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Volontariato: effetti benefici sulla persona ed occasione di

crescita educativa e riabilitativa per giovani e adolescenti in


situazione di fragilità, sofferenza e devianza.

Abstract

La presente prova finale vuole essere un percorso di ricerca e riflessione sul fenomeno del volontariato
che nasce a seguito della mia personale esperienza come volontario nel Servizio Civile Nazionale
presso l’Associazione “La Misericordia di Galluzzo” in Firenze.

Si è indagato sulle motivazioni che inducono le persone a svolgere attività di tipo volontaristico nonché
come e in che misura, stando a recenti studi, si possa determinare una relazione significativa tra queste
ultime e buona salute, sia fisica che mentale in chi le compie.

L’indagine si è focalizzata sui giovani e in particolare sui soggetti di fascia adolescenziale che
presentano situazioni di fragilità, devianza e sofferenza, nel tentativo di presentare le dinamiche che
possono rivelarsi efficaci nel migliorare la loro qualità di vita, redendoli capaci di porsi un’idea di
benessere alternativo a quello “illusorio” indotto da scelte devianti e antisociali.

In principio, mantenendo uno sguardo ampio, si è fornita una panoramica delle ricerche riguardanti gli
assunti teorici che sottendono le attività di volontariato. In seguito, si è cercato di illustrare i tratti
distintivi degli adolescenti con tutte le problematiche ad essi legate e, infine, sono stati analizzati i
principali effetti psicodinamici del volontariato sui soggetti appartenenti a questa fascia di età.

Attraverso questo lavoro si è compreso come il volontariato rappresenti un fenomeno complesso che
per le sue molte sfaccettature è impossibile persino definire in maniera chiara e univoca.

Dalla tesi è possibile trarre le seguenti considerazioni:

- a determinare benefici in chi si dedica al volontariato è la concomitanza di fattori biologici e sociali;


- il volontariato può costituire per i giovani e gli adolescenti un’occasione di crescita nonché un limite
alla decisione di intraprendere scelte devianti e antisociali.

- il fenomeno presenta anche punti di debolezza riscontrabili sia a livello personale (senso di
inefficacia, di inadeguatezza, o al contrario, di onnipotenza) che associativo (mancanza di tempi e spazi
di relazione, mancanza di autentica collaborazione con le istituzioni del territorio).
INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha come oggetto di studio il volontariato, fenomeno che, sia socialmente sia
politicamente, sta ricoprendo un ruolo sempre più incisivo non solo in Europa, ma anche nel resto del
mondo. “In tutti i paesi del mondo si registra un aumento, o una tenuta, della percentuale di persone
impegnate nella comunità di appartenenza che, attraverso azioni libere e solidali di volontariato,
contribuiscono non solo ad offrire servizi sociali utili, ma anche a ridare forza ai legami sociali, a
consolidare le basi per la costruzione di una cultura, della solidarietà, della responsabilità e dalla
giustizia e cittadinanza. (Diella, 2016, p. 4)
Inteso in senso ampio come attività volta a fare del bene agli altri, il volontariato è riconosciuto in
letteratura come comportamento prosociale, una tendenza che è stata indagata spaziando dallo studio
dei comportamenti individuali manifesti, ai processi affettivi e cognitivi ad essi sottesi. riguardando
quindi, la personalità. (Caprara, 2006).
Più recentemente la prosocialità e il volontariato sono stati oggetti di studio delle neuroscienze (BMC
Public Health). Richard spiega che molti studi precedenti hanno riportato dati che sembrano deporre a
favore della tesi che il volontariato produce effetti positivi ma che per lo più si tratta di evidenze
narrative prive di confronto con studi sperimentali. Nello studio condotto da lei e altri vengono invece
analizzati tutti assieme risultati di ricerche sperimentali e quelli di studi longitudinali di coorte la cui
durata è stata considerevole. (Richard et al., 2013).
Stando all’approfondita analisi, i vantaggi per la salute mentale sarebbero chiari: miglior benessere
generale, minor rischio di ansia e depressione, una maggiore soddisfazione per la propria vita in
generale. Alcuni dati hanno anche suggerito una riduzione della mortalità del 20 per cento; tuttavia,
Richards ammette che le prove dei benefici sulla longevità sono meno attendibili. Effetti positivi sono
stati registrati anche a livello fisico: sul cuore, sulla pressione, sulla capacità di difesa del sistema
immunitario.
Secondo uno studio pubblicato su JAMA Pediatrics anche gli adolescenti impegnati in progetti di
volontariato stanno meglio: si riducono il colesterolo, i marcatori dell’infiammazione e pure il peso; in
più si registrano effetti positivi sull’autostima, l’umore, la capacità di empatia e la salute mentale. I
meccanismi che portano a questi risultati non sono però chiari. Alcuni sostengono che i volontari
possono beneficiarne perché trascorrono tanto tempo all’aria aperta o muovendosi. Altri sottolineano
che aiutare gli altri è appagante per la psiche e questo, attraverso il sistema neuroimmunoendocrino che
“mette in comunicazione” cervello, sistema immunitario e attività metaboliche, comporterebbe benefici
a tutto l’organismo. (Schreier et al., 2013).

La scelta di affrontare questo argomento scaturisce dalla mia personale esperienza in qualità di
volontario nel Servizio Civile presso l’Associazione “La Misericordia del Galluzzo” in Firenze che mi
ha dato l’opportunità di cogliere emozioni, bisogni, valori e stili di comunicazione miei, del gruppo di
appartenenza ed altrui, in situazioni emergenziali di assistenza sanitaria, sia di natura fisica che
psicologica.
Mia intenzione in questo lavoro, è di poter fare il punto sui fattori che orientano le persone a svolgere
attività di tipo volontaristico nonché, come e in che misura si possa determinare una relazione
significativa tra queste ultime e buona salute, sia fisica che mentale di chi le compie.

In questa indagine la mia ’attenzione è particolarmente rivolta ai giovani e agli adolescenti che
presentano situazioni di fragilità, devianza e sofferenza, nel tentativo di presentare le dinamiche che
possono rivelarsi efficaci nel migliorare la loro qualità di vita, redendoli capaci di porsi un’idea di
benessere alternativo a quello “illusorio” indotto da scelte devianti e antisociali.

La presente tesi è divisa in due parti. Nella prima parte si tenta di fornire una panoramica delle ricerche
riguardanti gli assunti teorici che sottendono le attività di volontariato. Nella seconda parte vengono
presentati i principali effetti psicodinamici del volontariato sui giovani e sugli adolescenti.

La tesi si compone di sette capitoli.

Nel primo capitolo si cercherà di inquadrare il fenomeno del volontariato nella sua cornice di
riferimento: la prosocialità analizzando gli studi condotti in tale ambito in riferimento alle motivazioni
che sottendono la scelta di dedicarsi a questa attività. Verranno presentati inoltre i principali aspetti
sociali, politici e culturali che il fenomeno ha assunto nel nostro Paese e nel resto del mondo.

Il secondo capitolo sarà dedicato al comportamento prosociale, al suo sviluppo dall’infanzia all’età
adulta, ai suoi fattori motivanti sia personali, quali l’empatia e l’autotrascendenza, sia ambientali quali
quelli dettati dai valori e dalle tradizioni della propria comunità di appartenenza.

Nel terzo capitolo si presenteranno le determinanti genetiche dell’aiuto agli altri e i benefici che
quest’azione può sortire sulla salute sia fisica che mentale delle persone che la compiono. L’accento sì
porrà sul ruolo di prevenzione e cura della depressione che il volontariato può assumere nei riguardi di
soggetti di diverse età.

Il quarto capitolo riguarderà gli apporti positivi che il processo formativo può fornire ai soggetti che si
dedicano ad attività di volontariato: conoscenza di sé stessi, delle proprie capacità, della realtà in cui
operano, acquisizione di competenze e abilità utili per relazionarsi e operare in maniera efficace, sia
all’interno del gruppo di volontari di cui si fa parte, sia nelle relazioni con i destinatari dell’intervento e
con gli agenti presenti nel territorio.

Nel quinto capitolo si analizzeranno gli studi condotti sui comportamenti antisociali degli adolescenti,
sulle loro cause e i possibili interventi da attivare sia a livello di prevenzione che di cura. Si cercherà di
comprendere come, il desiderio di affermare la propria indipendenza, mettersi alla prova, entrare in
relazione con le proprie emozioni profonde possano, per gli adolescenti, realizzarsi attraverso il
volontariato, inteso come contesto relativamente protetto e sicuro in cui vivere opportunità di
socializzazione, costruire o consolidare la propria identità, rafforzare la propria autostima e la fiducia in
sé stessi.

Nel sesto capitolo si presenteranno: un’indagine riguardo l’impegno dei giovani nelle attività di
volontariato, le motivazioni che li orientano verso questa scelta e le caratteristiche di una forma di
volontariato emergente negli ultimi tempi: il volontariato così detto “occasionale”. Non vincolata da
appartenenze associative, questa forma, stando ai dati, attrae di più i giovani rispetto al volontariato
tradizionale. Infatti, sembra possa essere esercitata con maggiore libertà, conciliata con altri impegni e
interessi, svolta in base alle proprie inclinazioni e disponibilità.

Nel settimo e ultimo capitolo l’obiettivo sarà quello di ricercare quali possano essere gli interventi
educativi e psicodinamici per accompagnare gli adolescenti, inseriti nelle comunità di volontariato, nel
loro percorso di crescita nonché quale ruolo in questo percorso, possono rivestire la famiglia e altre
figure, comprese quelle specialistiche. Succede infatti che, molte volte, le associazioni di volontariato
accolgono al loro interno ragazzi con disagi psicologici che fanno capo a diverse tipologie di devianza
e marginalità cui occorre dare risposta attraverso l’ausilio di professionisti.
Il punto di partenza per la mia ricerca è stato la lettura di un articolo di Neuroscienze apparso sul
Corriere della sera dal titolo: “Il volontariato fa bene alla salute e potrebbe addirittura allungare la
vita”. Prestando, in quel frangente, servizio come volontario, sono rimasto molto incuriosito
dall’argomento per cui sono andato alla ricerca di fonti nel tentativo di inquadrare il concetto di
volontariato dal punto di vista psicologico e cogliere alcune risposte circa le potenzialità del fenomeno
in generale. A tal proposito due in particolare mi sono state molto utili: il libro “Psicologia del
volontariato” di E. Marta e M. Pozzi (2007) e il libro “Volontariato: professione benessere” di Eutropia
(2005). Come studente di psicologia clinica e neuropsicologia il mio interesse è stato soprattutto diretto
a capire gli effetti del volontariato sul sistema nervoso centrale. Ciò mi è stato possibile leggendo
quanto riportato nell’ultimo studio sull’argomento pubblicato sul British Medical Journal nell’agosto
del 2016.
Avendo a cuore le problematiche adolescenziali ed essendomi imbattuto in studi che hanno rilevato il
senso di comunità in questa fase della crescita, (Albanesi, Cicognani & Zani, 2004, 2005, 2006;
Chiessi, Cicognani & Sonn, 2010), ho pensato che per gli adolescenti il volontariato potesse
rappresentare una sorta di “laboratorio” dove sviluppare abilità e capire qualcosa di sé nella faticosa
ricerca di un costrutto identitario peculiare di questa età. A tal proposito ho illustrato i tratti distintivi
dell’adolescenza con tutte le problematiche ad essa legate, ho analizzato i rischi e i vantaggi che un
percorso di volontariato per questa fascia di età potrebbe presentare. Per allargare la ricerca e avere un
quadro chiaro e globale della tematica, ho comparato le argomentazioni dei suddetti testi con numerose
altre fonti offerte dalla letteratura.
Nella certezza che ogni persona, dedicandosi al volontariato affronta e gestisce, gli inevitabili
cambiamenti personali e sociali, secondo modalità e risorse personali e uniche, ho ritenuto opportuno,
dedicare, alcune note, alla mia esperienza personale, alla fine del lavoro.
La passione per la tematica mi ha infine reso attento, fin dall’inizio di questo percorso, a tutto ciò che
poteva essere utile per organizzare la trattazione in modo esaustivo per cui anche la partecipazione a
conferenze, corsi di formazione sia presenza che online nonché semplici approcci televisivi e video
presenti su You Tube, mi hanno permesso di spaziare tra diversi studi ed esperienze nel tentativo di
conoscere il pensiero di quanti come me hanno nutrito interesse per l’argomento.
Grazie a questo lavoro di ricerca è stato possibile analizzare i fattori legati alle potenzialità ma anche i
limiti che presenta volontariato sia in riferimento ai singoli soggetti che alla collettività; risultati che
saranno esposti dettagliatamente nelle conclusioni finali di questo elaborato.
Capitolo I

IL VOLONTARIATO: UN INQUADRAMENTO CONCETTUALE

1.1 Il volontariato oggi


Avere una visione chiara di cosa sia il volontariato oggi non è semplice. A partire dagli ultimi
cinquant’anni fino ad oggi, il fenomeno ha acquisito sempre più importanza diventando oggetto di
numerosi studi e ricerche. Nonostante l'interesse che si coltiva, è difficile però trovare una definizione
chiara ed univoca di questa attività, (Tavazza, 1990); (Snyder & Ometto, 2000).
In letteratura non è presente una definizione precisa del concetto stesso di volontariato, tuttavia,
attraverso una rilevazione di circa 300 articoli e un’analisi del contenuto di undici tra le più comuni
definizioni di volontariato in lingua inglese, alcuni studiosi ne hanno identificato i quattro specifici
fattori:
- il grado di libertà di scelta dell’atto
- la natura della sua ricompensa
- il contesto in cui esso avviene
- gli effetti sul beneficiario. (Cnaan, Goldberg & Glenn, 1991).
Secondo la definizione di Tavazza, il volontariato si delinea come un’attività con assenza di un
rendiconto economico, di natura altruistica, senza vincoli di parentela/amicizia che leghi i soggetti
implicati nel rapporto dare/ricevere (Tavazza, 2001).
A differenza del comportamento di aiuto spontaneo ed occasionale che è ritenuto reattivo, il
volontariato è considerato un comportamento proattivo (Diella, 2016). La differenza è che il
comportamento reattivo è privo di pensiero progettuale e di previsione mentre, il comportamento
proattivo riesce anche prevenire situazioni, tendenze o problemi futuri in modo da pianificare
anticipatamente le opportune azioni.

Generalmente nell’ambito del volontario c’è sempre la tendenza verso un lavoro di equipe, dove
vigono il senso di appartenenza e di condivisione: coloro i quali hanno queste personalità cercheranno
sempre di far parte di una associazione di tipo no-profit” (Penner & Finkelstein, 1998).
In comune i volontari evidenziano una personalità prosociale che viene descritta come “tendenza a far
ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono negli altri” (Caprara
& Bonino, 2006, p.10). Fattore motivante del comportamento prosociale è l’empatia, che è la capacità
di “mettersi nei panni dell’altro” (Fortuna & Tiberio, 1999, p.11) percependo, in questo modo,
emozioni e pensieri. È un termine che deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”, e consiste nel
riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per
comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti, emozioni e “pathos”. In altre parole, l’empatia
consente di “sintonizzarsi” con gli altri sia emotivamente che cognitivamente. L’atteggiamento
empatico si mette in atto quando si sa cogliere il vissuto dell’altro, si sa ascoltare, si sanno contenere i
sentimenti, ci si attiva a rispondere al bisogno di aiuto con professionalità, si riescono fronteggiare le
richieste e l’esigenza di colui che ha una situazione svantaggiata. (La Rosa, 1997).
La personalità del volontario è dunque contraddistinta da ascolto, interpretazione, compassione,
dedizione. La riuscita del suo impegno e il senso della sua realizzazione umana, è lo sventato pericolo,
la cura, il riordino di problemi che nessuno può affrontare da solo.
Nella vita comunitaria e nell’opinione pubblica, il volontariato è andato sempre più configurandosi
come capitale sociale di una certa rilevanza. Recentemente questo suo aspetto è emerso con più forza
tanto da indurre i suoi maggiori esponenti a presentarne la candidatura al Senato come bene
immateriale dell’Umanità Unesco. Il ruolo che gli è stato riconosciuto è stato quello della ripresa e
della resilienza della Nazione per aver fronteggiato le condizioni di fragilità e di isolamento messi in
luce dalla crisi pandemica. Oltre sei milioni di persone sono state in grado di raggiungere “tutti coloro
che anche le migliori leggi non sono riuscite a toccare nei loro bisogni più profondi”.
(https://www.avvenire.it/attualita/pagine/il-volontariato-ora-si-candida-sia-patrimonio-dellunesco).
Superato ormai il vecchio concetto di volontariato legato alla beneficenza e all’ assistenza, oggi, questo
settore, fa capo ad organizzazioni ed associazioni, sia piccole che grandi, caratterizzate da risorse,
senso di appartenenza alla comunità, radicamento comunitario, capacità progettuali, e alto livello di
specializzazione. Quelle piccole sussistono presso comuni, ospedali e altri enti, quelle grandi si
presentano come istituzioni con strutture organizzative complesse. Bisogna considerare pertanto, in chi
fa volontariato non solo le emozioni profonde che scaturiscono da una sua decisione personale e intima,
ma anche la complessità dei fattori che intervengono a livello organizzativo, sociale e culturale che
possono influenzarlo in questo percorso.
1.2 Motivazioni al volontariato

La tematica del volontariato è complessa e delicata e per comprenderla a fondo occorre riflettere sulla
motivazione che spinge i volontari ad intraprendere quest’attività. A questo proposito bisogna
considerare la basilare distinzione tra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca che fa capo
alla self-determination theory di Decity e Ryan (2000). Secondo questa teoria la motivazione
dell’individuo può essere analizzata in base alla dimensione autodeterminazione-controllo. La
motivazione intrinseca è “autodeterminata” e consente di agire con senso di volontà, autonomia e
coinvolgimento; la motivazione estrinseca è invece “controllata” e spinge all’agire per l’ottenimento di
una ricompensa o l ‘evitamento di una punizione. La motivazione estrinseca è sostenuta da rinforzi
esterni (premi, denaro, vantaggi, riconoscimenti, evitamento di conseguenze spiacevoli). La
motivazione intrinseca porta ad intraprendere un'attività perché alla ricerca di novità e sfide per
espandere ed esercitare le proprie capacità, esplorare e imparare.

