, il rinnovato assetto costituzionale renderebbe realistico un
controllo di legittimità sugli atti di clemenza collettiva, sia ex ante (ad opera del
Capo dello Stato in sede di promulgazione della relativa legge), sia ex post (ad ope-
ra della Corte costituzionale, in sede di sindacato incidentale delle leggi di amnistia
e indulto), attraverso la verifica dell’esistenza di un nesso di coerenza interno al
percorso legislativo che approda a misure di clemenza collettiva.
È necessario, infine, ridimensionare i quorum richiesti per l’approvazione del-
le leggi di amnistia e indulto: ad esempio prevedendo la maggioranza assoluta nel-
la sola votazione finale, oppure anche per ogni singolo articolo della legge. Nella
logica della clemenza generale quale strumento di politica attiva, è preferibile la
prima soluzione che – pur mantenendo la necessità di un consenso comunque qua-
lificato – chiama in causa la responsabilità politica della maggioranza parlamentare
ed ha, inoltre, il pregio di eliminare i complicati problemi derivanti dall’applicazio-
ne alle votazioni intermedie di un quorum qualificato se richiesto per ogni singolo
articolo di legge.
Si è ritenuto opportuno intervenire, sia pure senza la produzione di un arti-
colato in quanto l’argomento era oggetto del lavoro di un altro Tavolo, anche sulla
disciplina del regime detentivo speciale contenuta nell’art.  41-bis, Ordinamento
Penitenziario. Si è osservato che la rubrica dell’articolo “Situazioni di Emergen-
za”, rende evidente che la norma dovrebbe trovare applicazione esclusivamente in
tali eccezionali occasioni. Il concetto di eccezionalità è ben sviluppato nel testo:
al comma 1, si legge «In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di
emergenza …», al comma 2: «Quando ricorrano gravi motivi di ordine pubblico
e di sicurezza pubblica…». Il comma 2, introdotto dal d.l. 8 giugno 1992, n.306,
convertito dalla l. 7 agosto 1992, n.356, fu giustificato dalla eccezionale emergenza
originata dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992. Il “41-bis” nasce, quindi, come
istituto eccezionale e provvisorio, con una scadenza temporale fissata alla data
dell’8 agosto 1995. Sarà poi prorogato fino al 31 dicembre 2002, per divenire, con
la legge n.279/2002, un istituto definitivamente stabilizzato.

91
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Il principio che ha accompagnato i lavori del Tavolo è l’esigenza di porre al


centro della esecuzione della pena l’uomo, la sua individualità e la sua dignità
personale, come valore fondante ed imprescindibile di ogni ordinamento ispirato
alla civiltà giuridica. In questa prospettiva, si è ritenuto che gli “Stati Generali”
debbano ispirarsi ad un vero corso riformatore della giustizia in senso liberale,
evoluto e democratico. Non lo impone soltanto il senso di umanità o il rispetto
della Costituzione e delle Convenzioni, ma anche e soprattutto il fatto che lo Stato
deve dimostrare che è proprio il rispetto della legalità a renderlo più forte della
criminalità.
Il fine dichiarato del regime detentivo speciale introdotto dall’art. 41-bis, ord.
penit., è quello di impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali pos-
sano continuare a svolgere, benché in stato di detenzione, funzioni di comando
e direzione in relazione ad attività criminali eseguite all’esterno del carcere, ad
opera di altri criminali in libertà. Tale scopo è, precisamente, quello indicato nel
documento conclusivo approvato il 18 luglio 2002 dalla Commissione parlamentare
d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata.
Occorre, dunque, verificare se tutte le limitazioni contemplate nell’art. 41-bis,
ord. penit., rispondano a tale esigenza, o ve ne siano alcune non strettamente ne-
cessarie al conseguimento di tale doverosa finalità. Su queste è necessario interve-
nire, perché non vi siano profili di eventuale non necessaria afflittività o spazi vuoti
di tutela dei diritti fondamentali.
Il “carcere duro” non può, infatti, essere un aggravio di pena fine a se stesso.
Esso dovrebbe essere inteso come una particolare modalità di esecuzione della
sanzione penale, gestita dall’Amministrazione Penitenziaria, esclusivamente per le
finalità di prevenzione stabilite dalla legge.
La circostanza che il decreto di applicazione del regime speciale sia disposto
dal Ministro della Giustizia, anche a richiesta del Ministro dell’Interno, pare, in que-
sta prospettiva, non in linea con l’idea di matrice costituzionale che le limitazioni
alle facoltà soggettive – soprattutto se incidenti su diritti fondamentali costituzio-
nalmente presidiati – possano essere disposte soltanto su ordine dell’autorità giudi-
ziaria, con le garanzie processuali stabilite dalla legge. In esito a tale riflessione, è
maturato l’auspicio che una riforma della disciplina contenuta nell’art. 41-bis, ord.
penit., possa limitare gli ostacoli al trattamento penitenziario e alla stessa vita de-
tentiva ed affidare al solo Giudice il potere di applicazione del regime ivi previsto,
su richiesta della Procura della Repubblica, nel contraddittorio delle parti.
Tra gli obiettivi assegnati al Tavolo vi era anche quello di «Sensibilizzare
l’opinione pubblica sul tema dell’Ergastolo e sulle questioni attinenti allo svilup-
po delle attività trattamentali nell’ottica della riduzione della recidiva e quindi
della maggiore sicurezza per i cittadini». Si è ritenuto, pertanto, di condividere
il progetto “Vale la pena. La pena Vale” che l’Unione Camere Penali Italiane, con
il suo “Osservatorio Carcere”, ha già proposto al Ministero della Giustizia. Sono
in corso, infatti, riunioni per poterne definire le modalità di attuazione. Divenuto
operativo, il lavoro programmato potrebbe essere realizzato anche come contri-
buto degli “Stati Generali”. Le stesse affermazioni del Ministro Orlando conforta-
no la proposta: «La nostra ambiziosa scommessa è che attraverso gli Stati Gene-
rali si apra un dibattito che coinvolga l’opinione pubblica e la società italiana
nel suo complesso, dal mondo dell’economia, a quello della produzione artistica,
culturale, professionale».

92
Trattamento. Ostacoli normativi alla individualizzazione del trattamento rieducativo

Nel ringraziare ancora i componenti il Tavolo per il prezioso lavoro svolto e


nell’augurarmi che l’“ambiziosa scommessa” del Ministro venga vinta, non posso
che ribadire che occorre investire in una corretta informazione, che sia la più sem-
plice possibile e raggiunga tutti dovunque, nelle case, nelle scuole, nei posti di
lavoro. Al mondo il carcere non interessa. … una medicina amara, ma come tutte
le medicine, quando serve – e serve – va presa.

