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Almanacco di dieci anni
Editoriale
È impossibile non prendere sul serio Marina Abramović. Non a caso una
frase di Bruce Nauman, “L’arte è una questione di vita e di morte” torna
spesso nei discorsi di questa icona culturale, madre e pioniera della
Performance Art.
La serietà del suo approccio artistico, il rigore e l’estrema disciplina sono
infatti gli elementi che a prima vista risaltano dalla sua lunga vita di artista.
Benché negli ultimi anni Marina sia diventata una sorta di personaggio
mediatico anche per le sue collaborazioni con Riccardo Tisci, Givenchy e
Lady Gaga, la sua fama si è sempre fondata sull’impegno estremo espresso
in ogni sua opera come approccio di “resistenza al dolore”.
Basterebbe solo l’esempio di Rhythm 10 a confermare quanto Marina
per prima prenda sul serio la propria arte. A Napoli, nel 1975, si consegna
letteralmente alle mani del pubblico come oggetto inerte in una stanza,
lasciando a disposizione su un tavolo settanta oggetti di ogni tipo, tra cui
lamette e una pistola carica, che potranno essere usati su di lei per sette ore
secondo il libero desiderio degli spettatori. Sono dunque questi ultimi a
realizzare una performance che è un vero e proprio studio sulla natura
umana: dopo qualche ora, le persone nella stanza iniziano a usare
veramente l’artista come un oggetto, toccandola intimamente, ferendola,
tagliandole i vestiti. Marina accetta tutto senza muoversi, piange soltanto in
silenzio, anche quando le succhiano il sangue dal collo. Diventa
improvvisamente chiaro che l’artista si sta realmente prendendo la
responsabilità di subire su di sé qualsiasi atto, per quanto orribile e doloroso
possa essere. In quella stanza rischia la morte e lo stupro, ma qualunque
cosa accada non farà niente. Tocca al pubblico decidere cosa fare di lei. Con
la naturale, bestialità umana emerge parallelamente, come un vero
esperimento sociologico, anche un atavico istinto di protezione: un gruppo
di spettatori si incarica di proteggerla dagli assalti; e quando un uomo le
punta la pistola alla testa e sfiora il grilletto, scoppia una rissa per fermarlo.
Non appena la performance cessa e l’artista, in lacrime, si muove verso il
pubblico, questo, che la riscopre umana dopo sette ore in cui l’ha usata
come un oggetto, scappa via.
Nell’autobiografia Attraversare i Muri, (a cura di James Kaplan,
Bompiani, 2016 trad. it. di Alberto Pezzotta) uscita in concomitanza con la
celebrazione dei 70 anni dell’artista nata a Belgrado, Marina attribuisce alla
madre le origini di questa ferrea disciplina militare che le imponeva, da
bambina, di resistere alle continue punizioni in un ambiente familiare assai
teso. Eppure, a prima vista, la sua famiglia aveva tutti i motivi per essere
felice. I suoi genitori, ex partigiani comunisti, si erano incontrati durante la
Seconda Guerra Mondiale salvandosi addirittura la vita a vicenda. Scrive
James Westcott in Quando Marina Abramović morirà, (Johan & Levi
Editore, 2012 trad. it. di Irene Inserra e Marcella Mancini) che la loro storia
“sembra la trama di un film sui partigiani”: il padre, Vojo, aveva raccolto
Danica durante un’avanzata tedesca mentre giaceva tra i feriti, ammalata di
tifo; sei mesi dopo la donna lo avrebbe salvato donandogli il sangue dopo
una ferita piuttosto grave. Scoppia il grande amore, i due si sposano e dopo
la fine della guerra acquistano un’ottima posizione sociale. Vojo è
considerato un eroe di guerra e lavora per Tito, mentre la madre è la
direttrice del Museo di Arte e Rivoluzione di Belgrado, ma i due oramai si
odiano e la bambina assiste a ripetuti litigi. Solo la nonna costituisce un
rifugio di affetto, attraversato da superstizioni e riti di divinazione. Dalla
lettura dei fondi del caffè, dai sogni, dalle figure luminose che Marina vede
nel ripostiglio dove viene rinchiusa quando è in punizione, la futura
performer sviluppa la graduale consapevolezza dell’esistenza di un mondo
presente e invisibile nella realtà a cui lei desidera accedere. Già
nell’adolescenza la goffa ragazzina vestita male, che cammina su scarpe
ortopediche con due pezzi di metallo sotto le suole per scongiurarne il
consumo, ha deciso che da grande sarà un’artista. La sua prima lezione
d’arte è indimenticabile:
“A quattordici anni chiesi a mio padre l’attrezzatura per dipingere a olio.
Lui mi comprò tutto l’occorrente, e mi fissò una lezione con un suo vecchio
amico partigiano, un artista che si chiamava Filipović. […] Filipović tagliò
un pezzo di tela e lo posò sul pavimento. Aprì un barattolo di colla e lo
rovesciò sulla tela; aggiunse un po’ di sabbia e di pigmenti di vari colori –
giallo, rosso e nero. Poi ci versò sopra mezzo litro di benzina, accese un
fiammifero e fece esplodere tutto. ‘Questo è un tramonto’, disse. E se ne
andò. Ne fui molto impressionata. Aspettai che la tela carbonizzata si
raffreddasse, presi dei chiodini e la appesi con cautela alla parete. Poi partii
per le vacanze con la mia famiglia. Al mio ritorno era rimasto solo un
mucchietto di cenere e di sabbia sul pavimento. Il tramonto non esisteva
più”.
Marina impara l’arte come processo, un’azione necessariamente
dipendente dalla presenza umana. Dopo essere entrata all’Accademia di
Belle Arti di Belgrado e aver provato la pittura, si avvicina prima alla
creazione di oggetti, per poi finalmente approdare alla performance con
Rhythm 10 (1973), dove si colpisce ritmicamente con un coltello negli spazi
fra le dita della sua mano spalancata cercando di non ferirsi. Da allora tutto
il suo lavoro sarà basato sulla “presenza”: quella dell’artista e quella del
pubblico, il cui ruolo con gli anni assumerà sempre più importanza. Se
moltissime opere di Abramović si declinano secondo una resistenza che è
reazione alla realtà e quindi presenza attiva nello spazio, anche il pubblico
nel suo esserci contribuisce e costruisce la performance stessa. La storia
della sua arte è anche la storia del suo pubblico. Ci sono gli spettatori che
corrono a salvarla dopo lo svenimento a causa della mancanza di ossigeno
in Rhythm 5 (1974), dove sta sdraiata entro una stella di fuoco, o dal
congelamento mentre giace su una croce di blocchi di ghiaccio durante Lips
of Thomas (1975); ci sono quelli che imbarazzati attraversano i corpi di
Marina e del suo compagno Ulay nello stretto l’ingresso in Imponderabilia
(1977) alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Il pubblico deve
necessariamente reagire alla presenza esplicita dell’artista divenendo esso
stesso una presenza attiva nell’opera.
Molte opere di Marina nascono da una presenza materiale per poi
costituirsi come metafora dell’umano. L’artista parte da se stessa: è sulla sua
vita, i suoi amori e la sua patria che incentra i soggetti delle proprie
performance. Le idee alla base delle sue performance sono molto
intelligenti perché sempre semplicissime, quasi elementari, similitudini
essenziali e ridotte delle realtà. Con Balkan Baroque, l’opera che le varrà il
Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997, mette in scena l’orrore della
guerra in Iugoslavia nel modo più scarno, con un gran mucchio di ossa
animali che Marina pulisce, come cadaveri e ricordi – personali e collettivi
– da purificare cantando vecchie canzoni popolari slave. Non è difficile
intuire un sottotesto psicoanalitico in tutta la sua esperienza artistica: la
patria originaria di Marina, costituita dalla Iugoslavia e dalla famiglia, è un
posto diviso, tormentato da conflitti violenti, e l’artista reagisce a questa
rottura ricercando nella performance la comunione nella creazione di un
terzo io energetico prodotto dalla presenza di artista e pubblico. Da un
fenomeno materiale e concreto, quale lo stare attivamente in uno specifico
spazio-tempo, si giunge a una consapevolezza mentale del tutto intangibile
e incorporea ma divisa con gli altri. “Condivisione” diviene pertanto la
seconda parola chiave per capire l’arte di questa performer. La sua presenza
nella performance ha sempre un valore di disponibilità, di apertura al
pubblico ed è assoluta: poiché Marina dà tutto – di volta in volta il suo
tempo, la sua presenza, il suo dolore, la sua resistenza, la sua storia, perfino
“la sua vita” – bisogna reagire, se non allo stesso modo accettando la sfida,
almeno riconoscendole l’integrità degli intenti.
Il decennale rapporto di amore e collaborazione con Ulay, con cui
instaura un rapporto estremamente fusionale, produce una serie di azioni in
cui la coppia d’artista esplora i limiti e le possibilità delle relazioni
interpersonali. Ulay e Marina si scontrano coi corpi, si vengono incontro
sulla Grande Muraglia Cinese, respirano l’uno l’ossigeno dell’altro, si
schiaffeggiano, si fissano in silenzio per ore. L’artista definisce il loro lavoro
come “simmetria tra il principio maschile e femminile” che genera “una
terza esistenza portatrice di energia vitale”, ma la ricerca di questa energia
si mantiene anche dopo la fine della relazione amorosa, e con The Artist is
Present (2010), il più celebre fra i suoi ultimi lavori, il pubblico si
concretizza definitivamente come diretto collaboratore di Marina. Qui sono
presenti, amplificati al massimo, tutti gli elementi ricorrenti del suo lavoro:
la presenza dell’artista, seduta a una sedia davanti a un tavolo per tre mesi
otto ore al giorno; l’immobilità totale; soprattutto il rapporto con gli
spettatori, seduti sulla sedia di fronte, a cui stavolta Marina offre
completamente il proprio sguardo per tutto il tempo che desiderano. La sua
presenza è insieme disponibilità, dedizione, resistenza alla fatica
dell’immobilità e dialogo di occhi ed energie nascoste. Tutto ciò sempre per
un lungo periodo di tempo. Non è un caso che tutte le performance di
Marina siano lunghissime prove di forza: è sul tempo, che lei definisce
prezioso perché al giorno d’oggi “sempre più corto” che si dipana la
presenza sempre attiva dell’artista, nell’azione ritmica, nell’immobilità
forzata, nel dialogo muto col pubblico.
Arrivata ora a 70 anni, Marina ha sviluppato questo rapporto col
pubblico a tal punto da insegnargli con l’Abramović Method, a stare nello
spazio: una concezione dell’arte piuttosto generosa, forma di condivisione
nella quale l’artista passa dal creare la performance insieme al pubblico allo
spingere il pubblico stesso a divenire una sorta di performer. Sono esercizi
elementari come le sue opere, ma utili a raggiungere quello stato di
consapevole presenza che sembra così difficile mantenere nella società
odierna. Richiedono concentrazione, dedizione e disponibilità; in altre
parole, comportano fatica e resistenza, soprattutto per chi oramai è abituato
a frantumare la propria presenza nel mondo in miriadi di pensieri e distr-
azioni. Forse se il lavoro di Marina Abramović affascina ancora, è proprio
per questa concezione dell’arte come un lavoro serissimo che esige una
totale responsabilità e impegno: lei lo ha concretizzato in una presenza
fisica così estrema e consapevole da meritare rispetto e attenzione, perché
essere davvero presenti nel mondo è un tale atto di resistenza contro il
dolore, la debolezza, la noia e il desiderio di oblio che al giorno d’oggi
assume tratti a dir poco rivoluzionari.
Muhammad Ali
Gianni Montieri
Allo stesso modo non mi riesce di pensare alla boxe in termini letterari come metafora di
qualcos’altro. […] Posso però valutare l’idea che la vita sia una metafora della boxe – di uno di
quegli incontri che si protraggono all’infinito, ripresa dopo ripresa, jab, colpi a vuoto, corpi
avvinghiati, un niente di fatto, di nuovo il gong, e poi di nuovo, e tu e il tuo avversario così simili
che è impossibile non accorgersi che il tuo avversario sei tu: e perché questa lotta su un palco
rialzato, delimitato da corde come un recinto, sotto luci infuocate, crude, spietate, davanti a una
folla scalpitante? -, il genere di metafora letteraria dell’inferno. La vita è come la boxe per molti e
sconcertanti aspetti. La boxe però è soltanto come la boxe. Perché se uno ha visto cinquecento
incontri di boxe ha visto cinquecento incontri di boxe, e non è il loro comune denominatore, che
di certo esiste, la cosa che gli interessa di più.
La boxe non significava niente. Non aveva proprio nessuna importanza. La boxe era solo un
mezzo per farmi conoscere al mondo (1983).
La carriera di Ali ha vissuto tre fasi: quella della leggerezza – quella in cui
sul ring ballava, quella in cui nessuno riusciva a colpirlo, il periodo in cui
era ape e farfalla. Furono i suoi primi tre anni, quelli che vanno dal 1964
(febbraio) al 1967, anno in cui venne costretto all’esilio forzato dal ring per
essersi rifiutato di partire per il Vietnam. Tra le sue frasi – è citatissimo –,
forse la più celebre è: I got nothing against the Vietcong, they never called me
“nigger”. Il rifiuto di andare in guerra gli costò una condanna a 5 anni di
carcere (non finì ma in cella, i soldi e i buoni avvocati contavano già
moltissimo negli Stati Uniti). Ali mise via i guantoni e aspettò, ma nel
frattempo parlava, manifestava, diceva ciò che pensava: “Ero determinato a
essere il negro che i bianchi non avevano avuto” affermò nel 1970. Fu
proprio così, ogni sua azione divenne manifestazione, si mostrava col corpo
e con le parole, condannava il razzismo dei bianchi, l’accontentarsi – la
debolezza – della sua gente. Cambiò nome e anche questo pesò. Molti
giornali (anche il New York Times, come nota sempre Oates) continuarono
a chiamarlo per diverso tempo ancora Cassius Clay, come se non
riconoscerne il nuovo nome (cambiarsi il nome era già perfettamente
legale) potesse in qualche maniera restringere il suo campo d’azione: non
sei andato in guerra, non sei dei nostri, non sei dei tuoi, non sei del ring.
Ali era più forte, più determinato e più intelligente di loro - a scuola aveva
punteggi molto bassi nei test per il quoziente d’intelligenza, ma fu pugile e
uomo di intelligenza straordinaria – come straordinario fu il suo coraggio,
che deve essere un esempio per tutti noi. La guerra in Vietnam finì,
l’opinione pubblica e la stampa cominciarono a capire quanto fosse
sbagliata, tutti presero a chiamarlo Ali.
Nel 1971 tornò sul ring, fu il periodo delle sfide stellari, forse il suo
migliore, che durò fino al 1978. Il periodo degli incontri con Foreman e
Frazier. Gli anni di inattività gli tolsero leggerezza, ma lui lo capì per primo,
e cambio il modo di giocare. Continuò a colpire come sapeva fare, ma non
poteva più schivare tutti i ganci e i jab come faceva sei, sette anni prima, e
imparò a incassare. Si legge, sempre in Sulla boxe di Oates, cosa disse il
medico di Ali, Ferdie Pacheco:
Scoprì qualcosa che era al tempo stesso molto buono e molto cattivo. Molto cattivo perché portò
ai danni fisici che subì sul finire della carriera; molto buono perché alla fine gli permise di
prendersi il titolo. Scoprì che era capace di incassare un pugno.
Nei match che hanno fatto la storia del pugilato e che si svolsero in quegli
anni, Ali incassò un sacco di pugni, ma diede quelli che doveva dare. Le tre
sfide con Frazier (1971, 1974, 1975) e quella con Foreman (1974), furono
infinite e durissime, forse quelle in assoluto in cui boxe e vita sono
diventate la stessa cosa. Dopo la sfida con Frazier del 1975, Ali disse che
quel combattimento era stato – per lui - la cosa più vicina alla morte. La
carriera vera finì nel 1978, con la sconfitta ai punti contro Spinks. La sua
seconda vita sportiva. Ali il cocciuto, il testardo, il coraggioso, il
combattente decise di continuare e fu abbastanza pietoso. Forse era nel suo
carattere uscire di scena precipitando invece che a braccia alzate.
Il triennio 1978 – 1981 fu l’ultimo atto, finì con un incontro alle
Bahamas, dove non c’era nemmeno il gong ma un campanaccio da mucca.
Fine.
Ali è diventato un simbolo e dopo un’icona, è stato l’americano da
mostrare: l’uomo che aveva lottato sul ring e sui giornali, l’uomo che aveva
saputo parlare e mettere corpo e faccia nella partita dei diritti, l’uomo che
non ha rinnegato mai un pensiero o una frase. L’uomo grazie al quale
molte cose sono state possibili, l’uomo che veniva usato come termine di
paragone per indicare una cosa fatta bene: “L’hai fatta come Muhammad
Ali”. È stato forse il più grande atleta di tutti i tempi, ed è stato l’uomo che
ci ha commossi alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, con quella dolcissima
fatica che fece per accendere il braciere olimpico, ma lo accese, sapeva che
lo avrebbe acceso. Ali è una leggenda dello sport, come Michael Jordan o
Diego Maradona, ma è stato anche qualcosa di più. Per lui scrivere la storia
sportiva è stato un passaggio per scriverne un’altra decisiva, che ci riguarda
tutti, ed ecco perché siamo tutti commossi. Superficialmente, specie negli
ultimi anni, si pensa alla boxe come sport violento. Certo non è un gioco,
ma pensate per un attimo ad Ali e vedrete che la violenza sarà l’ultima cosa
che vi verrà in mente.
Francesco Tullio Altan
Francesco Mangiapane
Se potessi parlare cinque minuti con Freak gli spiegherei tutto e lui mi
capirebbe. “Perdonami Freak” gli direi, “ma non ce la farò a venire al tuo
funerale”. Lui potrebbe rispondermi qualcosa come: “Neanch’io ci vado
volentieri…”. Freak era uomo discreto e sensibile, uno che non ti chiedeva
mai spiegazioni per non sembrarti invadente, ma stavolta ci tengo che
sappia il motivo. “Non ci crederai ma vado a un altro funerale”. E allora lui
riderebbe senz’altro, e a un certo punto forse mi chiederebbe: “Ma cosa ci
sta succedendo, Claudio?”.
Che si potrebbe dire? Dobbiamo umiliarci con le metafore? Piazze,
strade, sentieri, sentieri interrotti… Alla fine credo che ci accorderemmo
facilmente: “Non diciamo niente” direbbe lui, o forse lo direi io.
L’unica è raccontarsi una storia. Una storia che va avanti e indietro nel
tempo.
Trentacinque (trentasei? trentotto?) anni fa. Una traversa di via Saffi,
Bologna. Abitavo in una piccola casa all’ultimo piano, un sottotetto simile
allo Spielberg come temperature. Tipica casa da fuori sede. Avevo assistito a
una esibizione degli Skiantos, qualche giorno prima, e ne avevo scritto, su
“Lotta Continua” o su qualche strana rivista dell’epoca. Li avevo trovati
geniali. E soprattutto avevo gridato alleluia per la grande novità che
portavano: l’ironia. Quel pizzico di sale che non dovrebbe mancare neppure
nella zuppa di un eremita-flagellante. Suona il campanello e vedo salire le
infinite scale uno strano gruppetto capelluto. Sono gli Skiantos, o parte di
essi. “Scusa se ti disturbiamo” dice Freak “ma ci hanno detto che abiti qui,
e siccome io sto qua dietro… ti volevamo ringraziare. Sicuro che non
disturbiamo? Permesso?” E anche gli altri: “Permesso?”. Bisognerebbe
descrivere la casa, per trasmettere l’intensità ironica di questo incontro tra
scapigliatissimi gentiluomini. Avevo scritto una decina di articoli, lavoravo
alle poste come trimestrale, avevo anche qualche problema con la polizia.
Non ero un fanatico estremista ma diciamo che mai nessuno, entrando in
quella casa, mi aveva chiesto il permesso.
Freak mi ricordò l’educazione che anch’io avevo ricevuto, negli anni
Cinquanta e Sessanta. E mi rese consapevole di quanto fossi simile a lui:
anch’io chiedevo sempre permesso, entrando nelle case, e non mi
comportavo diversamente se dentro ci abitavano personaggi (diciamo così)
poco raccomandabili. Certo, i nostri genitori avevano cercato di insegnarci
anche un sacco di stupidaggini, ma non tutti i contenuti erano negativi e
infatti alcuni li avevamo accolti dentro di noi. Da una parte lanciavamo
delle molotov, dall’altra chiedevamo permesso e leggevamo Proust. Ricordo
perfettamente e con piacere la gentilezza giovanile di Freak, timida,
garbata. Freak era iconoclasta, sull’amato-odiato palcoscenico, ma a volte lo
era al contrario, riportando le cose su un piano inatteso: il rispetto degli
altri. Della loro dignità individuale. Del tossico come del grande filosofo.
Da allora lo rividi spesso, andai anche a casa dei suoi genitori, dove
conobbi la mitica nonna che ascoltava “i Bitles”. Ricordo che parlammo
tanto, dei Beatles, e che lui scrisse su di loro un libro bellissimo. Ricordo
quando leggeva nel suo bagno-studio i suoi meravigliosi aforismi.
Poi lasciai Bologna, senza salutare come mio solito, e ci perdemmo di vista
per qualche anno. Lo rividi in tivù, non sempre nel ruolo e con lo spazio
che gli competevano. Ma vedendolo nello schermo televisivo mi resi conto
che prima o poi avrei scritto un film per lui. Andando via da Bologna avevo
infatti cominciato a scrivere per il cinema. L’idea non si realizzerà del tutto,
ma in parte e per fortuna si realizzò, tre (o quattro?) anni fa.
Lo scenario torna piatto. Un tramonto padano. Una luce che rimbalza in
un infinito biliardo di campanili lontani, e un sole così piccolo che capisci
davvero che è una stella come le altre. Freak avanza nella campagna diretto
verso l’infinito. Qualche alberaccio spennacchiato, un canale pieno di
fango, trenta, quaranta ettari di maggese dove si spegne la luce del
tramonto. L’operatore lo segue sul fianco, naturalmente macchina a spalla,
si vogliono immagini mosse. Freak recita Howl ma sulle labbra gli prude il
sorriso. E a un certo punto, nell’acuto drammatico della poesia, ulula verso
il cielo cobalto, e allora l’operatore si ferma e lo lascia andare, ululante nella
notte padana.
Sono le eroiche riprese di un documentario che scrissi anni fa (se e
come si può scrivere un documentario) insieme a Caterina Carone. Freak
aveva accettato di interpretarlo con entusiasmo e creatività, e si presentava
sul set sempre puntualissimo. Era già molto malato, ma spesso arrivava di
notte dopo un concerto o dopo le prove a Bologna, e dopo tre ore era
pronto e disponibile. L’idea, di una piccola ma eccellente produzione di
Reggio Emilia, Pulsemedia, e di Luca Pastore, regista e musicista torinese,
era di raccontare il beat nella pianura padana. Il mio unico contributo
creativo riguardò proprio Freak: dissi a Roberto Ruini e a Luca che l’unico
in grado di raccontare quella storia era Freak. In decenni di attività non mi
era mai successo: accordo pieno e immediato di tutti. Un miracolo.
Ricordo un altro giorno di lavorazione, a Milano, nello studio di
Maurizio Vandelli. Freak cantò “Sono un ribelle, mamma” e Vandelli si
commosse. Anche Vandelli cantò, naturalmente benissimo, e fu una bella
giornata anche se pioveva. Vandelli ci consigliò una miracolosa crema per
dermatiti e ci raccontò aneddoti stupendi su Jimi Hendrix e su un
misterioso enorme cane lasciato da qualcuno in una villa comunitaria dove
dormivano musicisti di mezzo mondo. Uomo per nulla banale, Vandelli,
tagliente e scanzonato, e profondo conoscitore di uomini: sono sicuro che
anche lui è stato colpito dalle infinite sfumature e dalla sensibilità di Freak.
È vero, quando aveva iniziato a salire sul palco non sapeva suonare, ma
Freak non è mai stato un dilettante. Uscendo dadaisticamante dal concetto
stesso di concerto aveva creato una performance così in anticipo sui tempi
che risultò fruttuosa soltanto per chi ne aveva fatto diretta esperienza. E
furono molti, tra gli addetti ai lavori, a farne succulenta esperienza. I pochi
personaggi veramente di genio, nel mondo della musica, sono sempre degli
outsider. In fondo l’unico che possiamo accostare a Freak, nel campo della
musica italiana, è Enzo Jannacci. Ma secondo me non è stato colto, intuito,
il suo talento di attore. Naturalmente Freakbeat, il documentario padano,
non era il progetto che avevo sognato per lui (e per me!).
Lo volevo protagonista di un film tratto da un libro che avevo molto
amato da giovane, e che ricordo ancora volentieri: Opinioni di un clown, di
Heinrich Böll. Adattandolo alla sua figura di artista sarebbe stata una
grande sfida. Gli parlai di questo vecchio progetto durante le riprese del
documentario. In un simpatico ristorante di Reggio Emilia. Purtroppo
dovetti dirgli che non ero mai riuscito a trovare un produttore interessato, e
che ancora mi dispiaceva. Non bucava lo schermo, mi avevano detto, non
aveva mai avuto un vero pubblico, era troppo astratto, marginale, e come se
non bastasse anche tossico. Lui non se la prese per i rifiuti, ci era abituato, e
anzi fu contento che avevo pensato a lui come protagonista. Ricordo che
avevamo mangiato tutto il pane, e che lui chiamò la cameriera: “Signora” le
disse con un sorriso, “possiamo avere un po’ di pane per favore?”.
Gli individui sono una cosa, avrei voluto dirgli, il pubblico un’altra. A
entrambi Freak ha detto quel che aveva da dire.
Diane Arbus
Stefano Chiodi
Il mondo per Barbieri è un sistema che osserva. Non c’è sforzo nel suo atto
fotografico. La realtà sembra presentarsi al suo sguardo disponibile e
addirittura invocante quel suo atto fotografico. “Quelle immagini erano
una sorta di performance”, dice Barbieri nell’intervista contenuta nel
catalogo, “reagivo in funzione della reazione che veniva manifestata nei
miei confronti”. Questo non vuol dire che nel suo lavoro non ci sia un
costante impegno di ricerca e anche molta fatica, tra viaggi, permessi,
impegno speculativo e realizzazione delle opere. Tutto questo però non si
nota in quanto tende a prevalere la pacatezza e il rigore di un linguaggio a
lungo meditato i cui esiti sono tangibili nel suo intero percorso di lavoro. A
osservare l’atto fotografico di Barbieri nel ciclo Early Works 1980 – 1984
appaiono una serie di luoghi e situazioni italiani ed europei che presentano
scene esistenziali tra rare presenze umane. C’è una costante e silenziosa
mancanza e un’intensa partecipazione, che insieme danno il senso della
sospensione di un tempo di transizione in cui le ultime vestigia
dell’illusione del boom economico mostrano di iniziare a presentare il
conto dell’avvio di un’epoca che, prima con velocità ossessiva, e poi con
una lunga serie di crisi ed emergenze avrebbe prodotto una profonda
trasformazione. Tanto da farci apparire questa nostra contemporaneità
come più lontana di quanto di fatto non sia rispetto alle immagini in
esposizione che Barbieri ci presenta. C’è un’ineluttabile componente
arcaica nelle cose, negli sguardi rari, nei paesaggi. Spesso si affaccia nelle
immagini un’atmosfera stralunata, quell’atmosfera mediante la quale i
mondi della pianura padana sono stati capaci di diventare una metafora del
mondo, un ologramma della nostra vita attuale. Valgano per tutte, come
paragone, le atmosfere narrative di Gianni Celati e quelle cinematografiche
di Federico Fellini. In scena Barbieri mette anche i simulacri mitici del
tempo, quei simulacri che in quegli anni, appunto, erano stati definiti “miti
d’oggi” da Roland Barthes. Miti e osservazione, sperimentazione e
narrazione si combinano nel rapporto che Olivo Barbieri stabilisce con il
mondo. E un sistematico effetto di verità, o meglio di senso della verità, si
presenta all’osservatore delle sue opere. Quell’effetto di verità non è né
dimostrativo né violento, ma presenta un realismo che a volte assume i toni
magici e altre volte i toni drammatici della nostra contemporaneità. Il suo
lavoro in tutti questi anni, a partire dagli inizi fino a oggi, si configura come
un viatico del nostro tempo, che col trascorrere degli anni assume le
connotazioni di una costante interrogazione sulla nostra presenza e sul
nostro destino come specie umana sul pianeta Terra.
Roland Barthes
Gianfranco Marrone
Dunque sarà stato qui, dietro questo portone, dietro questa facciata a due
piani. Qui Bertolt Brecht avrà preso dimora nell’ottobre del 1953, dopo gli
anni dell’esilio in Scandinavia e a Santa Monica, vicino a Hollywood, e
dopo una serie di abitazioni a Berlino Est e dintorni. Paesaggio
metropolitano asciutto, senza fronzoli. Accanto un cimitero storico che i
turisti vengono ancora oggi a visitare. La strada che passa qui davanti
prosegue fuori città. Porta un nome che è una tautologia, la parola francese
per indicare una via selciata. Poco distante da qui restano alcuni solitari
relitti del Muro. Naturalmente quello che i documenti ufficiali dell’epoca
chiameranno “baluardo di protezione antifascista” era allora di là da venire.
Per il dopoguerra la casa è un vero lusso in una Germania, non solo
orientale, che convivrà con le rovine dei bombardamenti ancora a lungo
dopo l’anno zero. Apparentemente invisibile, la guerra s’insinua tra gli
oggetti esposti in queste stanze. Ha il suo segno più vistoso nella magra
biblioteca, fatta tutta di libri e di riviste dell’epoca tra il ritorno in patria e
l’anno della morte. Si è preso anche i libri, l’esilio. Quelli rimasti,
l’esposizione li ha sistemati in una sequenza per nulla casuale, a suggerire
associazioni tra un campo del sapere e un altro. Volumi d’arte, filosofia
classica tedesca, ma soprattutto i classici del marxismo in bella vista: le
opere di Lenin e i volumi blu delle MEW (Marx-Engels-Werke) di cui le
stamperie della DDR non sono mai state avare. Tutto è posizionato per
essere riconosciuto dal visitatore sin dal suo ingresso al primo piano. La
posizione decide qui del significato, niente è lasciato al caso. Così, dalle tre
maschere giapponesi al ritratto di Lenin alla maschera funebre di BB,
l’occhio è condotto a passare come in un crescendo dall’uno all’altro,
guidato da una mano invisibile, in un movimento che evoca insieme
oriente e occidente, storia e rivoluzione.
A questa messa in scena non sono certo estranee le condizioni del
mondo nel 1956, l’anno in cui Brecht muore, né di quelli seguenti in cui
Helene Weigel sarà l’amministratrice di ferro della memoria del marito,
divenuta nel frattempo un bene d’inestimabile valore per la DDR. A questa
messa in scena non ha esitato a metter mano Brecht stesso, e con passione,
ben prima che arrivasse quella che si chiama la sua ora. La posizione della
sedia di lavoro – la guida non manca di farlo notare – guarda il giardino del
cimitero. Brecht amava dire che scriveva guardando la tomba di Hegel.
L’aneddotica provvede alla costruzione di un’opera fatta solo delle tracce
memorabili di una vita.
Qui sono già le avvisaglie di una memoria che si installa prima del
tempo. Non aspetta il futuro perché il presente si congiunga a quella sua
verità che si narra esclusivamente al passato. La letteratura accorcia i tempi.
E una casa così trasuda letteratura. È una creazione, non meno di quanto lo
siano i personaggi che calcano il palcoscenico del Berliner Ensemble poco
distante da qui. Non meno di loro ha una sua verità. Del resto, certe cose si
dicono solo con il teatro. È, in un certo senso, una memoria ante festum.
C’è già un’immagine di sé che nella asciuttezza della casa rispecchia l’etica
della mise en scène brechtiana.
La casa diventa teatro, prima e dopo la morte. La casa è allora teatro per
sempre. E anzi un teatro più vero: la morte dell’autore gli attribuisce un
insuperabile sigillo di autenticità. È un teatro che si evoca per l’eternità,
proprio a partire da ciò che gli manca e che è, al tempo stesso, onnipresente
attraverso il nome del suo autore, evocato a ogni passo. Questa casa non
per caso si chiama oggi Brecht-Haus: è un nome divenuto dimora, ma è
anche una dimora nella quale non vive più nessuno. Solo i ricordi vi
trovano alloggio, solo loro ne hanno il diritto. La casa non esiste per essere
abitata, ma per assumere la funzione di rappresentare l’uomo la cui
memoria pubblica s’incarna nelle stanze aperte al visitatore. Se una dimora
mantiene suo malgrado l’impronta di chi ci ha vissuto, qui ci aggiriamo tra
librerie intoccabili e poltrone su cui non ci si può sedere. È solo in forza
dell’inabitabilità che può contenere ora i suoi fantasmi. Per uno strano
paradosso è l’inaccessibilità che diventa il segno più certo della presenza del
grand’uomo, là accanto a noi visitatori.
Il coup de théâtre lo si raggiunge con l’apertura della porta che dà sulla
piccola stanza da letto, monacale. La guida, pure un po’ pressata dal
prossimo gruppo di visitatori che già attende al pianoterra, non può
terminare la visita senza citare le parole che si dice siano state le ultime:
Lasst mich in Ruhe (lasciatemi tranquillo). Una dichiarazione sibillina che ci
proietta nel silenzio di questo sabato pomeriggio berlinese. Sembra quasi
un’esortazione perentoria a non profanare più del dovuto questi luoghi. A
levarci presto dai piedi, lasciando le stanze al silenzio che è loro proprio. Il
teatro è la vita. Non sarà certo la morte qui a mettere fine a qualcosa.
Che questa evocazione di spiriti non manchi d’effetto, lo dimostrano i
miei casuali compagni di visita, tre iraniani che si qualificano come
giornalisti. Che la biblioteca contenga poesie d’amore persiane o che nella
cucina contadina al piano terra alcune maioliche sorprendano con le loro
iscrizioni in arabo, tutto diviene segno. Possono orientarsi nella massa di
cose attraverso le figure di ciò che è loro familiare. Qualcosa era già là da
sempre ad attenderli. Precedendoli rende ora possibile la visita. Prima
ancora che lo sapessero, prima anche che decidessero di venirci, qualcosa di
conosciuto attendeva i miei compagni di visita, venuti da lontano in questo
angolo di Berlino. Forse non è che un’immagine di sé che è possibile vedere
riflessa in questa forma laica di evocazione degli spiriti. In ogni caso
qualcosa arriva per parlare dalla distanza siderale che sembra separare
epoche e culture. In un lampo tutto è là. Stanno già scendendo le ripide
scale verso l’uscita e commentano con soddisfazione l’ora che abbiamo
trascorso a casa di Bertolt Brecht.