L'unico obiettivo che si cerca con attività intrinsecamente motivate è lo sviluppo interiore di se stessi,
scoprire nuove cose, acquisire conoscenze, esercitare e affinare qualità.

L’'individuo che si impegna in un'attività spinto da motivazione intrinseca, lo fa semplicemente perché


si diverte, la vede come una sfida, soddisfa la sua curiosità. Secondo i ricercatori le ricompense esterne
tangibili diminuiscono la motivazione intrinseca, mentre altri fattori intangibili, l’aumentano. A questa
conclusione sono giunti mediante un esperimento condotto su 24 studenti impegnati in un'attività
ludica. Gli studenti sono stati divisi in 2 gruppi ed ogni gruppo ha risolto 3 puzzles all'interno di
altrettante sessioni. Durante la seconda sessione, il gruppo test è stato pagato un dollaro per ogni puzzle
risolto, mentre il gruppo di controllo non ha ricevuto alcuna ricompensa economica.
Posta la possibilità di fare una pausa, i partecipanti al gruppo di controllo hanno continuato a giocare
con piacere, per loro puro divertimento. Il gruppo test, invece, ha smesso di giocare non appena la
ricompensa monetaria è venuta meno. Anche se il gioco è stato coinvolgente per entrambi i gruppi,
l'aggiunta di una ricompensa estrinseca ha ridotto la motivazione intrinseca. (Ryan & Decity, 2000).
La self-determination theory è stata ampiamente accettata da psicologi e sociologi per cui si può
dedurre che per motivare i bambini e gli adulti, a scuola e al lavoro, così come nella vita quotidiana, è
meglio impiegare tecniche che non diminuiscano la motivazione intrinseca o il benessere mentale, ad
esempio, con feedback positivo.

Esistono diverse teorie su ciò che motiva le persone a fare volontariato. Uno dei modelli più noti è
quello di Omoto e Snyder (1995), che prevede sei classi di motivazioni:

1. valori personali (values): presenza di interesse umanitario per gli altri.


2. comprensione (understanding): mettere in pratica abilità, capacità e conoscenze che altrimenti
rimarrebbero inespresse.
3. valori sociali (social): instaurare relazioni significative con gli altri.
4. carriera (career): avere vantaggi per la propria carriera.
5. protezione (protection): proteggere l’Io dai sensi di colpa per essere più fortunato di altri o per sviare
l’attenzione dai problemi personali.
6. miglioramento (enhancement): utilizzare le risorse positive dell’Io per accrescere la fiducia in sé
stessi e l’autostima.

Le suddette motivazioni corrispondono all’idea comune di ciò che “dovrebbe” motivare il volontariato:
l’interesse umanitario e l’aiuto alle persone meno fortunate ovvero valori personali di solidarietà, di
equità e di altruismo. È questo che, in genere, chi fa volontariato o chiede di farlo porta come
motivazione esplicita. Si tratta di motivazioni strettamente “altruistiche” e “centrate sull’altro”:
desiderio di sentirsi utile e di aiutare gli altri, voglia di migliorare l’ambiente in cui si vive, volontà di
sostenere un’idea o una causa.

Molti autori hanno sottolineato gli aspetti egoistici delle motivazioni che orientano le persone a fare
scelte volontaristiche e altruistiche. Secondo Batson (1987, 1998) l’interesse empatico è una
motivazione puramente altruistica, mentre ciò che spinge ad aiutare il prossimo, ovvero il disagio
personale che si prova di fronte alla sofferenza altrui, si può considerare come motivazione egoistica.

Il volontariato rappresenta, in taluni casi, un mezzo per accrescere la propria autostima perché ci si
sente utili, indispensabili o con una parte di rilievo nel miglioramento della condizione di vita di
un’altra persona. In altri casi, invece, rappresenta un modo per occupare il tempo libero, o un’occasione
di socializzazione. Infine, soprattutto per i giovani e per coloro che non sono ancora entrati nel mondo
del lavoro, il volontariato rappresenta un’occasione di fare esperienze ed acquisire abilità facilmente
spendibili in diversi contesti lavorativi.
Studi recenti sul volontariato giovanile hanno confermato che l’impegno volontario è caratterizzato,
oltre che da un andare verso l’altro, anche da un attingere dall’altro.
(https://www.mariciaroccaro.it/blog/essere-volontari-un-dono-a-sostegno-dei-piu-deboli/)
I volontari non sono pagati ma lavorano a volte per appagare esigenze ed interessi personali, per
esempio, dare un nuovo significato alla vita, alleviare un certo senso di isolamento, trovare pace
interiore, conquistare un certo protagonismo, o riconoscimento sociale.
Il pericolo è che, a volte, a tutto questo può originare un sentimento di onnipotenza che porta la persona
a non vedere più l’altro ma a sostituirsi a lui convinto di procedere per il meglio. (Berti, 2004)

1.3 Dati del volontariato

L’ultimo sondaggio relativo ai dati del volontariato è stato condotto nel 2018 da due società (e
network) internazionali per ricerca di mercato e di opinione pubblica: DOXA e WIN.in 41 paesi a
livello globale, coinvolgendo 31.980 persone.

Da questi risultati emerge che: più di 1 persona su 4 nel mondo ha dedicato parte del proprio tempo a
una organizzazione senza scopo di lucro senza avere in cambio nessun compenso.  Questo numero
coincide con il 28,5% di tutte le persone intervistate. Maschi e femmine fanno volontariato in egual
misura e la percentuale più alta di persone impegnate in attività di volontariato è nella fascia d’età 18-
24 anni (33%) e tra gli over 65 (29%). Inoltre, coloro che hanno raggiunto un livello di istruzione
superiore sono più impegnati in attività di volontariato (42%) rispetto a quelli che hanno un grado di
istruzione inferiore (18%) Vilma Scarpino, amministratore delegato di BVA Doxa e presidente di WIN,
ha dichiarato: «Il ruolo dei volontari è sempre più cruciale. È importante che i nostri media, i nostri
governi e le nostre istituzioni continuino a premiare e a incoraggiare il volontariato. Oltre ad aiutare
gli altri, il volontariato ha dimostrato di migliorare anche il benessere dei volontari stessi. È naturale
che ognuno si senta appagato dopo avere aiutato qualcuno. La nostra indagine globale con dati
provenienti da 31.890 persone in 41 Paesi, ha anche rilevato che ci sono differenze molto ampie a
livello nazionale rispetto al tema del volontariato e, come WIN, ci auguriamo che possano ridursi».

Tra tutti i paesi coinvolti a livello globale l’Italia risulta uno di quelli che registra il più basso tasso di
volontariato, solo il 7% contro il 57% del Paraguay e della Cina. Tuttavia c’è un dubbio relativo al fatto
che, probabilmente gli intervistati italiani hanno risposto in modo più scrupoloso attenendosi
esclusivamente alle attività di volontariato svolte in modo regolare/sistematico (e non solo occasionale)
e soprattutto limitandosi a quanto fatto per conto di organizzazioni no-profit, escludendo dunque tutto
ciò che fanno su iniziativa individuale o per conto di altri tipi di realtà (es. parrocchie, scuole,
associazioni, società sportive, comunità, gruppi di cittadini, e così via)

All’estero il l record è raggiunto a pari merito da Cina e Paraguay con il 57% di tasso di volontariato.
Livelli molto elevati di volontariato sono registrati anche in Australia (46%), Sudafrica (44%), India
(43%) e Stati Uniti (42%). In Indonesia (10%), Giappone (14%) e Pakistan (16%) invece prevalgono
livelli più bassi. (www.bva-doxa.com/volontariato-oltre-1-persona-su-4-lo-fa/)

1.4 Le organizzazioni di volontariato in Italia

Nel 2013 la convenzione tra Istat, CSVnet e Fondazione Volontariato e Partecipazione, ha fornito
alcuni dati relativi alla tipologia delle associazioni di volontariato esistenti nel nostro Paese.

Secondo la suddetta indagine nel nostro paese operano più di 10.000 organizzazioni di volontariato.
Circa la metà ha avuto origine grazie all’azione del mondo cattolico o religioso non cattolico; la
restante parte su iniziativa del mondo laico.

Esistono due tipi di associazioni, quelle semplici (o non riconosciute) e quelle, invece, riconosciute
come persone giuridiche. Queste ultime vengono anche dette corporazioni e si differenziano per
l’autonomia dell’organismo rispetto ai suoi associati e a soggetti terzi.
Le associazioni non riconosciute rappresentano la grande maggioranza di questa categoria di enti. Esse
hanno piena capacità giuridica ma non godono di autonomia patrimoniale perfetta; la responsabilità
giuridica, amministrativa, penale ed economico-finanziaria, cioè, ricade sulle spalle di coloro che
hanno agito in nome dell’associazione, anche se non ne fanno parte. 
Le figure richieste all’interno di queste associazioni comprendono professionisti delle Risorse Umane,
esperti in comunicazione e fundraising, coordinatori ed impiegati amministrativi, progettisti sociali,
professionisti della sanità e del mondo socioassistenziale come psicologi, medici, ricercatori,
infermieri, educatori professionali, assistenti sociali, operatori sociosanitari. 

Il volontariato, dagli anni ’90, si è sviluppato all’interno di un movimento più vasto di partecipazione e
di solidarietà sociale che è stato definito privato sociale. e che quattro grandi filoni con caratteristiche
sostanzialmente diverse ma che si integrano tra loro, a partire da una base comune di valori:
associazioni di volontariato propriamente dette che sono caratterizzate dalla gratuità e dalla finalità di
esercitare servizio all’estero il cui focus è posto ai vari settori dell’emarginazione; istituzioni private
non a scopo di lucro che gestiscono dei servizi e che vengono sempre collocate sotto un articolo
diverso da quello del volontariato ;nuove associazioni costituite come soggetto giuridico per gestire dei
servizi o sotto forma di associazioni di fatto o sotto forma di cooperative; associazionismo che ha la
finalità prevalentemente rivolta ai propri membri o per una loro specifica tutela o per la loro crescita
culturale, ricreativa e fisici. (Tavazza, 1990)

1.5 I profili dei volontari

Il volume “Volontari e attività volontarie in Italia. Antecedenti, impatti, esplorazioni”, (Guidi et al.,
2016), presentato alla Camera nel 2017 su base di dati statistici, elenca sette distinti profili di volontari:
volontari dell’assistenza (il 29,6% dei volontari organizzati, 1.228 mila persone), educatrici di
ispirazione religiosa (il 25% dei volontari organizzati, 1.036 mila persone), pionieri (il 13,6% dei
volontari organizzati, 561 mila persone), investitori in cultura (il 10,3% dei volontari organizzati, 427
mila persone), volontari laici dello sport (l’8,9% dei volontari organizzati, 368 mila persone), donatori
di sangue (l’8% dei volontari organizzati, 333 mila persone) stacanovisti della rappresentanza (il 4,6%
dei volontari organizzati, 190 mila persone).

I volontari dell’assistenza prestano il loro servizio nel campo dei servizi sociali, della protezione civile
e della sanità. Le educatrici di ispirazione religiosa si dedicano alle attività educative e alla catechesi;
I pionieri si impegnano per l’ambiente e la collettività ai margini delle modalità organizzative
tradizionali.

Gli investitori in cultura mettono a disposizione competenze professionali specializzate per iniziative
culturali e ricreative.

I volontari laici dello sport sono allenatori e dirigenti di associazioni sportive dilettantistiche.

I donatori di sangue, per lo più maschi, occupati, genitori e in buona salute, fidelizzati all’associazione;
si mettono a disposizione una volta al mese.

Gli stacanovisti della rappresentanza. Sono dirigenti e organizzatori di associazioni che si occupano di


politica, attività sindacale e tutela dei diritti;

Accanto a questa tipologia di volontari, vie ne è un ‘altra che riguarda i soggetti non operano all’interno
di organizzazioni ma in modo informale che è pari al 5,8%.

Di essi sono stati individuati quattro profili: quelli che… danno una mano (il 34,2% dei volontari
individuali, 852mila persone), quelle che… senza come si farebbe (il 28,4% dei volontari individuali,
707 mila persone), quelli che… scelgono di fare da soli (al 27,6% dei volontari individuali, 688mila
persone), quelli che… per donare vanno diritti all’ospedale (il 9,9% dei volontari individuali, 246mila
persone).

Quelli che… danno una mano. Offrono aiuto in casa o per pratiche burocratiche; rappresentano la
‘filiera corta’ dell’attivazione delle reti di prossimità.

Quelle che… senza come si farebbe. Offrono assistenza qualificata a persone in difficoltà; è una
relazione di aiuto duratura, un vero e proprio servizio complementare all’autogestione famigliare.
L’attività di cura è svolta in prevalenza da donne: la maggior parte (69,9%) lo fa per almeno 10 ore al
mese, una su cinque (20,5%) per più di 40 ore al mese.

Quelli che… scelgono di fare da soli. Sono per lo più laureati, professionisti, impegnati con continuità
(42,2% da oltre dieci anni, 17,5% da cinque a nove anni) per l’ambiente o cultura; rispetto ai
volontari impegnati nelle organizzazioni, il tempo dedicato è minore (da due a quattro ore al mese).

Quelli che… per donare vanno diritti all’ospedale. Sono i donatori di sangue che dedicano un’ora al
mese al di fuori delle associazioni.
Per la prima volta in Italia, sulla base dei dati statistici, vengono date risposte a due domande
cruciali: che senso ha il volontariato, cosa produce? E qual è il contributo dell’impegno gratuito dei
cittadini alla società, alla coesione sociale ed economica delle comunità, alla democrazia. Chi fa
volontariato sta meglio. 

Svolgere attività di volontariato incrementa le probabilità di essere molto soddisfatti della propria vita
in soggetti anche molto diversi tra loro dal punto di vista del reddito, del livello di istruzione, del luogo
di residenza, dell’affiliazione religiosa o di disposizioni personali come la propensione individuale
all’ottimismo. Questo vale a prescindere dal contesto organizzativo, anche per chi si impegna
individualmente. Di particolare rilievo l’impatto positivo sul benessere degli anziani (il 50,4% dei
volontari organizzati sopra i 65 anni si dichiara molto soddisfatto della propria vita).

La quantità (del volontariato) aumenta la qualità (della vita): punteggi più alti di soddisfazione
registrano i volontari attivi da più di 10 anni e quanti si impegnano in più di una associazione.

Quanto si sentono soddisfatti con la propria vita: volontari individuali, volontari organizzati, non
volontari:
Scuola di democrazia. Fare volontariato e partecipare ad associazioni ha un effetto di socializzazione
alla partecipazione politica, soprattutto per le classi sociali più svantaggiate. Partecipazione politica
‘visibile’: la partecipazione a cortei o a comizi, alle riunioni e/o alle attività di un partito, la tendenza
a parlare di politica ogni giorno. Partecipazione politica ‘latente’: la tendenza a informarsi della vita
politica e della disponibilità ad assistere a dibattiti politici.

La forza di una relazione. Chi fa volontariato è più inclinato a fidarsi di altri: la gratuità stimola
forme di collaborazione orizzontale tra individui. Il tasso di fiducia interpersonale dei volontari
(35,8%) svetta su quello chi non fa volontariato (20,6%). I volontari mostrano più fiducia anche nelle
istituzioni: l’indice medio di fiducia è stato calcolato al punteggio di 4,7 rispetto a 4,4 dei non
volontari. Ma la relazione dell’impegno gratuito con la fiducia nelle istituzioni, viste come enti
gerarchici che richiedono una adesione fideistica, è di gran lunga più debole rispetto a quella
interpersonale. Il volume, come emerge, non si limita a studiare il fenomeno volontariato. Ma,
attraverso le analisi multidisciplinari dell’azione volontaria, getta nuovi fasci di luce per leggere
l’Italia. O meglio, le molte Italie. (Volontariato, radiografia di quei 6 milioni e mezzo di italiani votati
al bene comune. La Repubblica)
Capitolo II

VOLONTARIATO E PROSOCIALITÀ

2.1 Il ruolo dell’empatia nel comportamento prosociale

La maggior parte degli psicologi ritiene che qualsiasi comportamento volontario volto a far del bene,
accrescere e mantenere il benessere altrui, può essere riconosciuto come prosociale.
La prosocialità costituisce un campo d’indagine molto vasto comprendendo studi anche sull’altruismo,
sul comportamento d’aiuto, di cooperazione e di riguardo verso gli altri; tutti comportamenti intesi
come azioni finalizzate a proteggere, favorire o mantenere il benessere di un determinato soggetto
sociale. Il termine è altresì comprensivo anche di tutte quelle azioni che non sono di antagonismo,
aggressivi e di danneggiamento.
Il termine prosociale è stato coniato da Wispè nel 1972, è nato in contrapposizione al comportamento
antisociale e designa l’attività volta a produrre benefici in un’altra persona o in un gruppo. (Diella,
2016). Per Caprara la prosocialità è la “tendenza a far ricorso ad azioni che si contraddistinguono per
gli effetti benefici che producono negli altri”. (Caprara & Bonino, 2006, pp. 10).
Numerose ricerche hanno rilevato che uno dei fattori motivazionali più importanti del comportamento
prosociale è l ‘empatia intesa come capacità di rapportarsi agli altri, comprenderli, solidarizzare con le
loro sofferenze e le loro gioie.
Sin dalla metà dell’Ottocento, pur essendo stata riconosciuta l’esistenza di una intelligenza emotiva che
guida il comportamento sociale, l’empatia è stata spesso intesa come un epifenomeno privo di specifica
base scientifica piuttosto che come una vera e propria funzione cognitiva. Solo negli ultimi decenni le
neuroscienze sociali hanno approfondito, con tecniche neurofisiologiche e di neuroimaging funzionale
le conoscenze anatomiche e fisiologiche che sottendono alla capacità di comprendere i pensieri e le
emozioni dell’altro. (Lacerenza & Cerani, 2010).
L’ empatia può essere grossolanamente suddivisa in due componenti: una componente, più antica,
emotiva, che fa riferimento alle aree cerebrali attivate dalle emozioni nel self, e una componente
cognitiva, più evoluta, che può essere riassunta nel termine consapevolezza di sé, Quest’ultima
permette di comprendere che l’emozione o sensazione che si prova non fa parte del self ma dell’altro
individuo con cui abbiamo una relazione. (Bird et al., 2010).
 La componente emotiva dell’empatia è immediata, non richiede cioè alcuna comprensione dei motivi
di sofferenza. Si configura come una sorta di contagio emotivo o emotional concerned; un esempio è
dato da un neonato che nella nursey piange perché sente piangere gli altri bambini, quindi senza
apparente motivo. Allo stesso modo gli adulti possono provare disagio assistendo al dolore altrui,
talvolta senza riuscire a distinguere l’origine esterna della loro sofferenza. (Decety & Lamm, 2006). Si
tratta di una forma di imitazione spontanea e inconsapevole presente non solo negli esseri umani ma
anche in altre specie animali.
Nel corso della crescita intellettuale dell’essere umano, questo fenomeno viene integrato da
processi top-down: l’individuo distingue il sé dall’altro, partecipa al suo stesso stato d’animo e cerca di
comprenderne le motivazioni. Da qui discende la componente cognitiva che consente di percepire le
emozioni e i sentimenti dell’altro come separati da sé. Essa matura fisiologicamente nel corso della
vita, dall’epoca neonatale fino all’età adulta modificandosi sulla base delle esperienze personali, di
contatto con gli altri individui e con l’ambiente. (Hoffman, 2008)

