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campobasso
Diritto Commerciale
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
180 pag.
In primo luogo il Campobassinissimo è, in sostanza, il riassunto del riassunto. Se già il buon Mario si era già
prodigato a riassumere gli svariati volumi della suo testo in un solo manuale compatto, utile per tutti coloro
che dovevano apprestarsi allo studio del diritto commerciale e che non frequentassero facoltà di Diritto, la
mia fatica consiste nel riassunto della Sesta Edizione del Manuale di Diritto Commerciale di Mario
Campobasso, il c.d. Campobassino, ed è utile soprattutto a me stesso e –eventualmente- ad altri iscritti a
Tor Vergata alla facoltà di Giurisprudenza. Di qui il nome Campobassinissimo.
Ancora, il Campobassinissimo è il modo con cui io ho studiato e sto studiando per questo esame. Ho preso
da qualche tempo l’abitudine di riassumere col computer i testi degli esami che sto preparando, e se per
esami di minor impatto il lavoro non ha mai richiesto tempo eccedente a quello che avevo calcolato per la
preparazione, per Diritto Commerciale quasi da subito mi sono reso conto che il lavoro sarebbe stato
mastodontico. E così è stato.
La domanda a cui intendo rispondere con questa prefazione però è essenzialmente questa: ma a me –
inteso te che leggi- che cazzo me ne frega? Perché dovrebbe interessarmi il fatto che hai fatto un
megariassunto per preparare Commerciale? Perché penso che il testo che segue possa risultare utile nella
fase della ripetizione di quanto studiato. Ovvero, una volta letto tutto o sottolineato tutto il Campobasso, o
il Campobassino, con questo mio Campobassinissimo sei facilitato nel ripetere. E questo perché nel lavoro
ho seguito queste linee guida:
1. Utilizzo – al massimo delle mie scarse potenzialità – del massimo grado di linguaggio tecnico, di
modo che leggendo ad alta voce il testo si possa in breve tempo apprendere il gergo peculiare della
materia.
2. Utilizzo di altre forme perifrastiche, diverse da quelle spesso ipersintetiche usate dal
Campobassino, di modo che alcuni profili complessi di disciplina possano sembrare più chiari. Più
chiari – ovviamente- per chi ascolta, che sarà l’assistente o il professore, che ne sa già della materia.
E chiarisco questo punto per spiegare che non credo sia fattibile preparare l’esame studiando solo
questo testo.
Buon lavoro,
Terenzio
L’Imprenditore
La nozione
Art 2082 c.c.
Con questa definizione il legislatore codicistico ha inteso tracciare il confine tra la figura dell’imprenditore e
quella del lavoratore autonomo, dato che non vi è motivo di confusione col lavoratore subordinato.
Ancora, la scelta normativa fu quella di delineare i requisiti minimi per l’applicazione dei dispositivi
successivi a 2082 c.c. all’imprenditore, non i requisiti standard. E quindi comprendiamo che questi sono:
Si discute se la liceità dell’attività, lo scopo di lucro e la destinazione al mercato del prodotto siano ulteriori
requisiti minimi.
L’attività produttiva
L’impresa è attività produttiva, ovvero una serie coordinata di atti mirati a generare ricchezza tramite la
trasformazione o lo scambio di beni.
È irrilevante la natura o la quantità di beni oggetto dell’attività. È irrilevante che l’impresa coinvolga anche
godimento di beni preesistenti, tuttavia non può essere mero godimento: non è imprenditore il locatore di
immobili perché non genera utilità economiche. Gli atti di investimento, speculazione, concessione di
finanziamento possono generare attività produttiva, salvo però che ricorrano i requisiti di organizzazione e
professionalità.
È parere pacificamente assurto che l’attività illecita comunque consegua la qualifica di impresa, anche nei
casi in cui il bene oggetto dell’attività sia illecito. E la conseguenza logica è che mentre nemmeno allo
spacciatore può essere negata, ad esempio, la disciplina fallimentare, egli sicuramente non si rivolgerà
all’autorità giudiziaria per tutelare i propri crediti, o per contestare un concorrente sleale.
L’organizzazione
È normale, per un impresa, coinvolgere coordinatamente capitale e lavoro, persone e beni strumentali.
Benché questo rappresenti uno standard, per la nostra nozione di imprenditore è importante comprendere
cosa sia essenziale, piuttosto che normale per conseguire la sopracitata qualifica.
È imprenditore anche chi opera senza coinvolgere prestazioni di lavoro autonomo o subordinato, e
che quindi integri il requisito dell’organizzazione anche la gestione dei propri capitali o della
propria forza lavoro.
Non è necessario che l’impresa coinvolga beni mobili o immobili.
Tuttavia, a parere di Campobasso, non può ritenersi imprenditore chi svolga la sua attività in
completo difetto di eteroorganizzazione: non possono applicarsi le stesse regole al lustrascarpe,
che organizza il proprio lavoro - come tutti facciamo- e l’imprenditore. A deporre a favore di questa
opinione, la nozione di piccolo imprenditore, ovvero dell’impresa organizzata prevalentemente col
lavoro proprio e dei familiari, e la mancanza del requisito dell’organizzazione nella definizione
normativa del lavoratore autonomo ( 2222 c.c.).
In sostanza, non può ritenersi imprenditore chi non superi la soglia della semplice
autoorganizzazione del proprio lavoro.
Ne deriva che questa debba essere condotta con metodo economico, e quindi con modalità che
consentano:
Non è imprenditore quindi l’ente pubblico o colui che commerci beni, eroghi servizi gratuitamente o a
prezzo politico, cioè palesemente insufficiente a coprire i costi.
Ciononostante, non è requisito essenziale dell’impresa lo scopo di lucro dell’attività, sia che sia inteso come
scopo soggettivo, ovvero come movente soggettivo dell’imprenditore, sia che sia oggettivo, ovverosia come
aspirazione alla massimizzazione del ricavo. Un’argomentazione a favore di questa tesi è la qualificazione
unitaria della nozione di impresa, pubblica o privata che sia: di conseguenza, sebbene un ente pubblico
possa perseguire il pareggio di bilancio, non è detto che persegua il profitto.
La professionalità
L’ultimo dei requisiti citati dal legislatore è il carattere professionale dell’attività svolta.
Il carattere della professionalità significa tecnicamente esercizio abituale e non occasionale di una attività
produttiva.
Abitualità tuttavia non significa continuità senza interruzioni: anche le attività stagionali possono
pacificamente qualificarsi come imprese.
Professionalità non implica nemmeno che quella oggetto di analisi sia l’unica attività del soggetto.
Impresa è anche quando l’attività è svolta in funzione di un unico affare, come la costruzione di un edificio.
Assolutamente fuori dal dettato normativo, quindi dai parametri oggettivi, unici idonei a vincolare la
nozione contenuta dell’art 2082 c.c, anche il requisito della destinazione al mercato dei beni e dei servizi
oggetto di attività: i meccanismi di tutela del credito tipici della legge commerciale infatti non possono
essere esclusi a priori in queste ipotesi, ed è ben possibile qualificare come imprenditore chi edifichi un
fabbricato ad uso e consumo personale.
In realtà, l’unica motivazione per il quale i professionisti, anche se effettivamente organizzati con una
struttura complessa, e anche se effettivamente idonei a soddisfare tutti i requisiti testuali dell’art 2082 c.c.,
non siano mai considerati imprenditori, è una libera scelta del legislatore, che al momento della
emanazione del codice era ispirata dalla peculiare considerazione sociale a queste professioni attribuita, e
che ne ha cagionato la previsione di uno specifico statuto loro attribuito dal legislatore dagli artt. 2229-2238
c.c. Conseguenza diretta è quindi l’esonero del professionista dalle conseguenze benefiche dello statuto
Le categorie di Imprenditori
Il codice civile attua una distinzione sulla qualifica di imprenditore, e quindi sulla relativa disciplina, tra
imprenditore agricolo ( 2135 c.c) e imprenditore commerciale ( 2195 c.c.), in base alla tipologia di attività
che svolgono.
L’imprenditore agricolo è assistito da una serie di agevolazioni, come l’esonero dalla tenuta delle scritture
contabili, assoggettamento al fallimento ecc.
L’imprenditore agricolo
L’attività agricola essenziale
La nozione di imprenditore agricolo, precedentemente contenuta nella vecchia formula dell’art. 2135 c.c., è
ora espressa nel disposto del d.lgs. 228/2001, che ha novellato quell’articolo del codice civile.
1. È imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura,
all’allevamento del bestiame e le attività connesse.
2. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli,
quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura.
Le attività agricole possono essere distinte in due grandi categorie: in attività agricole essenziali e attività
agricole per connessione, il cui significato è stato ampliato dalla novella del 2001.
Circa quelle essenziali, nella diatriba precedente a questa nuova formulazione, la dottrina aveva dibattuto
su quanto l’evoluzione storica e tecnologica delle imprese agricole potesse influire sulla loro qualificazione,
e quindi sui vantaggi giuridici conseguenti ( può essere imprenditore agricolo chi coltiva artificialmente o
alleva in batteria?). Il Campobasso optava per l’ipotesi che qualificava come imprenditore commerciale chi
esercitasse attività del tutto sconnesse con il fondo o la terra, come quelle appena citate.
Il decreto del 2001 ha invece preferito la impostazione opposta, e infatti il nuovo 2135 c.c. recita:
1. È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo,
silvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.
2. Per coltivazione del fondo ecc. si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un
ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che
utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.
Quindi rientrano nella nozione di impresa agricola tutte le produzioni di specie vegetali o animali. E quindi
l’imprenditore ittico, la coltivazione di funghi, ma anche l’allevamento in batteria ecc.
Le une e le altre attività possono pacificamente dirsi commerciali, de facto. Ex iure, invece, la scelta del
legislatore è quella di considerarle quali agricole, in virtù della sussistenza di una connessione con
un’attività agricola essenziale. La suddetta connessione deve constare di due requisiti per integrare la
fattispecie di cui all’art 2135 c.c.
La soggettività della connessione: è quindi necessario che il soggetto che esercita tali attività sia già
imprenditore agricolo e che queste siano coerenti con l’attività agricola essenziale. Rimane
imprenditore commerciale chi produce sale e commercializza zucchero.
L’oggettività della connessione, ovverosia è necessario che le attività connesse di cui al comma 3
non prevalgano per rilievo economico su quelle essenziali, in ossequio al criterio della prevalenza
della attività strettamente agricola su quella pseudo-commerciale.
L’imprenditore commerciale
Art. 2195 co.1 c.c.
“È imprenditore commerciale clui che esercita una o più delle seguenti attività:
A me, studente, risulta complessa l’individuazione della ratio di questa norma. Infatti la dottrina è unanime
nel ritenere di carattere non tassativo l’elencazione dell’art.2195, e quindi nel considerare impresa
commerciale qualsiasi attività che non abbia superato il vaglio dell’art 2135 c.c., e che quindi non sia
qualificabile come agricola.
Il piccolo imprenditore
Il secondo criterio civilistico di differenziazione della disciplina degli imprenditori è quello dimensionale.
Infatti il codice civile individua la figura del piccolo imprenditore, in contrapposizione con quello medio-
grande.
Venendo alla disciplina, il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore, mentre
è esonerato da quello dell’imprenditore commerciale:
Non è stato semplice dirimere le controversie sull’individuazione del piccolo imprenditore, stante la
coesistenza della nozione del civilistica ( art 2083 c.c.) e di quella fallimentare ( art 1 co.2 l.fall.). Dal 2007 la
situazione si è notevolmente chiarita, ma è utile discernere le ambiguità ermeneutiche interpretando le
definizioni previgenti.
Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che
esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il proprio lavoro e dei componenti
della famiglia.
L’ultima parte di questa disposizione enuncia una definizione atipica di piccolo imprenditore, ma allo stesso
tempo statuisce il criterio generale d’individuazione della categoria, destinato a valere anche in caso di
sussistenza di una delle tre categorie tipiche. È come se il legislatore avesse tracciato il tratto vincolante
comune di tutti i piccoli imprenditori, la prevalenza del lavoro proprio o familiare, la cui interpretazione
impone che, per aversi piccola impresa:
Rimarrà escluso dalla qualificazione di piccolo imprenditore anche chi investa ingenti capitali in un impresa
unipersonale.
“Sono considerati piccoli imprenditori ( e quindi, come al co.1, non falliscono) gli imprenditori esercenti
un’attività commerciale i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di
ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai
fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti
un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire
novecentomila. In nessun caso sono piccoli imprenditori le società commerciali”
Come è palese, la disciplina fallimentare si poneva nella posizione di cozzare con quella codicistica: la prima
individua il piccolo imprenditore su parametri monetari ( reddito minimo e capitale investito) la seconda
sulla prevalenza del lavoro familiare. Ne conseguiva che ex lege, si doveva considerare piccolo imprenditore
un esercente attività familiare, e quindi esonerarlo dal fallimento, e subito dopo dichiararlo fallito, in
quanto titolare di un reddito superiore al reddito minimo ( 480.000 lire) o perché aveva investito capitale
superiore a 900.000 lire.
Questa antinomia è perdurata circa 3 decadi nel nostro ordinamento commerciale, poiché nel 1974 l’IRPEF
ha sostituito l’imposta sulla ricchezza mobile, ed è decaduto il criterio del reddito dell’imprenditore, per
implicita abrogazione della previsione normativa cui rinviava.
Permaneva in vigore solo la definizione codicistica, con le difficoltà interpretative ad essa correlate, relative
alla poca precisione del criterio della prevalenza familiare, per stabilire quale imprenditore fosse soggetto al
fallimento.
La novella del 2007 è intervenuta per dirimere queste ambiguità giuridica, ponendo criteri quantitativi e
monetari, e tralasciando la definizione normativa di piccolo imprenditore. Il nuovo testo quindi, individua i
parametri dimensionali al di sotto del quale l’impresa non può fallire; i parametri vigenti sono perciò:
a. Aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, un attivo
patrimoniale annuo complessivamente non superiore a euro trecentomila.
b. Aver realizzato, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, ricavi lordi
annui complessivamente non superiori a euro 200.000.
c. Avere un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a 500.000 euro.
Nel solo caso di concorso congiunto di queste tre fattispecie per l’imprenditore, egli sarà esente dalla legge
fallimentare, e l’onere della prova del rispetto di questi requisiti spetta comunque all’operatore economico.
Quindi, a differenza del passato, esistono imprese commerciali di modeste dimensioni esenti dal fallimento.
Con questa novella, è stato poi finalmente definito l’ambito di applicazione di 2085 c.c e quello della legge
fallimentare, il primo rivolto allo scaturirsi degli effetti dello statuto dell’imprenditore commerciale, l’altro
al promanarsi degli effetti della disciplina sul fallimento.
L’impresa artigiana
Anche la l. n.860/1954, il cui contenuto disponeva circa la speciale qualifica di impresa artigiana, all’analisi
delle inefficienze e dei dubbi di costituzionalità che ha sollevato, è risultata soccombente nella storia del
diritto commerciale.
Il motivo di questo giudizio così negativo sulla norma risiede nel fatto che essa affermava di prevalere anche
sula legislazione civilistica e fallimentare, a tutti gli effetti di legge, delineando tra l’altro una disciplina
difficilmente coincidente a quelle sopracitate.
In primo luogo, al fine dell’applicazione della disciplina speciale, il requisito che bisognava soddisfare era
quello della natura artistica o usuale dei beni e dei servizi prodotti, non più la natura prevalentemente
familiare del lavoro svolto.
Ma c’è di più: la sottrazione che consegue alla normativa dal fallimento era ammessa anche per le società
commerciali artigiane, con un grande numero di dipendenti o un ingente capitale investito, in violazione
del principio di prevalenza codicistico.
La legge quadro dell’artigianato del 1985 ha abrogato questa potenziale fonte di ingiustizia, e contiene una
definizione puntuale dell’impresa artigiana basata:
a. Sull’oggetto dell’impresa, che può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche
semilavorati o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune esclusioni e limitazioni.
b. Sul ruolo dell’artigiano nell’impresa, richiedendosi in particolare che egli svolga in misura
prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo.
Anche con la novella del 1985 è stata confermata l’abilitazione delle imprese commerciali a ottenere la
qualifica artigiana.
Il punto chiave, che fa la differenza col passato, della legge quadro sull’artigianato è che la disciplina
speciale che detta per l’impresa artigiana non prevale sulle disposizioni civilistiche sulla piccola impresa, e
ne deriva che potrà essere esente dal fallimento solo l’imprenditore che soddisfi i requisiti di cui agli artt
2083 c.c. e 1 co.2 legge fallimentare.
L’impresa familiare
Con l’art 230 bis c.c. il legislatore è intervenuto al fine di paralizzare frequenti focolai di ingiustizia che si
celavano dietro la struttura degiuridicizzata dell’impresa a gestione familiare. In essa infatti, tutte le
prestazioni si presumevano a titolo gratuito, non sorgevano diritti di nessuna sorta in capo al prestatore di
lavoro: era necessaria una novella che tutelasse la situazione giuridica dei familiari dell’imprenditore.
Infatti, a coloro i quali prestino continuativamente lavoro presso l’impresa familiare sono riconosciuti:
L’impresa societaria
Le società sono le forme associative tipiche previste per l’esercizio collettivo di attività d’impresa e
possiamo preliminarmente evidenziare come il modello della società semplice è utilizzabile solo per le
attività non commerciali, mentre tutti le altre forme societarie ben si adattano ad ogni tipo d’impresa.
Le società diverse da quella semplice si definiscono società commerciali, ed esse, com’è comprensibile in
relazione alla mera configurazione di questo istituto giuridico, sottostanno ad una disciplina disomogenea –
in parte- rispetto allo statuto dell’imprenditore commerciale. Tali regole possiamo così raggrupparle:
Parte dello statuto si applica alla società commerciale qualunque sia il tipo di attività svolta ( ovvero
tenuta delle scritture contabili, obbligo di iscrizione nel registro delle imprese; la disciplina del
fallimento rimane sottoposta ai criteri dimensionali di cui all’art 1 co.2 l.fall.
Nelle società in nome collettivo e in accomandita semplice parte della disciplina dello statuto trova
applicazione solo nei confronti dei soci a responsabilità illimitata.
Lo Stato e gli altri enti pubblici possono servirsi di strumenti di diritto privato, costituendo o
acquistando partecipazioni in società per azioni.
In questo caso, lo statuto dell’imprenditore è applicabile: l’ente si presenta formalmente come una
società.
La P.A. può instituire enti pubblici economici, ovvero enti di diritto pubblico la cui sola funzione è
economica ( Enel,Ferrovie dello Stato ecc.)
Anche questo tipo d’impresa sottosta allo statuto dell’imprenditore commerciale se l’ente è
commerciale, con l’unica deroga in materia di fallimento e delle altre procedure concorsuali, ai
quali si sostituiscono la liquidazione coatta amministrativa o altre procedure speciali.
Lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali possono dar vita a imprese organo, ovvero enti atti a
svolgere attività d’impresa con una più o meno ampia autonomia decisionale e contabile, ma
attraverso cui gli enti suddetti possono direttamente inserirsi sul mercato. ( municipalizzate
dell’acqua, gas ecc.)
L’art 2093 c.c. applica lo statuto dell’imprenditore commerciale e dell’impresa a questi organi,
facendo salve diverse disposizioni di legge, e chiaramente esonerandoli dal fallimento e dalle altre
procedure concorsuali.
Laddove l’attività commerciale sia quella principale dell’ente, è fuori di dubbio che il privato acquisti qualità
d’imprenditore commerciale, ed è quindi pacificamente esposto al fallimento.
Più frequente però, è il caso che l’attività commerciale sia accessoria all’oggetto statutario dell’ente, e in
questo caso il silenzio del codice sull’applicabilità dello statuto a questi enti potrebbe essere foriero di
discussioni. Ma la lacuna non può che essere colmata applicando gli effetti dello statuto anche a queste
forme associative: il tentativo di applicare a questi enti per analogia la disciplina delle imprese-organo
fallisce stante la eccezionalità della legge che li ha instituiti.
L’impresa sociale
Il d.lgs 155/2006 ha introdotto nella legge commerciale un nuovo istituto, di cui da tempo si sentiva
l’esigenza, atto a smussare la disciplina dello statuto dell’imprenditore commerciale verso enti che non
perseguono fini di lucro.
Tutte le organizzazioni private che svolgano in via stabile e principale un’attività economica
finalizzata allo scambio o alla produzione di beni o all’erogazione di servizi di utilità sociale, che
ricadano nei settori tassativamente elencati nel decreto 155/2006 ( assistenza sociale e sanitaria,
educazione, tutela dell’ambiente istruzione e formazione).
L’impresa sociale è inoltre soggetta a regole speciali riguardo gli istituti solitamente applicati
all’imprenditore commerciale:
Ne deriva che quando gli atti d’impresa sono compiuti tramite la rappresentanza, ma anche quando il
rappresentante abbia ampi poteri in merito agli atti d’impresa, imprenditore è il rappresentato. Quindi solo
il rappresentato è, ad esempio, esposto al fallimento.
L’imprenditore occulto
Ovviamente, la realtà economica si confronta quotidianamente con contratti di mandato senza
rappresentanza: è questo il sostrato giuridico dell’impresa tramite interposta persona. In questa categoria,
l’imprenditore palese ( o prestanome) esegue gli atti d’impresa in nome proprio, l’imprenditore indiretto ( o
occulto) invece, non palesandosi agli stakeholders come imprenditore, finanzia, dirige e incassa gli utili
dell’impresa.
Questo espediente è utilizzato per aggirare norme imperative, come il divieto degli impiegati dello stato di
fare impresa, o più in generale per sottrarre il proprio patrimonio dalla responsabilità del rischio d’impresa.
o La rivisitazione della rigidità del principio della spendita del nome, in nome del’idea che nel nostro
ordinamento è scindibile il rapporto potere-responsabilità. E di conseguenza anche l’imprenditore
occulto, in quanto titolare del potere di direzione, è quanto meno coobbligato col prestanome nei
confronti delle obbligazioni da quest’ultimo contratte. In definitiva anche l’imprenditore occulto
acquista la qualifica di imprenditore.
Questa teoria è però smentita dalla disciplina statuita per le società per azioni, in cui è pacifico che i
soci amministratori non siano chiamati dal legislatore a rispondere illimitatamente dei debiti
contratti dall’ente. Nel nostro ordinamento il potere direttivo non è sufficiente a cagionare la
responsabilità e il fallimento.
o La tecnica dell’impresa fiancheggiatrice, il cui meccanismo è abbastanza complesso.
Non di rado accade nella prassi che l’imprenditore occulto socio di comando di un ente eserciti
arbitrariamente i poteri concessigli dalla legge, finanziando la società con prestiti, concedendo
garanzie a suo favore, ingerendo negli affari sociali, dirigendo di fatto la società. In queste ipotesi, la
giurisprudenza, attraverso una fictio iuris, elabora l’esistenza di un’autonoma attività d’impresa ( di
finanziamento e/o gestione) secondo cui chi compie l’abuso dello schermo societario risponde
come titolare di una autonoma impresa commerciale individuale per le obbligazioni da lui stesso
contratte nello svolgimento della suddetta attività ( c.d. fiancheggiatrice); tutto ciò sempre che
ricorrano i requisiti di cui all’art 2082 del codice civile ( organizzazione, sistematicità, metodo
economico).
La tecnica protegge senz’ombra di dubbio i creditori più forti, assistiti da garanzie o fideiussioni, ma
in modo indiretto anche gli stakeholders più deboli, in virtù della disciplina del mandato senza
rappresentanza, secondo cui l’imprenditore palese può rivolgersi a quello occulto per ottenere le
somme dovute ai terzi, e in loro mancanza, provocarne a sua volta il fallimento.
Inizio dell’impresa
La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio del’esercizio dell’attività d’impresa: questo è il
contenuto del principio di effettività. Nulla rileva a questo scopo, l’intenzione di avviare un’impresa o
l’iscrizione del registro delle imprese.
Il fatto che per le società l’interprete non sia vincolato ai requisiti dell’art 2082 c.c. per ottenere la qualifica
di imprenditore, ha fatto ritenere alla dottrina che per le società il principio di cui sopra venisse derogato, e
che l’inizio dell’impresa coincidesse con la costituzione della società. Ma la disomogeneità di disciplina non
trova ragioni nell’ordinamento e nella prassi. Si discute inoltre, se nella fase di organizzazione dell’attività
siano già maturi i tempi per l’acquisto della qualifica di imprenditore: la risposta è affermativa se il numero
e la significatività degli atti manifestino in modo non equivoco l’orientamento dell’attività verso un fine
produttivo ( professionalità). Diverso il discorso per le società, per cui è sufficiente anche un solo atto dal
momento della costituzione per attivare la sussunzione nell’art 2082 c.c. della fattispecie.
Questo era certamente vero per l’imprenditore individuale, per cui a nulla rilevavano gli avvisi e la
pubblicità relativa e che perdeva la qualità d’imprenditore solo con l’effettiva cessazione dell’impresa.
Per le società invece, la giurisprudenza era inamovibile nell’affermare che a rilevare per la perdita della
qualità di imprenditore non era l’effettiva cessazione dell’attività d’impresa, ma la cancellazione dal registro
delle imprese e la definizione dei rapporti correnti. Potevano così rimanere per assurdo in vita e esporsi al
fallimento, in quanto ancora indebitate società già cancellate dal registro delle imprese. Veniva così
tacitamente compressa all’imprenditore individuale la disciplina fallimentare di cui all’art 10, dato che
veniva dichiarato il fallimento anche dopo anni dalla effettiva cessazione dell’attività d’impresa per
l’imprenditore collettivo.
L’intervento della Corte Costituzionale in materia ha posto i prodromi alla risoluzione di questa
irragionevole disparità di trattamento, dichiarando anticostituzionale l’art 10 della l.fall. nella parte in cui
non prevedeva che il termine annuale decorra per le società dal momento della cancellazione dal registro.
Il d.lgs. 5/2006 ha riscritto l’art 10 abrogato, sancendo che tutti gli imprenditori possono essere dichiarati
falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, ma è fatta salva la facoltà per il creditore
o per il p.m. di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività. In sostanza vige una
presunzione relativa circa la cessazione dell’attività d’impresa che coincide con il decorso di un termine
annuale dalla cancellazione del registro, presunzione che può essere vinta dimostrando la diversa datazione
della effettiva cessazione dell’attività.
È possibile tuttavia, che l’esercizio dell’attività d’impresa venga compiuta per conto dell’incapace o
dell’inabilitato dal tutore, dall’amministratore o dal curatore. Il codice non regola l’impresa agricola gestita
per conto di incapace, mentre si sofferma su quella commerciale:
Il codice del ’42 prevedeva l’istituzione di un registro delle imprese quale organico strumento di pubblicità,
ma anche il regime provvisorio in attesa del regolamento attuativo dello stesso. Questo ha ingenerato 50
anni di attesa, nei quali l’iscrizione era obbligatoria presso la cancelleria dei tribunali, e lo era solo per le
società commerciali.
La situazione era più complessa nel ‘69 per l’instituzione del Busarl e del Busc, bollettini ufficiali in cui si
dovevano registrare rispettivamente le società di capitali e quelle cooperative. In aggiunta a ciò, presso le
camere di commercio si teneva il Registro delle Ditte: insomma, il sistema pubblicitario era disorganico e
scoordinato.
Nel 1993 finalmente, con la legge 580, è nato il registro delle imprese, tenuto dalle camere di commercio, e
sono stati soppressi Busarl e Busc. La legge ha introdotto novità alla disciplina concepita nel 1942:
In quella ordinaria, sono iscritti tutti gli imprenditore la cui iscrizione nel registro produce effetti di
pubblicità legale, ovvero quelli commerciali. Sono quindi tenuti:
Nella sezione speciale invece, sono iscritte 6 categorie di imprenditori che tralascio.
Gli atti da registrare sono diversi a seconda della struttura soggettiva dell’impresa e riguardano
essenzialmente:
L’iscrizione può avvenire d’ufficio se l’iscrizione è obbligatoria e l’interessato non vi provvede, ma avviene
su domanda dello stesso in via generale. Può essere disposta anche la cancellazione dal registro, come
sopra sottolineato. La regolarità della domanda di iscrizione viene valutata sul piano formale e sul piano
sostanziale, ovvero sul piano della veridicità e esistenza dell’atto.
Per quanto riguarda gli effetti della pubblicità, abbiamo già visto come l’iscrizione possa produrre effetti di
pubblicità legale - ovvero dichiarativa, costitutiva, normativa- e infine notizia:
Le scritture contabili
L’ordinamento giuridico italiano, sia in ambito civilistico sia in ambito fiscale, prevede l’obbligo di tenuta
delle scritture contabili per alcuni operatori economici.
Esse rappresentano la documentazione che rappresenta in termini quantitativi e monetari i singoli atti
d’impresa manifestando la situazione patrimoniale dell’imprenditore e contabile dell’attività svolta.
La tenuta delle scritture è elevata a obbligo dal codice civile all’art 2214 per le imprese commerciali, ad
eccezione dei piccoli imprenditori, e per le imprese sociali. Ed è in quest’ambito che pervengono i dubbi
sulla genuinità della scelta normativa fiscale di ampliare l’obbligo della contabilità anche a soggetti non
definibili quali aziende, quindi anche ai liberi professionisti.
L’imprenditore che esercita attività commerciale deve tenere il libro giornale e il libro degli inventari.
Deve altresì tenere le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa,
e conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture
ricevute e spedite e le loro copie.
Il comma 2 dell’articolo enuncia il principio generale che nello scegliere cosa registrare o meno,
l’imprenditore scriverà gli atti che lo richiedano dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa, aldilà delle
singole scritture obbligatoriamente poi vincolate.
Il libro giornale è un registro cronologico-analitico, in cui il contabile annota giorno per giorno le operazioni
relative all’esercizio d’impresa. Esse non devono essere scritte né nell’ordine in cui sono state eseguite
durante lo stesso giorno, né devono essere separatamente registrate.
Il libro degli inventari, che è un registro periodico-sistematico, che deve essere redatto all’inizio
dell’esercizio dell’impresa e ogni annualità dello stesso. L’inventario contiene:
Il principio generale dell’art 2214 c.c. impone quindi, nei casi di specie, altri tipi di scritture come il libro
mastro, libro cassa, libro magazzino. Altre scritture contabili obbligatorie, come ricordato, vigono nella
legislazione tributaria.
L’obbligo di numerare i libri contabili pagina per pagina prima di essere messi in uso.
Devono essere tenute secondo le norme di una ordinata contabilità ( art 2219 c.c.), ovvero senza
interlinee, spazi bianchi, abrasioni, in modo leggibile. Oggi si tengono su registri informatici per lo
più.
L’inosservanza di tali obblighi rendono irregolari le scritture contabili e quindi giuridicamente
irrilevanti.
Inoltre, la corrispondenza commerciale di cui all’art 2214 deve essere tenuta per 10 anni ( 2220 c.c.).
L’imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non solo non può utilizzarle come mezzo di
prova a suo favore ( e questo designerebbe il dovere contabile come un onere), ma è assoggettato alle
sanzioni per i reati fallimentari, in caso di dissesto.
Possono sempre essere usate, che siano regolari o meno, come mezzo di prova dei terzi contro
l’imprenditore che le tiene.
Possono essere usate dall’imprenditore contro i terzi col ricorrere di queste tre circostanze:
- Deve trattarsi di scritture regolari.
- La controparte deve essere un imprenditore.
- La controversia sia relativa a rapporti inerenti all’esercizio di impresa.
In ogni caso, l’arbitrio del giudice opera al fine di riconoscere valore probatorio ai libri contabili.
La Rappresentanza Commerciale
Gli ausiliari dell’imprenditore commerciale
Nello svolgimento della propria attività l’imprenditore può rivolgersi a soggetti esterni, di cui si avvale della
collaborazione, e legati a lui tramite un rapporto di lavoro subordinato ( ausiliari interni) o in virtù di altri
tipi di rapporti contrattuali come mandato, agenzia, mediazione ecc. ( ausiliari esterni). In entrambi questi
casi, le parti possono utilizzare a loro favore l’istituto della rappresentanza, ben considerando che in ambito
Gli ausiliari interni sono automaticamente investiti del potere di rappresentanza dell’imprenditore e sono
dotati di una rappresentanza ex lege commisurata al peso rivestito nell’impresa.
L’institore
Art 2203 c.c.
La preposizione può essere limitata all’esercizio di una sede secondaria o di un ramo particolare
dell’impresa.
Se sono preposti più institori, questi possono agire disgiuntamente, salvo che nella procura sia diversamente
disposto.
L’institore è quindi il direttore generale di un’impresa, o di una filiale o di un settore produttivo di essa. Per
l’ipotesi del primo comma, egli è sottoposto solo al potere del titolare, nel secondo, potenzialmente, di altri
institori.
L’institore è investito di un potere di gestione generale dell’impresa, che abbraccia tutte le operazioni cui
questa è preposto.
L’art 2204 c.c. attribuisce poteri di rappresentanza sostanziale e processuale all’institore, i primi
relativamente a tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, salvo quelli che esulino dalla gestione
dell’impresa, come la vendita o l’affitto dell’azienda o l’alienazione o ipoteca dei beni immobili del
preponente, i secondi relativi a tutte le controversie civilistiche circa le obbligazioni contratte nell’esercizio
dell’impresa cui è preposto, rappresentanza sia passiva che attiva ( sia come attore che come convenuto).
I poteri così delineati dal codice possono essere ampliati e limitati dal titolare, ma queste modificazioni
saranno opponibili ai terzi solo se pubblicate nel registro delle imprese, salvo che il titolare provi che i terzi
conoscevano tali modificazioni prima di concludere l’affare. Idem per la revoca della procura.
La responsabilità dell’institore per le obbligazioni da lui contratte è esclusa, salvo che egli abbia omesso al
momento della stipula di rendere il nome del rappresentato. Tuttavia, per questi atti è coobbligato il
titolare se l’institore ha agito in maniera pertinente all’esercizio dell’impresa cui è preposto. ( 2208 c.c.) Con
questa formulazione il legislatore ha scongiurato qualsiasi ipotesi di danno per i terzi in relazione alle
incertezze circa il nome della controparte.
I procuratori
Art 2209 c.c.
È procuratore colui che in base ad un rapporto continuativo ha il potere di compiere per l’imprenditore atti
pertinenti all’esercizio d’impresa, pur non essendo preposti ad esso.
Ancora il procuratore:
Il commesso
I commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive o materiali che li pongono in
contatto con i terzi.
L’art 2210 al comma 2 delinea i confini del potere di rappresentanza del commesso: può agire in nome
dell’imprenditore anche senza procura, ma può compiere solo gli atti che ordinariamente comporta la
specie di operazioni di cui sono incaricati.
L’imprenditore può unilateralmente modificare i suddetti poteri, ma non essendo prevista per questo
ambito una peculiare pubblicità, l’unica limitazione opponibile ai terzi sarà quella conosciuta o facilmente
conoscibile dalla controparte contrattuale.
L’ Azienda
Art 2555 c.c.
L’azienda costituisce quindi nella sua denominazione prettamente giuridica l’apparato strumentale di cui
l’imprenditore si avvale per l’esercizio della propria attività.
Dunque, nella qualificazione di un bene come aziendale o come personale dell’imprenditore, a rilevare sarà
la destinazione impressagli dall’imprenditore, non anche il titolo giuridico che lo legittima all’uso di un tale
bene. Ne deriva che nessun bene verrà qualificato come aziendale se non inserito, in qualche modo, nel
processo produttivo, mentre questa qualifica compete anche a beni non di proprietà dell’impresa, ma
magari detenuti a titolo di leasing o di affitto.
Comprendiamo come l’azienda sia quindi un insieme di beni inseriti dall’imprenditore nel processo
produttivo, collegati da un’unità funzionale.
La qualificazione dei beni suddetti quale azienda è importante perché, ai fini commerciali, il loro valore
complessivo è superiore a quello disgiuntamente considerato: l’azienda è idonea, tramite il requisito
dell’organizzazione dei beni utilizzati, a generare dinamicamente nuovo valore. La differenza tra il valore
sommato dei singoli beni e il valore di scambio complessivo dell’azienda è definita avviamento.
La disciplina codicistica dell’azienda è tutta concentrata nel suo momento dinamico, nella circolazione della
stessa, e appresta numerose tutele ispirate alla finalità di favorire la conservazione dell’avviamento e
dell’unità economica dell’istituto, su cui avevano riposto affidamento gli stakeholders dell’impresa.
La circolazione dell’azienda
L’azienda può essere oggetto di numerosi atti di disposizione da parte del titolare. Tra questi, il titolare può
scegliere di disporre anche di singoli beni aziendali, piuttosto che di tutto il complesso. Questa peculiarità è
impregnata di rilevanza civilistica, perché solo dove il negozio avrà ad oggetto tutta l’azienda prenderanno
vita le tutele degli artt 2556-2562 c.c.
Per parlarsi di trasferimento d’azienda è necessario e sufficiente che venga alienato un insieme di beni
potenzialmente idonei ad essere utilizzato per l’esercizio di un’attività d’impresa, quand’anche il nuovo
titolare sia costretto ad integrare tale complesso con nuovi fattori produttivi. Tuttavia, è necessario che i
beni esclusi dalla negoziazione non alterino l’unità economica e funzionale dell’azienda.
I privati che vogliano realizzare compiutamente un trasferimento d’azienda devono sottostare ad alcune
formalità per regolarizzare il loro contratto:
La vendita dell’azienda
Oltre agli effetti giuridici dedotti in contratto, il trasferimento d’azienda comporta l’applicazione della
disciplina di cui agli artt 2557-2560 c.c.
Divieto di concorrenza
L’art 2557 c.c. statuisce il c.d. divieto di concorrenza, secondo il quale l’alienante un’azienda commerciale,
deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che
possa, per l’oggetto, l’ubicazione o per altre circostanze, sviare la clientela dall’azienda ceduta. Per le
imprese agricole il divieto opera solo per le attività connesse a quella ceduta sempreché sia possibile,
tramite queste, creare concorrenza per il nuovo titolare.
Il divieto è da ritenersi di natura dispositiva e relativa: le parti possono derogarne pattiziamente la durata,
sebbene non oltre i 5 anni sanciti, ma anche la sussistenza. La norma infatti intende tutelare l’avviamento
soggettivo dell’azienda, compreso senz’altro nel prezzo di vendita, e quindi la posizione dell’acquirente, ma
è plausibile che una deroga contrattuale a tale statuizione non cagioni focolai di ingiustizia.
In questi casi è indubbio che non si possa parlare di trasferimento d’azienda, ciononostante in entrambi i
casi si terrà conto del valore di avviamento dell’azienda in sede di divisione o liquidazione. È fondata quindi
l’applicazione del divieto di concorrenza.
c) Vendita dell’intera partecipazione sociale o della quota di controllo di una società di persone o di
capitali.
E in questo caso, il risultato economico della cessione sarà sostanzialmente identico a quello del
trasferimento d’azienda, per cui appare corretto applicare il divieto.
Al comma 1 infatti, è sancito che l’acquirente, se non è pattuito diversamente, subentra in tutti i contratti
stipulati per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale.
Al secondo comma invece, statuisce che i terzi contraenti hanno diritto a recedere, se sussiste una giusta
causa, entro tre mesi dalla notizia della cessione del contratto.
Appare evidente quindi, che il subingresso dell’acquirente nei contratti aziendali opera a prescindere da
una sua esplicitazione contrattuale, anzi, al contrario, non opera solo se pattuito diversamente.
Deroga vistosa alla disciplina del diritto comune civilistico è quella che non subordina il trasferimento della
posizione contrattuale al consenso del terzo ceduto. Infatti, il terzo è tenuto ad eseguire le sue prestazioni
nei confronti del nuovo imprenditore. Della tutela del terzo però v’è traccia al comma due, tuttavia l’onere
della prova circa la giusta causa del recesso sarà a carico del ceduto.
La disciplina non investe i contratti non stipulati per l’esercizio dell’impresa e quelli di carattere personale.
Quindi per la cessione di questi, tornano in auge il consenso del terzo ceduto e l’esplicita pattuizione.
Per quanto riguarda i crediti, la disciplina di diritto comune, ovvero la notifica al debitore della cessione, è
surrogata da una sorta di notifica pubblicitaria collettiva, ovvero l’iscrizione del trasferimento nel registro
delle imprese ( ovviamente ciò è vero solo per le imprese soggette all’iscrizione nel registro con effetto di
pubblicità legale, per le altre, ritorna in vigore 1265 c.c.) Tuttavia, se il debitore paga in buona fede
all’alienante, è liberato.
Per i debiti di lavoro, la tutela del creditore è ancora più solida, perché l’acquirente risponde in solido anche
se non erano iscritti nei libri contabili, e addirittura anche se egli non ne era a conoscenza al momento della
stipula.
Prevale in dottrina l’impostazione, nel silenzio del codice, che per il trasferimento di tali obbligazioni è
necessaria comunque una pattuizione esplicita, e che non operi ex lege il trasferimento, come per i
contratti ineseguiti.
L’usufruttuario deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue. Poi, deve condurre l’azienda
in modo da conservarne l’efficienza e senza modificarne la destinazione economica.
Il potere di gestione dell’usufruttuario gli consente di godere e di disporre dei beni aziendali, che
formalmente sono di proprietà del concedente l’usufrutto.