Gianroberto Casaleggio
Oliviero Ponte Di Pino
Per parlare di Gianni Celati devo cominciare dal camminare. Dentro e fuori
le storie, storie che camminano. E camminare e raccontare. Insomma
cominciare prima e un po’ lontani dalla scrittura, in una visione del mondo
in movimento che precede, per chi guarda il mondo muovendosi,
qualunque storia. Ci vediamo adesso forse una volta l’anno qui in
Inghilterra, e neppure tutti gli anni. Ci mettiamo a camminare lungo il
Regent’s Canal, verso est, dove Londra diventa un immenso svincolo
stradale tra capannoni industriali, chiuse dismesse, vegetazioni acquatiche,
e parliamo di tutto, a ruota libera.
Io so bene quali sono le mie difficoltà con Gianni: vorrei riassumere la
mia vita, i miei progressi ma anche ammettere che non c’è mai nessun
progresso, che sono lo stesso di quando ero un suo studente. Questa è una
traccia del periodo in cui Gianni era il mio professore, ma sarebbe forse più
giusto dire maestro.
All’idea di scrivere e fare della letteratura un mestiere sono arrivato al
Dams attraverso Gianni e, come chiunque di fronte a un mondo
sconosciuto, ho cercato di capire attraverso lui in quale modo nel futuro
avrei potuto vivere. Vivere di cosa? Dello scrivere? Ma veramente già allora
era molto di più, perché Gianni ha sempre presentato la faccenda in modo
apertissimo e per nulla consolatorio. C’è sempre stato solo il mondo aperto,
il cercare di conoscere le cose e poi, semmai, lo scrivere. Delle consolazioni
che vengono all’esistenza da una posizione professionale se ne è
preoccupato poco per sé, e certo non ha mai fatto promesse a nessuno.
Nonostante questo, in anni in cui almeno in superficie i nostri orizzonti
piccolo-borghesi erano stati travolti dalla contestazione, a Gianni io avevo
affidato a un certo punto, intorno ai vent’anni, il ruolo di chi ti giudica,
non solo per aver passato il suo esame, ma per quanto avevo amato La
banda dei sospiri e per il fatto che sembrava non essere sepolto dalle
macerie della propria giovinezza, come capita così spesso ai professori
quando guardano gli studenti con un’aria di supponenza e
autocompiacimento, quasi fossero ormai passati in un’altra parte della vita,
non si sa bene quale altra, e gli studenti vengono chiamati “ragazzi” e sono
un po’ il loro materiale. Gianni era invece davvero curioso di tutti,
entusiasta di quello che faceva vivere tra noi, che fosse Lewis Carroll o
semplicemente il desiderio dell’avventura.
Qualcosa di quel rapporto originario è restato anche nell’amicizia che è
seguita. Non è una bella traccia, direi che è un mio complesso, un prezzo
che si paga. Sarà mai capace di guardarti un ex studente senza voler essere
promosso? Ma questo non riguarda solo i rapporti tra insegnanti e
insegnati. In tutte le amicizie ci si mette a vicenda in questa posizione.
Vogliamo essere capiti, accettati, promossi. Perché siamo bravi, o almeno
abbiamo lavorato, abbiamo fatto quello che dovevamo per passare, o
magari non lo abbiamo fatto, siamo stati insufficienti, colpevoli; lo
sappiamo bene, la nostra vita non va bene, ma vorremmo essere promossi
lo stesso. Povero Gianni, e poveri noi, come si fa ad accettare una posizione
del genere?
Gianni non accetta questo ruolo. Ti tratta un po’ come diceva Elsa
Morante: se pensi che andrai in paradiso, andrai in paradiso, ma se hai
qualche dubbio, allora c’è qualche dubbio. Non ti toglie colpa e complessi,
se li hai ci sarà qualche ragione, saranno probabilmente delle buone ragioni,
io ti aspetto oltre il tuo teatro interiore. Quindi camminare. Perché se non
sappiamo – e quando mai sappiamo? – che almeno vadano le gambe e la
bocca e raccontino non per passare dalla descrizione del mondo a un altro
piano superiore, da dove si guardano le cose e si dice: ecco, così stanno le
cose! Ma con le cose, nelle cose, senza spingere né resistere, facendosi parte
del mondo, o almeno cercando di farlo. La sua passione per la descrizione e
la fotografia credo nascano da qui, dal desiderio di umiliare l’intelletto,
come raccomandava prima di lui Gian Battista Vico, per ritrovare la nostra
umanità.
Cosa significa questo per uno che scrive? O più precisamente: cosa
significa questo per Gianni che scrive. Perché se così è, perché non scrivere
romanzi in cui tutto è azione e cose, consegnare il mondo alle sue forme e
dire: questo è quello che si vede, quello che si può dire, del resto non so. Un
po’ wittgensteinianamente, dire quello che si può dire semplicemente, e del
resto non parlare. Ma i romanzi di Gianni non sono questo, sono una cosa
molto particolare.
Linguisticamente sono in una tensione continua rispetto al mondo da
cui vengono e di cui parlano. Nello sforzo di descrivere, con semplicità,
adeguarsi alle forme del mondo, a Gianni scappano sempre fuori piccole
osservazioni, costruzioni un po’ strane, a volte lunghe, a volte brevi, che
fanno il suo stile. Uno stile in cui il disagio è continuamente rivoltato in
eleganza, il disagio contro cui si batte costantemente in un suo teatro
mentale dove forse c’è il suo zio sarto, forse l’incontro con persone che ha
considerato in qualche modo superiori, e comunque non bisogna fare
brutta figura. Alla fine questo disagio sembra aver trovato una sua forma
inquieta, a volte magnificamente, come negli ultimi bellissimi racconti
pubblicati in Cinema naturale, altre volte secondo me meno, ma siccome di
Gianni uno alla fine conosce sia quello che riesce a dire sia quello che non
riesce a dire, non è che ci siano davvero libri belli e libri brutti. In ogni libro
questo equilibrio si dispone in modo diverso.
E il modo migliore per risolvere il problema dell’equilibrio è appunto
camminare: mettersi a divorare distanze, come facciamo noi, con una
voracità nelle gambe che è la voracità del vedere, del parlare, dello scrivere e
del leggere. Non si sa bene se abbiamo smesso di essere studente e
professore ma non ne parliamo. Camminiamo, e quello che c’è da dire in
un modo o nell’altro nella camminata (e la nostra è anche piuttosto veloce)
si dispone. Come se uno avesse una manciata di ossi o di conchiglie tra le
mani, che è solo un mucchio di frammenti confuso, poi li getta su un
tavolo e quel mucchio prende una forma che si può interpretare. Poi li si
riprende in mano e non ha senso ripartire dall’ultima volta in cui li si era
lanciati, tanto sappiamo che né la disposizione degli ossi né tanto meno
l’interpretazione che avevamo dato hanno davvero senso, quello che conta
è la forma che prenderanno nel prossimo lancio che ci accingiamo a fare. A
tal proposito si veda la bella introduzione di Jung al libro dei Ching.
Così mi piacerebbe fare una piccola storia delle camminate-
chiacchierate con Gianni. Senza pretese, perché abbiamo visto in tanti il
lancio di quegli ossi e ognuno lo ricorda in modo diverso, o piuttosto che
ricordarlo lo ricostruisce da una prospettiva particolare. Vorrei cominciare
da Bologna, quando andavamo al cinema e a chiacchierare, e attraverso me
credo che Gianni vedesse un po’ le aperture che alla fine degli anni Settanta
noi portavamo alla sinistra e alla scena letteraria.
Sia io che Pier Vittorio Tondelli o Andrea Pazienza o Freak Antoni o
Carlo Mazzacurati siamo passati dai suoi corsi. E per me alla fine c’era
qualcosa che era più dei corsi, che pure erano sempre belli e vivacissimi,
con l’aula piena di gente che veniva ad ascoltarlo anche da fuori
dell’università e alla fine si parlava di molte cose importanti; tutto si apriva
in un punto in cui la letteratura diventava la migliore disciplina per
interpretare la contemporaneità e non qualcosa che dai libri si
incamminava in una sua separatezza. Ma più dei corsi, dicevo, erano le
camminate notturne, o i viaggi a Milano per preparare la redazione di Alice
disambientata.
Poi ci sono camminate per un paio di settimane a Venezia, nel ’78,
direi. Abitiamo in una casa in campo San Polo, Gianni riscrive Il lunario del
paradiso e io Boccalone. E anche lì ci sono varie altre persone che passano in
quelle giornate e in quelle case. Luca Fontana, a un certo punto, poi
un’amica di Gianni che si chiama Lina, anche Carlo Ginzburg da cui
Gianni abita (o scrive) in via Castagnoli a Bologna.
Gianni sta divorziando ed è preso tra correnti diverse. Primavera
luminosa e dolente per amori che finiscono male, ma con una bella
amicizia che ci fa parlare e muovere, e non solo lamentare le infelici
circostanze. Ci mettiamo a camminare a un certo punto nella giornata, poi
un caffè in campo, due chiacchiere e si scrive di nuovo.
Dopo Boccalone, invece, passano anni in cui non ci vediamo, per varie
ragioni. O velocemente, la sera, in un ristorante tenuto da due sorelle nella
campagna bolognese. Torno invece a trovarlo a Falaise, in Francia, da
Londra, insieme a Jenny. Anche lì, dopo una traversata notturna in nave in
cui non chiudiamo occhio, ci mettiamo subito a camminare e credo che
camminiamo dalle 9 del mattino fino a che fa buio.
Anche Jenny è una grande camminatrice. Poi mi ricordo un tasso che
attraversa la strada davanti alla macchina quando andiamo a cena, e lì vedo
qualcosa di Gianni e la campagna (che lui ha più in comune con Jenny che
con me) che mi commuove. Una specie di nostalgia che viene dall’infanzia
che lui ha trascorso nel bellunese e che però, per chi è cresciuto in
campagna, non passa veramente mai. Come se gli animali, le piante, la
natura non smettessero mai di chiamare e una parte del sé che è più
profonda del discorso ogni tanto venisse ripresa là dentro. E ci si dice solo
un «L’hai visto?» o magari neppure quello, con questa strana forma di
nostalgia che lega gli uni agli altri e a quel profondo che è là dentro, nel
bosco, e in noi si fa la tana, si cerca da mangiare, vive.
Lo capisco (anzi direi li capisco, perché in questo lui e Jenny sono molto
simili), ma io non sono davvero così. La mia infanzia l’ho passata nella
periferia di Roma, dove al massimo c’era qualche gatto sfortunato e
randagio; eravamo presi da subito nelle istituzioni, la scuola, i movimenti
coatti che si hanno dove non ci sono spazi aperti e non si fa altro che
guardare che non arrivino macchine per attraversare la strada.
Gli uccelli nel cielo o gli animali notturni non sono un mondo che ho
perduto, ma un mondo che non ho mai avuto. Ma questo l’ho poi ritrovato
sempre di più nei libri di Gianni. Soprattutto nei bellissimi paesaggi che si
intravedono in quelli di viaggio, in Verso la foce e Avventure in Africa, ma
anche in Condizioni di luce sulla via Emilia, e nelle cose importanti che ha
fatto con Luigi Ghirri. Paesaggi che non sono solo ambientazioni di una
storia, ma un mondo davvero guardato, con un rammarico per le violenze
fatte alla natura, per ciò che va perduto, con una protesta contro la
stupidità e la violenza, le costruzioni imbecilli, le villette geometrili, gli
allevamenti di maiali. Ci si potrebbe anche arrabbiare con le classi sociali, il
capitalismo e compagnia cantando, ma a Gianni in fondo la gente piace, gli
piace caratterizzare economicamente i personaggi, dar loro una professione,
dire quanti soldi ha, avere un infermiere, un medico, uno che dipinge
insegne stradali. Gli piace la gente, e per quanto protesti contro l’epoca, le
persone poi le racconta e così le salva. Anche quelli che appaiono come
coloro che perpetrano quelle stesse violenze, che lui avverte sul paesaggio e
la società come se le facessero sul suo corpo. Perché per il discorso che
facevo prima, per la natura che è in noi, in fondo le violenze le fanno
davvero sul nostro corpo anche se ci si illude, soggettivamente, di potersi
occupare d’altro, del proprio denaro, del proprio io, quasi che a certuni
fosse consentita una via d’uscita personale che invece non esiste. E qui ci
sarebbe un altro capitolo da aprire: le sue fughe e i suoi viaggi, il senso del
correre più avanti, del camminare, via da qualcosa e verso qualcosa, che
non sono mai un farsi assente ma un suo modo di essere, al contrario,
luminosamente presente. Un po’ leopardianamente, o anche alla Italo
Calvino, un sottrarsi da un modo di esserci che è cedimento alla volgarità
per riaffermare nel ritorno, nel riproporre un nuovo libro, qualcosa che
increspa la superficie apparentemente tranquilla (e spesso un po’ terribile)
delle cose italiane.
Cose semplici, cartoline, piccole descrizioni di paesaggi, scenette
comiche che però, intrecciandosi l’una all’altra, fanno emergere un mondo
più simpatico e vivibile di quello che a prima vista appariva. Così nei suoi
racconti si ha spesso questo doppio movimento: un’espulsione da una
normalità mortifera (infermieri, insegnanti, impiegati ecc.) e un ritornare
con un destino che è stato riaperto e ha ancora qualcosa da dire per tutti.
Non gli piace avere per protagonisti persone particolarmente sensibili, anzi
non gli piacciono proprio i protagonisti. Racconta le sue storie intessendo
trame nell’ordinarietà, in vite molto comuni, un po’ come fa Carver. Poi li
mette di fronte a grandi fatti, perché non è uno che si tira indietro quando
c’è da raccontare la morte o l’amore. Ma la morte e l’amore non rendono i
suoi personaggi grandi, anzi, ce li fanno sentire dolorosamente piccoli e
inadeguati a tutto quello che accade loro. Qui c’è della grandezza. Quello
che conta comunque è altro, è la disposizione che prenderanno le
conchiglie la prossima volta che si getteranno sul tavolo. Non farsi
complimenti, non darsi rappresentazioni di se stessi, non
monumentalizzare né il sé né gli altri, ma continuare a camminare e a
pensare, finché ci si riesce.
Leonard Cohen
Daniele Martino
Fino a qualche tempo fa chiedevo ai suoi amici come stava, poi a un certo
punto ho capito che non era più il caso. Già la domanda mette una gran
tristezza a chi la ascolta e che, per rispondere, proprio non troverebbe le
parole. Di parole ci devono bastare quelle che Daniele ha scritto tempo fa, e
oggi tornano sui banconi delle librerie.
Ho conosciuto Daniele Del Giudice perché l’ha deciso lui. Non so bene
come sia successo: mi ha mandato un suo libro in uscita e mi ha anche
invitato alla cena milanese di presentazione. Si vede che amici comuni gli
avevano parlato di me. Quel libro, oggi, mi richiede sempre un attimo di
riflessione: non mi ricordo mai se si intitoli Mania o Anima, secondo
l’anagramma del titolo che gli avevo offerto come un timido mazzolino di
fiori, per ringraziarlo di quell’invito. Del libro mi vengono subito in mente
soprattutto alcuni dettagli: il doppio senso di “Fuga” nel titolo di un
racconto di ambientazione napoletana e l’apparato ottico del racconto
ambientato a Edimburgo che apre la raccolta.
Poi ricordo l’impressione che mi faceva quella sintassi avvolgente, che ti
tira dentro – o anche sopra, se penso ai racconti aviatori di Staccando
l’ombra da terra. Una sintassi che apre spazi volumetrici attorno al lettore,
in un miracoloso equilibrio di naturalezza e artificio. “Mi viene così”, mi
disse lui, ed ebbi il dubbio di essere stato indiscreto a chiedergliene. Ora
rileggerò tutto nel libro che Einaudi gli ha confezionato mettendo in fila
tutti i suoi racconti (I racconti, collana Letture), non vedo l’ora.
L’ultima volta che ho visto Daniele è stato per un incontro casuale,
mentre camminavo per Venezia. Erano i giorni di una sua terribile
disavventura con il premio Strega, a cui era stato candidato con un libro
che fu poi affondato in modo indegno da siluri provenienti da quella
schiera dell’anticonformismo normativo che in Italia è sempre uno degli
eserciti meglio armati. Sa come far male; lo fa. Quella volta Daniele andò,
lui, sul discorso: un po’ ne rideva, un po’ era offeso davvero. “Signori, io mi
occupo di letteratura!”: non saprei mai come rendere per iscritto il tono
della sua protesta, struggente, ed esattissimo, per nulla arrogante, ma
ironico e drammatico assieme. Tutto lì, all’impiedi, in un campiello, in
mezzo a qualche sciame di turismo asiatico leggermente fuori stagione,
prima di offrire cioccolata con panna buonissima al caffè di fronte. Poi
venne a teatro ad assistere a una mia certa Sfinge, ma non accettò l’invito a
cena. “Duccia mi aspetta”, disse; “venite voi domani a pranzo”. Ma
l’indomani c’era il treno. E ciao.
Ora non so se qualcuno scriverà mai una storia degli ultimi vent’anni di
eventi culturali italiani. Sarebbe necessario: spiegherebbe tanto, di noi. Ne
dispero, ma se succederà sarà il caso che il nome di Daniele Del Giudice
venga fatto fra i primi. Sì, perché alla fine degli anni Novanta, il suo
Fondamenta a Venezia stabilì subito uno standard altissimo, con reading di
autori come Andrea Zanzotto o Luigi Meneghello o Ian McEwan, spettacoli
in piazza San Marco di Paolo Conte e Patti Smith. L’allora sconosciuto
Zygmunt Bauman invitato a tenere una conferenza speciale, per battezzare
la quale Daniele si era riferito alla tradizione accademica e aveva
rispolverato la denominazione di Lectio Magistralis. Per dire, una volta mi
sono bevuto un bicchiere assieme a Jean-Pierre Vernant, prima della sua
conferenza. Sarà che sono provinciale, ma mi ha davvero fatto un certo
effetto. In fondo il bello dei festival è l’informalità. Ci vuole solo un centro
storico, e come battere Venezia, al proposito? Dopo di che, e per quanto
uno sia un genio, ci va volentieri e sorridente e la sua bibliografia
all’improvvisto non è più una paratia ma un ponte.
Oggi, una lectio magistralis non si nega a nessuno (lo dico per esperienza
personale).
Tutte le volte che mi capita di imbastire un programma per un festival,
penso al rigore, alla competenza e alla leggerezza sdrammatizzata, e
combatto quel po’ di sgomento con un muto ringraziamento interiore.
Nonché il rimpianto di non poter invitare lui, che pressoché circa ogni
argomento saprebbe dare contributi memorabili.
È che lo scrittore, in quel caso là, era anche un grande lettore. Mi ha
parlato spesso della sua passione per i manuali tecnici, come si vede già dal
suo esordio letterario e dalle spiegazioni su come minare i ponti, direi già
nel primo capitolo del suo primo romanzo, Lo Stadio di Wimbledon. Il resto
lo conosceva a menadito.
Parliamo di un’epoca in cui uno dei suoi talenti poteva passare anni a
fare il giornalista culturale, e per una testata non di prima linea, come
“Paese Sera”. Oltre a raccogliere il suo edito, bisognerebbe prima o poi
raccogliere anche il semi-edito, cioè le sue collaborazioni giornalistiche. Chi
ha il pane non ha i denti, diceva un proverbio terribile. Bene: ora per i Del
Giudice ci sarebbero le pagine che negli anni Settanta o Ottanta non
c’erano. Peccato che noi facciamo fatica a riempirle.
Ora Daniele è da tanti anni dentro a un silenzio che non ha scelto.
Prima di esserne sommerso ha fatto in tempo a cogliere, e patire, la
degenerazione che è intervenuta nel dibattito italiano – che pure tanto
elevato non è stato davvero quasi mai. La si imputa alla scarsa preparazione
di noi che siamo venuti dopo, e ancor più a quelli che sono arrivati dopo di
noi: ma è una mossa convenzionale. Il tono del discorso culturale, specie di
quello polemico, è invece ampiamente dato dai coetanei di Daniele e
occorre resistere alla tentazione di pensare che la sua sia stata una ritrazione
volontaria da una cultura e da una letteratura che derogava oramai
regolarmente dai propri minimi canoni di decenza. No, lui certamente
sarebbe andato avanti volentieri.
Per quanto poi riguarda la qualità dei suoi scritti, sono tutti lì e basta
leggerli. Scrittori così non nascono a ogni stagione.
Gilles Deleuze
Rocco Ronchi
La vicenda del Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, che molti
aspettavano e molti temevano, comincia nel 1997, quando un professore di
inglese del Virginia Military Institute di Lexington, di nome Gordon Ball, fa
circolare una raccolta di firma per sottoporre la candidatura di Bob Dylan
all’Accademia di Svezia. Ball non arriva per caso alla decisione di far
nominare Dylan. Ha conosciuto Andy Warhol, ha collaborato con Jonas
Mekas e ha curato tre libri con Allen Ginsberg. Non è fatto con lo stampino
accademico, ha le credenziali. Posseggo una copia dell suo libro ’66 Frames,
pubblicato dalla Coffee House Press di Minneapolis, con dedica personale.
L’ho incontrato nel 2007 proprio a Minneapolis, in occasione della prima
conferenza internazionale su Bob Dylan (alla quale lui, lo scorbutico oggi
premiato, non mandò neanche un biglietto di ringraziamento, né un
augurio, niente).
Gordon Ball se ne stava quieto, dietro il banchetto dei suoi libri,
aspettando un acquirente (in quel caso, io) e, chissà, aspettando il Nobel a
Dylan per cui lui aveva iniziato la campagna, in un paese dove molti non
sanno nemmeno che cosa sia il Premio Nobel (gli studenti americani,
invariabilmente, me lo indicano come Noble Prize, che è quello che certi
correttori automatici pensano che sia). A partire dal 1997, nella comunità
dylaniana, in attesa del comunicato da Stoccolma si è sempre alzata qualche
linea di febbre. L’idea generale era che avrebbero dovuto darglielo ma non
gliel’avrebbero mai dato. Perché l’Accademia è fatta da parrucconi, perché
non ha una grande considerazione per la poesia americana (nessun poeta
americano premiato dopo T.S. Eliot nel 1948, che poi tanto americano non
lo era più), perché in fondo non è uno scrittore e perché in fondo chi se ne
frega del Nobel, Dylan è l’ultima persona al mondo che ne ha bisogno
(verissimo).
Invece adesso il premio è arrivato, e se c’è una vasta comunità
inconfessabile che tira un respiro di sollievo, c’è anche un mondo di
letterati che si strappa i capelli. Vediamo le ragioni degli uni e degli altri.
Dylan è un artista della parola orale, parlata e cantata. Sulla pagina,
senza la musica, sono relativamente poche le canzoni sue che potrebbero
passare per poesie autonoma. Qualcuna: Boots of Spanish Leather (inclusa in
una delle più importanti antologie di poesia americana), rifacimento
aggiornato del “tono” delle classiche ballate romantiche; All Along the
Watchtower, testo ermetico come pochi, nella sua concisione scolpita in
pietra biblica; Tangled Up in Blue, dove il costruttivismo del testo distrugge
la sequenzialità della storia raccontata (si svolge in molti luoghi, ma non
sappiamo mai dove siamo, quando siamo né chi parla); I and I, ariosa e
leggibilissima anche senza la musica; Ain’t Talkin’, un messaggio dall’orlo
del mondo così come l’Ovidio degli Ex Ponto, citato nella canzone,
mandava messaggi dall’estremo confine del Mar Nero a una Roma che non
lo ascoltava più. Ce ne sono altre, certamente, ma non cambiano
l’equazione generale. Paradossalmente, le canzoni di Dylan si godono come
poesie più in traduzione che nell’originale. In traduzione possono essere
distese in versi liberi; nell’originale, la struttura delle strofe e della rima
richiede il beat, richiede una gola e una bocca. E allora?
Non appena si è sparsa la notizia, sono stato intervistato da due radio
italiane (Rai3 e Radio24) e dall’emittente ispanica americana Univision. La
giornalista di Univision aveva letto le mie note alle canzoni di Dylan
(Feltrinelli 2006) nella traduzione spagnola uscita l’anno dopo (e che io
non ho mai visto, l’editore di Madrid non mi ha mai mandato neanche una
copia). Voleva sapere se la canzone I Pity the Poor Immigrant poteva essere
usata per parlare dei problemi dell’immigrazione. Non proprio, le ho detto.
È una canzone che parla forse più dei Padri Pellegrini e del loro desiderio di
conquistare l’America e farne una cosa loro, che non dell’emigrante in fuga
da una guerra o in cerca di lavoro. Il “poor immigrant” della canzone non
conosce la pietà e non suscita compassione. Meglio lasciar perdere. Ma la
giornalista si lascia sfuggire questa domanda, ed è seria, non sarcastica:
“Vuol dire che d’ora in poi per andare a comprare le opere di un premio
Nobel dovremo entrare in un negozio di dischi invece che in libreria?”
In America i negozi di dischi rimasti sono molto pochi, in tutta
Houston dove vivo sono tre, e uno vende soprattutto tavole da surf. In
realtà per comprare un disco (magari un vinile elegante e carissimo)
bisogna proprio andare in libreria, dove qualche disco di Bob Dylan c’è
sempre stato a partire dal 1962 e dove forse ci sarà fino alla fine dell’era del
libro. Che cosa voglio dire? Che con Dylan siamo contemporaneamente
dentro e fuori dalla letteratura, ed è impossibile sostenere che il Premio
Nobel non è meritato perché Dylan è un cantautore e non un poeta, come
è impossibile sostenere che è meritatissimo perché è il più grande poeta
degli ultimi cinquant’anni eccetera. Dylan non è né una cosa né l’altra. È
molto di più.
Mi dispiace che Valerio Magrelli, che era con me e con Alessandro
Portelli nell’intervista di Rai3, abbia preso il Nobel a Dylan come
un’occasione per lamentarsi che la poesia, a differenza della musica, non ha
strumenti abbastanza rumorosi per farsi sentire, e che il premio a Dylan
rappresenta il trionfo, parole sue, del Pensiero Unico e del Mercato a danno
di quel poco spazio che è rimasto alla letteratura. Ma Dylan non
rappresenta proprio nessun Pensiero Unico, e nemmeno rappresenta lo
stato corrente del mercato della musica, che non si presenta poi così diverso
per un giovane poeta o per un giovane cantautore. Il primo non ha nessuna
speranza di ereditare l’aura che un tempo apparteneva alla poesia; il
secondo (poiché nel mondo dei social media i musicisti ricevono diritti
d’autore ridicoli) non ha nessuna speranza di avere un mercato a meno che
non posti un video su Youtube che per un caso della sorte diventa virale.
Insomma, se avessero dato il Nobel a Taylor Swi allora mi preoccuperei,
ma con Dylan, suvvia, siamo in compagnia di uno che Christopher Ricks,
superaccademico inglese e studioso di Milton, Tennyson e Eliot, ha definito
“uno dei più grandi creatori di rime della lingua inglese”. Pensate, che ne
so, alla rima/assonanza “skull” e “Capitol” da Idiot Wind, teschio e
Campidoglio, che a Ginsberg era parsa la perfetta immagine dell’America
del Watergate.
I vari scrittori, italiani e non, i quali hanno strillato che Dylan non fa
parte della letteratura, dovrebbero chiedersi prima di tutto se ne fanno
parte loro, perché pubblicare un libro, o anche molti libri, significa essere
dei lavoranti della scrittura, il che va bene, ma non significa per forza far
parte di ciò che la letteratura decide di essere giorno per giorno. Vale
ancora di più per la poesia. Che per ammontare a qualcosa deve uscire dalla
pagina, deve acquisire una voce. Ho letto e leggo tanti rispettabilissimi
poeti che mai in tutta la loro vita potranno scrivere nemmeno un mediocre
verso di Dylan. Perché il verso di Dylan, anche se non è cantato da lui,
anche se è tradotto in un’altra lingua, “suona” più di milioni di “belle
poesie” che non riescono minimamente a far vibrare una frequenza nella
testa di chi le legge. Sono poesie che fanno dormire bene, ma non fanno
svegliare.
Il verso di Dylan ha sempre il suono di un passo, comunica che
qualcuno è uscito di casa e si è messo in viaggio, non sa dove sta andando
ma ci sta andando, e se deciderà di fermarsi, bene, quella diventerà la sua
destinazione. Ha cominciato cinquantacinque anni fa e non si è ancora
fermato. Non lamentatevi. Pensate piuttosto ai milioni in tutto il mondo
che si sono avvicinati alla poesia, anche a quella solo scritta, unicamente
perché Dylan gliel’ha indicata da lontano.
Nota: siccome nessuno è perfetto, ho appena pubblicato un libro di
poesie, Beato chi scrive (Nottetempo 2016). Ma intendo redimermi quanto
prima. La mia traduzione dei testi di Bob Dylan (Feltrinelli 2006) è esaurita
da tempo, ma una nuova edizione è in preparazione. Lo dico per tutti
coloro che in questi anni mi hanno scritto per chiedermi quando sarà di
nuovo disponibile. Non so la data, ma penso proprio che ci sarà e che sarà
aggiornata fino agli ultimi dischi.
El Greco
Michael Jakob
Una delle poche cose che sembrano evidenti nella Vista e mappa di Toledo di
El Greco è la necessità – immediata e non analitica – di scomporre da
subito l’insieme in parti distinte. Ovvero il fatto che la composizione non
voglia “stare” insieme. Partiamo allora da una prima identificazione delle
componenti principali. Vediamo: a) la città di Toledo, b) il cielo con le
nuvole, c) la Vergine con il suo entourage, d) l’allegoria del fiume, e) una
grossa nuvola, f ) l’ospedale di San Battista (o ospedale Tavera), g) la mappa
di Toledo, h) un giovane che regge la mappa. Esistono anche altri elementi
più minuti, per esempio, in vicinanza dell’ospedale un cannone (?) e una
colonna (della peste?).
Una più attenta osservazione permette una descrizione più precisa. La
città di Toledo non è soltanto divisa fisicamente in due parti (una parte
entro le mura, una fuori), ma anche scopicamente: la parte bassa, sulla
sinistra, appare infatti come distorta. La “mappa” di Toledo nelle mani del
giovane è un oggetto plurimo; si tratta, a ben guardare, di un foglio con la
pianta della città, munita di didascalie sul lato sinistro e di una scritta.
Insomma, più si osserva il dipinto, più quest’ultimo si suddivide
ulteriormente in nuove parti.
Soffermiamoci sulla funzione referenziale di ognuno di questi elementi.
La città di Toledo rappresentata dovrebbe mostrare la città di Toledo
esistente. Sappiamo però che l’artista applica alla città una deformazione
notevole (lo farà, ancora più decisamente, nell’altra vista di Toledo, quella
che oggi si trova al Metropolitan Museum). La nostra è una vista inusuale
di Toledo suggerita da un punto di vista anch’esso piuttosto inusuale. Il
cielo è il cielo, ma lo è in modo altamente teatrale (siamo all’inizio del
Seicento, secolo che prediligerà tali scenari). La Vergine (e il suo gruppo)
appartiene a una sfera tutta sua, un dato sottolineato anche dal fatto che
appaia, per così dire, “copy pasted”, cioè incollata su un cielo che le serve
da sfondo. Tale stranezza (molto presente nell’opera del pittore) potrebbe,
certo, corrispondere alla peculiarità della visione che si oppone alla
percezione (per esempio quella della città). L’ubicazione ontologica della
Vergine e di San Ildefonso sarebbe in questa luce sacra quella “alta”, quella
fuori dagli schemi spazio-temporali. Anche la figura allegorica del fiume
sembra isolata in un mondo tutto suo. Si è detto, e gli elementi “vaso” e
“cornucopia” sembrano indicarlo, che si tratti dell’allegoria del fiume Tago,
poco visibile in questa prospettiva di Toledo. Il fiume allegorico crea però
anche (tramite il Marforio e la sua tradizione antica, che El Greco deve aver
studiato nei suoi anni italiani), un collegamento tra la Toledo non più
imperiale e la Roma antica (una successione Tevere-Tago). Si è detto che il
giovanotto che porta la mappa sia il figlio dell’artista, Jorge Manuel
Theotokopuli. Va osservato che ciò che sembra contare in primo luogo sia il
fatto che il giovane regga l’elemento iconico-verbale, la mappa girata verso
di noi in modo dimostrativo. Abbiamo già sottolineato la complessità della
mappa, ovvero del foglio con la mappa che sembra piuttosto essere
incollato sulla tela che non farne parte. Da tempo ci si chiede se questa
mappa sia stata dipinta sul foglio o rappresenti invece la trasposizione
pittorica di una (vera) mappa disegnata da El Greco stesso. Dunque, esiste
il dipinto che contiene il foglio che contiene la mappa, che contiene le
didascalie, ciò che complica non poco la rappresentatività di un elemento
che dovrebbe, al contrario, garantire una forma di traduzione della realtà
particolarmente veritiera.
E ora gli elementi più perturbanti in assoluto: l’ospedale di San
Giovanni Battista e la sua nuvola. L’ospedale, chiamato a Toledo anche
“hospital de afuera”, non è l’ospedale reale, bensì, come lo dice il
commento sul foglio, soltanto il suo modello (“Ha sido forzoso poner el
Hospital de Don Joan Tavera en forma de/ modelo porque no solo venia a
cubrir la puerta de Visagra mas/ subia el cimborrio o copula de manera que
sobrepujava la ciudad y/ asi una vez puesto como modelo y movido de su
lugar me parecio/ mostrar la haz antes que otra parte y en los demas de
como viene con/ la ciudad se vera en la planta”). La nuvola, che occupa con
testardaggine il suo (finto) posto, sembra avere qui in basso, dove una
nuvola non dovrebbe stare, soltanto la funzione di sorreggere l’ospedale.
(Tanti elementi in questo dipinto servono a “reggere” o a “sostenere”: la
Vergine porta per così dire il Santo, il giovanotto porta il foglio/mappa, il
fiume porta la cornucopia e l’urna con l’acqua, la nuvola porta l’ospedale.)