93
11. PROCESSO DI REINSERIMENTO E PRESA IN CARICO
TERRITORIALE

Renato Vigna

I componenti il Tavolo hanno impostato il lavoro fissando dei precisi obiettivi


tematici. Ad ognuno è stato assegnato il compito di approfondire la specifica cono-
scenza e di individuare gli eventuali spunti di interesse ai fini del tema generale.
Questi in sintesi gli obiettivi tematici preventivamente individuati:

Obiettivo 1:Studio dell’assetto normativo vigente e valutazioni in merito alle


proposte di modifica già avanzate.
- Modifiche al testo degli artt. dell’Ordin. Penit. sul Consiglio di Aiuto Sociale
avanzato dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia
- Modifiche sulle pene accessorie
- Modifiche legislative tese a considerare come soggetto svantaggiato anche l’ex
detenuto per lo meno per 24 mesi dalla fine dell’esecuzione della condanna
- Diffusione del modello toscano dell’applicazione della legge 381/91

Obiettivo 2: Il Ruolo degli Enti Locali


- Attivazione di organismi di coordinamento e di messa in opera del lavoro di
rete in cui collocare i vari attori che si occupano del reinserimento sul modello
attivato qualche anno fa da alcune regioni (in particolare i cd. Gruppi Operativi
Locali della regione Piemonte e la legge n. 8/2005 della Regione Lombardia);
- Sportelli operativi delle Anagrafi comunali e delle Prefetture all’interno degli
istituti per facilitare le procedure burocratiche che coinvolgono detenuti e loro
familiari (anche stranieri);
- Sportelli informativi nelle sale colloqui per i servizi socio-assistenziali comunali
considerando il momento del colloquio uno strumento essenziale di “aggancio”
dei familiari;
- Preparazione e distribuzione di kit di sopravvivenza per i reclusi che vengono
scarcerati (progetto, tra gli altri, del Consiglio di Aiuto Sociale di Torino)
- Miglioramento delle condizioni logistiche in cui avvengono i colloqui coi fami-
liari prevedendo, così come avviene in alcuni Paesi europei, sia l’uso di tecno-
logie informatiche (in particolare skype), sia visite dei familiari prolungate e
in spazi riservati (modello francese), nonché riallestendo aree verdi all’interno
degli istituti (ad es. progetto Spazi violenti al carcere di Torino)
- Disseminazioni buone prassi da effettuarsi attraverso l’esposizione dei loro risul-
tati nell’ambito dell’attività di formazione degli operatori penitenziari.
- Incontri con frequenza annuale da organizzarsi a livello di singoli Provveditorati
regionali in cui si confrontano i piani trattamentali d’istituto.

Obiettivo 3: Soluzioni normative e amministrative per dare impulso agli UEPE


Progetto di formazione dei dirigenti UEPE e degli operatori finalizzato ad in-

95
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

crementare la loro conoscenza del mercato del lavoro con il coinvolgimento dell’U-
niversità (vedi infra).
- Percorsi di formazione congiunta di tutti gli attori della rete dell’esecuzione pe-
nale
- Linee di indirizzo per l’attivazione di master di I e II livello per dirigenti degli
UEPE.
- Linee di indirizzo per la predisposizione di corsi di formazione continua da ac-
creditare presso il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali e dai
rispettivi Ordini regionali a cui possano partecipare gli operatori UEPE e gli altri
operatori sociali.

Obiettivo 4: Interventi economici a favore di iniziative di reinserimento


sociale
- Progetti housing sociale
- Elaborazione di un piano organico di fattibilità dell’esternalizzazione dei servizi
no core degli istituti penitenziari attraverso l’applicazione del modello attual-
mente utilizzato per le strutture ospedaliere e sul modello elaborato dalla Pro-
vincia di Bolzano per l’erigendo istituto penitenziario.
- Predisposizione di un testo unico dei capitolati d’appalto e di semplificazione
delle procedure per l’assegnamento dei lavori domestici all’interno degli istituti
penitenziari.

Obiettivo 5: Sensibilizzazione dell’opinione pubblica rispetto alla percezione


della pena riabilitativa come promotrice di sicurezza sociale
- Predisposizione di linee d’intervento sul tema carcere nelle scuole da concorda-
re con il Ministero dell’Istruzione con la predisposizione di percorsi didattici per
le scuole di ogni ordine e grado anche in connessione ai temi della cittadinanza
e della educazione della legalità.
- Predisposizione da parte dell’Ufficio stampa e relazioni esterne del DAP di un
piano di comunicazione che coinvolga la produzione RAI delle fiction televisive.
- Organizzazione di un festival nazionale del cinema e del teatro carcerario e va-
lorizzazione dei prodotti made in jail
- Creazione di una rete nazionale dei luoghi della memoria carceraria e della
storia della penalità sul modello di quello che si sta realizzando nella Regione
Piemonte

Obiettivo 6: Ricognizione delle disponibilità del terzo settore e del privato so-
ciale all’accoglienza delle persone in misura alternative o a fine pena
- Predisposizione in collaborazione con la rete delle Camere di commercio di un
progetto di ricerca nazionale sulla disponibilità a collaborare con l’amministra-
zione penitenziaria da parte dei soggetti economici sul modello della ricerca/
azione svolta in occasione della costruzione del carcere di Bolzano
- Piano di raccolta dati a livello nazionale sulle disponibilità di accoglienza attra-
verso le reti delle cooperative, delle associazioni del privato sociale e del terzo
settore
- Predisposizione di una campagna informativa per gli operatori economici in
merito alle condizioni e alle facilitazioni sulle attività produttive negli istituti
penitenziari.

96
Processo di reinserimento e presa in carico territoriale

- Impostazione di un disegno di legge che inserisca nella normativa sugli UEPE la


necessità di coinvolgere anche il volontariato, così come di menzionare gli UEPE
nell’art. 78
- Elaborazione di un piano per l’acquisizione di fondi europei e per la qualifi-
cazione dell’intervento del terzo settore nell’esecuzione penale sul modello di
quello progettato dalla Regione Puglia