Al termine del contratto, risulterà una differenza rilevante tra i beni di cui originariamente si componeva
l’azienda e i nuovi. Viene quindi redatto un inventario all’inizio e alla fine del negozio, e la differenza tra le
consistenze viene regolata in denaro. ( comma quarto).
La disciplina è applicata anche al contratto di affitto di azienda, forma negoziale ben diversa dal contratto di
locazione dell’immobile in cui si esercita l’attività, ma non sempre facilmente distinguibili. Il contratto di
affitto d’azienda ha ad oggetto il complesso organizzato dei beni, e, eventualmente, anche l’immobile in cui
questo complesso prende vita.
I Segni Distintivi
L’attività d’impresa comporta l’inserimento in un mercato in cui è fondamentale distinguersi dai
concorrenti, e i tre strumenti giuridici con cui questo meccanismo si realizza sono la ditta, l’insegna e il
marchio.
Assume sempre maggior rilevanza commerciale anche il nome a dominio ( domain name) che individua il
sito internet dell’azienda.
La disciplina dei tre segni distintivi è sparsa in maniera disomogenea tra articoli del codice civile e del codice
di proprietà industriale, tuttavia da essa possiamo ricavare alcuni principi generali, applicabili anche ad altri
segni distintivi atipici, come lo slogan pubblicitario:
1. L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi, tale diritto però ha natura
relativa e strumentale, nel senso che l’imprenditore non può contestare l’utilizzo del segno
distintivo proprio da parte del terzo se quest’ultimo non svia in questo modo la sua clientela.
2. L’imprenditore ha amplia libertà nella scelta dei propri segni, libertà limitata dai limiti di verità,
novità e capacità distintiva.
3. L’imprenditore è abilitato a trasferire i propri segni distintivi, ma l’ordinamento pone sotto
controllo questa negozialità in virtù della tutela dell’affidamento riposto dalla clientela.
La Ditta
La ditta, come già citato, è il nome commerciale dell’imprenditore, lo individua come soggetto di diritto
nell’esercizio dell’attività d’impresa. È un segno distintivo necessario, in mancanza di esso infatti coincide
con il nome civile dell’imprenditore.
L’art 2563 c.c. tuttavia dispone che non è necessario che la ditta assuma lo stesso nome dell’imprenditore:
questa libertà di fatto, tuttavia, è limitata dai due principi di verità e novità.
Il principio di verità, contenuto al comma 2 dell’art 2563 c.c., ha un contenuto assai limitato e soprattutto
multiforme in relazione ad una ditta originaria o a una ditta derivata.
Per ditta originaria si intende quella formata dall’imprenditore che la utilizza, ed essa, in ossequio al
principio di verità, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore. Soddisfatto tale
requisito, l’imprenditore può completare a proprio piacimento la propria ditta.
Per ditta derivata si intende quella formata da un altro imprenditore e successivamente ritrasferita ad un
altro imprenditore. In questo caso, nessun imposizione di rettifica vige in capo agli aventi causa
dell’imprenditore originario; in questo caso, il principio di verità si interpreta come verità storica.
Più consistente dal punto di vista contenutistico è invece il principio della novità, contenuto nell’art 2564.
La ditta infatti, non deve essere uguale o simile a quella utilizzata da un altro imprenditore, o tale da creare
confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata. Perciò, chi ha adottato per
primo una data ditta, ha diritto all’uso esclusivo della stessa. Chi, invece, successivamente, adotti una ditta
simile, potrà essere in ossequio a questo principio tenuto a modificarla o ad integrarla. E ciò quand’anche la
ditta usata per seconda corrisponda al nome civile dell’imprenditore ( c.d. ditta patronimica).
Il co.2 dell’art 2564, in ogni caso, pone il criterio dell’iscrizione nel registro delle imprese quale dirimente le
controversie di questo tipo, e quindi prevarrà sempre l’iscrizione anteriore.
La ditta, come detto, è trasferibile, ma solo insieme all’azienda. ( 2565 c.c.). Se il trasferimento avviene inter
vivos è necessario il consenso dell’alienante. Regola opposta invece vige in caso di successione a causa di
morte: la ditta si trasferisce al successore, salvo diversa disposizione testamentaria.
Il Marchio
Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa. È disciplinato sia dall’ordinamento
nazionale, sia dall’ordinamento comunitario ed internazionale.
Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 c.c, e dal codice della proprietà industriale.
Al marchio nazionale, cui è circoscritta l’esposizione in questa sede si è di recente affiancato il marchio
comunitario, istituito con il regolamento CE 26-2-2009, che consente di ottenere un marchio che produce
gli stessi effetti in tutta l’Unione Europea. Infine, la tutela internazionale del marchio è disciplinata da due
Convenzioni - la Convenzione d’Unione di Parigi del 1883 e l’accordo di Madrid del 1891- sulla registrazione
internazionale dei marchi.
Tali normative, imperniate sull’istituto della registrazione, declinata nelle sue forme, del marchio,
riconoscono al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso, così permettendo che il marchio
assolva la sua funzione di identificazione e differenziazione dei prodotti esistenti sul mercato.
Il marchio, infatti, non è un segno distintivo essenziale, tuttavia per il ruolo che assolve nella moderna
economia industriale è probabilmente il più importante dei segni distintivi. Al marchio infatti,
l’imprenditore affida la funzione di differenziare i prodotti da quelli dei concorrenti. Il cliente, grazie al
marchio, è abilitato a selezionare tra i prodotti similari quello migliore nel rapporto qualità prezzo. Anche in
virtù dell’impiego massivo che ne viene fatto per caratterizzare le campagne pubblicitarie, viene esaltata la
sua capacità di richiamare il pubblico.
È comprensibile, e da tutelare quindi, l’interesse del titolare del marchio a difendere il proprio diritto all’uso
esclusivo sullo stesso.
I tipi di marchio
I marchi in primo luogo si differenziano in relazione alla natura dell’attività svolta dall’azienda.
Il marchio viene innanzitutto utilizzato dal fabbricante del prodotto: si parla infatti di marchio di fabbrica.
Inoltre, il marchio può essere apposto dal commerciante sia esso all’ingrosso o al dettaglio.
L’art 2572 del codice civile quindi abilità un prodotto ad essere oggetto di più marchi, anzi, al commerciante
è vietata la soppressione dei marchi lui antecedentemente apposti.
Il marchio può essere anche apposto da chi eroga un servizio, e la forma tipica con cui le imprese di servizi
appongono il marchio è quella pubblicitaria, essendo posti – i marchi- sulle divise del personale e sul
materiale necessario alla produzione del servizio.
L’imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i prodotti, il c.d. marchio generale, ma può anche
servirsi di più marchi per differenziare i prodotti all’interno della stessa impresa, i c.d. marchi speciali.
Liceità, in quanto il marchio non può contenere segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al
buon costume ( art 14 c.p.i.), non può consistere nell’altrui ritratto senza il consenso
dell’interessato, regola valida anche per il nome o lo pseudonimo di un vip.
Verità, che vieta di inserire nel marchio segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla
provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità di beni o servizi.
Originalità, deve essere ovvero composto in modo da consentire l’individuazione dei prodotti
contrassegnati fra quelli immessi sullo stesso mercato. È vietato quindi l’uso di questo tipo di
marchi, in quanto privi di capacità distintive:
1. Le denominazioni generiche del prodotto o del servizio o la loro figura generica ( es. Gelati
per un gelataio).
2. Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali ( salvo che per i marchi collettivi), e della
provenienza geografica dei prodotti).
3. I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente, come le parole super, extra, lusso.
Il requisito di originalità è in ogni caso rispettato quando le denominazioni o figure generiche non hanno
alcuna relazione col prodotto contraddistinto. Stesso discorso vale per parole straniere descrittive o
generiche la cui traduzione non è nota al consumatore medio italiano ( Cynar o Ginger).
Novità, ovvero diversità nei confronti dei marchi delle imprese nello stesso settore. Tuttavia, ex art
12 del c.p.i., il marchio diventato celebre non può essere replicato neanche per prodotti o servizio
non affini, se chi lo usa trarrebbe indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del
segno distintivo o recherebbe pregiudizio agli stessi.
La conseguenza del difetto di uno dei requisiti comporta la nullità civilistica del marchio, ai sensi dell’art 25
c.p.i, che può anche essere solo relativa al prodotto singolo che non rispetti questi canoni.
Il marchio registrato
Il contenuto del diritto all’uso esclusivo del marchio dipende in modo sostanziale dalla registrazione dello
stesso nell’Ufficio marchi e brevetti, istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico.
Attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso su tutto il territorio
nazionale. L’effetto esclusivo del diritto del titolare si protrae anche su tutti i prodotti che, in fatto,
sono destinati alla stessa clientela, o al soddisfacimento di bisogni identici o complementari. Non
opera nei confronti di prodotti del tutto diversi.
Dal 1992, con il codice della proprietà industriale, il titolare di un marchio registrato
che gode nello Stato di rinomanza può vietare a terzi di utilizzare un marchio
identico o simile anche a prodotti o servizi non affini, quando tale uso consenta di
trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo del marchio o di recare
pregiudizio agli stessi.
Il diritto di esclusiva sul marchio decorre dal momento della presentazione della domanda di
registrazione. Il titolare è quindi tutelato ancor prima di iniziare ad utilizzare il marchio.
La registrazione nazionale abilita a quella internazionale presso l’OMPI di Ginevra e per quella
comunitaria con l’UAMI.
La registrazione nazionale ha durata decennale, rinnovabile tuttavia illimitate volte.
La registrazione quindi assicura una tutela assoluta e perpetua salvo che venga dichiarata la nullità
del marchio per difetto originario di uno dei requisiti essenziali o non sopravvenga una causa di
decadenza ( artt 25, 26 c.p.i.), che può verificarsi per mancato utilizzo quinquennale o per
volgarizzazione del marchio ( il caso di scuola della “Biro”).
La registrazione del marchio assicura tutela civilistica e penalistica. In particolare, il titolare leso del
marchio può esperire l’azione di contraffazione ( art 124 c.p.i.), volta ad ottenere l’inibitoria della
continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione conseguente degli stessi. Ancora,
resta fermo il diritto al risarcimento del danno in capo al titolare se sussistono dolo o colpa nella
condotta abusiva del terzo.
Tuttavia si tratta di una tutela sensibilmente limitata: il codice infatti sancisce che chi ha fatto uso di un
marchio non registrato ha facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei
limiti in cui se ne è avvalso. Ovviamente, la longitudine della tutela sarà parametrata alla notorietà e si
fonderà sull’uso di fatto dell’imprenditore.
La novella più rilevante, tuttavia, riguarda l’espresso riconoscimento normativo dell’ammissibilità della
licenza di marchio non esclusiva. È stato quindi abilitato il mercato a produrre beni o servizi su cui è
apposto lo stesso marchio, ma con provenienze diverse.
In ogni caso, la legislazione commerciale previene e reprime pericoli di inganno, a difesa dell’affidamento
riposto dal consumatore in un marchio, specie nei nuovi contratti di franchising e merchandising. Infatti in
primo luogo dalla licenza non deve derivare errore nei carattere dei prodotti o dei servizi che il
L’insegna
L’insegna è il segno distintivo atto a contraddistinguere i locali dove l’esercizio d’impresa ha luogo.
È disciplinata dall’art 2568 c.c., che essenzialmente rinvia alla disciplina della ditta; perciò non può essere
utilizzata da altro imprenditore concorrente la stessa insegna, e vige il conseguente obbligo di
differenziazione se la duplicazione ingenera confusione nel pubblico.
Come già detto, il codice tace su questa materia, quindi saranno pacificamente applicabili i principi base in
materia di segni distintivi:
L’insegna deve essere lecita ( ovvero non contraria a norme imperative, buon costume, ordine
pubblico.)
Non deve essere suscettiva di trarre in inganno il pubblico e contenere sufficiente capacità
distintiva.
È pacifica la trasferibilità del diritto sull’insegna, e il Campobasso ritiene che il procedimento
analogico da preferire è quello che applica la più libera disciplina del marchio, dato che l’insegna
viene ad identificare elementi pur sempre materiali. Ne consegue che è lecito il couso pattuito
della stessa insegna di due imprenditori, come avviene nei contratti di franchising.
Agli artt. 2575-2583 c.c. e con la legge 633/1941 ( l.aut. è regolato il diritto d’autore, che le opere d’ingegno
formano oggetto: disciplina, tuttavia, più volte modificata per dare attuazione alle direttive comunitarie.
Le invenzioni industriali invece possono formare oggetto, con la disciplina enucleata agli artt 2584-2591,
2592-2594 c.c., e soprattutto dal codice di proprietà industriale.
Il Diritto d’Autore
Art 2575 c.c.
Formano oggetto del diritto di autore le opere d’ingegno di carattere creativo che appartengono alle
scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro, alla cinematografia,
qualunque sia il modo o la forma di espressione.
L’art 2576 c.c. non fa residuare dubbi: il fatto costitutivo della nascita del diritto è la creazione dell’opera.
Tuttavia, è prevista la registrazione dell’opera nel registro pubblico tenuto dalla S.I.A.E., ma la registrazione
ha efficacia dichiarativo.
Questi diritti hanno carattere irrinunciabile e inalienabile, non si perdono con la cessione del diritto
patrimoniale d’autore e possono essere esercitati dagli eredi in caso di morte dell’autore.
Il trasferimento per atto tra vivi deve avere la forma scritta ad probationem può essere definitivo o
temporaneo, e le parti possono utilizzare qualsiasi forma contrattuale, tipica o atipica. In ogni caso, la
prassi, e la l.aut. hanno istituzionalizzato il contratto di edizione e il contratto di rappresentazione e di
esecuzione.
Col contratto di edizione l’autore garantisce in esclusiva ad un editore il diritto di pubblicare per la stampa
l’opera, a spese e per conto dell’editore. L’editore invece si obbliga a stampare l’opera e a corrispondere
all’autore il compenso dedotto in contratto. Il compenso può essere una percentuale sulle vendite o un
forfait, ma il contratto non può eccedere i vent’anni di durata.
Col contratto di rappresentazione e di esecuzione, invece, l’autore cede non in esclusiva, il diritto di
rappresentare in pubblico opere destinate a tale fine. La disciplina del negozio ricalca quella del contratto di
edizione.
Numerose direttive comunitarie e Convenzioni hanno disciplinato, regolato e tutelato il diritto d’autore
anche a livello internazionale.
Le Invenzioni Industriali
Invenzione industriale è idea creativa che attenga al campo della tecnica: consiste quindi nella soluzione
originale di un problema tecnico, suscettibile di pratica applicazione nel settore della produzione di beni o
di servizi.
Non sono considerate invenzioni, e sono quindi escluse dalla tutela civilistica:
Sono escluse dalla tutela quindi le scoperte e i programmi per elaboratore, protetti col diritto d’autore.
Il codice di proprietà industriale descrive anche alcuni requisiti essenziali per la formazione del brevetto,
ovvero la liceità, la novità, l’implicazione di un’attività inventiva, e l’idoneità ad una applicazione industriale.
Tralasciando la ben nota regola di liceità, la novità consegue ad un’invenzione che non è compresa nello
stato della tecnica. L’attività inventiva, invece, consegue ad un’invenzione che per una persona esperta del
ramo, non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica. È invenzione quindi anche un piccolo
progresso tecnico, purché non sia conseguibile da un tecnico medio del ramo facendo ricorso a ordinarie
capacità e conoscenze ( giudizio di non ovvietà). Il carattere dell’industrialità invece consegue alla idoneità
del trovato ad essere riprodotto e fruibile infinite volte.
Il diritto morale, si acquista per il solo fatto dell’invenzione e abilita l’inventore a rivendicare la
paternità dell’opera e trasferire il diritto di conseguire il brevetto.
Il brevetto si consegue tramite un procedimento che si compone di una domanda all’Ufficio brevetti,
corredata a pena di nullità dalla descrizione dell’invenzione, tale che sia sufficientemente chiara per un
persona esperta del ramo da attuare ( art 51 c.p.i.).
Il brevetto dura venti anni di regola, dalla data di deposito della domanda. Può essere dichiarata la nullità
del brevetto o la sua decadenza, ad esempio per difetto di attuazione, e queste evenienze caducano
l’esclusività del diritto prima della scadenza del termine ventennale.
Il diritto patrimoniale si acquista con la registrazione del brevetto e conferisce al suo titolare la
facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarre profitto nel territorio dello Stato. L’esclusiva
comprende la fabbricazione, il commercio e l’importazione dei prodotti cui l’invenzione si riferisce.
Come è palese, l’esclusiva commerciale si estingue con il primo scambio effettuato sul bene: il
primo avente causa può quindi liberamente alienare il prodotto oggetto d’invenzione, salvo che
sussistano motivi legittimi di opposizione da parte del titolare del brevetto.
L’invenzione di procedimento inoltre, concede l’esclusiva delle facoltà sopra citate
solo per prodotti creati con il procedimento brevettato, non con altri metodi,
( salvo che anche il prodotto finale sia oggetto di brevetto).
Quanto al brevetto, è liberamente trasferibile inter vivos e mortis causa. Inoltre, sul brevetto possono
essere costituiti diritti reali di godimento o di garanzia, e può anche essere oggeto di esecuzione forzata e di
espropriazione per pubblica utilità. Ancora, può essere concessa dal titolare la licenza di uso, con o senza
esclusiva per il licenziatario. Ed è proprio lo schema tipico non esclusivo che abilita la grande industria a
abusare economicamente di paesi industrialmente più deboli.
La tutela apprestata si compone di sanzioni civili e penali. In particolare, il titolare del brevetto può esperire
l’azione di contraffazione nei confronti di chi sfrutti l’invenzione abusivamente. La sentenza che accoglie la
domanda del titolare ordina l’inibitoria della fabbricazione e dell’uso del brevetto, inoltre le sanzioni
irrogate all’abusivo – graduate sull’entità della violazione-, sono volte all’eliminazione dal mercato degli
oggetti realizzati illecitamente ( distruzione, sequestro, assegnazione in proprietà al titolare del brevetto).
Resta ferma la disciplina del danno aquiliano e del danno morale.
Come già segnalato, il rilascio del brevetto concede l’esclusiva solo sul territorio dello Stato italiano. Oltre
ad alcune Convenzioni internazionali, per ottenere tutela dell’invenzione anche all’estero, il titolare può
registrare il brevetto unitario europeo. Tale procedura comporta gli stessi effetti giuridici del brevetto
italiano nei paesi dell’Unione Europea aderenti alla cooperazione rafforzata. La giurisdizione è affidata alla
Corte europea unica sui brevetti.
I Modelli Industriali
I modelli industriali sono creazioni intellettuali applicate all’industria, ma di minor rilievo rispetto alle
invenzioni industriali.
I modelli di utilità invece sono nuovi trovati destinati a conferire particolare funzionalità a macchine,
utensili, strumenti o oggetti d’uso.
I disegni e modelli sono invece nuove idee destinate a migliorare l’aspetto dei prodotti industriali o
artigianali ( questo è il campo dell’industrial design).
In sintesi, i modelli industriai costituiscono modificazioni della foggia funzionale o estetica di prodotti.
La tutela dei modelli di utilità si conforma all’istituto della brevettazione, e trova larga applicazione la
disciplina delle invenzioni industriali, chiaramente adattata al minor rilievo di questi trovati.
La più pregna differenziazione riguarda la durata del brevetto, decennale piuttosto che ventennale.
Per i disegni e i modelli invece, il d.lgs 95/2001 ha offerto tutela al ricorrere dei requisiti della novità, che
già conosciamo, e del carattere individuale, che si atteggia come scriminante tra i modelli che suscitano
nell’utente informato un’impressione generale diversa da quella suscitata da modelli simili o meno.
La registrazione ha durata decennale, ma può essere prorogata per periodi di 5 anni fino ad un massimo di
25 anni.
Una delle novelle più rilevanti introdotte dal decreto attuativo è rappresentata dall’ammissione
dell’industrial design alla più ampia tutela prevista per il diritto di autore, quando le opere di design
presentino di per se carattere creativo o valore artistico, come accade per le opere d’arte applicate
all’industria.
Anche per disegni e modelli è prevista la possibilità di registrazione europea, autonoma ed unitaria, estesa
a tutti gli stati membri dell’unione europea. La relativa disciplina è in gran parte coincidente con quella
nazionale, con la importante differenza che il regolamento CE 6/2000 riconosce una tutela anche ai disegni
e modelli non registrati, e al ricorrere dei requisiti di cui sopra, di durata triennale dalla data in cui è stato
divulgato in pubblico la prima volta, tutela che consente di vietare ai terzi l’imitazione pedissequa.
Ora, l’intervento del legislatore è giustappunto mirato ad impedire il formarsi e il perpetuarsi di tali mercati.
Ma è necessario porre dei corollari: innanzitutto, non tutte le concentrazioni e le pratiche limitative della
concorrenza vengono per nuocere. Anzi, spesso la riduzione numerica delle imprese e l’accrescimento di
quelle di grandi dimensioni causa una riduzione di costi che il mercato non sarebbe in grado di assorbire.
Stesso discorso vale per le intese limitative della concorrenza, che ad esempio possono risultare più
efficienti anche per la collettività in un periodo di recessione.
Ed è proprio la ricerca di questo equilibrio tra il sogno della concorrenza pura e la realtà della concorrenza
imperfetta, peraltro molto mutevole da settore a settore, da epoca a epoca, è la linea ispiratrice della
disciplina sulla concorrenza.
Una volta elaborato il disposto dell’art 41 Cost., ovvero il principio della libertà di concorrenza, il legislatore
italiano:
a) Consente limitazioni legali di concorrenza per finalità di utilità sociale ( al comma 3 dell’art 41
Cost.), e anche l’istituzione di monopoli legalizzati in settori di interesse generale ( art 43 Cost.)
b) Consente limitazioni negoziali della concorrenza, subordinandone la validità al rispetto di condizioni
che evitino un radicale sacrificio della libertà di iniziativa economica. ( art 2595 c.c. e l. 287/1990).
c) Assicura, infine, l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli
atti di concorrenza sleale ( 2598-2601 c.c.).
Senza andare nel dettaglio delle regolamentazioni giuridiche, risulta doveroso ricordare che per un lungo
periodo l’Italia ha patito la mancanza di una normativa antimonopolistica. Solo nel 1990 la legge n.287 ha
introdotto norme per la tutela della concorrenza e del mercato. Da menzionare inoltre, il fatto che i Trattati
Istitutivi della Comunità Economica Europea erano direttamente applicabili anche nel nostro ordinamento,
con l’ulteriore corollario, però, che la disciplina corrispondente regolava solo il mercato comune europeo,
nonanche quello italiano.
La Legislazione Antimonopolistica
Il principio cardine accolto in primo luogo dall’Unione Europea con il TFUE nella versione del trattato di
Lisbona, e poi recepito dalla legislazione italiana è il seguente: la libertà di iniziativa economica e la
competizione tra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudichino in modo
rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato.
La legge 287/1990 che è da ritenersi soccombente nel conflitto di specialità con quelle che regolano i settori
dell’editoria e della radiotelevisione, ha istituito un organo pubblico indipendente, l’Autorità Garante della
concorrenza e del mercato, la quale:
È stata ampliata la competenza dell’autorità anche al settore bancario, mentre per i settore delle
assicurazioni l’Autorità garante deve preventivamente sentire l’Ivass.
La disciplina italiana, in ogni caso, ha carattere residuale: non vengono applicate le disposizioni nazionali in
caso di deviazioni della concorrenza di un mercato comunitario.
Le intese
Le intese sono comportamenti concordati tra imprese, anche attraverso organismi comuni come consorzi o
associazioni di imprese, volti a limitare la propria libertà di azione sul mercato. Esempio tipico è l’accordo
sul prezzo o il contingentamento – ovvero l’accordo comune di limitazione- della produzione. Non tutte le
intese sono vietate.
Oggetto del divieto sono solo le intese che abbiano l’oggetto o l’effetto di impedire, restringere o falsare in
maniera consistente il gioco della concorrenza nel mercato o in una sua parte rilevante ( art 2 l. 287/1990).
Escluse dal divieto quindi, risultano essere le intese minori, ovvero quelle che non incidono in modo
rilevante sull’assetto concorrenziale del mercato.
La sanzione civilistica prevista per l’intesa vietata è quella della nullità. E la relativa azione ha legittimazione
assoluta. L’Autorità quindi è incaricata di rimuovere gli effetti anticoncorrenziali promanatisi e irrogare le
ulteriori sanzioni pecuniarie.
L’Autorità ha inoltre la facoltà di concedere esenzioni temporanee dal divieto di intesa, purché si tratti di
intese che migliorano le condizioni di offerta del mercato.
Infine, è vietato nell’ordinamento nazionale, anche l’abuso dello stato di dipendenza economica nel quale si
trova un’impresa cliente o fornitrice rispetto ad altre imprese anche non dominanti: e si intende per abuso
dello stato di dipendenza la situazione in cui un’azienda sia in grado di determinare, nei rapporti
commerciali con la controparte, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. La sanzione per questo patto è
ancora una volta la nullità, e anche per questa fattispecie l’Autorità è abilitata ad irrogare delle sanzioni.
Le concentrazioni
Il terzo ed ultimo fenomeno rilevante è quello delle operazioni di concentrazione tra imprese ( artt 5-7 l.
n.287/1990).
Si ha concentrazione quando:
Due o più imprese si fondono dando luogo ad un’unica impresa. ( concentrazione giuridica).
Due o più imprese, pure restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità economica
( concentrazione economica), nel senso che sono sottoposte ad un controllo unificato della loro
attività.
Due o più imprese indipendenti costituiscono una nuova impresa societaria comune.
Sono quindi numerosi gli strumenti giuridici suscettivi di concentrazione: la fusione, la scissione, l’acquisto
di un’azienda, di una partecipazione azionaria di controllo e così via; il risultato tuttavia è coincidente,
ovvero l’ampliamento della quota di mercato detenuta da un’impresa, realizzato attraverso operazioni che
comportino la riduzione del numero d’imprese presenti sul mercato.
Come per le intese, non sono vietate in assoluto, anzi, possono rappresentare un utile strumento di
ristrutturazione aziendale. Diventano, tuttavia, illecite, quando alterino il regime concorrenziale del
mercato.
Ed è proprio per questo che le operazioni di concentrazione che superino determinate soglie di fatturato
devono essere preventivamente comunicate al’Autorità Nazionale, per l’Italia e alla Commissione europea,
per quelle comunitarie. E dopo la comunicazione, è possibile che le autorità vietino determinate
concentrazioni se comportano abusi di posizione dominante o comunque effetti distortivi per la
concorrenza stabili. L’autorità può anche autorizzare comportamenti per altra guisa vietata, in ossequio ai
criteri generali fissati dal Governo.
Per quanto riguarda la misura delle sanzioni, giungono fino al 10% del fatturato se la concentrazione vietata
viene eseguita comunque.
L’art 43 della Costituzione, addirittura, abilita lo Stato a sopprimere del tutto la libertà di concorrenza
attraverso la costituzione di monopoli pubblici, in settori predeterminati dalla Costituzione, come i servizi
pubblici essenziali o preesistenti monopoli di fatto. Va sottolineato comunque che i monopoli pubblici
tendono a diminuire in numero e mercati, in particolare quelli utilizzati per procurare gettito fiscale, poiché
in contrasto con i principi antimonopolistici nazionali e comunitari.
In ogni caso, che sia pubblico o privato in concessione della P.A., il monopolio, il legislatore si preoccupa di
tutelare l’utente dai possibili abusi del monopolista.
In deroga al principio generale della libertà di contrattare dell’autonomia privata, il legislatore impone un
duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio:
a) L’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni e di soddisfare le richieste che siano
compatibili con i mezzi ordinari dell’impresa.
b) L’obbligo di rispettare la parità di trattamento tra i diversi aventi causa.
Parità di trattamento non coincide con l’unificazione delle condizioni contrattuali per tutti gli utenti, il
monopolista potrà applicare modalità e tariffe differenziate, a patto che tutti possano accedervi se nelle
stesse condizioni del beneficiario preso in esame.
Prima dell’introduzione della legge 287/1990, potevano in sostanza definirsi leciti i patti limitativi della
concorrenza, anche se istitutivi di situazioni di monopolio di fatto, esclusivamente grazie alla soddisfazione
dei requisiti previsti dall’art 2596 c.c.
Classici esempi di patti limitativi della concorrenza i cartelli ed i concorsi anticoncorrenziali, ovverosia
contratti con i quali più imprenditori possono prevedere impegni reciproci come il contingentamento, cioè
l’accordo con cui due produttori si accordano sulle quantità di merci da produrre e quali fette di mercato
destinarsi ( cartelli di contingentamento), oppure si ripartiscono le zone di distribuzione ( cartelli di zona), o
ancora predeterminato i prezzi di vendita da praticare ( cartelli di prezzo). Sono poi ovviamente possibili
combinazioni di questi accordi.
Molto frequenti sono anche le limitazioni della concorrenza inserite in contratti fra produttori e rivenditori,
come concessioni di vendita in esclusiva, somministrazione di merci con imposizione del prezzo di vendita,
o con l’obbligo di non rifornirsi dal altri produttori: queste limitazioni della concorrenza non saranno
investite dal divieto del patto ultraquinquennale.
Tuttavia, resta fermo l’interesse della collettività affinché la competizione si svolga in modo corretto e leale:
di qui, la necessità di discernere tra comportamenti leciti e illeciti dell’imprenditore. E questa necessità
viene soddisfatta dalla disciplina contenuta agli artt. 2598-2601 del codice civile.
1. È vietato agli imprenditori, nello svolgimento della competizione, servirsi di mezzi e tecniche non
conformi ai principi di correttezza professionale ( art. 2598 c.c.). I comportamenti non ossequiosi di
tale regola sono qualificati come atti di concorrenza sleale.
2. Non è necessaria l’imputazione soggettiva degli atti di concorrenza sleale ai fini della loro
repressione: non sono necessari quindi il dolo o la colpa per integrarli.
3. Non è necessario per l’integrazione della fattispecie di concorrenza sleale l’attualità del danno
cagionato: il danno può ben essere potenziale, idoneo a danneggiare il concorrente.
4. Una volta accertato l’atto di concorrenza sleale la colpa si presume.
5. I rimedi tipizzati sono quelli dell’inibitoria alla continuazione degli atti contestati e il diritto al
risarcimento dei danni.
A ben vedere quindi, l’interesse, il bene giuridico tutelato, non è solo quello patrimoniale dell’imprenditore
in concorrenza, ma anche quello dei consumatori a non essere tratti in inganno nelle loro scelte. Il loro è un
interesse però, tutelato solo in via indiretta: legittimati attivi dei rimedi di cui sopra sono solo gli
imprenditori e le associazioni di categoria ai sensi dell’art 2601 c.c.
L’originaria difesa debole del consumatore del codice fascista si è tuttavia evoluta nel tempo, anche
attraverso la creazione di istituti di giustizia privata, come il Giurì di autodisciplina, che è foro competente
per gli imprenditori che abbiano aderito al Codice di autodisciplina pubblicitaria. Anche lo stato nel 1992 ha
adottato un decreto legislativo idoneo a regolare la pubblicità ingannevole e comparativa, poi sostituito nel
2007: è stato infatti emanato il codice del consumo, lo strumento codificato di difesa della libera scelta del
consumatore.
1. L’atto di confusione.
È atto di concorrenza sleale qualsiasi ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con
l’attività di un concorrente.
E le modalità che il legislatore individua con cui può prodursi un atto di confusione sono:
a) L’uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi
legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti.
“ Con il contratto di consorzio più imprenditori costituiscono un’organizzazione comune per la disciplina e
per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese.”
Nonostante le differenze nette di giudizio espresso dal legislatore, le due entità sono disciplinate in modo
uniforme. Ma ai fini civilistici, è rilevante l’ulteriore differenza tra:
Consorzi con attività interna, il cui scopo si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci tra i
consorziati.
Consorzi con attività esterna, nei quali le parti prevedono l’istituzione di un ufficio comune ai sensi
dell’art 2612 c.c., il quale è destinato a svolgere attività con i terzi nell’interesse delle imprese
consorziate.
Il contratto di consorzio
Capacità giuridica di stipulare contratti consortili è relegata ai soli imprenditori, come è ovvio. Tuttavia, il
principio è spesso derogato dalla legislazione speciale di ausilio,che abilita anche gli enti pubblici o privati di
ricerca a stipulare.
La forma è quella scritta sotto pena di nullità ( art. 2603 c.c. co.1).
Il secondo comma dello stesso articolo prescrive invece le parti essenziali del contratto di consorzio, ovvero
la determinazione dell’oggetto, degli obblighi assunti dalle parti, i contributi in denaro da queste dovuti.
Il terzo comma statuisce che se si tratta di contratto di contingentamento, questo deve espressamente
stabilire le quote di produzione delle imprese coinvolte.
L’art 2604 c.c. stabilisce che, sussidiariamente, il contratto ha durata decennale, ma questa può
liberamente essere pattuita dalle parti. E diviene quindi, ancora una volta, controverso, il conflitto con l’art
2596 c.c. che impone la durata quinquennale ai patti limitativi della concorrenza.
È un contratto aperto, ma l’adesione di altre imprese richiede il consenso di tutti gli stipulanti e le
condizioni di ammissione nel contratto devono essere stabilite preliminarmente nello stesso. Inoltre, il
trasferimento d’azienda comporta l’automatico subingresso dell’acquirente del contratto, fatta salva la
facoltà di esclusione dello stesso se sussiste giusta causa.
Il contratto può sciogliersi limitatamente ad una sola parte del contratto tramite recesso unilaterale o
esclusione, tra le cui cause tipiche c’è l’inadempimento degli obblighi consortili. Diverso è lo scioglimento
del consorzio, di cui all’art 2611 c.c., che quando sussiste giusta causa è abilitato tramite delibera
maggioritaria dei consorziati, quando difetta, tramite l’unanimità.
La disciplina legislativa sull’organizzazione del consorzio è scarna, e obbliga solo alla costituzione di un
organo composto da tutti i consorziati – l’assemblea- e di uno con funzioni gestorie ed esecutive ( l’organo
direttivo).
Poi, è più nel dettaglio chiarita la composizione dell’organo direttivo: il contratto deve indicare le persone a
cui è attribuita la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio. Le persone che hanno la
direzione devono annualmente redigere la situazione patrimoniale del consorzio.
Con 2614 c.c. è stabilita l’obbligatorietà della formazione di un fondo consortile, costituito dai contributi
iniziali e successivi dei consorziati e dai beni acquistati con tale denaro. Questo fondo gode di autonomia
patrimoniale, nel senso che è aggredibile solo dai creditori del consorzio, non anche da quelli dei
consorziati.
L’art 2615 c.c. separa le obbligazioni contratte in nome del consorzio e dei singoli consorziati: per le prime
vale il principio dell’autonomia patrimoniale di cui sopra, per le seconde, rispondono solidalmente
consorzio e consorziati.
Le società consortili
La società e il consorzio rappresentano istituti completamente diversi quando il consorzio svolge
esclusivamente attività interna. Difetta, in tal caso, il requisito dell’esercizio in comune di un’attività di
impresa, necessario all’integrazione del modello societario.
Il discrimine è tuttavia meno netto quando il consorzio svolge attività esterna, perché entrambi gli istituti
sono caratterizzati dal normale carattere imprenditoriale dell’attività svolta e dal perseguimento di un
interesse economico, di uno scopo egoistico, ed è proprio dalle diverse sfaccettature che questa finalità
assume che denotiamo la differenza tra i modelli giuridici.
Lo scopo della società di persone o di capitali è quello di acquistare merci sul mercato, e dalla loro rivendita
ricavare utili da dividere tra i soci, c.d. scopo lucrativo. Lo scopo consortile, invece, è quello di conseguire un
vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive economie, sotto la forma dei minori costi da sopportare o dei
maggiori ricavi da conseguire. Tutto questo è vero, è la regola, ma può essere derogata, nel senso che
anche i consorzi possono svolgere attività lucrativa, ma la distribuzione degli utili così conseguita è
sottoposta a regole analoghe a quelle delle società cooperative. Lo scopo consortile è quindi affine quello
mutualistico delle società cooperative.
Tuttavia, la mutualità consortile si differenzia da quella delle cooperative: è tipico infatti nel consorzio
l’interesse a migliorare l’efficienza e la capacità di profitto delle imprese preesistenti.
Con la novella del 1976 è stato esplicitamente consentito ai consorzi di perseguire finalità consentite alle
società lucrative, ai sensi dell’art. 2615 ter c.c., e quindi di assumere come oggetto sociale uno di quelli
dell’art 2602 c.c.: nasceva così l’istituto della società consortili.
Quindi gli imprenditori che danno vita alla società consortile dispongono di alcune facoltà tipiche della
disciplina del consorzio, come la pattuizione dell’obbligo in capo agli imprenditori di versare un contributo
periodico e la possibilità di escludere del tutto la distribuzione degli utili tra i soci.
La Società
La legislazione nazionale pone a disposizione dei privati ben 8 tipi di società, cui è relegata una differente
disciplina specifica:
Società semplice.
Società in nome collettivo.
Società in accomandita semplice.
E queste vengono comunemente definite come società di persone.
Società per azioni.
Società in accomandita per azioni.
Società a responsabilità limitata.
E queste vengono denominate società di capitali.
La società cooperativa.
La mutua assicuratrice.
A questi tipi sono stati di recente affiancati la società europea e la società cooperativa europea.
Fino al 1993 questa era la nozione non solo del contratto di società, ma della società stessa, stante la
previgente impossibilità di costituire società unipersonali: possibilità oggi prevista per le S.r.l. e per le S.p.a.
Venendo all’ermeneutica del disposto, le società sono quindi enti associativi a base contrattuale che si
caratterizzano per:
Ed è proprio la soddisfazione di questi requisiti che consente di distinguere una società da altri fenomeni
associativi.
Il conferimento
I conferimenti rappresentano le prestazioni cui le parti del contratto di società si obbligano al fine di
contribuire alla formazione di un patrimonio iniziale della società, al fine di dotare la società di un capitale
di rischio iniziale.
È essenziale che tutti i soci si obblighino al conferimento: tuttavia, non vi sono restrizioni sull’oggetto di
questi conferimenti. La locuzione “beni e servizi” è così ampia da ricomprendere qualsiasi entità suscettibile
di valutazione economica, da denaro, a immobili, a prestazioni in natura o lavorative.
Esso costituisce la principale garanzia dei creditori della società: garanzia che diviene esclusiva, se si tratta
di un tipo di società nel quale per le obbligazioni risponde solo il patrimonio sociale.
Diversa da quella di patrimonio sociale è la definizione del capitale sociale – o capitale sociale nominale-.
Questa è una cifra che rappresenta il valore in denaro dei conferimenti quale risulta dall’atto costitutivo
della società. E quindi al momento della costituzione della società, i soci si sono obbligati a conferire
denaro, beni, servizi che in quel momento storico avevano il valore monetario pattuito.
Il capitale sociale nominale rimane immutato nel corso della vita della società, salvo che non se decida
l’aumento con la modifica dell’atto costitutivo: è quindi un valore storico, che assolve essenzialmente due
funzioni: una vincolistica e una organizzativa.
Funzione vincolistica: il capitale nominale sociale, o meglio il suo ammontare, vincolano i soci a
mantenere costante il valore delle attività patrimoniali che si sono impegnati a non distrarre
dall’attività d’impresa, quand’anche la società non abbia nemmeno un debito da adempiere.
Di qui ne traiamo che il capitale sociale è la quota ideale del patrimonio netto non distribuibile
tramite i dividendi, il c.d. capitale reale.
È palese come la funzione vincolistica conferisca effetti anche in termini di garanzia patrimoniale: i
creditori potranno sempre contare su una quota eccedente le passività su cui soddisfarsi.
La funzione organizzativa, invece, si atteggia nell’ottica che, utilizzando il capitale sociale come
termine di riferimento, per il bilancio di esercizio, si accerta se la società ha conseguito utili o subito
perdite. Utile vi è quando le attività superano le passività aumentate del capitale sociale, vi è
perdita se le passività più il capitale sociale superano le attività.
Inoltre, la funzione organizzativa è espressa anche dal fatto che il capitale sociale è la base di
misurazione di alcune situazioni soggettive dei soci, come il diritto di voto, agli utili e alla
liquidazione, spettanti in misura proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritto.
L’oggetto sociale invece, è la specifica attività che i soci si propongono di svolgere, e consiste nell’attività
intesa come serie coordinata di atti e nel’attività economica: in sintesi, consiste nell’attività d’impresa.
Innanzitutto, l’oggetto sociale non può consistere nel mero godimento di beni: quello è il regime tipico della
comunione ( art 1100 ss. c.c.), con la differenza sostanziale che la comunione non gode dell’autonomia
patrimoniale perfetta. La regola non deve essere assolutizzata tuttavia: non sono vietate le società che
hanno come oggetto sociale il godimento di beni e la produzione di beni e servizi, simultaneamente. Sono
certamente illegittime le società immobiliari di comodo, ovvero le società che hanno come patrimonio
attivo il conferimento di immobili dei soci e li concedono in locazione senza erogare servizi collaterali. Non è
Teniamo distinte dalle vere società di professionisti alcuni fenomeni contigui, legittimati dal legislatore
nemmeno in passato:
Le società di mezzi, con le quali due o più professionisti si associano al fine di acquisire e gestire in
comune i beni strumentali all’esercizio individuale della propria impresa, al fine di dividersi le spese
di studio. È pacifico che l’oggetto sociale di queste imprese è commerciale, non intellettuale, quindi
è lecito.
Le società di servizi imprenditoriali, che offrono sul mercato un servizio complesso, per la cui
realizzazione sono necessarie prestazioni personali dei soci o dei terzi. Prestazioni che hanno
carattere strumentale lontano da quelle intellettuali dei professionisti.
Le società di ingegneria, che offrono sul mercato progettazione, ma anche realizzazione e vendita di
apparecchiature industriali. Anche qui, l’illegittimità era scongiurata dal fatto che l’attività di
progettazione non era esclusivo oggetto sociale dell’ente.
Veniamo ora ai dati normativi circa le vere e proprie società di professionisti, le società aventi come
unico ed esclusivo oggetto sociale lo svolgimento in comune dell’attività professionale ai soci stessi
riservata dalla legge.
La legge n.1815/1939 vietava qualsiasi esercizio associato dell’attività d’impresa al di fuori da quello
previsto dell’art 1 della stessa novella, che abilitava il professionista ad utilizzare solo il nome di studio
tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario nei rapporti con i terzi.
La legge 266/1997 ha abrogato l’art 2 della legge sopracitata, ma i principi derivanti dal codice civile
sulle professioni intellettuali comunque mal si conciliavano con l’esercizio associato delle stesse, stante
la vincolatività dell’art 2232 che impone lo svolgimento personale degli incarichi assunti, fatta salva la
possibilità di utilizzare assistenti e ausiliari, irresponsabili e eterodiretti.
Infine, la legge 183/2011 ha infine, con l’art 10, risolto la questione introducendo una disciplina
generale della società di professionisti, che possiamo così riassumere:
La legge in analisi ha abrogato la legge 1815/1939, ma ha fatto salve le associazioni professionali e i modelli
societari già in vigore. Rimangono in vita quindi gli “studi professionali”.
La finalità tipica di una società di persone o di capitali si manifesta però nel c.d. scopo di lucro ( o di
profitto), ovvero quello di svolgere attività d’impresa con terzi al fine di conseguire utili – e questo è la
componente oggettiva del profitto- e quindi di dividerli tra i soci – la componente soggettiva del lucro.
Le società cooperative invece si caratterizzano proprio per il fatto che lo scopo fine loro prescritto per legge
( art. 2511 e 2515 c.c.) è lo scopo mutualistico, ovvero quello di fornire direttamente ai soci beni, servizi,
occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle reperibili sul mercato. Quindi, queste società
operano comunque con metodo economico per la realizzazione di un vantaggio patrimoniale diretto per i
soci, ciononostante, non le è precluso operare per conseguire utili.
Viene ancora alla nostra attenzione lo scopo consortile, che può essere adottato da qualsiasi modello
societario, fatta salva la società semplice, e si atteggia per il conseguimento di un vantaggio patrimoniale
per i consorziati – come la sopportazione di costi minori o il conseguimento di utili maggiori-, differendo
tuttavia dalle lucrative in quanto non è necessario che consista in uno scopo di lucro in senso proprio,
soggettivo ( non è obbligatoria la divisione degli utili).
In conclusione, le società possono dividersi in lucrative, mutualistiche e consortili in relazione allo scopo che
perseguono. Inoltre, da menzionare, è il fatto che tratto comune a tutti i modelli societari è l’egoismo,
ovverosia il fatto che i vari vantaggi patrimoniali che derivano dall’ente societario si autodestinano ai soci.
Nel nostro ordinamento, oltre tutto, nella legislazione speciale rinveniamo alcune fattispecie regolanti
modelli societari privi di scopo di lucro oggettivo e/o soggettivo, come in passato le partecipate dallo Stato
o oggigiorno le società per la gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari. Sono tuttavia,
queste norme, di natura eccezionale e non se ne può desumere l’esistenza di società prive di scopo di lucro
al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.
I tipi di Società
Innanzitutto, le società si suddividono in relazione allo scopo che perseguono, e l’abbiamo visto il paragrafo
precedente.
Autonomia patrimoniale e personalità giuridica sono tecniche legislative diverse atte alla medesima finalità:
attribuire tutela di diritto privato e incentivazione allo sviluppo delle imprese societarie, che si atteggiano:
Attribuendo la prelazione ai creditori sociali sul patrimonio societario. E quindi ingenerando una
garanzia patrimoniale solida per chi eroga finanziamenti allo sviluppo societario.
Attribuendo ai soci la possibilità di limitare la quota del patrimonio arrischiato nell’esercizio
dell’imprese alla propria volontà, ponendo un diaframma tra il proprio patrimonio personale e
l’aggressione dei creditori sociali.
Nelle società di capitali quindi, il conferimento legislativo della personalità giuridica comporta una
piena e perfetta autonomia patrimoniale e quindi sono trattate come distinti soggetti di diritto. Il
patrimonio sociale e dei soci sono entità separate.
I creditori personali dei soci non possono aggredire il patrimonio della società per soddisfare il
loro credito.
Possono quindi rifarsi solo sugli utili spettanti al socio debitore e compiere atti conservativi
sulla quota di liquidazione ad egli spettante. Questo principio è derogato per le società
Ne traiamo che il patrimonio sociale è relativamente autonomo, in questi casi, rispetto a quello dei soci.
È orientamento diffuso, tra l’altro, quello che anche le società di persone, benché formalmente prive della
personalità giuridica, costituiscano soggetti di diritto autonomi rispetto alle persone dei soci. Abbastanza
idoneo a fugare i dubbi in materia è il disposto dell’art 2659 del codice civile, che statuisce che la
trascrizione degli acquisti immobiliari, è effettuata al nome delle società ( ragione sociale) anche per le
società di persone. Ne deriva che:
Ultronee limitazioni attengono a determinati esercizi d’impresa come quello bancario o quello assicurativo.
La scelta del tipo di società non è affatto condizione necessaria alla validità del contratto sociale: non lo è
senz’altro per le società non commerciali, laddove in via residuale il modello prescelto è quello della società
semplice.
Per le società commerciali, il silenzio sul tipo societario scelto comporta l’applicazione della disciplina della
società in nome collettivo.
Le parti, in completo ossequio dell’art 1322 c.c., possono inserire anche clausole contrattuali atipiche nel
contratto societario, a condizione che queste non siano incompatibili con la disciplina del tipo scelto e che
siano inserite nell’atto costitutivo.
È da considerarsi invece tassativo l’elenco degli 8 modelli societari: non è lecito, quindi, crearne uno
completamente inconsueto o stravagante.
La Società di Persone
La società semplice può svolgere solo attività non commerciale, ed è disciplinata dali articoli 2251 a 2290
del codice civile, oltre ad essere il modello residuale se i soci hanno deciso di intraprendere un’attività non
commerciale.
La società in nome collettivo è un tipo societario idoneo a svolgere sia l’attività commerciale che altro, è
soggetta all’iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, tutti i soci rispondono
illimitatamente per le obbligazioni sociali ed è vietato il patto contrario ( art 2291-2312 c.c.).è necessaria la
qualificazione pattizia delle parti di questo contratto solo se l’attività non è commerciale, in caso contrario
rappresenta la categoria residuale.
La società in accomandita semplice diverge da quella in nome collettivo per la presenza di due categorie di
soci, gli accomandanti e gli accomandatari, i primi responsabili per la quota conferita, i secondi
illimitatamente.
La società semplice riveste un ruolo molto peculiare in questa disciplina. Benché le disposizioni ad essa
relative siano applicabili anche alle altre società di persone, essa non ha quasi mai avuto diffusione nel
mondo dell’impresa: persino le società agricole, le uniche abilitate a rivestirsi di questa figura tipica,
preferiscono adottare il modello della società di capitali o cooperativa.
Ciononostante, con la novella del 1993, anche la società semplice è soggetta alla registrazione nel registro
delle imprese, per finalità di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, e infine con la novella del 2001,
anche la registrazione delle società semplici agricole ha effetti di pubblicità legale.
In ogni caso, il contratto di società semplice può essere concluso anche verbalmente o per fatti concludenti
( società di fatto), e gli eventuali silenzi delle parti vengono colmati da norme suppletive del codice civile.
La disciplina della società collettiva non è del tutto dissimile: sono previste alcune regole di forma e di
contenuto per l’atto costitutivo, ma queste sono necessarie solo a finalità dell’iscrizione della società nel
registro delle imprese. Questa iscrizione, per le società in nome collettivo, non è elevata a condizione di
esistenza dell’ente, ma di regolarità, nel senso che la società in nome collettivo non iscritta è definita
irregolare e gli si applicano regole differenti da quella regolare, iscritta, – meno favorevoli per i soci. La
disciplina della società collettiva irregolare è la medesima sia che si tratti di società di fatto ( su cui è stato
omesso l’atto costitutivo) sia che si tratti di società irregolare in senso proprio ( in cui l’atto è stato redatto
ma non è stato registrato).
L’atto costitutivo della società in nome collettivo, secondo le disposizioni codicistiche deve essere redatto
per atto pubblico o per scrittura privata autenticata. Deve inoltre contenere:
Tutti questi precetti sono vincolanti, ovviamente, solo per l’atto costitutivo della società collettiva regolare.
Non sono requisiti essenziali quelli di cui al punto 3 e 8, perché suppliti da altre norme di legge.
Ovviamente, l’informalità prevista per questi modelli societari incontra il limite della formalità relativa alla
circolazione dei beni conferiti ( ha la forma scritta sotto pena di nullità il conferimento in proprietà di beni
immobili). Nullo però, sarà in questa ipotesi solo il conferimento, non il contratto di società, salvo che il
conferimento sia essenziale al contratto.
La società di fatto commerciale è esposta al fallimento come ogni imprenditore commerciale, e con lei tutti
i soci, che siano palesi, e quindi noti al momento della dichiarazione di fallimento, ma anche ai soci occulti,
la cui esistenza è stata successivamente scoperta ( art. 147 l.fall.).
L’esteriorizzazione della qualità di socio non è quindi affatto necessaria: l’aver tenuto celata la propria
partecipazione non abilita all’esonero dalla responsabilità per le obbligazioni sociali e per il fallimento.
La società Occulta
La società occulta è quella costituita con l’espressa e comune volontà dei soci di non rivelarne l’esistenza ai
terzi. Indifferente che ci sia o non ci sia un atto costitutivo occulto, l’attività d’impresa è svolta per conto
della società, ma senza spenderne il nome. La società esiste ma non viene resa nota ai terzi, si presenta a
questi come un’impresa individuale di uno dei soci, che opera in nome proprio.
La giurisprudenza e parte della dottrina da tempo si esprimono in questo senso per contrastare questo
fenomeno: la mancata esteriorizzazione della società occulta non impedisce ai terzi di invocare la
responsabilità della stessa se viene successivamente scoperta. È necessario e sufficiente che i terzi, a
posteriori provino l’esistenza del contratto di società e che gli atti posti in essere dall’imprenditore
individuale siano in realtà riferiti a questa società occulta. Perciò, una volta accertato, anche tramite
presunzioni, che esiste una società tra il fallito e gli altri soggetti interessati alla sua attività d’impresa, il
fallimento si estende a questi ultimi. La regola è stata recepita dalla legge fallimentare al comma 5 dell’art
147.
In sostanza quindi, è equiparata la posizione del socio occulto di società palese e il socio occulto di società
occulta, ma solo sul piano fallimentare. Infatti, sotto altri aspetti, la società palese col socio occulto opera
certamente in nome e per conto della società stessa, nella società occulta un solo socio opera in nome
proprio - come mandatario senza rappresentanza- e ai sensi dell’art 1705 c.c., formalmente solo a lui sono
imputabili gli effetti dell’attività che svolge anche per i soci occulti. Su quest’ultimo aspetto sono in
contrapposizione due teorie:
La teoria del criterio formale della spendita del nome, per cui è vero quanto affermato nel
paragrafo precedente, e quindi è norma eccezionale quella fallimentare che estende il fallimento ai
soci di società occulta.
La teoria del criterio sostanziale della titolarità dell’interesse, secondo la quale i soci di società
occulta sarebbero responsabili delle obbligazioni contratte dal mandatario già da prima del
fallimento.
Nonostante abbracciamo la prima teoria, non rimane sprovvisto di tutela il creditore della società occulta,
ma può agire contro l’imprenditore individuale che agirà a sua volta con un actio mandati contraria, in virtù
dell’art 1719 c.c., nei confronti dei soci della società occulta per farsi somministrare i mezzi necessari per
l’esecuzione del mandato o per l’adempimento delle obbligazioni contratte.
La società apparente
La giurisprudenza si muove sempre nell’ottica di coinvolgere più soggetti possibile nel fallimento
dell’imprenditore, tuttavia il convincimento soggettivo che dietro quell’imprenditore ci sia una società del
giudice di merito può non essere sorretto dagli argomenti probatori che abbiamo segnalato al capitolo
precedente.
Ecco che viene in soccorso del nostro giudice di merito il c.d. principio dell’apparenza, in virtù del quale:
sebbene una società non esiste nei rapporti tra i presunti soci, deve considerarsi esistente
all’esterno quando i due o più soggetti operino in modo da ingenerare nei terzi la ragionevole
opinione che essi agiscono come soci e quindi da determinare in essi l’incolpevole affidamento circa
l’esistenza effettiva della società.
In tal guisa, gli imprenditori non possono eccepire l’inesistenza della società e il fallimento si estende a
tutti loro come in una società di fatto realmente esistente anche nei rapporti interni.
Questa impostazione giurisprudenziale non è condivisa dal Campobasso, che ci tiene però a sottolineare
che il problema non è quello dell’autonoma validità concettuale del principio di apparenza – peraltro
La determinazione convenzionale del conferimento di ciascun socio non è condizione essenziale per la
costituzione della società: se manca, viene supplita dall’art 2253 co.2, secondo cui i soci si obbligano a
conferire in parti uguali tra loro quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale.
A differenza della società di capitali, non c’è discriminazione sui beni conferibili: può essere conferita
qualsiasi entità suscettibile di valutazione economica, qualsiasi prestazione di dare, fare o non fare.
Per il conferimento di beni in proprietà, il codice sancisce che la garanzia dovuta dal socio e la traslazione
del rischio sono regolati dalle norme sulla vendita, ai sensi dell’art 2254 co.1, e quindi è tenuto alla garanzia
per evizione e per vizi. Sul socio grava il rischio del perimento per caso fortuito della cosa prima del
momento del passaggio in proprietà alla società, in ossequio al principio consensualistico e quindi alla
regola del res perit domino.
Per le cose trasferite in godimento, il rischio resta a carico del socio che le ha conferite ( art 2254, co. 2).
Quest’ultimo potrà quindi essere escluso dalla società se i beni conferiti periscono per causa non
imputabile agli amministratori.
Nel caso vengano conferiti crediti, il socio risponde nei confronti della società dell’insolvenza del debitore
ceduto nei limiti del valore assegnato al suo conferimento.
Inoltre, il socio può anche conferire l’obbligo di prestare la propria attività lavorativa a favore della società:
è il c.d. socio d’opera. Egli non è un subordinato, il compenso del suo lavoro è determinato dalla
redistribuzione degli utili sociali: corre quindi il rischio di lavorare invano, e inoltre corre il rischio di essere
escluso dalla società per la sopravvenuta inidoneità a svolgere la prestazione dovuta. ( 2286 co.2 c.c.).
Nella società semplice difetta completamente una disciplina del capitale sociale, il che si spiega
probabilmente nel fatto che società semplice significa impresa non commerciale, che significa esonero dalla
tenuta delle scritture contabili e dalla redazione del bilancio.
Nella società in nome collettivo invece esiste una disciplina, seppure frammentata:
è prescritto che l’atto costitutivo contenga indichi i conferimenti dei soci e il valore loro attributo e
il modo di valutazione ( art 2295 n.6).
è vietata la ripartizione di utili fittizi, ovverosia somme che non eccedano il patrimonio netto, ai
sensi dell’art 2303 c.c.
l’art 2306 c.c. invece vieta gli amministratori di rimborsare ai soci i conferimenti eseguiti o di
liberarli da obblighi di versamento in assenza di una riduzione del capitale sociale, che rappresenta,
Il solo limite alla autonomia privata è posta dal divieto del patto leonino, che consiste:
è nullo il patto con cui uno o più soci sono esclusi dalla partecipazione agli utili e alle perdite ( 2256
c.c.). E devono considerarsi nulli anche criteri di ripartizione che determinino l’esclusione
sostanziale del socio.
Nullo è il singolo patto leonino, e ad esso si sostituisce suppletivamente il disposto del codice civile, quindi
non si annulla né la partecipazione né il contratto sociale.
Ne consegue che:
1. se il contratto nulla dispone, le parti spettanti ai soci nei guadagni nelle perdite si presumono
proporzionali ai conferimenti.
2. Se neppure il valore dei conferimenti è stato determinato, le parti si presumono uguali.
3. Se è determinata soltanto la partecipazione di ciascuno agli utili,si presume che nella stessa misura
debba determinarsi la partecipazione alle perdite. E viceversa.
4. Se manca la determinazione convenzionale della quota del socio d’opera, la determina il giudice
secondo equità.
Nella società semplice, il diritto a del socio di percepire la sua parte di utili nasce con l’approvazione del
rendiconto ( art 2262 c.c.) che, se il contratto dura più di un anno, deve essere predisposto dai soci
amministratori al termine di ogni anno, salvo che il contratto stabilisca un termine diverso. (Si ricordi
invece, che nelle società di capitali il rendiconto è sostituito dal bilancio di esercizio ). Il rendiconto redatto
per la società in nome collettivo invece è perfettamente equiparabile ad un bilancio di esercizio.
L’approvazione del rendiconto spetta a tutti i soci e avviene a maggioranza, calcolando la quota di
partecipazione all’utile dei votanti.
L’art 2262 c.c. è chiaro nel sancire che l’approvazione del rendiconto è condizione sufficiente alla genesi del
diritto alla partecipazione all’utile del socio, diritto che non può essere caducato dall’assemblea, ad
esempio per un autofinanziamento, se non all’unanimità.
Venendo alle perdite, esse hanno una rilevanza solo indiretta, poiché incidono direttamente sulla singola
partecipazione sociale riducendola proporzionalmente, prima dello scioglimento della società. Sicuramente,
le perdite impediscono la ripartizione di utili conseguiti finché non è stato reintegrato il capitale sociale,
ovvero ridotto corrispondentemente.
Nella società in nome collettivo, la responsabilità illimitata dei soci è inderogabile in ossequio al disposto
del comma 2 dell’art 2291 c.c.
I nuovi soci rispondono anche per le obbligazioni contratte prima del loro ingresso nel contratto sociale.
Lo scioglimento del rapporto per morte, recesso od esclusione non fa venir meno la responsabilità per le
obbligazioni contratte precedentemente a queste evenienze,
Vige un divieto di compensazione tra crediti e debiti di società e socio nei confronti dello stesso debitore.
Purtuttavia, al creditore del socio spetta comunque una tutela che si atteggia in:
Inoltre, nella società semplice e in quella collettiva irregolare, il creditore può chiedere la liquidazione della
quota del suo debitore socio con allegata prova dell’insolvibilità del patrimonio di quest’ultimo. Ancora, la
richiesta opera come causa di esclusione del diritto del socio, e la società sarà quindi tenuta entro tre mesi
a versare una somma di denaro equivalente al valore della quota del debitore, non necessariamente a
liquidare.
L’amministrazione societaria
Amministrare una società vuol dire governare l’impresa sociale. Contenuto del potere di amministrare è
quello di compiere tutti gli atti che rientrino nell’oggetto sociale, ovvero si pongano in rapporto di mezzo
rispetto allo scopo dell’attività d’impresa.
Per legge, e salvo deroga pattizia dell’atto costitutivo, ogni socio illimitatamente responsabile è
amministratore della società.
Nel fatto che ogni socio può autonomamente intraprendere da solo tutte le operazioni che
rientrano nell’oggetto sociale, senza dover richiedere consenso o notificare i suoi atti ai soci.
Il potere del singolo socio è temperato dal diritto di opposizione, attribuito ai soci amministratori, e
che deve essere esercitato prima che l’operazione sia compiuta. La fondatezza dell’opposizione si
decide a maggioranza per quote, non per teste.
Il modello disgiuntivo pone chiaramente dei problemi relativi al potere d’arbitrio attribuito ad ogni singolo
socio; vi si contrappone la più cauta amministrazione congiuntiva, che:
I due modelli, peraltro, possono benissimo mescolarsi relativamente a determinati atti in una società.
La legge investe i soci amministratori anche del c.d. potere di firma, che si atteggia come il potere di
rappresentanza della società.
Esso si sostanzia nella facoltà di agire nei confronti di terzi, facendo sorgere diritti e obblighi in capo alla
società; riguarda cioè l’amministrazione esterna, la gestione dei rapporti coi terzi.
Nel silenzio dell’atto costitutivo, la rappresentanza spetta a tutti i soci amministratori, disgiuntamente, e
quindi ogni socio può decidere e firmare da solo, o congiuntamente, e quindi i soci decidono all’unanimità o
a maggioranza e tutti partecipano alla stipulazione, secondo che il modello cui la società si conforma sia
congiuntivo o disgiuntivo.
Abbiamo analizzato il modello legale residuale degli art. 2257 e ss. c.c., ma dobbiamo essere consapevoli
che nell’atto costitutivo possono essere contenute regole per cui emerge un modello diverso o composito
di amministrazione. E la questione non pone problemi di opponibilità nella società collettiva,
necessariamente iscritta nel registro delle imprese con effetto di pubblicità legale, e quindi saranno
opponibili ai terzi solo le deroghe contenute nell’atto costitutivo. Ne deriva che sono inopponibili le
modifiche al modello legale della società irregolare. Per la società semplice, essendo disposta la pubblicità
legale anche per le società agricole, il problema non solleva grosse difficoltà pragmatiche; per le società
semplici non agricole, le deroghe iniziali sono sempre opponibili, quelle successive alla costituzione della
società solo se portate alla conoscenza dei terzi.
Quanto ai poteri dell’amministratore, il codice dispone che siano sovrapponibili a quelli del mandatario, la
realtà ci racconta come siano molto più ampi, perché abilitano il compimento di atti che esulano l’ordinaria
amministrazione; resta ferma tuttavia l’immodificabilità dell’atto costitutivo senza il consenso degli altri
soci.
Venendo ai doveri, questi deve tenere le scritture contabili e redigere il rendiconto, provvedere agli
adempimenti pubblicitari, ed è responsabile penalmente in caso di fallimento. ( nel caso della società
collettiva).
Gli amministratori sono responsabili nei confronti della società dei danni causati dalla loro attività
colposamente, ovvero violando il modello della diligenza del mandatario, e sono compensati per il loro
ufficio.
Certo è che se vi sono soci amministratori, ne esistono altri non amministratori, i quali:
Le modificazioni dell’atto costitutivo sono soggette al regime della pubblicità legale, e quindi sono
inopponibili le modificazioni non iscritte.
Se la regola per modificare l’atto costitutivo è l’unanimità, questa può essere pattiziamente derogata.
La quota, e quindi l’ammontare della liquidazione, si calcolano in base al valore patrimoniale della società il
giorno in cui si verifica lo scioglimento; questo valore va calcolato con riguardo al valore effettivo dei beni
detenuti, all’avviamento e agli utili e alle perdite delle operazioni in corso.
Il pagamento della quota deve essere effettuato entro 6 mesi, tre nel caso dello scioglimento del rapporto
su richiesta del creditore particolare.
Con l’integrazione di tali fattispecie, tuttavia, la società non si estingue. Bisogna risolvere i rapporti pendenti
con gli stakeholders, attraverso la liquidazione della società e quelli interni tra i soci, con la distribuzione
dell’eventuale residuo attivo. Gli amministratori, pertanto, in questa fase, agiscono limitatamente agli affari
urgenti.
Il procedimento di liquidazione
Il procedimento si compone di queste fasi:
Con la cancellazione la società si estingue, quand’anche non tutti i debiti siano stati pagati. I creditori non
soddisfatti possono tuttavia agire direttamente nei confronti del socio, personalmente e illimitatamente
responsabile, o anche dei liquidatori, quando sia riscontrabile dolo o colpa loro imputabile nel mancato
pagamento.
È palese come una tale diversificazione ontologica e funzionale all’interno delle parti del contratto sociale
ben si presta agli abusi tipici di ogni limitazione della responsabilità patrimoniale: l’accomandatario
potrebbe essere un fantoccio nullatenente e l’accomandante il vero imprenditore. Proprio per questo
motivo la disciplina della società in accomandita semplice è molto precisa, impone numerosi divieti e
limitazioni e rigorose sanzioni patrimoniali per i violandi, il tutto, a garanzia dell’interesse creditorio.
La ragione sociale, peculiare in questo modello legale, si compone necessariamente almeno del nome di
uno degli accomandatari più il tipo sociale. L’accomandante che consenta che il suo nome sia compreso
nella ragione sociale risponde personalmente e illimitatamente di tutti i debiti sociali, senza acquistare il
diritto di partecipare alla gestione della società. Tutto ciò per evitare che gli stakeholders ripongano
affidamento nel nome di un socio responsabile solo limitatamente.
In primo luogo, l’amministrazione è affidata ai soli soci accomandatari, che hanno gli stessi diritti e obblighi
dei soci della società collettiva ( 2318 c.c.).
Esclusi sono invece i soci accomandanti, su cui vige un divieto di immistione che opera in due maniere
diverse:
Internamente alla società, l’accomandante non ha alcun potere decisionale autonomo. Non può
nemmeno partecipare alle decisioni degli accomandanti o condizionarne l’operato.
Esternamente, gli accomandanti possono agire in nome e per conto della società solo in forza di
una procura speciale su singoli affari.
La violazione del divieto di immistione comporta le medesime conseguenze del divieto già visto sulla
ragione sociale.
Peculiare è la disciplina del trasferimento della partecipazione societaria. Per gli accomandatari, essa segue
quella della società collettiva, e quindi sia inter vivos che mortis causa, richiede il consenso di tutti i soci. Per
gli accomandanti invece, la loro quota è liberamente trasferibile mortis causa, mentre tra vivi sarà
necessario il consenso della maggioranza del capitale sociale, salvo diversa disposizione statutaria.
Circa lo scioglimento, ancora affine è la disciplina, con la differenza che la società si scioglie anche per
mancanza ultrasemestrale di soci accomandatari, periodo nel quale è necessaria la nomina di un
amministratore provvisorio. Stesso discorso vale per la liquidazione, con la differenza che il creditore
insoddisfatto alla cancellazione dal registro delle imprese potrà agire nei confronti dell’accomandante solo
per la quota di liquidazione da questi ottenuta.
La società per azioni costituisce il più importante tra gli otto modelli societari previsti dal nostro
ordinamento, vuoi perché è l’istituto più utilizzato dalle imprese di dimensioni medio-grande, vuoi per la
grande diffusione del modello anche nella piccola impresa. Le ragioni del successo delle s.p.a. risiedono ne:
La personalità giuridica.
Grazie alla quale la società gode di autonomia patrimoniale perfetta e di autonomia giuridica. Solo
la società è imprenditore e fallisce.
La responsabilità limitata dei soci.
Grazie alla quale gli investitori di capitale di rischio, i soci, possono essere certi della quota del loro
patrimonio che andrà arrischiata sul mercato, senza responsabilità personali, nemmeno sussidiarie.
L’organizzazione corporativa.
Che configura un assemblea, un organo di gestione e un organo di controllo. L’assemblea è
conformata al principio maggioritario attribuisce la gestione a chi rischia più capitale.
Le azioni
Che rappresentano il modello più moderno di partecipazione societaria. Esse sono partecipazioni
sociali di eguale valore tra di loro e attribuiscono gli stessi diritti ai loro titolari. La loro forza sta
nella loro libera trasferibilità, corroborata dall’applicazione della disciplina dei titoli di credito.
Tralasciamo circa l’evoluzione storica della disciplina italiana e comunitaria di questo tipo societario e sui
punti controversi della disciplina.
L’atto costitutivo
L’atto costitutivo delle società di capitali deve essere redatto per atto pubblico a pena di nullità della società
e deve indicare:
L’omissione di una o più di tali indicazioni può cagionare il rifiuto legittimo del notaio di stipulare l’atto
costitutivo. Tuttavia, non tutte questi dispositivi sono da considerarsi essenziali, una volta avvenuta
l’iscrizione nel registro delle imprese.
L’atto costitutivo, contiene, nella prassi, una sequela molto più ampia di informazioni, soprattutto perché ai
sensi del comma 3 dell’art 2328 c.c., anche lo statuto si considera parte integrante dell’atto costitutivo.
Quest’ultimo infatti, contiene la volontà costitutiva e i dati fondamentali della costituenda società, lo
statuto, le regole di funzionamento della stessa.
Nel caso di contrasto tra clausole dell’atto e dello statuto, prevalgono quelle statutarie.
In passato, al deposito del notaio seguiva il c.d. processo di omologazione, ovvero il controllo della legalità
formale e sostanziale e della validità della costituenda società; soppresso, oggi è attuato direttamente dal
notaio, che è responsabile quando effettui il deposito e difettino manifestamente le condizioni previste
dalla legge per la costituzione.
Ancora, avvenuto il deposito del notaio, l’ufficio verifica la regolarità formale della documentazione
ricevuta e iscrive la società, attribuendogli personalità giuridica, facendola venire ad esistenza. È
impronosticabile, di qui, l’ipotesi di una s.p.a. irregolare.
Come è palese, i soci sostengono delle spese prima che il loro contratto venga riconosciuto dall’autorità
pubblica, compiono degli atti, e per questi sono illimitatamente responsabili gli amministratori che hanno
agito.
La reazione dell’ordinamento a questi vizi è la nullità, che si atteggia in due sfaccettature diametralmente
opposte prima e dopo l’iscrizione della società nel registro delle imprese.
Prima, l’atto è un contratto di società, e sottosta alle regole generali dell’invalidità del contratto.
Dopo, la società è costituita, sebbene irregolarmente, e con lei tutta la fitta trama di rapporti, obbligazioni,
conferimenti che ne qualificano l’esistenza nel mercato, nei traffici giuridici. La risposta sanzionatoria quindi
non poteva essere una nullità come quella di diritto comune, pur tuttavia è univoca in ogni fattispecie: ed è
lo scioglimento della società.
L’art 2332 c.c., come modificato nel ’69 e nel 2003, interviene a disciplinare la nullità della s.p.a. iscritta:
Gli effetti della nullità della società iscritta si stagliano nello stesso orizzonte teleologico delle novelle del 69
e del 2003, ovvero la conservazione e la solidità dei traffici giuridici. Tale nullità infatti:
Della disciplina di diritto comune sulla nullità, permangono sono profili processuali, come la legittimazione
assoluta ad agire, la rilevabilità d’ufficio del giudice, l’imprescrittibilità dell’azione.
La S.p.A. unipersonale
La codificazione fascista escludeva la possibilità di costituire società per azioni unipersonali. Nel 2003, in
attuazione della XII direttiva CEE di armonizzazione del diritto societario, è stata inserita questa possibilità
anche per il modello societario prediletto, oltre che per le S.r.l.
E quindi oggigiorno:
È possibile costituire una S.p.A. tramite atto unilaterale dell’unico socio fondatore
Anche in quest’ipotesi la responsabilità del socio unico è limitata, salvo in casi eccezionalmente
previsti.
Il socio unico è responsabile illimitatamente per le obbligazioni contratte prima dell’iscrizione nel
registro delle imprese.
Quanto ai conferimenti in denaro, il socio deve integralmente versare presso una banca il capitale
sociale sottoscritto. La violazione di tale regola rende illimitata la responsabilità patrimoniale del
socio.
Per trasparenza, in tutti gli atti e nella corrispondenza il socio unico deve sottolineare
l’unipersonalità dell’ente.
Le operazioni effettuate tra società e unico socio come parti contrattuali sono da ritenersi
opponibili ai creditori solo se risultanti dal libro delle adunanze del C.d’A. o da atti scritti aventi data
certa anteriore a pignoramento.
Il secondo comma dell’art 2325 c.c. viene a ricordare quali sono le due ipotesi in cui l’unico socio perde il
beneficio della responsabilità limitata:
Conferimenti
In materia di S.p.A., il codice non ha trascurato di dedicare una disciplina specifica dei conferimenti
societari. Questa infatti, è il punto di partenza della operatività delle norme che afferiscono al capitale
sociale, e quindi della tutela dei creditori, nel duplice orizzonte teleologico de:
In denaro
Organica, semplice e intuitiva la disciplina dettata per i conferimenti in denaro.
Innanzitutto l’art 2342 c.c. si pone come norma sussidiaria, sancendo che salvo diversa clausola statutaria, i
conferimenti si effettuino in denaro. Il comma 2 dello stesso articolo poi, impone il versamento immediato
presso una bancadel 25% e del 100% dei conferimenti in denaro, rispettivamente per la società pluri e
unipersonale.
Ancora immediato è il termine sancito per il versamento dei conferimenti, tanto che gli amministratori
possono in ogni momento chiederli ai soci inadempienti.
Nel titolo azionario risultano i versamenti ancora da effettuare a titolo di conferimento. In caso di cessione
delle azioni, l’obbligo di versare il conferimento si trasferisce sull’acquirente, ma continua a gravare
sull’alienante, solidalmente e sussidiariamente, per un triennio.
L’escussione del credito da conferimento da parte della società è poi resa agevole dall’art 2344 c.c.:
Come sancito al comma 5, diversamente dalla società di persone, infatti, non possono formare oggetto di
conferimento le prestazioni di opera o di servizi, a garanzia della effettiva acquisizione del capitale sociale.
Per i conferimenti in natura o dei crediti opera una disciplina specifica, ma è comunque applicabile quella
della società di persone circa le garanzie cui è tenuto il socio conferente e il passaggio dei rischi.
Il terzo comma invece traccia un principio generale, idoneo a rendere inidonee a formare oggetto di
conferimento molte entità avente valore economico, che sancisce che le azioni corrispondenti ai
conferimenti di crediti e in natura devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione.
Vale a dire che il socio deve porre in essere tutti gli atti necessari affinché la società acquisti la titolarità e la
piena disponibilità del bene. Vale a dire che sono escluse dal conferimento cose generiche, future e altrui.
Il conferente beni in natura o crediti deve presentare una relazione giurata di stima di un esperto designato
dal tribunale. La relazione viene allegata all’atto costitutivo e depositata presso il registro delle imprese.
Il valore così assegnato dalla stima è da ritenersi tuttavia interinale, entro 180 giorni dalla costituzione della
società gli amministratori devono controllare le valutazioni contenute nelle revisioni di stima, indi, se
sussistono fondati motivi, revisionarle. In quel lasso di tempo le azioni sono inalienabili.
Se dalla revisione risulta che il valore dei beni è inferiore di oltre un quinto di quello del conferimento:
La società riduce proporzionalmente il capitale sociale per il valore delle azioni scoperte.
Il socio può versare la differenza in denaro mantenendo inalterato il valore delle azioni e del
capitale sociale.
Il socio può recedere, con diritto alla liquidazione del valore attuale del conferimento, e la società
può annullare o ridistribuire le azioni.
Questo procedimento di valutazione del conferimento è lungo e costoso, ne consegue che se ne possa
fare a meno quando il valore del conferimento è attendibile prima facie. Più nello specifico, non si
richiede la stima del perito quando il valore attribuito al conferimento è pari o inferiore:
Al prezzo medio ponderato al quale sono stati negoziati nei 6 mesi precedenti, per titoli quotati
nel mercato dei capitali come azioni, obbligazioni e strumenti quotati come titoli di debito
pubblico e certificati di deposito.
Al fair value ( il valore di scambio) iscritto nel bilancio dell’esercizio precedente quello nel quale
è stato effettuato il conferimento, per i titoli non quotati e per i beni o crediti diversi dai titoli.
A una valutazione riferita ad una data precedente di non oltre 6 mesi il conferimento e
conforme ai principi generalmente riconosciuti per la valutazione dei beni. Oggi quindi, il socio
che voglia effettuare un conferimento in natura può rivolgersi ad un qualsiasi perito senza il
supporto dell’autorità giudiziaria, a patto che questi sia indipendente sia dalla società che dal
conferente.
In ogni caso, le valutazioni così effettuate, possono per mille motivi essere contestate dagli amministratori
della società, che possono chiedere una nuova valutazione.
Prima del 1986, era semplicissimo eludere l’obbligo di assoggettare a stima il conferimento in natura: era
sufficiente che il socio vendesse alla società il bene conferendo per un corrispettivo pari all’importo
dell’apporto che il socio si era impegnato a versare in denaro; il debito si estingueva per compensazione.
Oggi, l’art 2343 c.c. vieta questa fattispecie, nei due anni decorrenti dalla costituzione della società e se il
corrispettivo pattuito è pari ad un decimo del capitale sociale. La violazione del dettato codicistico causa la
responsabilità solidale di amministratori e alienante per i danni arrecati a società, soci e terzi.
Omogeneità.
Standardizzazione.
Libera trasferibilità.
L’essere rappresentata da documenti, i titoli azionari, la cui circolazione è assimilata ai titoli di
credito.
L’indivisibilità.
Valore nominale dell’azione è la parte del capitale sociale rappresentata dalla partecipazione espressa in
cifra monetaria.
Mentre è ammessa l’emissione di azioni prive del valore nominale, l’art 2346 c.c. vieta l’emissione di azioni
contemporaneamente (da parte della stessa società) aventi valore nominale e non.
Lo statuto della società deve indicare necessariamente il valore nominale dell’azione, se hanno scelto di
emettere azioni di questo tipo, ed anche il loro numero complessivo. Entrambi questi dati, al pari del
capitale sociale, sono insensibili alle vicende della società e rimangono invariati fin quando non venga
modificato a tal fine l’atto costitutivo. ( es. detengo 1.000 azioni su 10.000 di una società avente 1.000.000
di euro di capitale sociale. Il valore nominale di ogni azione sarà 100).
Per le azioni prive del valore nominale, lo statuto deve indicare solo il capitale sottoscritto ed il numero
delle azioni emesse; non cambia però l’assunto che l’azione sia frazione uguale del capitale sociale. La
partecipazione al capitale sociale del singolo socio verrà quindi espressa da una percentuale con ( nella
frazione) a denominatore il numero complessivo delle azione emesse e a numeratore il numero delle azioni
detenute dall’azionista. ( detengo il 10% di una società avente 1.000.000 di euro di capitale sociale). Per
queste azioni quindi, le disposizioni del codice si applicano con riguardo al loro numero in rapporto al totale
delle azioni.
Vanno tenuti distinti il valore di emissione dell’azione dal valore reale della stessa, il primo varia con le
vicende patrimoniali dell’azienda e viene accertato contabilmente dal bilancio di esercizio – di qui la
denominazione alternativa di valore di bilancio- il secondo si ottiene dividendo il patrimonio netto della
società per il numero di azioni.
Tramite la tecnica dell’emissione con sovrapprezzo, obbligata in talune fattispecie, si possono invece
emettere azione per somma superiore al loro valore nominale globale ( azioni sopra la pari)
Il valore di mercato invece attiene alle azioni ammesse su mercati regolamentati, su una borsa valori, e che
risulta giornalmente dai listini ufficiali. Il valore di mercato è il prezzo di scambio dell’azione in quel
determinato giorno, ma è un prezzo che solo tendenzialmente coincide col valore patrimoniale dell’azione.
In ogni caso, il valore di mercato esprime il valore delle azioni meglio del valore di bilancio, tanto che il
legislatore preferisce dare rilievo al primo in numerose fattispecie.
Inoltre, è fuori di dubbio che pacchetti azionari, specie di controllo, delle società per azioni valgano
complessivamente di più della somma delle azioni che raccolgono.
La partecipazione azionaria
Anche una sola azione costituisce una partecipazione societaria, cui consegue un complesso di diritti e
poteri divisibili in:
Sui diritti degli azionisti ci soffermeremo in seguito, ora è necessario puntualizzare su una caratteristica
dell’azione che la pone in un orizzonte di giustizia civilistica: la loro uguaglianza.
È relativa perché la legge prevede eccezionalmente l’emissione di categorie di azioni fornite di diritti diversi.
È oggettiva, perché una singola azione attribuisce al titolare diritti uguali a quelli scaturenti da ogni singola
altra azione ( di quella categoria). Mentre le partecipazioni azionarie, in quanto diverse per numero di
azioni detenute, attribuiscono ai soci diritti diversi ontologicamente e per intensità. Di qui la diseguaglianza
soggettiva degli azionisti.
L’assemblea speciale degli azionisti titolari delle azioni speciali, che ha diritto di approvazione delle
delibere dell’assemblea generale che pregiudichino i loro diritti. La disciplina applicabile
all’assemblea speciale è quella dell’assemblea straordinaria, se le azioni speciali non sono quotate,
quella delle azioni di risparmio, se lo sono.
L’esistenza di questo istituto ci fa comprendere come l’interesse individuale del socio all’esercizio
del diritto speciale soccombe a quello generale e di categoria e qualifica quindi questi diritti speciali
come diritti di gruppo.