Certo, come strategia comunicativa non si può immaginare niente di
peggio: ecco una città in parte deformata, vista da chi sa dove, con una sua
parte, sulla sinistra, sfigurata in modo quasi espressionistico (El Greco ci ha
abituato a queste storpiature); ecco anche un cielo, una Vergine, uno strano
dio fluviale e un giovane – tutti persi nella loro sfera o isola individuale. Ma
c’è di peggio ancora. Se si tiene presente che l’artista sia sicuramente stato
coinvolto nel prestigiosissimo progetto dell’ospedale e che il dipinto vi sia
legato a duplice filo attraverso il probabile committente del quadro e
direttore dell’istituzione, Pedro Salazar de Mendoza, perché allora mostrare
un ‘misero’ modello ubicato in una specie di waste land periurbano?
Buttato lì, sembra quasi che l’ospedale e ciò che lo circonda sia
l’espressione di una gigantesca burla.
Cerchiamo ora di osservare meglio – sempre seguendo la logica
referenziale – alcuni meccanismi all’interno del quadro. Iniziamo con la
figura allegorica. Un elemento pittorico rappresenta una scultura che
rappresenta un fiume, oppure l’idea di un fiume. La figura stessa è
confinata in un’atmosfera bronzeo-dorata tutta a sé stante, ciò che rinforza
l’effetto di collage della sua apparizione. È un fiume grottesco, molle,
onirico, una specie di embrione; è comunque poco adatto se vi si vuole
riconoscere in chiave celebrativa la fonte che ha dato mitologicamente
inizio alla fondazione della città. Si potrebbe, certo, pensare a un fiume nel
contempo antico e moderno (il Tago), ciò che ci riporta ancora una volta
all’idea di fiume in chiave emblematica.
Ritorniamo alla città stessa. A prima vista, il dipinto visualizza e
valorizza la città di Toledo tutta. Di che tipo di rappresentazione si tratta
però? Panoramica (nello stile di Hogenberg, Toletum 1572) o paesaggistica,
nel senso di un vero vis-à-vis? O vale piuttosto la mescolanza di varie
prospettive una accanto all’altra? Dove sta il pittore? Si tratta di un
paesaggio ‘reale’ o di un paesaggio della mente che permette varie
stranezze?
Le perplessità riguardano anche il gruppo con la Vergine. La sua
apparizione ricorda da subito una configurazione “à la El Greco”. È come
se il pittore citasse qui un suo modo di dipingere/raccontare, un suo modo
caratteristico di raffigurare. Che tutto questo gruppo appaia come incollato
sul cielo/sul fondo-nuvola ricorda un modo di rappresentare ormai démodé
(pensiamo all’Agnello mistico di Gand, dove van Eyck “incolla” il sole sul
cielo).
Tutto si complica quando si inizia a combinare due o più elementi
distinti di questa opera-puzzle. Il gruppo della Vergine appartiene a una
sfera del tutto diversa da quella del fiume allegorico. Esiste comunque un
legame se si segue la relazione fra la Vergine e la città: le due componenti
hanno in comune la figura tutelare di San Ildefonso accolto dalla Vergine
stessa. Qual è però la relazione topografica fra il santo e la sua città? È
interessante sottolineare che la chiesa di San Ildefonso verrà costruita a
partire dal 1629 e che all’epoca del dipinto i gesuiti possedevano soltanto
un terreno vuoto – un waste land? – nel cuore della città, acquistato nel
1569.
Una breve sintesi ci porta a un risultato contraddittorio. Da una parte,
tutti gli elementi maggiori sembrano gridare “guardami!”. La città, la
Vergine, il Fiume, il giovane, la mappa, l’ospedale, la nuvola: tutto attira
l’attenzione (alla maniera di I am a Monument di Robert Venturi.) Tutto
esige attenzione – si veda il sesto dito del giovanotto! – però sempre in
modo individual-totalizzante. Ogni elemento si dà come mostrativo,
importante, rilevante, senza che l’insieme fornisca una dimostrazione
generale coerente. Anzi, tutte le parti sono già delle totalità. La città lo è
evidentemente, in quanto contenitore di tutto quanto accade qui; la
Vergine lo è, perché figura tutelare assoluta; il Fiume lo è, perché –
simbolicamente – fonte di vita, cioè di acqua e di beni di ogni genere
(cornucopia); anche la pianta lo è, visto che rappresenta in modo diverso la
totalità del territorio di Toledo; e lo è pure l’ospedale in quanto elemento
centrale che attira più degli altri l’attenzione proprio grazie alla sua
ubicazione inconsueta. Ognuno di questi elementi attira lo sguardo,
ognuno è presente in modo dimostrativo, però ognuno annulla l’elemento a
lui vicino. La relazione fra le parti – essenziale in chiave ermeneutica –
porta qui a un vicendevole annullamento. Ogni elemento sposta
l’attenzione dall’altro, lo contraddice, senza possedere la forza necessaria
per imporsi sugli altri. Parlare di ermeneutica in questo caso può
sorprendere, perché El Greco non è un filosofo. Ma è proprio in quanto
artista che il cretese, toledano per adozione, pensa filosoficamente; pensa
tramite la sua opera pittorica e vede, prima dei professionisti del pensiero, i
fenomeni che riguardano lo sguardo, la rappresentazione, la relazione
dell’immagine al codice verbale, insomma, tutto ciò che è essenziale.
L’ermeneutica – quale Schleiermacher la definirà nell’Ottocento – si basa
sulla relazione tra parti e insieme. Comprendere un’opera equivale a portare
avanti un processo che va dall’insieme alle parti e dalle parti all’insieme.
Proprio questo genere di processo, di solito automatico o inconscio, è
rimesso in questione nel quadro di El Greco; da un lato, le parti assorbono
l’attenzione tutta senza entrare in contatto con le altre parti, mentre
dall’altro, l’insieme resta labile e problematico.
Arrivati a questo punto occorre soffermarsi un po’ più a lungo sulla
nuvola che regge l’edificio dell’ospedale. La storia dell’arte, dal
Quattrocento in poi, ci ha abituati a una serie di nuvole strane. Pensiamo,
per esempio, alle nuvole di Mantegna, a quella magnifica del suo San
Sebastiano (1456), che fa vedere in trasparenza il Cavaliere dell’Apocalisse,
oppure alla faccia che si intravede nella nuvola dell’Oculo della Camera degli
sposi.
Una nuvola fantastica appare anche nel San Giorgio (National Gallery)
di Paolo Uccello, una nuvola-vortice piena di energia (divina?), che sembra
dirigere la mano del santo liberatore. La nuvola del nostro dipinto non fa
parte di questo repertorio di nuvole, analizzate magistralmente da Hubert
Damisch (Théorie du nuage). Questa nuvola asemantica, spostata e
manipolata (lo dice il commento stesso) non è una nuvola, ma piuttosto un
oggetto-nuvola o una nuvola-oggetto. Proviene dalla tradizione italiana
delle “nuvole” teatrali inventate, secondo il Vasari, dall’ingegnere fiorentino
Cecca. L’adorazione dei Magi (1461), sempre di Mantegna, illustra bene la
forma e la funzione di tali nuvole ovattate che permettono di ‘sollevare’ le
figure sacre.
Anche la nuvola che porta l’ospedale Tavera è una nuvola teatrale e
ricorda gli spettacoli religiosi. Come quella che il Cecca aveva realizzato per
la festa dell’Ascensione, dove si vedeva una montagna in legno con un
Cristo asceso su una nuvola ricoperta di cotone e piena di cherubini,
serafini e altri angeli (Damisch, 104). Secondo il Vasari, Cecca non è
soltanto l’inventore delle nuvole in movimento (“E dicesi che le nuvole che
andavano per la festa di San Giovanni in Fiorenza a processione, furono
ingegno suo, che certo sono tenute cosa bellissima”); costruì anche altri
oggetti, per esempio degli edifici in miniatura: “Fece egli ancora uno
edificio, che per nettare e racconciare il musaico nella tribuna di San
Giovanni si girava, s’alzava et abbassava et accostava, che due persone lo
potevano maneggiare, cosa che diede al Cecca riputazione grandissima”. La
nuvola e il modello dell’ospedale della Vista e mappa di Toledo traggono da
qui la loro origine, dalla storia delle rappresentazioni sacre in forma
teatralizzata. El Greco stesso ricorre fra l’altro a degli oggetti-nuvola
comparabili, una volta nella Vista di Toledo del Metropolitan Museum, sulla
sinistra, dove una esile nuvola serve come base a un edificio (il monastero
di Agali, dove Ildefonso iniziò la sua carriera ecclesiastica) e soprattutto
nella sua Annunciazione, dove l’arcangelo Gabriele posa i piedi su una
soffice nuvola-cuscino.
La nuvola che ci interessa, bianca, grigia e bluastra, quasi lieve malgrado
la sua materialità pittorica, è priva di riferimenti. Diversamente dalle nuvole
di Mantegna, che nascondono visi o figure meravigliose, la nuvola di El
Greco non nasconde nulla e non dice niente. Vicina ad altri elementi che
sembrano indicare con forza qualcosa – “Guardami! Sono il fiume!”, “Sono
la Vergine!”, “Sono la città di Toledo!”, “Sono un giovane che ha delle cose
da mostrare!” – il segno nuvola resta muto. E la cosa si spiegherebbe,
almeno in parte, se la nuvola servisse da oggetto identificabile di una scena
teatrale. E si spiegherebbe anche il fatto che nel nostro quadro niente
appaia al suo posto, a cominciare dall’ospedale, poiché ciò che vediamo
sarebbe il risultato di un bricolage spettacolare. Ma attenzione, c’è una
differenza sostanziale tra una scena teatrale (dove il teatro comprende
tutto) e la teatralizzazione di una scena (che resta da definire). Certo, il
Seicento, quello del Siglo d’Oro, vedrà spesso il mondo come un gigantesco
teatro. Nella Vista e mappa di Toledo il teatro e la pittura convivono senza
diventare tutt’uno. Benché proveniente dalla tradizione teatrale, la nuvola
che irrompe nel quadro non assorbe automaticamente tutto ciò che
vediamo all’interno della prospettiva della macchina teatrale. Anche perché
esiste, come abbiamo già sottolineato, un problema preoccupante circa il
punto di vista. Abbiamo già notato in che modo il pittore commenti, nella
sua stessa opera, la necessità di manipolare le proporzioni e l’ubicazione di
elementi come la Vergine, la nuvola e l’ospedale, nonché la deformazione
che si intravede nella parte extra muros della città quasi anamorfica.
Ora, una gran parte di questi problemi di costruzione visuale si spiegano
con un fatto rilevante: il punto di vista più probabile della composizione
globale risulta essere proprio la torre dell’ospedale Tavera. L’io, la fonte di
questa visione, il pittore, sta sulla parte più alta dell’edificio emblematico,
ciò che evidenzia pure il motivo per cui nella rappresentazione non potrà
apparire che il modello e mai l’originale. Vedere l’ospedale da lì è una
impossibilità ottica e logica, un fatto che viene compensato dalla
presentazione della maquette. Questa forzatura crea una contraddizione di
base, poiché il dipinto postula un luogo e/o una scala che non possono
coesistere. Guardando in quella direzione, noi vediamo questa stessa
impossibilità materializzarsi grazie al simulacro dell’ospedale.
L’osservazione attenta del punto apparentemente più debole della
composizione, ma che è in realtà il suo punto di forza, permette di
comprendere questo nodo ermeneutico.
Riprendiamo il filo del nostro iter interpretativo. All’inizio, questa tela
ci sorprende (in una fase prelinguistica dove non “sappiamo” gran che).
Man mano che procede l’analisi, la nostra impressione iniziale dà luogo a
una visione iconograficamente più salda: abbiamo identificato dei dettagli,
abbiamo trovato delle spiegazioni, sappiamo più o meno di chi e di cosa si
tratti (Ildefonso, l’ospedale Tavera, il fiume, il figlio…). Si raggiunge però in
fretta un limite, visto che le spiegazioni tradizionali non risultano
soddisfacenti. Affermare che si tratti dell’elogio della città appare riduttivo
e fuorviante (il dipinto pone troppi problemi, complica le cose); dire che
l’opera serva come strumento propagandistico per il figlio del pittore,
probabilmente rappresentato a destra, sembra fuorviante; dire, infine, che il
quadro rappresenti un gioco intellettuale da parte dell’artista, che grazie
all’autoreferenzialità – à la Leonardo – rivendichi l’onnipotenza della
pittura, equivale ugualmente, secondo noi, a una lectio facilior. Disturba
soprattutto l’idea stessa di auto-referenzialità allorché tutto ciò che vediamo
in questo dipinto si offre alla vista e invita all’identificazione. Ciò che
vediamo, in altre parole, non ha senso, ma conferisce senso. Dobbiamo
quindi, sempre e comunque, ritornare all’opera. Dobbiamo seguire la
“logica degli occhi” (Cézanne), e non quella dei programmi e dei concetti.
La Vista e mappa di Toledo è una magnifica dimostrazione dell’idea kantiana
dell’arte che si basa sulla forma e non sul concetto. Partendo dalla teatralità
menzionata più su e applicandola al disordine spaziale della composizione
verrebbe certo in mente una spiegazione del tipo: El Greco arrangia le cose
secondo un progetto scenografico, segue un programma, esiste una logica
profonda e nascosta, ecc. Tali spiegazioni vengono però ridotte ad absurdum
dal quadro stesso. Ogni volta che ci soffermiamo su un singolo elemento,
quest’ultimo, che ha attirato con forza la nostra attenzione, si richiude,
resiste ed elude il nostro tentativo di una lettura coesa e globale. L’opera,
realizzata nel periodo che va dal 1600 al 1614, parla di un mondo che è
completamente cambiato. Parla delle intuizioni di un monaco bruciato vivo
nel 1600 a Roma, quel Giordano Bruno, che aveva smontato per sempre il
sistema geocentrico; parla della visione angosciata di un Pascal esposto a un
universo sconfinato e vuoto. Il fatto stesso che nel nostro puzzle toledano
gli elementi non appartengano a un insieme logico, che tutto sia distinto e
separato, viene espresso magistralmente attraverso un punto di vista
impossibile.
Continuando a guardare il dipinto mi convinco sempre di più che la
chiave sia da ricercare proprio nella nuvola. Va aggiunto subito che parlare
di chiave è forse sbagliato, poiché non esiste un meccanismo che apra
miracolosamente le porte dell’interpretazione. Non esiste un messaggio, un
segreto, una mappa concettuale che spieghi tutto. Non esiste perché El
Greco non traduce un concetto o un programma in immagine. La
spiegazione – o le spiegazioni – devono venire da noi, cioè da tutti coloro
che prendono il tempo di esporsi a quest’opera. Ci vuole uno sforzo
immaginativo – un po’ alla Hercule Poirot, ma senza un colpevole finale –
per immedesimarsi ancora di più nel quadro. Di solito, quando guardiamo
un dipinto, esso funziona, per dirla con l’Alberti, come una “finestra
aperta”: la tela, cioè la superficie a due dimensioni, permette di creare uno
spazio immaginativo. È così che “entriamo” in un dipinto, soprattutto in
un dipinto di paesaggio. Tale meccanismo è ostacolato in tutti i modi nella
Vista e mappa di Toledo. Vediamo un paesaggio urbano ma strano,
deformato; una divinità fluviale che è dentro la sua bolla autoreferenziale;
la Vergine la cui apparizione sa da subito di finzione; un giovanotto irreale,
che sembra piuttosto un porta-cose che una persona in carne e ossa; una
mappa che promette la corretta prospettiva, ma la legenda tradisce i trucchi
usati; il palazzo dell’ospedale di San Battista è un modello goffo posto in un
no man’s land. L’unico elemento autentico pare essere proprio la nuvola.
Diversamente dagli altri elementi plastici che attirano il mio sguardo
obbligandomi a immaginarli tutti in un loro spazio (seppur disgiunto), la
nuvola non è un corpo. Certo, da una parte dovrebbe reggere l’ospedale,
ma quello non è l’ospedale, è solo un simulacro posato chissà dove. La
nuvola, il vuoto, nel cuore del paesaggio toledano, è il vero centro del
dipinto. Come la pittura in generale (anche questa), la nuvola è piatta, mera
superficie. Entrambe, la pittura e la nuvola, stanno alla base di un atto che
trasforma i dati superficiali (la materia pittorica, i pigmenti) in una
immagine. Mentre il dipinto nel suo insieme si dissolve in modo centrifugo
in altrettante scene a sé stanti, la nuvola – centripeta – resiste. Mentre gli
altri elementi ‘parlano’, la nuvola resta silente. Mentre gli elementi che la
circondano implicano processi conoscitivi (il Fiume rimanda al fiume Tago
che si intravede sul quadro che si ritrova sulla mappa che è fonte di vita,
ecc.), la nuvola non ha nulla da dirci. È soltanto qui, confrontato a questa
macchia non-referenziale, che l’occhio trova per un attimo riposo. Tutto ciò
vale però soltanto in un primo tempo, durante il processo quasi-automatico
della prima lettura della composizione e della ricerca di frammenti di senso
che, messi insieme, potrebbe fornire (come avviene di solito) le condizioni
di possibilità per una lettura globale. Nel nostro caso, in un secondo tempo,
le cose appaiono capovolte. Tutti i tentativi di stabilizzare, di collegare in un
tutt’uno coerente gli elementi elencati sono vani. Ricordiamo ancora una
volta la straordinaria lezione di Kant in materia estetica: ciò che ci attira in
un’opera d’arte piace senza interesse e senza concetto. Questo non implica
l’assenza di concettualizzazione durante l’incontro con l’opera d’arte, al
contrario. Confrontati con un capolavoro, la complessità di quest’ultimo
renderà ogni concettualizzazione relativa e comunque incapace di
contenere il tutto (altrimenti basterebbe un concetto per spiegarla). L’opera
d’arte è, epistemologicamente parlando, esplosiva; genera concetti che, una
volta applicati, risultano insufficienti. Anche l’incontro con la Vista e mappa
di Toledo segue questa logica. Quelli che abbiamo definito elementi
principali, la Vergine, il Fiume, la mappa ecc. richiedono una lettura che
proceda in modo sistematico, via l’identificazione del significato degli
elementi rispettivi. La città è la città, la Vergine è la Vergine, e così via.
Quanto appare nel dipinto è, in altri termini, collocabile: la città
rappresentata corrisponde alla città reale; la mappa rappresentata
corrisponde a una mappa vera; il Fiume corrisponde al Tago, e così via.
Sarebbe facile immaginare tutti gli elementi incollati su un grande
moodboard di Toledo. A ogni elemento corrispondo luoghi e nomi precisi.
L’identificazione degli elementi menzionati procede in questo modo
referenziale fino all’apparire di certe stranezze già discusse; infatti, il nostro
moodboard non crea un insieme ma scompone in modo inconsueto la realtà
di Toledo.
È a questo punto che una seconda lettura permette di compiere un
passo in avanti; una lettura che prenderà il suo avvio per forza dalla nuvola,
poiché quest’ultima sembra l’unico elemento non collocabile del quadro.
Mentre a una prima analisi la nuvola appariva come un punto di riposo –
non occorreva identificare qualcosa, o seguire un percorso referenziale
basato su similitudini –, ora appare come fonte maggiore di perplessità. La
nuvola è, raffrontata con ciò che la circonda, l’elemento più problematico e
surreale, in quanto apparso da chi sa dove e spostato quaggiù. Benché priva
di significato immediato (non è né pianamente teatrale, né meteorologica),
la nuvola rimanda a qualcuno: alla mano dell’artista che l’ha voluta e
inserita qui. Con la nuvola, El Greco interviene nella composizione con un
gesto anticipatorio che apparirà nella storia dell’arte europea soltanto molto
più tardi. Penso soprattutto a Monet e a Manet, due artisti che
decostruiranno pesantemente la coerenza di molti loro dipinti, in cui si
percepisce nel contempo una scena (spesso un paesaggio) e delle macchie,
cioè la materia pittorica autonoma e integrata, appositamente in modo
maldestro, nell’insieme. La nuvola della Vista e mappa di Toledo precorre
questa possibilità. Laddove tutti gli altri elementi spostano l’interesse da ciò
che appare (la Vergine rimanda all’idea della Vergine, ecc.), per la nuvola
questo meccanismo non funziona. L’immanenza della nuvola posta lì a mo’
di readymade, la resistenza del segno nuvola che non può essere assorbito in
un concetto più ampio, la sua incollocabilità e impossibile identificazione –
tutto ciò funge, al secondo livello di lettura, da punto di partenza per nuove
concettualizzazioni. Se il piacere estetico è, come lo definì Kant, il risultato
del fatto che un’opera d’arte metta le nostre capacità intellettive e
immaginative in movimento, allora il luogo, in cui nel nostro dipinto tale
attività estetico-esistenziale può procedere indefinitamente, è proprio
quello occupato dalla nuvola. A prescindere dal fatto che parlare di occupare
un luogo in questo caso può già sembrare fuorviante: dove sta, in verità,
questa nuvola? Il gioco (e il piacere di indagare) ricomincia daccapo.
Mircea Eliade
Enrico Manera
La similitudine tra la cupola e il sole al crepuscolo, così come quella tra gli
Ebrei e l’asino, accosta due idee di cose che normalmente non sono in
relazione tra loro, costringendo la mente ad esaminare il rapporto tra le
due, con un transito alternato e continuo dall’una all’altra. Nel caso della
metafora che fa del sultano “l’ombra di Dio su tutti i popoli”, il passaggio
suscita maggior sorpresa e stupore perché è più rapido, quasi istantaneo. Le
due idee vengono prese in considerazione alternativamente non
simultaneamente, perciò la mente oscilla tra le due, come nel caso delle
figure a multistabilità percettiva.
Nella decorazione dell’architettura islamica la sorpresa suscitata dalle
immagini che sorgono dalle parole si raddoppia con la sorpresa suscitata
dalle immagini nelle quali le parole stesse sono inserite. L’ambiguità
percettiva che caratterizza l’impianto decorativo si associa così a quella
semantica delle immagini scaturite dalle metafore e dalle similitudini
presenti in alcune iscrizioni, perfettamente inserite nella decorazione stessa.
Come nella decorazione troviamo forme diverse adiacenti e reversibili
rispetto alla linea che hanno in comune, nelle iscrizioni poetiche e in prosa
inserite nella decorazione, troviamo significati diversi adiacenti e reversibili
rispetto all’immagine generata dal testo. Le immagini suscitate dalle parole
sono complementari alle immagini nelle quali le parole stesse sono inserite.
Se le figure ambigue di Escher esposte a Palazzo Reale nascono dal suo
interesse per la decorazione dell’architettura islamica, il nostro interesse per
le opere di Escher potrebbe far nascere il desiderio di visitare l’architettura
islamica per scoprire che l’Islam ha nel suo cuore un’ambiguità, che le
pretese dell’ortodossia sunnita forzata tenta di negare, salvo poi inciamparvi
maldestramente, come è capitato al giurista Ebussuud.
Evgenij Evtušenko
Gian Piero Piretto
Nell’ottobre del 1962 uscì sul quotidiano “Pravda” una delle sue poesie più
influenti, ispirata dalla rimozione del corpo di Stalin dal Mausoleo di
Lenin, Gli eredi di Stalin. Rimozione, secondo il poeta, solo formale in
quanto al potere erano rimasti troppi “eredi” del dittatore per poterlo
considerare sconfitto.
Egli di nuovo macchina qualcosa,
attenti, in quella bara
soltanto a riposar s’è accovacciato;
e io prego il governo,
prego di raddoppiare, triplicare
la guardia a quella tomba,
perché Stalin non s’alzi e insieme a Stalin
non s’alzi anche il passato,
non il passato valoroso e intatto,
dov’è Turksib e Magnitka,
il vessillo a Berlino, ma il passato
dov’è il popolo affranto,
dov’è calunnia e innocente arrestato,
abbiamo seminato
e i metalli saldato onestamente,
e stretti in lunghe file,
onestamente noi abbiamo marciato.
Un libro coraggioso, questo di Clara Gallini. Non solo perché affronta con
sorprendente lucidità il percorso di una malattia, la sua, ma anche per come
lo fa. Ci vuole un certo coraggio, oggi, a scrivere: “Ora sono vecchia – una
parola che non usa più, resa orrorosa da quel linguaggio renziano che esorta
alla rottamazione di quanto non sarebbe giovanile. Vechia e malata…”. In
un’epoca in cui la cosmesi lessicale tenta in ogni modo di fare scomparire la
vecchiaia, esorcizzandola attraverso eufemismi e slogan vincenti, ammettere
(e accettare) con chiarezza la propria condizione è atto coraggioso.
E lo è anche il cercare di reagire al male e alle terapie invasive tentando
di trasformare l’intero sistema terapeutico in un campo di osservazione per
chi come lei, ha trascorso la vita “osservando e partecipando” come fa ogni
antropologo. Allieva di Ernesto De Martino, Clara Gallini diventa, in
questo ultimo lavoro, osservatrice partecipante di se stessa e dell’apparato
umano, tecnico e simbolico che è la medicina, raccontandoci la storia di un
corpo malato. Se Malinowski, padre dell’osservazione partecipante, cercava
di “cogliere il punto del nativo”, l’autrice in questo suo percorso si sdoppia
interpretando tanto il ruolo dell’osservatrice quanto quello del “nativo”,
dell’osservato. Un viaggio nella malattia visto dal di dentro, ecco cosa
emerge da questo racconto.
Nonostante la gravità del caso, Clara Gallini riesce a non perdere mai il
senso dell’ironia, che emerge già dal titolo del libro e che pervade l’intera
narrazione, riuscendo a rendere meno angoscioso il racconto, senza per
questo rinunciare alla profondità.
La vecchiaia è in qualche modo solitudine, ma anche sempre maggiore
attaccamento a cose e abitudini che ci hanno accompagnato nella vita. Le
abbiamo conservate, ripulite, messe in un certo posto e così, quando le
ritroviamo in ordine diverso, come accade all’autrice quando ritorna a casa
dall’ospedale, ci pervade un senso di spiazzamento, di estraneità nel
confronto di uno spazio che è il nostro, ma che per qualche motivo non lo
è più del tutto. Poiché come scrive Clifford Geertz “vedere il mondo in un
granello di sabbia non è un’operazione che solo i poeti possono fare”, Clara
Gallini parte dalle sue reazioni ai cambiamenti per avviare profonde e
interessanti riflessioni sulla memoria, su quali siano gli appigli a cui si
aggancia la nostra mente per poi fissare in qualche parte del cervello, fatti,
episodi, volti e voci della nostra esperienza.
Questo ripercorrere alcuni meandri del passato, conduce l’autrice a
ricordare la propria vita, fin dall’infanzia, trascorsa in quella casa grande, in
cui i bambini potevano scoprire luoghi segreti, angoli in cui giocare,
imparare. La casa grande di una famiglia borghese dove Clara è stata
educata come una bambina “per bene”, secondo i canoni dell’epoca e del
ceto, ma questo non le ha impedito di conoscere il dialetto cremasco e le
storie popolari raccontate da Lucia e da altre domestiche che servivano in
casa, nonostante alle bambine fosse proibito parlare in dialetto. Chissà che
non siano stati proprio questi veti a fare scattare, in futuro, la passione per
la ricerca antropologica e, nel caso particolare dell’autrice, per le culture
popolari.
Il racconto attraversa quasi un secolo di storia italiana (l’autrice è del
1931), passa attraverso l’esperienza della guerra e poi la ricostruzione, il
boom economico e ogni esperienza che affiora alla memoria, diventa
oggetto di analisi antropologica da parte di Clara Gallini, che si chiede cosa
è il gioco (categoria quanto mai sfuggente), rilegge la guerra, i riti popolari,
gli scherzi in famiglia: tutto diventa materiale di studio e questo a causa di
un male che ti costringe a stare ferma, a rivedere tutto il tuo cammino fino
all’oggi, a poggiare lo sguardo su quelle tante cose che, presi dalla
quotidianità, guardiamo di sfuggita o nemmeno vediamo.
Fino alla nuova convivenza con una badante, Abilia, con cui si deve
iniziare una nuova vita, quasi coniugale, dice l’autrice, solo il letto non
viene condiviso. La casa, lo spazio più intimo viene ridisegnato dalla nuova
condizione, tutto va riletto in una prospettiva a due, dettata dalla malattia.
Ecco allora l’ultimo viaggio etnografico, quello attraverso gli oggetti di casa,
quelli conservati perché legati a momenti significativi; anch’essi riemergono
dalla loro presenza scontata per rinascere a nuova vita grazie a uno sguardo
nuovo. Lo sguardo di chi osserva se stessa e la propria esistenza attraverso la
lente della fragilità della malattia e della vecchiaia. Ricordare diventa quindi
quasi un imperativo per ritrovare nell’ieri gli strumenti di lotta contro l’oggi
che ti affligge. Il tutto narrato sempre con incredibile leggerezza. A un certo
punto Clara Gallini racconta delle “visioni” che ha avuto dopo gli
interventi chirurgici e in altri momenti della malattia, in una delle quali era
addirittura morto l’ex Pontefice Joseph Ratzinger. Qui la capacità di
scrittura dell’autrice fa sì che si riesca a giocare sul filo del rasoio tra gravità
del fatto di perdere il senso della realtà e una certa leggerezza che induce a
guardare questi fatti con sorriso. In fondo, sono solo incidenti di percorso.
Pierluigi Ghianda
Marco Sironi
C’è un film del 2015 che ha come protagonista una casa. Si intitola: The
Price of Desire, opera della regista irlandese Mary McGuckian. Racconta la
storia della E-1027 (leggasi: E dieci due sette), la Maison en bord de mer, sita
a Roquebrune-Cap-Martin in Costa Azzurra, insieme a quella della sua
progettista, Eileen Gray (1878-1976), lei pure irlandese, che l’ha realizzata
tra il 1926 e il 1930.
E-1027 è un acronimo alfanumerico corrispondente al nome della Gray,
associato a quello di Jean Badovici (1893- 1956), suo compagno lavoro e di
vita in quel periodo, un architetto di origine rumena, che dirigeva
«L’Architecture vivante», una delle riviste di architettura più importanti del
tempo. E, infatti, sta per Eileen; mentre 10 indica la decima lettera
dell’alfabeto, iniziale di Jean; 2/B è l’iniziale di Badovici e infine 7
corrisponde alla G, prima lettera del cognome Gray.
In questa casa, Le Corbusier ha trascorso molte estati, ospite dei
proprietari, la coppia Gray-Badovici, appunto; innamorato di quel tratto di
Costa Azzurra e di quel mare che gli sarà purtroppo fatale. Vi ha abitato
fino a quando non si è costruito, lì nei pressi, Le Cabanon (1951), il suo
rifugio spartano e aniconico. Invece della E-1027 si era divertito a decorare
le pareti con sue pitture murali suscitando il disappunto della Gray che le
aveva invece concepite totalmente bianche, adorne solo della luce del
Mediterraneo. Sarà proprio a causa di questi murales che per lungo tempo
anche il progetto della E-1027 verrà attribuito a Le Corbusier.
Questa la trama del film e questa la vera storia della Gray, pioniera del
design e dell’architettura moderna prima ignorata, poi dimenticata ma per
fortuna oggi finalmente riconosciuta come una delle più alte interpreti
dell’arte del Novecento.
Eileen Gray ha nobili natali; figlia di Lady Eveleen Pounden Gray e di
James MacLaren Smith, un artista pittore scozzese, nasce a Bronswood, in
Irlanda, il 9 agosto 1878. Dopo aver intrapreso studi artistici a Londra, nel
1903 si trasferirà a Parigi, città nella quale trascorrerà il resto della vita,
fatto salvo che per brevi periodi di lontananza, dovuti a cause di forza
maggiore. A Parigi, frequenterà i corsi d’arte dell’Atelier Colarossi a
Montparnasse e poi dell’Académie Julian e sarà in questa città che inizierà
la sua attività di creatrice di oggetti in lacca cinese.
Il suo amore per la lacca cinese risale ai tempi di Londra, dove aveva
fatto anche un breve apprendistato in un atelier di Soho, e finirà per
connotare gran parte della sua produzione di arredi, portandola a realizzare
dei veri e propri capolavori nei diversi stili con cui si esprimerà nel suo
lungo percorso artistico. In lacca cinese è ad esempio la sedia Sirena del
1912, una sedia gondola visibilmente eclettica sia nella foggia che nelle
decorazioni scolpite; così come in lacca è il paravento Le Destin del 1914, a
suo modo Art Nouveau nel tratto sinuoso del segno; e pure in lacca è la
panca del 1920 anticipatamente déco nella sua asciutta geometria e ancora
in lacca è il tavolino De Stijl del 1924, absolument moderne.
Nel 1922 a Parigi, con l’aiuto di Badovici, con cui aveva stretto un
legame professionale già dall’anno precedente, la Gray aprirà la Galleria
Jean Désert, al numero 217 di rue du Faubourg-Saint Honoré, stabilendo
un duraturo rapporto di collaborazione anche con il maestro Seizo
Sugawara, esperto in lavori in lacca che proveniva dal villaggio di Jahoji, in
una zona del Giappone famosa per questo tipo di artigianato. La galleria
resterà aperta solo fino al 1930, quando sarà costretta a chiudere per
ragioni economiche. Gli oggetti creati dalla Gray e da lei proposti in
vendita resteranno per lo più sconosciuti al grande pubblico (soprattutto
per il loro costo elevato) e alla critica corrente (ancora avversa a una donna
imprenditrice), mentre annovereranno tra i loro estimatori intellettuali ed
artisti, tra i quali James Joyce, Elsa Schiapparelli e il couturier collezionista
d’arte Jacques Doucet (a cui, indirettamente, la Gray deve la sua
riacquistata fama).
Il rapporto di Eileen Gray con il linguaggio moderno dell’architettura
prenderà avvio nel 1923 grazie a Badovici che la metterà in contatto con Le
Corbusier, divenuto da subito un suo sostenitore, e continuerà alla mostra
sul Neoplasticismo, allestita quello stesso anno a Parigi dalla Galerie de
l’effort moderne, quando avrà modo di conoscere e di ammirare l’opera di
Gerrit Rietvelt. Da quel momento la Gray stringerà una duratura amicizia
con J. J. P. Oud, con il quale intesserà anche una nutrita corrispondenza, e
l’anno successivo renderà omaggio a Rietvelt chiamando De Stijl un suo
tavolino, mentre nello stesso anno la rivista olandese «Wendingen» (organo
ufficiale della Scuola di Amsterdam) le dedicherà un numero speciale. Negli
anni successivi inizierà poi a studiare l’opera dei designers del Bauhaus, e da
allora i suoi mobili e i suoi progetti risentiranno dell’influenza soprattutto
di Marcel Breuer, maestro nell’utilizzo del tubolare metallico, materiale che
da allora in poi la Gray impiegherà diffusamente coniugandolo spesso, in
modo sorprendentemente audace, alla raffinatezza della sua amata lacca
cinese, come nel caso della Petite coiffeuse, ad esempio.