2.2 Le basi neurali dell’empatia

Nella sua componente emotiva l’empatia appare strettamente correlata al funzionamento dei
neuroni specchio (mirror neurons). Questo sistema di neuroni, per la prima volta identificato nella
corteccia premotoria del macaco (area F5) ha la particolarità di attivarsi non solo quando l’animale
compie una data azione, bensì anche quando osserva un suo simile compiere la stessa azione. (Hatfield,
Cacioppo & Rapson, 1993)
Le recenti tecniche di neuroimaging funzionale hanno consentito di identificare nell’uomo un sistema
neuronale fronto-parietale, sovrapponibile per funzione a quello osservato nel macaco. (Rizzolatti &
Craighero, 2004).  Esso si localizza in specifiche aree corticali e favorisce l’apprendimento non solo
mediante imitazione, ma per immedesimazione tra individui simili.
L’essenza di questo affascinante sistema neuronale consta proprio nella capacità di sintetizzare
percezione ed esecuzione dell’azione, by-passando le aree associative di livello superiore. Esso
rappresenterebbe quindi un'alternativa per i meccanismi di percezione dell’azione. Tale sistema non si
trova solo nei centri del movimento, bensì anche in aree che mediano risposte emotive. (Gallese,
Keysers & Rizzolatti, 2004). Osservare un’emozione sul volto di un altro provoca l’attivazione del
sistema specchio motorio ed emotivo con un pattern di attivazione simile a quello che si avrebbe nel
caso di un'esperienza vissuta in prima persona. (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006). Osservare, per esempio,
il disgusto sul volto di un altro soggetto attiverebbe le stesse aree che si mettono in azione quando lo si
prova in prima persona, ovvero l’insula e la corteccia cingolata anteriore. (Wicker et al., 2003). 
L’’intensità di attivazione è incentrata su amigdala e insula.
Alla luce della ricerca, il sistema dei neuroni mirror sembra quindi essere composto da due
principali network: il primo, prettamente motorio, costituito da lobulo parietale inferiore, corteccia
premotoria e giro frontale inferiore e l’altro, più propriamente emotivo, da insula e corteccia cingolata
anteriore.  (Rizzolatti et al., 2009). Lesioni a carico di amigdala, corteccia cingolata e paracingolata,
corteccia prefrontale orbitofrontale/ventromesiale così come della corteccia temporale o parietale
possono quindi indistintamente comportare una compromissione dell’empatia e dell'intelligenza
sociale. (Adolphs et al., 1994; Calder et al., 1996).

Nonostante anche gli animali siano in grado di condividere in maniera elementare sentimenti ed
emozioni con i propri simili, solo gli esseri umani possono sforzarsi volontariamente di comprendere il
vissuto e i sentimenti dell’altro, pur riconoscendone la totale diversità da sé stessi. L’empatia nell’uomo
rappresenta la base di tutti i comportamenti prosociali, solidali e altruistici cioè orientati alla
costruzione di collettività che sopperiscano, ove sia necessario, ai bisogni dei singoli. Si può osservare
anche tra individui che apparentemente non hanno nulla in comune tra loro e intendere come il motore
dell'aggregazione sociale che ha garantito la crescita e la sopravvivenza del genere umano, operando
anche una grossa spinta verso l’evoluzione della specie. (Empatia e Ascolto Attivo. Verso l'Intelligenza
Emotiva - Dr. Daniele Trevisani - Formazione Aziendale, Ricerca, Coaching studiotrevisani.it)
2.3 Lo sviluppo del comportamento prosociale dall’infanzia all’età adulta. Differenze di genere.

Lo sviluppo del comportamento prosociale inizia nei primi anni di vita e continua fino all’età adulta
(Vecchione & Picconi, 2006). Generato dalla matrice biologica e dalla maturazione del sistema
nervoso, tale sviluppo è soggetto a continue trasformazioni che potrebbero dipendere da fattori
ambientali (Burleson, 1994).

La maggior parte degli studi (Brownwell & Carriger, 1990; Hay et al., 1999; Rheingold, Hay & West,
1976; Zahn-Waxler et al., 1992) che si sono occupati dello sviluppo del comportamento prosociale,
hanno focalizzato i loro studi sul primo periodo di vita del bambino, quello che va dal periodo
neonatale fino all’età prescolare in quanto risulta quello più soggetto a modificazione a livello
biologico, cognitivo ed affettivo.

Nei primi mesi di vita, è presente nel neonato una forma primitiva di prosocialità che si manifesta,
sottoforma di rudimentali tentativi di consolare l’altro per esempio col cibo. Questa tendenza induce il
bambino a comunicare con gli altri e ad interessarsi alle attività delle persone che si trovano nel suo
ambiente (Hay, 1994).

Nel secondo anno di vita questa tendenza, che inizialmente veniva manifestata in modo indifferenziato,
diventa sempre più differenziata e consapevole (Vecchione & Picconi, 2006), sviluppando, attraverso il
vissuto di nuove esperienze e situazioni, l’avvicinamento alla prospettiva degli altri, la capacità di
recepire dei loro bisogni, capacità questa che aumenta in funzione all’età del bambino, grazie
all’acquisizione del concetto di “altro” (Zahn-Waxler et al., 1992).

Lo sviluppo di capacità cognitive, come ad esempio il decentramento dell’io e l’assunzione di ruolo,


incidono molto nello sviluppo della condotta prosociale, in quanto stimolano la percezione e la
consapevolezza degli altri, e quindi la valutazione di motivazioni e sentimenti diversi dai propri (De
Beni, 1998).

Nei primi anni di vita il bambino non è consapevole delle norme che regolano la vita sociale: la
moralità viene controllata soprattutto dall’esterno mediante l’obbedienza alle figure autoritarie (come,
ad esempio, genitori ed insegnanti), regolata dal timore di ricevere una punizione, scaturire da
motivazioni edonistiche e strumentali al raggiungimento di fini personali (Vecchione & Picconi, 2006).

Come affermano Bryan e London (1970): “E’ abbastanza chiaro come la generosità incrementi con
l’età almeno nel corso dei primi anni di vita”. (p. 206)

Nel periodo scolare i risultati delle ricerche effettuate sono in parte contradditori.

Secondo alcuni autori, in questo periodo ci sarebbe un aumento nella predisposizione all’ azione
prosociale (Fabes et al., 1999; Fabes & Eisenberg, 1996).

Secondo altri autori, una volta che il bambino ha sviluppato la capacità cognitiva di riconoscere ed
apprezzare i bisogni degli altri ed ha appreso le prescrizioni dettate dalle norme sociali, la propensione
all’aiuto viene dettata soprattutto dalle contingenze ambientali o dalle disposizioni individuali. (Green
& Schneider, 1974)

Il comportamento prosociale si rifà comunque ad un concetto ampio e multisfaccettato, all’interno del


quale possono essere contemplati comportamenti diversi, che nonostante siano correlati gli uni con gli
altri (Dlugokinski & Firestone, 1973; Rusthon, 1980), presentano nessi che possono modificarsi al
variare dell’età dei bambini (Hay, 1994) ed essere ulteriormente influenzati da variabili cognitive o
situazionali. (Jackson & Tisak, 2001)

Soprattutto nel periodo di transizione dall’infanzia all’adolescenza, la relazione con l’età dipende dalla
specifica forma di comportamento le cui caratteristiche sono: una maggiore sofisticazione cognitiva e
l’arricchimento del repertorio comportamentale dell’individuo.

Non è quindi possibile tracciare un’unica linea di sviluppo e ritenerla come universalmente valida e
generalizzabile a tutti i soggetti appartenenti alla popolazione (Vecchione & Picconi, 2006).
Riguardo alla varietà di genere numerosi studi affermano che nel sesso femminile i comportamenti
prosociali sono più frequenti rispetto a quello maschile, (Fabes & Eisenberg, 1996) difatti la
propensione alla cooperazione e condivisione delle cose nei rapporti tra pari avviene maggiormente
nelle prime piuttosto che nei secondi, in quanto è stato rilevato che questi ultimi compiono
comportamenti più coercitivi. (Burford et al., 1996). I soggetti di sesso maschile hanno come
caratteristica peculiare per quanto concerne il comportamento prosociale messo in atto, una forma
edonistica di comportamento morale proveniente dall’ambiente esterno che funge da rinforzo ed un
orientamento nella risoluzione dei problemi irruente e prepotente. (Rhys & Bear, 1997; Eberly &
Montemayor, 1998). In determinate circostanze legate al contesto, mentre le donne hanno una
predisposizione verso l’altruismo nelle relazioni familiari e intime, fornendo aiuto e supporto, gli
uomini hanno l’attitudine di fornire soccorso in determinate situazioni che richiedono rapidità ed
immediatezza nella decisione fronte ad un pericolo severo.
Alla luce di altri studi sui comportamenti prosociali, la differenza tra i sessi non è stata riscontrata: non
si può affermare che il genere femminile abbia comportamenti maggiormente prosociali rispetto a
quello maschile. Questa difformità presente nei diversi studi potrebbe essere dovuta agli strumenti
utilizzati, alla loro potenza, all’allestimento del procedimento ed alle peculiarità del campione di
riferimento. D'altronde, le discrepanze tra i due sessi nella predisposizione al comportamento
prosociale possono essere attribuite allo sviluppo della socializzazione che caratterizza entrambi i
generi, (Mussen & Eisenberg, 1977). Verosimilmente questa differenza si può riscontrare nella tarda
infanzia, periodo generalmente quotato come il momento in cui ha inizio il processo di socializzazione.
(Belansky & Boggiano, 1994; Bussey & Bandura, 1999).

2.4 Valori personali e ambientali nell’agire del volontario: autotrascendenza e conservatorismo

Nel coinvolgimento della persona in attività prosociali un importante ruolo sembra svolto da valori
personali quali l’autotrascendenza (benevolenza e universalismo) e ambientali quali il conservatorismo
(tradizionalismo).

Per i volontari risultano peculiari i valori legati alla gratuità, generosità e promozione del bene comune
mentre, per i non volontari risultano più salienti i valori legati all’autoaffermazione, al potere, e al
successo. (Caprara & Scabini, 2010). Ne consegue che i primi ritengono maggiormente importanti la
comprensione, la tolleranza, il mantenimento e miglioramento del benessere delle persone più vicine,
così come il rispetto e l’accettazione delle usanze e delle idee che appartengono alla tradizione
culturale o religiosa. I non volontari, al contrario, avvertono come maggiormente importanti il prestigio
e il successo, il piacere e la gratificazione personali, il controllo e la dominanza sulle altre persone,
obiettivi motivazionali inconciliabili con l’altruismo e la disponibilità nei confronti degli altri. A questi
risultati si è giunti attraverso una ricerca condotta da Capanna e Vecchione (2006), studiando la
relazione tra valori e comportamento prosociale. su un ampio campione composto da oltre 1500
soggetti. Da questa ricerca è emerso che persone maggiormente prosociali presentavano, accanto a
elevati punteggi di valori di autotrascendenza e bassi punteggi di valori di autoaffermazione, anche
bassi livelli di valori legati alla sicurezza, ma nulla di significativo emergeva rispetto ai valori legati al
tradizionalismo. Passando invece a considerare un tipo particolare di comportamento prosociale per il
volontariato, caratterizzato dall’essere organizzato e continuativo, emerge anche l’importanza dei valori
legati alla tradizione nel guidare e sostenere l’impegno a favore degli altri. Il riconoscimento, il rispetto
e l’accettazione delle usanze e delle idee appartenenti alla propria cultura sembrano pertanto sostenere
l’azione del volontario, che è un’azione per certi versi collettiva, legata per lo più ad attività
organizzate da associazioni.

Il valore del tradizionalismo è strettamente connesso al legame di attaccamento che le persone


sviluppano con il proprio territorio, con la sua storia e il suo passato e, quindi, con valori legati al senso
di appartenenza e di partecipazione per salvaguardare valori e tradizioni sentiti come importanti dalla
comunità di appartenenza.

Relativamente alle relazioni tra le caratteristiche personali del volontario (antecedenti), le esperienze
vissute nello svolgimento delle attività di volontariato e gli effetti che ne derivano, è possibile
evidenziare come i valori di autotrascendenza siano legati all’ integrazione nell’ organizzazione di
volontariato di cui si fa parte e alla soddisfazione per l’attività svolta. In particolare, l’universalismo è
connesso con la sola integrazione nell’associazione, e la benevolenza è legata sia all’ integrazione, al
sentirsi parte dell’associazione di volontariato, sia alla soddisfazione per l’attività svolta. Dunque, se
credere in valori legati alla comprensione, tolleranza, rispetto e protezione del benessere altrui, aumenta
il senso di appartenenza all’organizzazione, identificarsi in valori legati al mantenimento e al
miglioramento del benessere delle persone con cui si è direttamente in contatto, può favorire, oltre all’
integrazione nell’ associazione, sentimenti di maggiore soddisfazione rispetto all’attività di volontariato
svolta.

Accanto ai valori di autotrascendenza, anche i valori legati alla tradizione e al conservatorismo


risultano essere in relazione, seppure in modo più debole, con i sentimenti di soddisfazione legati alla
propria azione di volontario. A una più elevata attenzione da parte dell’individuo a non ledere l’altro e
a non violare aspettative e norme sociali, così come al rispetto e all’ accettazione delle pratiche dettate
dalle tradizioni della propria comunità, segue una maggiore soddisfazione nello svolgimento di attività
di volontariato. Inoltre, le esperienze di integrazione nell’organizzazione di volontariato a cui si
appartiene e la soddisfazione per l’attività sono strettamente legate alla disposizione all’ aiuto
dell’individuo e a diverse forme di autoefficacia (sociale, nella regolazione delle emozioni positive, ma
anche alla fiducia che l’individuo ha in sé e nell’organizzazione di riuscire a far fronte a tutte le
situazioni problematiche che l’attività volontaria richiede).

La predisposizione alla prosocialità, i valori legati alla benevolenza e la fiducia in sé e nell’


organizzazione a cui si appartiene, insieme all’ autoefficacia sociale ed emotiva, costituiscono fattori
“cardine” anche in relazione all’intenzione, da parte del volontario, a proseguire l’attività e a
sperimentare sentimenti di benessere.

Infine, sembra ragionevole supporre un effetto di mediazione esercitato dalle specifiche esperienze di
aiuto gratuito nella relazione tra gli antecedenti e le conseguenze del coinvolgimento in attività di
volontariato (esperienze di benessere e intenzione a proseguire l’attività): i settori in cui si è impegnati
nell’ attività di volontariato, insieme alle specifiche esperienze svolte in tali contesti, possono rendere
maggiormente forti o mitigare le relazioni tra i diversi fattori sopra visti.

Vari autori asseriscono che dal fare volontariato potrebbe scaturire un sentimento di onnipotenza: la
gratificazione e la riconoscenza di cui il volontario potrebbe godere, susciterebbero in lui sentimenti di
infallibilità, col rischio di indurlo a mettere da parte l'altro fino a sostituirsi a lui, convinto di fare bene.

Ulteriore aspetto psicologico che contribuisce alla scelta di fare volontariato è, secondo Caprara,
l'autoefficacia percepita dai volontari. (Caprara et al., 2003)

Interessante a questo proposito è anche il contributo di Berti (2003) il quale afferma che chi fa
volontariato comunica agli altri un’impressione positiva di sé, viene considerato una persona migliore
di tante altre, un soggetto da ammirare. Quindi si potrebbe affermare che, a volte, il tempo e le risorse
che si mettono a disposizione in questa attività possono avere lo scopo di far guadagnare
riconoscimento sociale, autostima e identità.
Capitolo III

DETERMINANTI E BENEFICI DEL VOLONTARIATO

3.1 Volontariato e genetica: studi

Alcuni studi depongono a favore della tesi che l’aiuto agli altri sia un comportamento innato. Secondo
Avinun (2011) responsabile del dipartimento di Neurobiologia della Hebrew University di
Gerusalemme disponiamo di un «gene altruista», il gene AvPr1A, che regola un ormone nel cervello
attraverso il quale a ogni gesto di altruismo corrisponde una sensazione di benessere fisico e persino di
gioia. Avinun è arrivato a queste conclusioni dopo una serie di test su 136 bambini in età prescolare
messi alla prova della scelta fra egoismo e altruismo. Uno alla volta, ognuno di loro è entrato in una
stanza, attrezzata come l’aula di un asilo nido, dove ha trovato giocattoli e stickers e ha ascoltato
l’invito dell’istruttore: «Puoi tenerli tutti per te, oppure donarne qualcuno a un altro bambino che non
ne ha». A quel punto il bambino, senza né vedere né conoscere il coetaneo, possibile destinatario del
suo gesto, ha dovuto fare uno sforzo d’immaginazione: riconoscere un altro, un noi, rinunciando a un
pezzo di sé stesso, un io. Al termine dei test, ripetuti a distanza di mesi, la conclusione è stata la
seguente: più dei due terzi dei bambini, senza distinzione tra maschi e femmine, hanno deciso di
lasciare qualche giocattolo e qualche adesivo colorato ai compagni invisibili. senza alcuna
sollecitazione esterna, senza una particolare educazione ricevuta in famiglia oppure a scuola. E quando
gli psicologi guidati da Avinun hanno domandato le motivazioni del gesto, la risposta più frequente è
stata: «L’ho fatto perché mi sento più felice». Da qui un altro passaggio in laboratorio e un’ulteriore,
sorprendente congettura sul meccanismo di funzionamento del gene AvPR1A. La risonanza magnetica
sull’attività cerebrale dei bambini altruisti avrebbe infatti consentito agli scienziati israeliani di
osservare come a ogni loro atto di generosità il “gene dell’altruismo” reagisca rilasciando
neurotrasmettitori come la dopamina, associati a sentimenti positivi. Da qui la sensazione di benessere
fisico e di felicità. E da qui, secondo Avinun, la certezza che il nostro DNA contenga la generosità, al
contrario dell’egoismo che invece si manifesta attraverso una variazione genetica.