Al mio lavoro svolto in Commissione è stato dato il titolo Ricognizione delle


disponibilità del terzo settore e del privato sociale all’accoglienza delle persone in
misura alternative o a fine pena.
Questa è la sintesi del mio contributo al tavolo 17 degli Stati generali dell’ese-
cuzione penale:
Nel corso degli ultimi anni gli uffici preposti ad occuparsi delle persone pri-
vate della libertà personale presso le varie regioni della penisola italiana ed i vari
dipartimenti di Scienze giuridiche delle Università, hanno elaborato diversi accordi
di collaborazione finalizzandoli in particolare alla ricerca di disponibilità del terzo
settore e del privato sociale all’accoglienza di tali soggetti.
Quest’opera di ricognizione ha riguardato le dimensioni e le potenzialità
dell’intervento del cd. “terzo settore”, dedicando una più specifica attenzione alla
presa in carico di adulti maggiorenni provenienti dal circuito della reclusione e
facendo un altrettanto specifico riferimento alle risorse diffusamente messe a di-
sposizione dal mondo del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione
sociale.
La vera particolarità, tuttavia consiste nel fatto che detta forma di ricerca, per
come impostata, non si limita ad offrire una sorta di prontuario delle singole as-
sociazioni e cooperative che si sarebbero rese astrattamente disponibili, ma prova
anche a descrivere le specifiche azioni che sse concretamente promuovono o che
hanno già realizzato ed i risultati eventualmente già raggiunti.
Da questa forma di ricognizione dunque ne stanno derivando elementi sempre
più utili ai fini di una valutazione in chiave quantitativa e qualitativa dell’intervento
del terzo settore con riferimento al c.d. “altro carcere”; in ogni caso nessuno dovrà
e potrà trascurare che questa forma di intervento proprio per le sue caratteristiche
peculiari, presenta punti di forza associati a notevoli profili di debolezza.
Quella qui censita, è infatti una realtà talmente multiforme ed eterogenea che
sarebbe impossibile fornirne una rappresentazione dal carattere statico e definitivo;
in ogni caso, va detto che, risultando la ricerca costantemente accompagnata
da puntuali e sistematici inquadramenti teorici, i risultati della stessa costituisco-
no non un mero dato statistico quanto piuttosto un utile strumento di lavoro e di
orientamento del quale potranno servirsi le Istituzioni che “governano” e che in
quanto tali godono della non condizionabile facoltà di confrontarsi direttamente
con il c.d. terzo settore.
Il riferimento vale per assemblee e giunte regionali, per Magistratura di Sor-
veglianza, ed Amministrazione Penitenziaria oltre che per tutti gli Enti Locali in
genere e per le medesime associazioni e cooperative sopra evocate, le quali, in tal
modo, possono assumere una precisa ed adeguata collocazione in un più ampio
contesto, ovvero, concorrere ai fini della creazione di quelle opportunità di reinse-
rimento e di riduzione dei tassi di recidiva ai quali da studiosi del fenomeno siamo
tutti particolarmente interessati.

97
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Da non sottovalutare è inoltre l’idea di predisporre – magari in collaborazione


con la rete delle Camere di commercio – un progetto di ricerca nazionale sulla di-
sponibilità a collaborare con l’amministrazione penitenziaria da parte dei soggetti
economici.
Questo progetto infatti potrebbe nascere ed essere attuato sul modello della
ricerca/azione svolta dagli addetti ai lavori ai fini di tutto ciò che ha preceduto la
costruzione del carcere di Bolzano
Personalmente mi sono chiesto e vi chiedo: se per caso domandassimo a dete-
nuti ed ex detenuti quale sia stata la maggiore difficoltà che hanno incontrato nel
loro percorso di reinserimento nella società, sapete qual è la risposta che general-
mente riceveremmo?
La risposta è “il lavoro”!!
Addentrandosi nel tema del “lavoro”, pero’, allo stato, si riscontra ancora una
accesa contraddizione tra le finalità che alla pena detentiva risultano attribuite sulla
carta e quelle che invece si attestano essere le reali condizioni di attuazione del
trattamento penitenziario.
Stando a quanto recita la “carta”, (ovvero l’ordinamento penitenziario attual-
mente vigente nel nostro paese) è proprio nel lavoro che si identificherebbe il vero
fulcro del trattamento detentivo.
Dunque anche questo ordinamento si attesterebbe in linea con il principio co-
stituzionale secondo il quale la nostra società sarebbe fondata sul lavoro, e proprio
per tale ragione sarebbe dunque nell’apprendimento e nella pratica di un’attività
lavorativa che lo Stato potrebbe gettare le basi per il reinserimento sociale del reo
durante le fasi terminali della sua pena detentiva.
Il che significa che formazione e lavoro in carcere dovrebbero essere gli ele-
menti base che consentono alla persona detenuta di acquisire un’esperienza ed
una competenza professionale spendibile sul mercato del lavoro esterno e quindi
di costruirsi da carcerato quelle vere e proprie opportunità lavorative che all’uscita
dall’ambito detentivo gli consentirebbero di superare le condizioni che avevano
generato i suoi comportamenti criminali.
Sarebbe dunque questo il passaggio cruciale da cui dovrebbero prendere cor-
po le finalità rieducative e risocializzanti della pena di cui si fa espressa menzione
finanche nella nostra carta dei diritti fondamentali; in altre parole se davvero si
intende rieducare un condannato occorre metterlo in condizione di passare attra-
verso percorsi di vita che possano renderlo estraneo a spazi ed a pratiche illegali.
Pertanto, la relazione tra l’istituzione penitenziaria ed il mercato del lavoro
deve essere ricondotta ad un concetto moderno di carcere contrassegnato dal-
le evoluzioni suscitate dalle c.d. “rivoluzioni industriali” che hanno provocato il
ricorso a nozioni come quelle di “divisione del lavoro” e di “disciplina”, più che
decisive ai fini dell’elaborazione di ogni nuovo modello organizzativo del mondo
del carcere.
Visto che anche il vigente ordinamento penitenziario riconosce al detenuto il
pieno diritto al lavoro, il rapporto tra l’istituzione carceraria ed il territorio presup-
pone, e richiede, la realizzazione di modelli integrati di politiche penitenziarie e
sociali, che vanno strutturati mediante l’istituzione di appositi sportelli informativi
per detenuti ed ex-detenuti. Anche il sistema della rete ha dato impulso ad efficien-
ti strumenti di gestione della complessità sociale e di equa erogazione dei servizi
essenziali.