Ma il suo ineguagliato capolavoro è la E-1027. Adagiata sull’impervia
scogliera rocciosa di Cape-Martin, ha pianta libera, tetto piatto, pareti
bianche con grandi finestre che si aprono da pavimento a soffitto e
consentono alla luce di inondarne gli interni, e poi una scala a chiocciola
dal tetto trasparente che conduce alle stanze degli ospiti, simile a quelle che
si trovano sulle navi, come se la casa fosse essa stessa una nave in procinto
di salpare per solcare il Mediterraneo. Qui Eileen Gray ha progettato ogni
minuto dettaglio, disegnando anche i mobili con criteri d’avanguardia.
Acquisita nel 1999 dal Conservatoire du littoral (l’istituto che tutela le
coste e le salva dal degrado, salvaguardandone il patrimonio naturale e
antropico), dopo un lungo periodo di abbandono in cui aveva subito
persino atti vandalici, la E-1027 nel 2000 è stata dichiarata monumento
storico dal Governo francese e contemporaneamente hanno preso avvio i
lavori di restauro che l’hanno riportata al suo antico splendore. Dal 2015 è
aperta al pubblico.
Purtroppo non ho conosciuto personalmente Eileen Gray, ma il mio
incontro con i suoi progetti di arredo è avvenuto poco dopo che questi
erano diventati famosi, quattro anni prima della morte dell’artista, che
aveva già più di novant’anni. E ciò è accaduto in seguito all’asta della
Collezione Doucet, uno dei più grandi stilisti parigini di inizio Novecento,
amatore d’arte, tra i primi a collezionare i mobili dell’artista irlandese
(insieme ad altri capolavori, quale, ad esempio, Les Demoiselles d’Avignon di
Pablo Picasso). All’asta Doucet, tenutasi a Parigi all’Hotel Drouot (8
Novembre 1972), un americano acquista il paravento Le Destin per
trentaseimila dollari e Yves Saint Laurent si aggiudica la sedia Dragon (si
tratta degli unici due pezzi firmati dalla Gray, dietro esplicito invito dello
stesso Doucet). La notizia fa subito scalpore e rimbalza sui principali
quotidiani, da «Le Figaro» a «Le Monde», dal «Times» all’«Herald Tribune»
e il nome della Gray riemerge dall’ombra dando così impulso alla ripresa di
interesse per le sue creazioni. In quello stesso anno si tiene a Londra, alla
Heuinz Gallery, organizzata dal Royal Institute of British Architects, la sua
prima mostra monografica, dal titolo Eileen Gray: pioniera del design, lo
stesso titolo che aveva utilizzato qualche anno prima lo storico
dell’architettura Joseph Rykwert per il suo articolo, pubblicato su «Domus»
nel dicembre 1968, il primo e unico articolo fino a quel momento dedicato
alla Gray da una rivista di settore, dopo quelli di Badovici degli Anni Venti
e quello del 1924 di «Wendingen», con il testo di Jan Wils, uno dei
firmatari del Manifesto del De Stijl. E nel 1979, sempre a Londra, il V&A
Museum le dedica una nuova mostra, organizzata dallo Scottish arts
Council e una sua mostra si tiene anche all’Architectural League of New
York. Poi più nulla fino al 2002, quando il National Museum of Ireland
acquisisce il suo intero archivio e allestisce un’esposizione permanente delle
sue opere a Dublino.
In seguito al fermento che consegue all’asta del 1972, anche il mondo
del design “riscopre” l’opera della Gray, con particolare interesse per i pezzi
da lei disegnati per la E-1027. Allora una ditta tedesca, che ne aveva
licenza, contatta mio padre affinché rimetta in produzione alcuni tra i più
begli arredi di quella casa. Attualmente sono tre nel mondo i brand
legittimati a riprodurre gli oggetti di Eileen Gray: uno è a Londra, uno a
Parigi e l’altro a Monaco di Baviera. A quel tempo io frequentavo la Facoltà
di Architettura e ciò di cui non si sentiva parlare in aula era invece
argomento quotidiano a casa mia. Si tratta di mobili in legno laccato di rara
bellezza (la Petite coiffeuse, la Table portable, la cassettiera Cap Martin e uno
dei numerosi paraveti presenti nella villa), purtroppo ancora poco noti al
grande pubblico, nonostante la grande mostra che il Centre Pompidou ha
recentemente dedicato all’artista irlandese (2013) nella speranza di
diffonderne la conoscenza.
Eileen Gray è morta all’età di novantotto anni ed è stata sepolta a Parigi
al Père-Lachaise, il cimitero degli artisti, ma i suoi mobili continuano a
riscuotere enormi successi. La poltrona Dragons (1917-19), ad esempio, nel
febbraio del 2009, a Parigi, all’asta della Collezione di Yves Saint Laurent et
Pierre Bergé, ha battuto il record d’asta per i mobili del XX secolo; è stata
infatti acquistata dalla gallerista Cheska Vallois per la cifra di 21,9 milioni
di euro.Nel novembre del 2011, poi, sempre in un’asta parigina, la poltrona
Transat (1926-27), progettata nel 1920 per la camera da letto del
Maharajah di Indore, nell’India centrale, ha raggiunto la cifra di un milione
di euro. Capolavoro del design modernista, è una dei nove esemplari
documentati sui dodici originali realizzati dalla Gray.
Ma al di là di questo, resta il fatto che Eileen Gray è stata la prima
donna architetto ad aver progettato e realizzato, nell’insieme e nei dettagli,
un ineguagliato capolavoro dell’architettura moderna, la E-1027 con il suo
straordinario corredo di mobili, veri must del design del XX secolo.
Giovannino Guareschi
Alberto Volpi
Per alcuni ha cambiato la faccia del rock. Per altri è il maestro assoluto della
chitarra elettrica, colui che per primo ha saputo indagarne le prerogative e
sondarne le potenzialità, facendole combaciare con le inquietudini di una
generazione. Jimi Hendrix – o più semplicemente Jimi, come lo riconosce e
venera il popolo del rock – è scomparso giovanissimo, il 18 settembre del
1970, a soli 27 anni. Ricordarlo oggi, a cinquant’anni dalla morte, significa
anche fissare in qualche modo una prospettiva: cinquant’anni di musica
dopo di lui, cinquant’anni di musica rock senza Hendrix. Una vertigine, per
chi lo ha amato. Da questa prospettiva emerge un musicista immenso, che
si avventurò verso l’ignoto sperimentando direttamente sul pubblico la
coincidenza perfetta fra un suono infine liberato e una mente collettiva che
ambiva a fare altrettanto.
Partirei, provocatoriamente, da ciò che un maestro di solfeggio
inquadrerebbe con ogni probabilità come un difetto, una tara da correggere
prima che la negligenza assuma carattere cronico. Provate a mettere sul
piatto del giradischi una canzone di Hendrix e a far partire un metronomo
al tempo con cui Jimi attacca il pezzo. E poi verificate quante volte brano e
metronomo vanno fuori sincrono. Oppure prendete una traccia digitale di
un brano di Jimi e apritela su un soware di editing musicale (diciamo Pro-
Tools, il soware oggi comunemente impiegato nella maggior parte degli
studi di registrazione), così che vi appaia l’onda sonora della traccia, e
misurate con quale frequenza cambiano i bpm (battiti per minuto) nel corso
del brano. C’è un tale su Youtube che l’ha fatto. Restereste probabilmente
sorpresi. Non succede sempre, ma succede con una frequenza che
raggelerebbe il maestro di solfeggio di cui sopra. Cosa farebbe, oggi, un
tecnico del suono di fronte a queste variazioni? (La parola variazioni non è
scelta a caso, avrei potuto scrivere, impropriamente, imprecisioni).
Nell’impossibilità di ingiungere a Hendrix di ripetere il brano (ma a tempo
stavolta!), correggerebbe digitalmente quelle variazioni. Aggiusterebbe, atto
sacrilego, Jimi Hendrix. E nel farlo lo farebbe suonare giusto, una giustezza
che probabilmente non avrebbe facoltà di impoverire o stravolgere la sua
musica, ma di sicuro non la migliorerebbe.
Jimi Hendrix, a differenza di quanto succede oggi in studio d’incisione,
non suonava facendosi guidare dal click (il metronomo in cuffia, nel gergo
dei musicisti). Hendrix, pur correndo o rallentando, portava in dote qualcosa
di immensamente più essenziale alla sua idea di musica che non il click o il
suonare a tempo: un senso innato e fenomenale del ritmo, una propulsione
naturale che nessun metronomo sarebbe mai in grado di fissare. Quando
pensiamo ai grandi chitarristi della storia del rock abbiamo tendenza a
catalogarli sulla base dei meriti solistici. Un bravo chitarrista rock è colui
che prende gli assoli più spericolati, meglio ancora se condotti a una
velocità degna di Usain Bolt (lo stesso vale per gli arpeggi da fachiro, il
tapping, e tutte le diavolerie e le contorsioni di cui ci hanno fatto dono i
virtuosi della sei corde). Ciò che elevava, e in buona parte ancor oggi eleva
Jimi Hendrix al di sopra della concorrenza, era il suo straordinario senso
ritmico. Jimi era uno dei pochi musicisti rock neri dell’epoca (sul palco di
Woodstock di musicisti di colore c’erano soltanto lui, Richie Havens e Sly
Stone, ma dei tre Jimi era il solo di ascendenza rock), e il suo senso del
blues, del funk, del soul o del rhythm’n’blues non era da intendersi tanto in
termini di dimestichezza con un dato genere o di maggior attinenza con la
tradizione afro-americana, quanto in termini di preminenza assoluta del
ritmo su tutti gli altri elementi musicali, osservanza metronomica
compresa.
Il ritmo, in Jimi Hendrix, è un umore fluido che sta in diretto dialogo
con il timbro, l’armonia e la melodia, ma soprattutto con l’energia dalla
quale il musicista o i musicisti si sentono investiti e spesso travolti. Il ritmo
in Hendrix è la matrice da cui muove tutto il resto. Si pensi soltanto a un
brano come Voodoo Chile, e alla celebre introduzione in cui Jimi, prima di
suonare il tema con il pedale wha-wha, si limita a percuotere con il plettro
le corde dello strumento senza suonarle. È uno degli accorgimenti dietro
cui si esplicita una delle tante tecniche di cui Jimi fu il precursore: battere
tutte le corde della chitarra facendone risuonare una soltanto, facendo
coincidere ritmo e melodia, accompagnamento e voce solista.
Un’evoluzione vertiginosa rispetto a ciò che Robert Johnson aveva
introdotto trent’anni prima in ambito di blues acustico, quando sovrappose
la voce solista a quella dell’accompagnamento ritmico.
Sforzarsi di capire ciò che Jimi Hendrix combinava con lo strumento è
cruciale per cogliere appieno il suo rivoluzionario apporto al rock. Prima di
lui la chitarra elettrica era una chitarra acustica con un filo attaccato a un
amplificatore, poco più. Jimi da un lato ne esplorò le potenzialità sonore
grazie agli effetti e all’amplificazione: la saturazione del segnale grazie al
pedale di distorsione fuzz, il pedale wha-wha (che restituisce un suono
simile al vagito di un neonato, non a caso detto cry baby), il feedback, il
pedale Uni-Vibe (che imitava il suono dell’amplificatore Leslie usato come
complemento ai primi organi Hammond a ruote foniche – si pensi a Rick
Wright dei Pink Floyd o a Jon Lord dei Deep Purple), la famosa leva del
tremolo della sua Fender Stratocaster (un vibrato, in verità, perché modifica
l’intonazione, non il volume), che in Jimi assumeva le sembianze della leva
di Archimede (datemi un punto di appoggio e solleverò la Terra), non di un
accorgimento atto a far palpitare il cuore con un fremito che fu anche
morriconiano e più avanti tarantiniano (come dimenticare gli Shadows di
Apache?). Quella leva fu un espediente chiave per Hendrix. Se ne servì per
sovvertire il mondo, per distorcerlo e piegarlo fino alla svasatura. Ogni volta
che metteva mano alla leva del tremolo, Jimi non lo faceva per
compromettere in modo impercettibile l’equilibrio dell’intonazione, ma
nell’ottica di squarciare il suono, lo strumento e, di fatto, il mondo intorno
a sé. Più che una leva, un vero e proprio argano che non da ultimo
produceva sconquassi sull’accordatura dello strumento (provare per credere:
piegate la leva del tremolo come faceva Jimi, e vi toccherà accordare da
capo la chitarra). Oggi che tanto va di moda l’autotune – uno strumento
digitale nato per correggere le stonature ma che poi ha sviluppato
un’estetica tutta sua in ambito di musica trap – fa davvero strano pensare a
un musicista che usava la forza delle sue braccia per catapultare il suono
dello strumento in una dimensione altra, di alterità percettiva prima ancora
che tonale.
Da un lato gli effetti, e dall’altro la mano. Nessuno prima di Hendrix
aveva mai suonato la chitarra elettrica con tanta naturalezza (verrebbe da
dire in tutta scioltezza). Tutto, nello stile e nell’esecuzione, appare
armonioso e fluido. Jimi conosceva la sua chitarra come le sue tasche.
Vedendolo suonare poche cose risultano evidenti quanto la simbiosi ch’era
riuscito ad instaurare con la sua Fender, una simbiosi che si esplicitava
anzitutto nel modo in cui Jimi poneva la mano sul manico della chitarra
(per un approccio ergonomico a Hendrix). Proprio come per i tennisti –
dimmi come impugni la racchetta e ti dirò che tennista sei e a quale gioco
toccherà predisporsi – così l’impugnatura di Hendrix raccontava molto del
suo stile, e del perché Hendrix suonasse a quel modo. Il fraseggio di
Hendrix è conseguenza diretta di come il musicista poneva la mano sul
manico dello strumento: l’uso del pollice per suonare le corde basse, la
messa al bando del barré, l’angolo di incidenza che consentiva alle dita di
spostarsi con la massima fluidità lungo il manico dello strumento, la
lancinante perfezione del bending (la piegatura, un effetto di glissando
molto usato nel blues e nel rock che consiste nel “piegare” le corde al fine
di alterarne l’intonazione), dovuta in parte proprio al modo in cui Jimi si
serviva del pollice a mo’ di ancora. Jimi non suonava quasi mai degli
accordi in senso stretto, preferiva di gran lunga muoversi per triadi (le tre
note fondamentali che compongono gli accordi, maggiori o minori che
siano, la matrice del sistema armonico tonale occidentale). Se c’è un
elemento, fra i tanti, anche fra quelli più ovvi e più unanimemente
riconosciuti che fa l’originalità di Hendrix, il suo modo di muoversi per
triadi è quello meno sottolineato ma, al tempo stesso, quello che determinò
in modo forse più evidente l’originalità del suo stile. Quei suoi abbellimenti
così caratteristici furono un’emanazione diretta del suo modo di combinare
e di muoversi con straordinaria disinvoltura per triadi. Lo stesso vale per il
cosiddetto accordo di Hendrix reso famoso da Purple Haze e da Foxy Lady,
l’accordo di settima dominante che con l’aggiunta della nona aumentata
(7#9) fa di fatto coesistere la terza maggiore e la terza minore, creando una
dissonanza ideale per il funk sporco tanto caro a Jimi e determinando nel
contempo un’indeterminatezza armonica di cui prima del rock pure il jazz
aveva già saputo far tesoro. Anche questo, nel “sistema” Hendrix, era frutto
del suo particolare modo di porre le mani sullo strumento: quell’accordo
inconsueto si materializzava da sé, in modo naturale, grazie all’angolo di
incidenza della mano.
Chi si addentra nello stile di Hendrix, da musicista o da semplice
curioso di cose musicali, scopre insomma un sistema estremamente
originale, insieme semplice da comprendere ma di enorme complessità sul
piano esecutivo. Il problema, per il musicista che ha l’ambizione di imitarlo,
è che Hendrix faceva un sacco di cose simultaneamente, sul piano ritmico e
armonico, su quello melodico e sonoro, con un alto grado di perfezione
tecnica cui si sommava l’impareggiabile espressività artistica. Il suo stile è
stato studiato nel dettaglio nel mezzo secolo trascorso dalla sua morte, ma
il senso di stupore e di ammirazione che proviamo nel vederlo suonare la
chitarra restano immutati: come diavolo fa? È una specie di miracolo che
un musicista sia riuscito a determinare, da solo, più che uno stile (suonare
alla Hendrix), il modo stesso di suonare il rock su una chitarra elettrica. Il
suo sistema – e per sistema s’intenda per l’appunto qui l’insieme di
tecniche e di accorgimenti che usava suonando – era di una ricchezza tale
che avrebbe potuto tenere la mano fissa sul manico della chitarra per tre
minuti traendone una mezza sinfonia di suoni (si ascolti, a titolo d’esempio,
l’assolo in studio di Hey Joe, una semplice scala pentatonica presa e tenuta
al dodicesimo tasto per tutto l’assolo, anche per consentirgli di eseguire dal
vivo quell’assolo coi denti e con lo strumento tenuto dietro la nuca, ma
dentro cui però si dipana un’incredibile varietà di soluzioni). Stevie Ray
Vaughan, forse l’allievo di Jimi che meglio seppe far tesoro e costruire
sull’esempio del maestro, ne diede a sua volta un brillante esempio in
Couldn’t stand the weather: massima economia di movimenti per il massimo
effetto. Il riff, espressione di quel funk sporco e disinvolto tanto caro a Jimi,
è implacabile, e lì dentro succede di tutto, parte solista e accompagnamento
sono una cosa sola.
Il peculiare stile di Jimi Hendrix alla chitarra è insomma l’equivalente,
per l’appassionato, del Sacro Graal. V’è depositata l’essenza stessa del rock,
oltre che una delle più dirette vie d’accesso alla sua comprensione. Questo
in parte spiega perché, a cinquant’anni dalla morte, Hendrix sia ancora
considerato un faro dal quale è impossibile prescindere, e perché ogni
giovane chitarrista, scoprendo Jimi, ha la sensazione di imbattersi nella
matrice stessa del rock. Ciò che affascina, in lui, è anzitutto la sensazione di
essere al cospetto di qualcosa di primordiale. Tutto in Jimi è essenziale.
Suonando non si discosta mai da quei principi, si limita ad abbellire e a
impreziosire quella materia primordiale, senza mai allontanarsene
veramente. Ascoltandolo si avverte in modo distinto la sorgente, il punto di
calore. Comprensibile, ma anche fuorviante, che molti si dilunghino sugli
aspetti tutto sommato di contorno di Hendrix, quel funambolismo a tratti
un po’ circense: suonare la chitarra con i denti o dietro la schiena, bruciare
lo strumento sul palcoscenico, i vestiti sgargianti, e persino la dimensione
psichedelica di cui fu senza dubbio uno degli esponenti di spicco. Elementi
comuni all’epoca, e pur riconoscendo che Jimi debba essere inquadrato
dentro gli anni ’60 (eravamo partiti proprio da lì, se ricordate), è altrettanto
vero che per coglierne al meglio il rilievo e il persistente primato di
alchimista elettrico e di guru del rock, è necessario capire che ad attrarre in
lui non sono tanto le bandane o gli assoli a manetta, ma la centralità
animale del ritmo e il fatto che quel ritmo ha ancora facoltà di proiettarci
dentro qualcosa di essenziale e di non derivato. Un tempo interiore, l’unico
davvero in grado di farci intravedere – capire forse no, ma almeno
intravedere, questo sì – il mistero della creazione.
Etty Hillesum
Anna Stefi
per comprendere la guerra dobbiamo […] riconoscere che essa è un accadimento mitico, che
coloro che vi sono immersi sono proiettati in uno stato d’essere mitico, che il loro ritorno da
quello stato sembra inesplicabile razionalmente e che l’amore per la guerra dice di un amore per
gli dèi della guerra; e che nessun’altra interpretazione (politica, storica, sociologica,
psicoanalitica) può penetrare (ed ecco perché la guerra rimane ‘non immaginabile’ e ‘non
comprensibile’) fino agli abissi disumani della crudeltà, dell’orrore e della tragedia e fino alle
altezze transumane della sublimità mistica.
Una volta, secondo una formula rituale in uso negli Stati Uniti, venivamo benedetti nei templi
per il nostro ‘entrare e uscire’. La benedizione considerava l’uomo come un essere che si muove,
un’anima con dei piedi, un essere fisico entro un mondo fisico fatto per camminarci, come
Adamo ed Eva camminavano nell’Eden. Quel giardino è il luogo primordiale
dell’immaginazione, per la nostalgia che inconsciamente ricorre in tutti i sogni utopici. E quel
giardino venne creato, come ricorderete, da un Dio che camminava. Quell’immagine dice che c’è
in Paradiso il camminare; e dice anche che c’è un Paradiso nel camminare.
Adolf Hitler
Claudio Vercelli
Il tempo trascorre anche per il Mein Kampf. Passati settant’anni dalla morte
del suo autore, e novanta dalla prima edizione, sono scaduti i diritti
d’autore, saldamente posseduti dal ministero delle Finanze della Baviera. Il
Land, infatti, li custodiva su assegnazione delle stesse potenze alleate,
vincitrici della Seconda guerra mondiale. Sulla base del diritto di
occupazione, le autorità militari avevano proceduto all’esproprio dei beni
del partito nazionalsocialista e delle organizzazioni ad esso affiliate.
Medesima sorte era toccata al testo del capo supremo del Terzo Reich. A
Monaco Hitler aveva mantenuto per tutta la sua vita la residenza. Quella
città era stata per il movimento nazionalsocialista la vera culla, la terra
elettiva, il luogo da cui partire per poi diffondersi in tutta la Germania e
oltre. Il mandato conferito al nuovo governo bavarese nel 1945 implicava il
divieto di pubblicazione e di diffusione del testo. Una disposizione tanto
perentoria quanto frequentemente aggirata attraverso le copie pirata, le
ristampe anastatiche clandestine, le versioni tagliate o ridimensionate (in
formato copia e incolla), le traduzioni infedeli, l’antiquariato esercitato in
un primo tempo sottobanco, fino al materiale oggi liberamente disponibile
sul web.
Da sempre, in deroga a vincoli e sanzioni, si è comunque avuto a che
fare con una diffusa circolazione underground, alimentata da un’editoria
neonazista e filofascista che, tuttavia, con quel testo, ha sempre
intrattenuto un rapporto irrisolto, trattandosi di un oggetto di culto, al
limite del feticcio, ma anche di un repertorio demagogico, messo su carta e
inchiostro, alla prova dei fatti scarsamente leggibile, quindi al limite della
noia più insopportabile se non peggio. Ad essere incoerenti, peraltro, erano
state anche le stesse autorità della Repubblica federale di Germania. A
fronte del ripetuto divieto, periodicamente rinnovato, al quale negli ultimi
due decenni sono andati contrapponendosi molti studiosi, denunciandone
il vuoto anacronismo, già nel 1979 la più alta magistratura tedesca, la Corte
suprema federale, aveva statuito che le copie d’antiquariato (leggasi: quelle
sopravvissute al 1945) potessero essere liberamente commerciate.
Esplicitando e legittimando in tale modo quanto già accadeva
clandestinamente. Un oggetto di culto, per l’appunto feticistico, che si
alimenta a tutt’oggi della relazione tra la dimensione totemica (il costituire
una sorta di presunta pietra miliare del pensiero “maledetto”) e quella di
tabù (un limes da non superare che, per il fatto stesso di darsi, solletica
attrazioni e seduzioni in absentia).
Il titolo originario dell’opera sembrava peraltro essere fatto apposta per
lasciarsi sfuggire i potenziali lettori: Quattro anni e mezzo di lotta contro
menzogne, stupidità e codardia. In realtà era in piena sintonia con la
maniacale logorrea del suo autore. Saviamente, Max Amman, proprietario
della Franz Eher-Verlag, casa editrice legata all’allora ancora fragilissimo
partito nazionalsocialista, convinse lo stesso Hitler a sceglierne uno più
appropriato al “grande pubblico”. Anche da ciò, quindi, il Mein Kampf,
affresco al medesimo tempo scadente, verboso, maniacale e delirante di
filosofia della storia, ritenuto il programma politico del nazismo e del suo
massimo capo e come tale somministrato ai tedeschi (e non solo) fino al
1945. Forse chi meglio ne ha identificato l’intima natura, con un’icastica
affermazione, è il filosofo Alexandre Koyré, quando lo definì, attraverso un
durissimo ossimoro, una “cospirazione alla luce del sole”. Un testo la cui
fortuna seguì di pari passo quella che il futuro Führer della Germania riuscì
a garantire al suo partito politico, poi trasformatosi in regime: una
diffusione contenuta fino alla fine degli anni Venti, per diventare poi un
fenomeno editoriale quasi continentale nel decennio successivo.
Tanto per intendersi, poiché i numeri contano, dal 1925, anno della
prima edizione, all’inizio del cancellierato hitleriano, nel gennaio del 1933,
si contavano complessivamente 241mila copie vendute nella sola Germania
di Weimar. Più analiticamente: entro il 1929 la prima parte dell’opera
aveva raggiunto le 23mila copie, la seconda 13mila. Si era in presenza,
infatti, non di un testo ma di due volumi, successivamente unificati. Un
freno alla diffusione era il prezzo, dodici marchi, relativamente alto per
l’epoca. Nello stesso anno in cui avviene, secondo la genealogia nazista,
“die Machtergreifung”, “la presa del potere”, nel senso dell’assunzione del
dominio totale sulla società tedesca, le copie schizzano immediatamente a
un milione. Dopo di che agli acquisti volontari si accompagnano sia il
fenomeno della cessione gratuita ai giovani incorporati nella Werhmacht, il
rinato esercito tedesco, che il dono offerto dalle autorità pubbliche alle
coppie celebranti le nozze davanti a Dio (e a Hitler). Tra il 1943 e il 1945 la
diffusione raggiunge e supera i dieci milioni di copie, contando sulla
traduzione in poco meno di una ventina di lingue. Un best-seller, in buona
sostanza, in grado di fruttare diritti per almeno una quindicina di milioni di
marchi tedeschi dell’epoca (patrimonio di Hitler, in parte poi sequestrati a
guerra conclusa dagli Alleati). D’esso, peraltro, si è detto molto, quasi
sempre senza averlo per davvero conosciuto, se non altro perché non si fa
desiderare e ancora meno leggere. Le stime di lettura reputano che un
quinto dei tedeschi negli anni del nazismo lo abbia sfogliato almeno in
parte. Ma il suo essere “il libro dei tedeschi”, come recitava uno slogan
allora diffuso, non ha mai avuto pieno riscontro. Il Mein Kampf, ne
affermano detrattori come anche apologeti, conterrebbe peraltro “tutto” il
programma del regime hitleriano, a partire dalle cose peggiori, come lo
sterminio degli ebrei. Non è propriamente così. In realtà la fortuna di un
volume che era e rimane un indigeribile mattone (come dimensioni e per
l’impasto di apocalittica teleologia e di fraudolenta metafisica di cui è
fatto), ha oscurato la sua stessa origine e natura.
Qualche ulteriore dato può quindi tornare utile per ridefinire la trama
del discorso, che riguarda non ciò che il testo dice ma il perché un’opera
confusa e noiosa sia assurta a “vangelo” di una “comunità di stirpe”. Chi
più e meglio ne ha ricostruito la traiettoria nei tempi della sua maggior
auge è Othmar Plöckinger, in Geschichte eines Buches: Mein Kampf, 1922-
1945, uno studio comparso presso l’«Oldenburg Wissenschasverlag» nel
2006, con il sostegno dell’autorevole Institut für Zeitgeschichte di Monaco.
Lo stesso autore, insieme a Christian Hatmann, Thomas Vordermayer e
Roman Töppel, si appresta a licenziare Hitler, Mein Kampf: Eine kritische
Edition, sotto l’egida della medesima istituzione culturale. Si tratta di
un’imponente pubblicazione, di circa duemila pagine, con tremilasettecento
note di corredo. Intorno alle fortune (e alle disgrazie) che il testo ha
raccolto nel corso del tempo si sono esercitati altri studiosi come Karl
Lange, Caesar Aronsfeld, James Barnes, Eberhardt Jäckel, Werner Maser,
Barbara Zehnpfening e pubblicistici quali Antoine Vitkine. Detto questo,
qualche passo indietro va pur fatto, se non altro per meglio comprendere la
ragione della querelle in corso in queste settimane riguardo alla sua
fruizione da parte del grande pubblico. Si tratta, come va fatto in questi
casi, di contestualizzare e storicizzare un prodotto al limite della mitografia.
Tutto ruota intorno alla figura del suo “estensore”, per l’appunto Adolf
Hitler. Nel 1919 è un ex caporale privo di arte e di parte. Soprattutto privo
di guerra, dove invece aveva trovato una “sua dimensione”, avendo vissuto
“i tempi più indimenticabili e sublimi” della sua vita. Smobilitato ma non
congedato, è tornato al punto di partenza, quello di un individuo en voie de
clochardisation, ossia sull’orlo della catastrofe personale. Di lui dirà
successivamente il suo reclutatore Karl Mayr (assassinato a Buchenwald, nel
1945) che pareva essere “un cane errabondo alla ricerca di una guida”.
L’incarico che il graduato Hitler riceve è di infiltrarsi nel pulviscolo di
movimenti ultranazionalisti dell’estrema destra. Di fatto, avviene l’opposto,
rimanendone da subito pervaso per poi ritagliarsi un ruolo crescente di
capopopolo. Le cronache successive sono sufficientemente note anche solo
per ripeterle sommariamente. Punto di non ritorno, ed evento
periodizzante fu il Bürgerbräu-Putsch, l’abortito tentativo di colpo di Stato
ordito e attuato dallo stesso Adolf Hitler tra l’8 novembre ed il 9 novembre
del 1923, assieme ad altri leader del “Kampund”, tra cui il generale Erich
Ludendorff, icona dell’ipernazionalismo antidemocratico negli anni della
Repubblica di Weimar. Il “Kampund”, per inciso, era la lega delle “società
patriottiche” che raccoglieva una discreta parte del pulviscolo associativo
della destra radicale tedesca, soprattutto di quella monacense. Il tentativo
di ribaltare i poteri legali bavaresi in realtà si era velocemente risolto alla
stregua di una baruffa chiozzotta se non ci fossero stati i quattordici morti
che i nazisti contarono tra le loro file, complice la reazione armata di un
centinaio di poliziotti neanche troppo agguerriti.
L’istrionismo del futuro capo assoluto della Germania (figura attoriale
nelle birrerie del sud della Germania, luogo strategico nella formazione
dell’opinione pubblica maschile), la teatralizzazione di un evento politico
marginale (la marcia disordinata, per le strade di Monaco, di un assortito
gruppo di “ribelli”, guidati da un recalcitrante Ludendorff e dai piccoli
leader della destra radicale), la pochade consumatasi con il tentativo di
piegare una parte delle autorità alle proprie ragioni (nel mentre quelle
stesse, fingendo acquiescenza, si attrezzavano per reagire e provvedere a
neutralizzare gli insorti) nulla poterono della “forza di volontà” che Hitler e
la sua truppa raccogliticcia ritenevano d’incarnare. Lo smaccato insuccesso
politico contribuì, come la mitografia si sarebbe incaricata di celebrare, ad
istituire una contro-narrazione, quella del lavacro del sangue, il “sacrificio
dei martiri”, sulla scorta della quale Hitler e la sua accolita potevano ora
contare per darsi un contegno e, soprattutto, una visibilità pubblica che
fino ad allora gli erano mancati. Il 1° aprile 1924 Hitler, accusato di alto
tradimento, venne quindi condannato dal tribunale di Monaco a cinque
anni di prigione. La pena, rispetto ai capi d’accusa, era mite, grazie anche
alla compiacenza delle autorità e, in immediato riflesso, della stessa corte
giudicante. Ancor più mite fu il periodo di “residenza” nella fortezza di
Landsberg am Lech. Esauritosi molto presto, il 20 dicembre dello stesso
anno. Del prigioniero, con il quale il direttore del carcere Otto Leybold
simpatizzava apertamente, era detto sui fogli di servizio e nelle note
caratteriali che: “si mostra disciplinato e ordinato. È docile, senza pretese e
modesto. Esercita sugli altri detenuti un’autorità salutare”. Il breve
intermezzo carcerario fu trascorso dal condannato per dare quindi forma al
pensiero che gli mancava. Di certo i convincimenti, ossidati e cristallizzati,
non gli difettavano, precedendo i fatti del 1923. Lo storico Ian Kershaw,
nella monumentale biografia che ha dedicato a Hitler, identifica negli anni
precedenti al 1914 lo stratificarsi e il concatenarsi di una serie di idee
ossessive che poi, con la Prima guerra mondiale, si sarebbero incontrate con
l’esperienza dei combattimenti per detonare nel momento della sconfitta
tedesca. Mancava tuttavia un testo di riferimento che costituisse la
certificazione di una volontà. Una prima parte del pensiero fu quindi
dettata dal futuro dittatore al seguace e fedele amico Rudolf Hess, sodale di
prigionia. In tutta probabilità, dinanzi alle vivaci e inconcludenti ellissi di
pensiero ma anche rispetto alle numerose sgrammaticature, alla sintassi
pencolante, all’infantilismo di molte idee, una parte non secondaria la ebbe
l’intervento del cappellano del carcere Bernhard Stempfle, il quale si
incaricò di mettere ordine nel guazzabuglio di suggestioni. Quest’ultimo, va
detto, fu ricompensato con l’assassinio, una decina di anni dopo, quando
l’oramai capo assoluto della Germania regolò i conti con le componenti
non “conformi” o non normalizzate del nazismo, durante quella che fu poi
universalmente conosciuta come “Nacht der langen Messer”, la “notte dei
lunghi coltelli”, tra il 29 e il 30 giugno 1934.