“Le origini genetiche dell'altruismo, qui definito come un atto costoso volto a beneficiare gli individui
non parenti, non sono state esaminate nei bambini piccoli. Tuttavia, i risultati precedenti riguardanti
gli adulti hanno indicato il gene del recettore dell'arginina vasopressina 1A (AvPR1A) come possibile
candidato. AvPR1A è stato associato a una serie di comportamenti, tra cui fenotipi aggressivi,
affiliativi e altruistici, e recentemente un allele specifico (327 bp) di uno dei suoi polimorfismi della
regione promotore (RS3) è stato individuato in particolare. Abbiamo modellato il comportamento
altruistico nei bambini in età prescolare utilizzando un paradigma economico basato sul laboratorio,
un gioco del dittatore modificato (DG) e testato l'associazione tra le allocazioni DG e l'"allele target"
RS3. Utilizzando sia analisi basate sulla popolazione che sulla famiglia, mostriamo un legame
significativo tra allocazioni più basse e l'"allele bersaglio" RS3, associandolo, per la prima volta, a
una minore propensione verso il comportamento altruistico nei bambini. Questa scoperta aiuta
ulteriormente la comprensione degli intricati meccanismi alla base del comportamento altruistico
precoce”. (https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0025274#references)

Tommasello (2009), arriva alla stessa conclusione attraverso esperimenti condotti su bambini tra i 14-
18 mesi notò che offrivano spontaneamente e immediatamente aiuto per un problema pratico (come
aprire le ante di un armadietto per riporre le riviste che tengono impegnate entrambe le mani
dell’adulto, rimuovere ostacoli, recuperare oggetti lontani o raccogliere oggetti caduti dalle mani
impegnate dell’adulto). Anche quando facevano un’attività divertente, rinunciavano a essa per aiutare
l’adulto.
Gli esperimenti hanno mostrano che i bambini offrivano aiuto indipendentemente dal fatto di essere
incoraggiati. Infatti, in un’altra ricerca con bambini di 20 mesi a cui venivano date ricompense (ad
esempio un gioco divertente) quando si mostravano altruisti, si è notato che coloro che ricevevano più
ricompense erano poi meno propensi ad aiutare. Questo significa che i bambini aiutano non per avere
ricompense o per compiacere l’adulto.
Infine, si è anche visto che l’aiuto viene dato perché il piccolo empatizza con chi è in difficoltà.
Bambini di 18-24 mesi osservavano un adulto prendere un disegno a un altro adulto e stracciarlo. I
bambini guardavano con espressione partecipe chi avesse subito, oppure un adulto rubava dalle mani di
un altro adulto un gioco, i bambini osservavano partecipi la vittima e cercavano di aiutarla.
Stando a quesiti studi sembra che l’idea dell’’altruismo autentico sia mosso da motivazioni interiori e
innate e che la bontà abbia requisiti precisi: disinteresse, atteggiamento non esibizionistico e soprattutto
capacità di procurare piacere e soddisfazione.

3.2 Benefici sulla salute fisica

Come documenta una ricerca della Carnegie Mellon University di Pittsburgh pubblicata sulla rivista
americana ‘Psychology and Aging’, le persone che si dedicano al volontariato presenterebbero una
migliore salute fisica, beneficiando di una pressione sanguigna più bassa e di una potenziale aspettativa
di vita più lunga. Lo studio, suggerisce che il volontariato può essere un'opzione farmaceutica efficace
per aiutare a prevenire le malattie cardiovascolari. che rappresentano la principale causa di morte negli
Stati Uniti. Sneed, autrice principale della ricerca dice che l’ipertensione è causata da uno stile di vita
sbagliato dovuto a cattiva alimentazione e poco movimento fisico per cui, lo scopo dello studio è stato
quello di confermare come uno stile di vita sano, che si potrebbe intraprendere ad esempio, con il
volontariato, potesse migliorare la salute e allungare la vita. Per Sneed non ci sono attività di
volontariato che hanno un’importanza maggiore rispetto ad altre ma si può ipotizzare che le attività che
impegnano mentalmente, come l’insegnamento o la lettura, potrebbero essere utili per il mantenimento
della memoria e della capacità di pensiero, mentre altre attività che promuovono l’attività fisica
sarebbero importanti per la prevenzione e la cura della salute cardiovascolare.

I soggetti coinvolti nella sperimentazione erano circa 1.164 adulti di età compresa tra 51 e 91 anni,
sono stati intervistati due volte, nel 2006 e nel 2010 e, al primo colloquio presentavano livelli normali
di pressione arteriosa. I risultati, analizzati a distanza di quattro anni hanno mostrato che coloro che
hanno riferito di aver svolto almeno 200 ore di lavoro volontario durante l'intervista iniziale avevano il
40% in meno di probabilità di sviluppare ipertensione rispetto a quelli che non hanno fatto volontariato.
Il tipo specifico di attività di volontariato non è stato un fattore determinante: solo la quantità di tempo
trascorso a fare volontariato ha portato ad una maggiore protezione dell’ipertensione. Sneed inoltre
afferma che, essendo soprattutto le persone anziane a subire transizioni sociali quali il pensionamento,
il lutto e la partenza dei figli da casa e ad essere perciò spesso lasciate sole, con minori opportunità di
partecipazione alle attività sociali, il volontariato può offrire loro connessioni collettive che non
potrebbero avere altrimenti. Quindi c’è una forte evidenza che avere buone connessioni sociali
promuove un sano invecchiamento e riduce il rischio per una serie di esiti negativi per la salute. (Sneed
& Cohen, 2013).

Anche l’ultimo rapporto su salute e felicità, presentato da CEIS Tor Vergata-Fondazione Angelini,
dimostra, numeri alla mano, che esistono precisi canali biologici attraverso i quali le buone azioni si
convertono in benefici concreti per il fisico. ’Le attività di volontariato e più in generale una buona
qualità della vita di relazioni affettive migliora le funzionalità e riduce le patologie, tra cui anche la
probabilità di contrarre tumori con effetti di risparmio considerevoli per il sistema sanitario. In
termini di rischio relativo, chi non fa volontariato ha probabilità quasi doppie di ammalarsi di tumore
nei tre anni e mezzo successivi”. (Salute e felicità. I risultati della ricerca del Ceis Tor Vergata -
Quotidiano Sanità. Quotidianosanita.it)

3.3 Benefici sul sistema nervoso centrale

All’ università di Washington hanno visto, attraverso la risonanza magnetica funzionale, che nel
momento in cui si mette in pratica un’azione benefica, si attivano le aree del cervello legate al
cosiddetto meccanismo della ricompensa, che riconosce le esperienze che danno piacere.

In particolare, lo studio ha rilevato che quando si fanno delle donazioni caritatevoli, viene attivato il
sistema di ricompensa “meso limbico” allo stesso modo in cui si attiva quando si ricevono ricompense
monetarie. Ciò ha fatto dedurre che “donare” per cause sociali genera l’effetto “warm glow” (gioia di
donare), ovvero un’esperienza gratificante. (Moll et al., 2006).

Nel 2016, Il British Medical Journal ha riportato un importante studio sul miglioramento della salute
mentale ed emotiva in soggetti di età superiore ai 40 anni.  Secondo questo studio, i benefici sono
risultati evidenti soprattutto negli anziani, anche ultraottantenni. (Tabassum, Mohan & Smith, 2016) Di
qui, come viene affermato nelle conclusioni dello stesso studio, si pone l’imperativo di sviluppare
un'efficace promozione della salute per la terza età della vita, in modo che coloro che vivono più a
lungo siano più sani. Questa raccomandazione viene anche espressa nella Marmot Review che ha
sottolineato la necessità di interventi per promuovere la partecipazione degli individui alla vita della
comunità, come un modo per migliorare la propria salute e il proprio benessere, (Marmot et al., 2010). 

L’impegno a favore degli altri, in queste persone, che non lavorano più e vivono spesso in solitudine,
sarebbe in grado di far loro mantenere reti sociali ampie, ridurre i sintomi depressivi, migliorare le
prestazioni cognitive, incrementare il loro benessere mentale apportando effetti positivi sul proprio
stato di salute in generale
Sarebbero molto marcate, negli anziani volontari, anche le azioni antistress: sembrano ridursi ansia e
rabbia e scaturire gioia e felicità, motivi per le quali si sentono utili e viene data loro l’opportunità di
recuperare un ruolo attivo nel tessuto sociale. A livello fisiologico si attiverebbero infatti i così detti
“ormoni del benessere”: dopamina, serotonina, ossitocina il cui ruolo è contrastare l’azione delle
catecolamine, del cortisolo e del sistema nervoso ortosimpatico che agisce sull’umore e influenza
positivamente anche il sistema immunitario. (British Medical Journal, 2016)
In quanto all’azione del volontariato di prevenzione e cura della depressione è possibile affermare che è
accertata dalla letteratura scientifica a tutte le età. (Thomas et al., 2006).

È stata dimostrata infine l’azione di prevenzione sociale del volontariato: uno studio evidenzia infatti
come gli adolescenti borderline che svolgono volontariato incorrono meno facilmente in
comportamenti
illegali ed arresti da adulti. (Ranapurwala, Casteel & Peek-Asa, 2016)
Il volontariato può essere dunque uno strumento utile alla società anche per la sua potenzialità di
prevenire atteggiamenti delinquenziali in chi lo svolge.
Capitolo IV

VOLONTARIATO E FORMAZIONE

4.1 I bisogni formativi del volontariato

La formazione, «è un processo in cui la persona umana porta a maturazione le proprie potenzialità


soggettive, apprende ciò di cui è carente, consolida le proprie capacità, si abilita a vivere la vita
personale e relazionale» (Prellezo, 2008).
Nel volontariato tale processo offre ai soggetti molteplici possibilità: la conoscenza di sé stessi, delle
proprie capacità, della realtà in cui operano nonché l’acquisizione di competenze per far sì che vi siano
abilità utili per relazionarsi e operare in maniera efficace sia all’interno del gruppo di volontari di cui si
fa parte, sia nelle relazioni con i destinatari dell’intervento e con gli agenti presenti nel territorio.
La formazione non deve essere semplicemente un sistema di nozioni finalizzate a “istruire” il
volontario. Diella, facendo riferimento a Baden Powell, creatore del movimento dello scoutismo, dice
che può essere ancora condivisibile quanto lui affermava riguardo la sana educazione: «il segreto di
ogni sana educazione è di far sì che ogni allievo impari da sé, invece di istruirlo convogliando dentro
di lui una serie di nozioni base ad un sistema stereotipato. Il metodo è quello di condurre il ragazzo ad
affrontare l'obiettivo di fondo della sua formazione, senza annoiarlo con troppi particolari» (Diella,
2016).
La consapevolezza dell’importanza della formazione è uno dei nodi fondamentali che dovrebbe essere
acquisita da chi pratica attività di volontariato in quanto ha importanti ripercussioni non solo su sé
stessi ma anche sugli altri. Proprio per questo motivo i gruppi di volontariato, una volta strutturati, si
pongono immediatamente il problema di come darsi una completa e necessaria preparazione (Diella,
2016).
La formazione funge da supporto in-formativo e offre la possibilità di comprendere il proprio ruolo e le
proprie competenze. Formarsi diventa un modo per potenziare il proprio intervento e permette di
riflettere sulle proprie motivazioni e inclinazioni e su ciò che si vuole per il proprio futuro. Più il
servizio sarà accompagnato dalla formazione e più risulterà efficace (Arcidiacono, 2004).
Bramanti (1996) afferma che la necessità della formazione è duplice, se da un lato è sostenuta ed
orientata dal lavoro specifico che si deve svolgere, dall’altro è un’occasione di crescita per il volontario
specialmente per quanto riguarda le motivazioni all’azione, il rinforzo dell’orientamento solidaristico,
il senso di responsabilità e la conoscenza di sé.
Sempre più spesso nei gruppi di volontariato c’è un momento nel quale si ha bisogno di attivare dei
processi formativi. Questo bisogno, talvolta, non ha un inizio chiaro, viene deciso e basta, in molti altri
casi, invece, questa necessità nasce da un’esigenza del gruppo o dalla richiesta di singole persone
(Busnelli, 1996, pp. 117-123).
Il processo di formazione alla pratica del volontariato dovrebbe cominciare perciò dalla definizione di
obiettivi chiari, da esprimere in comportamenti e in fatti osservabili e verificabili nella loro efficacia.
La definizione degli obiettivi è perciò fondamentale e condizionante, obbliga ad esprimere in modo
concreto il cammino da fare (Facchinetti & Natella, 2007, pp.1-14).

4.2 Uno studio su alcune specificità di formazione del volontariato

Il Centro Nazionale per il Volontariato attingendo ad esperienze sul campo e a fonti autorevoli, ha
messo in rete un interessante studio riguardo l’importanza cruciale che la formazione riveste nel
settore; studio che in sintesi si riporta di seguito.
Nel volontariato la formazione è tesa allo sviluppo dell’individuo e delle sue capacità ma coinvolge
anche la relazione tra i diversi soggetti dell’organizzazione e l’esterno.
Vi sono tipologie specifiche di formazione:
- la formazione di base finalizzata a trasmettere conoscenze, competenze e abilità essenziali per
svolgere il ruolo che si ricopre;
- l’aggiornamento, volto a rendere attuali le competenze già acquisite;
- la formazione permanente che si riferisce ad iter che durano tutta la vita.
Considerata la caratteristica peculiare del volontariato ovvero la gratuità, la formazione in questo
settore può presentare punti di debolezza in quanto è come se al volontario venisse richiesto di essere
competente ed esperto come un professionista.
A questa eventualità si può comunque ovviare facilitando il compito del volontario mediante
l’interazione in rete con i vari protagonisti del sociale: educatori, animatori, psicologi, tutori di affido,
referenti di mediazione ecc.
Ricomponendo poi i legami affettivi, familiari e sociali dei soggetti che hanno bisogno con tutte le loro
problematiche i volontari possono ridefinire la propria immagine, senza smarrirsi di fronte ai compiti
che di volta in volta gli vengono richiesti e quindi perdere il senso etico del proprio ruolo.
Presso le organizzazioni di volontariato la formazione si può intendere come uno strumento di
empowerment, ossia di ampliamento o rafforzamento del potere dei volontari che si attua facendo leva
sulle proprie risorse per attingere a quei supporti conoscitivi finalizzati ad aumentare la propria
autodeterminazione. Non si tratta di creare professionisti o specialisti di varie aree ma essere in grado
di garantire ai volontari capacità di relazione e preparazione adeguate da attivare nei confronti dei
soggetti in difficoltà.
Sempre in riferimento alle associazioni la formazione tende a rafforzare le motivazioni che la orientano
alle attività benefiche che sono:
- identità sociale cioè l’essere riconosciute dalla società come tali, contraddistinte da “pubbliche virtù”,
interessi e valori ritenuti positivi dalla collettività.
- ricerca di solidarietà, ovvero di relazioni intense sia tra gli associati, sia all’esterno, con la comunità
locale e la più ampia società.
- offerta di servizi e partecipazione alla vita sociale che si esprime nel soddisfare bisogni, diritti,
problemi anche in termini di cittadinanza attiva.

Tutto ciò contribuisce a dare una valenza di rafforzamento (empowerment) ai partecipanti, alle
associazioni e a coloro a cui il volontariato rivolge il proprio intervento. (www.centrovolontariato.net).

4.3 Criteri per la progettazione di un percorso formativo efficace


Nella Carta dei valori del Volontariato si legge che: "I volontari si impegnano a formarsi con costanza e
serietà, consapevoli delle responsabilità che si assumono soprattutto nei confronti dei destinatari diretti dei
loro interventi. Essi ricevono dall'organizzazione in cui operano il sostegno e la formazione necessari per la
loro crescita e per l'attuazione dei compiti di cui sono responsabili". (Fivol & Gruppo Abele, 2001)
Volta ad accompagnare, sostenere l’intero percorso dei volontari, maturare le loro motivazioni, fornire
loro strumenti per la conoscenza dei bisogni e dei problemi dei singoli e della comunità, la formazione
non può essere lasciata al caso ma va progettata seguendo precisi criteri:
- analisi dei bisogni
- formulazione chiara di obiettivi e contenuti
- previsione dei tempi per portare a compimento l’azione,
-verifica e valutazione dei risultati attesi.
Necessario è prevedere anche metodologie, strumenti, formatori e luoghi dello svolgimento dei percorsi
di formazione.

Momento fondamentale è quello della valutazione prevista alla fine che dovrebbe indagare se al
termine di questo percorso ci sono stati dei cambiamenti positivi rispetto all'inizio, se i volontari si
sentono più sicuri e preparati ad affrontare il compito che verrà loro assegnato e se hanno maturato una
maggior consapevolezza rispetto alla scelta di esser volontari proprio per l’associazione presso quale
prestano il loro servizio. (Busnelli & Salvi, 2014).

È opportuno, inoltre, creare intorno ai percorsi formali di formazione, anche incontri informali tra i
diversi volontari, in modo da intrecciare sin da subito quelle relazioni che si riveleranno, quando
operativi, estremamente preziose per il lavoro di squadra.
Non bisogna dimenticare la mission dell’associazione che va comunicata ai volontari trasmettendo loro
informazioni sui fondatori, le loro motivazioni, e qualora potesse essere realizzabile, chiamare in
causa anche le persone che beneficiano del lavoro stesso dell’associazione di volontariato, in modo da
riportare il proprio punto di vista e renderli consapevoli, concretamente del senso del lavoro che
andranno a svolgere.