98
Processo di reinserimento e presa in carico territoriale

Per come già anticipato, tra i più significativi esempi di risultati ottenuti at-
traverso la politica di collaborazione tra amministrazione penitenziaria e terzi im-
prenditori vi è quello che è stato sperimentato dalla Provincia di Bolzano, la quale
(primo caso nella storia della nostra repubblica) ha realizzato un penitenziario in
partnership con un privato. Si tratta di un opera che dispone di 220 posti (nella
quale tuttavia risultano allocati solo 87 detenuti), di vetrate per il sole, di ampi
spazi di socialità e di uno stadio; dunque a Bolzano è stata realizzata una struttu-
ra che risulta addirittura sovra-dimensionata rispetto alle esigenze dello specifico
territorio.
Di questo carcere purtroppo se ne è parlato e se ne continua a parlare poco,
pur essendo questa la prima Casa Circondariale italiana realizzata con il sistema del
partenariato pubblico-privato (Ppp), ovvero di un sistema in cui il pubblico impo-
sta e detta linee guida ed obiettivi, ed il privato si occupa di eseguirle.
Da ciò, però si può agevolmente comprendere che semmai esistesse un ade-
guata forma di collaborazione tra Enti Pubblici e Camere di Commercio Italiane e
se queste specifiche istituzioni iniziassero finalmente a dialogare con costruttiva
proficuità con i vari esperti in materia di ordinamento penitenziario e soprattutto
con coloro che assiduamente e con amorevole competenza praticano da esperti gli
istituti di pena, si potrebbe ottenere (esattamente per come già accaduto a Bolza-
no) che al privato venga assegnata non solo la fase della c.d. costruzione di nuove
strutture, ma che lo stesso si vada ad occupare anche della gestione di diversi tra
i c.d. servizi essenziali. Ovviamente è inutile precisare in questa sede che giammai
potrebbero mai essere assegnati ad un privato quelli inerenti la sicurezza, che do-
vrebbero rimanere in capo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e
tantomeno quelli sanitari, che come per legge rimarrebbero affidati alle Asp.
In ogni caso, e sempre prendendo spunto dal perfettamente riuscito espe-
rimento di Bolzano, si potrebbe studiare e progettare un modello di carcere più
moderno che tale dovrebbe risultare, non sotto il profilo estetico ma piuttosto sul
piano che i servizi disponibili assumerebbero in chiave giuridico-sociale, e su quel-
lo tecnico – economico – finanziario.
A questo scopo toccherebbe ovviamente ampliare le responsabilità del privato
che oltre a dover risultare una figura imprenditoriale più che affidabile, rimarrebbe
soprattutto in quanto questo tipo di operazioni inevitabilmente sottoposto a vincoli
di segretezza in quanto collegato a piani di sicurezza strategica.
Esistono già degli articolati studi sullo specifico argomento, proiettati ad ot-
tenere risultati sia in chiave di umanizzazione del detenuto (controllato) e delle
guardie penitenziarie (controllanti), che in chiave di realizzazione di tutti gli spazi
utili ai fini della socialità e dell’interazione con il mondo esterno.
Sicchè, potremmo affermare che proprio da questi studi ne è derivato che per
ottenere il reinserimento sociale dei detenuti, occorre coinvolgere quanto più pos-
sibile i detenuti stessi, incoraggiando il loro inserimento nelle cooperative sociali,
soprattutto in quelle già presenti sul territorio nel quale si trova allocato il carcere
che li ospita.
In altre parole se è vero che bisogna fare di tutto perché l’esperimento ri-
uscitissimo di Bolzano non rimanga il primo ed ultimo caso di “carcere italiano
costruito dai privati, occorre voltare decisamente pagina, pur mantenendo fede
al principio della impossibilità di affidare al privato servizi inerenti la sicurezza, e
rammentando che tra le esperienze internazionali più devastanti vi è quella degli

99
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

Stati Uniti, dove essendo stato creato anche su questo fronte un vero e proprio
business oggi in nome del necessario profitto non è più ammissibile alcuna dimi-
nuzione del numero dei detenuti.
Gli italiani esperti del settore per fortuna, su questo versante hanno altri sproni
e coltivano progetti specifici tra i quali (uno per tutti) piace ricordare l’iniziativa
dell’osservatorio nazionale Carcere dell’UCPI (Unione Camere Penali Italiane) la
quale, già da tempo promuove una politica finalizzata allo svuotamento delle strut-
ture penitenziarie fondata anche sullo slogan “PIÙ braccialetti MENO Carcere”.
Da quanto precede ne deriva l’esistenza di un vero e proprio piano di raccolta
dati a livello nazionale sulle disponibilità di accoglienza attraverso le reti delle co-
operative, delle associazioni del privato sociale e del terzo settore.
Lo scopo è quello di individuare la mossa politica più proficua che consenta
allo stato di continuare a garantire la sicurezza sociale e di ridurre il rischio di
condotte recidivanti, e che nel contempo determini un radicale rinnovamento dei
sistemi di rieducazione e di reinserimento dei condannati a pena detentiva.
Come anzidetto, si potrebbero ad esempio creare dei piani di raccolta dati a
livello nazionale per consentire la conoscenza in tempo reale e magari grazie alla
rete, di quelle che risultano le disponibilità all’accoglienza ed al reinserimento so-
ciale dei detenuti, delle persone in esecuzione penale esterna e/o degli ex detenuti,
da attuarsi mediante l’inclusione lavorativa presso cooperative, private associazioni
e presso il c.d. terzo settore.
A questo proposito potrebbe istituirsi un apposita struttura presso ognuna
delle regioni italiane, affidandone il coordinamento all’Ufficio del Garante Regio-
nale per i diritti dei detenuti (ovviamente implorando le Regioni che ancora non
lo avessero fatto di designarne uno e di dotarlo delle specifiche funzioni previste
dalla vigente normativa) e la vigilanza sugli atti compiuti ai preposti Uffici regionali
del DAP.
Su questa banca dati andrebbero a confluire tutte le attestazioni di disponi-
bilità prestate dalle suddette cooperative, associazioni private ed organizzazioni
c.d. del terzo settore, delle quali ai fini della applicazione di determinati benefici
dovrebbe tenere conto caso per caso ogni singolo UEPE come anche ogni singolo
Tribunale o singolo Magistrato di Sorveglianza.
Proprio a tal proposito non va dimenticato che sia la Legge n.354 del 26 luglio
1975 che introdusse le c.d. “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzio-
ne delle misure privative e limitative della libertà”, che le ulteriori e varie norme
attuative dell’articolo 27 della Costituzione italiana, devono essere costantemente
applicabili in regime di opportuna combinazione sia con le regole penitenziarie
approvate in campo europeo nel gennaio 2006 che con ogni altra norma derivante
dal diritto internazionale.
Ciò, pertanto rende tutt’altro che facile l’effettivo godimento dei diritti umani
da parte di tutti i soggetti che si trovino in stato di detenzione.
Dunque, nel chiaro intento di mantenersi rispettosi di questo complesso di
regole bisognerebbe preoccuparsi di adottare, in costante collaborazione con l’am-
ministrazione penitenziaria, tutte le misure aventi carattere sanitario, sociale e isti-
tuzionale previste dalla normative nazionali e da quelle europee.
In altre parole occorrerebbe istituire un sistema integrato di interventi in cui
enti territoriali, istituzioni dello Stato, aziende sanitarie, organismi del terzo settore,
del mondo dell’associazionismo e del volontariato concorrano tutti al perseguimen-