Manteniamo tuttavia il passo. L’opera hitleriana esce in due tempi. Il
primo volume, Eine Abrechnung, Un resoconto, poi conosciuto anche come
Mein Leben, vede la luce editoriale nell’estate del 1925. Ha una natura più
strettamente autobiografica. Il secondo, Die nationalsozialistische Bewegung,
Il movimento nazionalsocialista, l’anno a seguire. In Italia, segnatamente,
traduzione e diffusione dateranno al 1934, per i tipi della Bompiani, seguite
da più ristampe, fino al 1943. Il testo, malgrado i rimaneggiamenti che
verrà subendo anche successivamente alle prime edizioni, si rivelerà da
subito di difficile fruizione. Rispetto all’agilità tipica dei manifesti politici –
dei quali ha la presunzione di esserne in qualche misura l’espressione – e
alla vivacità espressiva dei pamphlet, categoria cui non appartiene anche se
in qualche modo ne occhieggia la disinvolta descrittività e la furbesca
prescrittività, è in realtà il precipitato di una visione messianica e, al
medesimo tempo, apocalittica della politica, dove l’antisemitismo fa premio
su qualsiasi altra considerazione. A ciò si ricollegano le formulazioni
razziste sulla superiorità della “razza ariana”, sulla necessità di dotarsi di
uno “spazio vitale” rivolto ad Est, sul nesso tra “giudaismo” e bolscevismo,
sull’indefettibilità di un “socialismo nazionale”, sul nazismo come
compimento e superamento del cristianesimo, sulla funzione messianica
della politica e così via, il tutto condito in una salsa apocalittica.
Detto questo, è assai poco utile andare oltre nello sforzo di analisi.
Poiché, e qui interviene la questione lasciata in sospeso, la scadenza dei
diritti d’autore fa sì che dal 2016 si possa provvedere a una sua nuova
diffusione, dopo la impossibile damnatio memoriae a cui l’opera per
eccellenza dell’ideologia nazionalsocialista era stata condannata con il
1945. In realtà la questione è ben più complicata di quella evocata da una
vertenza giuridica sulla proprietà intellettuale, in sé peraltro già risolta dalla
normativa vigente. Basta aggiungere che i settant’anni trascorsi, in questo
caso, non sono solo quelli che la legge prevede riguardo alle questioni
relative alla destinazione e alla fruizione dei proventi di un bene privato ma
rinvia, da subito, all’assillante problema di fondo: dopo quasi tre quarti di
secolo dalle tragiche vicende causate dall’ideologia nazista siamo in grado
di leggerne il testo di riferimento senza che esso interferisca con la
formazione di un giudizio articolato?
Le questioni richiamate sono molteplici. La prima di esse, dai più invece
incompresa, rinvia all’autore. Il testo, infatti, non parla in assenza di colui
che gli ha dato corpo. Poiché il Mein Kampf è il “romanzo di una
rivelazione”. Del pari al genere del Bildungsroman, sotto la coltre di
riferimenti pseudofilosofici, la valanga di predizioni, il tono al medesimo
tempo aggressivo e assertivo, si intravede l’autocelebrazione del demiurgo.
Di sé l’autore offre il calco dell’“Übermensch”, l’uomo che va oltre se
stesso. Si tratta della parte più interessante del libro, dove Hitler dà la stura
alla sua vocazione monomaniacale, quella in cui incentra, tolemaicamente,
l’universo intorno a sé. Scriverà nel 1939 Thomas Mann, in Fratello Hitler:
“se non ci toccasse assistere al continuo orrore delle vittime che la fatale
vita interiore di quest’uomo miete, se non dovessimo assistere alle
devastazioni morali che ne derivano, sarebbe più facile confessare che il
fenomeno della sua esistenza ci affascina”. La figura di Hitler rimane
peraltro agli occhi dei suoi contemporanei un clamoroso esempio di
mobilità dal basso verso l’alto, rendendo la sua vita un’opera
drammaturgica, dove però il protagonista non si arrampica per la scala
precostituita della piramide sociale ma, in qualche modo, dà l’impressione
di riuscire a capovolgerla. Si tratta solo di una suggestione – il combinato
disposto dei grandi interessi tedeschi dell’epoca non solo non fu in alcun
modo intaccato dall’ascesa dei nazisti ma, piuttosto, ne uscì rafforzato –
tuttavia è esattamente il senso che i nazisti e i fascisti danno alla parola
“rivoluzione”, di cui si appropriano, riconoscendone bene le proprietà
agglutinanti e quindi scippandone il conio alla sinistra. La farraginosità del
Mein Kampf non depone in alcun modo contro il volume e, ancor meno,
contro il suo autore. Lo consegna semmai a una falsa dimensione iniziatica,
a volere deliberatamente confondere la sua incomprensibilità, il dettato
incongruo così come a tratti lucidamente delirante, con la critica della
complessità del mondo che dice di volere interpretare. In questo suo modo
di proporsi al lettore dell’epoca raccoglie e sviluppa le fortune della
libellistica e della saggistica della destra radicale a cavallo tra due secoli,
incentrata essenzialmente sulla critica antisemitica del capitalismo,
quest’ultimo inteso come il prodotto finanziario di un processo di
espropriazione ebraica della “vera natura” dei popoli. Lo fa però con una
innovazione, legando il messaggio antisemitico al profeta che lo produce in
quanto verbo incontrovertibile.
Il nazismo esiste perché c’è Hitler, lascia chiaramente intendere il Mein
Kampf. E chi lo legge non cerca riscontri negli imbarazzanti, a tratti penosi,
affreschi geopolitici che il volume contiene, o al misero solfeggio filosofico
che lo attraversa, bensì all’immagine riflessa del “capo”. Un refrain costante,
presente a tutt’oggi. L’accostamento più appropriato, infatti, è per
associazione d’idee alle aste degli anemici acquerelli di Hitler prima
maniera, laddove un nutrito stuolo di collezionisti si contendono le opere
in stile e tono “Biedermeier” del trascorso dittatore. Il kitsch è d’altro canto
una delle fondamentali note dominanti in tutta l’“epopea” criminale
nazista, permettendo di coniugare il banditismo politico e amorale con la
formulazione di un diritto creativo, quello che derivava dalla legittimazione
della sopraffazione, in accordo con un comune sentire fatto di piccinerie, di
banalità, di quotidiane mediocrità, rassicuranti perché ossessivamente
ripetute. Il Mein Kampf si alimenta quindi di una duplice dimensione: da
una parte quella che gli deriva dal presentarsi come il prodotto mitico e
mitologico di un movimento e di un capo, l’uno e l’altro demiurghi e
taumaturghi al medesimo tempo; dall’altra, quella di essere il viatico per la
ricostruzione di un “ordine naturale” corrotto dalla modernità. Si tratta di
una guida a un nulla che si riempie di spettri da sconfiggere, così come fu ai
suoi tempi il Malleus Maleficarum, indicando quale sia la natura del male e
con quali strumenti possa essere sradicato dal mondo. Anche per questo la
sua prospettiva non si è conclusa con l’implosione del regime che se ne è
alimentato e il conseguente suicidio del suo autore. Si riproduce non nella
dialettica tra umano e diabolico e nel rapporto tra vero e falso ma nella sua
potenza mitopoietica. Più che mai si rivela come una macchina mitologica
che fabbrica da sé gli oggetti che dice di volere disintegrare.
L’intera questione relativa alla sua riedizione, in tempi di democrazia, se
non tiene nella giusta considerazione questi aspetti rischia di risultare
viziata ab origine. Il Mein Kampf non è una fonte nel senso tradizionale del
termine, così come la definisce Paul Kirn, in quanto “testo, oggetto o
manufatto da cui si può ricavare una conoscenza del passato”, ma strategia
di costruzione di una visione magica, a tratti puerile, e come tale anche
autosufficiente, di una realtà parallela, da contrapporre al mondo concreto
delle relazioni sociali. Per questo il proibizionismo gli è consustanziale,
alimentandone non solo la leggenda di libro “maledetto” ma anche il suo
essere, per il fatto stesso di subire una interdizione, una qualche forma di
“verità altra”, tanto più verosimile dal momento che viene celata o filtrata
alla pubblica conoscenza dalle autorità. Se il negazionismo olocaustico non
si limita a rifiutare la realtà dei fatti ma dichiara che la loro inesistenza è la
prova incontrovertibile di un complotto dei “potenti” ai danni della
collettività (per cui il suo vero oggetto non è rimuovere qualcosa di
scomodo dal panorama della storia e della coscienza civile ma il dichiararsi
portatori di una conoscenza alternativa, basata sullo “smascheramento”
delle mistificazioni del “potere”), la questione della pubblicazione legale del
Mein Kampf non ha a che fare con il tema dell’apologia del nazismo ma,
piuttosto, con quello dell’apologo sulla realtà. Non è un caso se, al di fuori
del nostro Continente, circoli non solo liberamente ma con un discreto
grado di legittimazione culturale e politica. Se in India è un modello per i
movimenti ultranazionalisti nei paesi arabi e musulmani assume un valore
espressamente “antisionista”, sia nelle declinazioni strettamente
antisemitiche che anti-occidentali, mentre in Turchia è parte integrante
della letteratura politica.
Di fatto quel che resta del best-seller di Gröfaz, Größter Feldherr aller
Zeiten, il “più grande comandante in campo di tutti i tempi”, è proprio
questo: la costruzione di un mondo al contempo fantasmagorico e
angosciante, affollato di ossessioni e fantasmi. Non si tratta di informazione
bensì di deformazione. Che si combatte con le armi della critica. Altrimenti
il rischio che si corre in Europa è di consegnargli, ancorché
involontariamente, un postumo attestato di plausibilità, quello che in
diverse parti del mondo continua a ricevere in modi e forme tanto smaccate
quanto oscene.
Michel Houellebecq
Luigi Grazioli
A farmi conoscere Enzo Jannacci, cinquant’anni fa, sono stati mio padre e
mia madre, entusiasti dello spettacolo Milanin Milanon, andato in scena al
Teatro Gerolamo nel 1962 per la regia di Filippo Crivelli. Il disco
d’esordio, La Milano di Enzo Jannacci, con la sua copertina rosso-nera,
girava in continuazione sul giradischi di famiglia. Quelle canzoni così
lontane dalla moda corrente (Beatles, Rolling Stones), così fuori tempo e
così vive, i miei fratelli e io le ripetevamo a memoria, come tante preghiere.
A Milano, in quegli anni, il dialetto circolava ancora: lo si parlava dal
prestinaio (panettiere), all’ufficio postale e persino a scuola; anche i neo-
milanesi come noi lo masticavano abbastanza per apprezzare Tì te sé no, Sun
chì sensa de tì o M’han ciamà, nella cui straziante malinconia naufragavamo
voluttuosamente.
Ricordo bene la prima apparizione di Jannacci in tivù, con El purtava i
scarp del tenis: un marziano occhialuto dall’aria allucinata, che reggeva la
chitarra sotto il mento, sparando fuori una voce metallica, un po’ chioccia.
Una bomba. Non era la prima volta che il milanese si affacciava alla
canzonetta, ma quello di Jannacci non era il meneghino sornione di
D’Anzi, in fondo non molto diverso dal napoletano “nazionalizzato” di
tanti classici: era un ostrogoto spigoloso, selvaggio, gesticolante, che
sembrava piovere da un altro pianeta. Canzoni, per molti versi,
pesantemente “straniere”; eppure in loro si riconosceva la Milano di ogni
giorno, la città delle fabbriche e delle periferie, del Duomo e dell’Idroscalo.
Le radici dell’arte di Jannacci affondano nella grande tradizione comica
della canzone italiana, che dalla “macchietta” di Maldacea a Petrolini, a
Rascel, approda negli anni ‘50 a Carosone e Buscaglione; ma in questo
filone, Jannacci è il primo a fondere organicamente nella sua poetica
comico e patetico, umorismo e critica sociale. Andava a Rogoredo è una
stralunata canzone d’amore, ma è soprattutto un ritratto “dal basso” della
Milano del boom.
“Per anni e anni ho cercato di ottenere che gli spettatori passeggiassero nei
miei quadri; volevo costringerli a dimenticarsi, a sparire addirittura lì
dentro”. Queste le parole di Vasilij Kandinskij che hanno ispirato la mostra
ora al Mudec di Milano: entrare dentro il quadro e ripercorrere il viaggio
del pittore russo nella regione di Vologda alla ricerca delle tracce pagane dei
Zyriane di Komi, una popolazione finnica orientale. Nel 1889 Kandinskij vi
si era recato come studente di diritto per svolgere una ricerca antropologica,
aveva visitato in solitudine le isbe di quei villaggi sperduti ed era rimasto
affascinato dagli oggetti d’uso quotidiano, dai mobili colorati, dalle stoffe,
dai giocattoli dipinti a tinte vivaci e, in particolare, dai lubki, immagini
popolari che narravano le storie dei santi e degli eroi russi, nei quali i colori
della stampa strabordavano dai limiti delle figure.
All’ingresso della mostra, in alto, sopra gli oggetti esposti – mestoli,
conocchie, battitappeti, stampini, tessuti, costumi, tutti coloratissimi,
provenienti in gran parte dal Museo Panrusso delle Arti Applicate e
dell’Arte Popolare di Mosca – un’installazione multimediale fa scorrere le
immagini di vita contadina, di città, di chiese dalle cupole dorate e di
cavalieri erranti in misteriosi paesaggi. Il viaggio diventa viaggio interiore –
come spiegano le curatrici della mostra, Silvia Burini e Ada Masoero –,
ricerca delle radici dell’immaginario del pittore. Così nelle sale interne
possiamo ammirare i primi quadri di Kandinskij, che ripropongono i motivi
delle fiabe russe e dei racconti religiosi, il bellissimo drago di Notte di luna,
il serpente del giudizio universale, il cavallo e il cavaliere, gli angeli-uccelli
del Paradiso, la città-madre Mosca. Accanto ai quadri del pittore sono
esposte antiche icone che si rivelano come sue fonti visive.
Ad entrare nel mondo colorato di Kandinskij ci aiuta un’altra
installazione spettacolare che, al tocco della mano, fa esplodere colori e
suoni: macchie colorate che riproducono le figure biomorfe dei quadri
astratti del pittore, cavalieri dai colori innaturali, pezzi di muri, di case, di
città, cupole di campanili e immagini di antiche icone. Siamo dentro il
quadro, dentro il colore.
Il colore nella pittura e nella riflessione teorica di Kandinskij tende in
effetti a un primato assoluto: il filosofo Alexandre Kojève – maestro di
un’intera generazione di intellettuali francesi che seguivano negli anni
Trenta le sue lezioni sulla Fenomenologia di Hegel – era nipote del pittore.
Egli scrive che i quadri dello zio Vasilij, in quanto non rappresentativi di
oggetti esterni, sono, piuttosto che arte astratta, proprio pittura concreta,
nella quale cerchi, triangoli e – aggiungiamo noi – colori sono essi stessi gli
oggetti, sono, in linguaggio kantiano, la “cosa in sé” (Kandinskij, trad. it. a
cura di Marco Filoni e Antonio Gnoli, Quodlibet, Macerata 2005). Ma, si
sa, le cose in sé non sono colorate, esse sono davvero il punto d’arrivo di un
processo di astrazione e possono contenere soltanto l’astratta possibilità di
aver colore (un po’ come gli oggetti del Tractatus di Wittgenstein). Anche
Kandinskij nei suoi scritti teorici cerca di definire il colore tra astratto e
concreto: indica da un lato la possibilità di immaginare, di “vedere con la
mente” un rosso infinito, un rosso il cui “suono interiore rimane puro”,
capace di evocare il suono di uno strumento musicale, dall’altra un rosso
che entra nel quadro e nell’involucro oggettivo si rapporta alle forme e agli
altri colori (Lo spirituale nell’arte, trad. it. a cura di Elena Pontiggia, SE,
Milano 1996, pp. 47-48). La teorizzazione dell’arte astratta procede tra
questi due piani, tra colori invisibili e visibili, tra i continui richiami alla
“necessità interiore” e l’analisi di concrete esperienze artistiche. Il
procedimento di astrazione diventa chiaro nelle parole del critico Michel
Henry che, nel suo saggio Vedere l’invisibile. Saggio su Kandinskij, riduce
esplicitamente il colore a sensazione, lo colloca nell’interiorità per poi
parlare di colori invisibili (trad. it. Roberto Cossu, Guerini 1988, pp. 98-
99).
Eppure in questi quadri i colori sono proprio lì, sono esattamente
l’oggetto della visione. Si potrebbe obiettare che i colori del quadro,
rappresentando solo se stessi e non un oggetto esterno, presentano una
realtà altra, propriamente una realtà invisibile che sta dietro e al di là di ciò
che vediamo. Certo lo sguardo del pittore è uno sguardo modificato, non è
lo sguardo assonnato con cui al mattino ci guardiamo allo specchio, né
assomiglia a come guardiamo una cipolla che stiamo affettando, e non è
nemmeno il modo di guardare la strada e le automobili quando siamo al
volante. Questo lo sanno bene Kandinskij e il filosofo Henry. Lo sguardo
del pittore è una maniera di guardare che, come dire, accarezza le cose per
poterne riprodurre o modificare le qualità visive, forme e colori appunto.
All’opposto il richiamo a una necessità interiore si sottrae al conoscere,
diventa emotiva ed evocativa, e rivela nel contempo la condivisione teorica
e l’influsso di Rudolf Steiner, di Marianne von Werefkin e di Wilhelm
Ostwald, di quella corrente di gnosticismo messianico che agli inizi del
Novecento prevaleva nell’ambiente culturale dell’avanguardia monacense
(cfr. Stefano Poggi, L’anima e il cristallo. Alle radici dell’arte astratta, Il
Mulino 2014), dentro la quale Kandinskij rielabora le sue fonti visive
mescolando osservazioni fenomenologiche e derive mistiche.
Più difficile entrare nel merito dell’associazione tra colori e suoni che il
pittore ha più volte proposto, proprio a partire dalla descrizione del mondo
dei colori attraverso il linguaggio musicale, e basata sulla convinzione della
comune radice spirituale di musica e pittura. Le musiche che
accompagnano il percorso museale, scelte da Giada Viviani, ripropongono
questi richiami a partire dal repertorio dei canti popolari della regione di
Vologda fino alle musiche dell’avanguardia degli inizi del Novecento. In
particolare la mostra si chiude con un’installazione che propone alcuni
passaggi musicali di Schönberg – amico di Kandinskij – correlati a luci di
diversi colori che si modificano al movimento dello spettatore.
Accompagna la mostra un catalogo: Kandinskij. Il cavaliere errante,
curato da Silvia Burini e Ada Masoero e pubblicato da 24 Ore cultura. I
saggi che lo compongono si concentrano sulle fonti visive e culturali del
pittore russo e indagano i motivi ricorrenti della sua iconografia, mettendo
in secondo piano i temi che lo legano alla teosofia di Helena Blavatsky e di
Rudolf Steiner, all’elemento sciamanico o a quello messianico. Forse anche
per questo la mostra si ferma al 1921, la data in cui il pittore lascia
definitivamente la Russia per trasferirsi a Berlino e iniziare una nuova fase
della sua attività artistica.
Yoshikazu Kawaguchi
Yosuke Taki
Principi
Non arare.
Non introdurre alcun concime (nemmeno quello biologico) nel terreno.
Non considerare nemici gli insetti e le erbe selvatiche.
La terra insegna
Ho visto i film di Buster Keaton così tante volte che non le conto neanche
più. Li ho visti su schermi piccoli e grandi, da solo o in compagnia –
nell’estate del 2015, a Bologna, in occasione del Cinema Ritrovato,
eravamo migliaia. Ogni volta ho provato la stessa emozione, qualcosa a
metà fra il divertimento, il piacere e lo stupore. Un’emozione che negli
anni, visione dopo visione, non è mai venuta meno, tanto che io stesso non
riesco a capirne il perché.
Probabilmente l’eccezionalità è parte integrante di Keaton, a cominciare
da quel nome, Buster, che significa tante cose: “fenomeno”, “distruttore”,
“sensazionale” e altre dello stesso tenore. Leggenda vuole che il piccolo
Joseph Frank Keaton abbia ricevuto questo soprannome all’età di sei mesi,
nientemeno che da Harry Houdini in persona: “Eravamo in un paesino, in
un piccolo albergo e io caddi per le scale, ruzzolando giù per tutta la rampa.
Mentre tutti accorrevano, mi misi seduto, scossi la testa e non mi uscì
neanche una lacrima”. “That was a real buster!” esclamò Houdini. Lui per
la verità si riferiva al capitombolo, non al bimbo; ma ormai era fatta: “‘Non
sarebbe male come nome’, disse mio padre”. E Buster fu.
Dopo mezzo secolo in cui lo si è accostato ora al surrealismo, ora a
Kafka, ora alla body art, forse per dire qualcosa di nuovo su Keaton tocca
ripartire dall’essenziale. “Ha il dono delle apparizioni”, scriveva da
Hollywood Emilio Cecchi, dopo averlo visto in azione. Un “fenomeno di
natura”, insomma, da consegnare alla teratologia più che alla critica
cinematografica, degno di figurare negli antichi volumi di zoologia
fantastica, tra il Bahamut e il Catoblepa.
Quest’orientamento nelle cose della natura e della vita, questo complesso, ramificato assetto, mi
sia permesso di paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all’artista i succhi che ne
penetrano la persona, l’occhio. L’artista si trova dunque nella condizione del tronco. Tormentato
e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette nell’opera ciò che ha visto. E come la
chioma dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene
con l’opera.
294. Ormai sono tanto progredito da poter dominare la grande civiltà antica e il Rinascimento.
Soltanto col nostro tempo non mi riesce di stabilire una relazione artistica. E voler creare qualcosa che
non gli corrisponda mi appare sospetto.
Grande perplessità.
Perciò sono di nuovo tutto satira. Devo ancora fondermi interamente in essa? Forse non sarò mai un
realizzatore? Comunque, mi difenderò come una belva (dai Diari, pag 69-70, Il Saggiatore, 1990).
Se Klee sviluppa l’interesse verso l’antichità a partire dal suo viaggio in Italia
tra il 1901 e il 1902, la miccia innescata dalle visioni italiane deflagra in un
incendio che non si spegnerà mai. Da lì in avanti si nutrirà di memorie
figurative e il passato diverrà un territorio in cui muoversi con passione e
competenza, rivendicando per sé il ruolo di epigono di una civiltà ormai
finita. Non potendo abbracciare l’antico nella sua integrità, e accettando lo
scacco dell’impossibilità di ricostituire l’immagine nella sua purezza
originaria, Klee sceglie la parodia, la beffa per animare una sincopata
produzione che tradisce stili e repertori eterogenei, mantenendo una
coerenza di obiettivi che si snoda su percorsi affatto irregolari, una pars
construens (per citare Resch) del tutto originale e che contribuirà ad
attribuirgli quell’attitudine anti-nichilista che contribuirà al suo
riconoscimento critico post bellico.
Sono anni intensi che sfoceranno nella svolta spirituale del dopo Guerra
e successivamente lo condurranno in seno al Bauhaus, all’esperienza
dell’insegnamento, tra il 1921 e il 1931; anni in cui la sua ricerca esplora
una sorprendente vastità di riferimenti iconografici, e se da un lato si
rivolge al passato arcaico europeo ed extraeuropeo, dall’altro la sua
attenzione si posa sulla contemporaneità: Klee è un intellettuale
pienamente consapevole di ciò che accade nel mondo dell’arte contingente,
un viaggiatore-etnografo (e musicofilo) che guarda al lavoro di Matisse,
Dufy, Picasso, Braque, de Chirico, Carrà, Chagall, Arp, Ernst (rimando
ancora a Paul Klee. Epoca e stile di Dantini e al catalogo della mostra per gli
approfondimenti in merito), a cui si aggiungono Cézanne, Ensor, i
giapponesi, Van Gogh. Nella sua sete di esplorazione, Klee non perde
occasione di posare il suo occhio cristallino su opere e autori che possano
fornirgli materiale di confronto, spunti per edificare quell’architettura
immensa che diverrà la sua pratica.
Tra la produzione degli anni ‘10 e ‘20 avviene uno slittamento,
l’orizzonte di riferimento diventa quello delle origini dell’Occidente, la
Grecia arcaica, l’Egitto, ma anche le tradizioni locali, l’arte copta, l’Islam, il
repertorio celtico, l’arte bizantina, il Medio Oriente. Il viaggio in Tunisia del
1914 è un’epifania per l’artista che si scopre “pittore” e si apre all’indagine
sul colore.
Fra tutti gli scenari possibili che ci aspettano da qui ai prossimi anni, il più
improbabile, quello veramente fantascientifico, è che i pochi potenti della
terra improvvisamente cambino atteggiamento e decidano di perdere potere
e denaro in favore del resto dell’umanità. Nei fatti, questa è l’unica
possibilità reale che la specie chiamata Homo Sapiens ha di evitare
l’estinzione. Eppure è proprio questo lo scenario che spera di raggiungere
chi da decenni si occupa e preoccupa delle magnifiche sorti e progressive
dei Sapiens. Fra questi, una figura ben nota internazionalmente è Naomi
Klein, autrice del best seller No logo che tanto scompiglio portò fra le
agenzie di comunicazione nel 2000 e che ora esce con Il mondo in fiamme,
contro il capitalismo per salvare il clima, uscito nel 2019 e prontamente
pubblicato in Italia da Feltrinelli a settembre.
Che ci sia un rapporto diretto tra il metodo di produzione industriale e
il deterioramento dell’ambiente in cui possiamo vivere, inscindibile dal
deterioramento sociale e culturale, è ormai un dato dimostrato. Poi
possiamo chiamarlo come vogliamo: capitalismo, neoliberismo,
colonialismo, a ogni tempo la sua definizione. Ultimamente quella più in
voga è neoliberismo, ma in sostanza si tratta sempre di varianti del vecchio
metodo di accaparramento di qualsiasi tipo di risorse da parte di pochi
individui. Il dato nuovo è che da qualche anno pressoché tutti gli analisti
che affrontano il tema dell’ambiente in maniera approfondita e con
ricerche serie e documentate, da qualsiasi punto di vista o disciplina
partano, arrivano tutti alle medesime conclusioni. Ciò che sta uccidendo il
nostro spazio vitale su questo pianeta è il sistema a cui abbiamo delegato la
produzione e lo sviluppo della nostra esistenza dalla fine del Settecento in
avanti: il sistema industriale e l’ideologia che lo sostiene. Non è possibile
alcun cambiamento reale se non si cambia il sistema. Punto. Questo è il
vero problema, è inutile e dannoso girarci intorno. Inutile perché tutte le
altre soluzioni sono palliativi, dannoso perché qualsiasi altro tentativo si
trasforma in una nuova arma per lo stesso sistema, abilissimo a trovare
modi per ricavare profitto anche dall’apocalisse da lui stesso provocata,
come di fatto sta accadendo oggi con le sue ignobili maschere greenwashing.
Quando nel 1962 Rachel Carson fece uscire il suo Primavera silenziosa,
la reazione del sistema fu immediata e costituì uno dei primi copioni che da
allora si ripetono puntuali ogni volta che qualcuno mette in pericolo la
quantità di guadagni fatti sulla pelle di altre persone. Come sappiamo, il
copione prevede nell’ordine: lo screditamento di chi parla, la
ridicolizzazione delle sue tesi, il coinvolgimento di un sedicente esperto che
dica il contrario, uno scenario catastrofico sempre in termini di perdita
economica e di posti di lavoro. Primavera silenziosa è da molti considerato
come una delle prime denunce ambientaliste, si concentrava sui danni
causati dall’uso indiscriminato di pesticidi in agricoltura e ebbe un successo
tale che i produttori non riuscirono a ignorarlo e scatenarono l’offensiva.
Puntualmente e dimostrando una scarsissima fantasia, lo stesso copione
viene applicato in questi giorni nei confronti di un’altra rompiscatole, per
di più adolescente, Greta Thunberg. C’è però una differenza sostanziale.
Nel 1962 l’appello di Rachel Carson venne in parte ascoltato e dieci anni
dopo, nel 1972, l’uso del DDT venne vietato. La differenza sta nel fatto che
oggi non possiamo permetterci di aspettare altri dieci anni. Naomi Klein
individua nella fine degli anni Ottanta il momento in cui era possibile
invertire la rotta e cominciare a muoversi in una direzione che avrebbe
salvato capra e cavoli, in questo caso, uomini e capitali.
1988. James Hansen, astrofisico e climatologo statunitense a capo di un
dipartimento della NASA che si occupa di scienze della terra, lancia
l’ennesimo allarme dimostrando, dati alla mano e come altri prima di lui,
che l’attività umana provoca il riscaldamento generale dell’intero pianeta.
Nello stesso anno centinaia di scienziati si riuniscono in una storica
Conferenza mondiale sul cambiamento atmosferico a Toronto e si tiene la
prima riunione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change delle
Nazioni Unite, da allora conosciuto con la sigla IPCC. Il tema del cambio
di clima globale dovuto all’azione dell’uomo diventa popolare, il Times
invece dell’uomo dell’anno, dedica il 1988 al “Pianeta dell’anno: la Terra in
pericolo”. La consapevolezza c’è, le soluzioni ci sono, ma, aggiunge la Klein,
è il momento peggiore possibile. In quello stesso anno Canada e Stati Uniti
firmano l’accordo di libero scambio, l’anno successivo crolla il muro di
Berlino e gli ideologi della destra lo vedono come una liberazione, la prova
della “fine della storia”, rimane in campo una sola ideologia rappresentata
in quel momento dalla “ricetta Reagan-Thatcher fatta di privatizzazioni,
deregulation e austerity economica” e dalla sua esportazione in ogni angolo
del pianeta. “Accettare la sfida del cambiamento climatico avrebbe
costretto a imporre rigide regole a chi inquinava mentre intanto si investiva
sulla sfera pubblica per trasformare il modo in cui diamo energia alle nostre
case, come viviamo nelle nostre città e ci spostiamo. […] tutto questo
avrebbe imposto uno scontro diretto con il progetto neoliberista”.
Sono passati trent’anni da allora e nel frattempo il clima è cambiato e
non è solo una metafora. Le emissioni di CO2 lungi dal diminuire sono
aumentate di oltre il 40%, l’ideologia neoliberista ha impregnato
totalmente il pianeta portando fra i risultati anche una progressiva
concentrazione del potere economico in sempre meno persone, il divario
fra povertà e ricchezza è aumentato smisuratamente e oggi a capo di alcune
delle nazioni più potenti del mondo ci sono uomini che fingono di
considerare gli argomenti su cui continuano a insistere climatologi e
scienziati di varie discipline solo un capriccio da ragazzi, anche perché i
ragazzi negli ultimi mesi hanno deciso di iniziare a rompere le scatole. La
vicenda di Greta fa venire in mente la nota storia zen del dito e la luna.
“Quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito”. Greta, come
tutta la comunità scientifica almeno dagli anni Sessanta, sta indicando un
problema e ha avuto almeno un risultato, quello di portare quel problema
sulla bocca di tutti a livello planetario. Il fatto che molti preferiscano
divertirsi a chiacchierare sul dito piuttosto che sul problema è inevitabile.
Una volta che un argomento entra nel calderone mediatico, viene trattato
come qualsiasi altro e dal 27 settembre 2019, giorno dello sciopero Fridays
For Future, l’apocalisse è entrata di diritto nei talk show italiani con la
maschera delle parole magiche cambiamenti climatici.
Visto il copione che segue il sistema da quando esiste, non c’è da
stupirsi più di tanto della valanga di odio riversata su chi è sceso in piazza
quel giorno. La novità inedita sta nella presenza di ogni fascia d’età
possibile con una preponderanza di adolescenti, un fiume che sfugge ad
ogni categoria di analisi corrente creando perplessità e fastidio in chi si
ostina a voler leggere il reale con categorie che sono state rese
improvvisamente obsolete da un’emergenza che ormai sfugge solo a chi ha
deciso di non volerla vedere o, peggio, a chi non riesce davvero a vederla e
continua a farsi domande ormai prive di senso: dove vanno questi ragazzi?
chi li guida? cosa vogliono? ma soprattutto, cosa voteranno? Con una
coincidenza che non può non risultare sospetta, immediatamente,
questione di ore, qualcuno ha subito tentato di imbrigliare il fiume
proponendo di abbassare a sedici anni il diritto al voto. Il problema è che il
tema per cui i ragazzi sono scesi in piazza non è un argomento, ma rischia
di essere l’Argomento perché oggi, a sessant’anni di distanza dalla
Primavera Silenziosa, il tempo è scaduto. Ma per Naomi Klein una speranza
ci può ancora essere.
Il libro è una raccolta di articoli che vanno dal giugno 2010 fino
all’aprile 2019. Parte con una introduzione di strettissima attualità sul
movimento nato dalle proteste di Greta e continua con reportage dallo
sversamento di petrolio nel Golfo del Messico all’enciclica di Papa
Francesco Laudato Si’, in cui per la prima volta la chiesa cattolica si occupa
a fondo dei cambiamenti climatici, passando per le varie battaglie che
l’autrice ha condotto sempre in nome di un mondo più equo e sostenibile,
fino ad individuare una possibile soluzione nel Green New Deal, un insieme
di misure che propone investimenti nelle energie rinnovabili, nell’efficienza
energetica, nei trasporti puliti tenendo conto dell’inscindibilità fra il
progresso sostenibile e la giustizia sociale, un programma complesso frutto
di un lavoro annoso fatto anche con il suo gruppo The Leap, il balzo, che da
anni lavora in questa direzione. Il programma del Green New Deal punta
l’attenzione anche sulle “misure che separano a forza le crisi ecologiche dai
sistemi economici e sociali che le alimentano, cercando all’infinito
soluzioni puramente tecnocratiche”, evidenziando come l’insistenza su
soluzioni basate esclusivamente sulle tecnologie più o meno avanzate
derivino in realtà dalla necessità di non mettere mai in discussione il
sistema che le propone. La Klein si sta battendo in questi anni perché il
Green New Deal non resti un’idea utopica ma diventi un programma
politico sostenuto da forze politiche in particolare negli Stati Uniti.
La verità è che mentre leggevo il suo libro, che può anche essere
considerato un utilissimo compendio delle lotte ambientaliste degli ultimi
anni, sono stato preso da una profonda malinconia. La passione che anima
la Klein è autentica, ma la sua speranza assomiglia al grido disperato di chi
non vuole rassegnarsi. Tutte le proposte del Green New Deal sono non solo
condivisibili, ma auspicabili e meritevoli di lotta, ma chi, come lei, segue
questi temi da decenni, si è visto passare il punto di non ritorno sotto gli
occhi già diversi anni fa e spera solo di aver visto male. Forse quello che ci
rimane da fare, oltre alla cronaca della fine, è iniziare a immaginare gli
scenari possibili per il dopo.