Saper tenere viva la motivazione dei propri volontari è il compito più importante di un’associazione di
volontariato, e questo lavoro deve necessariamente cominciare sin dall’inizio del percorso formativo.
Sebbene non sia richiesto ai volontari il possesso di competenze e professionalità specifiche essi
dispongono già in partenza di un requisito basilare su cui fare leva: la voglia di “voler fare”.
Un sentimento prezioso che l’associazione di volontariato dovrà sempre tenere alto, motivando i
volontari all’interno di un percorso che possa strutturare questo sentimento in quella deontologia del
volontario che fa capo a Diderot: “non basta voler fare del bene, ma occorre anche farlo per bene”.
Intorno a questo concetto occorrerà allora strutturare il corso di formazione, ponendo l’attenzione non
soltanto su “cosa” l’associazione fa, ma soprattutto sul “come” lo fa.

4.4 Famiglia, scuola e abilità prosociali

Le componenti prosociali di un individuo pur appartenendo all’intelligenza interpersonale ed essendo


dunque caratteristiche personali innate, si possono apprendere e sviluppare attraverso un’educazione
appropriata. Tale compito dovrebbe essere svolto innanzitutto dalla famiglia attraverso la trasmissione
di valori morali e criteri socioculturali. È stato osservato che lo stile di educazione più idoneo a favorire
una sana crescita delle competenze socio-emotive è quello direttivo o autorevole, di impronta
democratica, in cui le regole disciplinari e i limiti comportamentali vengono discussi con i genitori che
ne chiariscono il senso, i criteri e i valori ad essi sottesi. Il figlio, soprattutto in età adolescenziale,
impara in questo modo a gestire i conflitti, a fare ricorso al proprio senso di responsabilità e ad essere
maggiormente autonomo. Al contrario, uno stile educativo di tipo autoritario, in cui le regole vengono
imposte dall’alto, senza apertura al dialogo, porta il ragazzo a sviluppare un senso di sfiducia nelle
proprie capacità, risentimento e frustrazione che in alcuni casi può sfociare in comportamenti
aggressivi o depressivi. Uno stile indulgente, improntato sul permissivismo, risulta essere altresì un
approccio fallimentare poiché il ragazzo ha bisogno di regole e limiti chiari per poter definire sé stesso
e l’ambiente esterno. Appare evidente come lo stile educativo incida moltissimo sullo sviluppo del
comportamento prosociale: esso viene attivato in presenza di una solida educazione socio-emotiva,
supportata da valori quali il rispetto per l’altro, l’altruismo e l’amicizia.
Anche la scuola, come la famiglia, riveste un ruolo molto importante per l’educazione socio emotiva
dei giovani. Essi trascorrono qui molte ore della loro giornata, svolgendo compiti che li vedono
impegnati sia a livello cognitivo, sia emotivo nella costruzione della propria identità e nelle relazioni
con adulti e coetanei. Se, infatti, nella famiglia si sviluppano e si radicano valori e criteri per affrontare
il mondo esterno, nella scuola i ragazzi possono testare e misurare tali insegnamenti.
Le relazioni che avvengono all’interno della scuola arricchiscono la visione del ragazzo sul mondo
degli adulti apportando al proprio vissuto nuovi modelli e riflessioni che lo aiutano a sviluppare la
propria identità e a completare la propria visione della realtà.
Anche lo stile educativo dell’insegnante, come quello del genitore, deve essere autorevole:
l’adolescente ha bisogno di regole precise di comportamento e di limiti che lui stesso, tramite la
discussione aperta tra insegnante e compagni accetta e costruisce. La trasgressione di tali regole deve
essere sempre affrontata dall’insegnante con delle sanzioni adeguate alla gravità di quanto fatto; esse
inoltre dovrebbero sempre avere l’obiettivo di riparare al danno arrecato, o ad una relazione
compromessa. È molto importante però che l’insegnante valorizzi, attraverso dei rinforzi positivi,
atteggiamenti prosociali, come ad esempio fornire aiuto ai compagni in difficoltà, assumere
atteggiamenti di ascolto, rispetto e di comunicazione; per contro egli deve mostrare un atteggiamento
severo nei confronti di atteggiamenti prevaricatori e aggressivi.
La prosocialità viene appresa anche e soprattutto tramite la relazione e il confronto tra i pari. Sempre
più studi attestano, infatti, quanto i rapporti amicali influenzino il comportamento dell’adolescente e il
suo benessere. Le relazioni tra pari sono di tipo simmetrico, caratterizzate cioè da reciprocità e
reversibilità dei ruoli. Esse permettono all’adolescente di fare esperienza di libertà psicologica senza il
vincolo della dipendenza che si ha invece relazionandosi all’adulto. Per l’adolescente costruire
amicizie, avere un confidente, sentirsi parte integrante di un gruppo, costituiscono degli elementi
fondamentali per la propria realizzazione personale. I ragazzi che possiedono una certa competenza
prosociale hanno stima di sé, delle proprie capacità di aiuto, sono scevri da ansie e da paure nel mettersi
in relazione con gli altri e riescono ad integrarsi meglio. (Orbana, 2013)
Per coloro che, al contrario, mostrano chiare difficoltà prosociali, le attività di gruppo, siano esse
scolastiche o extrascolastiche di carattere ludico o sportivo, possono stimolare dei momenti importanti
per l’apprendimento vicario di tali competenze. È infatti nel gruppo che i ragazzi apprendono a stare
insieme, a condividere regole e obiettivi comuni, ad autoregolarsi e ad ascoltare gli altri, ad intervenire
in modo efficace, mediando e collaborando. Tutte capacità che saranno utili all’adolescente per vivere
da adulto un’esistenza appagante di successo personale e sociale (Caprara, 2006).
Nel contesto scolastico, sono necessari interventi finalizzati alla prevenzione del manifestarsi di
comportamenti antisociali ed aggressivi sono necessari. Se focalizzati sul “positivo”, sulla
valorizzazione delle potenzialità e sull’incremento delle abilità invece che sulla “mancanza” ed il
danno, essi possono infatti portare un incremento del benessere tra gli alunni e nel confronto con i
docenti.

Secondo la letteratura scientifica comportamenti aggressivi e disturbi comportamentali durante


l’infanzia possono portare a comportamenti devianti in adolescenza e criminali in età adulta sia nei
maschi che nelle femmine. Esistono però “fattori protettivi che possono limitare o evitare la nascita e lo
sviluppo di questi comportamenti: interesse per gli altri, empatia, relazione positiva madre-figlio,
competenze sociali, comportamenti prosociali.

Un ragionamento morale efficace può essere favorito tenendo in considerazione le diverse


caratteristiche degli alunni, il loro interesse, il loro background familiare ed amicale e soprattutto
considerando che ogni persona ha caratteristiche positive e che deve solo trovare il modo di esternarle.

Comunicazione interpersonale e comportamento affermativo favoriscono senz’altro una relazione che


mentre da un lato permette di non perdere di vista i propri bisogni e i propri obiettivi, dall’altro
favorisce il rispetto degli altri considerandoli nella loro reciprocità e questo si rivela molto utile ai fini
di una prosocialità che influenzi anche spirito d’iniziativa e decisione.

È stato studiato come le convinzioni di autoefficacia abbiano una netta correlazione con il
comportamento prosociale: Albert Bandura (2012) definì l’autoefficacia come: “convinzione nelle
proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le
situazioni che si incontrano in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati. Le convinzioni di efficacia
influenzano il modo in cui le persone pensano, si sentono, trovano le motivazioni personali e
agiscono”. Il senso di autoefficacia si traduce in fiducia e ottimismo nei confronti delle proprie risorse
coraggio di affrontare le difficoltà, capacità di valutare gli insuccessi come possibilità di apprendimento
per migliorarsi. L’autoefficacia influenza inoltre in maniera determinante i risultati di prestazione, non
solo per l’apprendimento, sia a scuola che nella vita di tutti i giorni, ma anche nelle relazioni sociali. La
convinzione di essere in grado di esercitare un certo controllo sugli eventi del proprio futuro fa intuire
che il proprio agire a beneficio degli altri possa essere efficace e le relazioni interpersonali essere
realizzate con successo. La persona dotata di autoefficacia ha la fiducia di essere in grado di controllare
le proprie emozioni, di non lasciarsi trascinare dalle emozioni negative altrui (Caprara, 2006)
Un’altra capacità necessaria al fine di un corretto sviluppo del comportamento prosociale è
l’autocontrollo cioè imparare a gestire l’emozionalità, soprattutto quella negativa (collera, rabbia,
aggressività). L’autocontrollo permette di valutare la risposta più funzionale invece di agire
impulsivamente.

Abilità di problem solving e senso di condivisione, collaborazione ed aiuto completano le abilità


necessarie per sviluppare una capacità relazionale comportamentale, di ragionamento morale evoluto
nel rapporto con gli altri. Individuare le cause di un problema, sviluppare una pianificazione e trovare
soluzioni adatte e più proficue, rappresentano una capacità di assunzione di decisione che viene meglio
e più proficuamente gestita se mediata dalla collaborazione con gli altri, condividendo idee, riflessioni
ma anche materiali propri.

Prevenire il disagio attraverso un approccio più “completo” con gli alunni può essere proficuo per
combattere le problematiche legate alla violenza a scuola, alla chiusura ed alla sottomissione di alcuni
studenti, ai tentativi di supremazia da parte di altri; così come potrebbe permettere l’espressione delle
caratteristiche di alcuni di loro in un’ottica di crescita e valorizzazione delle loro potenzialità.

4.5 Un modello per la formazione nel volontariato: il “cooperative learning”

Tra i modelli per la formazione, uno dei più privilegiati all’interno del volontariato, è il cooperative
learning in quanto si rivela adeguato alla gestione dei gruppi, alla tipologia delle associazioni,
all’analisi critica dei metodi di gestione dei gruppi di lavoro utilizzati nel settore. (Atzei, 2003).
Da uno studio di Caprara, riguardante la relazione tra il comportamento prosociale e l’impegno
scolastico, emerge che la propensione alla prosocialità con i suoi diversi elementi, (l’aiuto, la
condivisione e il prendersi cura dell’altro, per giungere infine alle soglie dell’adolescenza, all’empatia)
assume un ruolo predittivo del successo scolastico stesso. L’autore afferma che la tendenza ad aiutare i
compagni, ad offrire spontaneamente sostegno affettivo ed a condividere giochi, curiosità ed esperienze
si è rilevata decisiva nel sostenere un percorso scolastico di successo, oltre che nel contrastare tendenze
depressive ed aggressive. (Caprara, 2006).
Nei processi di insegnamento/apprendimento è importante promuovere valori come l’accoglienza,
l’ascolto e la condivisione; in modo da rendere la scuola “inclusiva”, valorizzando da una parte le
differenze individuali, (D’Alessio et al., 2015) e, dall’altra, offrendo con la “dimensione dell’aiuto”, la
possibilità di migliorare, sia dal punto di vista relazionale che cognitivo. Una siffatta “sinergia” tra
competenze cognitive e abilità prosociali, è stata individuata nel cooperative learning, che prevede un
percorso di integrazione tra gli elementi dell’approccio strutturale di Kagan (2000), ed una modalità di
riflessione sulle abilità sociali proprie del Learning Together dei fratelli Johnson (Johnson & Johnson;
1975); metodi didattici che valorizzano entrambi l’impegno collaborativo, l’interazione e la
responsabilità individuale dei soggetti in apprendimento. Nel particolare sono state considerate quelle
abilità che, per la loro attinenza con le dimensioni della prosocialità individuate da Caprara, possono
essere considerate abilità di tipo prosociale (Caprara et al., 2014).

Nato nei contesti scolastici, il cooperative learning non va tuttavia considerato soltanto come uno
specifico metodo di insegnamento/apprendimento, ma piuttosto come un vasto movimento educativo
che si basa sulla relazione interpersonale attorno alla quale far ruotare altre variabili come la
motivazione e i processi cognitivi.
Questo metodo può essere spiegato come una forma di apprendimento cooperativo che facilita lo
scambio reciproco, tende a eliminare la competizione fine a sé stessa promuovendo le capacità di
integrazione, porta ad acquisire una modalità di lavoro di reciproca responsabilità.
Il cooperative learning, presenta le seguenti caratteristiche fondamentali:
- l’interdipendenza positiva;
. l’interazione face to face;
- l’insegnamento e l’uso delle competenze sociali nell’agire in piccoli gruppi eterogenei;
- la revisione di controllo costante dell’attività svolta;
- la valutazione individuale e di gruppo. (Atzei, 2003).
La Fondazione Italiana per il Volontariato ha deciso di investire su questo metodo, il cooperative
learning, che pertanto non va considerato solo come metodo di lavoro ma anche come ‘filosofia’: una
modalità di essere in relazione con gli altri. (Diella, 2016)
 
Capitolo V

COMPORTAMENTI ANTISOCIALI DEGLI ADOLESCENTI

5. 1 Cause della devianza

L’adolescenza rappresenta un momento di passaggio che crea diversi “sconvolgimenti” dovuti a


trasformazioni fisiche, psichiche, intellettive, morali e relazionali. A causa di questi cambiamenti, gli
adolescenti sono costretti ad abbandonare l’immagine corporea e psichica infantile e ad acquisire quella
di persona adulta. Tale processo è complicato: avviene un distacco dalle figure genitoriali e la visione
idealizzata di questi ultimi si modifica per poter raggiungere un’autonomia ed una libertà che consente
di diventare adulti (Bisi, 1998; Buzzi, Cavalli & De Lillo, 2007).

In questo percorso gli adolescenti vengono aiutati dal gruppo di amici, con i quali condividono
confidenze, avventure, divertimenti, difficoltà, paure e, in alcuni casi, anche esperienze devianti.
Come sostiene la pedagogista Rizzo (1997), bisogna evitare che in questo momento di crisi essi “si
perdano nel bosco” ovvero che vengano spinti verso azioni, atteggiamenti e comportamenti che
possono compromettere il loro benessere fisico, psicologico e sociale nell’immediato o a lungo
termine. Sono i dubbi, i malesseri o le specifiche difficoltà ai cui i ragazzi non riescono a far fronte in
autonomia a dare origine a manifestazioni di disagio. Tra queste, le più comuni sono: difficoltà:
nell’apprendimento, nel sonno, difficoltà relazionali intrafamiliari e/o extrafamiliari nell’accettazione
del proprio corpo, identità sessuale, rifiuto scolastico, ritiro sociale, isolamento ed inibizione,
autolesionismo, aggressività, conflittualità e comportamento oppositivo. Disturbi dell’umore (ansia,
tristezza, eccessiva euforia…), disturbi o alterazioni del comportamento alimentare, uso e abuso
di sostanze, dipendenza  da Internet, social-network, smartphone.
Vari studi reputano alcuni fattori di rischio che più di altri possono generare comportamenti devianti.
Alcuni psicologi, quali Bowlby (1982) e Spitz (1969), sostengono che l’assenza della figura materna
può portare i giovani ad intraprendere percorsi devianti. Altri studiosi, tra cui Parsons (1951), Andry
(1957), Arca (1997), sostengono invece che l’assenza della figura paterna e l’eccessiva presenza di
quella materna inducano i ragazzi a compiere atti illegali per protesta e per mostrare la propria virilità.

Alcuni pedagogisti – tra cui Bertolini (1993, 1996) e Manca (1999) considerano che le azioni devianti
derivano dal sentirsi impotenti di fronte alla realtà e dal lasciarsi trascinare dalle situazioni senza
attribuire a queste ultime la giusta rilevanza, né valore agli altri, né responsabilità alle proprie azioni.

Per evitare che fattori di rischio si trasformino in condizioni di disagio, disadattamento o devianza
occorre attivare interventi di tipo preventivo e educativo. I primi consentono all’adolescente di
modificare la propria visione del mondo, attraverso esperienze significative all’interno delle quali egli
può esprimere le proprie potenzialità ed attribuire responsabilità alle azioni che compie, dunque
abbandonare le condotte devianti. Gli interventi educativi permettono di attivare programmi tesi ad
evitare che gli adolescenti (in modo particolare quelli che vivono condizioni di rischio individuale,
familiare e sociale) intraprendano percorsi devianti, o che ragazzi che abbiano già commesso azioni
illegali, diventino recidivi. Affinché gli interventi non siano vani, occorre effettuare non solo la
prevenzione di tipo individuale, ma anche un intervento nel contesto socioculturale in cui il ragazzo è
inserito, altrimenti c’è il rischio che si elimini il sintomo ma non la causa del disagio.
5.2. Disagio e delinquenza

Il concetto di delinquenza giovanile identifica un comportamento violento che molto spesso, nel
linguaggio comune, usando in modo erroneo i sinonimi, viene riferito anche alle condizioni di disagio,
disadattamento e devianza. Secondo Moro (2008) infatti i termini non indicano un unico stato di
malessere ma ne rappresentano le fasi nel senso che il disagio può degenerare fino a trasformarsi nelle
forme più gravi di disadattamento, devianza e delinquenza. Ciò tuttavia non accade sempre, perché
l’adolescente può trovare in sé stesso delle potenzialità che gli permettono di superare la condizione di
disagio e ristabilire quindi un rapporto equilibrato con la società.

È utile, per comprendere le diverse problematiche adolescenziali, distinguere ed analizzare in modo


approfondito i singoli termini. Innanzitutto, tutto il termine disagio che in ambito psicologico e socio-
pedagogico “definisce lo stato di difficoltà e/o di sofferenza in cui si trova una persona sia in
riferimento al proprio stato interiore sia e soprattutto con riferimento alle sue relazioni sociali. Il
disagio giovanile, oggi sempre più presente in particolare nelle società ad alto sviluppo economico è
spesso la premessa o lo sfondo su cui si possono instaurare, ovviamente a certe condizioni sfavorevoli,
comportamenti disadattati o delinquenti”. (Bertolini, 1996, p. 147)

Secondo Regoliosi (1994) sono presenti tre livelli di disagio:

- endogeno evolutivo ed è legato alla fase di transizione adolescenziale.

- socioculturale-esogeno, legato ai condizionamenti sociali.

- cronicizzante, legato all’interazione di fattori-rischio individuali e sociali.