La disciplina relativa alle azioni speciali è da un decennio molto più permissiva, ha abilitato infatti le società
a:
Emettere azioni prive del diritto di voto, anche se non quotate in borsa.
Emettere azioni con diritto di voto, esclusivamente con riguardo a predeterminate materie.
Emettere azioni con diritto di voto subordinato al ricorrere di una condizione non meramente
potestativa.
Resta fermo che le azioni senza voto, a voto condizionato o limitato non possono superare
complessivamente la metà del capitale sociale.
Era, con la riforma del 2003, ancora vietata l’emissione di azioni con voto plurimo, ma anche questo limite
imperativo è stato recentemente attenuato:
Possono essere emesse azioni che attribuiscono fino a 3 voti, anche a voto limitato o
condizionato. Tuttavia, la deliberazione assembleare che le emette, deve essere adottata a
maggioranza qualificata.
Le società quotate invece, non sono abilitate ad emettere azioni a voto plurimo. Lo Statuto
può prevedere però le c.d. maggiorazioni di voto, ovvero diritti che sorgono in relazione alla
titolarità continuata dell’azione per un periodo non inferiore a 24 mesi, e che possono
attribuire all’azionista maggiorato fino a un voto in più per ogni azione detenuta nel
periodo sopracitato.
La differenza rilevante tra voto plurimo e maggiorazione, e che quest’ultima è un privilegio
conseguibile da tutti gli azionisti in relazione all’anzianità della partecipazione societaria, e
che, in quanto tale, in caso di alienazione delle azioni non si trasferisce all’acquirente.
Le azioni di risparmio
Meritano un capitolo a parte le azioni di risparmio, che rappresentano una parte rilevante nel mondo delle
partecipazioni societarie delle S.p.A, perché rispondono ad un’esigenza fondamentale nella moderna
economia: attribuire ai risparmiatori la facoltà di investire capitale di rischio senza interessarsi delle vicende
amministrative della societas e godendo di qualsivoglia privilegio di natura patrimoniale.
Le azioni di risparmio possono essere emesse dalle società le quali abbiano emesso azioni ordinarie quotate
su un mercato regolamentato italiano o UE.
Non possono, in quanto prive del voto, superare il 50% del capitale sociale.
Le azioni di risparmio:
Possono formarsi anche in relazioni a prestazioni che la legge vieta che possano formare oggetto di
conferimento, come quelle lavorative.
Non sono parti del capitale sociale. La loro liberazione non è disciplinata dalle regole sui
conferimenti, la loro disciplina è per lo più contenuta negli statuti che nella legge civile.
Contribuiscono ad accrescere il patrimonio sociale.
Non attribuiscono la qualità di azionista.
Forniscono diritti patrimoniali, ma non amministrativi. Nella fattispecie non abilitano a votare in
assemblea generale, ma possono attribuire il diritto di voto su questioni particolari come la nomina
di un amministratore o di un sindaco.
Agli strumenti finanziari che attribuiscano diritto del rimborso del capitale, si applica la disciplina
delle obbligazioni. A quelli che attribuiscono diritti amministrativi, quella delle assemblee speciali.
Innanzitutto, va menzionato il fatto che le quote di partecipazione delle società sono spesso e volentieri
rappresentate da titoli azionari, documenti che abilitano il trasferimento delle azioni mediante la disciplina
dei titoli di credito.
Non tutte le società devono emetterne. Quelle non quotate ad esempio possono statutariamente
escluderne la previsione, con la conseguenza che la partecipazione potrà essere provata dall’iscrizione al
libro dei soci, e che il trasferimento di tali azioni sarà assoggettato alla disciplina della cessione del
contratto.
Per le società quotate invece, le azioni non possono più essere rappresentate da titoli azionari dall’ottobre
del 1998. La circolazione delle azioni è stata semplificata in ossequio al modello della gestione accentrata
dematerializzata, e quindi affidata ad un sistema basato su semplici registrazioni contabili. Tale sistema si è
reso obbligatorio anche per lo società non quotate ma diffuse tra il pubblico in maniera rilevante.
Le azioni, pacificamente per la dottrina, sono titoli di credito causali, ovvero emessi in relazione ad un
determinato rapporto obbligatorio presupposto, che si caratterizzano per il fatto che sono opponibili ai
terzi aventi causa del primo prenditore le eccezioni derivanti dal rapporto societario documentato.
Le azioni di risparmio.
Le azioni emesse da Sicav e Sicaf ( società di investimento a capitale fisso e variabile).
Il divieto di vendita in caso di azioni liberate con conferimenti diversi dal denaro non ancora
oggetto di controllo di valutazione.
Le azioni con prestazioni accessorie non possono essere alienate prive del consenso del c.d’A.
Questi ultimi vengono anche definiti sindacati di blocco, e sono teleologicamente orientati ad impedire
l’ingresso nella società di terzi non graditi. I sindacati di blocco vincolano solo le parti contraenti, essendo
accordi cristallizzati in contratti comuni e non nell’atto costitutivo non sono dotati di efficacia reale. Il socio
vincolato a non trasferire inadempiente sarà solo tenuto al risarcimento del danno.
I limiti statutari invece sono dotati di efficacia reale, vincolano anche i soci futuri, possono essere fatti
valere nei confronti del terzo avente causa del socio vincolato. Essi si dividono:
- Clausole di prelazione.
È la clausola che impone la preventiva offerta da parte del socio che voglia vendere le azioni agli
altri soci e la preferenza di questi agli altri potenziali acquirenti a parità di condizioni. Questa
attribuisce quindi, anche il diritto di riscatto ai soci.
- Clausole di riscatto.
Che attribuiscono alla società il diritto di riscatto sulle azioni al ricorrere di determinate circostanze.
- Clausole di gradimento.
Che si dividono a loro volta in clausole che richiedono il possesso di determinati requisiti da parte
dell’acquirente e clausole che subordinano il trasferimento dell’azione al placet di un organo
sociale, come il C.d’A.
Per le prime, dette anche clausole di mero gradimento, vigeva e vige un motivato clima di
avversione legislativa, tanto che in rapida successione il legislatore le ha prima dichiarate inefficaci
e poi temperando questo stesso divieto ha imposto sulla società un obbligo di acquisto delle azioni
di cui si è respinto l’acquirente o il diritto di recesso del socio dalle azioni vincolate pattiziamente.
L’attuale art.2352 c.c. detta una disciplina più organica di quella previgente, e prevede:
Che salvo convenzione contraria, il diritto di voto spetta al creditore pignoratizio. Gli altri diritti
amministrativi vengono invece disgiuntamente esercitati da creditore e socio.
Nel caso di sequestro delle azioni, il voto e tutti i diritti amministrativi spettano al custode.
Il diritto di opzione spetta comunque invece al socio.
In caso di aumento gratuito del capitale, i vincoli imposti sulle azioni si estendono alle nuove.
Vige, come dicevamo, anche il divieto di acquisto indiretto delle azioni proprie ( in nome proprio ma per
conto della società), salvo nel caso in cui l’acquisto sia effettuato in funzione di una riduzione palese del
capitale sociale, cui pertanto sarà omologato per disciplina.
Venendo al regime cui sono assoggettate le azioni proprie legittimamente detenute dalla società:
Le Partecipazioni Rilevanti
Aspetto interessante e decisivo della legislazione in ambito societario è sicuramente quello relativo alle
partecipazioni rilevanti in una società per azioni.
L’attuale disciplina impone obblighi differenziati alle società a seconda che valichino o meno le soglie
dimensionali della PMI – piccola, media impresa- ovvero il fatturato inferiore a trecentomila euro
nell’ultimo esercizio e la capitalizzazione media di mercato nell’ultimo anno solare inferiore a
cinquecentomila euro.
Sono tenuti a dare comunicazioni alla società e alla Consob tutti gli azionisti diretti o indiretti titolari del 5%
o del 2% del capitale nominale rispettivamente per PMI e per gli altri casi, quando la società è quotata su un
mercato regolamentato. Il calcolo delle percentuali rilevanti a questi fini tiene conto solo delle azioni che
abilitino al voto in assemblea generale. La violazione di questi obblighi comporta sanzioni pecuniarie,
sospensione del diritto di voto, impugnabilità delle delibere assembleari in cui il voto di quel socio è stato
determinante.
L’opa è una proposta irrevocabile rivolta a parità di condizioni a tutti i titolari dei prodotti finanziari che ne
costituiscono oggetto. Ed è nulla ogni clausola modificativa di questo disposto.
La Consob controlla costantemente l’andamento della procedura, disponendo su di essa di ampi poteri
regolamentari.
Così, si apre la fase delle adesioni all’offerta, che possono essere raccolte dall’offerente stesso o da
intermediari indicati nel documento.
Alla scadenza del termine l’offerta diviene irrevocabile se è stato raggiunto il quantitativo minimo redatto
nel documento di offerta. Se lo eccede, nel documento deve essere indicato se si procederà ad una
riduzione proporzionale oppure se l’offerente acquisirà comunque i titoli eccedenti.
Le tecniche di difesa
La legge 149/1992, impediva qualsiasi meccanismo di reazione, come ingenti aumenti di capitale sociale,
trasformazioni, fusioni, scissioni, acquisto di proprie azioni, da parte degli azionisti di controllo nei confronti
di una opa ostile. Anzi, era nulla qualsiasi modificazione dell’atto costitutivo di una società bersaglio. Ora
invece, questo divieto si è relativizzato e si articola in due regole separate:
La passivity rule, ( art 104 tuf) che impone agli amministratori della società bersaglio dell’opa di
astenersi dal compiere qualsiasi atto suscettivo di contrastare il conseguimento degli obiettivi
dell’offerta. Il divieto può essere però oggi rimosso dalla delibera assembleare competente, e l’atto
costitutivo può oggi derogare legittimamente la regola di passività, che si qualifica quindi come
dispositiva.
La regola di neutralizzazione, efficace solo per la società il cui statuto espressamente la preveda,
che è stata introdotta allo scopo di rendere inefficaci nei confronti dell’offerente alcune misure
predisposte dall’azionista di comando prima del lancio dell’opa. Essa comporta quindi, l’inefficacia
delle clausole limitative del trasferimento dei titoli, e ancora, annulla voti plurimi, maggiorazioni e
limitazioni del diritto di voto sia nelle assemblee chiamate a decidere sulle azioni di difesa che nella
prima assemblea successiva all’opa ( in quest’ultimo caso solo se l’offerente è pervenuto al 75% del
capitale con diritto di voto sulla nomina di amministratori e sindaci). Restano ferme le limitazioni al
voto delle azioni di risparmio e simili.
La clausola di reciprocità comporta che non si applicano queste due regole a chi non è soggetto alle
disposizioni di una regola sola.
Prima delle riforme sopracitate, una deregulation spassionata portava a conseguenze del tutto
impronosticabili:
I titolari dei pacchetti azionari di controllo alienavano ai loro aventi causa la partecipazione a prezzo
superiore rispetto a quello di borsa, ma senza transitare per essa, con la conseguenza che gli
azionisti minoritari non beneficiavano del c.d. premio di maggioranza.
Era frequente il verificarsi delle scalate ostili.
L’attuale disciplina, che ha iniziato a formarsi con l’incipit della l. 149/1992, cerca di scongiurare queste
fattispecie seguendo questi principi cardine:
Questa consente ai detentori di titoli di minoranza di una società quotata di disinvestire la partecipazione a
seguito del mutamento dell’azionista di controllo. Importante sottolineare come la legge per titolo intenda
gli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto nell’assemblea.
Venga a detenere una partecipazione superiore al 30% dei titoli che attribuiscono il voto nelle
delibere assembleari riguardanti nomina e revoca degli amministratori o del consiglio di
sorveglianza. ( gli statuti delle PMI possono prevedere una soglia oscillante tra il 25 e il 40% dei
titoli, negli altri casi la soglia del 30% è immodificabile). Per le società di media o grande
dimensione, la soglia è del 25% se non esiste azionista con partecipazione di più grande
dimensione.
L’opa è diretta a tutti i titoli della società, anche quelli non rilevanti per la determinazione delle soglie di cui
sopra.
Anche il prezzo minimo dell’offerta è fissato per legge per l’opa successiva totalitaria, ed è pari al prezzo più
elevato pagato dall’offerente nei dodici mesi anteriori l’offerta per un’azione della società bersaglio. Per le
categorie di titoli invece che l’offerente non ha acquistato nei dodici mesi anteriori, si applica il prezzo
medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi. La Consob può inserirsi per stabilire prezzo inferiore
in caso di manipolazioni del mercato.
L’opa preventiva totale è diretta a conseguire a tutti i titoli e non è soggetta a condizioni. Anzi, l’offerente
può liberamente fissare il prezzo di acquisto.
Quella preventiva parziale invece deve avere ad oggetto almeno il 60% dei titoli di categoria.
Come già accennato, se la partecipazione rilevante è detenuta a seguito di un’opa, l’offerente è esonerato
dall’obbligo di opa successiva totalitaria.
1. Chiunque venga a detenere una partecipazione almeno pari al 95% dei titoli con diritto di voto di
una società bersaglio con un offerta pubblica totalitaria deve acquisire i titoli residui da chi gliene
faccia richiesta.
2. Chiunque venga a detenere – in ogni modo- una partecipazione almeno pari al 90% di una società
quotata bersaglio, ha l’obbligo di acquisire i restanti titoli quotati a meno che entro 90 giorni dal
superamento della soglia non ripristini un flottante adeguato.
L’obbligo sussiste per le diverse categorie di azioni solo al superamento della determinata soglia limite
relativamente a quella categoria ( se vengo a detenere l’89% delle azioni di risparmio non sarò
obbligato all’acquisto residuale per tutte le azioni di risparmio, benché abbia acquistato, magari, il 91%
delle azioni con diritto di voto; sussiste l’obbligo solo per l’acquisto di queste ultime).
Invece che un obbligo, sussiste un diritto all’acquisto coattivo alle azioni rimanenti per chi consegua una
partecipazione superiore al 95% del capitale rappresentato da titoli attraverso un’opa, sempreché
abbia dichiarato di volersene avvalere nel documento dell’offerta.
I gruppi di società
Nella odierna realtà socio-economica, i gruppi di società rappresentano uno dei fenomeni più rilevanti e più
pregni di aggregazione di interesse economico. Infatti è proprio attraverso questo meccanismo di fatto che
le più grandi imprese organizzano la produzione e la vendita dei loro prodotti, beneficiando così sia dei
vantaggi economici di una grande impresa, sia dell’articolazione particolareggiata che implementa le
velocità amministrative e seziona il rischio d’impresa.
Come si articola il fenomeno nella prassi? Sappiamo che le società sono abilitate dall’ordinamento a
sottoscrivere e ad acquisire partecipazioni di altre società, ed è proprio assumendo il comando di società
con capitale minore – le controllate- che le quelle maggiori – le capogruppo- articolano il gruppo societario.
Il fenomeno può realizzarsi sia nella forma del gruppo a catena, con il quale la società A ( capogruppo)
L’ordinamento non guarda affatto ai gruppi di società come una patologia dell’ordinamento, anzi, è
attitudine fisiologica della realtà socioeconomica, è così che si articolano le imprese di più grandi
dimensioni. Tuttavia, con una normazione disorganica e frazionata, il legislatore ha inteso tutelare le
posizioni dei creditori, degli azionisti delle società controllate seguendo queste linee guida:
Assicurare una informazione adeguata agli stakeholders sulle articolazioni societarie e sui risultati
patrimoniali del gruppo unitariamente considerato.
Evitare che gli intrecci societari cagionino pregiudizi alla situazione patrimoniale del gruppo
unitariamente considerato.
Evitare che le scelte operative del gruppo unitariamente considerato pregiudichino le aspettative di
chi faceva riferimento ad uno sola delle società del gruppo, nell’ottica che non sempre le scelte
ispirate dall’interesse di gruppo siano positive per ogni sua singola articolazione.
La Società Controlla
È società controllata quella che si trova sotto l’influenza dominante di una società controllante, idonea ad
indirizzarne l’attività nel senso da quest’ultima voluto. È questa la nozione ricavabile dall’ermeneutica
dell’art 2359 c.c.
La controllante dispone della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria della
controllata. ( controllo azionario di diritto)
La controllante dispone di una partecipazione – e quindi di diritti di voto- minoritaria, ma
comunque idonea ad esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria della
controllata. ( controllo azionario di fatto)
Infine il controllo contrattuale, per il quale la società A e la società B sono in un rapporto
contrattuale tale che A potrebbe arbitrariamente compromettere la sopravvivenza di B. Ed
è il caso della società A che fornisce materie prime in esclusiva a B ecc.
Ai sensi dell’art 2359 c.c., ai fini dell’individuazione del controllo azionario, si computano anche i voti
spettanti a società controllate, fiduciarie e a interposta persona.
La sussistenza di un rapporto di controllo, esplicato nelle forme suddette, tra due società non è
autonomamente idoneo ad abilitare l’applicazione della disciplina dei gruppi di società di cui agli artt. 2497
ss.. c.c. Tuttavia, il controllo fa presumere la presenza di una attività di direzione e coordinamento, che
invece funge da requisito applicativo delle regole sopracitate. Nello specifico la presunzione opera per le
società che sarebbero tenute alla redazione del bilancio consolidato e che in ogni caso esercitino un
controllo su altre. Stessa sorte per le società abilitate a tale tipo di controllo da un contratto o dal contratto
sociale.
Diverso è il caso della società collegata, su cui la società apparentata esercita un’influenza notevole in virtù
della titolarità di almeno il 20% o il 10% dei diritti di voto per società non quotate e quotate
rispettivamente.
Passo importantissimo per la risoluzione dei problemi di asimmetria informativa degli stakeholders
nei confronti dei gruppi è stata l’istituzione di un’apposita sezione nel registro delle imprese
contenente le imprese che esercitano attività di direzione e coordinamento e quelle controllate.
Le controllate inoltre, sono sempre tenute nella corrispondenza e negli atti ad esplicitare la loro
condizione di soggezione, a pena di responsabilità personale degli amministratori inadempienti.
In quest’ottica quindi, viene legittimato il perseguimento dell’interesse di gruppo, di cui anche la controllata
beneficia, senza però pregiudicare l’interesse di creditori e soci di minoranza delle controllata, cui sono
affidati numerosi strumenti di tutela:
1. Le decisioni delle società controllate devono essere motivate adeguatamente, che siano prese da
assemblea o amministratori.
2. Il rimborso dei finanziamenti erogati dalla capogruppo alle controllate deroga il principio della par
condicio creditorum, perché è postergato al soddisfacimento degli altri creditori.
3. Last but not least, la società capogruppo è tenuta ad indennizzare ( è responsabile) direttamente
azionisti e creditori della controllata per i danni da questi subiti in forza di direttive di gruppo lesive
del patrimonio della società figlia. ( 2497 c.c.) Rispondono in solido con la capogruppo chi abbia
preso parte al fatto lesivo, sia chi ne abbia dolosamente tratto beneficio nei limiti del vantaggio
conseguito. L’azione che spetta a creditori e soci non è surrogatoria di quella che spetta alla
controllata, bensì diretta, nei confronti dei responsabili di cui sopra. Tuttavia non è esperibile se le
pretese degli attori sono state già soddisfatte dalla controllata stessa.
L’Assemblea
L’Assemblea
L’assemblea è l’organo societario composto dalle persone dei soci.
La sua funzione, in parole povere, è quella di formare la volontà della società nelle materie che la legge o
l’atto costitutivo demandano alla sua competenza.
Nell’assemblea dei soci vige il principio maggioritario, che si esprime attraverso la maggioranza di capitale,
rappresentando ogni socio una quota del capitale sociale nominale. Le votazioni così svolte, in ossequio alla
legge, vincolano tutti i soci.
Le competenze
Le competenze dell’assemblea variano, dopo la novella del 2003, a seconda che venga adottato dallo
statuto il sistema monistico,quello dualistico, o quello tradizionale. Oltre ovviamente a differenziarsi
secondo che sia ordinaria o straordinaria l’assemblea:
L’assemblea è unica e generale se sono state sottoscritte solo azioni ordinarie. Quando sono state emesse
particolari categorie di azioni, vi si affiancano quelle speciali, cui si applica la disciplina dell’assemblea
straordinaria se non sono quotate, quella delle azioni di risparmio se lo sono.
a) Deve essere convocata almeno una volta l’anno, con l’aggiunta che non può essere
convocata oltre i 120 giorni dal termine stabilito per lo statuto per la chiusura del
bilancio.
b) Deve essere convocata se ne fanno richiesta i titolari di almeno il 10% del capitale
sociale per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, del 5%
per quelle vi ricorrono. Se non la convocano amministratori o sindaci in loro vece, la
convoca il tribunale con decreto, sempreché siano stati sentiti gli organi amministrativi
e di controllo e il loro rifiuto risulti ingiustificato.
Nelle società quotate inoltre, i titolari complessivi di un quarantesimo del capitale
sociale possono richiedere integrazioni dell’ordine del giorno o fare proposte
deliberative.
c) Come già accennato, il collegio sindacale dispone la convocazione dell’assemblea
ogniqualvolta la convocazione sia obbligatoria e gli amministratori abbiano disobbedito
a tale imposizione. Nelle società quotate questo potere è esercitabile anche solo da
due membri del collegio sindacale.
L’assemblea è convocata nel comune dove ha sede la società, salvo diversa disposizione statutaria.
Nelle società non quotate la convocazione va notificata ai soci mediante avviso pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale o su un quotidiano indicato dallo statuto, o in alternativa mediante notifica di 8 giorni precedente
l’assemblea con mezzi che garantiscano la prova del ricevimento.
Le società quotate invece devono pubblicare l’avviso completo sul loro internet.
Il presidente e il segretario dell’assemblea sono eletti dalla maggioranza degli intervenuti. Il segretario non
è necessario se il verbale della riunione è redatto da un notaio. Il presidente controlla che le attività
dell’assemblea si svolgano in maniera regolare, il segretario verbalizza tutte le procedure. Tuttavia se
l’assemblea è straordinaria, questo deve essere redatto da un notaio.
Costituzione dell’Assemblea
Le deliberazioni dell’assemblea, affinché siano produttive di effetti giuridici, devono essere approvate dalla
maggioranza dei soci. Tuttavia, la diversità delle modalità di convocazione, la disomogeneità delle questioni
poste all’attenzione della riunione, e altri fattori, hanno imposto al legislatore una attenta e complessa
disciplina dei quorum costitutivi e deliberativi, atti a tutelare dagli abusi delle maggioranze e a scongiurare
l’ostracismo delle minoranze.
Quorum costitutivo, che è la parte del capitale sociale che deve essere rappresentata in assemblea
perché questa sia regolarmente costituita e possa iniziare i lavori.
Quorum deliberativo, la frazione del capitale sociale che deve esprimersi favorevolmente in merito
ad una decisione affinché possa essere liberamente approvata.
Le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio possono statutariamente prevedere un
sistema a pluralità di convocazioni, con quorum differenti. Inoltre la deroga statutaria ai quorum può solo
prevedere maggioranze in aumento rispetto a quelle sancite dal codice per l’assemblea ordinaria di prima
convocazione e per la straordinaria. Per quelle di seconda convocazione, i quorum sono modificabili in
melius come per le altre due citate assemblee, salvo che per la nomina e la revoca delle cariche sociali e
l’approvazione del bilancio, al fine di non paralizzare la attività assembleare.
È altresì possibile che gli statuti prevedano la possibilità di convocazioni successive alla seconda con
quorum ridotti.
Come anticipavamo, e sembravamo in parte aver contraddetto nel corso della trattazione, il modello a
convocazione multipla, per le società che fanno ricorso al capitale di rischio, oltre ad essere meramente
opzionale è completamente non funzionale: nell’unica convocazione si applicano le maggioranze
Gli amministratori.
Il rappresentante degli azionisti di risparmio, e degli obbligazionisti.
Coloro cui spetta il diritto di voto, nonché il creditore pignoratizio e l’usufruttuario del socio con
diritto di voto.
La disciplina attuale ha diversificato il regime per l’accertamento del diritto dei soci di intervenire. In
particolare:
Per le società non quotate, il diritto deve sussistere nel giorno dell’adunanza.
Per le società quotate, la legittimazione ad intervenire si determina immodificabilmente con
riferimento alla situazione sussistente al termine della giornata contabile del settimo giorno di
mercato aperto precedente alla convocazione dell’assemblea ( la c.d. record date). Trascorso quel
termine, le azioni sono alienabili, ma i trasferimenti sono irrilevanti in materia assembleare.
Il voto può anche essere espresso telematicamente, per corrispondenza o in via elettronica.
La rappresentanza in assemblea
Gli azionisti possono partecipare all’assemblea sia personalmente sia a mezzo di rappresentante.
Come ormai abbiamo imparato ad apprezzare in tutti gli istituti di diritto societario, ognuno di questi
possiede delle peculiarità che lo rendono funzionale agli interessi dei privati e all’interesse pubblico, altre
caratteristiche invece che li rendono pericolosi per gli interessi di creditori, azionisti di minoranza,
stakeholders in generis.
L’istituto della rappresentanza, da una parte consente la partecipazione indiretta ai piccoli azionisti e tutela
la vita societaria facilitando il raggiungimento delle maggioranze di cui sopra, dall’altra, raccogliendo presso
di sé le deleghe, amministratori o azionisti di maggioranza possono rafforzare la loro già forte posizione.
Innanzitutto ai sensi dell’art 2372 c.c., se lo statuto prevede questa facoltà, chiunque è legittimato a farsi
rappresentare in assemblea.
La delega deve essere redatta in forma scritta e deve contenere il nome del rappresentante ( è nulla la
delega in bianco). Il rappresentante può a sua volta delegare solo se la delega iniziale lo prevede. La delega
deve contenere, nelle società non quotate, anche il nome dell’eventuale sostituto del rappresentante.
Il rappresentante è tenuto a comunicare per iscritto a chi conferisce la delega una sua eventuale posizione
di conflitto d’interessi, mentre quest’obbligo vige sempre su soggetti quali amministratori, dipendenti delle
società controllanti o controllate ecc, che si presumono sempre in conflitto di interessi.
Infine, ancora le società quotate contemplano due istituti di cui andiamo a vedere le caratteristiche:
La sollecitazione, che è la richiesta di conferimento di deleghe rivolta da uno o più soci nei confronti
di almeno duecento azionisti su specifiche proposte di voto.
La raccolta di deleghe, che è effettuata all’interno delle associazioni di azionisti per facilitare
l’esercizio del diritto di voto a piccoli investitori già concordi con altri su altre materie.
Il conflitto di interessi
L’art 2373 c.c., come riformato nel 2003, sancisce che viene in conflitto d’interessi chi in una determinata
delibera ha un interesse – per conto proprio o altrui- contrastante con quello della società.
L’effetto giuridico più scontato di questa fattispecie sarebbe la paralisi del diritto di voto del socio in
conflitto, e invece questi può liberamente votare od astenersi, ma se vota e il suo voto è determinante
all’approvazione della delibera, quest’ultima è impugnabile ex art. 2377 c.c.
Ricapitolando, affinché una delibera adottata con il voto di un socio in conflitto d’interessi sia impugnabile
deve sussistere la c.d. prova di resistenza, e che quindi il voto dell’azionista di cui sopra sia stato
determinante all’approvazione della deliberazione, e il c.d. danno potenziale, ovvero che la delibera sia
idonea a recare pregiudizio alla società.
Il comma 2 dello stesso art. 2373 poi, elenca alcune situazioni in cui il conflitto d’interessi è così palese che
il voto è vietato:
Esistono poi deliberazioni che in nessun modo integrano i requisiti imposti dall’art 2373 per l’impugnabilità
della delibera, ma che senza ombra di dubbio rappresentano situazioni lesive dell’interesse della minoranza
societaria. È il caso dell’aumento di capitale a pagamento per diminuire la quota di partecipazione di un
socio in difficoltà, è il caso dello scioglimento della società al fine di ricostituirla senza il socio avverso. In
queste fattispecie, sebbene legalmente l’annullabilità della delibera sia scongiurata, la giurisprudenza
ricollega la condotta ad una violazione della regola di buona fede e correttezza nel rapporto contrattuale di
cui all’art 1375 c.c. e dichiara annullabile la delibera se è stata ispirata al solo scopo di danneggiare soci di
minoranza.
Possono avere carattere occasionale e permanente, se sono permanenti, possono essere a tempo
determinato o indeterminato, riguardare tutte le delibere o solo quelle di un tipo specifico. Inoltre,
all’interno del patto parasociale, si può decidere se il modo in cui votare sia stabilito all’unanimità o a
maggioranza.
Come per tutti gli istituti di diritto societario, anche i sindacati di voto vivono un binomio di conseguenze
positive e negative. Gli effetti benefici sono costituiti dalla possibilità di creare stabilità di indirizzo
gestionale, se i sindacati sono istituiti dal gruppo di controllo, da una migliore difesa degli interessi comuni,
se pattuiti tra i soci di minoranza. Le conseguenze venefiche invece dei sindacati, si apprezzano se li
osserviamo combinati con sindacati di blocco delle azioni: il gruppo di controllo, stabilmente al comando
della società in forza della non trasferibilità dei titoli, in sostanza delibera prima della convocazione
dell’assemblea; altera il procedimento assembleare, in sostanza.
In primis, ricordiamo che gli effetti del sindacato sono solo inter partes, e ne consegue che il voto
inadempiente il patto parasociale è perfettamente valido, ma resta ferma la responsabilità risarcitoria del
socio disubbidiente nei confronti delle controparti.
Ancora, non merita grande approfondimento la tesi dottrinale che delegittima i sindacati di voto quando a
tempo indeterminato o a maggioranza: nessuna norma imperativa impedisce ai soci di predeterminare il
loro voto.
Andiamo a eviscerare la disciplina dei sindacati di voto, come riformata nel ‘98 e nel 2003, differenziando
come di consueto tra società quotate e non quotate:
La novella del 2003 è intervenuta a dirimere le intense questioni giurisprudenziali in materia. Prima della
riforma infatti, era in vigore un sistema in cui coesistevano:
La annullabilità delle delibere, prevista per alcuni vizi procedimentali, che una volta decorso il
termine trimestrale per l’impugnativa, non era più contestabile.
La nullità delle delibere, prevista solo per quelle ad oggetto impossibile o illecito.
La inesistenza delle delibere, categoria non rintracciabile nelle pagine del codice o in una legge
speciale, ma creata, in spregio della legalità, dalla giurisprudenza per quelle delibere che
difettassero dei requisiti minimi di una legittima delibera assembleare. La sanzione ricollegata a
questa categoria creativa era la radicale nullità della delibera.
Con la legge del 2003 invece, è stato frenato l’impulso legislatore della giurisprudenza e creato un sistema
che, sebbene molto complesso, sembra rispondere meglio alle esigenze civilistiche di certezza del diritto e
così ossequioso del principio di tassatività delle cause di invalidità.
- [1] Le deliberazioni dell'assemblea, prese in conformità della legge e dell'atto sostitutivo, vincolano tutti i
soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti. (2)
- [2] Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate
dai soci assenti, dissenzienti od astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio
sindacale.
- [3] L'impugnazione può essere proposta dai soci quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con
riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente, l'uno per mille del capitale sociale
nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il cinque per cento nelle altre; lo statuto
può ridurre o escludere questo requisito. Per l'impugnazione delle deliberazioni delle assemblee speciali
queste percentuali sono riferite al capitale rappresentato dalle azioni della categoria.
- [4] I soci che non rappresentano la parte di capitale indicata nel comma precedente e quelli che, in quanto
privi di voto, non sono legittimati a proporre l'impugnativa hanno diritto al risarcimento del danno loro
cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto.
1) per la partecipazione all'assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata
determinante ai fini della regolare costituzione dell'assemblea a norma degli articoli 2368 e 2369;
2) per l'invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l'errore di conteggio
siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta;
3) per l'incompletezza o l'inesattezza del verbale, salvo che impediscano l'accertamento del contenuto, degli
effetti e della validità della deliberazione.
- [6] L'impugnazione o la domanda di risarcimento del danno sono proposte nel termine di novanta giorni
dalla data della deliberazione, ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, entro
- [7] L'annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori, il
consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria
responsabilità. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in
esecuzione della deliberazione.
- [8] L'annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con
altra presa in conformità della legge e dello statuto. In tal caso il giudice provvede sulle spese di lite,
ponendole di norma a carico della società e sul risarcimento dell'eventuale danno.
- [9] Restano salvi i diritti acquisiti dai terzi sulla base della deliberazione sostituita.
Quindi, al comma 1 è pacificamente sancito il principio che l’annullabilità è la normale forma di invalidità
delle delibere, tantoché è sancita ogniqualvolta queste siano prese non in conformità alla legge o allo
statuto. La nullità è categoria invece speciale, prevista nei tre casi tassativi dell’art 2379 c.c.
SI sofferma poi, al co.5 su alcune fattispecie che avevano generato clamore in relazione al fatto che erano
punite con la nullità ( inesistenza) prima della novella.
Ai comma 2, 3, 4 passa in rassegna i soggetti legittimati all’azione di annullabilità. Per i soggetti cui non
competa l’azione di annullabilità, il comma 4 attribuisce comunque un’azione risarcitoria per i danni
eventualmente patiti.
La sentenza di annullamento ha effetti retroattivi ma non pregiudica i diritti acquistati in buona fede da terzi
in base ad atti compiuti in esecuzione della delibera. Inoltre, obbliga gli amministratori a provvedere
all’esecuzione della stessa.
1. Abbiano oggetto illecito o impossibile, e quindi contrario a norme imperative, ordine pubblico o
buon costume. Va sottolineato che è nulla anche la delibera dal contenuto illecito: ad esempio la
delibera che approva un bilancio falso.
2. Siano emanate senza la previa convocazione dell’assemblea. Si precisa tuttavia che basterà
pubblicare data e luogo della seduta per scongiurare la sanzione, e che chi abbia preso parte
all’assemblea perde la legittimazione ad esperire l’azione.
3. Difettino di verbale. La nullità è scongiurata, tuttavia, nel caso in cui l’oggetto della delibera sia
sottoscritto dal presidente della seduta e contenga la data della delibera.
La legittimazione ad agire in via di nullità è assoluta come nel diritto comune dei contratti, e può essere
quindi anche rilevata d’ufficio dal giudice.
Al contrario invece, l’azione è soggetta al termine triennale di decadenza, decorrente dal deposito della
delibera nel registro delle imprese, salvo che la nullità contestata derivi dalla modificazione dell’oggetto
sociale in un’attività illecita. Per l’aumento e la riduzione del capitale sociale e per l’emissione di
Inoltre, come l’annullabilità, anche la nullità non pregiudica i diritti dei terzi acquistati in buona fede in
esecuzione della delibera, e può essere sanata se sostituita con un’altra delibera conforme alla legge.
Amministrazione e Controlli
In seguito alla riforma del 2003, l’ordinamento giuridico italiano prevede per le s.p.a. tre diversi modelli di
amministrazione e controllo:
Per tutte e tre le opzioni, il controllo contabile deve essere affidato ad una società esterna di revisione.
Gli Amministratori
L’art 2380 bis concede alle compagini societarie non quotate la facoltà di scegliere il numero di
amministratori che meglio gli competono. E quindi possono scegliere sia l’amministratore unico, che
l’amministrazione pluripersonale, nella forma del consiglio di amministrazione. Ancora, al suo interno, il
c.d’A. può articolarsi in altri organi come gli amministratori delegati e il comitato esecutivo.
Il potere gestorio, che implica che gli amministratori deliberino su tutto ciò che la legge non riservi
all’assemblea di deliberare.
La rappresentanza, che implica che gli amministratori possono esternare la volontà della società o
su loro iniziativa o in esecuzione di una delibera assembleare.
Hanno il potere di convocare l’assemblea e redigere l’ordine del giorno.
Devono provvedere agli adempimenti pubblicitari, contabili e redigere il progetto di bilancio.
Devono prevenire il compimento di atti pregiudizievoli per la società.
È la legge, non lo statuto ad attribuire queste facoltà-doveri agli amministratori: vuoi perché in talune
fattispecie essi controllano il regolare svolgimento del procedimento assembleare, vuoi perché gli
amministratori sono responsabili civilmente e penalmente delle loro azioni e omissioni.
Successivamente, gli amministratori sono nominati dall’assemblea ordinaria, ma lo statuto può prevedere
la possibilità che un amministratore sia nominato dai possessori di strumenti finanziari partecipativi.
Nelle società quotate, un amministratore deve essere nominato dalla minoranza. Inoltre, almeno un
componente del consiglio di amministrazione deve essere un c.d. amministratore indipendente, ovvero
deve soddisfare i requisiti di indipendenza previsti per i sindaci.
Una misura temporanea, inoltre, ha imposto per tre mandati a partire dal 2012 che almeno un terzo del
c.d’A. sia composto da componenti del sesso meno rappresentato.
Sono previste alcune cause di ineleggibilità e di incompatibilità come l’interdizione o l’interdizione dai
pubblici uffici.
La carica di un amministratore non può durare per un periodo superiore a tre esercizi, ma può essere
rinnovata.
L’istituto della prorogatio tutela la società dalla paralisi gestionale, infatti una volta cessato l’ufficio,
l’amministratore rimane in carica fino all’accettazione da parte dei nuovi amministratori della carica.
La nomina e la cessazione degli amministratori è soggetta a oneri pubblicitari come l’iscrizione nel registro
delle imprese.
Compenso
È particolare il modo in cui si atteggia il corrispettivo da pagare agli amministratori.
Oltre alla semplice obbligazione pecuniaria, il compenso può consistere in una partecipazione agli utili della
società, nel diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione ( le c.d. stock
options).
In ogni caso, modalità e misura del compenso degli amministratori sono incastonate nell’atto costitutivo.
Per amministratori particolari, come quello delegato invece, il compenso può essere stabilito dallo stesso
c.d’a. Inoltre, annualmente e contestualmente all’approvazione del bilancio, il C.d’A. presenta una relazione
sulla remunerazione di dirigenti e amministratori.
Divieti (o)
Il divieto posto in capo agli amministratori di una s.p.a. è essenzialmente uno, quello di concorrenza, che si
atteggia:
Tutto ciò, salvo l’autorizzazione dell’assemblea, concessa con delibera o con statuizione dell’atto costitutivo
anticipatoria.
Il consiglio di amministrazione
Quando l’amministrazione non sia affidata ad un soggetto unico, la legge impone la formazione del c.d’A.,
retto da un presidente nominato al suo interno, se non sia stato previamente nominato dall’assemblea.
Il consiglio è convocato dal presidente, che ne regola le attività e fissa l’ordine del giorno.
Per la validità delle decisioni del consiglio di amministrazione vige un quorum costitutivo della maggioranza
dei membri.
Anche il quorum deliberativo interno al consiglio è ossequioso del principio maggioritario ( per teste).
Le delibere del consiglio di amministrazione possono essere colpite con la moderna disciplina solo dalla
sanzione di annullabilità, non da quella di nullità. Il principio che regge la disciplina è contenuto nell’art
2388 c.c. e sancisce che sono annullabili tutte le delibere consiliari prese non in conformità alla legge o allo
statuto.
L’impugnativa può essere proposta da amministratori assenti alla votazione e dai sindaci, nonanche dai
soci, entro 90 giorni dalla delibera.
Quando la delibera consiliare, invece, leda direttamente un diritto del socio, è applicabile interamente la
disciplina sulla invalidità delle delibere assembleari, e chi patisce il danno è legittimato ad agire in via di
annullabilità.
Come sempre, l’annullamento della delibera non pregiudica i diritti dei terzi acquistati in buona fede in
esecuzione della delibera.
L’art 2391 c.c. invece, disciplina la più complessa regolamentazione del conflitto di interessi degli
amministratori:
- [1] L'amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che,
per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i
termini, l'origine e la portata; se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere
l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale, se si tratta di amministratore unico, deve darne
notizia anche alla prima assemblea utile. (2)
- [2] Nei casi previsti dal precedente comma la deliberazione del consiglio di amministrazione deve
adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell'operazione.
- [3] - Nei casi di inosservanza a quanto disposto nei due precedenti commi del presente articolo ovvero nel
caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante
dell'amministratore interessato, le deliberazioni medesime, qualora possano recare danno alla società
possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro
data; l'impugnazione non può essere proposta da chi ha consentito con il proprio voto alla deliberazione se
- [4] L'amministratore risponde dei danni derivati alla società dalla sua azione od omissione.
- [5] L'amministratore risponde altresì dei danni che siano derivati alla società dalla utilizzazione a
vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell'esercizio del suo incarico.
Il comitato esecutivo è un organo collegiale, e le sue decisioni sono adottate in riunioni nelle quali assistono
anche i sindaci.
Gli amministratori delegati sono invece organi unipersonali. Se ve n’è più di uno, essi agiscono
disgiuntamente o congiuntamente, e a loro spetta la rappresentanza della società.
I membri di entrambi gli organi sono designati dal consiglio di amministrazione, che determina anche la
materia della delega, tuttavia non possono essere delegati:
In ogni caso,la creazione di questi organi delegati comporta la concentrazione del potere decisionale nelle
mani di quest’ultimo.
Può apparire nuovo invece, il fatto che gli amministratori investiti del potere di rappresentanza debbano
essere predeterminati nell’atto costitutivo o nella deliberazione di nomina, soggetta a pubblicità legale.
Possono agire congiuntamente o disgiuntamente ( rispettivamente firma congiunta e disgiunta).
La rappresentanza è generale, quindi investe anche atti che non rientrino nell’oggetto sociale, ed è anche
processuale, attiva e passiva.
Per esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi, vigono dal 1969 le seguenti regole:
In linea di massima, vale il principio che le limitazioni al potere di rappresentanza di chi ne è investito,
possono essere opposte ai terzi- anche se pubblicate- solo se la società prova l’accordo fraudolento tra il
rappresentante e il terzo a danno della società. Non è sufficiente la mala fede del terzo.
Se non lo sono quelli convenzionali, sono invece sempre opponibili ai terzi i limiti legali al potere di
rappresentanza.
Verso la società
L’attuale disciplina traccia un modello abbastanza chiaro di responsabilità degli amministratori nei confronti
della società. Come al solito, quando si parla di responsabilità, c’è un modello di comportamento ideale la
cui non completa adesione fa scattare il meccanismo risarcitorio. Il modello scelto è quello
dell’amministratore normalmente diligente professionalmente.
Ne deriva che gli amministratori non sono responsabili per gli andamenti negativi dell’azienda non
imputabili ad una loro condotta negligente.
Peculiarità della disciplina, è che se gli amministratori sono più d’uno, essi sono responsabili in solido.
Tuttavia questo regime di responsabilità solidale soggiace ad alcune restrizioni: è pacifico che non sia
coobbligato al risarcimento dei danni cagionati direttamente da un altro amministratore, l’amministratore
cui non sia imputabile almeno la culpa in vigilando che ricaviamo dall’art 2392 comma 2: se questi erano a
conoscenza degli atti pregiudizievoli e non hanno fatto quanto possibile per scongiurarne le conseguenze
dannose, allora potranno essere chiamati a risarcire integralmente il pregiudizio patrimoniale. Resta fermo,
in questa fattispecie, il successivo diritto di regresso dell’amministratore negligens in vigilando. In ogni caso,
la responsabilità dell’art 2392 dev’essere almeno colposa, e la prova dell’assenza di colpa può essere
provata con l’annotazione nel libro delle adunanze del proprio dissenso all’atto e dalla notizia del suo
dissenso al collegio sindacale.
È anche possibile, quando in bonis, che la società rinunzi all’azione di responsabilità o pervenga ad una
transazione con l’amministratore negligente. In questo caso, tuttavia, l’accordo deve essere adottato in via
assembleare, e il voto contrario di una minoranza qualificata ( 20% per le società che non fanno ricorso al
mercato del capitale di rischio, 5% per le rimanenti) paralizza il patto con l’amministratore.
Una tutela delle minoranze societarie è stata da ultimo introdotta nel 1998, estesa poi nel 2003 a tutte le
s.p.a. e non solo a quelle quotate:
Le minoranze, che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o un quarantesimo seconda
che faccia ricorso o meno la società al mercato del capitale di rischio, possono proporre
autonomamente l’azione di responsabilità in forza dell’art 2393 bis.
L’amministratore si sia reso inadempiente nei confronti degli obblighi di conservazione del
patrimonio sociale.
Il patrimonio sociale risulti insufficiente a soddisfare le pretese creditorie.
L’azione dei creditori sociali nei confronti dell’amministratore è diretta e autonoma da quella sociale di
responsabilità, col corollario che l’amministratore non potrà opporre le eccezioni fondate sulla società e
che quanto corrisposto a titolo di risarcimento dagli amministratori ai creditori spetterà a questi ultimi fino
alla concorrenza del loro credito.
È vero, l’azione dei creditori è autonoma, ma è pacifico che lo “illecito”cui entrambe riferiscono è lo stesso:
va da sé che se l’amministratore è già stato colpito dall’azione sociale per aver reso il patrimonio societario
insufficiente a soddisfare i crediti, decadranno dalla possibilità di agire i creditori sociali nei confronti dello
stesso. Stesso dicasi se società e amministratori sono giunti a transazione.
È fuor di dubbio che in sede di dissesto, laddove legittimato all’azione è solo il curatore fallimentare, il
risarcimento dei danni ai creditori vada ad incrementare la massa attiva fallimentare.
Il collegio sindacale
Il collegio sindacale è l’organo di controllo interno atto a vigilare sull’amministrazione di una società per
azioni.
Una serie di fattori combinati, che impedivano l’utilizzo corretto dell’istituto, ha fortemente ridimensionato
molti aspetti della disciplina tracciata dal codice del 1942. Più che andare nello specifico però
nell’evoluzione della materia, soffermiamoci sugli aspetti rilevanti della regola in vigore.
Composizione
Nelle società non quotate, il collegio sindacale si compone di tre o cinque membri, soci o meno, secondo
quanto statutariamente stabilito. Devono essere nominati due supplenti.
In quelle quotate invece, fermo restando il numero minimo di tre sindaci, il collegio sindacale è a
composizione libera.
Nomina
I primi sindaci sono nominati nell’atto costitutivo. Successivamente la loro nomina è di competenza
dell’assemblea ordinaria. La nomina di un sindaco inoltre, può essere riservata ai possessori di strumenti
finanziari. La nomina degli amministratori va depositata nel registro delle imprese.
Viene subito al pettine un nodo di non poca rilevanza: il collegio, che dovrebbe vigilare
sull’amministrazione, è eletto dallo stesso organo che nomina gli amministratori.
Per le società quotate tuttavia, dal 1998 l’atto costitutivo deve prevedere che almeno un sindaco sia
espressione della minoranza assembleare, così da bilanciare il dispotismo del gruppo al comando.
Sussistono dal 2003 invece requisiti di professionalità, che si atteggiano diversamente per le società
quotate e per quelle non quotate:
Per le non quotate, almeno un sindaco e un supplente devono essere iscritti all’albo dei revisori
legali. Gli altri membri devono essere scelti da albi professionali individuati dal Ministero della
Giustizia o tra professori universitari di materie economiche o giuridiche.
Per le quotate, è il regolamento del Ministero della Giustizia a fissare i requisiti.
Sussistono cause di incompatibilità e di ineleggibilità, simili ma non uguali a quelle degli amministratori.
Nelle società ad azionariato diffuso o quotate, i sindaci devono rispettare il cumulo di incarichi stabilito
dalla Consob, per scongiurare l’inefficacia del controllo a causa dei troppi impegni sul capo. Nelle altre
società i limiti possono essere statutariamente stabiliti.
Per esigenze di garanzia, il compenso dei sindaci deve essere predeterminato ed invariabile nel corso della
carica, che ha durata di tre esercizi, rinnovabile.
Altra fattispecie di cessazione è la decadenza dall’incarico, che interviene in caso sopraggiunga una causa di
ineleggibilità o incompatibilità, o perché il sindaco deliberatamente diserti le riunioni o le assemblee.
In caso di cessazione di un sindaco, subentra il supplente fino alla successiva convocazione dell’assemblea
che ne nomini di nuovi.
Il controllo sull’amministrazione
Il controllo sull’amministrazione è la funziona primaria, sebbene non esclusiva, del collegio sindacale.
La revisione legale dei conti della società non è più di competenza dei sindaci, salvo diversa indicazione
statutaria. Qualora però lo statuto sovverta questa norma dispositiva, allora il collegio deve essere
interamente composto da revisori iscritti al rispettivo albo.
Innanzitutto, andiamo a qualificare il controllo ecome globale, come sancito dall’art 2403 c.c., ovverosia
riguardante ogni aspetto dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società e il concreto
funzionamento. La vigilanza quindi si esplica nei confronti degli amministratori in primo luogo, ma anche
dell’assemblea, con rispettivo dovere di parteciparne alle riunioni e impugnare le delibere contestabili.
Il controllo inoltre è sintetico, salvo in alcuni specifici atti sanciti dalla legge, cui consegue che le modalità di
esercizio dello stesso sono rimesse alla discrezionalità dei sindaci.
Per abilitare questo controllo sono imposti specifici e tempestivi obblighi di informare i sindaci circa tutte le
operazioni rilevanti svolte da:
Amministratori.
Soggetti incaricati al controllo contabile.
Consob sulle irregolarità.
Atti di ispezione.
Atti di controllo.
Convocare l’assemblea qualora vengano ravvisati fatti di rilevante gravità.
Convocare il c.d’A.
Promuovere il controllo giudiziario.
Funzionamento
Il presidente del collegio sindacale è eletto dall’assemblea e nelle società quotate deve essere scelto tra i
sindaci espressione della minoranza.
II quorum costitutivo del collegio è la maggioranza, idem per quello deliberativo, per teste.
I soci inoltre, ai sensi dell’art 2408 c.c., possono sollecitare con denunzia l’attività di controllo sindacale sui
fatti che ritiene censurabili. L’unico obbligo che attiva la denunzia è però quello di rendiconto di questi fatti
annuale in assemblea. Se invece la denunzia è posta in essere dal 5 o dal 2% del capitale sociale,
rispettivamente per società che fanno ricorso o meno al mercato del capitale di rischio, il collegio è tenuto
ad indagare senza ritardo e a convocare l’assemblea se lo ritiene necessario.
La responsabilità è esclusiva e solidale. In particolare, sappiamo che nella stragrande maggioranza dei casi il
danno patito deriva dal difetto di controllo sull’attività d’amministrazione: in questa evenienza, se i sindaci
fossero stati in grado di scongiurare il pregiudizio patrimoniale vigilando sugli amministratori, sono con
questi ultimi responsabili in solido.
Da questo punto in poi della trattazione, comincio a saltare l’analisi di alcuni argomenti per la loro
scarsissima attitudine ad essere chiesti in sede d’esame. Tuttavia – e lo dico per esonerarmi da qualsiasi
ipoteticissima responsabilità- la mia pigrizia non giustifica la tua, caro studente. Perciò, ti invito quanto
meno a leggere le parti trascurate. In rosso io darò notizia di ogni skip.
Salto la Revisione Legale dei Conti. Momentaneamente anche i sistemi alternativi ecc.
Le modificazioni possono essere le più diverse: ne deriva che la disciplina di ognuna di esse è decisamente
scarna; la legge si limita a regolare i procedimenti legittimi.
Le modificazioni dello statuto competono all’assemblea dei soci in sede straordinaria ai sensi dell’art. 2365
c.c.
Con la novella dell’art 2436 c.c. del 2000 è modificato anche il regime pubblicitario delle modifiche
statutarie, ed è ora il notaio che verbalizza la delibera dell’assemblea che verifica l’adempimento delle
condizioni di legge e iscrive la modifica nel registro delle imprese. Ancora, la deliberazione produce i suoi
effetti solo dopo l’iscrizione.
Proprio a tutela di questi interessi, gli artt 2437 ss. del codice civile attribuiscono il diritto di recesso al socio
dissenziente e minoritario in determinate fattispecie.
Le cause scatenanti il sorgere del diritto di recesso del socio sono a seguito della riforma del 2003 molto più
numerose e si dividono in:
Cause inderogabili.
Possono esercitare il diritto di recesso i soci dissenzienti, assenti, astenuti alle delibere riguardanti:
- La modifica dell’oggetto sociale.
- La trasformazione della società.
- Il trasferimento della sede sociale all’estero.
- L’eliminazione di una o più cause di recesso derogabili.
- Le modificazioni dello statuto concernenti diritto di voto o diritti patrimoniali.
In queste fattispecie, il diritto di recesso è inderogabile, ed è nullo il patto contrario.
Cause derogabili.
Spetta ai soci dissenzienti, assenti e astenuti, salvo diversa disposizione statutaria il diritto di
recesso per:
- La proroga del termine di durata della società.
- L’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione di azioni.
Società a tempo indeterminato.
In ossequio al disfavor legislativo verso i vincoli giuridici perpetui, il contratto sociale a tempo
indeterminato abilita il socio a recedere dalla società con preavviso, almeno semestrale, allungabile
ad un anno dallo statuto.
Le azioni oggetto del recesso non possono essere alienate e devono essere tempestivamente depositate
presso la sede della società.
Disciplina delicata è quella che regola la determinazione del valore delle azioni da rimborsare in forza del
recesso: con l’attuale formulazione dell’art 2437 ter, il valore delle azioni da rimborsare – per le società non
quotate- è determinato dagli amministratori, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società,
delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni, salvo più precise
disposizioni statutarie.
L’importo del rimborso per le azioni quotate invece, è determinato tramite la media aritmetica dei prezzi di
chiusura nei sei mesi che precedono la convocazione dell’assemblea.
L’art 2347 quater invece disciplina le modalità di rimborso delle azioni oggetto del recesso:
Innanzitutto, le azioni devono essere offerte in opzione agli azionisti e ai titolari di obbligazioni
convertibili in proporzione alla loro partecipazione.
Solo in seguito le azioni invendute possono essere messe sul mercato.
Veniamo agli aumenti. Con gli aumenti reali o a pagamento del capitale sociale, l’assemblea intende
procurarsi nuovi conferimenti a titolo di capitale di rischio. All’aumento reale quindi, consegue l’emissioni
di nuove azioni, sottoscritte da soci, in forza del loro diritto di opzione, o da terzi.
Regola generale è che non è consentito fare aumenti di capitale se non sono state interamente liberate
tutte le azioni tramite conferimenti. Ma la delibera di senso contrario non è affatto nulla: restano salvi gli
obblighi scaturenti dalla sottoscrizione e gli amministratori sono solidalmente responsabili per i danni
inferti.
In via di principio è l’assemblea straordinaria a deliberare l’aumento di capitale. Ma in via eccezionale può
essere conferita una delega agli amministratori, con i seguenti limiti:
La deliberazione deve fissare un termine non inferiore a trenta giorni per raccogliere le
sottoscrizioni all’aumento.
Se l’aumento non è integralmente sottoscritto ( sottoscrizione parziale):
il capitale è aumentato di importo pari alle sottoscrizioni, se è lo statuto a prevederlo. In caso
contrario, l’aumento è inscindibile, e le sottoscrizioni raccolte sono improduttive di effetti
obbligatori.
Per i conferimenti, vale la disciplina enunciata per il conferimento di costituzione della società.
L’art 2442 c.c. spiega come questo tipo di aumento del capitale si produca imputando a capitale le riserve o
gli altri fondi iscritti nel bilancio in quanto disponibili. Tra questi, non è imputabile la riserva legale, almeno
per la parte che non superi il 20% del capitale sociale.
L’effetto principale di questa deliberazione è che gli importi imputati fuoriescono dall’area del patrimonio
netto sociale, distribuibile tra i soci, ed entrano a far parte del capitale vincolato della società.
L’attuazione dell’aumento si produce o emettendo nuove azioni, che vengono assegnate gratuitamente ai
soci in proporzione alla loro partecipazione ed hanno le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, o
aumentando il valore nominale di quelle detenute.
l diritto di opzione quindi è senza dubbio un diritto patrimoniale, alienabile da parte del socio, sacrificabile
in caso di interesse superiore della società.
L’esercizio del diritto deve essere assoggettato ad un termine almeno mensile che decorre dalla
pubblicazione dell’offerta.
È possibile che all’offerta derivante dal diritto di opzione, il socio risponda negativamente. Sulle azioni
inoptate quindi, sta il diritto di prelazione dei soci che hanno esercitato il diritto di opzione, se ne hanno
fatto menzione all’atto dell’esercizio del diritto - per le azioni non quotate. Per le azioni quotate invece, i
diritti di opzione relativi devono essere offerti nel mercato regolamentato dagli amministratori.
Solo a seguito dell’infruttuoso utilizzo di questi strumenti giuridici le azioni possono essere liberamente
collocate dagli amministratori.
Vi sono poi dei casi specifici in cui il diritto di opzione degli azionisti è escluso:
Nei casi 1,2, l’esclusione del diritto di opzione cagiona l’emissione con sovrapprezzo, ovvero i nuovi soci
pagano le azioni sopra la pari, verso un prezzo maggiore di quello nominale.
Tutti questi casi decadono in caso a sottoscrivere le nuove azioni sia una banca o un altro soggetto
autorizzato al collocamento di strumenti finanziari. In capo a questi soggetti sorge un obbligo di rioffrire
quanto sottoscritto ai soci aventi diritto di opzione.
L’art 2445 incide sulla regolamentazione della riduzione reale, imponendo cautele sostanziali e
procedimentali:
Non può essere ridotto il capitale al di sotto del limite di 50.000 euro.
La riduzione si produce attraverso la liberazione di conferimenti ineseguiti, la riduzione del valore nominale
delle azioni, tramite acquisto e annullamento di azioni da parte della società, tramite estrazione a sorte ed
annullamento di determinate azioni con rimborso del solo valore nominale. In quest’ultima fattispecie, ai
soci che hanno visto le loro azioni annullate vengono attribuite di azioni di godimento per la differenza tra il
valore di mercato e quello nominale, le quali partecipano alla ripartizione dell’utile solo dopo che sia stato
corrisposto alle altre azioni un dividendo pari all’interesse legale sul loro valore nominale, non attribuiscono
il diritto di voto, e il cui rimborso e postergato a quello del valore nominale delle altre azioni.
La riduzione del capitale sociale per perdite, o nominale, consegue ad una diminuzione del capitale reale
della società. Il patrimonio sociale resta invariato: la società adegua il valore nominale del capitale di rischio
alla consistenza attuale del patrimonio.
Quando la perdita sia superiore ad un terzo del capitale di rischio. Ed è sottinteso che la perdita
deve aver completamente eroso le riserve, non è perdita quella di uguale o minor valore alle
riserve.
Nel caso in cui la perdita sia superiore al terzo del capitale sociale, se non erode il minimo legale è
obbligo dell’amministratore convocare l’assemblea e sottoporle una situazione patrimoniale
aggiornata della società ( una sorta di bilancio infrannuale).Di seguito, l’assemblea può anche
rinviare la riduzione del capitale, ma non può prorogare l’operazione se la perdita non risulta
diminuita di almeno un terzo nell’esercizio successivo. Se il minimo legale è intaccato il giorno
dell’approvazione del bilancio, l’amministrazione convoca l’assemblea, che a sua volta decide per la
trasformazione, lo scioglimento o la riduzione del capitale.
È scelta tipica delle società quella di ridurre comunque il capitale sociale per poter distribuire gli
utili, ipotesi scongiurata in caso di perdita non convertita in riduzione.
Con la novella del 2003, il fallimento della società non è più causa di scioglimento della stessa.
Tempestivamente, gli amministratori provvedono all’iscrizione nel registro delle imprese della delibera che
proclama lo scioglimento.
Anche il prodursi degli effetti giuridici della fattispecie di scioglimento è stato modificato nel 2003: oggi
decorrono dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera, non al ricorrere delle cause sopracitate.
La posizione degli amministratori è solida fino a quando non entrino in azione i liquidatori: sono
responsabili della conservazione del patrimonio sociale, e in questo senso vedono sensibilmente limitato il
loro margine operativo come disposto dall’art 2486 c.c.; hanno potere di gestire la società solo ai fini della
conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio della società liquidanda.
Quella del collegio sindacale rimane sostanzialmente inalterata: come controllavano gli amministratori, così
faranno con i liquidatori.
La novella del 2003 ha chiarito che è sempre possibile da parte dell’assemblea straordinaria revocare lo
stato di liquidazione. Ma alla revoca possono opporsi i soci dissenzienti col recesso, e i creditori con
l’opposizione, nelle medesime modalità previste per la riduzione di capitale facoltativa.
Il procedimento di liquidazione
L’art 2487 c.c. traccia la strada sulla procedura finale di una società per azioni: il procedimento di
liquidazione si apre con la nomina di uno o più liquidatori da parte dell’assemblea straordinaria, che ne
regola anche i poteri, gli obblighi, le attività.
Nomina e revoca dei liquidatori vanno depositate nel registro delle imprese.
L’art 2489 c.c. disciplina invece poteri, obblighi e responsabilità dei liquidatori, preso atto che la loro
posizione è peculiarmente simile a quella degli amministratori:
La responsabilità dei liquidatori è per colpa ( devono compiere il loro dovere diligentemente) ed è
modellata su quella degli amministratori.
I liquidatori prendono in consegna dagli amministratori i documenti sociali, e con questi ultimi
redigono l’inventario del patrimonio societario.
I liquidatori devono e possono compiere tutti gli atti utili alla liquidazione.
I liquidatori soddisfano in primo luogo i creditori sociali: fin quando non è saldato l’ultimo debito,
nessun bene può essere ripartito tra i soci. A oggi è comunque ammessa la possibilità di distribuire
acconti ai soci. Se i fondi risultano insufficienti, i liquidatori possono chiedere ai soci il versamento
delle azioni non liberate.
Redigono annualmente il bilancio.
Soddisfatti i creditori, i liquidatori redigono il bilancio finale di liquidazione e indicano la parte
spettante ad ogni socio di residuo attivo ( c.d. piano di riparto). Il bilancio finale deve essere
approvato dai singoli soci, non dall’assemblea, tuttavia è previsto un meccanismo di approvazione
tacita per snellire i tempi.
Approvato il bilancio finale, i liquidatori chiedono la cancellazione della società dal registro delle
imprese.
Intervenuta la cancellazione, e benché la società sia estinta, se vi sono creditori sociali rimasti
insoddisfatti, essi possono:
- Soddisfarsi sui soci, nei limiti delle somme da questi introitate in base al piano di riparto.
- Soddisfarsi sui liquidatori, se è loro responsabilità il mancato pagamento.
- Entro un anno dalla cancellazione, possono chiedere il fallimento della società.
Le Obbligazioni
Le Obbligazioni
Le obbligazioni sono titoli di credito che rappresentano frazioni di uguale valore nominale e con diritti
omogenei di una sola operazione di finanziamento a titolo di mutuo. In sostanza l’obbligazione è una
sezione di un credito verso la società.
Molto differente da quella dell’azionista è quindi la qualità che consegue il titolare di un’obbligazione: egli è
essenzialmente un creditore della società.
1. Una quantità di denaro periodica e fissa, che rappresenta l’interesse del credito.
2. Al rimborso del valore nominale del capitale prestato.
Mentre emerge chiara la differenza quindi tra titolari di azioni e obbligazioni, meno pacifica è quella tra
obbligazionisti e titolari di strumenti finanziari partecipativi. È vero, sono entrambi apporti di denaro non
Sono titoli di massa, ovvero sono frazioni standardizzate di un’unica operazione economica.
Danno il diritto ad essere rimborsati di una somma di denaro. E in quest’ultima fattispecie, nulla
rileva l’andamento della società, mentre può rilevare la soddisfazione di altri creditori sociali.
La pattuizione degli interessi può essere invece modulata all’andamento societario.
Gli strumenti finanziari partecipativi sono invece categoria utilizzata dal codice all’art 2346 c.c., residuale in
quanto ricomprende tutti gli strumenti finanziari emessi dalla società diversi da quelli disciplinati. Possono
attribuire anche diritti amministrativi, salvo quello di voto in assemblea.
È utile alla nostra analisi comunque citare l’art 2411 c.c., che applica ali s.f.p. la stessa disciplina delle
obbligazioni se i primi condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico
della società.
Le obbligazioni indicizzate.
Abilitate per le s.p.a. dall’art 2411 al comma 2, come novellato dalla riforma del 2003.
Sono obbligazioni che mirano a paralizzare il fenomeno della svalutazione monetaria
ancorando interessi e rimborso del capitale ad indici di qualsiasi natura, comprese le sorti
patrimoniali della società.
Le obbligazioni convertibili in azioni.
Che consentono al titolare in ogni momento di convertire il proprio titolo obbligazionario in
un’azione della società emittente ( procedimento diretto) o di un’altra ( procedimento
indiretto).
Le obbligazioni con warrant.
Che attribuiscono al titolare la facoltà di sottoscrivere o acquisire quote di partecipazione
societaria, fermo restando il credito per le obbligazioni detenute.
Le obbligazioni subordinate.
Sono obbligazioni per le quali, sostanzialmente, il soddisfacimento del debito è in tutto o in
parte subordinato al pagamento di altri creditori, in caso di scioglimento della società o di
dissesto.
Le obbligazioni partecipative.
sIn cui l’interesse è commisurato in tutto o in parte all’andamento della società.
Scelta acuta del legislatore la individuiamo all’art 2413 c.c., che ha sancito come il rapporto tra il capitale
sociale e il capitale raccolto in prestito deve protrarsi per tutta la durata del vincolo obbligatorio. Ne
consegue che la società non può né ridurre volontariamente il capitale sociale né distribuire riserve; può
effettuare una riduzione obbligatoria, ma in quel caso la distribuzione degli utili è paralizzata fino al
ripristino del limite dell’art. 2412 co.1.
Deroga di maggior valore ermeneutico è quella ormai pacificamente concessa alle banche, per le quali
ormai non è applicabile quasi nessun aspetto della disciplina dell’obbligazione contenuta nella legge civile.
L’emissione dell’obbligazione
Se è sempre vero che l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni è ancora di competenza
dell’assemblea straordinaria, per le altre categorie obbligazionarie l’emissione è deliberata dagli
amministratori ( 2410 c.c.)
La delibera di emissione deve risultare da verbale redatto da notaio e deve essere iscritta nel registro delle
imprese, deposito che è suscettivo di produrre gli effetti della delibera stessa.
Gli importi,le generalità e le vicende delle obbligazioni sono iscritte nell’apposito libro delle obbligazioni.
Queste sono titoli obbligazionari che attribuiscono il diritto, secondo un determinato tasso di cambio, a
trasformare il capitale versato in conferimento. L’esercizio del diritto di conversione quindi, rende il titolare
da obbligazionista ad azionista.
Agli azionisti e ai possessori di azioni convertibili spetta il diritto di opzione sui nuovi titoli emessi.
Inoltre, data la possibilità di trasformazione, a queste obbligazioni è applicata parte della disciplina sulla
sottoscrizione di azioni e sull’aumento di capitale:
La posizione del titolare di obbligazioni convertibili è però altamente suscettiva di essere alterata da
comportamenti scorretti del gruppo di comando della società. A tutela dell’interesse di questi:
In caso di aumenti di capitale a pagamento, l’opzione attribuita agli azionisti spetta anche agli
“obbligazionisti convertibili”.
In caso di aumento gratuito del capitale o di riduzione per perdite, il rapporto di cambio è
immediatamente modificato in proporzione all’aumento o alla riduzione del capitale sociale.
La società non può deliberare riduzioni volontarie, fusioni, scissioni, o altre modificazioni statutarie
circa la ripartizione degli utili finche decorre il diritto di conversione, salvo che conceda agli
obbligazionisti la facoltà di conversione anticipata.
Rappresentante comune.
L’assemblea.
A questa assemblea, come a quelle delle azioni speciali, si applicano le regole dell’assemblea straordinaria.
Il quorum deliberativo per il punto 2 dell’elenco precedente è del 50% del capitale di prestito, anche in
seconda convocazione. Le deliberazioni di queste assemblee sono iscritte nel registro delle imprese.
Anche la nomina del rappresentante comune deve essere depositata nel solito registro del cazzo, dura un
periodo non superiore a tre esercizi ma è rinnovabile. Il rappresentante comune tutela i titolari di
obbligazioni e dalla società e dai terzi. Poi:
Esegue le delibere.
Assiste alle operazioni di sorteggio per l’estinzione delle obbligazioni.
L’accomandatario.
Che è illimitatamente e solidalmente chiamato a rispondere per le obbligazioni sociali, ed è anche
amministratore . ( 2455 c.c.)
L’accomandante.
Che risponde nei limiti del capitale sottoscritto.
Inoltre, la partecipazione dei soci a questo tipo di società si esplica nel modello delle azioni.
L’art 2454 c.c. è utile a dirimere dei dubbi sulla disciplina relativa: in sostanzia si applicano le norme sulla
società per azioni in quanto compatibili con le disposizioni specificamente emanate per questo tipo
societario.
Ancora, il socio che cessi di essere amministratore non risponde per le obbligazioni successive all’iscrizione
nel registro della cessazione del suo incarico e diventa accomandante. E viceversa vale per chi da
accomandante divenga amministratore ( accomandatario).
La disciplina in breve
I creditori possono aggredire il patrimonio degli accomandatari solo dopo aver infruttuosamente
cercato soddisfazione sul patrimonio sociale. ( 2461 c.c.)
Gli accomandatari non hanno diritto di voto sulla nomina del collegio sindacale o di sorveglianza,
nonché sulle delibere circa l’esercizio dell’azione di responsabilità nei loro confronti.
Agli accomandatari è attribuito diritto di veto ( occhio, veto, non voto, non è un refuso) sulle
modificazioni statutarie.
L’ufficio degli amministratori è permanente. Ma è oggetto di revoca, anche senza giusta causa.
È prevista un’ulteriore causa di scioglimento della società, ricorrente se entro 180 giorni dalla
cessazione dell’ultimo amministratore non si provveda alla nomina di un altro.
Per le obbligazioni sociali risponde solo il patrimonio della società ( art 2462 comma 1).
Le partecipazioni non possono essere rappresentate da azioni, né possono formare oggetto di
offerta al pubblico.
È fatto divieto di emettere obbligazioni. Ciononostante, nel 2003 è stato consentito alle s.r.l. di
emettere titoli di debito al fine di convogliare capitale di credito, titoli comunque inidonei ad essere
collocati tra il pubblico dei risparmiatori. Questi titoli possono essere acquisiti solo da investitori
professionali soggetti a vigilanza prudenziale, i quali, come già visto, rispondono dell’insolvenza
della società se il loro avente causa potenziale non è investitore professionale. Il taglio minimo dei
titoli è inoltre 50.000 euro. ( le c.d. cambiali finanziarie).
Il requisito di capitale.
Il capitale sociale deve essere almeno di diecimila euro. Tuttavia il requisito non è assoluto: può
anche costituirsi s.r.l. con capitale inferiore, con la conseguenza, però, che i conferimenti devono
versarsi in denaro e per intero al momento della sottoscrizione del capitale. Ciò non è vero per il
caso della riduzione di capitale oltre il minimo legale suddetto, che ne causa lo scioglimento.
La novella del 2003 ha profondamente innovato la disciplina della struttura organizzativa della s.r.l. La
disciplina attuale, meglio si adatta alle esigenze che i privati avevano riscontrato nella prassi: oggi la società
a responsabilità limitata è il modello più vicino agli interessi delle piccole e medie imprese, in cui il fattore
personale è più rilevante che nella società per azioni, e in cui la partecipazione attiva dei soci alla
formazione della volontà dei societari è più diretta ed efficace.
Inoltre, è ammesso, a contrario delle s.p.a., il conferimento tramite prestazione d’opera o di servizio, a
patto che questo sia integralmente coperto da assicurazione o fideiussione bancaria.
È semplificato anche il procedimento dei conferimenti in natura, per il quale ad essere chiamato in causa
non è più un perito ma un revisore o una società di revisione iscritti nell’apposito albo.
Particolare, poi, è la posizione del socio moroso, disciplinata all’art 2466 c.c., che si applica anche al socio le
cui fideiussioni/assicurazioni siano scadute o divenute inefficaci:
il socio che non abbia versato il conferimento sottoscritto non può partecipare alle decisioni della
società.
La società è abilitata a vendere coattivamente le quote del socio moroso, ferma restando
l’esperibilità dell’azione giudiziaria. Tra l’altro, se non si trovano compratori per le quote non
liberate, alla s.r.l. non resta che ridurre il capitale sociale per l’importo corrispondente, dato che
non è ammesso che questo tipo di società acquisti le proprie partecipazioni.
Regola importante è fissata nell’art. 2467 c.c.: il pagamento dei crediti erogati dai soci alla società è
postergato rispetto al rimborso degli altri creditori. Con questa norma si è inteso contrastare il fenomeno
delle società sottocapitalizzate.
Le quote sociali
Nelle s.r.l. il capitale è suddiviso secondo un criterio personale.
Il numero delle quote sociali è corrispondente al numero dei soci che hanno costituito la società, a questi
spetta un'unica partecipazione percentuale sul totale del capitale sottoscritto. Le quote quindi non sono di
uguale ammontare fra di loro, e perciò non attribuiscono uguali diritti.
La regola generale è che i diritti sociali spettino in proporzione al conferimento versato ( art 2468 c.c.).
Tuttavia la norma sottolineata è dispositiva, anzi, è ampliamente derogabile dall’autonomia statutaria, che
può prevedere quote con speciali diritti amministrativi oppure privilegiate dal punto di vista patrimoniale.
Il documento rilasciato dalla società per la quota sociale, ha valore meramente probatorio e non
rappresenta un titolo di credito. Perciò non può circolare la partecipazione con la consegna del documento,
o con le altre agevolazioni circolatorie dei titoli.
Il diritto di recesso rappresenta l’unica via di uscita, alle volte, per il socio di minoranza, dagli abusi del
gruppo di controllo. Non avendo mercato le quote delle s.r.l., solo recedendo dal contratto sociale egli può
recuperare il suo investimento.
L’art 2473 attribuisce ampie deleghe all’autonomia statutaria circa i requisiti e le modalità di esercizio del
diritto suddetto, ma lo riconosce inderogabilmente in 3 casi:
a) Se la società è a tempo indeterminato, il socio può recedere con preavviso semestrale, come già
citato.
Il recesso attribuisce il diritto a veder rimborsata la propria quota entro centottanta giorni dalla
comunicazione relativa alla società.
Come è scontato, la quota del socio recedente deve essere prima offerta in opzione agli altri soci od un
terzo concordemente individuato dai soci. Permasta invenduta la partecipazione, si procede al rimborso
tramite le riserve o con riduzione reale del capitale. Se anche la riduzione è impossibile per l’opposizione
dei creditori, la società si scioglie.
Inoltre è previsto che il socio possa essere escluso dalla società per una giusta causa determinata in sede
statutaria. A questa fattispecie si applica quella del recesso, salvo che per la disciplina della riduzione reale
del capitale.
I trasferimenti di quote di s.r.l. soggiacciono al regime della forma solenne, espletato o tramite scrittura
privata autenticata dal notaio, o tramite documento informatico sottoscritto digitalmente. La cessione,
inoltre, è soggetta al regime pubblicitario dell’iscrizione nel registro delle imprese.
Il trasferimento è ossequioso del principio consensualistico, tuttavia esso è inopponibile alla società fino al
deposito nel registro sopracitato. L’iscrizione ha forza di pubblicità dichiarativa, e l’iscrizione anteriore
prevale su quella posteriore.
Come già visto, è vietato l’acquisto di proprie quote da parte della società. Inoltre, non può nemmeno
accettare in garanzia proprie quote societarie.
Il creditore inoltre, può espropriare la quota con conseguente vendita coattiva o assegnazione della stessa
al creditore.
È poi possibile che la quota non sia liberamente trasferibile, come previsto in alcuni statuti: in questa
fattispecie, la società ha tempo 10 giorni, in cui la vendita non è opponibile a lei, per proporre un
acquirente a prezzo pari a quello dell’avente causa. E stesso discorso è applicabile per qualsiasi vincolo
reale sul bene.
Il secondo comma dell’art 2479 c.c. rimette alle decisioni dei soci:
Su queste materie, solitamente a deliberare è l’assemblea. Tuttavia per le s.r.l. è prevista una peculiare e
snella procedura che cagiona la validità della decisione dotata del semplice consenso espresso per iscritto
della maggioranza del capitale sociale. Ciononostante, resta ferma la modalità assembleare per le
modificazioni dell’oggetto sociale o dei diritti dei soci, e per la riduzione di capitale reale obbligatoria, o
allorquando ne facciano richiesta soci che riuniscano un terzo del capitale sociale.
Del tutto particolare è anche la disciplina dell’assemblea, per larga parte delegata allo statuto, che ne
decide ad esempio i modi di convocazione.
Possono intervenire in assemblea tutti i soci e non operano le limitazioni per la rappresentanza previste per
le s.p.a., e come è ovvio, il voto vale in base all’entità della quota.
Il quorum costitutivo dell’assemblea ordinaria è almeno la metà del capitale sociale tutto.
Il quorum deliberativo è della maggioranza assoluta del capitale intervenuto. Salvo che per le
decisioni straordinarie ( che conosciamo) per cui il quorum è della maggioranza del capitale sociale
tutto.
Qualunque socio è legittimato attivo dell’impugnativa contro le decisioni prese in difformità dalla
legge o dall’atto costitutivo, con termine di decadenza trimestrale dalla trascrizione nel libro delle
decisioni dei soci.
Il tribunale, può a sua volta assegnare alla società un termine al massimo semestrale per adottare
una decisione suscettiva di eliminare le cause di invalidità. La sostituzione sana retroattivamente la
decisione e fa salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in esecuzione della delibera.
Per l’esperimento delle azioni di invalidità che accomuniamo per esigenze di studio a quelle viste per la
nullità della delibera della s.p.a., il termine di decadenza è invece triennale e la legittimazione assoluta. Non
vi è limite di decadenza per le impugnative delle delibere che modificano l’oggetto sociale in una attività
illecita. Sul resto disciplinano le regole della s.p.a.
L’amministrazione, in caso di lacuna statutaria, è affidata a uno o più soci che restano in carica a tempo
indeterminato. Se l’amministrazione è pluripersonale, allora deve essere collegiale, salvo ancora diversa
disposizione dell’atto costitutivo. Infatti lo statuto può prevedere anche il regime dell’amministrazione a
firma disgiunta o congiunta, come nella società di persone, di cui è applicabile la disciplina.
Gli amministratori hanno potere di rappresentanza della società e valgono le medesime regole sul conflitto
d’interessi, inclusa l’impugnabilità delle decisioni pregiudizievoli con voto determinante di un
amministratore in conflitto d’interessi.
Peculiare è invece l’istituto dell’azione di responsabilità contro gli amministratori di cui all’art 2476 c.c.:
Circa l’organo di controllo, sottolineiamo come salvo diversa disposizione statutaria, è composto da un solo
soggetto. La nomina dell’organo di controllo e del revisore è tuttavia obbligatoria se:
All’organo di controllo della s.r.l. si applicano le regole sul collegio sindacale della s.p.a.
In questa particolare forma societaria, il difetto di obbligatorietà della costituzione dell’organo di controllo
e del revisore è sopperito dagli ampi poteri di controllo e consultazione continua attribuita ai singoli soci,
che sono titolari di poteri propri dei sindaci in alcune fattispecie, in altre hanno diritto ad essere
continuamente informati dagli amministratori sulla gestione societaria. Viene così ancora una volta
sottolineato il carattere spiccatamente personale di questa forma di impresa.
Questo modello di società può essere costituito solo da persone fisiche. Non è più richiesto che i soci siano
infratrentacinquenni e non è più inalienabile verso ultratrentacinquenni la quota di partecipazione.
Il capitale sociale non può essere inferiore a un euro e superiore a 10.000 euro. Sono ammessi solo
conferimenti in denaro, e il capitale sottoscritto deve essere immediatamente versato nelle mani degli
amministratori.
Deve essere costituita la s.r.l. semplificata per atto pubblico, ma l’iscrizione nel registro delle imprese è
esente da bolli e oneri notarili.
Decisivo punto di disciplina è quello che paralizza completamente l’autonomia statutaria: l’atto costitutivo
deve essere redatto nella forma standard tipizzata con decreto del Ministero della giustizia.
La riforma del 2003, che ha novellato l’istituto, ha introdotto numerose novità, tra le cui spicca la ricezione
legislativa della differenza tra trasformazione omogenea e eterogenea, la prima idonea a definire il
passaggio da un tipo societario all’altro, la seconda da società di capitali ad altri enti.
Non si ha estinzione della società preesistente, la medesima società muta veste giuridica, ma conserva i
diritti, gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, dell’ente trasformato ( art 2498 c.c.).
La trasformazione omogenea
Procedimento
La trasformazione omogenea è sottoposta al regime già visto per le modificazioni dell’atto costitutivo, e ai
relativi quorum.
La delibera che approva la trasformazione deve essere consentanea ad assumere il nuovo tipo societario, e
quindi deve rispettare le regole civilistiche previste per la veste giuridica cui si transita.
Nel caso di trasformazione da società di persone a società di capitali, la delibera è sottoposta alla forma
solenne, e il nuovo patrimonio sociale è sottoposto a stima secondo le norme analizzate sui conferimenti:
ratio della norma è scongiurare l’elusione di quei disposti, posti come sentinella contro la
sottocapitalizzazione.
La delibera è iscritta nel registro delle imprese. Con l’adempimento pubblicitario, la procedura si perfeziona
e promana i suoi effetti, e ad ogni socio è attribuita partecipazione pari al capitale investito.
Al contrario invece, la trasformazione di senso contrario non esonera dalla responsabilità illimitata il socio
investito di tale onere per le obbligazioni anteriori all’iscrizione della delibera nel registro delle imprese,
solo per quelle posteriori. Tuttavia delle novità di recente introdotte hanno incentivato la trasformazione in
questo senso:
Il consenso dei creditori alla trasformazione è ipso iure liberatorio dei soci a responsabilità
illimitata.
Il consenso dei creditori può essere manifestato anche col silenzio, poiché, una volta attestata la
notifica, con mezzi che assicurano la prova del ricevimento da parte del creditore, questi dispone di
60 giorni per opporsi espressamente alla trasformazione, decorsi il quale i soci a responsabilità
illimitata solo liberati.
La trasformazione eterogenea
L’art 2500 ( nelle sue numerazioni) c.c. è stato riformato anche nelle parti in cui disciplinava la
trasformazione da società di capitali in altri enti, e di altri enti in società di capitali. Esclusa, almeno fino ad
ora, dalla novella, è stata la società di persone.
L’art 2500 septies abilita la trasformazione della società di capitali in consorzi, società consortili,
cooperative, comunioni di azienda, associazioni non riconosciute e fondazioni. Non anche in associazioni
riconosciute. In linea di principio a questo tipo di mutamenti sono applicabili le regole sulla trasformazione
omogenea di società di capitali, ma il quorum deliberativo è dei due terzi degli aventi diritto.
L’art 2500 opties invece disciplina la trasformazioni in società di capitali, prevedendola per consorzi, società
consortili, comunioni di azienda, associazioni riconosciute e fondazioni, non anche per le associazioni
riconosciute.
La Fusione
Trattasi dell’unificazione di due o più società in un solo soggetto giuridico.
Può essere:
In senso stretto.
Quando viene costituita una nuova società dalle ceneri delle due o più società che si fondono.
Per incorporazione.
Quando una o più società vengono assorbite in una preesistente. E nella prassi è la forma più
diffusa.
Omogenea.
Quando avviene tra società dello stesso tipo.
Eterogenea.
Quando avviene tra società con diversa veste giuridica. Questo tipo di fusione è sottoposto allo
stesso regime di limiti ( ma in generale a norme medesime) della trasformazione eterogenea,
perché effettivamente per una società ( quella che cambia veste) è una trasformazione a
realizzarsi.
Non è consentita la fusione a società in stato di liquidazione che abbiano già iniziato con il riparto
dell’attivo, mente è decaduto il divieto per tutte le società sottoposte a procedura concorsuale.
Con la fusione, una o più delle società coinvolte si estinguono. E che sorte allora spetta a tutti gli
stakeholders della società estinguenda? La solita: la società che risulta dalla fusione assume obblighi e diritti
delle società preesistenti, proseguendo tutti i rapporti pendenti, anche processuali, anteriori alla fusione
( 2504 bis).
Il progetto di Fusione
Il legislatore precedente a quello del 2003 aveva completamente lasciato alla lacuna giuridica la disciplina
della prima fase del procedimento di fusione: il piano. Oggi invece è accuratamente disciplinato dal codice,
e le norme emanate sono poste a tutela dell’interesse di soci e terzi, sono atte a scongiurare l’asimmetria
informativa di questi ultimi.
Gli amministratori delle diverse società redigono un progetto di fusione nel quale sono stabilite condizioni e
modalità della procedura, approvande dall’assemblea.
L’indicazione del tipo, la denominazione o ragione sociale, la sede delle società che stanno per
fondersi.
L’atto costitutivo della nuova società risultante dalla fusone o di quella incorporante.
Il rapporto di cambio delle azioni o delle quote. Ad esempio 10 azioni della Terenzio s.p.a.
danno diritto a 5 azioni della Terenzio & Zeni s.p.a.
Il piano si pubblica nel registro delle imprese o nel sito internet della società.
La situazione patrimoniale.
Quindi un vero e proprio stato patrimoniale, redatto in ossequio alle norme sul bilancio, indicante
anche criteri prudenziali di valutazione. Un vero e proprio bilancio di fusione, che abilita i creditori
sociali ad opporsi alla fusione.
La relazione degli amministratori.
Che giustifichi il piano di fusione indicando il rapporto di cambio e i criteri utilizzati per stabilirlo.
La relazione degli esperti.
Per ciascuna società partecipante uno più revisori redige un rapporto in cui critica la congruità del
rapporto di cambio definito dall’amministrazione. La designazione dell’esperto può, per legge,
essere affidata al tribunale o alla Consob.
Decade l’obbligo su queste tre formalità se tutti i soci e tutti i titolari di strumenti finanziari che
attribuiscono il voto vi rinunzino.
Infine, insieme a miliardi di altre cartacce, gli amministratori delle società depositano nelle sedi sociali o sul
sito internet il piano di fusione.
Una società ne incorpori un’altra di cui possiede il 90% o più delle quote.
Alla fusione non partecipano società con azioni.
In questo caso la fusione si realizza con un piano di leveraged buyout, con il quale l’incorporante si accolla i
debiti della incorporata, il cui patrimonio costituisce garanzia generica.
La Delibera
Per l’approvazione della delibera che è costituita dal piano di fusione, si rispettano le norme per le
modificazioni dell’atto costitutivo.
I quorum deliberativi seguono invece quelli della trasformazione, omogenea per omogenea, eterogenea
per eterogenea.
Anche noto come conto di deposito, è perfetto per le operazioni, altrimenti effettuate con la vendita, in cui
il compratore non vuole accollarsi il rischio della mancata rivendita delle cose consegnate, e il fornitore
ottiene una commercializzazione più capillare e di maggiori dimensioni.
L’art 1558 c.c. caratterizza il regime giuridico del contratto: l’accipiens può disporre delle cose ricevute, ma
non ne acquista la proprietà, che rimane del tradens, finché non le abbia vendute o comunque ne abbia
pagato il prezzo. I creditori dell’accipiens non possono quindi rifarsi sulle cose oggetto di conto di deposito,
mentre possono per contro quelli del tradens, la cui esecuzione comporta lo scioglimento del contratto.
In deroga alla regola del res perit domino, quindi, con la consegna della cosa è traslato anche il rischio
contrattuale. Ciò implica che sarà responsabile l’accipiens dell’impossibilità della prestazione anche se non
a lui imputabile.
L’accipiens può liberarsi dall’obbligazione anche restituendo le cose nel termine pattuito.
La somministrazione
È il contratto con cui il somministrante si obbliga a fornire periodicamente o continuativamente cose verso
il corrispettivo di un prezzo da parte del somministrato.
È forma negoziale utilissima in numerose fattispecie, in cui si ha interesse alla stabilità della fornitura di
beni o alla stabilità dei relativi prezzi.
L’oggetto esclusivo del contratto possono essere cose: se il somministrante eroga servizi, allora il contratto
è appalto: ma all’appalto di servizi si applicano le disposizioni sulla somministrazione per quanto
compatibili. È facilmente distinguibile da una vendita a consegne ripartite: nella somministrazione la
prestazione è plurima, nella vendita a consegna frazionata è unitaria, sebbene si convenga di dilazionare la
consegna.
La disciplina del quantum delle singole prestazioni è tipica dell’istituto: le parti possono omettere di
determinare, quindi, l’entità delle singole prestazioni, ma sussidiariamente si considerano corrispondenti al
normale fabbisogno del somministrante.
La determinazione legale del prezzo segue le regole sulla vendita. Nella somministrazione periodica il
pagamento del prezzo è esigibile all’atto delle singole prestazioni, in quella continuativa secondo le
scadenze d’uso.
Delicata è poi la disciplina della risoluzione per adempimento: l’inadempimento di una sola prestazione non
legittima la domanda di risoluzione, salvo che l’inadempimento sia di notevole importanza e altera la
fiducia nei successivi adempimenti. Se l’inadempimento del somministrato è di lieve entità, il
somministrante non è abilitato a sospendere la fornitura senza preavviso.
L’appalto
L’appalto
Ai sensi dell’art 1655 c.c., l’appalto è il contratto mediante il quale una parte – l’appaltatore- si obbliga a
compiere un’opera o un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e gestione del rischio, verso un
corrispettivo in danaro del committente.
È appalto d’opera, in tal senso, il contratto con cui ci si obbliga a costruire un palazzo, di servizi quello
stipulato con un’impresa di pulizie.
Il disposto normativo parla chiaro: affinché possa definirsi contratto d’appalto, il ruolo dell’appaltatore deve
essere rivestito con organizzazione dei mezzi e assunzione del rischio contrattuale, ovvero un’attività in
forma d’impresa. L’appaltatore è quindi un imprenditore commerciale. E qui emerge la differenza tra
l’appalto e il contratto d’opera.
Quanto alla differenza tra appalto e vendita ( di cosa futura), il discrimine è di più difficile individuazione. La
giurisprudenza opera attraverso il criterio della prevalenza, ovvero bisogna vedere, con riguardo allo scopo
del negozio, e non al valore economico delle diverse prestazioni, se prevale il fare o il dare. Nella prassi,
sarà vendita di cosa futura quella su bene usualmente prodotto dal fornitore, sarà appalto il negozio
effettuato su un bene che presenti caratteristiche particolari rispetto al solito prodotto.
Le obbligazioni dell’appaltatore
L’obbligazione principale dell’appaltatore è quella di compiere l’opera o il servizio oggetto del contratto.
Sussidiariamente, è sancito che l’appaltatore fornisca le materie prime. ( art 1658 c.c.).
L’esecuzione dell’opera segue le modalità tecniche concordate col committente, descritte analiticamente
nel c.d. capitolato, e deve avvenire a regola d’arte, con perizia tecnica professionale.
L’art 1659 c.c. vieta all’appaltatore di apportare modifiche al progetto senza il consenso del committente,
che deve essere provato per iscritto, e anzi, se il prezzo dell’appalto è stato globalmente pattuito, questo è
rettificabile solo se previsto dal regolamento contrattuale. La regola è derogata tutta via, se a chiedere la
modifica sia il committente o sia necessaria per l’esecuzione a regola d’arte.
Completata l’opera, il committente può eseguire il collaudo, ovvero la verifica finale di conformità al
capitolato. Egli è tenuto a comunicare all’appaltatore il suo rifiuto esplicitamente. Infatti l’accettazione si
presume ex lege quando il committente omette di procedere a verifica o accetta senza riserve l’opera. Con
l’accettazione, i rischi di perimento e deterioramento traslano sul committente, l’appaltatore è liberato
dalla garanzia per difformità e ha diritto al pagamento del prezzo.
Difformità
L’art 1667 introduce la garanzia per difformità dell’opera, cui è tenuto l’appaltatore una volta compiuta e
consegnata la stessa al committente. Se l’opera è stata accettata senza riserve, la garanzia opera solo per i
vizi occulti o palesi taciuti in mala fede dall’appaltatore.
La denunzia dei vizi è soggetta al termine bimestrale di decadenza, il rimedio della garanzia in due anni dalla
consegna dell’opera. Le azioni della garanzia sono:
L’azione di risoluzione, se i vizi rendono l’opera del tutto inidonea a svolgere la sua funzione.
L’eliminazione dei vizi e dei difetti a spese dell’appaltatore.
L’azione di riduzione del prezzo, proporzionale al danno cagionato al valore dell’opera.
L’azione risarcitoria, se sussiste almeno la colpa del committente, e la colpa si presume trattandosi
di responsabilità contrattuale.
L’art.1669, infine, impone all’appaltatore la responsabilità causata da rovina parziale o totale dell’opera o
da gravi difetti imputabili a vizi del suolo o difetti di costruzione, che dura dieci anni dall’opera compiuta.
Legittimato ad agire a questo titolo, sono anche gli aventi causa del committente.
Se il prezzo è determinato a forfait, l’appaltatore non ha diritto a compensi integrativi per modifiche da lui
apportate, anche con autorizzazione del committente.
Se il prezzo è determinato seguendo un’unità di misura, viene determinato a opera compiuta ( es. 100 euro
a metro cubo). Anche se nel contratto è indicato l’importo globale presunto.
L’art 1664 c.c. detta delle regole dispositive circa la rivisitazione del prezzo durante l’esecuzione del
contratto; dispositive, quindi neutralizzabili dalle parti ex contractu ( prezzo bloccato):
Entrambe le parti possono chiedere la rettifica se il costo dei materiali o della mano d’opera subisce
variazioni imprevedibili al momento della stipula idonee a determinare un aumento o una riduzione
del 10% del prezzo pattuito.
All’appaltatore è riconosciuto un equo compenso, indipendente dalle variazioni del punto
precedente,per difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche o idriche.
Solo al committente è consentito di recedere senza giusta causa, è in tal caso dovrà tenere indenne
l’appaltatore dalle spese sostenute, dai lavori eseguiti e dal mancato guadagno.
Se il contratto è intuitu personae, si scioglie alla morte dell’appaltatore. Se non lo è, il committente può
recedere dal contratto quando gli eredi non diano affidamento sulla buona esecuzione dell’opera.
L’agenzia
L’agenzia
Con il contratto di agenzia, una parte ( l’agente) assume stabilmente l’incarico di promuovere contratti in
una zona determinata, verso retribuzione di un preponente.
L’agente diviene rappresentante commerciale se oltre ha promuovere può stipulare in nome e per conto
del preponente.
Gli agenti quindi, favoriscono la capillarizzazione dell’offerta di un’impresa sul mercato e si distinguono dai
procacciatori occasionali di affari perché operano in un determinato ambito territoriale.
L’agente di commercio è spesso un imprenditore commerciale, è del tutto autonomo quindi dal
preponente, e in questo profilo si distingue dai commessi o dai piazzisti del imprenditore preponente. Ex
lege, tuttavia, alle volte gli agenti vengono assimilati a lavoratori dipendenti:
L’agente deve dichiarare l’inizio di attività alla Camera di Commercio, che iscrive nel registro delle imprese.
Il contratto di agenzia è regolato dal codice, da leggi speciali, dai contratti collettivi di settore.
I Contratti Bancari
Le operazioni di raccolta di risparmio si definiscono genericamente passive, l’erogazioni dei crediti invece si
qualificano come operazione attive. Operazioni accessorie o servizi strumentali sono le altre operazioni in
cui è coinvolta la banca di carattere finanziario o strumentale. Le banche inoltre, rivestono un ruolo anche
in altri settori finanziari, che possono essere svolti anche da altre imprese finanziarie, come leasing,
factoring, ecc.
L’attività principale della banche è inoltre oggetto di disposizione e protezione costituzionale, l’art 47 co.1,
e per questo motivo è oggetto di un penetrante controllo pubblicistico, le cui articolazioni e sfaccettature
normative e pragmatiche non possono però essere approfondite in questa sede. Veniamo quindi all’analisi
delle operazioni bancarie sul piano civilistico.
Prima di un intervento unitario e completo del legislatore, quindi, le clausole dei contratti bancari erano
disciplinati dalle n.b.u., le norme bancarie uniformi, vere e proprie condizioni generali di contratto
predisposte dall’ABI, l’associazione generale di categoria delle banche. La legge 154/1992 è stato un passo
importante per riqualificare il regime di queste operazioni, al fine di tutelare il cliente, contraente debole,
ridimensionando lo strapotere negoziale delle banche. Oggi il tub agli articoli 115-120 è la nostra fonte
privilegiata.
L’art 117 impone la forma scritta sotto pena di nullità, nullità relativa, che può esser fatta valere solo dal
cliente, benché rilevabile d’ufficio dal giudice.
La legge fissa anche il contenuto minimo delle operazioni bancarie, vieta il rinvio agli usi anche per la
determinazione degli interessi, e rende nulle anche le clausole che prevedono condizioni economiche
differenti da quelle pubblicizzate. La violazione di queste norme consegue la nullità della clausola che non si
propaga a tutta l’operazione ( nullità parziale).
Nei contratti di durata, il cliente ha diritto a ricevere almeno una rendicontazione annuale delle principali
operazioni svolte; inoltre, non è nulla la clausola che preveda la modificazione unilaterale delle clausole
Inoltre, a tutela del cliente della banca, sono intervenuti il codice del consumo e la disciplina del credito al
consumo.
I Depositi Bancari
Il deposito di denaro è la più importante tra le operazioni passive svolte dalle banche.
Con la stipula, la banca acquista la proprietà della pecunia ricevuta e si obbliga a restituire il tantundem
eiusdem generis al depositante allo scadere di un termine ( d.vincolato) o su richiesta del depositante
( d.libero).
Semplici.
Non possono quindi essere alimentati con versamenti ne ridimensionati da prelevamenti. Tra questi
rientrano i buoni fruttiferi e i certificati di deposito.
A risparmio.
Attribuiscono invece al depositante la possibilità di versare e prelevare. Entrambe queste
operazioni possono però essere effettuate solo in contanti. Questo tipo di deposito è sempre
accompagnato da un documento, il libretto di deposito a risparmio, rilevante sul piano probatorio,
sul quale sono annotate tutte le operazioni svolte: se sono firmate dall’impiegato della banca,
fanno piena prova del rapporto tra banca e depositante. È nullo ogni patto contrario all’esclusività
probatoria del libretto, anche in caso di difformità con le scritture contabili.
Il libretti di deposito a risparmio si dividono ancora in:
- Nominativi, e in questo caso i prelevamenti sono effettuati solo dall’intestatario del libretto
o da un rappresentante.
- Nominativi pagabili al portatore, con il quale i prelevamenti possono essere effettuati
anche da terzi, con liberazione della banca se esente da responsabilità colpose .
- Al portatore, con il quale il possesso del libretto abilità il prelevamento. Anche in questo
caso vige l’effetto liberatorio della banca esente da dolo o colpa. Questo tipo di depositi
non possono essere superiori a mille euro.
Se le prime due categorie pacificamente non sono titoli di credito, sui libretti al portatore la discussione è
più fitta. Altrettanto pacifico, in ogni caso, è che i libretti circolano esentati dalle norme sulla cessione del
credito.
Sebbene sia un’operazione attiva, non è mutuo: non si perfeziona con la consegna del denaro. Non è
promessa di mutuo, perché la banca è già obbligata con la stipula, non è mutuo consensuale, perché al
cliente spetta un diritto potestativo sull’importo oggetto di contratto.
Altrettanto peculiare è che gli interessi che il cliente deve alla banca si calcolano non sull’importo del
credito, ma sulle somme effettivamente da lui utilizzate. Il corrispettivo della banca, oltre all’interesse, è la
c.d. commissione onnicomprensiva, che non può superare lo 0,5% per trimestre dell’ammontare concesso.
Il cliente può in ogni momento prelevare o utilizzare la somma messagli a disposizione, come può
reintegrarla con versamenti. Del resto, l’apertura del credito, nella prassi, non è altro che una clausola del
contratto di conto corrente bancario che permette al titolare di pagare assegni in bianco, di operare allo
scoperto in sostanza.
Il recesso della costituisce il problema commerciale di gran lunga più annoso della disciplina dell’apertura
del credito:
- Se il contratto è a tempo determinato, la banca può recedere solo con giusta causa e dando 15
giorni al cliente per restituire le somme.
- Se è a tempo indeterminato, il recesso è libero, con preavviso di quindici giorni.
Ma questo è quanto deriva dall’ermeneutica dell’art.1845 del codice civile, luogo dove la norma riposa
inattuata.
Nelle n.b.u., il recesso è sempre libero per la banca, sospende immediatamente l’utilizzo del credito, il
termine per restituire le somme è ridotto ad un misero giorno.
L’anticipazione bancaria
L’art 1846 ss. c.c. contiene la disciplina del contratto di anticipazione bancaria, che rappresenta, in
sostanza, un’operazione di finanziamento assistita da un pegno. L’operazione si connota perché:
1. La garanzia offerta alla banca può essere costituita solo da valori facilmente accertabili.
2. L’importo del credito erogato dalla banca è proporzionale al valore delle merci o dei titoli posti
in pegno. In genere è fissato in percentuale ( scarto) rispetto al valore della garanzia pattuito.
In deroga alla regola di cui all’art 2799 c.c. che sancisce l’indivisibilità del pegno, il debitore può ritirare dalla
banca, anche prima della scadenza del suo debito, valori proporzionali alla parte del credito che intende
rimborsare, sempreché l’obbligazione permanga sufficientemente garantita.
Lo sconto
Lo sconto è il contratto con cui un creditore, c.d. scontante, cede a buon fine alla banca il suo titolo non
ancora scaduto mentre la banca si obbliga ad anticiparne l’importo, decurtato dell’interesse.
È un utile strumento per gli imprenditori, e in generale per l’economia, laddove il tempo di attesa per
escutere un credito spesso vale molto di più del denaro che le banche lucrano grazie al tasso di sconto. In
sostanza, l’ammontare dell’anticipo erogato dalla banca è pari al valore del credito meno l’interesse
moltiplicato per il tempo da attendersi per la scadenza del credito.
La banca inoltre può scegliere di farsi scontare da altre banche il suo credito, e in questo caso il contratto
avrà il nome di risconto e così il relativo tasso.
Nel primo paragrafo abbiamo inserito la locuzione “a buon fine”. Intendesi che la cessione del credito è da
considerarsi di regola pro solvendo: in caso di inadempimento del debitore principale, lo scontatario resta
obbligato nei confronti della banca.
Anche questa forma contrattuale tende a scomparire nella prassi, sostituita dalla tecnica delle ricevute
bancarie, prevista nelle n.b.u., con la quale il cliente attribuisce un mandato in rem propriam alla
riscossione del credito contro l’immediato accredito della somma “scontata” sul proprio conto corrente.
La banca quindi, con quel denaro, svolge un’attività gestoria del tutto affine al mandato senza
rappresentanza, assente quando si scelga una forma contrattuale autonoma, tra quelle citate.
Diverso dalle operazioni in conto corrente è il contratto di conto corrente bancario o per corrispondenza,
per cui:
Il rapporto iniziale, costitutivo della disponibilità può essere uno qualunque dei contratti sopra citati
( deposito, apertura, entrambi ecc.).
La banca si obbliga a svolgere il c.d. servizio di cassa, per il quale è obbligata ad eseguire tutti gli
ordini di pagamento richiesti dal cliente, come ad accettare tutti i versamenti e ad eseguire gli
incarichi di riscossione dei crediti, tramite assegni, rimesse, bonifici, giroconti, assegni circolari ecc.
In questo modo è possibile, con una semplice annotazione contabile, spostare grandi somme di denaro
senza che si muova una moneta, fisicamente. Inoltre, la banca ottiene un contratto omnibus per tutte le
La banca nello svolgimento del rapporto osserva la diligenza del mandatario, ossequiosa dei medesimi
obblighi.
Le operazioni svolte tramite il conto corrente si dividono essenzialmente in accrediti e addebiti: i primi
comportano un incremento del saldo disponibile, i secondi una decurtazione. Entrambe tuttavia, sono
regolate mediante scritturazioni contabili.
Versamenti in contanti e accrediti sul conto sono immediatamente efficaci e le relative somme disponibili al
momento dell’accreditamento. Per le operazioni che necessitano di una successiva attività d’incasso da
parte della banca invece, le somme vengono accreditate “ con riserva di verifica e salvo buon fine”, salvo
diversa disposizione delle norme unitarie bancarie.
Di qui, anche la distinzione tra saldo contabile, determinato dalla somma algebrica tra accrediti e addebiti,
e saldo disponibile, l’importo giornaliero di cui il correntista può disporre, e saldo per valute, rilevante solo
ai fini della determinazione dell’interesse, che matura, come è ovvio, a favore della banca quando il saldo è
in rosso, a favore del cliente quando è in attivo.
La valuta era la data convenzionale attribuita all’operazione dalla banca, diversa da quella reale
dell’addebito o dell’accredito, con l’unico scopo di far decorrere degli interessi. Di regola, per gli
addebitamenti, la valuta era anticipata di uno o più giorni rispetto alla data effettiva, per gli accreditamenti
la valuta era posticipata di uno o più giorni. In questo modo, la banca otteneva un profitto scaturente dalla
diversa decorrenza dei tassi d’interesse applicati alle obbligazioni sorte a carico del correntista per gli
addebitamenti,a carico dell’istituto di credito per gli accreditamenti.
È intervenuto il legislatore, con il tub, a regolare questa evidente sperequazione, sancendo che per gli
addebiti la valuta non può precedere la giornata dell’operazione, per gli accrediti non può essere
successiva. Quando il cliente non è un consumatore, si può convenire di postdatare la valuta di un giorno
per i versamenti in contanti. È così limitato il gioco delle valute.
Venendo alla disciplina degli interessi, essi si dividono in passivi, quando decorrono a favore del cliente, e
attivi, quando decorrono a beneficio della banca e sono sottoposti alla forma scritta. Come già evidenziato,
sono ora nulle le clausole che rinviano agli usi per la determinazione dell’interesse, novella che ha
implicitamente vietato la pratica dell’interesse “ uso piazza”, che rinviando il calcolo dell’interesse alle
condizioni praticate usualmente dalle banche sulla piazza, in sostanza permetteva la modificazione
unilaterale della relativa condizione contrattuale.
Novità importante è stata poi quella che ha finalmente delegittimato il fenomeno dell’anatocismo.
L’anatocismo è quella pratica che faceva decorrere gli interessi attivi con cadenza trimestrale, e invece
capitalizzava annualmente quelli passivi. La conseguenza pragmatica di siffatta regola contrattuale, è che
maturavano interessi sugli interessi attivi ( un conto in rosso di 10.000 euro con interesse attivo al 10%, nel
primo trimestre diviene 11.000 euro, nel secondo trimestre 12.100) mentre l’interesse passivo si
Di regola, il contratto di conto corrente è a tempo indeterminato. E ciò legittima il recesso libero di
entrambe le parti con preavviso, e, come già visto per il caso della rupture brutal du credit, il recesso rende
immediatamente esigibile il saldo passivo per la banca.
Durante il rapporto, il correntista ha diritto di essere informato, almeno annualmente sullo stato del
proprio credito tramite il c.d. estratto conto. Dalla data di ricezione dell’estratto conto, il correntista ha
tempo 60 giorni per proporre opposizione scritta, termine, decorso il quale il saldo si ritiene approvato.
Ciononostante, residua al correntista la possibilità d’impugnare l’atto per errori di calcolo, scritturazione e
simili entro il più ampio termine ordinario di prescrizione ( decennale).
Il conto corrente può inoltre essere intestato a più soggetti. La prassi preferisce il conto a firma disgiunta,
nel quale i cointestatari sono creditori e debitori in solido in caso di attivo e rosso rispettivamente, e ad
entrambi quindi vengono addebitati gli scoperti, anche se imputabili ad un solo correntista disgiunto. Per i
conti a firma congiunta, gli addebitamenti devono provenire da entrambi i cointestatari; per i versamenti,
come è pacifico, non è necessario.
L’art 1853 c.c. abilita poi la compensazione tra saldo attivo e passivo nel caso il correntista sia titolare di più
conti correnti.
Causa di scioglimento del conto corrente bancario è il fallimento dell’intestatario. Affermazione questa, che
comporta non pochi problemi ermeneutici:
L’art 67 co.2 della legge fallimentare sottopone a revocatoria fallimentare i pagamenti liquidi ed
esigibili effettuati dall’imprenditore fallito nei 6 mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento. Ciò
comporta che gli addebitamenti in conto corrente eseguiti in quel lasso di tempo vanno consegnati
nelle mani del curatore e ai creditori non resterà che insinuarsi nello stato passivo fallimentare.
Il problema sorge in relazione alle rimesse, che sono sistemi di addebito automatico su un conto
corrente con cui il correntista autorizza la banca ad eseguire gli ordini di pagamento emessi dal
creditore. Possono queste considerarsi pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, e quindi possono le
banche rivelarsi, con l’utile revocatoria esperita, obbligate a restituire le somme prelevate dal saldo
attivo del fallito?
È intervenuto a tal fine il legislatore nel 2005 stabilendo che le rimesse su conto corrente bancario
sono esenti da revocatoria purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole
l’esposizione debitoria del fallito. La ratio della norma è evitare che l’eventualità della revocatoria
complicasse la raccolta di capitale di credito per le imprese in difficoltà.
La disciplina necessitava di una precisazion: alle estinzioni di debiti derivanti da conto corrente
bancario si applica anche l’art 70 comma 3 della legge fallimentare, che regola la revocatoria in
caso di rapporti continuativi o reiterati, in ossequio alla regola del massimo scoperto: il creditore
( nel caso di specie la banca) restituirà al fallimento la differenza tra l’importo massimo del credito
raggiunto nel periodo in cui è comprovata la sua conoscenza dello stato d’insolvenza
dell’imprenditore e l’ammontare residuo del debito del correntista fallito.
La fideiussione omnibus
Regolata nelle n.b.u., la fideiussione omnibus si caratterizza per il fatto che assiste qualsiasi obbligazione
assunta dal cliente nei confronti dell’istituto di credito. È quindi garanzia generale.
Ci viene subito in mente l’art.1346 c.c. che qualifica la determinabilità dell’oggetto del contratto come
requisito di validità dello stesso. Nel 1992 il legislatore ha risolto i dubbi dottrinali relativi, quindi, alla
validità della fideiussione omnibus per il fatto che garantisce debiti non sorti al momento della stipula,
imponendo la determinazione contrattuale di un importo massimo garantito. Se ne viene omessa la
determinazione, la garanzia è nulla.
Oltre ad essere generale, la fideiussione omnibus è gravosa per il cliente per altri profili:
In deroga all’art 1945 c.c., il fideiussore non può opporre le eccezioni derivanti dal rapporto che
garantisce, ed è tenuto al pagamento immediato. Tuttavia, il legislatore ha chiarificato che non la
fideiussione omnibus non è garanzia autonoma, ovvero non produce effetti se l’obbligazione che
assiste è dichiarata invalida. Il combinato disposto delle disposizioni in analisi comporta che il
pagamento immediato costituisce una clausola solve et repete: il fideiussore adempie, e poi se la
l’obbligazione protetta risulta essere invalida chiede la ripetizione dell’adempimento.
Il pegno omnibus
Le stesse finalità di garanzia ispirano la pattuizione di pegni omnibus, ovvero beni costituiti in pegno a
garanzia di un determinato rapporto, la cui prelazione però si estende a tutti i crediti della banca nei
confronti del cliente.
La clausola è efficace tra le parti, ma inopponibile agli altri creditori del cliente per contrasto con la regola
della determinatezza del pegno.
Le garanzie bancarie hanno i più diversi nomi ( bid bond, performance bond), e tutelano le più diverse
posizioni creditorie, ma presentano caratteristiche comuni:
1. La banca garante si obbliga a pagare a prima richiesta, ovvero senza necessità che sia provato
l’inadempimento del debitore principale e senza poter opporre le eccezioni relative all’esistenza e
all’esigibilità del credito.
2. La banca si obbliga ad adempiere anche se l’obbligazione non è sorta o è divenuta successivamente
impossibile.
Si parla a tal proposito di contratto autonomo di garanzia: il debito assistito non ha nessun rapporto di
interdipendenza con il contratto che lo garantisce, anzi, l’interesse creditorio è soddisfatto in qualsiasi caso.
Le parti del contratto sono in genere le imprese finanziarie specializzate ( società di leasing) e
l’imprenditore.
Nonostante la grande diffusione, è ancora sprovvisto di autonoma disciplina legale, anche se ha ormai
raggiunto un sufficiente grado di standardizzazione attraverso una particolare forma di consuetudine,
ovvero quella che è formata dalle regole contrattuali delle imprese leader del settore del leasing.
La grande diffusione di cui sopra, derivante anche dalle agevolazioni fiscali, ha causato anche la poliedricità
del contratto di leasing, utilizzato ora per:
Leasing Finanziario.
Leasing Operativo.
Lease-back.
Il leasing finanziario
Le parti coinvolte nel leasing finanziario sono la società di leasing ( concedente o leaser), l’impresa che
vuole fruire del bene ( utilizzatore o leasee) da un’impresa che produca o distribuisca il bene oggetto del
contratto ( fornitore).
Il godimento del bene è circoscritto ad una durata, che per quanto riguarda i beni strumentale
spessissimo coincide con la vita tecnica del macchinario.
L’obbligazione principale dell’utilizzatore è un canone periodico, tendenzialmente più elevato di un
canone di locazione.
Dal punto di vista della disciplina del contratto, essa di differenzia da quella della locazione e da quella del
patto di riservato dominio:
Le fattispecie di cui al punto 3. violano pacificamente le norme inderogabili sul patto di riservato dominio, in
particolare la clausola che abilita il leaser che patisce l’inadempimento a trattenere i canoni riscossi. La
soluzione del Campobasso è semplice ( ma io l’ho spiegata malissimo): la clausola sarà valida per il leasing
di beni strumentali, per i quali il valore residuo del bene contemporaneo al mancato pagamento della rata
è pari al prezzo iniziale; sarà illecita invece per i leasing di consumo, laddove c’è sicuramente idiosincrasia
tra il valore residuo del bene al momento del mancato pagamento e il prezzo di opzione. In altri termini,
con i beni di consumo, la società di leasing avrebbe così modo di ottenere di più dagli inadempimenti che
dai pagamenti regolari.
La Cassazione è intervenuta infatti in merito, sancendo l’applicabilità per analogia dell’art 1526 c.c. al
leasing impuro o traslativo ( quello sui beni di consumo durevoli): l’utilizzatore inadempiente dovrà pagare
solo quindi un equo compenso per l’uso e il risarcimento del danno.
nulla quaestio se a fallire è il leaser: il contratto rimane in esecuzione e l’utilizzatore conserva le sue
facoltà.
Se a fallire è il leasee, il contratto rimane sospeso finché il curatore non decida per il subentro o la
risoluzione. Se subentra, il concedente diviene creditore della massa da soddisfare in prededuzione.
Se opta per lo scioglimento, il leaser può trattenere i canoni riscossi, esenti da revocatoria, e può
partecipare all’accertamento del passivo per il credito vantato alla data del fallimento, ridotto però
del ricavato di una eventuale nuova allocazione del bene.
Il leasing operativo
Nel leasing operativo coincidono la figura del fornitore e del concedente.
Ha in genere ad oggetto beni strumentali standard, la durata del contratto è più breve della vita economica
del bene.
Il contratto è assoggettato alle norme sulla locazione, più l’art 1526 c.c. se è prevista un’opzione finale di
acquisto.
Il patto è pacificamente lecito e rappresenta una forma di finanziamento per l’impresa in difficoltà. Esso
non integra infatti il divieto del patto commissorio perché:
Difettano un credito preesistente e lo spossessamento del bene offerto, nell’ipotesi del patto
vietato, in garanzia.
Semmai è più vicino per disciplina al patto marciano, perché nel lease-back l’importo del credito
garantito è proporzionale al valore del bene.
Il Factoring
Questo nuova forma contrattuale è nata negli Stati Uniti al fine di soddisfare un’esigenza primaria per
imprese medio-grandi che effettuano spessissimo vendite a credito nei confronti di una clientela
diversificata. Esse infatti, sono oberate dai costi di riscossione e dell’eventuale rimedio giudiziale, e
sopportano i rischi degli inadempimenti.
Il contratto di factoring è in grado di risolvere queste problematiche: si sono sviluppate delle imprese
specializzate nella gestione dei crediti d’impresa, le c.d. imprese di factoring, e che con l’omonimo contratto
offrono essenzialmente 4 servizi alle imprese:
Il cliente che stipula il factoring può fruire di ognuno di questi servizi autonomamente, dietro corrispettivo
di una commissione e degli interessi in caso di anticipazioni.
Venendo al dunque: col contratto di factoring l’imprenditore cede tutti i crediti derivanti dall’attività
d’impresa, presenti e futuri, al factor. Dietro la cessione dei crediti si cela una operazione di finanziamento:
le imprese di factoring concedono - nella prassi -anticipazioni sui crediti ceduti dall’impresa.
In Italia, il contratto di factoring è stato strutturato secondo il modello della cessione del credito, ma è stato
oggetto nel 1991 di uno specifico testo di legge per via delle sperequazioni derivanti dall’applicazione della
disciplina di cui all’art 1260 ss.
Man mano che i crediti vengono ad esistenza essi sono trasferiti nelle mani del factor. L’impresa deve
consegnare la documentazione probatoria e notificare ai debitori ceduti.
La cessione è di regola pro solvendo, e quindi non libera l’impresa cedente in caso di insolvenza del
debitore. E l’importo della cessione è messo a disposizione del cedente solo dopo l’incasso. Può essere
Come già detto, il factor può concedere anticipazioni sui crediti da escutere, che non superano un certo
ammontare, sui quali decorrono degli interessi come su un qualsiasi debito, e che sono ripetibili in caso di
insolvenza del relativo debitore.
È derogato, infine, l’art 1256 c.c. che sancisce che l’opponibilità della cessione del credito è subordinata alla
notifica giudiziale, se il factor ha pagato in tutto o in parte il corrispettivo della cessione e il pagamento ha
data certa anteriore rispetto al titolo degli altri aventi causa del cedente.
1. Cessione dei crediti ad una società veicolo che può acquistarli solo finanziandosi tramite titoli
emessi sul mercato e la cui soddisfazione è vincolata all’adempimento dei debitori della banca
cedente.
2. Cessione dei crediti ad un fondo comune di investimento chiuso avente ad oggetto esclusivamente
crediti.
Il legislatore ha preso come modello la forma 1. con l’obiettivo di ridurre il fenomeno che si produceva con
società veicolo estere e per tutelare gli investitori, e ha tracciato le seguenti linee guida per l’istituto:
La cessione a titolo oneroso di crediti esistenti o futuri, liquidi e a titolo oneroso, a una società che
ha come oggetto sociale esclusivo la cartolarizzazione di crediti.
L’emissione da parte della società cessionaria di titoli di credito destinati a finanziare l’acquisto.
La destinazione esclusiva degli importi ottenuti dai debitori ceduti al soddisfacimento degli
investitori che hanno acquistato i titoli emessi.
Essendo ai sensi dell’art 2 della legge 130 i titoli di credito emessi dalla società di cartolarizzazione dei veri e
propri strumenti finanziari, se vengono collocati sul mercato, impongono alla società emittente la redazione
e consegna di un prospetto informativo secondo le direttive della Consob.
Se i titoli sono offerti a investitori non professionali, la cartolarizzazione è sottoposta a valutazione del
merito di credito da parte delle agenzie di rating.
Benché non sembrano esservi differenze tra i titoli emessi cartolarizzando e quelli obbligazionari, i primi
sono completamente esonerati dalla disciplina dei secondi, specie per i limiti di emissione.
Con la cartolarizzazione, è come se ogni credito acquistato formasse un patrimonio separato, su cui solo chi
ha acquistato il relativo titolo emesso può proporre azioni esecutive.
La carta di credito
È un documento che consente al titolare di acquistare beni e servizi senza il pagamento immediato del
prezzo. Consente, ovvero, al titolare, una breve dilazione per il pagamento che ordina.
Possono essere:
Bilaterali, di scarsa applicazione pragmatica, che sono rilasciate dalle imprese che offrono beni e
servizi, e consentono il pagamento dilazionato di tutti gli acquisti effettuati nei punti vendita
dell’azienda: i debiti relativi sono pagati periodicamente dall’acquirente.
Trilaterali, e queste sono le più diffuse ( Mastercard, Visa ecc.), sono emesse da imprese
specializzate che si pongono come intermediari nei pagamenti. L’emittente il documento infatti,
anticipa ai fornitori gli importi dovuti per gli acquisti, poi periodicamente si fa rimborsare dai titolari
di carta di credito le somme erogate, e per il servizio riceve un compenso da entrambe le parti
dell’operazione. Il soggetto intermediario a tal fine stipula convenzione di abbonamento ai fornitori
e di rilascio con i titolari di carta di credito.
Con la convenzione di abbonamento l’impresa emittente si obbliga a pagare il prezzo del bene o del
servizio decurtato di una percentuale, il c.d. disaggio, e l’esercente convenzionato si obbliga a
eseguire la sua prestazione nei confronti del titolare di carta di credito senza pretendere
pagamento immediato.
Con la convenzione di rilascio il titolare di carta di credito può effettuare acquisti senza pagare il
prezzo presso gli esercizi convenzionati. Si obbliga a rimborsare mensilmente l’emittente degli
acquisti effettuati, rinunciando preventivamente a opporre eccezioni fondate sul rapporto coi
fornitori.
Secondo i più, l’operazione è assimilabile all’istituto della delegazione.
Moneta elettronica
È un valore monetario registrato elettronicamente come credito nei confronti dell’emittente e accettato
come mezzo di pagamento da terzi.
L’emissione della moneta elettronica avviene con il versamento del beneficiario all’emittente di una somma
pari alla moneta desiderata, più una commissione per il servizio. Il richiedente dispone quindi di una
somma di denaro, che viene “incorporata” in una tessera di plastica con banda magnetica e attraverso la
quale potrà effettuare pagamenti negli esercizi convenzionati, cioè quelli che dispongono di un POS. Il POS
scala il debito dal saldo caricato sulla carta e riceve così il pagamento.
È altresì possibile che la moneta elettronica non venga mai intrappolata in dispositivi fisici, e che il
richiedente se ne serva per pagare via internet.
Il richiedente può recedere in ogni momento e ottenere il rimborso della somma versata. D’altro canto, non
decorrono interessi sul denaro versato, sebbene rappresenti un credito.
Non sono tuttavia moneta elettronica le carte prepagate a spendibilità limitate ( buoni pasto, buoni regalo
ecc.)
I Titoli di Credito
La Nozione
È il documento necessario e sufficiente per la costituzione, circolazione ed esercizio di un diritto letterale ed
autonomo in esso incorporato.
Con la locuzione titolo di credito definiamo il documento utilizzato per far circolare diritti a ricevere una
prestazione, che può essere costituita da un importo in denaro ( titoli di credito in senso stretto), dalla
consegna di merci ( … rappresentativi di merci) o da una complessa situazione giuridica attiva ( come i titoli
di partecipazione).
Titoli individuali, che vengono emessi per una singola operazione economica.