Yves Klein
Riccardo Venturi
L’era dell’antiarte
Gli esseri viventi hanno evoluto considerevoli adattamenti complessi, ma siamo ancora
vulnerabili alle malattie. Una delle più gravi – e forse la più enigmatica – è il cancro. Un tumore
canceroso si è adattato alla sopravvivenza in modo straordinario e grottesco. Le sue cellule
continuano a riprodursi anche quando le cellule “normali” si sarebbero già fermate da tempo:
distruggono i tessuti circostanti per farsi spazio e ingannano l’organismo in modo da farsi fornire
energia per crescere ancora di più. Ma i tumori non sono parassiti esterni che hanno acquisito
sofisticate strategie per sferrare un attacco al nostro corpo. Sono fatti delle nostre stesse cellule
che ci si rivoltano contro.
Oggi una parte dell’umanità è passata alla fase migrante, mentre un’altra
parte permane nella fase stanziale. Viviamo dunque, anche ai nostri giorni,
in presenza di fenomeni altamente epidemici, se è vero quanto si dice degli
ottanta milioni di profughi in tutto il globo. L’Europa, che non riuscì a
sopportare tredici milioni di ebrei e zingari, ben difficilmente sarà in grado
di tollerare l’arrivo di qualche centinaio di migliaia di profughi. E questo
vale per gli alti valori cui si ispira il nostro continente…
Eppure giorno verrà nel quale conosceremo che cosa c’è nei cervelli
della “zona grigia”.
Astrid Lindgren
Giovanna Zoboli
Nella mia vita ho incontrato qualche grande capitano: sono uomini molto rari, di grande
ascendente, rigorosi in primo luogo con se stessi, che comandano senza urlare, che sanno
affrontare con la forza della ragione le situazioni più drammatiche e difficili, che non amano le
«gesta eroiche», che conoscono il valore di ogni esistenza e che vivono la storia. Tra i veri
‘capitani’ Emilio Lussu è stato il più grande. Re pastore, nobile cacciatore, domatore di cavalli,
uomo politico in prima linea nei momenti più importanti della storia d’Italia del ’900, narratore
semplice come un classico antico, ma per me capitano. E basta. Così, quando ancora oggi vado a
camminare per i luoghi che ci racconta, è come fosse con me a ripetermi cose che non ha scritto
(Un anno sull’altipiano, Einaudi, 2000, introduzione di Mario Rigoni Stern).
Così Mario Rigoni Stern ha ricordato Emilio Lussu, poche righe che
racchiudono l’essenza di un uomo con una personalità e una storia davvero
memorabili.
“Sono nato in un piccolo villaggio della montagna, e credo di aver
conosciuto gli ultimi resti di una società patriarcale di cacciatori-pastori
predoni, senza classi e senza Stato”. Così scrisse una volta Emilio Lussu,
dando il segno del suo modo di vivere e di pensare (ibid.).
Nato il 4 dicembre 1890 nel paesino sardo di Armungia, Lussu è stato
un ufficiale pluridecorato della Brigata Sassari, composta quasi
esclusivamente da sardi, durante la Grande Guerra, un antifascista più volte
incarcerato dal regime negli anni successivi, un politico che insieme ai
fratelli Rosselli fondò nel 1929 il movimento liberalsocialista Giustizia e
Libertà, uno scrittore noto soprattutto per Un anno sull’altipiano.
Questo libro, noto per lo stile chiaro e per la verità dura e sostanziale
dei fatti narrati, racconta un anno di guerra sull’altipiano dei Sette Comuni.
Sono montagne aspre, prive di vette, povere d’acqua, dove in quei giorni è
difficile sia attaccare sia difendersi: sono segnate da enormi buche create da
proiettili di cannone, sono attraversate da trincee. L’odore di morte è
costante e ovunque, a volte mischiato all’odore del cognac somministrato ai
soldati per dissolverne la paura.
Lussu era stato un interventista prima del conflitto mondiale, era tra
coloro che ritenevano la guerra contro Impero Austro-ungarico e l’Impero
tedesco un’occasione per rendere il vecchio continente più libero e
democratico.
Si ricredette presto, di fronte ai fatti, alle stragi inutili, all’insipienza
degli alti comandi, all’orrenda disumanità delle battaglie. Ma durante il
conflitto Lussu ritenne comunque necessario continuare a combattere, per
non consentire ad austriaci e tedeschi di sfondare le linee e invadere l’Italia.
Questa convinzione è ben evidenziata nel capitolo XXV, dove lo scrittore
affida le sue opinioni al comandante della 10ma: “Che ne sarebbe della
civiltà del mondo, se l’ingiusta violenza si potesse sempre imporre senza
resistenza?”. Non ci sono motivi per credere che dieci anni dopo si fosse
discostato da questa convinzione. Tutta la sua biografia la conferma.
Quando Emilio Lussu scrisse Un anno sull’Altipiano erano passati
vent’anni da quegli avvenimenti. Si trovava in Svizzera, in un sanatorio a
Clavadel, sopra Davos, forzato a una lunga pausa della sua attività politica
di fuoriuscito in Francia da una difficile operazione ai polmoni e quindi a
una lunga convalescenza. Era stato l’amico Gaetano Salvemini a insistere
perché raccontasse la sua esperienza di guerra. Entrambi antifascisti, erano
da anni costretti all’esilio; Salvemini, saggista politico di spessore, non
aveva una grande opinione dei testi politici di Lussu, come Teoria
dell’insurrezione, che giudicava velleitari e un po’ fumosi; apprezzava invece
moltissimo la sua capacità di raccontare i fatti, così come il nitore e l’ironia
che avevano caratterizzato libri come La catena e Marcia su Roma e dintorni.
In entrambi, Lussu aveva raccontato la sua opposizione decisa alla nascita
della dittatura di Mussolini, le aggressioni, l’assalto alla sua casa da parte di
un folto gruppo di fascisti dopo un comizio che aveva tenuto in un paese:
avevano usato anche una scala per entrare dalla finestra e lui aveva sparato
al primo che si era affacciato, uccidendolo. Era stata legittima difesa, e gli
sarà riconosciuto. Ma gli costò comunque un anno di prigionia dura, con
danni gravi alla salute, ai polmoni in particolare, e poi il confino a Lipari, e
la rocambolesca evasione per mare, con Carlo Rosselli e Francesco Fausto
Nitti, nel luglio del 1929.
In guerra Lussu non aveva tenuto un diario, ma ricordava bene gli
eventi, i drammi di cui era stato protagonista o spettatore. Scelse di
raccontare solo un anno della sua vita militare, quello tra le montagne di
Asiago, non la precedente esperienza sull’Isonzo né la successiva
sull’altipiano della Bainsizza. Perché questa decisione? Perché ritenne quei
dodici mesi racchiusi fra un inizio e una fine – l’arrivo in Altipiano nel
giugno del 1916 e poi la ripartenza, un anno dopo – emblematici di cosa
davvero avviene al fronte durante una guerra, un anno è una lunghezza
infinita per chi è costretto a vivere dentro trincee fredde e fangose, nel
continuo confronto con la morte e il dolore. A Salvemini, Lussu spiega:
“posso dare al lettore l’impressione esatta del fenomeno durata della guerra,
che è stato l’incubo più tragico per tutti i combattenti” (L’avvenire della
Sardegna in Il cinghiale del diavolo, ed. Ilisso, 2004).
Tra quelle montagne belle e aspre, con scontri feroci che intersecano il
passaggio dei colori delle stagioni, tra momenti di relativa quiete e
massacri, a volte seguendo una logica militare a volte no, era successo di
tutto. Lussu pensò che narrare gli eventi di quell’anno potesse far
comprendere la guerra, la sua assurdità e la sua ferocia. I nomi dei luoghi e
delle montagne sono reali, quelli degli ufficiali e dei soldati sono modificati,
per necessaria cautela (lettera a Gaetano Salvemini dell’8 agosto 1935).
In una lettera del 18 agosto 1935 a Salvemini, Lussu gli preannuncia
che si tratterà di “… un libro di ricordi personali e di guerra vissuta. Un
documento umano”.
Monte Fior, Castelgomberto, Monte Spil, Monte Zebio, queste le
montagne dell’altipiano dove Lussu ha vissuto e combattuto tra il giugno
del 1916 e il luglio del 1917. A percorrerle oggi si possono ammirare la
dolcezza dei declivi, la particolare conformazione delle rocce, specie tra
Monte Fior, Monte Spil e Castelgomberto, il panorama ampio e i silenzi:
pare impossibile immaginare bombardamenti a colpi di cannone,
mitragliatrici che falciano intere file di giovani soldati, assalti con bombe a
mano e lame di coltello. Su Monte Zebio, a lato di un cartello che richiama
il nome di Lussu, c’è la feritoia dove il generale Leone insiste a far affacciare
un povero soldato che stramazzerà presto al suolo colpito da una pallottola
(VII capitolo). Da Monte Fior si può davvero, in rare occasioni di cielo
terso, vedere Venezia, come la videro i soldati austriaci quando occuparono
la sua cima arrotondata, esultando festanti per una vittoria che pareva
vicina (VI capitolo). Nella sottostante Malga Lora ci sono i resti recuperati
di un piccolo cimitero militare: lì, racconta Lussu, c’era allora il comando
dei gruppi alpini, lì il colonnello Stringari, incupito e disperato, invita Lussu
a riferire al suo comandante, una volta rientrato a Monte Spil, che “…qui
dobbiamo morire tutti. Tutti dobbiamo morire. Il nostro dovere è questo”
(IV capitolo). E il colonnello beve, beve molto, per darsi forza. In
precedenza Lussu, a nord del paese di Stoccaredo, aveva incontrato un altro
colonnello, Abbati, che aveva reagito con stupore quando lui si era
dichiarato del tutto astemio: “Tirò dal taschino della giubba un taccuino e
scrisse: ‘Conosciuto tenente astemio in liquori. 5 giugno 1916’”. Lussu lo
rincontra ora su Monte Fior: “Io mi difendo bevendo. Altrimenti sarei già al
manicomio. […] Eppure se tutti, di comune accordo, lealmente,
smettessimo di bere, forse la guerra finirebbe. […] Abolisca l’artiglieria
d’ambo le parti, la guerra continua. Ma provi ad abolire il vino e i liquori.
Provi un po’”. Alla fine del libro è descritto l’esito di quella lenta discesa
agli inferi: una follia senza più rimedio.
I movimenti di truppe e le operazioni di guerra sono descritte in termini
chiari ma essenziali, senza dettagli da diario militare: Lussu è consapevole
di scrivere un libro di valore letterario, che deve essere compreso da lettori
non necessariamente edotti su strategie e armamenti. Azioni a volte
vittoriose altre no, ma con conseguenze sempre sanguinose, avvengono in
mezzo a una natura montana tratteggiata con altrettanta essenzialità e
abilità illustrativa. “Il giorno dopo continuammo l’inseguimento. Il
battaglione d’avanguardia, superato Croce di Sant’Antonio, procedeva nel
bosco, verso Casara Zebio e Monte Zebio. Man mano che esso avanzava,
appariva sempre più probabile che il grosso del nemico si fosse fermato
sulle alture. La resistenza era ridivenuta accanita. […] Il 2° battaglione
d’avanguardia ricevette l’ordine di fermarsi e trincerarsi. Durante la notte, il
nostro battaglione gli diede il cambio. Quando noi arrivammo, una linea di
trincea era già stata scavata, affrettatamente, sul limitare del bosco. Davanti
a noi, v’erano ancora degli abeti, ma rari, come essi sono sempre quando le
abetine accennano a finire nelle grandi altitudini. Il terreno continuava a
essere coperto di cespugli. Più lontano, in alto, oltre qualche centinaio di
metri, puntavano, tra le cime degli ultimi abeti, montagne rocciose.
Probabilmente la grande resistenza ci sarebbe stata opposta i loro piedi” (IX
capitolo).
Ma la guerra non è incompatibile solo con la vita degli uomini, lo è
anche per la natura: l’altipiano uscirà dal conflitto mondiale con montagne
del tutto devastate e interi boschi distrutti, con migliaia di alberi ridotti a
tizzoni anneriti. “Tutto intorno, il sibilo delle falciate delle mitragliatrici,
ininterrotto, faceva pensare a un uragano. Le cime degli alberi, segate dalle
raffiche, precipitavano al suolo con stridori sinistri” (X capitolo).
In Un anno sull’altipiano il ritmo della narrazione è incalzante, fasi
concitate di combattimenti vengono sapientemente alternate ad altre più
pacate, dove c’è tempo per la discussione, per l’ironia, e perfino per qualche
sorriso. I dialoghi sono efficaci; a volte, come nell’alterato frasario del
generale Leone rasentano la follia ma si tratta invece di una retorica del
tutto realistica e credibile che era propria di molti alti ufficiali. Leone
chiede a Lussu se ami la guerra, salendo di tono, di enfasi e di rabbia,
quando si sente rispondere con argomentazioni razionali e ragionevoli. Alla
fine Lussu se la cava dichiarandosi speranzoso in una pace ‘vittoriosa’ (VII
capitolo).
Ancora più drammatico, perché di una disperazione quieta che non può
lasciar spazio a sorrisi amari, il dialogo che precede l’ordine del colonnello
Carriera al tenente Santini e a un suo soldato di uscire a tagliare il filo
spinato disposto dagli austriaci a difesa delle loro trincee. Una missione
impossibile, sotto il tiro nemico, che Lussu cerca di impedire con argomenti
di pura ragionevolezza, che restano inascoltati: il colonnello gli risponde
con minacce, il capitano Bravini, pur consapevole della follia dell’ordine,
tace, l’aiutante maggiore del colonnello procura con zelo le pinze. Santini e
il soldato muoiono trafitti da decine di colpi appena giungono ai reticolati.
Vale la pena evidenziare che Lussu, con una narrazione asciutta, senza
commenti, non stigmatizza solo l’ottusità dell’alto ufficiale ma anche il
silenzio e lo zelo servile dei due ufficiali di secondo livello. E i nomi
d’invenzione che attribuisce ai protagonisti di quella piccola tragedia sono
significativi. Piccola nell’ambito di un conflitto con milioni di morti,
grande per chi deve assistervi, terribile per chi ne deve morire.
Un anno sull’altipiano esce in Francia nel 1938, e ottiene subito un buon
successo di critica; le recensioni sono favorevoli, non solo negli ambienti
vicini a Giustizia e Libertà. Nella prefazione Lussu spiega con precisione e
apparente semplicità il senso e il contenuto del suo libro: “Il lettore non
troverà né il romanzo né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla
meglio e limitati a un anno., fra i quattro di guerra ai quali ho preso parte.
Io non ho raccontato che ciò che ho visto e mi ha maggiormente colpito.
Non alla fantasia ho fatto appello ma alla mia memoria; e i miei compagni
d’arme, anche attraverso qualche nome trasformato, riconosceranno
facilmente uomini e fatti”.
In Italia, nel dopoguerra, sarà Einaudi a stampare e distribuire la prima
edizione italiana, purtroppo non in una collana di narrativa ma in quella
dei “Saggi”, poco visibile e anche di maggior costo. Un errore che
penalizzerà anni dopo anche un altro grande libro di guerra, I lunghi fucili
di Cristoforo Moscioni Negri. I commenti della critica sono comunque
positivi, salvo in ambienti conservatori e tra alcuni dirigenti scolastici, che
arriveranno a proibirne la lettura perché i riferimenti al bere e allo spregio
per le vittime degli assalti appaiono a loro avviso denigratori per gli
ufficiali. La grande diffusione arriverà più tardi, negli anni Sessanta, con la
ripubblicazione tra i libri di narrativa dei “Coralli” einaudiani e
nell’edizione scolastica. Riguardo quest’ultima, avrebbe dovuto essere
pubblicata con una prefazione di Mario Rigoni Stern: tra loro c’era una
grande stima reciproca, anche se appartenevano a due generazioni diverse,
ma il testo di Rigoni, pur interessante e coinvolgente, non soddisfò
pienamente le aspettative di Lussu e così il libro venne pubblicato senza
prefazione. Lussu non volle mai tornare sull’altipiano dei Sette Comuni. A
Rigoni Stern che amava Un anno sull’altipiano al punto da saperne alcune
pagine a memoria, e che lo invitava a venire, rispose che non poteva, che
camminare per quei monti sarebbe stato come calpestare il sangue dei suoi
commilitoni. A tutti loro, lo capì solo anni dopo averlo scritto, aveva
dedicato un libro redatto con uno stile del tutto originale nel panorama
letterario italiano del Novecento, un testo vero e appassionato, che colpisce
sia il cuore sia la mente.
Thomas Macho
Antonio Lucci
È nel silenzio che si riesce bene a vedere il mondo? Cosa significa per un
fotografo non sentire la necessità di sviluppare le proprie immagini?
Lasciarle avvolte da un vuoto di forma, nella quiete, nella pace, nel buio.
“Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”,
afferma Vivian Maier. E così ha fatto.
Eppure non ha sviluppato che pochi scatti e ha vissuto senza fare
rumore, al riparo da qualsiasi ansia di apparire. La storia è nota. Vivian
nasce a New York nel 1926 da madre francese e padre austriaco. Il suo
primo contatto con la fotografia avviene in tenera età: nel 1930 la madre
divide l’appartamento con la ritrattista Jeanne Bertrand e molto
probabilmente da qui ha inizio la sua avventura di fotografa. Trascorre poi
l’infanzia in Francia e nel 1951 torna negli Stati Uniti dove lavora tutta la
vita come baby-sitter. Non c’è molto altro. “Disse che fin da giovane aveva
scelto di diventare bambinaia perché le sembrava che le potesse garantire
una certa libertà e perché qualcuno le dava un tetto sopra la testa”, ricorda
Chuck Swisher, membro di una famiglia presso la quale lavorò negli anni
Novanta.
Poi, nel 2009, anno della sua morte, Vivian Maier viene casualmente
scoperta da John Maloof, un agente immobiliare che sta scrivendo la storia
di Portage Park, il quartiere dove vive a Chicago e durante un’asta è
convinto di acquistare materiale utile alle sue ricerche. In realtà diviene
l’erede di un tesoro, gran parte del patrimonio artistico appartenuto alla
fotografa: un numero imprecisato di rullini, molte delle sue macchine
fotografiche, un’infinità di ritagli di giornale che la fotografa conservava in
maniera maniacale, bobine costituite da spezzoni di pellicola 8 mm a colori
della durata di pochi minuti, che riprendono alcuni rituali della vita urbana.
E da quel momento inizia a diffonderne l’opera.
Quali sono i soggetti di Vivian Maier? Gli individui che incontra a New
York e Chicago, nell’America del dopoguerra: l’anziano debilitato aiutato
da un poliziotto, il bambino che guarda il contenuto di un’enorme scatola
abbandonata per strada, le coppie di giovani e anziani che si abbracciano o
si tengono per mano, la bambina con il viso sporco che sfida lo sguardo
della fotografa, i passanti che si soffermano davanti alle vetrine, gli
individui che dormono: sulle scale che sboccano nei marciapiedi, in
spiaggia, sulle panchine. E poi la città con le sue forme astratte e talvolta
desolate, gli oggetti e molti autoritratti: in un infinito gioco di specchi e
riflessi, nei quali essa si ritrova a guardarsi.
Tutto esiste a prescindere, è costan-temente presente, silenzioso, mai
esposto. Vivian Maier vive con il soggetto immortalato, ma nel contempo
prende le distanze, e facendosi distante, osserva sempre in lontananza, a
ritroso, come per effetto di un sentimento di non appartenenza. Lo esprime
anche nella scelta della fotocamera, la Rolleiflex che ha questa particolarità:
il fatto che il visore per l’inquadratura è posto nella parte superiore della
macchina, rende necessario impugnarla più o meno al centro del corpo,
evitando il contatto visivo con il soggetto, anche se, spiega Joel Meyerowitz,
proprio perché si può “inquadrare dal basso, furtivamente, lasciando libero
lo sguardo del fotografo permette di entrare in connessione con chi viene
fotografato”. Una sorta di intimità a distanza.
E nondimeno quel gesto è sufficiente. Forse la fotografa, nel momento
esatto in cui decide di non voler dare una forma alle cose che vede, inizia a
sentire, a vedere realmente: il suo sguardo ha messo al riparo il soggetto
senza consegnarlo alla vista, ha evitato di trasformarlo in un memento mori.
Per questo nelle immagini di Vivian Maier, se da un lato si intuisce che
“fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità
e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa)”, come scrive
Susan Sontag, dall’altra, la scelta di non sviluppare i negativi, di sottrarli
alla vista, forse vuole suggerire proprio la possibilità di disgiungere
l’inestricabile legame che unisce l’immagine fotografica alla morte, ovvero
l’istante in cui isolando un “determinato momento e congelandolo”,
afferma ancora la Sontag, tutte le fotografie “attestano l’inesorabile azione
dissolvente del tempo”, o in altre parole, l’istante che Roland Barthes
definisce “il ritorno del morto”, l’“è stato”, il noema della fotografia, la sua
stessa essenza, quella di un istante che “è stato sicuramente,
inconfutabilmente presente, e tuttavia è già differito”.
Nonostante questo, camminare nelle stanze della galleria Forma
Meravigli a Milano, è camminare insieme a Vivian nelle strade di Chicago e
di New York. Significa cercare. Cosa?, ci si chiede. Cosa cerca questa donna
fra la folla di una città? Essere fuori di casa, come scrive Charles Baudelaire
“e ciò non pertanto sentirsi in casa propria; veder la gente, essere in mezzo
alla gente” e restare nascosta alla gente?
Oppure è una forma particolare di discrezione, quella che Pierre Zaoui,
nel suo saggio L’arte di scomparire attribuisce alla flânerie, intesa come
esperienza “di non poter essere altro che una libera deambulazione tra ‘le
forme reificate della vita’” e all’azione di flâner ovvero il gesto
profondamente ambiguo di “accondiscendere al mondo moderno senza
toccarlo, inscriversi nel mondo con lo stesso gesto con cui lo si rifiuta”.
Forse Vivian Maier sta semplicemente cercando il suo sguardo, un
modo di stare al mondo in silenzio e insieme il tentativo di colmare quel
vuoto, con i segni silenziosi di altre presenze impresse (e mai sviluppate)
sulla pellicola: i volti delle donne, dei bambini, degli emarginati, degli
irregolari. Presenze destinate a non lasciare alcuna traccia, che ricordano le
“voci ridotte al silenzio dall’interdetto del potere e del potere della
ragione”, come scrive Carlo Sini, “assenza d’opera, dice Foucault; assenza
bianca che separa dal linguaggio della ragione e dalla promessa del tempo”.
Eppure Vivian Maier con la sua macchina fotografica mette in salvo le
loro esistenze effimere, le salva tutte, senza alcuna distinzione, con
generosità. Non ha sviluppato i suoi rullini ma li ha conservati, ha dato a
quei volti, a quei luoghi, a quegli oggetti abbandonati, la possibilità di
essere eterni. Un paradosso, è vero, ma profondamente umano.
E se scrivere, come afferma Herta Müller, “è una necessità interiore
contro una resistenza interiore”, sembra che il gesto di fotografare, per
Vivian Maier, abbia la medesima valenza: presenza e assenza, intimità e
distanza, silenzio e rumore, luce e buio. “Io scrivo sempre per o contro me
stessa”, prosegue la scrittrice rumena, “ogni volta aspetto fino a quando è
inevitabile. Procrastino la scrittura perché so che una volta iniziata si
impossessa di me, fino a mettermi paura. Quando poi ci sono dentro, mi
inghiotte completamente”.
Conoscere la storia di Vivian Maier e guardare le sue fotografie produce
lo stesso effetto. La sua resistenza interiore è contro il mondo che la
circonda, così anche la necessità di fotografarlo. E per ogni spettatore la
necessità di conoscerlo.
Judith Malina
Rossella Menna
Quando Robert Kramer nel 1975 girò Milestones, uno dei più incredibili e
sottovalutati film degli anni Settanta, fu in grado di mostrare, nella sua
forma più efficace e appropriata, uno dei momenti più importanti della
storia americana degli ultimi decenni. La generazione degli anni Sessanta,
protagonista di un decennio di lotte che cambiò in profondità gli stili di
vita culturali e le forme di rappresentazione ideologica di quel paese, si
trovò per la prima volta in una situazione di impasse. I rapporti di forza
sociali ed economici erano di fatto immutati, il movimento dei diritti civili
non era riuscito nemmeno a scalfire le macroscopiche disuguaglianze che
contraddistinguevano (e continuano a farlo ancora oggi) i ghetti
afroamericani, così come i conflitti sindacali assistevano ad un progressivo
arretramento che poi portò alla devastante svolta reaganiana degli anni
Ottanta. Gli anni Settanta, pur con tutte le ricchezze che quel decennio
espresse, erano dunque gli anni del riflusso: quelli in cui una generazione
politicizzata iniziò a disgregarsi, a vivere la possibilità del cambiamento
come un’illusione e a ricominciare a mettere al centro
l’individuo. Milestones è in questo senso un’incredibile narrazione del
ripiegamento nel privato di quegli anni, ma anche forse della presa di
coscienza di quanto siano complessi i rapporti di forza politici, sociali e
persino individuali e personali. E che per cambiarli sarebbe stato necessario
inventarsi una strada diversa.
Il cinema di Ross McElwee potrebbe essere visto come il contro-campo
o la continuazione di quel processo di transizione politico e personale.
Anche figurativamente, in Milestones i vari protagonisti della vicenda
viaggiano tutti in direzioni diverse: è come se dalla comunità politica fosse
iniziato un lento processo di allontanamento. Nel cinema di Ross McElwee
questo percorso di separazione – di sostituzione della grammatica del
collettivo con il lessico e l’immaginario del privato – è ormai compiuto. La
dimensione della politica è senz’altro presente, ma rimane sullo sfondo,
non riesce a interagire se non a distanza con quella personale e individuale.
[…]
L’opera di McElwee che porta questa riflessione alle conseguenze più
estreme è Sherman’s March. Il film dovrebbe svilupparsi lungo tre direttrici:
un racconto di un evento storico, la Campagna di Savannah, che venne
condotta nel 1864 dal generale dell’Unione William Sherman, durante la
guerra di secessione americana e che devastò grande parte della Georgia e
della Carolina; una riflessione sull’incombente rischio di una guerra
nucleare con i sovietici (con annessa la preoccupazione per la costruzione di
rifugi anti-atomici); e la ricerca da parte di Ross di una “brava ragazza del
Sud” con la quale sposarsi a seguito dell’insistente richiesta dei suoi
famigliari.
Già da subito è chiaro che la figura di Sherman e la questione della
guerra nucleare saranno un semplice pretesto finalizzato a produrre una
serie di vere e proprie associazioni libere che riguardano Ross McElwee, il
suo rapporto con la sessualità e le donne, e il suo rapporto con il cinema.
McElwee segue il consiglio della sorella che gli suggerisce di sfruttare il
rapporto immediato che è in grado di instaurare con la gente per via della
macchina da presa (“tutti ne sono affascinati. È un argomento di
conversazione. Pensano che tu sia della televisione”) per attrarre su di sé
l’attenzione delle donne e per risolvere la sua vita sentimentale appena
messa in crisi dalla rottura del rapporto con l’ex-fidanzata. La macchina da
presa, portata in giro dal solo McElwee con una bizzarra one-man
crew, diventerà allora in questo film una vera e propria propagine corporea:
vedremo il regista avere discussioni estremamente private con le diverse
donne che incontrerà, lo vedremo denudarsi emotivamente di fronte allo
spettatore. Ogni aspetto della sua vita, persino le confessioni notturne,
verranno rese visibili alla macchina da presa. L’idea di usare questo
espediente a proprio vantaggio secondo il suggerimento della sorella è
tuttavia sempre sull’orlo di rovesciarsi nel suo opposto: l’uso strumentale
della vita a fini cinematografici. McElwee ammetterà eloquentemente verso
la fine del film che “sembra che stia filmando la mia vita solo per avere una
vita da filmare”. Non si capisce quindi se Ross a un certo punto voglia
davvero avere un rapporto con una donna o se non stia semplicemente
tentando di usare le proprie relazioni sentimentali come pretesto per avere
un rapporto con il suo vero oggetto di godimento, che è il cinema.
In questo senso i momenti più disturbanti sono proprio quelli dove la
conversazione tra McElwee e il suo interlocutore si sposta naturalmente sul
registro intimo, quasi sensuale: come quando si vedono alcune delle
protagoniste abbracciare Ross accanto alla macchina da presa, o come
quando in una discussione particolarmente intima e toccante si vede
persino il braccio dello stesso McElwee uscire da dietro la macchina da
presa per entrare nel campo visivo e accarezzare sulla guancia una delle
donne con cui sta parlando. Il personaggio che a questo riguardo verbalizza
esplicitamente questa ambiguità è proprio Charleen, la ex-maestra di
McElwee che lo accuserà apertamente di usare l’ostacolo della macchina da
presa per non avere rapporti con le donne.
L’economia libidica che è in gioco nell’utilizzo della macchina da presa
ci mostra implicitamente come l’atto di guardare venga caricato da
McElwee di una dimensione propriamente pulsionale: filmare è in sé un
atto di godimento. Non è possibile smettere di farlo, nemmeno quando
l’intimità della relazione con una donna consiglierebbe di spegnere la
macchina e cominciare a “vivere per davvero”, come consiglia Charleen.
Tuttavia l’idea di Charleen risiede su un’ingenuità: ritiene che un
soggetto preferisca vivere senza mediazioni; che esso faccia meglio a gettarsi
nel pieno della vita, invece che utilizzare uno schermo e magari godere di
esso. La psicoanalisi ci insegna invece che propria la dimensione pulsionale
è soggetta a una logica paradossale: non trae piacere dal raggiungimento del
fine più vantaggioso, ma mette in atto un “attaccamento appassionato” ad
un elemento nocivo, antivitale e irriducibile alla strumentalità. L’idea di
soggetto che emerge dalla pratica di McElwee non è quella di colui che
vuole ricercare l’immediatezza positiva della vita (come una certa ideologia
del Sud come luogo dell’autenticità vorrebbe invece far credere), ma
semmai quella dell’attaccamento ad un elemento singolare e nocivo, come
quello che spinge al fumo.
Questa riflessione diventa esplicita in un passaggio molto significativo
di Bright Leaves:
A volte provo un grande piacere a filmare, soprattutto al Sud, che non mi importa cosa riprendo.
Anche riprendere una stanza di motel può essere un’esperienza quasi ipnotica. Non voglio
stabilire per forza un’analogia ma, se ci penso, per me filmare non è diverso che fumare una
sigaretta. Quando guarda attraverso il mirino, il tempo sembra fermarsi. Raggiungo una sorta di
momento senza tempo. Giocherello con il tempo di posa, le profondità, i mirini […] Quando
sono in viaggio per le mie riprese a volte immagino mio figlio tra qualche anno, quando io non ci
sarò più, che guarda ciò che io ho filmato. Posso quasi sentirlo che mi guarda da qualche punto
lontano nel futuro attraverso queste immagini e riflessioni, attraverso i film che gli ho lasciato.
[…] Come al solito filmo senza alcuna ragione particolare. È solo una scena, un momento di vita
quotidiana.
Nel 1962, Jonas Mekas si era ritrovato a guardare per la prima volta tutto il
suo materiale girato. I filmati avevano registrato la vita quotidiana, nei
momenti stessi in cui accadevano al di là della cinepresa, gli avvenimenti
della città e ciò che era attorno alla sua vita familiare e pubblica, con ritratti
di persone frequentate o incontrate di sfuggita: “Le immagini che pensavo
non avessero collegamento, improvvisamente incominciarono a sembrare
come notebook con molti parti di congiunzione. Dal momento in cui stavo
studiando queste immagini, divenni curioso nei riguardi della forma
del diary film e questo certamente incominciò a influenzare il mio modo di
girare, il mio stile. E in un certo senso ciò mi aiutò a unire alcuni miei
pensieri. Mi dissi: “Bene, molto bene, se non ho tempo di spendere sei o
sette mesi per fare un film, non voglio soffrire per questo; filmerò brevi
annotazioni, giorno per giorno, ogni giorno” (da un’intervista in: P. A.
Sitney, Visionary Film: The American Avant-Garde, Oxford University Press,
New York, 1974, p. 190).
Attratto dal mistero di qualcosa che si rivela in modo casuale, immaginò
le varie riprese in un modo tale che si venisse a creare un flusso di
immagini, colto senza esitazioni, con un montaggio mentale già effettuato
in macchina, in tempo reale, da fruire nell’atto stesso del vedere e del
rivedere, accadimenti che in un secondo momento potevano essere
rimontati entro una narrazione secondaria, che dipana le sue scene nelle
diverse stagioni, anche senza un senso cronologico. Nei suoi primi diary-
film (Lost Lost Lost, Walden e In Betweenformano una trilogia di diari
newyorchesi, Diaries, Notes and Sketches, girati tra il 1949 ed il 1975),
Mekas sviluppa un processo caratterizzato da flussi e riflussi poetici, con
uno stile fra il genere documentaristico e quello diaristico, scandito da un
ritmo che trova accenti e atmosfere diverse pur in uno scorrimento
ripetitivo, di grande effetto, in grado di comunicare la visione lirica del
tempo, nella continua coazione del presente con il passato.
Le riprese hanno un buon bilanciamento della luce, effettuate con un
sapiente uso della cinepresa a spalla, con una personale applicazione di certi
segreti di esposizione, di movimento e velocità. Le opere sono costituite
perlopiù da brevi riprese, girate con la tecnica dei single frame, ovvero con
la registrazione di un’immagine non più a 24 frames al secondo ma a un
frame alla volta. Questo stile crea distorsioni nel colore e nella messa a
fuoco, predilige sovrimpressioni e continui movimenti dell’immagine.
Anche il montaggio è molto personale: Mekas sperimenta nuovi modi per
legare assieme le varie scene dando loro un senso compiuto, con un flusso
realistico e visionario al contempo, inframezzando a volte le immagini con
i black screen o utilizzando numerosi titoli per introdurre e presentare le
scene e i personaggi.
I diary-film vanno a costituire un’opera frammentata dell’intera vita del
film-maker, con scene in cui spesso è stata volutamente omessa la data, con
una sequenza di accadimenti e immagini che sono stati mescolati,
nell’ottica di riflettere sulle cose e sugli accadimenti, per richiamare in
causa più forze e più significati, tra introspezione e analisi filosofiche, tra
ricerca contemplativa e rivelazione: “[…] nel girare, nel prendere degli
appunti con la camera, la scelta più importante consiste nel calibrare la
reazione con la cinepresa proprio ora, nel momento in cui accade; come
reagire nel modo giusto perché le riprese riflettano cosa provo in quel
momento. All’inizio pensavo che ci fosse una differenza di base tra il diario
scritto prima di andare a letto, che è un processo riflessivo, e il diario
filmato. Nei miei diari filmati pensavo stessi facendo qualche cosa di
diverso: stavo catturando la vita, pezzi di essa nel momento in cui accadeva.