Milan (2001) sostiene che il disagio giovanile è una condizione normale perché tipico della fase
adolescenziale, anche se il giovane può avere delle difficoltà nello svolgere i compiti evolutivi. Il
disagio può essere considerato come una sofferenza psicologica che l’adolescente sente perché
incapace di rispondere alle aspettative sociali.
In generale, dunque il disagio si può considerare come un’insoddisfazione per un bisogno “frustrato”:
insoddisfazione che spinge il soggetto a cercare l’oggetto o la situazione fine che ne rappresenta la
soddisfazione e annulli la tensione.
Gli adolescenti utilizzano diverse strategie per ridurre il disagio: ad esempio lo studio, il divertimento,
il consumo di alcol e droghe, la devianza. Alcol e droga possono essere utilizzati per ridurre lo stato
d’ansia; mentre la criminalità per garantire sicurezza. Quest’ultima si riferisce all’appartenenza a
raggruppamenti violenti come ultras, gruppi di rivendicazione politica o a sfondo razziale, che
permettono agli adolescenti di avere punti di riferimento stabili.

Per comprendere meglio il concetto di disadattamento è utile adottare le definizioni date da diversi
autori. Secondo Arciuli (2008) il disadattamento è l’incapacità che gli adolescenti e gli individui in
generale, mostrano nel rapportarsi pacificamente con le persone, con i valori e con il mondo
circostante. L’autrice sostiene inoltre che in alcuni casi tale disadattamento può sfociare in devianza.

Per Borsani, (1997) il disadattamento indica un comportamento non conforme alle norme e alle
aspettative sociali. Esso rappresenta un problema per la società perché si discosta dai valori e dalle
norme che utilizzano la maggior parte delle persone.
Bertolini (1996) afferma che i ragazzi disadattati sono quelli attuano comportamenti svalutativi ed
aggressivi su di sé e sul mondo circostante in quanto si trovano in situazioni di carenze affettive e
relazionali.
Regoliosi (1994) sostiene che il disadattamento è una relazione problematica tra l’individuo e
l’ambiente, un malessere endogeno che può discendere dal contesto familiare o socioculturale:
difficoltà di superare la fase edipica, carenze di affetto, violenze, presenza di sottocultura di svantaggio
materiale, culturale o relazionale (Barbagli & Gatti, 2002). È il caso di adolescenti che vengono
agganciati dalla criminalità organizzata per compiere reati. Quest’ultima rappresenta per loro una
grande attrattiva, in quanto li riconosce sia dal punto di vista materiale pagandoli per i reati commessi,
sia anche dal punto di vista affettivo-relazionale perché costituisce un punto di riferimento.
Nelle situazioni di svantaggio, le istituzioni dovrebbero essere molto presenti attuando programmi
preventivi e di recupero per gli adolescenti entrati nel mondo della criminalità, per evitare che essi
facciano della delinquenza la loro scelta di vita e intraprendano una carriera deviante (Loeber,
Farrington & Redondo, 2011).

5.3 Carriera deviante: fattori di rischio e fattori di protezione

Diversi studiosi (Farrington, 2017; Lipsey & Derno, 1997; Loeber, 1996; Piquero et al. 2013; Redondo,
Martínez-Catena & Andrés; 2011) si sono preoccupati di analizzare quali aspetti aumentino la
possibilità che un adolescente, intraprenda una “carriera deviante” arrivando a delineare fattori di
rischio di tipo: genetico, personale, comportamentale, cognitivo-emozionale, legati all'intelligenza e
alle abilità di apprendimento. Nella categoria dei fattori di rischio di tipo genetico hanno incluso: essere
di sesso maschile, avere un alto livello di testosterone e un basso livello di serotonina, basso tasso
cardiaco, presenza di lesioni craniali, maggiore attività delle onde cerebrali lente, bassa attività del
sistema nervoso autonomo, bassa attività del lobo frontale. Tra gli altri, anche problemi legati alla
gravidanza e al parto, che causano un cattivo sviluppo del feto, come per esempio il consumo da parte
della madre di alcol e sigarette, complicazioni durante il parto che producono possibili danni
neurologici, basso peso del nascituro, etc.
Tra i fattori di rischio personali hanno compreso: sensazione di noia, insoddisfazione, insensibilità e
indifferenza verso gli altri, estroversione, psicopatia, ostilità e irritabilità verso gli altri, impulsività,
ingannare e mentire al prossimo, incapacità nel mantenere compromessi e promesse, ricerca di nuove
esperienze e sensazioni (si considerano anche la precocità e la promiscuità sessuale). Inoltre, in questa
categoria sono stati inseriti anche: il prediligere esperienze rischiose, problemi di attenzione ed
iperattività, egocentrismo, bassa tolleranza alla frustrazione, presenza del disturbo post-traumatico da
stress, schizofrenia (caratterizzata dalla presenza di quali allucinazioni e deliri), tendenze suicide.
Tra i fattori di rischio comportamentali vi sono invece: aggressività sin dall'infanzia con
predisposizione a partecipare a risse, aggredire e minacciare gli altri sin da piccoli, consumo di alcol e
altre droghe, lunghi periodi di inattività lavorativa senza preoccuparsi di ricercare attivamente un
impiego, difficoltà a mantenere il proprio lavoro per molto tempo, guida dell'auto temeraria e
infrazione ripetuta delle norme di circolazione.
Tra i fattori di rischio di tipo cognitivo-emozionale rientrano aspetti come: deficit nell'educazione, poco
interesse e diligenza nello svolgere le proprie mansioni lavorative, mancanza di empatia verso gli altri e
incapacità nel provare dolore per la sofferenza altrui, tendenza a soddisfare i bisogni immediati senza
preoccuparsi per il futuro, tendenza a giustificare i propri insuccessi attribuendo la responsabilità a
fattori esterni, credenze favorevoli alla commissione di reati. Tra gli altri aspetti presenti in questa
categoria vi sono anche l'essere ribelli nei confronti di figure che rappresentano l'autorità (come ad
esempio genitori, professori, polizia, etc.). Questi giovani risultano essere incapaci nel mettersi nei
panni delle altre persone, presentando lacune di role-taking e role-playing. Tra gli altri fattori di rischio
appartenenti alla categoria cognitivo-emozionale vi sono infine la bassa autostima dei soggetti e la
percezione negativa che questi hanno di loro stessi. Tra i fattori di rischio legati all'intelligenza e alle
abilità di apprendimento sono stati inclusi aspetti come: deficit nell'intelligenza, lacune nell'intelligenza
emozionale; difficoltà di apprendimento verbale, come ad esempio limitazioni nella comprensione ed
espressione verbale; lacune nell'apprendimento in generale, come leggere, scrivere, fare calcoli
matematici; deficit nell'apprendimento della disciplina dovuti all'incapacità di modificare la propria
condotta nonostante siano stati realizzati degli interventi correttivi; deficit nell'apprendimento
dell'evitazione del castigo che causano l'incapacità di modificare il proprio comportamento nonostante
si abbiano ricevuto castighi; basso rendimento scolastico dovuto all'abbandono e all'insuccesso
scolastico.
Diversi studi effettuati a livello nazionale ed internazionale dimostrano come per prevenire la
delinquenza siano importanti i vincoli sociali.
Valdenegro, (2005) all'inizio degli anni 2000, ha evidenziato come il sostegno sociale (di tipo familiare
ed amicale) e la partecipazione sociale (il far parte di un insieme di reti di tipo amicale, familiare o
associazionistico) si possono considerare due fattori di protezione alla delinquenza. Infatti, il campione
di adolescenti che non aveva infranto le leggi penali presentava indici più alti di sostegno e
partecipazione sociale rispetto al gruppo di adolescenti che aveva commesso un reato. Un altro aspetto
rilevante dello studio è che gli adolescenti che avevano commesso un delitto contro la proprietà, si
sentivano maggiormente oggetto di pregiudizi da parte di organismi di controllo sociale rispetto agli
altri giovani.
Anche una ricerca americana realizzata agli inizi del 2000 ha confermato l’importanza del contesto
familiare come fattore protettivo rispetto all’aggressione fisica (Henneberger et al., 2016). Questo dato
è stato confermato anche da uno studio (Henneberger et al., 2012) che ha analizzato la relazione tra la
violenza tra pari, popolarità e delinquenza giovanile, utilizzando come moderatore il ruolo che assume
la famiglia. Tra i principali risultati si è stabilito che un basso controllo parentale si associa
positivamente a violenza tra pari e delinquenza giovanile.
Nel 2002 una ricerca realizzata negli Stati Uniti con un campione di 7.000 adolescenti (con un’età
media di 15 anni) ha evidenziato (Fagan et al., 2007). che alcuni fattori di protezione come
supervisione dei genitori, partecipazione scolastica e abilità sociali, assumevano un ruolo positivo,
mentre la ribellione e la ricerca di sensazioni e i conflitti familiari rappresentavano dei fattori di rischio
rispetto alla delinquenza giovanile.
Originate dal disagio, tutte le condotte devianti pur essendo molto diverse tra di loro, assumono, per gli
adolescenti che le mettono in atto, un’importantissima funzione evolutiva: consentono di affermare la
propria indipendenza, di mettersi alla prova, di entrare in relazione con le proprie emozioni
profonde. È in quest’ottica che bisogna guardare al volontariato come a un contesto relativamente
protetto e sicuro in cui i ragazzi possano sperimentarsi in molteplici ruoli, essere aiutati a formarsi una
coscienza civile e responsabilizzarsi nei confronti della propria comunità.
Il volontariato crea opportunità di socializzazione sia con i coetanei che con persone adulte, ed infine
rappresenta un’occasione di costruzione o consolidamento dell’identità. (Marta & Scabini, 2003).
I ragazzi che praticano volontariato, infatti, sono caratterizzati da una chiara rappresentazione del sé
(Hart & Fegley, 1995); inoltre, l’impegno in attività solidali favorisce una migliore comprensione della
propria identità che, a sua volta, incrementa la capacità dell’individuo di instaurare relazioni
soddisfacenti con il prossimo (Younnis & Yates, 1997).
Uno studio narrativo sulla realtà del volontariato giovanile mette in luce che il coinvolgimento in
attività di volontariato può facilitare il processo di costruzione del sé soprattutto se vissuto in età
adolescenziale poiché consente all’individuo di sperimentarsi in nuovi ruoli e di impegnare le proprie
risorse per il bene della comunità di appartenenza. Grazie al suo coinvolgimento in attività di
volontariato, il ragazzo sceglie di descriversi enfatizzando le emozioni e i sentimenti derivanti dalle
relazioni sociali e dimostra di sapere quali sono le capacità individuali più importanti per avviare e
mantenere delle interazioni soddisfacenti all’interno di un gruppo amicale (Guglielmetti, Marta & Peri,
2000).

5.4 Adolescenti violenti e “ambiente” di soccorso.

Gli adolescenti che presentano disturbi di comportamento, oltre ad un supporto psicoterapeutico


individuale, necessitano di un “ambiente di soccorso”, che permetta loro di contenere l’espressione
violenta dei propri vissuti emotivi - compito in cui l’ambiente naturale (familiare ed extrafamiliare) ha
fallito. (Novelletto, Biondo & Monniello, 2000). Secondo gli autori, infatti, i comportamenti di
opposizione, ribellione o rifiuto rappresentano il tentativo dell’adolescente di richiamare
l’attenzione dei sistemi familiare prima, ed extrafamiliare poi. Ciò si verifica perché il ragazzo
insieme al bisogno di diventare autonomo e indipendente, ricerca la rassicurazione affettiva, il
sostegno e la guida alle proprie capacità di simbolizzare, da parte del genitore o di un altro adulto di
riferimento.
Quando la famiglia e il contesto extrafamiliare non sono in grado di rispondere adeguatamente ai
bisogni evolutivi l’adolescente può arrivare a manifestare con forza la rabbia verso tale fallimento,
ricorrendo alla violenza fisica e ad agiti antisociali. Si tratta reazioni perché forti e inadeguate, che
generalmente richiamano l’attenzione di adulti estranei all’ambiente naturale dando luogo
all’attivazione di un ambiente di soccorso (ospedale, sistema giudiziario, sistema socioassistenziale) i
cui obiettivi prioritari di intervento saranno due: fornire un supporto psicologico all’adolescente e
recuperare il suo ambiente naturale, in particolare il sistema familiare. Se anche i tentativi
dell’adolescente non ricevono risposta dagli ambienti di soccorso, egli perde la speranza e sperimenta
il dramma dell’ambiente assente (Carbone & Cimino, 2017), andando incontro alla frammentazione
del sé (Kohut, 1971). In questo caso le azioni violente appaiono agli occhi degli adulti come gratuiti
ed immotivati e quindi incomprensibili.
Il mondo psichico dell’adolescente violento è dominato da sentimenti di noia, vuoto e mancanza di
significato anche a causa di rapporti con i pari sempre più caratterizzati da distanza emotiva, assenza
di empatia, incapacità di comunicazione efficace. Bisogna considerare inoltre che l’esposizione
continuativa ad un mondo virtuale senza filtri, senza guide autorevoli, genitori o insegnanti, in grado
di aiutarli nel distinguere tra il virtuale e il reale, ha un impatto devastante sullo sviluppo psico-
relazionale
degli adolescenti.

Secondo Di Renzo (2007), spesso la violenza è priva di Eros, fine a sé stessa, scevra di obiettivi
sociali, educativi o relazionali. Colui che viene sopraffatto è visto come oggetto, e non un individuo
sul quale scaricare il proprio senso di inadeguatezza che, viene rimosso e trasformato in un’azione
violenta, finalizzata ad affermare la propria supremazia sull’altro.
Un modo efficace di rispondere ad una tale violenza è fare in modo che gli adulti di riferimento e il
contesto sociale di questi ragazzi si contrappongono a questa violenza priva di Eros, con una
“violenza” piena di Eros, ponendo limiti e confini per una buona convivenza sociale; essi devono
tenere in considerazione che dietro ogni atto c’è un complesso mondo interiore ed emotivo con cui
bisogna entrare in sintonia, piuttosto che reagire in fretta col perdono o la punizione. L’obiettivo è
quello di arrivare ad una possibile trasformazione interiore di cui sarebbero deprivati se fossero spinti
alla sola rimozione dei pensieri penosi alla base del comportamento.
Spesso, gli adolescenti che agiscono con violenza fanno fatica a comprendere lo stato mentale ed
emotivo dell’altro ed immedesimarsi in esso; oppure, al contrario, sviluppano e affinano tale abilità
per sopraffare l’altro e dominarlo (Lonigro et al., 2014). L’utilizzo inappropriato di tale abilità si
traduce in un’incapacità di mettere in atto, in entrambi i casi, comportamenti prosociali (Caprara et
al., 2014).
Il mondo psichico dell’adolescente rispecchia la società in cui è immerso, dove il senso e l’impegno
civico sono sempre più assenti, difatti è sempre più raro che ci si impegni attivamente per prendersi
cura di chi è in difficoltà, per ascoltare, condividere e dare conforto. È necessario dunque costruire
una rete tra genitori insegnanti, istituzioni e agire precocemente fin dall’infanzia offrire modelli di
prosocialità nei contesti quotidiani dei ragazzi, per accompagnarli e supportarli nella presa di
coscienza di ciò che sono attraverso un “sorta di “messa alla prova”. L’ideale sarebbe dare luogo a
uno spazio educativo che consenta quel dialogo, probabilmente interrotto o mai sorto, tra minore, rete
primaria e secondaria e territorio prima impensabili; uno scenario di comunicazione nuovo, capace di
attivare risorse educative, formative, socializzanti e terapeutiche utili per rispondere ad una domanda
di cambiamento dei minori violenti. Empatia e supporto ambientale possono così diventare due punti
forza sui quali responsabilizzare gli adolescenti e aiutarli a e relazionarsi adeguatamente al proprio
contesto sociale.

Capitolo VI

ADOLESCENTI E VOLONTARIATO

6.1 Impegno sociale dei giovani: dati


I dati del Rapporto Giovani (2013) ci mostrano che in Italia circa due terzi dei giovani non ha mai fatto
esperienze di volontariato e del terzo restante solo il 6% vi si dedica attualmente e abitualmente. Il loro
impegno nel sociale avviene in diversi settori: educazione, integrazione, tutela dell’ambiente e della
cultura, politica. La loro preferenza va alle organizzazioni meno strutturate piuttosto che alle grandi
associazioni a carattere nazionale. La motivazione che li spinge all’impegno sembra essere quella di
potersi sentire protagonisti di un processo di trasformazione e di cambiamento del contesto sociale. La
loro principale preoccupazione è invece quella di gettare le basi per costruire un futuro occupazionale
solido intraprendendo un percorso che sia anche arricchente dal punto di vista relazionale e sociale.

Infatti, negli ultimi anni nei giovani stessi è aumentata la consapevolezza che il successo professionale
non dipende solo dal titolo di studio, ma anche da competenze che si acquisiscono fuori dai contesti
educativi tradizionali (scuole, università e simili) mettendosi direttamente alla prova con la realtà
lavorativa e sociale.

Questi motivi, assieme al desiderio di riconoscimento sociale e al senso di appartenenza comunitaria,


hanno fatto crescere negli ultimi anni l’attenzione dei giovani verso attività di volontariato e di servizio
civile. Secondo l ’indagine condotta dal Rapporto giovani, su un campione di 1.783 persone,
rappresentativa su scala nazionale dei giovani tra i 19 e i 30 anni solo una parte limitata dei giovani
intervistati sembra stia svolgendo o abbia svolto un’esperienza di servizio civile (11,7%) e come circa
la metà dei giovani (50,2%) non abbia mai svolto attività di nessun tipo in ambito sociale.

Ben l’80,4% degli intervistati si dichiarata “molto” o “abbastanza” d’accordo con il fatto che per tutti i
giovani è utile fare un’esperienza di impegno civico a favore della propria comunità, anche senza
compenso in denaro.  

Gli aspetti considerati più importanti per un’esperienza di questo tipo sono prima di tutto quello di
essere aiutati a crescere come persone” (96% concordano “molto” o “abbastanza” con questa
affermazione) seguito dall’arricchire le competenze utili per la vita sociale e lavorativa” (95%) e
dall’incentivare la loro formazione di “cittadini attivi e intraprendenti” (94.3%). Molto alti, pur
venendo dopo, sono anche gli aspetti più rivolti alle ricadute positive della propria azione verso gli altri
(“esprimere valori di solidarietà” e “rafforzare il senso di comunità”, rispettivamente al 93.9 e al
92.0%). L’aspetto più importante che emerge non sembra essere la remunerazione, anche se questa
raggiunge una percentuale comunque piuttosto elevata l’87.9%.