100
Processo di reinserimento e presa in carico territoriale

to di obiettivi comuni; a tale scopo ci si auspica che le Regioni ed i loro singoli


garanti per i diritti dei detenuti finiscano per raccordarsi al più presto con l’ufficio
del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, e dunque che
compiano ogni possibile sforzo al fine di promuovere – concertandoli con lo stesso
– tutti gli interventi necessari per rendere effettivo il reinserimento socio-lavorativo
dei detenuti e delle persone in esecuzione penale esterna, attraverso lo svolgi-
mento di attività di qualsiasi genere e specie; quanto al Dipartimento dell’Ammi-
nistrazione Penitenziaria ed ai relativi provveditorati regionali agli stessi dovrebbe
spettare il compito di individuare, tra i detenuti ristretti negli Istituti Penitenziari
della penisola e comunque tra le persone sottoposte ad esecuzione penale esterna,
i soggetti disposti a rendersi partecipi di tale iniziativa.
Da ultimo ho rilevato la necessità di predisporre una adeguata campagna in-
formativa che renda edotti gli operatori economici sia delle condizioni che delle
facilitazioni di cui essi beneficerebbero avviando attività produttive presso gli isti-
tuti penitenziari.
Prima di interloquire con gli operatori economici sarebbe – a mio avviso –
opportuno e logico svolgere un lavoro di rete, che veda coinvolte diverse agenzie
educative in regime di partenariato, e che sarebbe reso possibile da una tecnologia
denominata e-learning, la quale consentirebbe agli operatori coinvolti di interagire
in modo tale da aggiungere nuove conoscenze ed esperienze alla loro già maturata
professionalità e da rendere possibile una reale concretizzazione del dettato costi-
tuzionale in merito alla rieducazione e integrazione sociale dei ristretti.
L’e-learning infatti consente un collegamento interattivo tra carcere ed agen-
zie educative che si trovino all’esterno, senza spostare né i ristretti né il personale
insegnante. In questo modo diventa realizzabile la creazione di un ambiente di
apprendimento idoneo a far conseguire sia la formazione che dei titoli di studio
spendibili sul mercato del lavoro (sempre che il detenuto, una volta tornato citta-
dino libero non si abbandonato a se stesso ma venga piuttosto seguito ed aiutato
nel suo percorso di inserimento).
Dopo di ciò sarebbe opportuno organizzare una campagna informativa capa-
ce di presentare a tutte le varie categorie di imprenditori economici la gamma di
risorse umane già qualificate che potrebbe immediatamente essere immessa nel
mercato attivo del lavoro; ciò, anche sotto il vigile controllo delle istituzioni educa-
tive e formative presenti sullo specifico territorio di riferimento.
Anche su questo conclusivo specifico aspetto della vicenda si auspica una
rapida presa di coscienza da parte delle istituzioni, che induca al coinvolgimento
nelle fasi di strutturazione di un più adeguato progetto normativo di tutti gli esperti
del campo.

101
12. ORGANIZZAZIONE E AMMINISTRAZIONE
DELL’ESECUZIONE PENALE

Franco Villa

Ho accettato con entusiasmo la partecipazione agli Stati Generali, pensando


che, in qualità di componente dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere
Penali, avrei potuto portare all’interno di tale consesso il punto di vista e il bagaglio
di conoscenze della nostra associazione.
L’Unione, infatti, con il proprio Osservatorio Carcere si è sempre battuta per
migliorare le condizione delle carceri italiane e dei detenuti e per modificare l’ap-
proccio culturale dell’opinione pubblica sulla pena e sulla sua funzione, ma l’ha
sempre fatto dall’esterno, avvalendosi del proprio peso politico e cercando di influ-
ire sulle scelte di altri. Gli Stati Generali pertanto hanno costituito e costituiscono
un’occasione irripetibile per poter incidere dall’interno (nella stanza dei bottoni)
ad una rivisitazione complessiva dell’esecuzione penale. L’auspicio è dunque che
l’operato dei 18 tavoli tematici, di quelle duecento e più persone che hanno lavo-
rato e che continuano a lavorare con passione, non vada disperso e che determini
veramente un cambiamento della concezione della pena nel nostro Paese renden-
dolo più civile. In effetti l’idea di un confronto tra tutti gli operatori del settore al
fine di elaborare una nuova esecuzione penale è stata vincente. Vincente quanto
meno perché fra le persone di varia estrazione che hanno composto i tavoli si é
creata una fitta rete di contatti e un patrimonio comune di conoscenze che sta già
dando i suoi frutti. Non a caso molti componenti dei tavoli stanno continuando a
collaborare nonostante i lavori siano sostanzialmente conclusi. Ma al contempo
non bisogna dimenticare da dove siamo partiti, ovvero dalle sentenze di condanna
della Corte Edu per le condizioni disumane delle persone ristrette nel nostro pae-
se. E queste condanne non sono state determinate da una legislazione antiquata o
carente, ma proprio dal fatto che la nostra legge penitenziaria, all’epoca della sua
emanazione una delle leggi le più evolute d’Europa, è rimasta in larga parte lettera
morta. Pertanto il rischio che questa iniziativa non porti altri frutti oltre quelli già
evidenziati è concreto e reale e il nostro impegno dovrà essere quello di non vani-
ficare il lavoro dedicato a questo grande progetto.
Ritornando alla mia esperienza, dopo l’entusiasmo iniziale, sopraggiungeva
una certa perplessità sulla possibilità che io fossi in grado di apportare ai lavori
del tavolo 18 un contributo significativo in relazione all’argomento di tale tavolo
che atteneva all’organizzazione ed amministrazione dell’esecuzione penale. Infatti
il suddetto perimetro tematico sembrava strizzare l’occhio ad esperti di tecnicismi
amministrativi piuttosto che a studiosi dell’esecuzione penale in quanto tale.
Tali perplessità però venivano fugate già dalla prima riunione dove il Coordi-
natore del tavolo il dott. Filippo Patroni Griffi, presidente di sezione del Consiglio
di Stato ed ex ministro della funzione pubblica, si mostrava subito aperto e evi-
denziava una straordinaria capacità di valorizzare i contributi di tutti i partecipanti,
laddove le esigenze organizzative e amministrativistiche dovevano necessariamente

103
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

trovare un contemperamento nei principi costituzionali relativi all’esecuzione della


pena. Ed in effetti la relazione finale del tavolo rappresenta un bell’esempio di sin-
cretismo tra le diverse concezioni ideologiche e culturali sul tema dell’esecuzione.
Dalla lettura del perimetro tematico appare subito evidente che il nodo centra-
le affrontato dal tavolo è stato quello relativo alla riorganizzazione del ministero.
Infatti il d.p.c.m. del 15 giugno 2015 entrato in vigore il 14 luglio 2015 ha modifi-
cato l’organigramma togliendo l’esecuzione penale esterna al DAP (Dipartimento
Amministrazione Penitenziaria) e sottoponendolo alla DGM (Dipartimento Giusti-
zia Minorile) che è diventato Dipartimento per la Giustizia Minorile e le Comunità,
riunendo di fatto in un unico dipartimento tutta l’esecuzione penale esterna. In
questo senso l’attività svolta dal tavolo è stata parallela a quella dei gruppi di lavoro
che dovevano redigere i regolamenti attuativi al fine di ridisegnare l’architettura
ordinamentale dei due dipartimenti. L’approccio politico dell’Osservatorio rispetto
a tale tema è stato necessariamente quello di evidenziare come tale riorganizza-
zione piuttosto che essere improntata ad un efficientismo fine a sé stesso, dovesse
consentire di superare la visione carcerocentrica della pena valorizzando la proba-
tion, intesa come insieme delle pene non detentive e delle misure alternative alla
detenzione. Tutto ciò anche in funzione di un potenziale “sbloccamento” di risorse
determinato dal trasferimento degli uffici Epe nell’ambito del Dipartimento per la
Giustizia Minorile e le Comunità, in quanto prima quale DGM era sovradimensio-
nato rispetto al carico di lavoro. Mentre al contrario gli uffici Epe per adulti erano
oberati di lavoro e con l’entrata in vigore della legge 67/2014 si è assistito in poco
tempo ad un raddoppio del numero dei procedimenti.
Appare superfluo sottolineare come le audizioni dei responsabili dell’esecu-
zione penale esterna hanno confermato da una parte la gravissima e cronica man-
canza di risorse e dall’altra il differenziale rilevantissimo del tasso di recidiva di
chi è costretto ad espiare la pena in carcere rispetto a chi viene ammesso ad una
misura alternativa alla detenzione.
Un’altra strada per il reperimento delle risorse da investire in probation è stata
individuata nella proposta di modifica lo statuto della Cassa delle Ammende ricom-
prendendo nelle finalità il finanziamento:
A) di programmi di reinserimento di detenuti, di internati, di persone in misura
alternativa alla detenzione o soggetti a sanzione di comunità o misura di sicu-
rezza, consistenti nell’attivazione di percorsi di inclusione lavorativa e di for-
mazione, anche comprensivi di eventuali compensi a favore dei soggettiche li
intraprendono, finalizzati all’acquisizione di conoscenze teoriche e pratiche di
attività lavorative che possano essere utilizzate nel mercato del lavoro, nonché
nella sperimentazione di protocolli di valutazione del rischio, presa in carico ed
intervento delle persone condannate;
B) programmi di assistenza ai detenuti, internati o alle persone in misura alterna-
tiva alla detenzione, o soggetti a sanzione di comunità o misura di sicurezza,
nonché alle loro famiglie, contenenti, in particolare, iniziative educative, cultu-
rali e ricreative, nonché di recupero dei soggetti tossicodipendenti o assuntori
abituali di sostanze stupefacenti o psicotrope o alcooliche, di integrazione degli
stranieri sottoposti ad esecuzione penale, di cura ed assistenza sanitaria.
Il tavolo, oltre alle riunioni dei componenti che hanno lavorato sui focus tema-
tici, ha svolto un’attività di raccolta di informazioni: da una parte attraverso l’audi-
zione dei responsabili dei centri di giustizia minorile (Lazio; Campania Toscana e

104
Organizzazione e amministrazione dell’esecuzione penale

Umbria; Triveneto) e degli UEPE (Lazio, Triveneto) e dall’altra mediante l’esperien-


za comparatistica della missione in Spagna.

Relazione sulla visita di studio della Spagna e della Catalogna


Nell’ambito del progetto degli Stati Generali si è deciso di consentire ai com-
ponenti dei tavoli, sulla base del perimetro tematico assegnato, di visitare gli istituti
di pena di vari paesi europei (Spagna, Danimarca, Belgio, Norvegia) al fine di ef-
fettuare un raffronto comparatistico tra i diversi modelli di esecuzione penale. Tali
visite hanno consentito di individuare le pratiche virtuose adottate dai paesi sopra
menzionati e di arricchire il dibattito dei singoli tavoli. Il tavolo 18 è stato coinvolto
esclusivamente nel viaggio in Spagna e Catalogna in considerazione della peculiare
organizzazione dell’esecuzione penale. Il coordinatore del tavolo 18 ha incaricato il
sottoscritto di partecipare alla missione spagnola.
Il programma consistito in degli incontri con dirigenti e funzionari dell’ammi-
nistrazione penitenziaria catalana (unica regione della Spagna ad aver completa
autonomia in materia penitenziaria) e spagnola, nonché nella visita di alcuni centri
penitenziari nei territori di Barcellona (Lledoners, Brians 2) e di Madrid (Unitades
de Madre e Madrid VII), si è concluso in data 16 ottobre 2016.
Tale attività ha consentito ai componenti dei tavoli che hanno partecipato alla
missione di farsi un’idea abbastanza chiara del sistema penitenziario spagnolo. Si
può senz’altro osservare in questo senso che il sistema spagnolo appare maggior-
mente evoluto sia in relazione all’individualizzazione del trattamento dei detenuti,
con particolare riferimento alla valorizzazione del lavoro intramurario, sia in rela-
zione al tema dell’affettività. Questo ovviamente al netto di una possibile scelta da
parte delle autorità spagnole di mostrare soltanto l’eccellenza dei centri peniten-
ziari iberici.
L’esecuzione della pena prevede un sistema progressivo organizzato in tre
gradi o regimi: il primo è quello destinato a coloro che hanno posto in essere
all’interno del carcere condotte violente e antisociali (régimen cerrado), il secondo
è quello ordinario (régimen ordinario) e il terzo, il cosiddetto tercer grado, è il
regime aperto e corrisponde sostanzialmente alla nostra semilibertà, rectius al no-
stro articolo 21 O.P., posto che l’accesso a questo grado viene disposto dall’ammi-
nistrazione penitenziaria e non dalla magistratura. Infatti el Juzgado de Vigilancia
Penitenciaria (equivalente al nostro magistrato di sorveglianza) vigila solo sull’ese-
cuzione della pena e decide sui reclami.
Quindi immediatamente dopo l’ingresso del detenuto nella struttura, una equi-
pe formata da assistenti sociali, psicologi, giuristi e criminologi deve procedere ad
una valutazione e redigere entro due mesi un programma individualizzato di trat-
tamento scegliendo anche il regime di espiazione pena. Sostanzialmente il tipo di
regime deve essere valutato sulla base di una serie di parametri ed è condizionato
solo marginalmente dal tipo di reato commesso, laddove invece assume impor-
tanza decisiva il motivo per il quale il medesimo è stato posto in essere. Quindi
anche coloro che sono condannati per reati di terrorismo o criminalità organizzata
devono rientrare in questo sistema dei tre regimi, non esistendo un equivalente
del nostro 41 bis OP. Nel programma di trattamento, particolare rilievo assumono
evidentemente le patologie e le dipendenze, e quindi vi sono all’interno di ciascun