Ma realizzai molto presto che non c’era poi molta differenza. Quando sto
girando sto anche riflettendo. Ogni cosa era determinata dai miei ricordi,
dalla mia memoria. Così questo modo di girare divenne anche un modo di
riflettere. In qualche maniera, capii che scrivere un diario non è solo
riflettere, guardare indietro. I tuoi giorni, come ti tornano alla memoria nel
momento in cui scrivi, sono misurati, scelti, accettati, respinti e rivalutati
da come uno si sente nel momento in cui scrive. Perciò non vedo più così
grandi differenze tra il diario scritto e il diario filmato”.
In contemporanea ai film diary, Mekas scrive anche poesie che cercano
di trascendere le semplici reiterazioni dei discorsi quotidiani.
Nella mostra allestita a Bergamo, nel Palazzo della Ragione, The
Seasons (2017) è una doppia proiezione di immagini fisse e in movimento,
senza sonoro, che racconta le stagioni a New York, città adottiva del regista
lituano dal 1949. In alcuni momenti della narrazione le immagini tremano,
oppure i movimenti sono accelerati, o le riprese si soffermano per pochi
istanti prima di tremare o di accelerare di nuovo il passaggio delle persone.
I filmati degli anni Settanta scorrono in innumerevoli modi, testimoniano
un flusso vivace, il formicolare della gente che esiste e scorre nella vita
quotidiana della città. È una declinazione multicolore di innumerevoli
persone che vivono nella metropoli americana. E attorno a loro, alle loro
occupazioni o ai momenti di vacanza, la natura segnala lo scorrere dei mesi
nelle stagioni. La gente è ripresa nei pomeriggi primaverili a Central Park, o
nelle giornate autunnali a Soho, o sulla neve, o intenta a pattinare sul
ghiaccio a Rockefeller Center o a rincorrersi per colpirsi con palle di neve, o
a scivolare con le slitte. Tornano alla mente alcune opere di Brueghel il
Vecchio, i suoi quadri invernali. Mekas testimonia il suo tempo, la banalità
del quotidiano, in una maniera simile a quella documentata da Brueghel e
dagli innumerevoli disegni di Rembrandt, con il medium del suo taccuino
filmico. Poi, per qualche momento, irrompono i fiori della primavera, e le
persone che toccano e annusano le loro corolle. Ma tornano di nuovo
immagini invernali, la gente sul ghiaccio, riprese in bianco e nero. Poi
ancora qualche frame primaverile a colori e subito dopo di nuovo filmati
invernali in bianco e nero. E poi un acquazzone ripreso dai finestrini di
un’auto in viaggio sulle strade e sui lunghi ponti di New York, in epoca più
recente. E di nuovo il freddo periodo invernale, nella morsa della neve,
negli anni Settanta. Scampagnata di famiglia nel parco, in una giornata di
sole, primaverile, con moglie e figlia. Ancora riprese di un incendio, con i
pompieri al lavoro. Primavera, nel parco. Autunno. Inverno.
Continuamente a darsi il cambio in stretta vicinanza. In un montaggio che
ama anche la presenza del caso o dell’incontro fortuito o per stacco, dal
biancore della neve ai colori accesi dei fiori primaverili, della natura in città.
Dalle giornate di sole alle riprese azzurrognole dei pomeriggi piovosi.
All’interno di questo flusso vi sono anche riferimenti precisi, come il 24
maggio 1983, l’anniversario del ponte di Brooklyn, o l’ultima passeggiata
con Jerome Hill il 7 luglio 1972, e scene che ritraggono attimi di vita di
alcuni dei celebri amici di Mekas, come ad esempio Andy Warhol, Antonia
Brico e Carl Theodor Dreyer.
Il reale, nella sua vastità così immensa da sembrare a noi illusi mortali
persino percepibile, fluisce non solo nella complessità della natura ma
anche in miliardi di persone, ogni secondo da milioni di anni, ed è
accaduto anche a noi, che ora siamo qui. Questo penso ogni volta che mi
lascio condurre da un’opera di Jonas Mekas, mentre ho anche il rimpianto
di non aver ripreso (anch’io) tutto quello che ho incontrato fin ora con la
mia vita, perché ora avrei il desiderio di rimontare quel flusso di momenti,
di atmosfere e di fatti, che quando li ho vissuti non ho saputo leggere e
sentire nella loro complessità e bellezza. Insomma ho la tendenza, mentre
guardo le opere di Mekas, a voler tornare indietro per toccare di nuovo cose
che adesso mi interessano molto, a cui do molto valore, e che non son
riuscito a comprenderle pienamente. Ricordo The Italian Notebook (1967),
le sue immagini che hanno il sapore vintage, virate al rosa, con i tagli e le
“sporcature” nella pellicola, i quali scandiscono ogni tanto passaggi quasi
astratti, che irrompono nel reale. Mi sembra anche di rivedere molti sogni
che pensavo di aver dimenticato, e che invece il montaggio veloce, i colori e
le luci delle riprese girate in Italia negli anni Sessanta riportano a galla,
vicino al cuore. E il flusso è così veloce e seducente, come al finestrino di
un treno in corsa (anche con i pensieri e i ricordi di quello che si è visto
prima), che non ho il tempo per pensare anche alle cose spiacevoli che
potrebbero essere impigliate in quel flusso di coscienza.
Nella mostra bergamasca è presente anche Out-Takes from the Life of a
Happy Man (2012), un film composto da materiale omesso dai lavori
realizzati da Mekas tra il 1960 e il 2000. È un ulteriore diario filmato, in
cui si alternano immagini di città, scene dei viaggi in Lituania, e frammenti
di vita famigliare per lo più girati nel lo di New York in cui Mekas e sua
moglie Hollis hanno cresciuto i due figli. E il flusso di immagini scorre
secondo un “ordine casuale”, intervallato da scene che ritraggono l’autore
in anni recenti, assorto nel suo studio mentre svolge, taglia, riassembla
pellicole, e rivela: “Immagini, solo immagini senza altro scopo, solo per me
e pochi amici […]. I ricordi se ne sono andati, ma le immagini sono qui, e
sono reali!”.
Joshua Meyrowitz
Vanni Codeluppi
[…] rapporti equivalenti che annullano ogni interesse particolare a danno di altri… rendendo gli
individui sempre più liberi sul terreno materiale e morale… L’arte plastica non tollera
l’oppressione e non è condizionata da fattori materiali e fisici, perché l’oppressione ritarda il
progresso umano.
L’arte nuova concede alla linea e al colore un’esistenza indipendente nel senso che essi non sono
né oppressi né deformati dalla forma particolare (l’aspetto naturalistico delle cose) ma formano
essi stessi la loro limitazione appropriata alla loro natura. Analogamente, nella vita futura, la
società concederà a ogni individuo un’esistenza autonoma in accordo col suo proprio carattere.
L’arte dimostra nella sua finalità che la libertà individuale – che è stata finora un “ideale” – si
realizzerà nel lontano futuro.
Ma quanto sarebbe bella la nostra vita già oggi se potessimo realizzare questi alti ideali di tutti i
tempi, come l’amore disinteressato, l’amicizia autentica, la vera bontà ecc.
Edgar Morin
Francesco Bellusci
Edgar Morin stesso, nel prologo del quinto dei sei tomi della sua
monumentale La Méthode, ci svela la bussola segreta usata nel lungo
itinerario di ricerca percorso, per oltre mezzo secolo, a suo dire, come il
caminante della poesia di Machado, senza la certezza di sentieri tracciati in
anticipo. Lapidariamente scrive: “L’ossessione principale della mia opera
concerne la condizione umana”. E, infatti, i libri dell’esordio, L’uomo e la
morte (1951) e Cinema o l’uomo immaginario (1957), a metà tra
antropologia e sociologia, sono dedicati alla dimensione immaginaria, cioè
mitologizzante, fantasmatica, onirica, intesa come parte integrante della
realtà umana, innescata ora dalla paura della morte, già nelle società
arcaiche, ora dai processi di proiezione e identificazione dell’uomo
moderno di fronte allo schermo, in quelle sale cinematografiche dove
tornano a brulicare i fantasmi, gli spettri, i demoni dell’uomo delle caverne
discesi ormai nelle caverne interiori dell’uomo moderno e dove le antiche
divinità dell’olimpo sono surrogate dallo star system del cinema e dello
spettacolo.
Dopo alcune ricerche pionieristiche sulla cultura di massa che
incrociano i lavori sulle mitologie moderne e sulla società industriale dei
suoi mentori Roland Barthes e Georges Friedmann e dopo un soggiorno di
studi al Salk Institute for Biologic Studies in California, a circa vent’anni di
distanza, Morin completa il viaggio nella condizione umana con Il
paradigma perduto (1973). Qui, s’inficia definitivamente la concezione
insulare dell’uomo, isolato dalla natura e dalla sua natura, che viene invece
riscoperto nella polidimensionalità fisica, biologica, culturale, sociale,
attraverso l’intersezione delle nozioni di uomo e di vita e l’integrazione delle
conoscenze filosofiche e socioantropologiche con quelle della biologia,
dell’etologia e dell’ecologia. Un nuovo approccio interdisciplinare che
consente, ad esempio, di non dimenticare che il cervello studiato come
organo biologico e lo spirito (mind) studiato come funzione o realtà
psicologica, da discipline e dipartimenti universitari distinti, non esistono
l’uno senza l’altro e soprattutto l’uno è nel medesimo tempo l’altro.
Viandante instancabile tra i saperi e tra i due secoli, ventesimo e
ventunesimo, vagabondo e pontiere delle scienze umane e delle scienze
naturali, refrattario alle specializzazioni e al rispetto delle frontiere stabilite,
questo intellettuale-titano, che da pochi mesi ha varcato la soglia dei 95
anni, è sempre sfuggito intenzionalmente alla classificazioni disciplinari e
accademiche tradizionali, ma a buon titolo è definibile filosofo, se, come
diceva Maurice Merleau-Ponty, il filosofo si riconosce dal fatto di avere
“inseparabilmente” il gusto dell’evidenza e il senso dell’ambiguità, che, nel
caso di Morin, dovremmo chiamare meglio col nome di complessità.
Complessità che lancia sicuramente una sfida alla nostra conoscenza,
ponendola di fronte al suo statuto incerto e allo scacco dell’onniscienza, dal
momento che “noi chiediamo legittimamente al pensiero di diradare le
nebbie e le oscurità, di mettere ordine e chiarezza nel reale, di rivelare le
leggi che lo governano, mentre la parola complessità può esprimere solo il
nostro imbarazzo, la nostra confusione, la nostra incapacità di definire in
modo semplice, di denominare in modo chiaro, di mettere ordine nelle
nostre idee” (E. Morin, Introduction à la pensée complexe, ESF 1990). Sono
proprio i libri che abbiamo menzionato, infatti, il luogo di gestazione di
quella “scienza nuova” da lui originalmente proposta, di quel paradigma
alternativo del “pensiero complesso”, che esporrà poi col progetto
enciclopedico di Il Metodo, dal 1977 al 2004, e di cui non smetterà, a più
riprese, di reclamare l’innesto urgente nelle sfere cruciali della politica e
dell’educazione, legando il successo delle riforme improcrastinabili per
l’avvenire dell’umanità al presupposto di una riforma del pensiero e di una
conoscenza critica della conoscenza (E. Morin, La via, Raffaello Cortina
editore 2012).
Sì, perché i nemici dichiarati di Morin, che ha combattuto per una vita,
sono i principi di quel paradigma della scienza classica che abbiamo usato
dal XVII secolo e da cui siamo ancora largamente influenzati. I principi di:
ordine (determinismo; stabilità, regolarità; causalità lineare, senza ritorno),
riduzione (il tutto interpretato a partire dagli elementi di base) e
disgiunzione (tra discipline, oggetti, campo umanistico e scientifico,
osservatore e osservato). Paradigma che pure ha permesso progressi ma che
adesso mostra limiti, rischia di mutilare più che esprimere le realtà di cui
vorrebbe rendere conto, impedisce di cogliere la complessità del reale,
intessuto di aspetti diversi, inscindibili, intrecciati, complementari ma a
volte anche contraddittori, e fa inclinare all’elaborazione di conoscenze
chiuse, isolate, in ciascuna disciplina o specialità, che risultano
impenetrabili e inaccessibili anche alle discipline affini. Solo con
procedimenti di pensiero differenti, per converso, si può accedere alla
conoscenza della realtà dell’homo complexus. E quali sono, secondo Morin, i
principi che guidano allora il pensiero complesso, che permettono di
accettare e affrontare la sfida della complessità?
Innanzitutto, il principio di organizzazione o sistema, il quale si dà a
partire da elementi differenti e costituisce un’unità nello stesso tempo in
cui costituisce una molteplicità. Si tratta cioè di pensare insieme l’uno e il
molteplice, l’unità e la diversità, senza dissolvere il molteplice nell’uno e
l’uno nel molteplice. Ad esempio, c’è unità nella diversità umana e c’è
diversità nell’unità umana. Certo, c’è un’unità biologica: abbiamo lo stesso
patrimonio ereditario della specie, che assicura caratteri unitari, o lo stesso
cervello che dispone delle stesse competenze fondamentali, ma c’è anche
una diversità biologica. Abbiamo una diversità psicologica, sociale, culturale
tra gli esseri umani, nello spazio e nel tempo, ma c’è anche un’unità
affettiva degli esseri umani (si è scoperto che riso, pianto e sorriso sono
innati e quindi gli uomini non imparano a ridere, piangere, sorridere) e in
tutte le società umane si riscontra la presenza di musica, canto e poesia.
Qualsivoglia entità auto-organizzata è sempre qualcosa in meno e in più
della somma delle sue parti e va decifrata con l’idea sistemica di emergenza
e con l’idea cibernetica di retroazione: ad esempio, in un’organizzazione
sociale ci sono vincoli (giuridici, politici, militari) che possono inibire
potenzialità individuali, ma la totalità sociale ha proprietà emergenti come
la cultura, il linguaggio, l’educazione che poi retroagiscono positivamente
sulle potenzialità delle parti, cioè degli individui. Ma lo stesso potremmo
dire della vita. L’organizzazione vivente produce qualità emergenti, che non
esistono nelle macromolecole che la costituiscono: auto-riparazione, auto-
riproduzione, capacità di nutrirsi, attitudine cognitiva.
Centrale è, inoltre, il principio dialogico. I fenomeni complessi possono
presentare logiche opposte, antagoniste, ma complementari. C’è una
dialogica fondamentale che caratterizza l’uomo: l’uomo non è solo sapiens,
razionale, calcolatore, strategico, ma anche demens, folle, delirante, furente,
irrazionale. Il pensiero disgiuntivo concepisce la follia dell’uomo come il
venir meno della razionalità oppure concepisce l’uomo ora razionale, ora
folle. Sapiens e demens sono, invece, incastonati e contenuti
simultaneamente l’uno nell’altro, sempre attivi e potenzialmente creatori e
distruttori l’uno dell’altro. L’uomo non è solo faber, fabbricatore di utensili,
non è solo economico, prosaico, ma è anche ludens, immaginario,
dissipatore, poetico, cioè inventore di giochi, danze, feste, credenze
mitologiche e religiose, poesia. La vita umana ha bisogno tanto di
razionalità quanto di affettività. Morin era arrivato a questa dialogica, a
questa “doppia identità”, anche se inconsapevolmente, già nel suo primo
libro, L’uomo e la morte, in cui aveva collegato e articolato conoscenze
separate delle diverse scienze umane e della biologia e aveva cercato di
capire alcuni fenomeni contraddittori, come per esempio: come accade che
l’essere umano pur riconoscendo la morte come decomposizione del suo
corpo, concepisca sin dalla preistoria la credenza in una vita dopo la morte?
Come accade che lo stesso essere umano che lotta incessantemente contro
la morte, poi sia capace di morire per i famigliari, la patria, la religione?
D’altra parte resterebbero incomprensibili sia il radicamento cosmico-
biologico sia la polimorfa identità sociale e individuale dell’uomo se li
pensassimo senza l’ausilio del principio della causalità ricorsiva.
Un’organizzazione o un sistema genera effetti e prodotti che, a loro volta,
sono necessari a produrre e causare l’organizzazione stessa: il ciclo della
riproduzione sessuale produce degli individui che sono necessari per
continuare il ciclo riproduttivo; le interazioni sociali degli individui
producono linguaggio, cultura, educazione che però sono indispensabili alla
formazione degli individui come tali, alla soggettivazione di ciascun essere
umano, inimmaginabile in mancanza di linguaggio, cultura, educazione.
Morin esamina nel “Metodo” anche gli anelli ricorsivi che hanno
consentito agli esseri umani, nel corso dell’’ominizzazione, il salto
dall’animalità all’umanità, lo scarto rispetto agli altri primati: cervello →
mente → cultura, ragione → affetto → pulsione e individuo → società →
specie.
Così come, il principio che integra l’osservatore nella sua osservazione, il
concettualizzatore nella sua concezione, che già si affaccia nella sociologia
con Weber e nella fisica con Heisenberg, ci permette di capire che, se oggi
possiamo addentrarci di più nello studio della condizione umana e avere
più chances di comprenderne la complessità, è perché ci troviamo in un
particolare momento dell’evoluzione e della storia umane. A partire dai
primi processi di mondializzazione, siamo da entrati nell’“età del ferro
planetaria”. Per la prima volta, l’uomo può riflettere sulla sua storia globale
e sulla sua storia profonda e oggi le scienze consentono di ricostruire anche
cronologicamente il racconto dell’universo, della terra, della vita, nel quale
contestualizzare l’ominizzazione e la storia umana, che, sulla falsariga di
Michel Serres, Morin chiama “il Grande Racconto” (E. Morin, Insegnare a
vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, 2015).
Per giunta, siamo spinti a farlo dalla coscienza di avere una responsabilità
sulla natura senza precedenti: se, fino ad un secolo fa, i comportamenti
umani intaccavano solo ecosistemi locali, ambienti circoscritti, adesso
intaccano l’ecosistema globale, al punto da poter compromettere le
condizioni per la sopravvivenza della specie umana.
Il “pensiero complesso” è allora per Morin anche il giusto viatico per
entrare nel XXI secolo e per disintossicarci dagli idola che l’attitudine al
pensiero semplificante, parcellizzante e unidimensionalizzante ha
disseminato nel XX secolo. Già quasi un decennio prima del crollo del
Muro di Berlino (E. Morin, Pour entrer dans le XXI siècle, Seuil 2004, prima
edizione 1981), questo Cartesio del nuovo tempo ci ha invitato all’uso
autocritico della ragione e a distinguere la razionalità (alla base di sistemi
coerenti e teorie aperte all’autorevisione nello scambio con il mondo
esterno e nel dialogo con altri sistemi di idee) dalla razionalizzazione (alla
base di sistemi coerenti e dottrine chiuse, che scartano o rimuovono o
giudicano apparente ciò che nella realtà le contraddice); a non compiere
l’errore d’ignorare l’errore e a credere solo in verità falsificabili,
biodegradabili, fragili ma viventi; a vedere e saper vedere la complessità; a
non imprigionarsi nelle sicurezze mentali di concetti e parole dominanti,
iper-reali, cardinali (destra/sinistra, capitalismo/socialismo,
democrazia/totalitarismo, fascismo/antifascismo), ormai pietrificate,
degradate e prive di virtù operativa; ad abbandonare la linea Maginot
dell’antifascismo e temere e analizzare l’epidemia del nuovo, che in effetti
arriva sotto le vesti dello sciovinismo del benessere, del populismo, del
tycoonismo. E soprattutto ci ha spronato a entrare nel terzo millennio
riconoscendo la cattiva novella che annunciava il fallimento della
rivoluzione sognata nel secolo scorso nonché la fine di ogni idea di salvezza,
convertita nella buona novella che annunciava la fine delle illusioni e degli
errori legati ai miti ideologici del Novecento e la necessità di entrare nel
nuovo secolo con il sentimento e la convinzione della complessità, col
bisogno di un altro modo di pensare e di un’altra politica.
Il che significa, d’ora in avanti, guardare alla continuazione
dell’avventura umana non con disperazione, ma con la fiducia in nuove
potenzialità, con la consapevolezza che l’umanità non è qualcosa di dato, di
fissato, ma il prodotto di un divenire sempre ambivalente. E il futuro
possibile verso il quale ci dirigiamo, ma che è ancora una meta incerta, è
tratteggiato da Morin, a più riprese, come la quarta nascita dell’umanità e
l’avvento di una nuova forma di società (la società-mondo) dopo la paleo-
società (prima di Sapiens), la proto-società (con Sapiens) e le società
storiche: “La nascita delle società storiche comporta l’agricoltura, i villaggi,
le milizie, le città, lo Stato, la sovranità, la guerra, la schiavitù, le grandi
religioni, la filosofia, l’intelligenza, tutte cose assolutamente ambivalenti.
Oggi, il problema è sapere se ci sarà una nuova nascita dell’umanità,
insomma la capacità dell’essere umano, dei gruppi e delle società di
confederarsi pacificamente sulla Terra” (B. Cyrulnik, E. Morin, Dialogue sur
la nature humaine, Éditions sur l’Aube 2010).
Detto in altri termini, si tratta di capire se si realizzerà l’ultima tappa
dell’ominizzazione: il passaggio dall’ominizzazione all’umanizzazione, senza
l’illusione che scompaia la bipolarità sapiens-demens, ma con la speranza
che Sapiens possa essere meno demens e un po’ più sapiens e Demens un po’
più sapiens e un po’ meno demens, fino ad innalzarsi a quella antropo-etica,
realmente universalista e adeguata ad una società-mondo, finora
soppiantata dalla rivalità delle etiche comunitarie (etniche, nazionali,
sociocentriche), che dovranno aprirsi e ricollocarsi in essa.
Certo, potremmo esitare a seguire questo viandante e il suo metodo, che
se da un lato ci promette un sapere non parcellizzato, non chiuso e non
mutilato, dall’altro lato esclude “a priori” il raggiungimento della certezza e
della completezza nella conoscenza, che ci chiede di immaginare e creare
l’avvenire senza poterlo sottrarre alla casualità, all’incertezza e alla tragicità
delle cose umane. E tuttavia, come conclude in Il paradigma perduto, “è
corroborante sfuggire per sempre alla teoria dominante che spiega tutto,
alla litania che pretende di risolvere tutto. È corroborante considerare il
mondo, la vita, l’uomo, la conoscenza, l’azione come dei ‘sistemi aperti’.
L’apertura, abisso sull’insondabile e il nulla, ferita originaria del nostro
spirito e della nostra vita, è anche la bocca assetata e affamata attraverso la
quale il nostro spirito e la nostra vita esprimono i desideri, bevono,
mangiano, baciano”.
Toni Morrison
Daniela Gross
Una delle immagini più belle di Toni Morrison la mostra di profilo. La pelle
è increspata di rughe, la cascata di capelli grigi trattenuta da un fazzoletto a
fiori. Gli occhi schivano l’obiettivo e fissano lontano. Non c’è traccia di
sorriso su quel viso, composto in un’austera regalità. Il ritratto, scattato da
Kathy Grannan, è apparso sulla copertina del New York Times magazine
quattro anni fa.
È una di quelle rare immagini che incollano il soggetto a se stesso, in
questo caso a quel mix di intelligenza e impenetrabilità, durezza e civetteria
che è stato la cifra della scrittrice scomparsa la sera di lunedì 5 agosto 2019,
a 88 anni, per le complicazioni di una polmonite.
Nei ricordi che da giorni si rincorrono sui social si sfiora nella sua fine
quella di un’epoca. “Toni Morrison era un tesoro nazionale”, ha twittato
Obama che nel 2012 l’aveva insignita della Presidential Medal of Freedom.
“La sua scrittura è una bella e significativa sfida alla nostra coscienza e alla
nostra immaginazione morale. Quale dono è stato respirare la sua stessa
aria, anche se solo per un po’”.
È davvero una stagione storica che se ne va con lei, prima afroamericana
a vincere il Nobel per la letteratura. Raccontando nella sua immensa opera
l’identità afroamericana, l’impatto devastante del retaggio schiavista e il
razzismo che stenta a morire, Morrison ha lottato per quasi mezzo secolo,
senza mezzi termini né facili illusioni, contro il pregiudizio e l’ingiustizia.
E ha finito per vedere il suo mondo, quello degli ultimi e degli
innocenti, quello che nelle sue pagine aveva finalmente trovato ascolto,
uscire massacrato dai rivolgimenti della politica. L’elezione di Trump e i
micidiali attacchi del suprematismo bianco, di cui fino all’ultimo è stata
critica lucidissima e appassionata, hanno mandato in frantumi la speranza
che per un breve giro d’anni si era incarnata nel primo presidente nero. La
speranza di un’America diversa, capace di guardare al di là del colore della
pelle
Nella sua lunga esplorazione dell’universo afroamericano, Morrison ha
visto in azione i meccanismi del razzismo che percorre il Paese e non esita a
nominarli. L’identità nazionale, anzi “la forza unificante” è il colore bianco
della pelle, scrive dopo l’elezione di Trump sul New Yorker in un articolo
dal titolo che da solo è un programma, Making America White Again.
“Tutti gli immigrati negli Stati Uniti sanno (e sapevano) che se vogliono
diventare veri, autentici americani devono limitare la loro lealtà al paese
d’origine e considerarlo secondario, allo scopo di enfatizzare il loro essere
bianchi”. Una cittadina italiana o russa che emigri in America, aveva scritto
qualche anno prima, “se vuole essere americana – essere conosciuta come
tale e davvero essere parte del paese – deve diventare qualcosa di
inimmaginabile nella sua terra d’origine: deve diventare bianca. Può piacere
o meno, ma dura e ha dei vantaggi e alcune libertà”. Provare per credere,
soprattutto al Sud.
In termini politici gli effetti sono éclatanti, sostiene Morrison. “Le
conseguenze del collasso del privilegio bianco sono così spaventose che
tanti americani sono accorsi a una piattaforma politica che sostiene e
applica la violenza contro i più deboli. Più che arrabbiata questa gente è
terrorizzata, del genere che fa tremare le ginocchia”.
L’impegno politico e civile di Toni Morrison è l’espressione più tangibile
del suo complesso mondo poetico. L’una non potrebbe esistere senza l’altra
e viceversa. Il suo racconto del mondo non aspira a chiudersi in una torre
d’avorio ma vuole farsi carne, sangue, vita. Mai come nel suo caso la
letteratura parte dalla realtà e lì aspira a tornare.
Nella sua lunga carriera Morrison sostiene, con ironia, di aver fatto
sempre la stessa cosa. “Leggo libri. Insegno libri. Scrivo libri. Penso ai libri.
È un unico lavoro”, spiega a Hilton Als nel 2003. Non è così semplice,
ovviamente. Ma rassicura pensare che i libri possano ancora giocare un
ruolo così dirompente sulla scena culturale.
Nulla nella sua estrazione working class lascia presagire una carriera del
genere. Morrison nasce nel 1931 a Lorain, Ohio – una cittadina a 25 miglia
da Cleveland. I suoi hanno abbandonato il Sud sulle rotte delle Great
migration che a inizio secolo vede molti afroamericani spostarsi al Nord in
cerca di condizioni migliori. La madre Ramah è una casalinga dalla
mentalità aperta. Il padre George Wofford, originario della Georgia, a 14
anni ha assistito al linciaggio di due vicini e non ama affatto i bianchi. Si
arrangia con vari lavori e negli anni della guerra, che per molti
afroamericani non arruolati significano posti di lavoro migliori, diventa
saldatore alla U.S. Steel.
Da lui Toni, che allora porta il nome di Chloe Anthony (lo cambierà
perché all’università i compagni stentano a pronunciare Chloe), impara il
rispetto di sé e il valore del lavoro ben fatto. E la scrittura, dirà molti anni
dopo, è proprio questo: lavoro duro, oscuro e solitario. Cresciuta in un
quartiere integrato – fra i suoi vicini ci sono ungheresi, italiani e ebrei – il
futuro Nobel sperimenta l’umiliazione del segregazionismo al tempo
dell’università. Ristoranti e autobus separati, negozi dove i suoi soldi non
valgono come quelli dei bianchi. È una rivelazione.
Dopo la laurea alla Howard University a Washington, insegna inglese
alla Texas Southern University a Houston e poi alla stessa Howard. Sposa
un architetto giamaicano, Harold Morrison, da cui divorzia sei anni più
anni tardi. All’epoca, siamo nel 1964, è incinta del secondo figlio e inizia a
lavorare per L.W. Singer, la sezione scolastica della casa editrice Random
House che presto la trasferisce a New York, dov’è la prima donna
afroamericana a lavorare come editore nella sezione fiction.
Sono gli anni in cui scopre e coltiva nuove voci della letteratura
afroamericana. È lei a pubblicare, fra gli altri, Muhammad Ali, Angela
Davis, Toni Cade Bambara, Gayl Jones e il poeta Henry Dumas. È un lavoro
editoriale intenso e appassionato che finisce per preparare il terreno alla sua
stessa scrittura.
L’esordio arriva nel 1970 con L’occhio più azzurro, disperata storia della
bambina Pecola, che per sfuggire al suo destino sogna occhi azzurri come
Shirley Temple. Toni Morrison ha allora 39 anni, troppo vecchia per il
mercato americano che richiede esordi sfolgoranti prima dei trenta. Eppure
il libro entra nel curriculum della City University di New York e attira
l’attenzione dell’editrice Knopf che pubblicherà anche gli altri suoi lavori.
Il libro successivo, Sula (1973), storia dell’amicizia fra due donne
afroamericane, le vale la nomination al Book National Award. Seguono il
Canto di Salomone (1977), il magnifico Amatissima (1988), ispirato alla
vicenda di Margaret Garner che pur di sottrarre la figlia alla schiavitù la
uccide, Jazz (1992) e tanti altri per un totale di undici romanzi, libri per
bambini e raccolte di saggi.
La consacrazione arriva nel 1993 con il Nobel per la letteratura. Toni
Morrison è già allora uno di quei rari autori capaci di coniugare il favore
della critica a uno straordinario successo di pubblico. Qualche anno dopo il
massimo premio letterario, a farne un’autrice di popolarità immensa arriva
Oprah Winfrey, la giornalista afroamericana più celebre e ricca d’America.
Oprah, che finirà per recitare nella trasposizione cinematografica di
Amatissima diretta da Jonathan Demme (il film sarà un flop al botteghino),
intervista la scrittrice a più riprese e ne sceglie i libri per il suo book club.
Quando, a trent’anni dall’uscita, L’occhio più azzurro è indicato come
lettura del mese, se ne vendono 800 mila copie in edizione economica.
A quel punto Toni Morrison è già finita sulla copertina di Time. È un
volto che tutti riconoscono, un’icona della cultura afroamericana e un
modello per le nuove generazioni. È un risultato notevole, se si considerano
le premesse. A spingerla alla scrittura, dice, “è il silenzio – così tante storie
non raccontate e non esplorate”. Morrison pesca a piene mani dallo
storytelling familiare e riempie quel vuoto letterario con storie dure e spesso
disperate, tramate di violenza, melodramma, fantasmi.
Protagonista dell’immensa commedia umana che costruisce libro dopo
libro, è la comunità afroamericana, ritratta nei suoi uomini e soprattutto
nelle sue donne. Il suo è un mondo complesso e variegato. Nella sua opera,
osserva Rachel Kaadzi Ghansah sul New York Times nel 2015, “essere neri
non è una merce e non è intrinsecamente politico”.
Morrison “resiste con coerenza alla richiesta di creare una comprensione
empirica della vita dei neri in America. Invece la rende vita regolare,
quotidiana, del genere che non sbanca al botteghino ai concerti o negli
stadi – complessa, fantastica ed eroica, malgrado la svalutazione che se ne
fa”.
È una scelta che le consente di giocare con gli intrecci e con il
linguaggio. Il suo è l’inglese denso della traduzione seicentesca della Bibbia
di re Giacomo, luminoso e ammaliante. La mortalità e la possibilità della
parola sono le forze motrici dell’esistenza, sostiene. “We die. That may be
the meaning of life. But we do language. That may be the measure of our
lives”, scrive nel discorso di accettazione del Nobel. (“Moriamo. Forse è
questo il senso della vita. Ma facciamo il linguaggio. Questo può essere la
misura delle nostre vite”).
È una delle sue frasi più citate, in questi giorni. Ma, dice più avanti, “il
linguaggio non può definire con precisione la schiavitù, il genocidio, la
guerra. Né desiderare l’arroganza di esserne capace. La sua forza, la sua
felicità è nel tendersi verso l’ineffabile”.
Allergica ai luoghi comuni e agli stereotipi, Toni Morrison ha sempre
privilegiato la verità dell’esperienza al virtuosismo della “bella scrittura” che
pure conosceva così bene. Gli occhi fissi all’orizzonte luminoso delle
possibilità, ha scelto di radicare il cuore nel dolore e nella meraviglia del
mondo. Rest, Queen. La tua voce unica ci mancherà.
Vladimir Nabokov
Daniela Brogi
Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Lo-lee-ta: the tip of the tongue taking a trip of
three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.
She was Lo, plain Lo, in the morning, standing four feet ten in one sock. She was Lola in slacks. She
was Dolly at school. She was Dolores on the dotted line. But in my arms she was always Lolita.
Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della
lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.
Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo.
Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma
tra le mie braccia era sempre Lolita [p. 17].
L’incipit è un modello perfetto di poesia che entra nella prosa; le prime due
righe non ci lasceranno più: è impossibile scordarle. Perché qui non si ha la
descrizione di un ricordo, qui non c’è qualcuno che ricorda: qui c’è un
ricordo che parla, per farci ascoltare non cosa dice, ma quali suoni abbia la
sua voce.