Titoli di massa, frazioni di uguale valore nominale di una unitaria operazione di finanziamento.
Titoli causali, che presuppongono un determinato rapporto giuridico, e in base a tale rapporto sono
emessi.
Titoli astratti, che invece possono essere emessi relativamente ai più diversi rapporti negoziali.
Fonte di leggi speciali, spesso cronologicamente anteriori al 1942, disciplinano alcune forme tipiche
di titolo di credito come la cambiale, i titoli azionari, assegno bancario ecc.
Fonte codicistica, agli articoli 1927-2027 c.c., che sono stati desunti da una lettura dottrinale delle
fonti speciali previgenti, e sono stati emanati con finalità sussidiaria – quindi per colmare eventuali
lacune delle leggi speciali- e sistematiche – così da creare uno statuto generale dei titoli di credito,
a cui assoggettare le nuove incalzanti forme atipiche-.
Quale strategia è stata utilizzata dal legislatore per velocizzare la circolazione del credito? Semplicemente, è
stata necessaria una finzione giuridica che assimilasse quel credito, anche detto diritto cartolare, ad un
bene mobile, la cui traslazione è facilitata dal principio consensualistico e dal possesso vale titolo.
La strategia legislativa è stata quella dell’incorporazione: in sostanza, al momento del trasferimento, si finge
di acquistare il documento, e non il diritto che reca - che vi è incorporato- quando è pacifico che l’interesse
dell’acquirente sia rivolto invece al credito.
Con la convenzione di rilascio, o esecutiva, le parti pattuiscono di cristallizzare la prestazione dovuta nel
documento.
La dichiarazione di volontà emessa nel titolo di credito costituisce il rapporto cartolare, da cui scaturisce il
diritto cartolare del primo prenditore. Nel titolo di credito è riprodotto in modo schematizzato il rapporto
causale cui consegue secondo le indicazioni della legge.
Le due categorie sono generate dal diverso tipo di connessione che può ingenerarsi tra il diritto cartolare e
il rapporto fondamentale che presuppone:
Abbiamo così a cuore l’ermeneutica di queste due categorie concettuali per il loro essere suscettive di
attivare l’applicazione di regole diversificate:
I titoli astratti si connotano per la loro letteralità completa. In altre parole, in essi è irrilevante
qualsiasi riferimento al rapporto fondamentale che presuppongono ma lo è anche qualsiasi
riferimento ad altre fonti regolamentari perfino legali: ciò che conta è quanto è scritto sul titolo.
o I titoli causali invece si connotano per la letteralità incompleta, nel senso che il contenuto del diritto
cartolare deriva dalla lettera del titolo e dalla disciplina legale del rapporto causale che presuppone.
Nulla quaestio, invece, per quanto riguarda l’autonomia di entrambi i diritti cartolari, ovverosia per la loro
assoluta indipendenza in sede di esercizio dal rapporto che presuppongono.
1. Che attribuiscono il diritto alla consegna delle merci oggetto del contratto.
2. Attribuiscono al portatore il possesso delle merci.
3. Attribuiscono facoltà di disposizione attraverso trasferimento del titolo.
Vige un dibattito dottrinale su un aspetto di questi titoli: laddove al vettore o al terzo depositario non sia
mai stata consegnata la merce che forma oggetto del titolo, egli potrà opporre questa circostanza al terzo
portatore ( eccezioni ex recepto). Sia che si dica di sì, sia che si dica di no, la soluzione non crea nessun
conflitto col principio di autonomia del titolo in sede di esercizio: anche per chi propenda per la soluzione
affermativa, il vettore oppone al portatore solo l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, determinata
dalla natura dell’obbligazione, che è uno obbligo di dare specifico.
La circolazione regolare avviene quando il titolare e proprietario del titolo lo trasferisce al suo dante causa
in virtù di un valido negozio traslativo, adempiendo anche le eventuali formalità per attribuire la
legittimazione del diritto al terzo. Per i titoli di credito opera il principio del consenso traslativo di cui all’art
1376 c.c., di conseguenza il solo consenso rende il l’avente causa titolare del diritto. Ma solo la consegna
del titolo lo legittimerà ad esercitare il diritto cartolare.
L’applicazione della regola del possesso vale titolo ( o meglio dell’autonomia in sede di circolazione) di cui
all’art 1994 c.c. sembrerebbe lasciare il titolare del diritto cartolare sprovvisto di tutela: egli può agire in via
di rivendicazione nei confronti del possessore illegittimo del titolo o avvalersi della procedura di
ammortamento, con cui ottiene un surrogato del titolo perso, salvo che a un terzo in buona fede sia stato
consegnato il documento. Quest’ultimo, in forza di 1994 c.c., acquista a titolo originario, è titolare del
diritto e proprietario del documento, esente quindi da rivendicazioni. Al titolare iniziale non resta che agire
per il risarcimento dei danni contro chi gli ha sottratto il titolo.
Le leggi di circolazioni
Gli articoli dal 2003 al 2027 del codice civile disciplinano le leggi di circolazione dei titoli, distinguendoli in al
portatore, all’ordine e nominativi.
I titoli al portatore
È titolo al portatore quello così pattiziamente denominato, sono titoli al portatore quelli che recano la
relativa clausola nel testo del documento.
I titoli al portatore circolano con la sola consegna del documento e il possessore è legittimato a ricevere la
prestazione incorporata solo presentando il titolo al debitore, ai sensi dell’art 2003 c.c.
L’emissioni di titoli al portatore cui consegue una prestazione di dare pecuniario è riservata solo ad alcuni
soggetti: essendo sostanzialmente un surrogato della moneta legali, la cui emissione è lecita sono in alcuni
casi stabiliti dalla legge.
Sono titoli al portatore le obbligazioni di società, le azioni di risparmio, gli assegni bancari.
I titoli all’ordine
Sono titoli intestati ad una persona determinata. La loro circolazione è valida solo se avviene mediante la
consegna del documento più la girata, e si consegue il diritto a richiedere la prestazione ivi incorporata con
una continua serie di girate.
Per girata si intende la dichiarazione sottoscritta sul retro del titolo con la quale il possessore, detto girante,
del titolo ordina al debitore di adempiere nei confronti del giratario.
La girata può essere in bianco o in pieno, secondo che contenga il nome del giratario o meno. Quella in
bianco è in genere formata solo dalla firma del girante, che abilita il giratario:
A riempire la girata col nome della persona cui vuole trasferire il titolo ( lui stesso o terzi).
Girare di nuovo il titolo a pieno o in bianco.
Trasmettere il titolo a terzi senza effettuare girata.
In quest’ultimo caso, come i titoli al portatore, il titolo si trasmette con la sola consegna, ma non
per questo diventa un titolo al portatore: il debitore è sempre tenuto a controllare che la prima
firma coincida con quella del primo prenditore.
Andando nello specifico della disciplina, la legittimazione del possessore si giustifica in relazione ad una
serie continua di girate, di cui l’ultima intestata a suo nome o a lui rilasciata in bianco: il nome di ogni
giratario corrisponde a quello del girante nella girata successiva. Il debitore è tenuto, prima di adempiere, a
controllare la validità formale delle girate, non la loro validità o autenticità, conformemente alla finalità di
velocità dei traffici giuridici, prerogativa comune a tutte le regole sui titoli di credito.
Normalmente la girata non ha funzione di garanzia: la cessione del credito configurata è sempre pro soluto,
salvo che il titolo o la legge diversamente dispongano.
Il codice regola due casi in cui la girata ha effetti più limitati di quelli sopra descritti per quella tipica:
I titoli nominativi
Anche i titoli nominativi sono intestati ad una persona determinata. L’intestazione però, in questo caso,
non deriva solo da quanto riportato sul documento, ma anche da un registro tenuto all’uopo dall’emittente
i titoli. L’art 2021 c.c. quindi legittima il possessore del titolo nominativo ad esercitare il suo diritto in forza
della doppia intestazione, sul titolo e nel registro.
La circolazione dei titoli nominativi è leggermente più complessa delle altre due categorie, e si esplica – con
il contributo dell’emittente in ogni caso – attraverso:
1. Il transfert.
Che consiste nel mutamento contestuale, ad opera dell’emittente, di entrambe le intestazioni.
Può essere richiesto da cedente e acquirente, ma soggiace a diverse formalità: l’alienante prova la
propria identità e la propria capacità di agire con la certificazione di un notaio o di una banca,
l’acquirente esibisce il titolo dimostrando l’acquisto del diritto mediante atto pubblico o scrittura
autenticata dal notaio.
2. Trasferimento mediante girata.
Molto più diffuso per la sua semplicità in quanto l’annotazione doppia non deve essere contestuale:
quella sul registro abilita l’esercizio del diritto al giratario, che nel frattempo tuttavia può effettuare
girate a terzi semplicemente annotando sul titolo.
La girata nei titoli nominativi è comunque sottoposta a qualche formalità diversa da quella dei titoli
all’ordine:
- Deve essere datata.
Inoltre, la girata dei titoli di nominativi attribuisce non tanto la legittimazione ad esercitare il
diritto, ma la legittimazione ad ottenere l’annotazione nel registro dell’emittente, requisito
ultimo per chiedere la prestazione al debitore – o meglio l’esercizio dei diritti incorporati nel
titolo-.
Ancora il giratario di titolo azionario può esercitare tutti i diritti sociali prima della doppia
annotazione, fermo restando l’obbligo di annotazione nei registri.
D’altro canto il secondo comma della stessa disposizione, libera anche verso il titolare, il debitore che ha
adempiuto che senza dolo o colpa grave al possessore. Ne consegue che il debitore paga bene non solo se è
in buona fede, ma anche se non dispone di mezzi – reperibili con l’ordinaria diligenza – per provare il difetto
di titolarità del possessore.
Eccezioni cartolari
L’art 1993 c.c. disciplina il regime delle eccezioni cartolari, ovvero quelle che il debitore può opporre per
evitare di pagare al portatore del titolo.
Vi sono essenzialmente due tipi di eccezione, quella reale e quella personale, la prima opponibile a
qualsivoglia portatore, la seconda solo a portatori determinati. Eccone il breve elenco:
Per le eccezioni personali fondate su rapporti personali l’art 1933 co.2 restringe il campo: è questo il
famoso caso della exceptio doli. Si può eccepire l’adempimento solo a chi abbia acquistato il titolo agendo
intenzionalmente a danno del debitore cartolare.
L’ammortamento
Il principio dell’incorporazione del credito al titolo avrebbe come corollario il fatto che chi
involontariamente smarrisce il documento o gli viene sottratto o distrutto, involontariamente, perde anche
il diritto cartolare.
Un ordinamento moderno non può accettare una fattispecie simile e infatti appresta dei rimedi, diversificati
per i titoli intestati ( nominativi o all’ordine) e non intestati ( al portatore).
Per i titoli intestati, è previsto l’istituto dell’ammortamento ( artt. 2016-2020 c.c.). L’ammortamento è uno
speciale decreto giudiziale che sancisce che il documento originario perduto non è più strumento di
legittimazione. Chi ha ottenuto il decreto può presentarlo per esigere la prestazione: anzi, se il credito non
è scaduto può chiedere un duplicato del titolo.
L’ammortamento è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e deve essere notificato al debitore, che se adempie
al detentore del titolo non è più – dalla notifica – liberato.
Salvo alcuni casi speciali, come gli assegni bancari al portatore, i titoli al portatore non possono formare
oggetto di ammortamento. Il possessore di tale titolo che ne provi la distruzione, può ottenere
dall’emittente un duplicato o un titolo equivalente.
Nel caso di smarrimento o sottrazione, il debitore cartolare può adempiere, liberandosi, nelle mani del
creditore cartolare prima che sia decorso il termine di prescrizione del titolo, ma quest’ultimo può
richiedere la prestazione solo dopo che sia il titolo sia prescritto.
Documenti di legittimazione sono quelli utili solo ad identificare il soggetto che deve ricevere la prestazione,
e si capisce bene di cosa parliamo dicendo biglietti del cinema, scontrini di deposito di bagagli.
La disciplina del titolo di credito non è applicabile a questi documenti, salvo l’art 1992 c.c.
1. L’attività di gestione accentrata degli strumenti finanziari emessi da privati è esercitata dalle
società di gestione accentrata, che operano sotto la vigilanza della Banca d’Italia. Attualmente
l’unica società ( necessariamente per azione e a statuto speciale) è Monte Titoli.
2. La Consob designa gli strumenti finanziari idonei ad essere ammessi al sistema di gestione
accentrata.
3. I titoli di Stato vengono sempre gestiti da Monte Titoli, su regolamento del ministero
dell’Economia.
4. La gestione si modifica secondo che siano rappresentati da documenti cartacei o meno.
La gestione degli strumenti finanziari non dematerializzati si fonda su un complesso sistema negoziale
combinato. Innanzitutto è un sistema facoltativo per i titolari. Si fonda poi su due contratti di deposito
regolare, il primo stipulato tra i titolari e un intermediario ammesso al sistema, il secondo ( subdeposito) tra
l’intermediario depositario e la Monte Titoli.
Il sistema è così molto velocizzato: piuttosto che al trasferimento materiale dei titoli la società di gestione
accentrata provvede ad un’annotazione contabile nelle sue apposite scritture, che ai sensi dell’art 83
quinquies del tuf, produce gli stessi effetti propri del trasferimento dei titoli di credito tipico. Inoltre, il
titolare può esercitare il diritto cartolare esibendo una certificazione rilasciata dalla Monte Titoli, anzi, per
le azioni così gestite, e per il relativo diritto di voto, basta una comunicazione inviata dall’intermediario alla
società.
Ricordiamo però che se la gestione è dematerializzata, non lo sono i titoli: soggiacciono comunque alle
ordinarie regole di emissioni ed esistono materialmente, benché possano circolare fermi in una cassaforte.
Per alcuni strumenti finanziari invece è oggi previsto un regime di scritturazione completamente
elettronico, è stato eliminato il documento cartaceo. Sono soggetti a questo regime gli strumenti finanziari
quotati e quelli diffusi tra il pubblico in maniera rilevante, i titoli di Stato e qualunque emittente voglia
sottoporsi a tale sistema. Il trasferimento di questi strumenti avviene esclusivamente attraverso il sistema
di gestione accentrata, con annotazioni contabili elettroniche, che producono gli stessi effetti del
trasferimento dei titoli ( diritto cartolare letterale ad autonomo, a cui sono opponibili solo le eccezioni
personali al nuovo titolare e quelle comuni a tutti gli altri titolari di stessi diritti).
È disciplinato dal regio decreto n.1669 con cui è stata data attuazione alla Convenzione di Ginevra del 1930,
istituita per uniformare il diritto internazionale cambiario. Per questo la disciplina della cambiale è molto
simile in Italia e gli altri paesi.
La cambiale tratta.
Una persona, il c.d. traente, ordina al trattario di pagare una somma di denaro al portatore del
titolo.
Riassumendo la posizione giuridica delle tre parti dell’operazione:
- Il traente, da l’ordine di pagamento e garantisce l’accettazione e il pagamento del titolo.
- Il trattario, che diviene obbligato cambiario principale con l’accettazione.
- Il portatore, che è beneficiario dell’ordine di pagamento.
Il vaglia cambiario. ( o pagherò)
Che ha invece una struttura bilaterale ed è una promessa di pagamento. L’emittente diviene
obbligato cambiario e il prenditore è beneficiario di una promessa.
Viste in sintesi le differenze tra i due istituti, vediamone altresì i tratti comuni:
Parti di queste prescrizioni sono requisiti necessari affinché il documento sia una cambiale – e si definiscono
essenziali- altri, se difettano, vengono inseriti ipso iure dalla legge con norme suppletive – e si di dicono
naturali.-
a) L’indicazione della scadenza, che si presume, se omessa, pagabile a vista. Se indicata, però, deve
rientrare in uno dei 4 modelli predisposti dall’art 38 della legge cambiaria.
b) L’indicazione del luogo di emissione della cambiale. Se omessa, si considera il luogo di nascita
dell’emittente o del traente; se difetta anche questo, la cambiale è nulla.
c) L’indicazione del luogo di pagamento. Se omessa il titolo è pagabile al luogo accanto al nome del
trattario o in quello di emissione ( per il pagherò). Se il luogo indicato è il domicilio di qualcuno,
allora la cambiale è domiciliata.
Se non viene pagato il bollo dell’imposta proporzionale sulla cambiale, essa perde la qualità di titolo
esecutivo. La successiva regolarizzazione riabilita l’esercizio dei diritti cambiari, salvo quelli esecutivi.
La cambiale in bianco
La pena prevista per l’inosservanza di uno dei requisiti essenziali sopra citati è che il documento non vale
come cambiale. Quindi, salvo per il requisito della sottoscrizione dell’emittente o del traente, non è
richiesto che la cambiale sia completa all’atto dell’emissione: è sufficiente che lo sia al momento della
presentazione al debitore da parte del portatore.
La cambiale difettiva di uno dei requisiti si definisce cambiale in bianco: come anticipato, basta che vi sia la
firma e la denominazione di cambiale per far diventare un pezzo di carta una cambiale, benché in bianco.
All’emissione della cambiale in bianco si accompagna quindi la stipula di un accordo di riempimento: la
tecnica occorre quando l’importo o la scadenza del titolo non sono determinabili al momento della
sottoscrizione; lo saranno una volta definiti meglio, magari, i rapporti pendenti tra emittente e primo
prenditore.
Il pericolo del riempimento abusivo della cambiale da parte del portatore è diversamente rischioso se il
portatore gira o meno il titolo a terzi: se non lo fa, l’emittente potrà sempre opporre alla condotta abusiva
l’accordo di riempimento, se il beneficiario gira la cambiale invece, la storia si complica. L’eccezione di
abusivo riempimento è personale, e non può essere opposta al terzo portatore, salvo il caso della mala fede
di quest’ultimo o della sua colpa grave nell’acquisto; se il debitore quindi non prova una di tali fattispecie, è
costretto a pagare la cambiale all’autore del falso e poi chiedere a lui giudizialmente il risarcimento del
danno. Trattario e emittente sono tutelati anche dall’incriminazione di abuso di foglio in bianco e dalle pene
relative, che albergano sul capo del riempitore abusivo.
Il diritto di riempimento decade in tre anni, ma la decadenza dello stesso non può essere opposta al
giratario in buona fede cui la cambiale sia pervenuta già completa.
Può essere assunta anche tramite procuratore, il quale deve utilizzare la formula “per procura” nel testo del
titolo, insomma facendo emergere la sua qualità di rappresentante. Il rappresentante generale di
imprenditore commerciale può obbligarsi cambiariamente, non può quello di imprenditore non
commerciale.
Peculiare la sanzione per il falsus procurator: il rappresentante cambiario senza poteri o che li ha ecceduti è
obbligato come se avesse firmato a nome proprio. Anzi, il preteso rappresentato può eccepire il difetto di
rappresentanza a chiunque, essendo eccezione reale ( 1993 c.c.).
Il falsus procurator che paga ha gli stessi diritti del preteso rappresentato.
Le obbligazioni cambiarie
Durante la circolazione del titolo cambiario, esso in qualche modo rafforza le possibilità di soddisfare la
pretesa creditoria in esso incorporata, poiché i soggetti coinvolti assumono di volta in volta e in modo
diverso vesti di obbligato nei confronti dell’ultimo giratario.
a) L’indipendenza.
L’invalidità di un’obbligazione cambiaria non si propaga sulle altre.
b) La solidalità.
Tutti gli obbligati cambiari sono obbligati in solido nei confronti del portatore attuale. Tuttavia essi
si distinguono in obbligati diretti e obbligati di regresso, definizione che consegue delle differenze
sul piano esecutivo dell’obbligazione. Obbligati cambiari diretti sono l’emittente, l’accettante ed i
loro avallanti. Obbligati di regresso sono il traente, i giranti e i loro avallanti.
c) La graduazione delle obbligazioni cambiarie.
Solo uno degli obbligati cambiari deve sopportare il peso del debito assunto, gli altri sono per legge
garanti di grado successivo dell’adempimento.
Nella cambiale tratta accettata, obbligato di primo grado è l’accettante, di secondo grado il traente,
di terzo grado è il primo girante e ogni girante successivo è garante di grado successivo.
Nel pagherò, obbligato di primo grado è l’emittente, seguono poi i giranti nell’ordine sopra
esplicato per la cambiale tratta. L’avallante si pone sempre come obbligato di grado successivo a
quello dell’obbligato per cui si è dato l’avallo.
Il grado delle obbligazioni cambiarie comporta che: se adempie l’obbligato di primo grado, libera
tutti. Se paga l’obbligato di grado intermedio, libera solo quelli di grado successivo al suo, mentre
ha regresso per l’intera somma pagata sugli obbligati di grado anteriore al suo (art 56 l.camb.)
È altresì possibile la sussistenza di obbligati di pari grado: è il caso dei coemittenti e dei coavallanti.
Il portatore può scegliere facoltativamente di presentare o non presentare al trattario il titolo cambiario ai
fini dell’accettazione, anzi il traente può espressamente vietare che sia presentata, salvo in alcuni casi:
Nella cambiale a certo tempo vista, perché la presentazione attiva il decorrere della scadenza del
titolo;
Quando il girante o il traente prescrivano che sia presentata per l’accettazione e appongano un
termine.
Anche l’accettazione è sottoposta alla forma scritta nella cambiale, espressa con le parole “accetto”,
“visto” contestuali alla sottoscrizione del trattario e a luogo e data di nascita ( o codice fiscale).
L’accettazione può essere parziale, e in questo caso al portatore spettano già le azioni verso gli obbligati
di grado inferiore, ma non può essere condizionata.
Ogni altra modifica del trattario al testo della cambiale equivale a rifiuto di accettazione, fermo
restando che il trattario è obbligato nei termini della sua accettazione. ( se accetta 20 deve pagare 20).
Infine, gli art 75-77 l.camb. disciplinano l’accettazione per intervento, istituto di scarsa diffusione
pratica, che occorre quando il trattario rifiuta, e un terzo si offra di accettare la cambiale. Con
quest’accettazione egli non può divenire obbligato principale, poiché viene collocato sempre allo stesso
grado del soggetto per cui interviene, che si presume il trattante salvo diversa disposizione pattizia.
L’Avallo
L’avallo è una garanzia cambiaria, costituita da una dichiarazione, con cui l’avallante protegge il pagamento
di tutta o di parte dell’importo del titolo.
L’avallo deve risultare dal tenore letterale del testo, espresso con le parole “per avallo”, seguite dalla
sottoscrizione, il codice fiscale ecc. Vale come avallo anche la semplice firma apposta sulla faccia anteriore
della cambiale.
L’avallo si presume dato per l’emittente o per il traente, ma l’avallante può specificare per quali degli
obbligati cambiari la garanzia è posta. È rilevante quest’aspetto, perché l’avallante è obbligato allo stesso
modo ( diretto o di regresso) del debitore cambiario che avalla, non nello stesso grado.
L’avallante diviene obbligato in solido nei confronti del portatore. Ciononostante, egli ha azione di regresso
per l’intero nei confronti dell’avallato e degli obbligati di grado inferiore.
L’obbligazione dell’avallante è autonoma da quella avallata, non risente dell’invalidità del debito garantito,
salvo il vizio di forma di quest’ultimo. L’avallante quindi, non può opporre che l’invalidità formale del
rapporto che assiste per neutralizzare l’esecuzione del portatore.
Innanzitutto, le parti possono pattiziamente, indicando tale circostanza nel titolo, imporre che la cambiale
non sia all’ordine, e che quindi circoli secondo le sopracitate norme sulla cessione del credito.
La girata è apposta nelle modalità di cui all’art 8 l.camb., può essere in bianco, ma in questo caso è valida
solo se posta sull’allungamento o sul retro della cambiale.
Gli effetti della girata sono quelli già visti per i titoli all’ordine, con la differenza che con la girata cambiaria
l’alienante rimane obbligato in regresso verso il portatore. La garanzia cambiaria è però dispositiva, e può
essere derogata delle parti con l’apposita clausola “senza garanzia”.
Legittimario del pagamento è il portatore del titolo che vanti una serie continua di girate complete, anche
se l’ultima è in bianco. Chi paga la cambiale alla scadenza quindi, è tenuto solo a controllare la regolarità
formale delle girate secondo la già detta regola di coincidenza del nome ed è liberato anche se paga a
soggetto non titolare, a meno che versi in dolo o in colpa grave.
La cambiale va presentata per il pagamento del debito all’obbligato, ma le modalità di pagamento mutano
secondo che essa sia:
L’omissione della presentazione consegue la perdita della azione cambiaria verso gli obbligati di regresso.
Il termine della cambiale si considera essenziale per il debitore e per il creditore cambiario, in deroga al
diritto comune: il portatore non è quindi abilitato a ricevere la prestazione prima della scadenza del titolo. Il
pagamento anticipato della cambiale quindi, avviene a rischio e pericolo di chi adempie.
Il pagamento abilita alla restituzione del titolo allegata da quietanza del portatore. Con l’adempimento
parziale invece il debitore può chiedere che ne sia fatta menzione sul titolo e può quietanza separata.
Le azioni cambiarie
Viene al dunque la differenza tra obbligati diretti e obbligati di regresso nella disciplina dei rimedi cambiari.
Quando occorra il rifiuto del pagamento o il rifiuto di accettazione nella cambiale tratta, il portatore può
agire contro tutti gli obbligati cambiari, ma in modo diverso, che si tratti di obbligati di diversa specie.
Per l’azione di regresso invece, sussistono alcune condizioni sostanziali e alcuni adempimenti formali, di cui
all’art 50 e 51 l.camb., il cui rispetto presuppone l’esperibilità del rimedio.
Le condizioni per l’esercizio dell’azione anteriore alla scadenza della cambiale sono:
Accettazione rifiutata.
Fallimento, cessazione dei pagamenti, esecuzione infruttuosa del trattario o dell’emittente.
Fallimento del traente per cambiale non accettabile.
In caso di fallimento di trattario o emittente, la sentenza dichiarativa di per sé abilita l’esercizio del
regresso.
Negli altri casi, l’adempimento formale necessario è quello del protesto, ovvero la constatazione
con atto autentico del rifiuto di accettazione o pagamento. Il protesto per mancato pagamento va
elevato nei due giorni feriali successivi al rifiuto, se omette di farlo, il portatore decade dalle azioni
di regresso. Il protesto può essere dispensato dal traente, l’emittente, l’avallante con clausola
espressa “ senza spese o senza protesto”. Anche se dispensato, il portatore deve notificare ai
condebitori il rifiuto del debitore principale.
Se rispetta queste condizioni e queste formalità, il portatore può in sostanza agire come gli pare, contro
uno qualsiasi degli obbligati, contro tutti congiuntamente, contro alcuni di questi. E quindi, come già
evidenziato, i gradi delle obbligazioni cambiarie rilevano esclusivamente nei rapporti interni tra gli
obbligati, poiché il pagamento della cambiale libera tutti gli obbligati di grado successivo e abilita la
ripetizione per l’intero contro tutti quelli di grado anteriore.
Contro gli obbligati di pari grado, il solvens non ha che azioni extracambiarie.
L’azione di regresso del portatore si prescrive in un anno, a partire dalla levata del protesto o dalla
scadenza, quella del solvens in sei mesi dal pagamento.
Il principio di indipendenza delle obbligazioni cambiarie comporta che l’interruzione della prescrizione
opera solo per il debitore cambiario nei confronti del quale si è prodotto l’atto interruttivo.
Il protesto
Come abbiamo anticipato, se il portatore vuole mantenere le sue azioni di regresso, deve levare il protesto.
Esso è l’atto autentico che constata il rifiuto di accettazione o di pagamento da parte del debitore
principale.
Il protesto viene levato, dietro presentazione del titolo, contro i soggetti che la cambiale designa per
l’accettazione o il pagamento della cambiale.
La camera di commercio raccoglie nel registro informatico dei protesti, tutti i protesti per mancato
pagamento.
La levata illegittima di protesto può far sorgere un diritto al risarcimento del danno del debitore protestato,
per il discredito lui cagionato anche dalla pubblicità prescritta.
Ha gli stessi effetti del protesto la dichiarazione sostitutiva di rifiuto dell’accettazione o del pagamento della
cambiale, e quindi è soggetta alla stessa pubblicità.
Il processo cambiario
Veniamo ad una delle parti più caratteristiche della disciplina sulla cambiale: la sua qualifica di titolo
esecutivo. La cambiale regolare e con bollo è tale.
Qual è la facilitazione conseguente? Che il portatore può avviare la procedura esecutiva sui beni del
debitore senza essersi già dotato di una sentenza giudiziale di condanna. In caso la cambiale non fosse
originariamente munita di bollo invece, il portatore dovrà comunque attendere il provvedimento del
giudice di accertamento. Nel processo che il titolo bollato esonera, comunque il creditore cambiario è
privilegiato, poiché è previsto che se le eccezioni dell’obbligato sono di lunga indagine, venga emessa una
sentenza provvisoria di condanna, che può allegare al creditore il versamento di una cauzione.
La disciplina sulle eccezioni la trovi al capitolo relativo. Sono comunque oggettive le eccezioni opponibili a
tutti gli obbligati cambiari, soggettive a un determinato debitore. Il criterio che traccia il discrimine tra
eccezioni oggettive e soggettive e tra reali e personali quindi è diverso: nel primo rileva il debitore, nel
secondo il portatore. Per questo sono da applicarsi in combinazione.
Le azioni extracambiarie
Il portatore della cambiale dispone anche di altri rimedi per realizzare il proprio credito. Il rapporto
fondamentale che è presupposto dal titolo cambiale non si estingue affatto all’emissione del documento: è
per questo che il possessore può esperire anche l’azione causale nei confronti di chi è debitore del rapporto
causale, salvo chiaramente, che dalla girata o dal rilascio non si sia generata novazione del rapporto.
Chiaramente, come nel caso del regresso cambiario, l’esercizio dell’azione causale è rimesso ad una serie di
condizioni e formalità:
Una forma di azione di ingiusto arricchimento spetta al portatore cui siano decadute tutte le azioni
cambiarie ed extracambiarie nei confronti di traente, trattario o girante per la somma di cui si siano
Le cambiali finanziarie
La cambiale, come visto nel primo paragrafo di questo capitolo, è essenzialmente un titolo di credito
idoneo a realizzare una più veloce, facile e solvibile funzione di credito tra privati. Il modello cambiario, e la
relativa disciplina speciale, sono quindi state importate anche in ambito finanziario con l’introduzione, nel
2009, dell’istituto della cambiale finanziaria.
La sua funzione è quella di permettere la raccolta di capitali di credito a imprese che non sono abilitate a
emettere obbligazione e che non possono permettersi di infilarsi nelle esose maglie del credito bancario.
La cambiale finanziaria è un titolo all’ordine, con scadenza determinabile da quella mensile a quella
triennale, e con struttura giuridica identica al pagherò, al vaglia cambiario. È quindi una promessa
incondizionata di pagamento.
Per quanto riguarda le formalità necessarie, oltre a quelle previste per il pagherò, deve essere inserita la
denominazione di cambiale finanziaria e indicati i proventi del primo prenditore, che spesso si realizzano
con la differenza tra il valore nominale del titolo e la somma erogata dal titolare.
Le cambiali finanziarie possono essere emesse da società di capitali, cooperative, mutue assicuratrici, a
patto che non siano microimprese. Devono avere importo superiore a 50.000 euro.
Sono chiaramente, come del resto già detto, uno strumento di raccolta del credito presso il pubblico, e
quindi soggiacciono alle relative regole per quanto riguarda i limiti soggettivi e quantitativi di emissione.
Inoltre, le cambiali finanziarie possono essere girate solo pro soluto, ovvero “senza garanzia”, incentivando
così la circolazione del titolo stesso: non sono obbligati i giratari a nessun titolo.
Possono essere emesse in forma dematerializzata, e in questo caso soggiacciono alle relative regole.
L’assegno bancario è un titolo di credito che rappresenta un ordine incondizionato nei confronti di una
banca di eseguire il pagamento – a vista- ad una persona determinata o al portatore del titolo.
L’assegno bancario, come si può facilmente dedurre quindi, assolve la funzione di consentire il pagamento
di somme ingenti di denaro senza mobilizzare fisicamente le banconote, uno strumento di pagamento
ultroneo alla moneta legale, a quella elettronica e agli altri già visti.
La disciplina degli assegni è contenuta in una legge speciale, il regio decreto 1736 del 1933 – la c.d. legge
degli assegni- e come già visto nella cambiale, con essa è stata data attuazione alla Convenzione di Ginevra
del 1931: ne deriva che in quasi tutto il globo terraqueo la regolamentazione degli assegni coincide.
Tuttavia, sebbene siano molto affini la cambiale tratta e l’assegno, vi sono delle differenze che rilevano
al fine di scongiurare l’utilizzo dell’assegno come strumento di erogazione di credito:
In sostanza, è sufficiente che vi sia un conto corrente con saldo attivo intestato al traente. L’inosservanza
dei primi due requisiti comporta sanzioni pecuniarie, dell’ultimo la perdita dell’esecutività del titolo.
Allora ci viene il dubbio che la banca possa assumere la veste di obbligato extracartolare verso il portatore
allorquando l’assegno sia regolare, ovvero coperto. Il dubbio però va sciolto ancora in senso negativo: in
sostanza con l’emissione dell’assegno, la banca è esposta solo alla responsabilità da inadempimento della
convenzione di assegno con cui si è obbligata al traente, non è mai responsabile nei confronti del portatore
in caso di rifiuto ingiustificato di pagamento.
Per scongiurare gli inconvenienti derivanti da questo genere di fattispecie, l’ordinamento prevede due
istituti:
Il visto, scritto sull’assegno e sottoscritto dal trattario, il quale benché non obblighi la banca al
pagamento, impedisce il ritiro delle somme destinate al pagamento del titolo prima della sua
scadenza. È sottoposto ad un ultronea imposta di bollo, per questo è scomparso dalla prassi.
Il benefondi, che è un colpo di telefono di conferma dell’esistenza della liquidità necessaria tra la
banca trattaria e quella cui l’assegno è girato per l’incasso.
Circolazione e Avallo
Sia la circolazione che l’avallo dell’assegno bancario sono istituti ormai in quasi completa desuetudine, e
vediamone il perché.
Allora: sicuramente l’assegno bancario può sia assumere la veste di titolo al portatore che di titolo
all’ordine, ed è al portatore quando non è indicato il nome del primo prenditore nel titolo.
Tuttavia sono apposti limiti alla circolazione dei titoli, che siano all’ordine o al portatore, poiché gli assegni
di importo superiore a 1000 euro, recano obbligatoriamente la clausola di non trasferibilità e il nome del
beneficiario. Inoltre, le banche sono tenute, salvo richiesta del cliente, che in quest’ipotesti paga
un’imposta di bollo più ampia, a emettere i carnet con prestampate le clausole di intrasferibilità.
Per quanto riguarda l’avallo, la breve vita del titolo ne ha sempre, bene o male, impedito la diffusione.
Il Pagamento dell’Assegno
L’assegno è sempre e solo pagabile “a vista”: ogni disposizione di senso contrario si ha per non scritta.
Non solo: il termine di scadenza dell’assegno è predeterminato legislativamente, ovvero 8 giorni dalla data
di emissione se è pagabile nello stesso comune dove è stato emesso, 15 se è diverso ( art 32 l.ass.).
L’omessa presentazione del titolo alla banca nei termini sopracitati non è poi così piena di conseguenze per
il prenditore: decadono le azioni di regresso verso giranti e avallanti, non verso il traente. La banca può
quindi pagare al portatore anche dopo il termine scaduto, salvo che non abbia ricevuto indicazione
contraria dal suo cliente.
Mentre per il regresso contro i giranti e i loro avallanti sono sempre necessari la presentazione per
l’accettazione e la constatazione del rifiuto di pagamento, non lo sono per il regresso contro il traente e i
suoi avallanti. Ne consegue che se scaduto il termine l’importo è venuto meno dalla disponibilità del saldo
per fatto della banca, il portatore decade dai suoi diritti nei confronti del traente
Si dice sbarrato l’assegno sulla cui faccia anteriore vengono poste due sbarre.
La sbarratura è generale quando lo spazio tra le sbarre è vuoto, speciale se riempito dal nome di un
determinato istituto di credito.
La tutela offerta dallo sbarramento è particolare: evita che l’assegno sia pagato a soggetto che non abbia
avuto rapporti con la banca trattaria, ma non impedisce la soddisfazione del giratario in buona fede del
ladro.
È assegno non trasferibile quello che può invece essere pagato o accreditato sul conte dell’immediato
prenditore. Il prenditore può in ogni caso girare l’assegno a un’altra banca per l’incasso. E hanno apposta
tale clausola tutti gli assegni di importo superiore a 1000 euro.
L’assegno turistico è quello che viene tratto da una banca ad una propria filiale o corrispondente trattaria.
Di regola è stilato in moneta straniera ( del paese della banca trattario) e viene rilasciato al prenditore su
versamento o addebito dell’importo. La caratteristica tipica di questo assegno è che necessita di una doppia
firma del prenditore, la prima apposta al rilascio del titolo, la seconda al momento del pagamento, così da
rendere agevole per le due banche il riscontro dell’autenticità.
L’assegno circolare
L’assegno circolare è il titolo di credito che contiene una promessa incondizionata di pagamento emessa
dalla banca di pagare a vista una somma di danaro.
Il primo prenditore riceve la consegna del titolo versando l’importo corrispondente ( o con addebito sul
conto).
L’assegno circolare è assimilabile al pagherò cambiario: è un mezzo più sicuro di pagamento, stante
l’obbligazione diretta della banca verso il prenditore. Tuttavia non può essere emesso al portatore; sarebbe
sostanzialmente equiparato alla moneta legale.
La disciplina ricalca ampiamente quella del pagherò cambiario a vista. Tuttavia, per ovvie ragioni, la girata a
beneficio dell’emittente estingue il titolo e il termine per la presentazione dell’assegno è 30 giorni
dall’emissione.
L’assegno è di regola emesso con la clausola di non trasferibilità, condizione necessaria di liceità se
l’assegno circolare è di importo superiore a 1000 euro.
Le Procedure Concorsuali
Come in ogni analisi di ogni branca del diritto civile, ruolo chiarificatore giocano l’individuazione,
l’attribuzione e la qualificazione degli interessi che la legge è chiamata a comporre.
Le procedure concorsuali sono le fattispecie giuridiche con cui l’ordinamento reagisce alla crisi economica
dell’impresa, e gli interessi che l’insieme di queste norme intendono tutelare non si esauriscono in quelli
personali del debitore insolvente e del creditore insoddisfatto – peraltro ancora centrali- ma spaziano dalla
salvaguardia dei creditori del creditore che non ha ricevuto la sua prestazione, e si trova in difficoltà ad
adempiere le sue obbligazioni, alla tutela dei dipendenti dell’imprenditore in dissesto: le procedure
concorsuali sono chiamate a comporre circostanze di difficoltà economica in cui pregiudicati potrebbero
essere diritti perfino collettivi.
Esse risultano essere indispensabili per lo sviluppo della moderna economia di mercato, laddove l’azione
esecutiva individuale del singolo creditore sui beni dell’imprenditore in dissesto non solo potrebbe rivelarsi
infruttuosa, ma anche dannosa degli interessi collettivi che prima citavo.
Il fallimento.
Il concordato preventivo.
L’accordo di ristrutturazione dei debiti.
La liquidazione coatta amministrativa.
L’amministrazione straordinaria delle imprese di grandi dimensione.
L’amministrazione accelerata delle imprese di grandi dimensione.
La procedura di liquidazione.
L’accordo di composizione della crisi.
Le prime 6 sono riservate all’imprenditore commerciale non piccolo, le ultime tre al debitore diverso
dall’imprenditore commerciale non piccolo.
Il fatto stesso che esistano più procedure concorsuali nel nostro ordinamento ne qualifica la diversità
ontologica, tuttavia tutte constano di due caratteri comuni:
Sono generali.
Perché coinvolgono tutto il patrimonio del debitore, non i suoi singoli beni.
Sono collettive.
Perché coinvolgono tutti i creditori dell’imprenditore dal giorno in cui il dissesto è accertato e
assicura la par condicio creditorum.
Questi sono i caratteri che accomunano tutte le procedure, andiamo a vedere invece quelli attraverso le
quali si differenziano:
Il Fallimento
Presupposti per la dichiarazione di Fallimento
Affinché possa essere emanata la dichiarazione di fallimento, è necessario che sussistano i seguenti
presupposti:
In merito al punto 1, ovvero al presupposto soggettivo, ricordiamo che l’area di applicazione del fallimento
subisce varie limitazioni in quanto:
Menzioniamo anche il fatto che il fallimento si estende ai soci illimitatamente responsabili. ( art 147 l.fall
co.1.)
Indice rivelatore dello stato di insolvenza dell’imprenditore è – chiaramente- l’inadempienza nei confronti
di una o più obbligazioni. Purtuttavia, il binomio insolvenza-inadempimento non è sempre dirimente: può
benissimo ricorrere l’insolvenza dell’imprenditore che non sia accompagnata da inadempimenti ( poiché
magari egli si è procurato il denaro per soddisfare i creditori per mezzo di uno strozzino o ha venduto
sottocosto, e in questo caso, intervenuto il fallimento, sarà integrata la bancarotta semplice) ma può anche
ricorrere l’inadempimento di più obbligazioni senza che sussista insolvenza, magari per difficoltà interinali
dell’imprenditore ad adempiere.
È l’art 15 della legge fallimentare al comma 9 a definire la circostanza che apre la procedura concorsuale:
devono sussistere sia l’insolvenza che inadempimenti, nello specifico debiti scaduti o non pagati per un
importo di minimo trentamila euro.
Ci siamo soffermati nel capitolo 1 sulle soglie dimensionali di esonero dal fallimento.
La dichiarazione di Fallimento
Il fallimento può essere richiesto da:
Un creditore dell’imprenditore.
Non è necessario che il credito sia sorto nell’attività d’impresa o che siano molteplici i creditori che
fanno istanza. E non è nemmeno necessario che le prove addotte dai creditori siano idonee: il
processo fallimentare è inquisitorio e il giudice può raccogliere senza limiti documenti probatori.
Dall’imprenditore stesso.
E da facoltà del debitore, magari utile per sottrarsi a alcune azioni esecutive individuali, diviene
obbligo assistito da sanzione penale quando l’inerzia peggiora il dissesto. L’imprenditore che chiede
il proprio fallimento è costretto a depositare una serie infinita di documentazioni attestanti lo stato
della propria attività in dissesto.
Dal pubblico ministero.
Egli ha il potere dovere di chiedere il fallimento quando siano configurabili reati fallimentari, al fine
di esperire l’azione penale anche prima della dichiarazione civile.
È invece stata soppressa la facoltà del giudice civile di dichiarare d’ufficio il fallimento.
Compete al tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale la dichiarazione di fallimento. Inoltre, la
dichiarazione di incompetenza del giudice che ha dichiarato fallito l’imprenditore non caduca la
dichiarazione di fallimento: tutti gli atti vengono traslati al tribunale competente.
Rispetto al passato è rimasto fermo che il tribunale decide sulla richiesta di fallimento in camera di consiglio
con uno speciale e semplificato procedimento. Il debitore e i creditori istanti devono essere sentiti in
udienza e possono presentare prove e nominare consulenti tecnici.
Rigetto o accoglimento
Il fallimento è dichiarato con sentenza ai sensi dell’art 15 l.fall.
La sentenza contiene:
La sentenza è notificata d’ufficio al debitore, nonché comunicata a creditore istante e all’eventuale p.m.
Viene iscritta nel registro delle imprese – e di qui è efficace nei riguardi degli stakeholders
dell’imprenditore- ma è immediatamente esecutiva tra le parti del processo dal deposito in cancelleria.
Il ricorso è soggetto al breve termine di decadenza mensile, decorrente dalla notifica per il fallito,
dall’iscrizione nel registro delle imprese per tutti gli altri. In ogni caso, l’azione si prescrive in un anno dalla
pubblicazione della sentenza.
Peculiare è che l’impugnazione non sospende gli effetti della dichiarazione di fallimento. L’unico effetto che
la corte d’appello può congelare è la liquidazione dell’attivo, sempre su istanza di parte.
Come per la dichiarazione di fallimento, anche il procedimento relativo alla sua revoca è molto
semplificato. Nel giudizio di appello il dibattimento muove sui vizi procedurali e della sentenza dichiarativa.
Se il reclamo è accolto, il fallimento è revocato. E la revoca è pubblicata nel registro delle imprese.
Purtuttavia, gli effetti della revoca non operano retroattivamente e restano salvi gli effetti degli atti posti in
essere dagli organi fallimentari in forza di legge.
In quest’ultima ipotesi quindi, all’ex fallito non resta che adire l’azione risarcitoria nei confronti del
creditore che ha fatto istanza di fallimento erronea con colpa, e l’esonero dalle spese fallimentari e dal
Il Tribunale Fallimentare.
Che ai sensi dell’art 23 l.fall., è investito dell’intera procedura del fallimento, sovraintendendo al
corretto svolgimento della stessa. In particolare, il tribunale:
1. Nomina il giudice delegato e il curatore e ne sorveglia l’operato.
2. Decide le controversie relative alla procedura che non siano di competenza del giudice
delegato.
3. Può in ogni momento chiedere chiarimenti agli altri organi e al falllito.
Il tribunale adotta tutti questi provvedimenti con decreto. Il processo fallimentare è inoltre inossequioso
del criterio territoriale e funzionale e per vis actractiva decide su tutte le controversie del fallimento.
Il giudice delegato.
Ha il compito di vigilare sulle operazioni del fallimento e ne controlla la regolarità. Nello specifico:
1. Nomina e revoca i componenti del comitato dei creditori.
2. Forma lo stato passivo del fallimento e lo rende esecutivo con decreto.
3. Decide sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato.
4. Emette provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio.
Il curatore fallimentare.
È il pubblico ufficiale investito dell’amministrazione del patrimonio fallimentare.
Viene nominato dal tribunale con la sentenza dichiarativa del fallimento, che può revocarlo anche
d’ufficio in ogni momento.
Entro due mesi dalla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art 33 l.fall. il curatore presenta al
giudice delegato una relazione sui motivi della crisi e evidenzia le responsabilità del fallito,
sottolineando inoltre gli atti che intende sottoporre a revocatoria.
Egli può e deve compiere tutti gli atti idonei a conservare, gestire e realizzare il patrimonio
fallimentare, ma per quelli di straordinaria amministrazione è richiesto l’assenso del comitato dei
creditori; per sedere in giudizio come attore o convenuto quella del giudice delegato.
Il comitato dei creditori.
È composto da tre o cinque membri selezionati tra tutti i creditori del fallito, all’uopo di
rappresentare quantità e qualità delle obbligazioni da adempiersi nei loro confronti.
Il comitato vigila sull’operato del curatore, e ne autorizza o esprime pareri sugli atti. Nello specifico,
oltre al già citato assenso sugli atti di straordinaria amministrazione, il comitato autorizza il
subentro nei rapporti contrattuali pendenti ed approva il programma di liquidazione.
Il comitato e ogni suo membro hanno il potere di ispezionare ogni documento relativo al fallimento
e sono legittimati attivi per l’azione di responsabilità contro il curatore.
Per la responsabilità del comitato, valgono le regole viste per il collegio sindacale delle s.p.a., in
quanto compatibili, ma è preventivamente esclusa una responsabilità del creditore per culpa in
vigilando.
Il fallito, tuttavia, non perde la proprietà dei suoi beni fino a che il curatori non compie atti traslativi su di
essi. Lo spossessamento quindi, colpisce l’universalità dei beni e dei diritti del patrimonio del debitore
insolvente, salvo quelli elencati dall’art 46 l.fall.:
A tutela della sussistenza del fallito e dei suoi vicini, il giudice delegato può erogare un sussidio a titolo di
alimenti prelevando dall’attivo fallimentare e concede di diritto l’abitazione della dimora familiare, fino alla
vendita.
Lo spossessamento ha effetti ultrattivi alla dichiarazione di fallimento, e si protrae alle utilità che
pervengono al fallito postume alla sentenza dichiarativa. Tuttavia, per i beni sopravvenuti, vanno dedotte in
prededuzione dalla massa fallimentare le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione degli stessi,
ovvero prima della ripartizione dell’attivo: ne consegue che il curatore, con il nulla osta del comitato dei
creditori, può decidere di non acquistare i beni pervenuti poiché con il trasferimento non si avrebbe
incremento dell’attivo. Anzi, questa facoltà spetta al curatore anche per i beni del debitore contestuali alla
dichiarazione di fallimento, qualora l’attività di liquidazione risulti manifestamente antieconomica ( la c.d.
derelizione). In entrambe le fattispecie, i beni derelitti sono nella piena disponibilità del fallito, e quindi
suscettivi di essere aggrediti con iniziative individuali dei creditori.
Il fallito non perde la capacità di agire né la proprietà – e quindi la facoltà di disporre- dei beni pervenuti
nella massa fallimentare fino all’atto di disposizione del curatore. Quindi gli atti del fallito su quei beni
risultano essere validi ed efficaci, ma l’art 44 tutela la garanzia patrimoniale dei creditori sancendo
l’inopponibilità a loro degli atti compiuti su quei cespiti. Di qui la facoltà dei creditori posteriori al fallimento
di far valere in giudizio quelle obbligazioni solo dopo la chiusura della procedura fallimentare. Inefficaci
sono anche i pagamenti eseguiti dal fallito, fermo restando che le utilità conseguite con questi atti vengono
incluse nell’attivo fallimentare.
Il curatore assume di diritto la rappresentanza processuale per le controversie relative ai beni sotto la sua
amministrazione, a scapito del fallito, com’è chiaro.
L’art 48 l.fall. infatti, dispone la limitazione del diritto al segreto epistolare, quando impone al fallito di
consegnare al curatore fallimentare tutta la corrispondenza relativa ai rapporti oggetto di procedura
concorsuale. Nel caso del fallito persona giuridica, tutta la corrispondenza è invece inviata al curatore.
Ancora altre limitazioni attengono alle capacità civili e politiche del fallito, che non può rivestire nessun
ruolo di quelli amministrativi di una società, non può essere scritto all’albo degli avvocati e dei
commercialisti, ne svolgere la funzione di tutore, arbitro e notaio. Decadute sono invece le limitazioni delle
capacità politiche, come decadono ipso iure le limitazioni sopracitate con la chiusura del fallimento.
Gli effetti invece al di fuori della sfera civile sono quelli penali. Il fallimento è requisito di integrazione del
reato di:
Bancarotta fraudolenta, che rende penalmente rilevanti condotte dolose atte a mistificare i
documenti o comunque a ostacolare la procedura fallimentare.
Bancarotta semplice, che incrimina condotte colpose e quindi negligenti nell’amministrazione
dell’impresa.
Il ricorso abusivo al credito, che punisce la dissimulazione del proprio dissesto tramite continuo
ricorso a mutui.
La condanna a questi reati, oltre che alla pena principale, comporta pene accessorie interdittive più severe
delle limitazioni sopraelencate.
Il fallimento, innanzitutto, è ossequioso del principio della par condicio creditorum incastonato nell’art 2741
del codice civile, e quindi le norme relative si modellano cercando di ottenere la parità di trattamento dei
creditori in gioco.
L’art 52 della legge fallimentare sancisce, inoltre, che è con la dichiarazione di fallimento che si apre il
concorso dei creditori col fallito. Di qui la denominazione di creditori concorsuali per definire la posizione di
tutti i creditori che si soddisferanno – o proveranno a farlo- con la procedura fallimentare.
Il creditore concorsuale è abilitato a riscuotere il proprio diritto dall’attivo fallimentare solo con
l’accertamento giudiziale della suddetta situazione soggettiva. Esperita tale procedura, il soggetto diviene
creditore concorrente.
I creditori concorrenti non ricevono però lo stesso medesimo trattamento: anche nel fallimento sussistono
deroghe alla regola della par condicio creditorum, come le cause legittime di prelazione. I titolari di pegni,
ipoteche e privilegi sono i c.d. creditori privilegiati, i restanti sono creditori chirografari. I creditori
privilegiati non vengono lesi dalla procedura fallimentare, ed hanno quindi diritto di prelazione sul ricavato
della vendita del bene oggetto della garanzia detenuta. Se il debito non era integralmente garantito, per la
restante parte dell’obbligazione sono equiparati creditori chirografari e privilegiati.
I creditori chirografari concorrono invece, stavolta in maniera perfettamente paritaria, alla ripartizione del
residuo attivo non vincolato da garanzie.
Sono crediti prededucibili, tra l’altro, quelli così denominati da una disposizione di legge, le obbligazioni
sorte in occasione o in funzione della procedura concorsuale, come le spese procedurali e le obbligazioni
contratte dal curatore per la continuazione dell’esercizio d’impresa.
Esaurite le considerazioni introduttive sui creditori fallimentari, veniamo agli effetti del fallimento per i
creditori. Con l’apertura del fallimento:
Ogni credito che aspiri a divenire concorrente, salvo i prededucibili non contestati, deve essere
accertato giudizialmente mediante le norme relative alla formazione dello stato passivo. Idem per i
diritti vantati dai terzi su beni della massa fallimentare.
Sono paralizzate tutte le azioni esecutive individuali dei creditori sui beni amministrati dal curatore.
Come del resto le azioni cautelari, mentre per le azioni conservative del patrimonio, legittimato
attivo diviene il curatore.
Ogni credito deve essere determinato, o meglio cristallizzato, perciò:
- Tutti i debiti pecuniari del fallito si considerano scaduti.
- È sospeso il corso degli interessi convenzionali e legali fino alla chiusura del fallimento,
salvo che per i crediti privilegiati e quelli prededucibili. Sempre in ossequio a 2741 c.c., i
crediti infruttiferi vengono decurtati quindi secondo i criteri dell’art 47 l.fall.
Ogni credito può essere compensato con debito ( art 56 l.fall.), anche se non sono scaduti, benché
anteriori alla sentenza dichiarativa. Tuttavia, non opera compensazione se il credito non scaduto è
stato acquistato per atto tra vivi entro l’anno precedente alla sentenza dichiarativa.
Il problema è risolto dal codice civile agli art. 2901 s.s., che disciplinano l’azione revocatoria
ordinaria, peraltro esperibile anche in caso di fallimento dal curatore fallimentare.
Gli articoli 64 s.s. della legge fallimentare disciplinano l’azione revocatoria fallimentare.
Spetta quindi al terzo controparte dell’imprenditore l’onere della prova che l’atto stipulato non cagiona
pregiudizio alla massa dei creditori.
La revocatoria fallimentare è agevolata su quella ordinaria tramite altre presunzioni di legge relative:
1. Gli atti stipulati in un certo periodo – un anno o sei mesi- anteriore alla data del fallimento si
presumono negoziati in stato d’insolvenza. E quindi spetta al terzo la prova contraria.
2. Per alcuni atti sintomatici dell’insolvenza dell’imprenditore, opera anche una presunzione di
conoscenza del relativo stato da parte del terzo. Ancora una volta, spetterà a lui la prova contraria.
Abbiamo visto i presupposti agevolati della revocatoria fallimentare rispetto a quella ordinaria,
analizziamone invece gli identici effetti. L’azione revocatoria utilmente esperita rende inopponibile
l’atto alla massa dei creditori, con la conseguenza che il terzo restituisce al curatore quanto ricevuto in
forza di quell’atto o il rispettivo equivalente in denaro e si insinua nel passivo concorrendo alla
ripartizione dell’attivo al pari degli altri creditori chirografari.
Identico è anche il termine di decadenza per l’azione: tre anni dalla dichiarazione di fallimento, e
comunque 5 anni dalla stipula dell’atto.
La revocatoria di diritto è quella che opera ipso iure con la dichiarazione di fallimento, e rende inefficaci
alla massa dei creditori:
Gli atti a titolo gratuito compiuti nei due anni precedenti alla dichiarazione.
I pagamenti anticipati di debiti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o
successivamente, se compiuti nei due anni precedenti alla sentenza dichiarativa.
La revocatoria giudiziale opera in tutti gli altri casi su istanza del curatore. Ancora le situazione suscettive di
revocatoria di dividono a seconda che spetti al terzo o al curatore la prova della conoscenza dello stato
d’insolvenza, e che quindi operi o no la relativa presunzione.
La presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza opera per i c.d. atti anormali compiuti nell’anno o
nei sei mesi anteriori alla sentenza di fallimento, che sono:
1. Gli atti a titolo oneroso con notevole sproporzione tra la prestazione cui è obbligato il fallito e
quella della controparte.
2. I pagamenti di debiti pecuniari effettuati con mezzi anormali di pagamento ( datio in solutum).
3. I pegni, le ipoteche e le anticresi costituite per debiti preesistenti e non scaduti.
4. Le garanzie di cui al punto 3 + le ipoteche giudiziali per debiti preesistenti scaduti costituite nei sei
mesi anteriori al fallimento.
Non opera la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza del terzo per gli atti normali, ovvero:
Con la riforma del 2005 è stata ampliata l’area protetta degli atti non revocabili:
Per quanto riguarda i rapporti continuativi o reiterati opera la regola del massimo scoperto, secondo cui il
creditore sarà obbligato solo a conferire al fallimento l’importo pari alla riduzione dell’esposizione debitoria
del fallito nel periodo rilevante per la revocatoria.
L’art 69 l.fall. regola proprio queste circostanze a tutela della garanzia patrimoniale creditoria. In primo
luogo, eliminando il limite temporale entro il quale la revocatoria fallimentare era idonea a rendere
inopponibile l’atto ( nell’anno o nei sei mesi anteriori alla dichiarazione): sono quindi revocabili tutti gli atti
tra i coniugi da quando l’imprenditore fallito ha dato vita alla sua attività. In secondo luogo, per tutti gli atti,
anormali e normali, opera la presunzione di conoscenza dello stato d’insolvenza del fallito.
Peculiare e scontato è anche l’esito della comunione legale dei beni a seguito del fallimento del coniuge:
essa si scioglie, e le attività e le passività della stessa sono divise in parti uguali, tra cui la porzione del fallito
confluisce nella massa fallimentare.
Esistono categorie di contratti che si risolvono ipso iure con l’apertura della procedura concorsuale:
1. Contratti di borsa a termine su merci, titoli, o quelli con oggetto strumenti finanziari derivati, o il
riporto.
2. L’associazione in partecipazione.
Esistono invece contratti, ritenuti vantaggiosi per il fallito e per il suo patrimonio dissestato, in cui il
subentro del curatore è altrettanto automatico: l’amministratore della massa fallimentare quindi, adempie
le relative obbligazioni in prededuzione.
1. La locazione di immobili.
2. L’affitto di azienda.
3. Il contratto di assicurazione contro i danni.
4. Il contratto di edizione.
5. Il contratto di cessione di crediti d’impresa ( factoring).
6. Il leasing finanziario.
In tutte queste 6 fattispecie, com’è chiaro, è attribuita alla controparte facoltà di recesso, da cui il curatore
è protetto sempre con un termine di preavviso.
L’ultima categoria di contratti è quella in cui gli effetti delle convenzioni sono sospesi finché il curatore,
coll’assenso del comitato, opti per il subentro o per lo scioglimento. Se decide di continuare il contratto, il
curatore deve soddisfare le relative obbligazioni in prededuzione. Se decide di scioglierlo invece, le pretese
della controparte contrattuale non potranno che esaurirsi mediante l’insinuazione nel passivo, divenendo
egli creditore concorsuale chirografario. Anche in caso di danneggiamento, non sarà dovuto nessun
risarcimento: il curatore agisce secundum legem.
L’art 72 al primo comma risolve tutti i problemi interpretativi in tale ambito sollevati, sancendo la regola
della sospensione come disciplina residuale, applicabile ogniqualvolta non sia previsto un regime diverso.
Per quanto attiene al rapporto di lavoro subordinato invece, operano le norme sul licenziamento.
La procedura si apre, come disposto dall’art 92 della legge fallimentare, con l’avviso del curatore ai creditori
atto a sollecitare a loro domanda di insinuazione nel passivo. Domanda di cui sono onerati anche i titolari di
crediti prededucibili contestati.
La domanda si presenta con ricorso da inviarsi alla PEC del curatore entro trenta giorni dalla data dell’
udienza fissata per l’accertamento del passivo dalla sentenza dichiarativa. Stessa sorte vivono le domande
di rivendicazioni su beni confluiti nella massa.
Ai sensi dell’art 95, il curatore sulla base delle domande predispone un progetto di stato passivo, nel quale
indica:
Il documento deve essere redatto e presentato in cancelleria almeno 15 giorni prima della data d’udienza
d’esame dello stato passivo.
Quindi si procede ( art 96) all’esame dello stato passivo, in cui il giudice delegato è competente a decidere
su ogni eccezione rilevata d’ufficio o opposta dai soggetti coinvolti.
Infine, definito l’esame, il giudice delegato forma lo stato passivo e con proprio decreto lo dichiara
esecutivo. È momento dirimente quello del decreto del giudice, poiché in sostanza pone fine al dibattito sul
fallimento, almeno nell’ambito della procedura fallimentare, salvo istanza di revocazione per vizi rilevanti.
Tuttavia il decreto non paralizza eventuali domande di ammissione tardive, ovvero quelle trasmesse al
curatore oltre il termine di trenta giorni prima dell’udienza di accertamento. Il trattamento dei creditori
tardivamente istanti è disomogeneo: se il ritardo è a loro imputabile, essi sono ammessi solo alle
ripartizioni dell’attivo successive all’ammissione, mentre se non lo è, essi hanno diritto a prelevare anche
dalle ripartizioni precedenti all’accertamento del loro credito.
La ripartizione dell’attivo
Liquidazione
Con la liquidazione, i cespiti del patrimonio del fallito vengono convertiti in denaro, certamente bene più
semplice, poi, da ripartire tra i creditori.
Spetta la liquidazione al curatore, che entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario, predispone il
programma di liquidazione che va approvato dal comitato dei creditori. Il programma contiene:
Senza più dover attendere il decreto che fa esecutivo il passivo, il curatore può procedere alla liquidazione
dopo il vaglia del comitato dei creditori e l’autorizzazione del giudice delegato.
È chiaro come l’interesse dei creditori concorrenti sia soddisfatto in maniera migliore dalla vendita
dell’intero complesso aziendale, che, come è noto, assume un valore più elevato della somma dei singoli
cespiti. Proprio a tal proposito, la legge fallimentare disciplina alcune deroghe al regime della vendita
d’azienda:
1. È derogato l’art 2560 c.c., e l’acquirente non risponde, quindi, dei debiti aziendali.
2. È derogato l’art 2112 c.c., e si può convenire con le R.S.U. che solo una parte dei lavoratori si
trasferisca alle dipendenze dell’acquirente.
3. I crediti ceduti con l’azienda permangono privilegiati, se lo sono.
Ripartizione dell’attivo
Le somme acquisite con la liquidazione vengono via via distribuite tra i creditori, ed è proprio in questa fase
saliente che rileva la classificazione dei creditori già svolta.
Poi spetta ai creditori privilegiati il pagamento, ma solo per la parte del loro credito garantita da pegno,
ipoteca o privilegio.
Da ultimo, e anzi, spesso mai, si soddisfano i creditori chirografari e quelli privilegiati per la parte del loro
credito non assistita da garanzie reali.
Mancata presentazione di domande di ammissione allo stato passivo. Che di regola avviene solo in
caso di concordato stragiudiziale.
Pagamento integrale dei creditori concorsuali prima che sia stata compiuta la ripartizione
dell’attivo. Ipotesi anche questa molto ma molto infrequente.
Ripartizione integrale dell’attivo. Questa l’ipotesi più frequente, con la quale i creditori concorrenti
sono parzialmente soddisfatti.
Impossibilità di continuare utilmente la procedura per insufficienza dell’attivo. Circostanza che
ricorre quando l’attivo del patrimonio del fallito è così esiguo da non essere idoneo a soddisfare
nemmeno i creditori della massa.
La chiusura del fallimento è dichiarata con decreto del tribunale su istanza di curatore, fallito o d’ufficio.
Con la cessazione, sono caducati gli effetti e gli organi del fallimento. Di regola tuttavia, il debitore rimane
obbligato verso i creditori concorsuali non soddisfatti dal fallimento: questi potranno tornare a esperire le
azioni individuali esecutive sui suoi beni. La regola non è rispettata in due fattispecie:
Al ricorrere di queste circostanze, il giudice dichiara con decreto inesigibili i debiti residui dalla procedura
fallimentare. Non possono tuttavia essere esdebitati;
È poi possibile che il fallimento venga riaperto dopo la sua cessazione, nei casi di chiusura per ripartizione
dell’attivo o insufficienza dello stesso, ma solo al ricorrere di queste condizioni:
Legittimato a chiedere la riapertura del fallimento è qualsiasi creditore, anche nuovo del fallito, ma la
decisione del tribunale di riaprire la procedura è discrezionale, anche col ricorrere del due fattispecie
sopracitate.
Il concordato fallimentare
Abbiamo sottolineato come il concordato fallimentare sia una delle modalità di chiusura della procedura
fallimentare.
La ratio dell’istituto è rinvenibile dall’occhio attento già dal suo nome: una risoluzione stragiudiziale delle
“controversie fallimentari”, anche se si è del tutto ignari della legge sul fallimento, pare più conveniente ad
entrambe le parti dell’obbligazione. E nello specifico, col concordato fallimentare, il fallito conclude
definitivamente i rapporti pendenti con i suoi creditori( ipotesi impronosticabile, salvo il caso
dell’esdebitazione, per il fallito non concordatario), offrendo il pagamento di una parte della sua
esposizione debitoria o altri mezzi di ristrutturazione e ottiene la liberazione dei beni confluiti nella massa
del fallimento. D’altro canto, i creditori concorsuali, accettando un adempimento diverso o parziale,
vengono ad ottenere di più e in meno tempo rispetto a quello che avrebbero dovuto attendere a causa
della procedura fallimentare.
Il concordato fallimentare è una fattispecie a formazione progressiva che si perfeziona nelle fasi della:
Proposta di concordato.
Può essere presentata dal fallito, da uno dei creditori, da un terzo soggetto.
Creditori e terzi possono in ogni momento presentare la proposta prima del decreto che rende
esecutivo lo stato passivo.
Il fallito invece, può presentare la proposta nel lasso di tempo che va da un anno dopo la
dichiarazione di fallimento a due anni dopo il decreto che rende esecutivo lo stato passivo.
Venendo al contenuto della proposta, esso nella stragrande maggioranza di casi prevede pagamenti
in percentuale e dilazionati ( concordato misto), ma può prevedere anche dationes in solutum, ecc.
È stato infine soppresso il divieto che imponeva anche in sede concordataria il pagamento integrale
del credito assistito da causa legittima di prelazione, prima di quello chirografario. In ogni caso, il
piano non può prevedere una soddisfazione del creditore privilegiato in misura inferiore a quella
che avrebbe potuto aspettarsi dalla vendita del cespite o del credito oggetto di garanzia. Insomma,
anche nel concordato, il ricavato della vendita dell’oggetto di pegno, ipoteca, privilegio, spetta al
creditore privilegiato.
Fattispecie particolare, è che il concordato può far assumere il ruolo di obbligato principale per
l’adempimento del concordato ad un soggetto terzo dal fallito, per meglio dire, l’assuntore. Trattasi
di un tipo speciale di accollo, che come quello di diritto comune può assumere veste cumulativa – e
il fallito resta obbligato in solido- o liberatoria – e il fallito non è più obbligato-. Per i creditori
tardivamente ammessi come concorrenti, continua a rispondere solo il fallito.
Corrispettivo dell’assuntore è l’attribuzione di tutto l’attivo fallimentare, in cui possono confluire
anche le azioni revocatorie già autorizzate dal giudice delegato.
L’approvazione dei creditori.
Il piano è sottoposto all’esame del giudice delegato, chiamato a effettuare un controllo meramente
formale sul testo, che è vincolato invece a sentire il comitato dei creditori, che può porre il veto, e il
Il concordato può essere oggetto di risoluzione per inadempimento, pronunziata dal tribunale con
sentenza, quando non vengono costituite le garanzie promesse, o il fallito non adempie regolarmente gli
obblighi concordatari.
Può altresì essere annullato per vizio di volontà, laddove il passivo si riveli alterato dolosamente o una parte
di attivo si scopra occultata.
Il fallimento su iniziativa del debitore e quindi l’appello in caso di sentenza dichiarativa, competono
agli amministratori della società, sia di persone che di capitali.
Quando la legge prevede che vada sentito il fallito, si sentano gli amministratori.
Gli amministratori sono i soggetti passivi penali dei reati fallimentari, e sono soggetti alle limitazioni
di libertà di movimento del fallito.
La proposta di concordato fallimentare va approvata dalla maggioranza del capitale nella società di
persone, dagli amministratori con verbalizzazione del notaio e iscrizione nel registro delle imprese,
in quella di capitali.
Il fallimento che si chiude per ripartizione dell’attivo o insufficienza della massa comporta la
cancellazione dal registro delle imprese.
Gli effetti per i soci:
- Per i soci limitatamente responsabili, l’unica conseguenza del fallimento può essere
l’ingiunzione da parte del giudice delegato di versare i conferimenti non adempiuti.
- Per i soci illimitatamente responsabili, il fallimento è esteso alla loro persona fisica.
Falliscono anche i soci occulti di società palese. E fallisce anche la società occulta e il suo
socio illimitatamente responsabile. Tutto questo è vero però solo per la società in nome
Il Concordato Preventivo
L’imprenditore può cercare di porre un freno alla crisi che progressivamente lo porterà all’insolvenza, o
meglio lo porterà al fallimento, mediante un accordo con i suoi creditori.
La novella del 2005 è intervenuta proprio sul punto che sembra confuso nella frase precedente a questa: il
presupposto oggettivo del concordato non è più l’insolvenza dell’imprenditore, ma il suo stato di crisi, che
si qualifica come una difficoltà temporanea e reversibile ad adempiere, ma è locuzione il cui significato può
essere ampliato fino a ricomprendere l’insolvenza insanabile.
È disciplinato agli arti 160 s.s. della legge fallimentare, è una procedura concorsuale, e gli si possono
riconoscere due rationes:
Legittimato attivo a proporre il concordato preventivo è il debitore che può fallire, senza che sia meritevole
come per quello fallimentare. Stesso discorso che per quello fallimentare vale per i creditori privilegiati.
A questo punto si apre l’istruttoria del tribunale fallimentare, che può dichiarare ammissibile o
inammissibile la domanda, nel primo caso, con decreto apre la procedura di concordato preventivo. E nel
decreto nomina il giudice delegato e il commissario giudiziale, con ruolo di controllo della procedura.
Il debitore rimane in possesso dei suoi beni, ma può compiere autonomamente solo l’ordinaria
amministrazione, per la straordinaria necessita dell’autorizzazione del giudice delegato.
Non è applicabile la disciplina della revocatoria fallimento, e i contratti in corso di esecuzione rimangono
validi ed efficaci, salvo che il debitore chieda al tribunale la sospensione e lo scioglimento di quei contratti.
Nel concordato preventivo manca l’accertamento dello stato passivo: ne consegue che il commissario
giudiziale convoca i creditori in base ai nominativi indicati dal debitore e leggendo la contabilità. Lo stesso
commissario poi, redige l’inventario del patrimonio del debitore e una relazione sulle cause del dissesto.
L’approvazione si ottiene stavolta mediante una vera e propria adunanza dei creditori, alla quale possono
provare a partecipare, mirando a rivendicare il loro credito, anche i creditori non convocati. I quorum
previsti sono quella della maggioranza dei crediti, e se vi sono delle classi di creditori, anche la maggioranza
delle classi. Benché respinto dall’adunanza, il concordato può però perfezionarsi col meccanismo del
silenzio-assenso dei creditori assenti, che devono prestare la loro dichiarazione di dissenso per scongiurare
questa ipotesi.
E quindi, se la proposta è respinta, viene contestualmente dichiarato il fallimento con separata sentenza
dichiarativa, se è approvata, si apre il giudizio di omologazione.
Il giudizio di omologazione attiene esclusivamente alla ritualità del concordato, ma può investire anche il
merito delle clausole se ne è fatta richiesta da un numero consistente di creditori o da una classe di
creditori. Se la domanda è legittima, il tribunale omologa il concordato, se lo respinge, contestualmente
dichiara il fallimento con sentenza.
In caso di fallimento a seguito del mancato perfezionamento del concordato o per risoluzione, da
che giorno decorre il termine per l’esercizio dell’azione revocatoria? Dalla data di pubblicazione
della domanda di concordato nel registro delle imprese.
I debiti del fallito - che aveva tentato, senza successo, la via concordataria- sorti proprio in funzione
della procedura di concordato preventivo, sono crediti della massa o concorsuali? L’opinione
prevalente è che vadano soddisfatti in prededuzione. E sono prededucibili, ma solo nella misura
dell’80%, anche i finanziamenti erogati per la procedura concordataria dalla società ai soci, in
deroga alla regola generale che in caso di fallimento, i crediti dei soci nei confronti della società
sono postergati agli altri crediti.
Trattasi di un accordo sottoscritto dal debitore e una maggioranza qualificata di creditori. A differenza dei
concordati:
Non sono giudiziali, perché nella stipula non occorre nessun intervento dell’autorità, investita solo
di un controllo finale sul testo.
Non sono di massa, perché in sostanza vincolano esclusivamente i creditori che accettino la
proposta dell’imprenditore: la volontà delle parti può anche alterare il modello della par condicio
creditorum.
Possono essere presentati anche da imprenditori agricoli in crisi.
Sono comunque una modalità contrattuale di risoluzione della crisi d’impresa, mentre il piano,
senza previa accettazione dei creditori, né omologazione dell’accordo, esonererebbe il debitore
dalla revocatoria per gli atti in esecuzione del piano.
Il condizionale del punto precedente è d’obbligo: il giudice può ben decidere di considerare il piano
sin dall’inizio inidoneo a superare la crisi e abilitare l’esperibilità delle revocatorie su quegli atti; ciò
non è vero per l’accordo di ristrutturazione omologato, che esenta, in virtù del controllo
preventivo, il debitore.
Venendo al contenuto dell’accordo, nulla dispone la legge. E quindi possono essere le più varie le modalità
per contenere l’esposizione debitoria dell’imprenditore.
Tuttavia, ai creditori che non aderiscano all’accordo, deve essere assicurato l’integrale pagamento, sebbene
oggi la legge consenta una dilazione anche per questi crediti.
All’accordo, al fine di perfezionarlo, devono partecipare il 60% dei crediti, ma da questa percentuale non si
computano i crediti prededucibili.
Dopo la stipula, il debitore, allegando la stessa documentazione del concordato preventivo, deve chiedere
l’omologazione del patto al giudice. Occorsa l’omologazione, e pubblicato l’accordo nel registro delle
imprese, gli atti posti in essere in esecuzione dell’accordo non sono soggetti a revocatoria e non possono
integrare bancarotta. Inoltre, dalla pubblicazione dell’accordo, sono paralizzate le azioni esecutive
individuali e congelato il decorso di interessi, prescrizioni, decadenze dei crediti.
Identico discorso del concordato preventivo saremmo costretti a fare parlando del caso della
risoluzione/annullamento/ dell’accordo con contestuale dichiarazione di fallimento e circa la
prededucibilità dei crediti sorti in funzione della procedura pattizia.
Autorità competente a disporre la liquidazione è amministrativa, individuata dalle leggi speciali, e quindi
può essere il Ministro dell’economia ( per le banche) il Ministro dello sviluppo economico ( per le
assicurazioni) ecc.
L’art 2 l.fall. parla chiaro: le imprese soggette alla liquidazione coatta amministrativa sono esonerate dal
fallimento. In alcuni casi, tuttavia, come per le società cooperative, sono applicabili entrambe le procedure:
opera comunque il criterio della prevenzione, per cui una misura esclude l’altra.
La disciplina della liquidazione coatta amministrativa è lunatica nel contenuto. Varia secondo della legge
speciale applicabile al tipo di impresa. Tuttavia la legge fallimentare all’art 194 si impone come disciplina
base per tutte, dettando delle norme inderogabili in materia di effetti della liquidazione secondo i principi
del concorso e in materia di intervento dell’autorità giudiziaria a tutela dei diritti soggettivi dei creditori
coinvolti.
Provvedimento di liquidazione
La liquidazione è disposta con decreto dell’autorità governativa che vigila sull’impresa.
La medesimo autorità nomina il commissario liquidatore ed il comitato di sorveglianza, i due organi della
procedura:
Venendo agli effetti del provvedimento che ordina la l.c.a., essi mutano secondo che sia stato accertato o
meno lo stato di insolvenza:
Se è stato accertato, trovano applicazione le norme della legge fallimentare circa gli atti
pregiudizievoli ai creditori ( revocatorie ecc.) e le sanzioni penali disposte per il fallimento.
In entrambi i casi invece, trovano applicazione le norme sullo spossessamento, quelle sugli effetti
per i creditori e per i contratti in corso di esecuzione.
Nota bene, che in nessun caso è prevista l’estensione della procedura ai soci illimitatamente responsabili,
come invece avviene per il fallimento.
Procedimento e Chiusura
La procedura si esplica completamente in sede amministrativa, sebbene non manchino interventi
dell’autorità giudiziaria, e si articola ne:
Non è necessario nemmeno un accertamento giudiziale al fine di rendere esecutivo lo stato passivo: il
liquidatore lo forma, lo trasmette tramite PEC ai creditori contestati in tutto o in parte e lo deposita in
cancelleria. Con quest’ultimo atto lo rende immediatamente esecutivo.
Liquidazione
Molto più agile è il procedimento di liquidazione dell’attivo. Vi provvede infatti in toto il commissario
liquidatore, con l’unico limite che se vende immobili o mobili in blocco necessita dell’autorizzazione
dell’autorità di vigilanza e del parere del comitato di sorveglianza.
N.B. In sostanza, tutta la procedura è amministrativa, e in sede giudiziaria si esplicano le fasi delle
contestazioni dei creditori omessi in tutto o in parte, al momento della formazione dello stato passivo e in
sede di riparto dell’attivo.
Se difettano contestazioni, la procedura si chiude: il commissario provvede alle ultime ripartizioni e alla
cancellazione dal registro delle imprese, se previsto dalla legge.
P.S. La liquidazione coatta amministrativa può anche chiudersi mediante concordato, con l’unica rilevante
differenza dal concordato fallimentare ( e preventivo) che non è richiesto il nulla osta dei creditori, abilitati
solo a presentare opposizione presso il tribunale.
Quando però a essere colpite dal dissesto sono imprese di grandi dimensioni, che arruolano un numero
importante di dipendenti, le procedure concorsuali, reintegrando – tra l’altro- solo parzialmente il
patrimonio del creditore leso dall’insolvenza, sono suscettive di causare licenziamenti in blocco che
cagionano un pregiudizio collettivo ad un bene giuridico ben più importante di quello satisfattorio del
creditore: il benessere occupazionale. È per questa ratio che nel 1979 è stata introdotto l’istituto
dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, al fine di realizzare, di tal guisa, la
prosecuzione, riattivazione o conversione dell’attività imprenditoriale.
Presupposti
Le imprese ammesse a questa procedura sono le imprese commerciali soggette a fallimento per cui
ricorrano i seguenti requisiti e condizioni:
Con la sentenza dichiarativa dello stato d’insolvenza, resa pubblica come quella di fallimento, nomina un
giudice delegato, nonché uno o tre commissari giudiziali, apre la formazione dello stato passivo, che
avviene in sede giudiziale con le regole della disciplina fallimentare.
Gli effetti della sentenza dichiarativa d’insolvenza sono identici a quelli di ammissione al concordato
preventivo:
Se il tribunale ritiene che ricorra il requisito di cui parliamo, con decreto apre l’amministrazione
straordinaria, in caso contrario, apre il fallimento.
Quindi, l’apertura dell’amministrazione straordinaria abilita il/i commisari/o straordinari/o ( o uno o tre)
alla gestione dell’impresa e all’amministrazione dei beni dell’imprenditore e dei soci illimitatamente
responsabili. Il comitato di sorveglianza, invece, composto da tre o cinque membri, ha funzione consultiva.
Entrambi gli organi sono nominati dal Ministero dello sviluppo economico.
L’analogia legis fa assimilare gli effetti dell’amministrazione straordinaria a quelli della liquidazione coatta
amministrativa, con alcune significative differenze:
Sono assolutamente vietate le azioni esecutive individuali dei creditori, e paralizzate quelle
pendenti.
Le revocatorie, con attore il commissario straordinario, sono abilitate solo in caso di programma di
cessione di complessi aziendali.
I contratti in corso d’esecuzione restano efficaci fin quando il commissario non decida se
subentrarvi o meno. Per i contratti di lavoro subordinato prevalgono le regole sul licenziamento.
I crediti sorti per la prosecuzione dell’esercizio di impresa sono crediti della massa.
Entro il breve termine di sessanta giorni dall’apertura del procedimento, il commissario straordinario opta
per uno dei due piani normativamente sanciti, redigendolo in ossequio alla politica industriale del paese e
salvaguardando da un lato l’unità dei complessi aziendali, dall’altra l’interesse creditorio.
Incentivo alla utile ristrutturazione dell’impresa è la garanzia dello Stato concessa alle banche che eroghino
finanziamenti all’impresa, comunque da soddisfarsi in prededuzione.
È incentivata anche la cessione in blocco dei complessi aziendali, tramite lo sconto sul prezzo derivante dal
computo della redditività anche negativa e futura del ramo. L’acquirente, tuttavia, si impegna a mantenere
determinati livelli occupazionali e garantisce la prosecuzione, almeno biennale, dell’impresa. Inoltre, non
risponde dei debiti anteriori al trasferimento.
Presente è anche una disciplina sulla ripartizione dell’attivo, che può essere svolta tramite acconto e
riparto: il primo, disposto dal commissario straordinario, ha carattere provvisorio ed è ripetibile, il secondo,
può essere disposto solo con il decreto che rende esecutivo lo stato passivo in ossequio alla legge
fallimentare e solo se l’opzione del commissario è ricaduta sul programma di cessione dei complessi
aziendali ( nel caso della ristrutturazione è il piano che regola le modalità di adempimento dei debiti
aziendali).
Chiusura
L’amministrazione straordinaria si chiude o:
Da fare il Decreto Marzano, salto le procedure concorsuali delle crisi da sovraindebitamento, da leggere.