105
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

centro penitenziario delle strutture dedicate per queste categorie di detenuti, come
peraltro previsto anche dal nostro ordinamento dagli artt. 95 e 96 DPR 309/90,
disposizioni rimaste in larga parte inattuate. Coloro che sono inseriti nel secondo
e terzo grado, trascorrono l’intera giornata fuori dalle celle (che ospitano uno, mas-
simo due detenuti) nelle quali fanno rientro soltanto per dormire. All’esterno della
cella pongono in essere le attività previste dal programma di trattamento e quindi
principalmente il lavoro, lo studio, le attività ricreative e quelle sportive. Durante
il giorno le celle sono chiuse, salvo per un’ora e mezza dopo il pranzo, ed i pasti
devono essere necessariamente consumati nella sala mensa. Contrariamente rispet-
to a quanto succede nelle nostre carceri si è compreso dunque che l’incremento
della socializzazione tra i detenuti è direttamente proporzionale alla sicurezza e al
rispetto delle regole di convivenza tra detenuti e tra questi e il personale di vigilan-
za. Tanto che all’interno delle carceri spagnole la sicurezza è garantita da personale
civile disarmato e solo lungo il perimetro della struttura vi è un controllo di polizia.
Particolarmente sentito è il tema dell’affettività e nell’ambito della struttura
penitenziaria vi sono delle stanze adibite agli incontri intimi (visitas ìntimas). Du-
rante tali incontri i detenuti possono avere rapporti sessuali con il proprio coniuge
o convivente, senza alcun controllo da parte del personale di vigilanza, due volte al
mese e per la durata di un’ora e mezza. Tali visite si aggiungono a quelle familiari
e di convivenza per le quali sono previste strutture che consentono alla persona
ristretta di relazionarsi con la famiglia ed in particolare con i figli minori in stanze
all’uopo arredate e non nelle sale colloqui.
Le strutture penitenziarie visitate sono organizzate in moduli, particolarmente
funzionali da un punto di vista architettonico e in ottimo stato di manutenzione.
A tal proposito particolarmente interessante da un punto di vista giuridico è il
sistema utilizzato dalla Comunità Autonoma Catalana per realizzare il centro peni-
tenziario Lledoners visitato dalla delegazione italiana. Infatti la Comunità ha ceduto
ad una società privata il terreno sul quale quest’ultima ha realizzato la struttura e,
a fronte di tale impegno finanziario e della manutenzione ordinaria e straordinaria
del carcere, l’Ente deve corrispondere un canone mensile per trent’anni, decorsi i
quali il penitenziario ritorna di proprietà pubblica.
Per quello che maggiormente riguarda il perimetro tematico del nostro tavolo,
è importante sottolineare come la Secretarìa General de Instituciones Penitenciaria
(l’equivalente del nostro Dap) dipenda dal Ministero degli Interni, così come dallo
stesso ministero dipende, per il tramite della Secretarìa General, l’Organismo Auto-
nomo de Trabajo Penitenziario y Formaciòn para el Empleo (TPFE). Quest’ultimo è
un ente statale di diritto pubblico che ha il compito di formare, dare occupazione
e reinserire coloro che hanno avuto una esperienza detentiva. Analoga organiz-
zazione denominata Cire è stata istituita in Catalogna la cui sede è stata visitata
dalla delegazione grazie all’ospitalità della direttrice Paola Sancho Carles. Credo sia
importante sottolineare che in quella occasione si è appreso dalla direttrice che il
Cire sostanzialmente si autofinanzia mediante la vendita del lavoro alle imprese o
direttamente attraverso la vendita dei prodotti ai privati, posto che lo stato eroga
finanziamenti soltanto per un 10% del bilancio.
La scelta di creare un ente autonomo che si occupa del lavoro dei detenuti
trova un fondamento normativo nell’art. 26 delle legge penitenziaria spagnola che
individua nel lavoro l’elemento fondamentale del trattamento. L’efficacia di tale
soluzione organizzativa è dimostrata dai numeri, posto che nel 2014 i detenuti che

106
Organizzazione e amministrazione dell’esecuzione penale

hanno lavorato all’interno dei centri di detenzione spagnoli sono stati 12.436, sen-
za contare coloro che hanno lavorato all’esterno. Peraltro diversamente che nelle
nostre strutture detentive le cucine sono gestite totalmente dai detenuti con un
risparmio notevole dell’amministrazione.
Il TPFE e il Cire collaborando con le associazioni di imprenditori, sindacati e
camere di commercio hanno creato una connessione tra il mondo dell’impresa e
quello penitenziario. A questo deve aggiungersi la creazione di un ufficio di collo-
camento specifico per detenuti al fine di rendere effettivo il reinserimento di coloro
che hanno già espiato la pena.
Ma qual è la convenienza delle aziende nell’impiegare personale detenuto?
Innanzitutto i suddetti enti consentono alle aziende di utilizzare per lo svolgimento
dell’attività produttiva degli spazi appositamente realizzati all’interno del carcere,
con notevole risparmio in termini di canoni di locazione dei capannoni da parte
degli imprenditori. In secondo luogo, nella maggior parte dei casi è lo stesso ente
che retribuisce i lavoratori ristretti e questo determina che l’imprenditore non deve
preoccuparsi di questioni attinenti ai contributi e agli ulteriori oneri previdenziali.
Il terzo e decisivo motivo riguarda il costo del lavoro il quale è decisamente com-
petitivo posto che la retribuzione del lavoratore ristretto è parametrata al salario
minimo interprofessionale pari a circa 3 euro all’ora, decurtato del 20%. Tale retri-
buzione base nella maggior parte dei casi viene integrata dai premi di produzione
che vengono erogati in funzione del numero di prezzi prodotti, per cui normal-
mente si ha una retribuzione a cottimo, con una retribuzione media che oscilla tra
i 450 e i 500 euro mensili.
Come ho detto prima anche la formazione del personale detenuto è appannag-
gio del TPFE e del Cire e anche in questo campo i risultati sono particolarmente
significativi. Ad esempio a fronte di una popolazione carceraria della Catalogna di
circa 9.000 unità il Cire ha formato 3.852 detenuti nel 2014. Da tale dato si evince
che, oltre alla scolarizzazione base che coinvolge soprattutto la popolazione carce-
raria extracomunitaria, vi sono stati importanti investimenti in formazione profes-
sionale finalizzata all’impiego delle persone ristrette all’interno del carcere ovvero
al reinserimento di coloro che hanno già espiato la pena.
In conclusione appare evidente come nel sistema spagnolo vi sia una maggio-
re effettività dell’aspetto della rieducazione della pena previsto dall’art. 25 comma
2 della loro Costituzione (l’omologo del nostro art. 27) e che tale finalità venga per-
seguita essenzialmente attraverso il lavoro che in Catalogna occupa addirittura il 50
per cento dei detenuti a fronte del nostro misero 4%. Il successo di tale impostazio-
ne è evidenziato dal tasso di recidiva che è di poco superiore al 30%. Tale effettività
riguarda anche la pena perché non sono previsti meccanismi analoghi rispetto alla
nostra liberazione anticipata né misura alternative per coloro che devono espiare
pene superiori ai due anni di reclusione, salvo la liberazione condizionale che co-
stituisce il quarto livello.
Ovviamente vi sono degli ambiti dell’esecuzione della pena dove la legisla-
zione italiana è notevolmente più evoluta. Mi riferisco in particolare alla assoluta
indifferenza della legislazione spagnola rispetto alla tematica dei bambini in car-
cere. … vero infatti che esistono delle unidades de madre che sono delle strutture
dedicate alle madri con i loro bambini (una delle quali è stata visitata dalla nostra
delegazione), ma le madri detenute possono accedere a tali strutture solo se ven-
gono inserite nel tercer grado. In caso contrario possono scegliere se tenere il

107
GLI STATI GENERALI DELL’ESECUZIONE PENALE

bambino con sé oppure devono affidarlo all’esterno. Così come, contrariamente


al nostro art. 146 del codice penale, che prevede il rinvio obbligatorio dell’ese-
cuzione della pena, le madri incinta in Spagna non godono di alcun beneficio.
Un’altro aspetto particolarmente negativo che è stato rilevato dai partecipanti al
viaggio di studio attiene alla possibilità per l’amministrazione penitenziaria di
utilizzare per i detenuti particolarmente violenti il letto di contenzione, pratica
che sicuramente è in contrasto con l’art. 3 della della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo.

La sintesi del mio contributo


Partendo da quello che è il primario intento della riorganizzazione ministe-
riale, ovvero contenere e ridurre la spesa di gestione mediante una riduzione per
razionalizzazione ed accorpamento degli uffici dirigenziali ed eliminazione di du-
plicazioni di centri di competenze e di spese, si possono ipotizzare una serie di
interventi che rendano anche più efficiente l’attività pratica svolta dai due attuali
dipartimenti (DAP e Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità). Il tutto,
peraltro, mettendo al centro la funzione che nel nostro ordinamento assolve la
pena, non solo di prevenzione generale ma anche di prevenzione speciale, risocia-
lizzazione e reinserimento del reo ex art. 27, co. 3°, Cost.
Razionalizzazione della spesa, d’altronde, non deve significare minore efficacia
del lavoro svolto in termini di risultati, quanto il contrario.
Per garantire ciò, la razionalizzazione dovrebbe essere collegata ad una mag-
giore collaborazione tra strutture ministeriali (e non), da un lato, e ad una migliore
specializzazione, quanto a competenze, del personale ivi impiegato, dall’altro.
A tal fine, si ritiene indubbiamente importante la prospettazione dell’indivi-
duazione di funzioni di raccordo e coordinamento degli Uffici delle due direzioni
generali che si occupano della materia dell’esecuzione penale attribuite alla Dire-
zione generale della formazione (DAP) e alla Direzione generale dell’esecuzione
penale esterna e di messa alla prova (DGMC).
Da un lato, senz’altro utile lo scambio di competenze tra chi si occupa di ese-
cuzione interna e chi si occupa di esecuzione esterna, dall’altro fondamentale il
tentativo di non creare un gap tra il trattamento del detenuto all’interno della strut-
tura carceraria, la fase di uscita dello stesso dal carcere ed il trattamento all’esterno,
sia esso in probation o esecuzione di misure alternative.
In tali fasi un ruolo peculiare deve essere oggi attribuito alla formazione, sco-
lastica e professionale, ed al lavoro – svolto sia dal detenuto che dal condannato
all’esterno – quali momenti centrali del trattamento che ne impongono una rivalu-
tazione sia normativa che di organizzazione amministrativa.
A tal fine, una proposta valida potrebbe essere quella di creare, proprio
nell’ambito di questa attività di coordinamento degli Uffici delle due direzioni ge-
nerali, di un’area appositamente dedicata al rapporto dei Dipartimenti con il mon-
do delle imprese.
Tale area (o, mutuando dall’esperienza spagnola, potrebbe ipotizzarsi la cre-
azione di un’Agenzia autonoma vera e propria), vedrebbe inserito al suo interno
personale di formazione prettamente manageriale altamente qualificato che garan-
tirebbe, oltre alla fruizione di competenze specifiche oggi assenti, anche di accor-

108
Organizzazione e amministrazione dell’esecuzione penale

ciare le distanze tra amministrazione e mondo dell’imprenditoria che parlerebbero


finalmente nella stessa lingua.
Si ricorda infatti che, molto spesso, il lavoro, sia all’interno che all’esterno degli
istituti, perde di attrattività per l’impresa soprattutto per la scarsa qualificazione
della manodopera. Tale area, quindi, potrebbe occuparsi, in primis, della forma-
zione professionale magari in coordinamento con il MIUR, in secondo luogo, del
dialogo diretto con le aziende rendendo più snella la burocrazia (unico referente)
ed avendo il personale preposto maggiori cognizioni anche quanto a finanziamenti
ed agevolazioni.
Tale area, ad esempio, potrebbe anche proporre (e gestire) l’utilizzo di spazi
interni al carcere per lo svolgimento di attività produttive, che sarebbe economica-
mente vantaggioso sia per le imprese (che non dovrebbero sopportare i canoni di
locazione) che per l’amministrazione, nonché favorevole per il detenuto in termini
di risocializzazione. Potrebbe predisporre progetti manageriali per le “colonie pe-
nali” che attualmente non sono economicamente autosufficienti, nonostante abbia-
no delle potenzialità enormi. Infatti attualmente la produttività di questi istituti è
bassissima in quanto non vi sono risorse per pagare i detenuti mentre i ricavi della
produzione (che è assolutamente insufficiente a soddisfare le esigenze del merca-
to) vanno a rimpinguare la Cassa delle Ammende. Superando tali diseconomie si
potrebbe aumentare la produzione, consentendo a tutti i detenuti di lavorare, oltre
a realizzare la piena autosufficienza delle case di reclusione. Anche la gestione
della manodopera interna per la manutenzione delle strutture e la gestione delle
mense sarebbe appannaggio di tale area, incrementando ancora una volta il lavoro
intramurario e riducendo gli appalti esterni. Così come potrebbe gestire anche una
sorta di ufficio di collocamento dei lavoratori, detenuti o condannati, creando una
sorta di banca dati “offerta-richiesta”, a seconda delle esigenze di volta in volta pro-
spettate, anche in un’ottica di reinserimento dei soggetti già “trattati”.
Tale area, infine, inserendosi nella suddetta fase di coordinamento tra i due
dipartimenti (direzioni generali per l’esecuzione), potrebbe consentire di superare
finalmente il modello organizzativo fondato sull’unicità della figura dell’assistente
sociale, diminuendo al contempo la mole di lavoro di cui oggi sono gravati gli
UEPE anche in ragione dell’applicazione diffusa del nuovo istituto di messa alla
prova.

109
Finito di stampare anno 2016
presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore Srl.
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