Come tutti gli inizi, l’attacco di Lolita contiene anche la scatola nera
dell’intero racconto, perché quel giro di frasi forma una melodia
indimenticabile, che pulsa oltre le pareti degli anni, incantandoci come una
filastrocca imparata da piccoli e che pensavamo di non sapere più, ma che
invece ci accompagnerà per tutta la vita. “My SIn, my SOUl. Lo-lee-ta” è un
sigillo d’amore e una promessa di “condivisione di immortalità” che sarà
mantenuta sia dal finale del libro che dalla sua fortuna. I due capoversi con
cui comincia Lolita allestiscono un viluppo di fonemi di sensazioni di stili e
di sguardi che a prima vista potrebbe pure essere scambiato per
un’autoparodia, ma invece serve a comporre una scrittura che funzionerà
come una specie di telescopio dai mille occhi. È un attacco sinestetico, che
piega i suoni alle suggestioni visive, acustiche, tattili della pronuncia; è una
degustazione dei sensi; è un fremito di piacere in tre battute: Lo. Lee. Ta; un
triplice colpo d’ala, uno schiocco in tre tempi della lingua contro il palato;
ma è pure un ticchettìo della memoria che forma il racconto. Lo-li-ta è il
cuore della ragnatela dentro la quale è scivolato il professor Humbert, e
dentro la quale cominciamo a restare invischiati anche noi, leggendo il libro
e avanzando a rovescio, nel tempo della storia, seguendo il filo temporale
svolto dal racconto di Humbert, l’autore del memoriale scritto in attesa di
essere processato per omicidio. “[…] Dovevo tener conto dello straziante
destino della mia ragazzina, oltre che della sua grazia e limpidezza”, dirà
Nabokov in un’intervista del 1964. “Dolores le offriva anche un altro
diminutivo, più semplice, più familiare e più infantile: Dolly [che richiama
doll, ‘bambola’], che si associava bene al cognome ‘Haze’, nel quale le
brume irlandesi si fondono con una coniglietta tedesca – voglio dire, con
una piccola lepre tedesca [sovrapponendo a ‘haze’, che in inglese significa
‘foschia’, la suggestione di ‘lepre’, che è ‘hase’ in tedesco e ‘hare’ in
inglese]”. C’è da perdere la testa, nella selva di riferimenti, grovigli e
rimandi attraverso i quali prende forma un personaggio molto più capace di
fare l’amore coi propri fantasmi letterari che con una donna: la prima
fanciulla amata da Humbert, e continuamente cercata, per tutta la vita,
nella sua passione per le ninfe, si chiama Annabel Leigh, che ricalca il nome
di Annabel Lee la protagonista dell’ultima poesia/filastrocca (1849) scritta
da Edgar Allan Poe:
[traduz. di Raul Montanari, in E. A. Poe, Il corvo e altre poesie, Feltrinelli, Milano 2009]
La consonante liquida, quella elle che come un’eco risuona tra le due
sponde interne di “AnnabeL Lee”, e che torna in molti nomi di donne
amate inventate da Poe, passa da AnnabeL Leigh a LoLita, rimanendo
fedele all’infinito a un sentimento che, come i suoni, non smette di
scorrere.
Eppure conta ricordare, e più che altro conta vedere, in questo romanzo
che continuamente ci chiede di sperimentare la scrittura come espediente
visivo, che le allitterazioni e i ritorni costruiscono anche il ritmo ossessivo
dell’autoinganno, dei falsi effetti di déjà-vu, degli artefatti ritornelli che,
come nell’incipit, definiscono, attraverso la retorica del testo, un
procedimento continuo di avvitamento su se stesso: come nella ricorrenza
del numero 342, che è il numero civico dell’abitazione della Signora Haze,
la madre di Lo (p. 50), il numero della camera d’albergo dove si consumerà
il primo rapporto sessuale (p. 152), il numero di alberghi, motel e pensioni
in cui Humbert si è registrato tra il 5 luglio e il 18 novembre (p. 310)
quando cerca di ritrovare Lolita. Ecco allora che arriva il primo dei motivi
fondamentali di Lolita in un certo senso oscurati dal suo successo: Lolita è
un romanzo straordinario anzitutto per la sua forma, per i modi in cui
l’opera mima i deliri del Professor Humbert; è un capolavoro per la sua
scrittura così stratificata, come pure, in tantissimi casi, così impegnata a
comporre degli effetti tragicomici, farseschi, per esempio attraverso la
costruzione di un plot ironico: la storia di Humbert è, anche tecnicamente,
la storia, a tratti perfino ridicola, di un personaggio che fraintende
continuamente se stesso nella sua pretesa di saper portare il suo corpo
laddove lo condurrebbe il proprio desiderio: Humbert, che è “«ingenuo
come sanno esserlo solo i pervertiti” (p. 37), è continuamente lasciato dalle
donne con cui sta (ora perché muoiono, ora perché scappano con qualcun
altro), ed è ininterrottamente dirottato dal caso in spazi che non riesce a
gestire.
“Si aspettavano il crescendo di scene erotiche; quando quelle si
interruppero, loro interruppero la lettura, sentendosi annoiati e traditi”,
scrive Nabokov nella postfazione pubblicata dal 1956 (p. 391). Al centro di
questo elaborato progetto di depistaggio delle attese, come dei desideri, si
staglia allora il secondo motivo lasciato in ombra dalla fortuna sconfinante
di Lolita: il vero protagonista del romanzo non è il personaggio a cui si
ispira il titolo, bensì Humbert, con le sue ossessioni, pure con i suoi
moralismi, che si rovesciano continuamente in un inseguimento di se stessi,
secondo quanto già suggerisce onomatopeicamente la ripetizione del nome,
o la stessa struttura da romanzo giallo che il libro assume nella seconda
parte, quando Quilty da inseguitore diventerà il fantasma – un altro tra i
tanti – inseguito da Humbert. Quello che la scrittura di Lolita riesce a
inventare e a raccontare è un’atmosfera, con una capacità inimitabile di
mostrare come la passione maniacale di Humbert lavori attraverso dettagli
visivi, ragionamenti visionari. Il nervo del piacere, in Lolita, è l’occhio.
Questa è la situazione al centro del romanzo, e attorno ad essa gravita tutta
la vicenda. Proviamo allora a riassumerla: Humbert è un professore europeo
“attempato” (ha trentasette anni) che, come ci avvisa la prefazione di
maniera ottocentesca firmata dal suo avvocato, è l’autore del memoriale
scritto in cinquantasei giorni, tra l’ottobre e il novembre 1952, e preparato
per la giuria che lo giudicherà per omicidio. Nato a Parigi nel 1910, rimasto
orfano di madre a tre anni, a causa di un fulmine durante un picnic (p. 18),
nel 1923 si trasferisce in Costa Azzurra, dove s’innamora di una dodicenne,
Annabel Lee. All’ombra violetta di certe rocce rosse che formavano una
sorta di grotta, i due giovani cominciano a scambiarsi effusioni, e nel
ricordo, puntualmente, grazia e goffaggine formano uno scenario
paradossale:
Nei suoi slavati occhi grigi, stranamente occhialuti, il nostro povero romanzo d’amore fu riflesso,
ponderato e scartato come una festa noiosa, come un picnic sotto la pioggia a cui abbiano
partecipato solo i più barbosi scocciatori, come un compito monotono, come un pezzetto di
fango rinsecchito che inzaccherasse la sua infanzia (p. 339)
[…] mi resi conto con stupore, mentre le mie ginocchia di automa andavano su e giù, che non
sapevo proprio nulla della mente del mio tesoro (p. 354).
Risponde a uno di quei casi che paiono invece ubbidire a una sceneggiatura
superiore, che Leonard Nimoy se ne sia andato (nella sua casa di Bel Air,
oggi, per una malattia polmonare della quale soffriva da tempo)
all’indomani della cerimonia degli Oscar che ha visto trionfare Birdman,
cioè la storia – interpretata da Michael Keaton, a suo tempo star nella serie
dei film di Batman diretti da Tim Burton – di un attore che, prigioniero di
un personaggio memorabile che ha riscosso un inopinato successo, vede
andare a vuoto i suoi tentativi di smarcarsene abbracciando una nuova
persona di sé. Perché è esattamente quanto capitato a Nimoy, negli ultimi
46 anni d’una vita di 83, rispetto al personaggio del Signor Spock: il Primo
ufficiale dell’Astronave Enterprise nelle mitiche prime tre serie televisive –
le cosiddette “serie classiche” – di Star Trek, andate in onda sulla NBC dal
settembre 1966 al giugno ’69.
Naturalmente ha fatto tante altre cose, Nimoy, prima e dopo Star Trek
(basta rinviare alla relativa voce di Wikipedia), ma era perfettamente
consapevole di essere e restare, per tutti, solo e sempre il Signor Spock.
È palpabile il rassegnato divertimento col quale nel 2011, in una delle
sue ultime apparizioni, si congeda dal pubblico coll’icastico saluto
vulcaniano (una specie di “V” churchilliana rinforzata o doppia; una “W”,
allora, iniziale magari di Warp: la “curvatura” che permette all’Enterprise di
affrontare i suoi viaggi interstellari). E pare che il suo ultimo tweet sia stato
proprio “Live long and prosper”, “Lunga vita e prosperità”: il motto di
saluto che quel gesto, sempre, accompagna.
Perché alla fine, proprio come il personaggio interpretato da Keaton nel
film di Iñarritu, con quella maschera di ferro alla fine Nimoy ha avuto la
saggezza di riconciliarsi. (Eloquenti i titoli dei due libri autobiografici,
pubblicati a distanza di vent’anni l’uno dall’altro: I am not Spock nel ’75, I
am Spock nel ’95.) Da ben presto, per la verità: se è vero che fu proprio lui –
dopo essersi rifiutato di tornare a vestire i panni dell’ufficiale della Flotta
Astrale in una seconda serie televisiva (che poi, negli anni Ottanta, verrà
bensì realizzata ma con un cast del tutto rinnovato, quello capitanato da
Patrick Stewart, collocato in una linea temporale 78 anni successivo al
continuum narrato dalle “serie classiche” anni Sessanta) – a consentire che,
nel ’79, Star Trek diventasse un lungometraggio cinematografico (primo
d’una serie di dodici – i primi sei col cast delle “serie classiche”, poi quattro
con la Next Generation, infine gli ultimi due, del 2009 e del 2013, che –
grazie a uno stratagemma di sceneggiatura – vedono i due equipaggi riuniti,
con dunque il ritorno di un ottantenne Nimoy nel ruolo di Spock; del terzo
e quarto film, Alla ricerca di Spock e Rotta verso la Terra, rispettivamente del
1984 e dell’’86, Nimoy ha firmato anche la regia; del quarto e del sesto,
Rotta verso l’ignoto del ’91, la sceneggiatura: a conferma d’una sua
progressiva identificazione con la mitopoiesi trekker).
Ma chi è Spock, e perché lo amiamo? A differenza di tante saghe
fantascientifiche (ma per lo più afferenti piuttosto, come le snobbiamo noi
puristi, al sotto-genere della Space Opera: dalle parti di Star Wars, per
intendersi) offuscate da afrori identitari e più o meno sottilmente razzisti –
più consoni in effetti al genere western o a quello “di guerra” – Star Trek
incarna a meraviglia lo spirito più attraente degli anni in cui vennero
concepite e realizzate le sue “serie classiche”. Lo slogan col quale iniziava
ogni puntata – “Spazio, ultima frontiera” – se in effetti richiamava alla
lontana l’immaginario western, riprendeva apertamente quello col quale
John F. Kennedy – all’inaugurazione di quel decennio, alla convention
democratica di Los Angeles, il 14 luglio 1960 – aveva fatto irruzione
nell’immaginario collettivo, appunto riallacciandosi all’epos ottocentesco
della “Frontiera” (“Siamo sul bordo di una Nuova Frontiera, la frontiera
delle speranze incompiute e dei sogni. Al di là di questa frontiera ci sono le
zone inesplorate della scienza e dello spazio, problemi irrisolti di pace e di
guerra, peggioramento dell’ignoranza e dei pregiudizi, nessuna risposta alle
domande di povertà ed eccedenze”): non a caso proprio quello
dell’esplorazione spaziale sarà il più affascinante dei punti in programma
sull’agenda della Presidenza Kennedy.
In un altro celebre discorso, tenuto il 12 settembre 1962 al Rice
Stadium di Houston – nel Texas che l’anno dopo gli sarà fatale (e con un
parallelo che “a posteriori” suona in effetti un po’ menagramo) – Kennedy
così aveva annunciato l’inizio della corsa che sette anni dopo si concluderà
con l’allunaggio dell’Apollo 11 sul Mare della Tranquillità: “Tanti anni fa a
un grande esploratore inglese, George Mallory, che sarebbe poi morto nel
tentativo di conquistare l’Everest, chiesero perché ci tenesse tanto a scalare
quella montagna. E lui rispose: ‘perché sta lì’. Ecco: lo spazio sta lì, e noi lo
scaleremo; la luna e i pianeti stanno lì, nuove speranze di conoscenza e pace
stanno lì. E allora nel cominciare il cammino chiediamo l’aiuto di Dio per
l’avventura più arrischiata e pericolosa, la più grande avventura in cui
l’umanità si sia imbarcata”. (Vale la pena riascoltare, a questo punto, il
resto del claim iniziale degli episodi di Star Trek – un vero e proprio
manifesto ideologico, insomma –: “Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi
dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta
all’esplorazione di strani nuovi mondi alla ricerca di altre forme di vita e di
civiltà, fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima”).
Al di là della sorte individuale di JFK, e anche al di là del giudizio che si
voglia dare sulla sua avventura politica (che oggi gli storici tendono a
formulare in modo assai più chiaroscurato di quanto la vulgata
contrabbandi), proprio lo “spirito d’avventura” di quella generazione, oggi,
difficilmente si riesce a evitare di rimpiangere. Ed è proprio questo, credo, il
vero motivo della fascinazione rétro di noi Trekkers. Che non a caso si
sviluppa a partire dagli anni Settanta (la NBC chiude l’ultima delle tre
“serie classiche”, nel ’69, proprio per il successo inferiore alle attese):
quando presidente è l’anti-Kennedy, Richard Nixon; quando la Luna è stata
ormai conquistata e non c’è modo di proseguire ancora oltre. E quando il
ciclo economico e politico, dopo una fase euforicamente espansiva durata
più d’un decennio, rientra nella stagnazione e nella depressione.
La stessa fase, cioè, in cui ci troviamo oggi. Il nucleo di Interstellar,
l’irresistibile blockbuster di Christopher Nolan snobbato dagli Oscar, è il
cortocircuito sul quale si regge la prima, stupefacente parte del film: quella,
appunto più un western dai toni quasi faulkeriani che un film di
fantascienza, ambientata su un pianeta Terra percorso da tempeste di
polvere e che, ridotto alla fame da una non precisata “piaga” che ha fatto
deperire tutte le coltivazioni tranne il mais, s’è ridotto a un unico immenso
campo di granturco. Il protagonista Cooper, interpretato da Matthew
McConaughey, è un ex pilota della NASA abitato da una lancinante
nostalgia di quel futuro che la sua generazione ha fatto in tempo a
intravedere ma che le circostanze gli hanno sottratto.
I costi esorbitanti delle missioni spaziali le hanno rese impopolari, s’è
diffusa una nuova vulgata la quale accredita come storica la nota leggenda
metropolitana secondo la quale nessun americano avrebbe in effetti mai
calpestato il suolo lunare. Lo spazio – e con esso quella prometeica tensione
al futuro – è stato abbandonato da tempo.
Ogni narrativa d’anticipazione si nutre di una visione. E anche laddove
tale visione sia cupa, apocalittica, distopica, questo suo tendere “verso un
altro orizzonte” ha sempre qualcosa di liberatorio. Misteriosamente
liberatorio. Per farsi una ragione di questo, si dovrà tenere conto del fatto
che ogni storia fantascientifica, in effetti, è una storia di “viaggio”: anche
laddove non siano “odissee nello spazio”, le narrazioni d’anticipazione
sono, per definizione, “odissee nel tempo”: spostamenti anacronici nel
futuro, nella grande maggioranza dei casi; altre volte nel passato; comunque
in una dimensione temporale alternativa al presente. Per questo
quintessenza dello spirito della fantascienza è il tema del “viaggio nel
tempo”: che, guarda caso, troviamo tanto in Star Trek che in Interstellar. E
in quanto costitutivamente appartenenti all’archetipo del viaggio, e
malgrado ogni avversa fortuna, le storie-che-si-spostano-nel-tempo
conservano un irriducibile quanto di vitalità. L’allegria di naufragi, magari,
d’ungarettiana memoria; o quello che, capovolgendo Freud, Andrea
Zanzotto chiamava il piacere del principio. Un piacere che si produce magari
in forma negativa, introflessa e malinconica, quando a venire messa in
scena sia, precisamente, l’interdizione al viaggio: come nel più bel film di
fantascienza che sia stato realizzato dopo Alien e Blade Runner di Ridley
Scott, Gattaca di Andrew Niccol. O, appunto, come nella prima parte di
Interstellar.
In particolare, degli anni in cui è stata concepita, la “serie classica” di
Star Trek mostra un’evidente matrice ideologica di stampo kennediano,
multietnica e cosmopolita. Basta vedere la composizione dell’equipaggio
dell’Enterprise: per la prima volta nella storia della televisione un
giapponese, una donna di origine africana, diversi americani, uno scozzese,
un alieno e un russo (nel momento in cui il mondo era spaccato in due
dalla Guerra fredda) si trovavano a lavorare insieme per esplorare l’universo
alla ricerca di nuove culture con cui dare vita a reciproci scambi in nome
dell’uguaglianza e della pace. Eloquente a tal riguardo un aneddoto che
riguarda la creazione del personaggio del navigatore Chekov, l’ufficiale
addetto alle armi nell’equipaggio delle “serie classiche”. L’ideatore della
serie, Gene Roddenberry, decise di aggiungere il ruolo di Chekov solo nella
seconda stagione, in risposta a un presunto articolo pubblicato dalla
«Pravda», il quale avrebbe protestato che, pur essendo l’Unione Sovietica
leader nell’esplorazione spaziale, nessun membro dell’equipaggio
multinazionale dell’Enterprise fosse russo. In realtà la «Pravda» non
pubblicò mai un articolo del genere, e Roddenberry con ogni probabilità se
lo inventò di sana pianta: appunto allo scopo di realizzare il suo ideale di
unità dei popoli.
E fece epoca, nell’ultima delle tre “serie classiche”, l’episodio Plato’s
Stepchildren (Umiliati per forza maggiore), trasmesso il 22 novembre 1968:
in cui si vede il primo bacio interrazziale della storia della televisione. Se lo
danno Uhura e, naturalmente, il sempre romantico e piacione capitano Kirk
(interpretato da William Shatner). Anche se, con una certa ironia e insieme
una certa cautela, a quel gesto così trasgressivo i due personaggi in realtà
vengono costretti, nel plot dell’episodio, dai poteri telecinetici del crudele
Re-filosofo del pianeta Platonius, Parmen (l’ironia goliardica
dell’onomastica è perfettamente in sintonia collo spirito un po’ nerd che
pure appartiene a noi Trekkers). Il personaggio di Uhura – prima persona di
colore a ricoprire un ruolo di ufficiale comandante, nonché a mostrare
l’ombelico in una fiction televisiva – divenne presto fra i più popolari
beniamini del pubblico: tanto che una leggenda assai attestata vuole che
dovette intervenire in persona Martin Luther King, a un certo punto, a
dissuadere l’interprete, Michelle Nichols, intenzionata ad abbandonare la
serie. Ma il vero salto di Star Trek nell’iperspazio interrazziale è
rappresentato appunto da Spock. Il quale, col suo aplomb vagamente
confuciano e il suo “Lunga vita e prosperità”, rappresenta una strizzata
d’occhio al neo-orientalismo tanto in voga in quegli anni – fra Herman
Hesse e i Beatles, diciamo. Ma soprattutto, con la sua inconfondibile
fisicità, Spock incarna appieno e immediatamente, proprio, quell’utopia
interrazziale che a Kirk e Uhura, invece, tocca inscenare in modo così
macchinoso. Spock infatti non è un alieno, bensì un “mezzo” alieno:
mezzosangue figlio di una terrestre e d’un vulcaniano. E proprio a questa
sua origine meticcia, forse, si deve che sia lui l’unico personaggio della
“serie classica” a non indulgere a romanticismi più o meno languidi: i quali
rischierebbero portarlo a mésalliances ancor più trasgressive di quella che gli
ha dato i natali. Quando in una certa occasione proprio Uhura gli si accosta
con fare sensuale e gli chiede “Dica un po’, che si fa sul suo pianeta
Vulcano in una romantica sera di luna piena?”, lui replica con quella che è
in assoluto la mia preferita fra le innumerevoli battute della serie
(devotamente raccolte dai fan in una quantità di appositi siti): “Vulcano
non ha la luna, tenente Uhura”.
Spock è la versione postmodernista, pop e kennediana, d’un archetipo
high-modern decisamente tragico: l’Hans-Karl Bühl di Der Schwierige
(L’uomo difficile), dramma pubblicato nel 1921 da Hugo Von
Hofmannsthal. Reduce traumatizzato dalle trincee della Grande Guerra, il
ricco scapolo viennese Bühl tace quasi in ogni circostanza, per evitare di
dare giudizi affrettati o esprimere concetti superflui. E, così facendo, mette
in crisi gli altri personaggi: specie le donne che, più lui tace e si sottrae, più
lo desiderano. Spock non è un traumatizzato di guerra (anche se non
dobbiamo trascurare che è un militare). È il suo sangue vulcaniano a
proibirgli di esprimere emozioni, certo; ma in effetti un trauma, nella sua
vita, c’è eccome. Solo che non si nasconde nel suo passato, “bensì nel suo
futuro”: una lacerazione destinata a spezzare la sua esistenza così ordinata,
e che egli teme più d’ogni altra cosa. Tutto il comportamento suo come
degli altri vulcaniani, anzi, si può interpretare come un tentativo di tenere a
bada la propria natura, di eludere quest’appuntamento catastrofico per
mezzo di una sua censura preventiva.
In quello che è forse l’episodio più celebrato delle “serie classiche”,
Amok Time (in Italia Il duello, episodio inaugurale della seconda stagione, in
onda il 15 settembre 1967), scritto da un celebre autore di fantascienza,
Theodore Sturgeon, Kirk finalmente costringe Spock, a denti stretti, a
rivelare il suo segreto. Un suo improvviso, insistente quanto sorprendente
nervosismo è dovuto, ammette, alla “biologia vulcaniana”: cioè al sistema
riproduttivo della sua specie. I vulcaniani, spiega, contraggono il
matrimonio in età infantile con la promessa che essi tengano fede
all’impegno in età adulta. Spock è giunto a questo momento, il pon farr, e
se non farà ritorno immediato su Vulcano per accoppiarsi con la sua sposa,
T’Pring, morirà. La sua logica per solito impeccabile, nelle more del pon
farr, viene messa a tacere dal sangue vulcaniano ch’entro gli rugge. Così
Kirk disobbedisce agli ordini della Flotta, e dirige la nave, alla massima
velocità, verso Vulcano. Insieme all’altro compare di sempre, il sardonico e
insieme sentimentale dottor McCoy (che di Spock è la perfetta antitesi
dialettica, e con lui in quasi ogni episodio s’intrattiene infatti in gustosi
siparietti), viene invitato a presenziare al rituale di matrimonio – il koon-ut-
kal-if-fee. Giunti al momento fatidico, però, T’Pring annuncia di non avere
intenzione di sposare Spock, e chiede che venga celebrato un antico rito nel
quale i pretendenti alla sposa devono battersi fra loro: indicando, come suo
campione contro Spock, proprio Kirk. Nel frattempo lui e McCoy hanno
mangiato la foglia; hanno capito che T’Pring, nella lunga assenza di Spock,
ha imbastito una tresca con un baldo vulcaniano purosangue, Stonn:
proprio lui, verosimilmente, sarebbe destinato a venir scelto in caso di
forfait di Kirk. Il quale, temendo che Spock sia troppo debole per lottare
contro Stonn, accetta. Solo a questo punto gli viene detto, però, che
secondo le regole del rito il loro sarà un combattimento all’ultimo sangue.
Accecato dal ribollire del pon farr, Spock, gli occhi iniettati di sangue, si
lancia contro l’amico; conosce le armi e gli stili di combattimento locali;
inoltre Kirk soffre il clima torrido di Vulcano. McCoy ottiene di iniettargli,
per rinvigorirlo, un composto di tri-ossido. A questo punto Spock sembra
strangolare a morte Kirk, e McCoy riporta il corpo del capitano
sull’Enterprise. Lo choc di aver ucciso il proprio migliore amico, d’incanto,
fa sbollire la smania sessuale di Spock: il quale chiede ragione a T’Pring del
suo comportamento. Lei allora gli spiega che non voleva essere la “sposa di
una leggenda”, quale è divenuto ormai Spock per il suo popolo. La scelta di
Kirk come suo campione rispondeva, ci mancherebbe, alla logica: se avesse
vinto lui, non avrebbe avuto motivo di sposarla; in caso contrario sarebbe
stato Spock a lasciarla, proprio a causa della morte dell’amico. Di fronte a
questo ragionamento inattaccabile, e così perfettamente vulcaniano, Spock
lascia T’Pring a Stonn e torna sulla nave, in attesa di affrontare la corte
marziale per omicidio. In infermeria però trova Kirk vivo e vegeto: su
Vulcano McCoy aveva iniettato al capitano un neuroparalizzante che aveva
solo simulato la morte. A quel punto, la gioia di incontrare Kirk vivo si
dipinge sul volto di Spock, tradendo una volta di più la sua proverbiale
corazza caratteriale.
La narrazione che, ogni volta diversa e ogni volta uguale, si trova alla
base di tutte le storie di fantascienza rappresenta una lezione tanto più
necessaria in tempi tristi come il nostro, dominati dallo spirito che gli
anglosassoni chiamano T.I.N.A., “there is no alternative”. Ci insegna che
“un altro mondo”, invece, “è possibile”. E cioè che a essere possibile – qui e
ora, non in una galassia lontana lontana – sia “un altro tempo”. Allora non
si può che augurare al Signor Spock – che questo “altro tempo” ha saputo
indicarci, nei tanti decenni che ha passato nel nostro, in forma larvale –:
“lunga vita e prosperità”
Flann O’Brien
Daniele Benati
Ho incontrato Anna Maria Ortese tardi, vent’anni fa, quando nel maggio
del 1996 uscì in libreria il suo ultimo romanzo, Alonso e i visionari, ancor
oggi il mio prediletto. La storia del puma mi emozionò, mi commossero
soprattutto le ultime pagine con l’altissima preghiera allo “Spirito del
mondo”. Da Alonso sono risalita a ritroso, lungo la sua prolifica produzione,
attraverso Il cardillo addolorato (1993), Il porto di Toledo (1975), L’Iguana
(1965), fino alle prose del Mare non bagna Napoli (1953). Ho citato le
tappe per me più significative di un percorso lungo, vario e diseguale.
Ortese morì poco dopo, nel marzo del 1998 a ottantaquattro anni. Fece in
tempo a lasciarci un altro piccolo libro indispensabile per comprendere la
sua poetica e il suo modo di stare al mondo: Corpo celeste.
Figura eccentrica e dislocata rispetto alle consorterie culturali del
belpaese, nel suo nomadismo esistenziale ne incrocia tuttavia alcune
traiettorie d’influenza: dal gruppo “Sud” dei giovani raccolti intorno a
Pasquale Prunas al patrocinio di Massimo Bontempelli degli esordi
napoletani, dall’Einaudi di Vittorini e Calvino alla Roma dei premi e dei
clan letterari, dalla Milano dell’editoria più blasonata fino all’incontro con
Roberto Calasso e la sua Adelphi che ne rilancerà l’opera. Napoli, Roma e
Milano le città del suo vagabondaggio, fino all’approdo ligure di Rapallo
dove vivrà l’ultimo ventennio della sua esistenza, in un esilio volontario,
lontano dalle luci della ribalta letteraria e da un paese che sentiva estraneo.
Eppure, a dispetto dell’immagine distorta che tendeva a dare di sé, di
autodidatta sprotetta e lamentosa, illetterata e ingenua, si era alimentata
con libri buoni, importanti, specie di area angloamericana; aveva nutrito
forti passioni e indignazioni civili, capaci di suscitare polemiche animose su
questioni quali il ruolo degli intellettuali nell’Italia del secondo dopoguerra,
sulla liberazione dei criminali nazisti, sulla pena di morte, sulla sorte degli
animali e delle creature viventi in genere.
Ha scritto molto Ortese, pubblicato molto e molto ha tenuto nei
cassetti del tavolo di lavoro. Ha scritto per sopravvivere, come si legge per
sopravvivere, quando si legge davvero. Ha scritto anche e più prosaicamente
per sbarcare il lunario, perché altro non poteva e non sapeva fare. E ha
scritto di tutto: racconti, romanzi, poesie, pièces teatrali, reportages,
inchieste, articoli di cronaca e di costume per quotidiani e riviste. Nel 1955,
come inviata per l’«Europeo», inseguì persino le biciclette del Giro d’Italia –
vinto da Fiorenzo Magni – e con esse Marcello Venturi, l’unico amore
accreditato della sua vita.
Non tutto è di grana fina, specie nella produzione servile e in quella
poetica. Ma la sua scrittura è sempre appassionata e raggiunge spesso vette
meravigliose.
Nei suoi romanzi migliori si ha netta la sensazione di una narratrice
invasa, travolta dall’immaginazione.
Le storie – sosteneva – si impossessavano di lei a tal punto da non
sapere dove l’avrebbero condotta. Il suo lettore conosce bene la sensazione
di sperdimento, di leggera vertigine che lo coglie a mezzo del racconto.
Anche per questo non è autrice di agile lettura. Per giunta, Ortese non dà
corpo a personaggi memorabili, che battezzino stati sentimentali o destini
universali d’immediato rispecchiamento; è narratrice più di sguardi, di
atmosfere, di emozioni. E di misteri inafferrabili, di metamorfiche
rivelazioni. Visionaria è l’aggettivo che lei stessa ha avvalorato per la sua
cifra poetica.
A fronte di tinte così contrastive – c’è chi sostiene troppe e confuse – di
fortune alterne e lunghe eclissi, perché tornare all’opera di Anna Maria
Ortese? E quali dei suoi libri privilegiare? Oltre ai romanzi già ricordati,
vale la pena sfogliare i libri di cronaca e di viaggio raccolti nella Lente scura
o in Silenzio a Milano. Quanto alle ragioni per proporre un invito alla
lettura di questa Ortese, ne avanzo una sola, non certo l’unica, ma la più
potente: il raro e saldo impegno etico che pervade le pagine dei suoi
romanzi e dei suoi racconti, la fede che sorregge scelte tematiche e di
campo coraggiose, anticipatrici e controcorrente almeno nell’Italia di quei
decenni. Il destino degli esclusi è al centro del suo orizzonte narrativo, e tra
questi gli ultimi degli ultimi, più disarmati dei poveri, più o quanto i
bambini: gli animali. Ne è ultima testimonianza il recente volume di
Adelphi Le Piccole Persone.
Mi piace ricordare tra i suoi ammiratori Paolo De Benedetti, il grande
biblista da poco scomparso, con cui condivideva molti punti di convergenza
filosofica, ché di filosofia – per non dire di teologia – si tratta. Così scrisse
di lei, a proposito del cavallo martoriato di Bambini della creazione (in In
sonno e in veglia) – ricordo napoletano della sua giovinezza che la tormentò
fino alla fine:
La Ortese era una scrittrice con un animo così ricco e profondo di sentimento, e uso il termine
nel senso più elevato, del ‘sentire’. Dice in questo brano e in molti suoi altri, cose che noi non
dimenticheremo mai.
Non la conoscevo personalmente: lavoravo nella casa editrice di cui lei era autrice, ma ho sempre
avuto per lei un atteggiamento di venerazione. Credo che questa pagina sia stata letta anche da
Dio in cielo (Teologia degli animali, a cura di Gabriella Caramore, Morcelliana, Brescia, 2007, p.
74).
Grace Paley
Federica Arnoldi
A volte, per entrare nelle pagine dei grandi – gli autori che, per dirla con
Lukács e con Franco Moretti, hanno fatto della forma la “risoluzione di una
dissonanza dell’esistenza” – è necessario bussare. Per rispetto e con cautela,
perché c’è sempre il rischio di distorcerne la poetica piegandola più del
dovuto all’arbitrio. È sufficiente un temporaneo stato di rilassamento
generale delle forze perché il lettore perda la capacità di storicizzare.
Sarebbe un peccato, soprattutto quando si ha a che fare con autori
inequivocabilmente politicizzati e capaci di trasformare la condizione
soggettiva nella rappresentazione di un’esperienza umana che non è
estranea al tentativo di afferrare il proprio presente, sempre incalzante ma
così imprendibile.
Quando la risolutezza con cui alcuni autori del Novecento hanno
esplorato i grovigli insondabili della memoria del sé si lega a una riflessione
più ampia sulla lingua e sui codici dell’ambiente sociale e del lavoro, così
come sul rapporto con la religione, l’ideologia, le tradizioni,
quest’attitudine alla combinazione di un certo tipo di militanza spirituale e
di predisposizione al riposizionamento costante rispetto al mondo merita
uno sforzo maggiore da parte del lettore. Ci sono opere, infatti, il cui
sguardo sulle cose è così parziale – dunque universale, nella misura in cui
getta un intenso fascio di luce su situazioni di subordinazione o di
disuguaglianza – da spronare alla presa di posizione. Esse incoraggiano a
non coincidere totalmente con la propria situazione storica, a staccarsi dal
dominio opaco della contingenza che è governato dalla tirannia del
presente, per lanciarsi nella comprensione delle origini di uno scrivere
dettato da un’urgenza specifica, perché “comprendere un movimento, un
autore, un testo è anche comprendere la relazione che c’è fra noi e la nostra
epoca da una parte e quel movimento, quell’autore e quel testo dall’altra”
(Romano Luperini).
Nel caso di Grace Paley (1922 – 2007), una delle voci più autorevoli tra
i maestri statunitensi della forma racconto, il suo progetto – la parola è qui
usata nell’accezione che ne dà Franco Fortini: “la proiezione di una
complessiva proposta di sé a sé stess[a] e degli altri a loro” – il suo progetto
prende le mosse dalla percezione di un fastidio che è anzitutto fisico. È un
peso quasi all’altezza del cuore che giorno dopo giorno si impone
all’attenzione generale dei sensi, alterando anche la circolazione sanguigna.
Qualcosa le è andato inesorabilmente di traverso: “[…] nel ’54 o ’55
sentivo il bisogno di parlare in maniera originale delle nostre vite di
femmine e di maschi in quegli anni, c’era una consapevolezza che mi
provocava una vera pressione fisica […]”. E, ancora più chiara: “[…] ho
cominciato a scrivere in un’epoca in cui i problemi delle donne mi facevano
stare davvero male e mi riguardavano direttamente”.
I personaggi femminili che popolano i racconti della scrittrice nei libri
Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti