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Lo spreco o, meglio, gli sprechi rappresentano il fil rouge che attraversa l’attuale
società, preda della tendenza allo smoderato consumismo, che può diventare malattia
e distruggere le persone che ne sono affette, ma non solo. È ormai un clichè
l’ammonimento a non “sprecare”, e nonostante ciò il vizio dello spreco, spesso anche
inconsciamente, condiziona la vita di ogni giorno: non si tratta solo delle cose materiali,
ma anche di quelle più “preziose”, che non si trovano in vendita, e che sono gettate vie
senza neanche accorgersene. I beni senza prezzo monetario, infatti, sono spesso
scarsamente considerati, poiché si trascura stoltamente che costituiscono un
patrimonio di enorme valore! L’uomo in questo modo compie azioni sconsiderate, che
portano all’annientamento della salute, del corpo e, perché no, anche della mente.
Bisogna, dunque, trattare questo tema evitando vacui moralismi e con il razionalismo e
la lucidità di una logica che apre le porte per un nuovo stile di vita che non sia
all’insegna dello sperpero e della civiltà dell’eccesso. In altre parole, la “nostra
classicità” può diventare arma bianca di persuasione attraverso la proposta di
insegnamenti e di exempla per persone che hanno e debbono avere la forza morale di
compiere una scelta necessaria e civile.
Pertanto, non si può ignorare, e i nostri governanti dovrebbero ben saperlo, che
le scelte di consumo e di acquisto possono, e forse debbono, essere pensate in stretta
connessione anche con i valori “spirituali” come il benessere, la giustizia sociale,
l’equità, l’ambiente e la sua salvaguardia. In questo modo si potranno suggerire nuove
pratiche che rispettino anche l’ambiente. La coscienza ecologica non può né deve
apparire anti-umana e come un rifiuto dei piaceri della vita, anzi tutt’altro! La Natura è
da sempre generosa con l’Uomo e rispettare i limiti di questa generosità dovrebbe
renderci soddisfatti: è “semplicemente” – per così dire – una questione di equilibrio e di
misura di tutte le cose, è la capacità di godere e vivere bene in un mondo più sano e
solidale, più coeso e vivibile. L’economia senza pragmatica etica, infatti, ha
conseguenze disastrose. La crisi che ci costringe a fare scelte può rivelarsi
un’opportunità per cambiare modelli di vita e di società.
L’impronta ecologica del nostro Paese è tra le più alte nella regione del
Mediterraneo ed è cresciuta esponenzialmente negli ultimi cinquant’anni. Se tutti
vivessimo così, servirebbero quattro pianeti: “dal 1961 al 2008 il deficit ecologico
dell’Italia è cresciuto del 230% … e con un’ulteriore crescita incredibile dal 2008 a oggi:
+ 150%”, si legge nel rapporto del Global Footprint Network. Siamo in rosso. Anche il
WWF lancia l’allarme: in Italia si consumano troppe risorse e il modus vivendi
dell’italiano medio è insostenibile per l’ambiente dello stivale. Tra le nazioni del
Mediterraneo solo la Francia (con il 21% del debito ecologico totale) si comporta
peggio dell’Italia (18%); al terzo posto segue la Spagna (con il 14%). Le tre maggiori
economie che sia affacciano sul bacino del Mediterraneo ne stanno letteralmente
prosciugando le risorse: aria, cibo, energia, rifiuti, e in tutti questi settori siamo oltre il
limite consentito della natura.
Apud nos solet evenire ut, amisso canali suo, flumina primum refundantur, deinde
quia perdiderunt viam faciant. Hoc ait accidisse Theophrastus in Coryco monte, in
quo post terrarum tremorem nova vis fontium emersit. Qui alias quoque causas
intervenire opinatur, quae aut revocent aquas aut cursu suo deiciant et avertant. Fuit
aliquando aquarum inops Haemus, sed, cum Gallorum gens a Cassandro obsessa in
illum se contulisset et silvas cecidisset, ingens aquarum copia apparuit, quas
videlicet in alimentum suum nemora ducebant. Quibus eversis, umor, qui desiit in
arbusta consumi, superfusus est.
Idem ait et circa Magnesiam accidisse. Sed, pace Theophrasti dixisse liceat, non est
hoc simile veri, quia fere aquosissima sunt quaecumque umbrosissima. Quod non
eveniret, si aquas arbusta siccarent. Deinde succisae arbores plus umoris desiderant:
non enim tantum id quo vivant, sed quo crescant trahunt.
Idem ait circa Arcadiam, quae urbs in Creta insula fuit, fontes et rivos substitisse,
quia desierit coli terra, diruta urbe. Postea vero quam cultores receperit, aquas
quoque recepisse. Causam siccitatis hanc ponit, quod obduerit constricta tellus, nec
potuerit imbres inagitata transmittere. Quomodo ergo plurimos videmus in locis
desertissimis fontes?
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«Che accade?» uno chiede «Se le cause per le quali i fiumi e le sorgenti si generano sono costanti, per
quale motivo qualche volta sono in secca, qualche altra volta sgorgano in luoghi nei quali prima non
c’erano?»
Da noi accade di solito che, perduto il proprio alveo, i fiumi in un primo momento straripino,
successivamente, poiché hanno perduto il loro corso, se lo creino (di nuovo). Teofrasto sostiene che ciò
era accaduto sul monte Corico, sul quale, dopo un terremoto, scaturì dal nulla una gran quantità di
sorgenti. Egli è dell’opinione che possano intervenire anche altre cause che facciano sgorgare le acque
oppure che le distolgano dal loro corso e le indirizzino altrove. Un tempo, l’Emo era povero d’acqua, ma,
quando una popolazione gallica, assediata da Cassandro, trovò riparo su quel monte e ne abbatté i boschi,
comparve una grande massa d’acqua, che evidentemente le foreste trattenevano come propria fonte di
nutrimento. Abbattuti gli alberi, l’acqua, che aveva smesso di essere utilizzata per le piante, dilagò in
superficie.
Ancora Teofrasto dice che il medesimo fenomeno si verificò anche intorno a Magnesia. Ma, con buona
pace di Teofrasto, questa spiegazione non è verosimile, perché tutte le località più ombreggiate sono per
lo più anche le più ricche d’acqua. Ciò non accadrebbe, se gli alberi prosciugassero le acque. Peraltro, gli
alberi recisi hanno più bisogno di acqua: infatti, non assorbono soltanto ciò che serve loro per vivere, ma
anche quanto serve per ricrescere.
Lo stesso Teofrasto racconta che ad Arcadia, che era una città sull’isola di Creta, quando la città fu
distrutta le sorgenti e i ruscelli si arrestarono, perché la terra aveva smesso di essere coltivata; invece,
dopo che riebbe i suoi contadini, riacquistò anche le acque. Egli individua questa causa della siccità: il
fatto cioè che la terra, compattatasi, si indurì e così, non essendo più smossa, non era più in grado di
lasciar scorrere le acque piovane. E allora, come potremmo vedere molteplici sorgenti nei luoghi più
desolati?
gravoso, niente da ricercare con fatica; fin dalla nascita abbiamo avuto tutto a portata
di mano… “ e ancora: “Sufficit ad id natura quod poscit” (“la natura basta a soddisfare i
suoi bisogni”).