Nel Sud il consenso maggiore lo ottiene l’essere “occasione per arricchire conoscenze e competenze
utili anche nel mondo del lavoro” mentre nel Nord prevale l’importanza di “aiutare i giovani a crescere
come persone”. L’aspetto di utilità per il lavoro tende quindi ad essere maggiormente sentita nel Centro
Italia. In ogni caso, anche nel Sud dove le condizioni di lavoro e di reddito sono più penalizzanti, chi
considera molto importante avere una remunerazione, è la minoranza.

I valori civici risultano invece più forti nel Centro: l’affermazione “stimolare i giovani a diventare
cittadini attivi” e “rafforzare il senso di appartenenza alla comunità” raccoglie molti più consensi qui
rispetto alle altre ripartizioni.
In generale, emerge tuttavia una particolare attenzione al valore di crescita di tipo formativo e attivante
a beneficio di chi lo svolge. Un forte segnale di riconoscimento che si fa qualcosa di utile per la
comunità ma che è, prima ancora, molto arricchente per sé stessi.
(http://www.rapportogiovani.it/giovani-volontariato)

6. 2 Il volontariato occasionale

Accanto al volontariato tradizionale, legato alle associazioni, si sta affermando da alcuni anni una
forma di volontariato cosiddetto “occasionale”, episodico e svincolato dalle appartenenze associative.
Secondo L’Istat (2014) nel nostro Paese, questo fenomeno emergente riguarda circa tre milioni di
persone ed è diffuso soprattutto tra i giovani.
Tuttavia, si conosce ancora poco sul fenomeno perché poche sono le ricerche condotte in questo ambito
in Italia mentre si annoverano gli studi statunitensi di Macduff (1990) che classifica su un continuum
temporale tre tipi di volontariato episodico:

– “temporary”, ovvero un servizio di volontariato di breve durata, che generalmente richiede un


impegno quantificabile in poche ore o in un giorno (ad esempio, attività di ristoro ad un evento
sportivo, o servizio pasti per gli homeless), caratterizzato per il fatto che il volontario ‘non ritorna’, non
è legato all’organizzazione;

– “Interim”, ovvero un servizio di volontariato fornito su base regolare per meno di sei mesi (ad
esempio, una persona che partecipa alla realizzazione di un progetto per un numero limitato di mesi);

- “Occasional”, ovvero un servizio di volontariato offerto ad intervalli regolari per periodi di tempo


brevi (ad esempio, chi si impegna ogni anno per eventi annuali di raccolta fondi, ma presta servizio
solo per l’evento). Il servizio può durare un mese o due, o solo un giorno, o la serata dell’evento, ma
l’organizzazione può contare sul ‘ritorno’ di questi volontari, anno dopo anno.

Queste tre accezioni di occasionalità potrebbero rappresentare un indicatore del concetto di


occasionalità nella prestazione di volontariato.

Per Ambrosini si tratta di una forma di volontariato soggettivo aperto all’altruismo, un desiderio di
protagonismo unito a senso civico, che mette in luce una certa insoddisfazione riguardo le forme di
volontariato facenti capo ad organizzazioni. L’autore interpreta il fenomeno nella prospettiva della
soggettività dell’impegno altruistico; soggettività che non è da considerarsi come nemica della
sollecitudine per gli altri ma piuttosto come personale e libera decisione di dedicare tempo, risorse ed
energie ad una causa giudicata meritoria. (Ambrosini, 2016)

Le motivazioni che inducono alla scelta di questa forma di volontariato sono diverse: dedicare tempo
ed energie ad attività percepite come appaganti, dotate di senso, meritevoli agli occhi degli altri;
consapevolezza delle fratture sociali, dei bisogni inascoltati, delle cause degne di essere difese;
bisogno di socialità, percezione che la partecipazione a un'esperienza di servizio sia umanamente ricca.
Nel caso dei giovani, emergono motivazioni come l'esplorazione del mondo, la scoperta di sé e delle
proprie capacità, il desiderio di misurarsi con ruoli e responsabilità adulte, l'opportunità di intrecciare
nuove amicizie, a volte il desiderio di saggiare la propria predisposizione verso determinati ambiti
professionali, oppure di acquisire competenze coerenti con studi e aspirazioni. Come il lavoro, il
volontariato prevede dei ruoli, dei compiti, degli orari, degli obiettivi da raggiungere, delle
responsabilità di cui rispondere, delle relazioni di collaborazione da intrattenere; in questo senso, esso
avvicina agli stili di comportamento del mondo adulto, richiedendo serietà e impegno. A differenza del
lavoro, l'impegno volontario è privo di vincoli, può essere esercitato con maggiore libertà,
conciliandolo con altri impegni e interessi e svolgendolo in base alle proprie inclinazioni e
disponibilità. Inoltre, si svolge in un clima solitamente amicale, è intriso di rapporti personali
significativi, è sottoposto a codici non scritti che prescrivono accoglienza e disponibilità nei confronti
dei nuovi arrivati e dei compagni di impegno. Per un giovane ancora in formazione, può essere
considerato come un luogo intermedio e complementare tra la compagnia degli amici e la società adulta
con le sue regole ed i suoi rituali. (Ambrosini, 2004)

Secondo Marta “i giovani non amano molto il volontariato organizzato, prediligono quella che viene
detta una partecipazione più fluida, forme più episodiche e discontinue, ne è un esempio EXPO. I
giovani cercano forme di volontariato che li aiutino a trovare un senso alla vita, che diano risposte
concrete e bisogni concreti delle persone; ne è un esempio l’impegno dei giovani durante l’emergenza
da covid 19, dove molti giovani che non si erano mai impegnati hanno dedicato tempo e risorse ad
altre persone che vivevano in condizioni di fragilità. I giovani, quindi, sono e rimangono un importante
risorsa per il nostro paese aldilà delle forme di impegno che decidono di scegliere, per altro coerenti
con lo spirito dei nostri tempi.” (https://youtube,com/watch?v=78CkEQYeEOofeature=share)

Confrontando la forma del volontariato tradizionale di tipo associazionistico e la forma di volontariato


occasionale individualistico, emergono però, secondo Ambrosini alcuni problemi: Il volontario
individuale è più soggetto ad autorappresentazioni della solidarietà (emotive, superficiali…), più
esposto alla comunicazione mediatica.

•Le associazioni non sono solo un veicolo per fornire servizi: rappresentano bisogni e soggetti deboli,
partecipano al dibattito pubblico, forniscono formazione e cultura

• Sono attori della società civile, pilastro di una società democratica. Una sfida per l’associazionismo
• Progetti con le scuole e con le imprese, iniziative «volontari per un giorno»: il volontariato
occasionale, anche breve, come occasione di apprendimento attivo, di presa di coscienza del disagio e
delle sfide culturali
• Le associazioni non sono solo attori che intervengono sul campo e hanno bisogno di forze, ma anche
soggetti educativi e culturali

Pertanto, bisognerebbe secondo Ambrosini:

.” Lavorare sul volontariato occasionale come luogo educativo

. “Cogliere il volontariato occasionale come aggancio verso altre forme di impegno”.


(https://www.consorziosir.it/wp-content/uploads/Ambrosini_SIR_07.02.2020.pdf)

6.3 Crisi d’identità e “bisogno” di gruppo in età adolescenziale

L’adolescenza indica il periodo di transizione tra l’infanzia e l’età adulta e si configura come un’età di
cambiamenti radicali, sia fisici, sia psicologici.
Questo passaggio dall’infanzia è contrassegnato da conflitti che discendono dalla coesistenza di due
tendenze opposte: quella che spinge verso l’indipendenza e l’acquisizione del ruolo di adulto e quella
derivante dalla difficoltà a lasciare il mondo sicuro dell’infanzia e il ruolo di bambino.

Da un punto di vista psicosociale, secondo Erikson (1995), il bisogno fondamentale che l’adolescenza


caratterizza è la ricerca di identità, processo in cui il giovane lotta per trovare un senso di unicità
individuale e, al contempo un aggancio con gli ideali di un gruppo. Di qui discendono evidenti fattori
conflittuali: l’immagine ideologica dei genitori viene meno e nasce il bisogno di prendere
consapevolezza di sé stessi, accettarsi e di essere accettati dagli altri. Molto spesso, l’adolescente elude
questi conflitti risolvendoli nella pratica di alcune specifiche “difese”: narcisismo, ascetismo,
intellettualizzazione, scissione.
L’ adolescenza indica una fase dello sviluppo, caratterizzata da complessità in quanto vi si intrecciano e
sono interdipendenti tra loro, modificazioni somatiche, vicende intrapsichiche e dinamiche psicosociali.

In questa fascia di età, nella maggioranza dei casi si può raggiungere la consapevolezza giusta ed un
senso critico solido necessari per poter far scelte personali ed essendo in via di definizione la sfera
morale e sociale, a questo punto della loro crescita, i ragazzi possono avvicinarsi più facilmente al
mondo del volontariato. Nelle associazioni si possono sperimentare vissuti di scambio e confronto con
persone che possono facilitare l'interiorizzazione di valori e norme morali oltre lo sviluppo
della capacità di progettare il proprio futuro sulla base delle proprie risorse e di eventuali
condizionamenti.

Dalla letteratura esistente emerge che anche condivisione degli aspetti della vita interna dei
gruppi di volontariato, favorisce oltre che il raggiungimento degli obiettivi dell’associazione anche
di benessere delle persone in quanto apporta significato all’esistenza.

Nella misura in cui promuove la sensibilizzazione dei cittadini, integrazione delle associazioni in reti
operative e coordinamenti, partnership e governance con gli enti pubblici. Il volontariato diventa una
“palestra” di ascolto attivo, di partecipazione e di mobilitazione convergente di persone, enti e risorse:
si tratta di un excursus che può cambiare la persona soprattutto sul piano valoriale (centralità dei valori
di senso) e quindi anche nello stile di vita e nel modo di vivere le relazioni sociali. (Atzei, 2003)

Un siffatto percorso può cambiare dunque la vita dei ragazzi riempiendola di significati e facendo loro
vivere aspetti importanti di gratificazione personale e conferma di sé con ricadute significative sullo
sviluppo dell'autostima e della fiducia e limitando la possibilità di intraprendere percorsi volti all'
antisocialità.
In Italia sono presenti molte associazioni (dagli oratori, ai gruppi scout, alle associazioni ricreative,
culturali, sportive e di volontariato) che prestano attenzione agli adolescenti, promuovendo
protagonismo, offrendo spazi e attività dedicate e supporto educativo e proponendo attività e valori (la
difesa dell’ambiente e dei beni culturali, il turismo sociale, l’attività motoria, la solidarietà ecc.) molto
importanti nella crescita e nella formazione della personalità, nonché nella prevenzione dei
comportamenti a rischio.
Si tratta di risorse che arricchiscono e completano l’offerta comunitaria di interventi per promuovere e
costruire percorsi di responsabilizzazione e di partecipazione. È anche in questi luoghi che i ragazzi
hanno la possibilità di mettersi in gioco, sperimentare e condividere culture linguaggi; imparare ad
attenersi a delle regole condivise, all’insegna della non competizione e del rispetto dell’altro;
condividere idee e valori comuni, cercando quotidianamente di far fronte – insieme operatori,
educatori, volontari – alle difficoltà che si incontrano. Esistono numerose esperienze positive di
collaborazione tra istituzioni pubbliche e associazioni.
Tali esperienze e sinergie, nel pieno rispetto delle normative e secondo l’identità giuridico-
organizzativa dei soggetti coinvolti, vanno estese ulteriormente, nella direzione indicata dall’art.14
della L.R. n.14/2008, affinché ogni singolo ragazzo possa avere il diritto di essere aiutato da una
comunità di adulti che si pongano al suo servizio e a quello delle sue appartenenze, rispettandole senza
ingerenze di campo.
Anche il Servizio Civile può collocarsi a pieno titolo nel percorso di crescita e formazione dei ragazzi,
in quanto rappresenta un’occasione per favorire:
- il metodo “dell’imparare facendo” al fianco di persone più esperte in grado di trasmettere il loro
saper fare;
- la partecipazione dei giovani stranieri e comunitari, per contribuire alla rimozione degli ostacoli al
loro pieno inserimento sociale, culturale e, quindi, alla formazione di cittadini, nell’ottica di effettiva
coesione sociale;
- la valorizzazione dei propri talenti per il bene di tutti, accrescendo l’autostima;
- opportunità educative e assistenziali offerte dal servizio civile ad altri ragazzi.

6.4 I modelli di funzionamento del volontariato giovanile

Per i giovani il benessere che discende dal volontariato è dato innanzitutto dalla possibilità di ampliare
la propria rete relazionale. Le ricerche condotte su giovani e adolescenti mostrano come il volontariato
contribuisca a ridefinire la propria identità e a incrementare l’autostima, contribuire all’accettazione di
sé e a suscitare senso di autoefficacia proprio attraverso la socializzazione e l’inserimento nel sociale.
Inoltre, in questa fase della vita l’attività di volontariato può proteggere dal rischio psico-sociale e
contrastare sentimenti di malessere portando anche a una remissione di disturbi comportamentali o di
atti devianti e delinquenziali.

Tra i numerosi studi che hanno riportato questi risultati, degno di nota, per il tempo impiegato e la
cospicua mole di dati da analizzati, è quello condotto dalla Scuola di medicina Wake Forest e dalle
università Fordham e del Massachusetts. Lo studio è stato effettuato su oltre 9.000 tra adolescenti e
giovani ed ha evidenziato come i soggetti impegnati in progetti di volontariato oltre ai benefici
psicologici su descritti, sono più propensi a migliorare le loro abitudini, anche alimentari. Ne deriva
uno stato di salute mentale che porta ad un più alto rendimento scolastico e professionale, frutto di
una spinta a migliorarsi legata ad una maggiore soddisfazione per la propria esistenza. L’azione
volontaria ha una funzione di protezione dal rischio psicosociale (Benson; 1993), riduce i problemi
comportamentali dei giovani l’abbandono scolastico. (Moore & Allen; 1996) contribuisce all’arresto
di atti devianti (Uggen & Janikula 1999).

Anche se gli studi sono ancora in corso sembra che fattori concomitanti concorrano al benessere psico-
fisico che deriva dal prestare attività di volontariato: il maggior tempo passato in movimento all’aria
aperta, l’ampliamento delle relazioni sociali, nonché presupposti più direttamente legati alla
psiche. Riguardo quest’ultimo fattore è risaputo che l’agire altruista protegge ad esempio dal senso di
colpa legato a vicende personali spiacevoli e regala l’opportunità di riparare a proprie
disattenzioni. Contribuisce inoltre ad aumentare l’autostima anche un semplice ma sincero
ringraziamento ricevuto.

Alcune ricerche hanno messo in luce come le motivazioni dei giovani per fare volontariato sono quelle
più comunemente accettate, come il puro senso di altruismo e solidarietà ma emerge anche come in
questo processo o entrano spesso in gioco bisogni più personali. Tra questi la necessità di mettersi alla
prova dando uno sfogo pratico a particolari predisposizioni, oltre all’opportunità di
sviluppare competenze in quello che per loro può essere un primo banco di prova in vista della futura
vita lavorativa.

A questi risultati sono giunti Guglielmetti e Marta secondo cui il pattern motivazionale
dell’adolescente e del giovane adulto volontario sembra scaturire dalla compresenza di motivazioni
strumentali (self oriented) incentrate soprattutto sull’acquisizione di competenze professionali e
personali e motivazioni prosociali e valoriali (other oriented). Il mantenimento dell’impegno per un
periodo consistente di tempo pare invece essere determinato esclusivamente da motivazioni orientate
all’ altro. (Guglielmetti & Marta, 2000, pp. 255-279).

Secondo altri autori l’impegno nel tempo sembra essere mantenuto non solo dalla spinta motivazionale
ma anche da un clima organizzativo favorevole sempre per soddisfare esigenze personali
(soddisfazione) e sociali (integrazione). (Omoto & Snyder 1995; Omoto, Snyder & Martino, 2000).
La letteratura presenta dei modelli in riferimento alla scelta e al mantenimento dell’attività di
volontariato nel tempo. Quelli che hanno mostrato maggiore solidità teorica ed empirica sono tre: il
Volunteer Process Model di Omoto & Snyder (1995), il Role Identity Model di Callero (1985) e il
Sustained Voulunterism Model di Penner (1998).

Secondo il primo modello il volontariato procede attraverso tre stadi: antecenti (motivazioni),
esperienze (relazioni con i colleghi, lo staff, l’utenza) e conseguenze (interazione dinamica tra i due
stadi precedenti).

Dal secondo modello si deduce che continuando a fare volontariato il soggetto riesce ad assumere un
ruolo che entra far parte della sua stessa identità che ne risulta quindi rafforzata.

Il terzo modello si basa sull’interazione tra fattori disposizionali (credenze, valori, personalità
prosociale) e fattori organizzativi (pratiche, relazioni, pressione sociale).

Nella scelta e nel mantenimento del volontariato sono principalmente tre i modelli che emergono dalla

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letteratura:

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Studiando i modelli di funzionamento del volontariato in riferimento alla transizione dei giovani all’età
adulta e conducendo un’indagine su giovani che hanno continuato a fare volontariato e coetanei che
hanno smesso, Pozzi e Marta sono arrivate alla seguente conclusione: “Abbiamo assunto che il
volontariato giovanile sia influenzato da variabili disposizionali e organizzative e che l’identità di
ruolo sia una variabile cruciale in questo processo” (Marta & Pozzi, 2007, p.191)

L’approccio dei giovani al volontariato inizia spesso dall’avere contatti con amici già volontari
(Wuthnow, 1995; Boccacin, 1997; Oldini, 2002) ma un buon predittore del comportamento prosociale
sembra essere anche il supporto dei genitori (Marta & Scabini, 2003; Boccacin, 2003).
Questa variabile da alcuni giovani volontari può essere interpretata negativamente come una
“pressione” esterna priva di interesse reale. Secondo Pozzi e Marta, tuttavia, se la scelta non diviene
parte costitutiva della propria identità ma dipende da altri, il volontario, nel tempo interrompe la sua
attività. (Marta e Pozzi; 2007)

Quanto detto sopra offre spunti di riflessione in tutti coloro che si apprestano a coinvolgere i giovani ad
intraprendere percorsi di volontariato e a mantenerlo nel tempo. Quindi è bene conoscere il pattern
motivazionale degli stessi e farlo “maturare” aiutandoli a mantenere alti sia il livello di soddisfazione
personale, che quello di coinvolgimento e di integrazione.

6.5 Prevenzione e canali di comunicazione per coinvolgere al volontariato

La prevenzione viene concepita come anticipazione, ma anche come un aiuto per far affiorare le risorse
nascoste, per far emergere i tratti che sembrano cancellati, fino a portare i giovani ad un livello
soddisfacente di impegno personale per la propria crescita.
La forma migliore e più efficace di prevenzione del disagio e del suo superamento è l'educazione.
Educare significa accogliere, ridare la parola e comprendere. Vuol dire aiutare i singoli a ritrovare sé
stessi; accompagnarli con pazienza in un cammino di ricupero di valori e di fiducia in sé. Comporta la
ricostruzione delle ragioni per vivere.
Oggi educare chiede una rinnovata capacità anche di proposta. Bisogna coinvolgere i giovani in
esperienze che li aiutino a cogliere il senso dello sforzo quotidiano, che svegli ed arricchisca i loro
interessi e, ancorandoli saldamente a quello che è fondamentale, offra loro strumenti per guadagnarsi
da vivere e li renda capaci di agire da soggetti responsabili in ogni circostanza.
Nel suo libro “Fare gruppo con gli adolescenti” Biondo propone, all’interno del processo educativo una
pratica a scopo preventivo che si svolge in un ambiente privilegiato per rispondere alle situazioni
multiproblematiche degli adolescenti: il gruppo. Si tratta del setting psicodinamico multiplo, un
intervento psicologico da realizzare in tutti gli ambienti educativi: dalla scuola, ai centri di
aggregazione giovanile, alle comunità di tipo familiare, ai centri diurni.
“L’intervento psicologico all’interno degli ambienti educativi è necessario non solo per agganciare gli
adolescenti problematici, ma anche perché, in assenza di tale intervento, è la stessa istituzione
educativa a deteriorarsi, visto che al suo interno inevitabilmente emigra la sofferenza mentale del
branco. L’obiettivo è quello di fornire un contributo agli educatori e agli insegnanti per aiutarli a
promuovere, all’interno dei contesti educativi in cui lavorano, un particolare insieme di esperienze
mentali necessarie per superare le inevitabili fasi di blocco del lavoro educativo prodotte dall’impatto
con organizzazioni gruppali primitive. Se l’educatore non riesce a realizzare tale compito c’è il rischio
dell’involuzione della relazione educativa: involuzione che può esitare nello scivolamento del
funzionamento gruppale verso forme primitive in cui prevalgono difese arcaiche (di idealizzazione, di
espulsione, di misconoscimento dell’altro, di prevaricazione). Difese adottate soprattutto dagli
elementi più problematici del gruppo, siano essi adolescenti o adulti, che facilmente possono
contagiare tutto il gruppo. L’aiuto della psicoanalisi dell’adolescenza può sostanziarsi nel permettere
al gruppo educativo di raggiungere livelli di funzionamento gruppale più evoluti, e di offrire ai suoi
componenti più isolati o incapaci di fare gruppo, la possibilità di realizzare la fondamentale
esperienza evolutiva del gruppo, che è alla base di ogni convivenza civile e di ogni processo
maturativo. Infatti, l’intervento psicodinamico con il gruppo di adolescenti nei contesti educativi si
caratterizza per la doppia valenza, sempre compresente e difficilmente scindibile, preventiva e
terapeutica, di educazione alla civiltà e di scoperta di sé, di cui possono usufruire sia i ragazzi sia gli
operatori. Il setting sperimentato è caratterizzato da una molteplicità di interventi (psicodinamica di
gruppo, sportello psicologico, accompagnamento individualizzato, gruppo esperienziale, supervisione
psicodinamica e mediazione interistituzionale) integrati fra di loro, che intervengono sui diversi
fattori, individuali e gruppali, della componente adolescente e di quella adulta, che s’intrecciano
all’interno degli ambienti educativi.” (Biondo, 2008, p. 256)

Da una ricerca realizzata dalla Convol e che ha coinvolto 16 istituti superiori, 36 associazioni e 720
studenti italiani, è emerso che il miglior modo per avvicinare i giovani alla realtà del volontariato è
l’esperienza diretta, ricca di significato e protratta in un lungo arco di tempo unitamente naturalmente
all’impegno, da parte delle associazioni, per accogliere e formare gli studenti con cui entrano in
contatto. (Giovani e volontariato: bello farlo, difficile coinvolgere gli amici 25/09/2019 - Vita.it).
Non bisogna tralasciare però, sullo sfondo, l’impiego di altri mezzi. Innanzitutto, l’utilizzo di
testimonianze dirette. Secondo alcune ricerche italiane (Boccacin, 1997) il volontario attraverso il
“racconto” della propria esperienza, suscita la curiosità di coloro che a malapena conoscono il mondo
del volontariato. (Ambrosini, 2004).

Un altro modo possibile è quello della divulgazione nei luoghi di aggregazione dei giovani: scuole,
concerti, manifestazioni, televisione, Internet, pubblicità che con l’utilizzo di slogan accattivanti
possono essere un’altra tipologia di persuasione per conoscere le attività del Volontariato. (Diella,
2016). Il ruolo svolto dai mass media può diventare molto più incisivo in quest’ottica nel momento in
cui ci si avvale di foto, musica e movimento in quanto permette di unire le esperienze raccontate e
vissute in prima persona al processo emotivo che viene attivato dalle diverse immagini.

Riguardo a ciò fa molto riflettere il film “Un sogno per domani”.

“Siamo all’interno di una scuola media americana al primo giorno di scuola. L'insegnante
protagonista, interpretato da Kevin Spacey, assegna un compito per casa ai suoi ragazzi: “Che cosa
puoi fare per cambiare il mondo? Mettilo in pratica”. Varie saranno le risposte dei ragazzi, ma in
particolare risulta sorprendente e intuitiva quella di Trevor, concretizzata nello slogan: “Passa il
favore!”

“Trevor è un bambino generoso che prende le cose sul serio. E seriamente decide di cambiare il
mondo, nel suo piccolo, prendendo spunto da quel compito decide di fare tre buone azioni
destinandole ad altrettante persone che, a loro volta dovranno ricambiare ad altre tre persone, e così
via.” (Leder, 2000; Diella, 2016).

Oltre alla comunicazione proposta dai mass media è opportuno parlare dei diversi Servizi di
Volontariato che, accanto ad un ruolo di promozione pubblicitaria del volontariato, possono esercitare
una grande funzione di orientamento per far incontrare domanda e offerta al volontariato, fornire
formazioni e aggiornamento ai volontari, promuovere il lavoro in rete tra le varie organizzazioni”
(Ambrosini, 1999).

6.6 Criticità

Nel percorso al volontariato, può accadere che alcune esperienze trasformino in vissuti inefficaci o
suscitino senso di inadeguatezza. Se ciò vale per tutti lo è ancora di più per gli adolescenti in quanto
potrebbe minare il processo di autostima molto vulnerabile a quest’età. A volte la situazione si rivela
talmente pesante da far percepire una distanza incolmabile tra ciò che viene richiesto e le risorse
disponibili (individuali ed organizzative) per rispondere positivamente a tali richieste. Ne deriva un
senso di impotenza, dovuto alla convinzione di non poter far nulla per modificare la situazione, per
eliminare l’incongruenza tra ciò che si ritiene che l’utente si aspetti e ciò che si è in grado di offrirgli,
per competenza o per duttilità della struttura burocratica in cui si lavora. Ciò porta ad un esaurimento di
energie che si può manifestare con sintomi fisici, quali fatica, frequenti mal di testa, disturbi
gastrointestinali, insonnia, cambiamenti nelle abitudini alimentari, uso di farmaci. A livello
psicologico, i segnali sono costituiti da senso di colpa, negativismo, alterazioni dell’umore, scarsa
fiducia in sé, irritabilità, scarsa empatia e capacità di ascolto. Seguono quindi delle reazioni
comportamentali sul luogo di lavoro molto rivelatrici del disagio che si prova: assenze o ritardi
frequenti, chiusura difensiva al dialogo, tendenza a evitare contatti telefonici e a rinviare gli
appuntamenti, distacco emotivo dall’utente, scarsa creatività, ricorso a procedure standardizzate,
spersonalizzazione nei rapporti.
(Zani, 1996)

E’ anche possibile però che il volontariato diventi il fulcro di vita sopra ogni altra attività, caso questo
che potrebbe significare di trovarsi di fronte a ragazzi fragili, che mascherano difficoltà circa la
gestione delle proprie risorse personali e focalizzano le energie altrove per fuggire da aspetti di sé o
situazioni personali dolorose. Sono necessari, pertanto, processi di verifica e monitoraggio continui e
costanti dei percorsi intrapresi, tesi a ristabilire un equilibrio tra il sé e il sociale.

Di contro, il volontariato potrebbe generare nei soggetti che lo praticano un senso di onnipotenza.
Secondo Berti essi vengono considerati “persone migliori di tante altre” e “da ammirare” per cui si
potrebbe affermare che il tempo e le risorse che mettono a disposizione è volto solo guadagnare
riconoscimento sociale. Inoltre, per fare volontariato non occorrono qualifiche specifiche e quindi è una
forma di gratificazione “facile e alla portata di tutti”. Sentirsi gratificati e riconosciuti potrebbe toccare
quei sentimenti di infallibilità che portano le persone a non “vedere più gli altri” ma a sostituirsi ad essi
convinti di procedere per il meglio. (Berti, 2003).

Dalla letteratura esistente emerge che uno dei problemi che il volontariato presenta è la scarsa
disponibilità di tempo per condividere le scelte operative nell’organizzazione, alle prese spesso con
emergenze e con la routine operativa. Un altro problema è quello di non poter discutere con gli altri
volontari di quello che si fa e dei problemi che si incontrano, che palesa un bisogno di maggiore
condivisione come condizione per svolgere meglio la propria attività. Considerando, invece, i loro
bisogni i volontari fanno riferimento ad una vita associativa più intensa e richiamano la necessità di
avere maggiori occasioni di scambio con gli altri membri dell’Associazione o di altre Associazioni. La
relazionalità, comunque significativa, che si sviluppa normalmente tra i membri di un’organizzazione
non è dunque sufficiente quando manca un’adeguata condivisione di problemi, idee, progettualità,
momenti formativi. Con riferimento, poi, alle caratteristiche maggiormente apprezzate nei candidati
volontari è stata, innanzitutto, indicata la disponibilità a collaborare con gli altri, condizione prima per
una possibile condivisione delle responsabilità e dei carichi di “lavoro”, ben più importante rispetto a
specifiche esperienze professionali attuali o pregresse. (Atzei, 2003)

Tale riscontro è coerente con l’evidenza empirica di ricerche che attestano come i volontari di “lungo
corso” dichiarino significativi cambiamenti intervenuti nella loro vita. Si tratta di un excursus che
cambia la persona soprattutto sul piano valoriale (centralità dei valori di senso) e quindi anche nello
stile di vita e nel modo di vivere le relazioni sociali.

 Per far fronte a queste criticità la soluzione, a livello personale è imparare a riconoscere le diverse
emozioni che la situazione suscita; in tal senso sono molto utili i momenti di debriefing di gruppo. Il
contatto con l'equipe permette di comprendere i diversi modi in cui una situazione possa essere letta e
quindi come un evento ci abbia colpito personalmente.

A livello associativo bisogna puntare all'incontro con gli altri che offre anche l'opportunità di chiedere
aiuto quando il coinvolgimento emotivo diventa eccessivo. Inoltre, come tutti i lavoratori, il volontario
deve essere in grado di rallentare i ritmi per prendersi cura di sé.

Questi i motivi che pongono la necessità di realizzare un monitoraggio continuo delle attività che
comprenda la valutazione dei tempi compresi anche quelli di riposo, l’ascolto delle sensazioni e delle
emozioni che possono emergere durante, prima e dopo il servizio volontario, la richiesta di aiuto e la
necessità di allentare i ritmi quando si percepisce un calo di energie. (Volontariato, Come gestire le
emozioni (psicologi-italia.it)
CAPITOLO VII

INTERVENTI EDUCATIVI E PSICODINAMICI SUI MINORI VOLONTARI

7.1 Volontariato e adolescenti: opportunità di crescita, recupero e inclusione

Accompagnare gli adolescenti in un percorso di volontariato ha la finalità di promuovere il benessere


dei ragazzi aiutandoli a migliorare la capacità di comprendere loro stessi, gli altri e di comportarsi in
maniera congrua ed efficace nella comunità cui appartengono. In quest’ottica li si potrebbe aiutare
a scoprire un mondo di relazioni, di impegno e di gratuità che magari potrebbe far emergere in loro
risorse e potenzialità che una volta attivate, sono in grado di gratificarli di più rispetto alle loro
probabili o reali rincorse verso azioni devianti.
Si tratta di un’azione ampia e delicata in quanto dovrebbe snodarsi attraverso l’acquisizione della
consapevolezza dei fattori che hanno portato o possono portare i ragazzi, verso questi comportamenti,
per dirigersi verso un’assunzione di responsabilità nell’iniziare un percorso alternativo, preventivo o
riabilitativo, facendo leva anche sulla fiducia, amicale ma autorevole, che possono ispirargli le figure
che li accompagnano nel percorso. Per i soggetti che hanno già compiuto scelte devianti è’ possibile
che si presentino situazioni e stimoli connessi al rischio di recidiva che va eluso facendo affidamento
su un adeguato sistema di monitoraggio che segua costantemente e con continuità il percorso dei
ragazzi, valutando attentamente ostacoli e risorse di cambiamento, nel momento in cui, il confronto con
contesti relazionali, mette fortemente alla prova la sua capacità di autogestione e, per certi versi, la
tenuta del cambiamento avviato attraverso il percorso.
Per questo motivo, le varie figure di accompagnamento (genitori, assistenti sociali, volontari, educatori,
psicologi) ricavata l’analisi delle situazioni, sono chiamate a farsi promotori di un progetto educativo
che compensi le lacune personologiche dei soggetti presi in carica.

Occorre elaborare strategie mirate per poter raggiungere obiettivi di inclusione sociale perché
sussistono purtroppo anche molte difficoltà esterne di tipo giuridico, organizzativo e culturale che
caratterizzano il contesto.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che gli aspetti connessi con l’inserimento sociale si legano
strettamente alla dimensione lavorativa, condizione indispensabile per contrastare un rischio fortissimo
di recidiva, nonché di ricaduta nel dramma dell’esclusione e dell’emarginazione. La formazione e il
lavoro si configurano come istanze per reinserirsi nel mondo. Per Freud (1929) e poi per Erikson
(1962) i segni caratteristici della vita adulta sono infatti la capacità di amare e la capacità di lavorare.
Per questo, nella logica preventiva o riabilitativa la formazione e l’accompagnamento al lavoro
costituiscono componenti fondamentali del processo di socializzazione, assumendo la funzione di
anello di congiunzione con la vita e personale e quella sociale. È in questo scenario che il volontariato
occupa uno spazio rilevante in quanto offre a questi ragazzi potenzialmente o già a rischio devianza, un
contributo insostituibile, in termini di impegno, risorse e nuove opportunità di realizzazione come
persone e membri della società.
Superata la logica puramente assistenzialistica che in origine lo caratterizzava, il volontariato ha
assunto oggi un importante ruolo di sostegno al processo di recupero configurandosi a volte quale
principale figura di collegamento con una molteplicità di aspetti sociali, morali e culturali. La
formazione acquista pertanto importanza sia per quanto riguarda gli interventi degli operatori sia per gli
stessi soggetti presi in carica che, attraverso l’acquisizione e l’esercizio di competenze idonee, possono
misurarsi con le proprie capacità, sperare in un valido inserimento sociale e lavorativo ed evitare il
ripetersi di recidive.

7.2 La psicologia di comunità come dimensione di supporto alla vita del volontariato
La psicologia di comunità è un’area di ricerca e di intervento sui problemi umani e sociali che pone
particolare attenzione all’interfaccia tra la sfera personale e quella collettiva. Essa si muove un
nell’ottica della relazione clinica che da una parte, riguarda il singolo umano in quanto portatore di un
problema e dall’altra, considera il soggetto un essere sociale inserito in un contesto in grado di influire
sul suo stato di benessere. Si tratta di una disciplina applicata che mira a migliorare i rapporti uomo e
ambiente e si propone di essere interessata né solo all’individuo né solo alle strutture sociali, ma alle
transazioni fra i diversi livelli: individui – gruppi – sistemi – reti di sistemi.
La psicologia della comunità riveste dunque un ruolo basilare ed importante nel monitorare gli
adolescenti nelle complessità delle loro relazioni. e in generale nella loro vita quotidiana. Essa si avvale
di strategie terapeutiche che si rivelano molto utili nell’affiancare il percorso di rieducazione attivato
nei loro confronti dalle strutture che se ne prendono carico comprese le associazioni non profit e di
volontariato. L’obiettivo che si pongono gli psicologi di comunità non è solo la prevenzione del disagio
ma la promozione delle risorse personali e sociali e dell’iniziativa civile.

Questo modo di procedere è ben illustrato da … attraverso le seguenti sintesi di principi:

– Korchin (13):

1. i fattori sociali e ambientali hanno una importanza determinante nella formazione e nella
modificazione di situazioni disagevoli.

2. gli interventi sociali e comunitari orientati sul sistema piuttosto che sulla persona possono
contribuire efficacemente a rendere le istituzioni sociali come famiglia e scuola più atte a favorire la
salute mentale e a ridurre il disagio psichico dell’individuo.

3. tali interventi dovrebbero avere di mira molto più la prevenzione che la cura.

4. essi, inoltre, devono proporsi come scopo la promozione delle capacità personali e sociali e non
soltanto la riduzione dei disturbi e delle sofferenze psichiche. l’accento dovrà essere posto su ciò che è
adattivo, piuttosto che sul patologico.

5. l’aiuto è più efficacie quando lo si può ottenere in ambienti prossimi a quello in cui si sviluppano i
problemi quindi

6. gli psicologi di comunità devono cercare di raggiungere le persone che hanno bisogno di aiuto nel
loro mondo, senza aspettare che siamo essi a chiedere i loro servizi.

7. per attualizzare appieno il suo potenziale di azione lo psicologo di comunità dovrà collaborare con
le persone che dirigono posti di responsabilità nella comunità e ricorrere a collaboratori non
professionisti. Raramente lo PdC lavora direttamente con l’utente ma offre la consulenza con coloro
che sono direttamente a contatto con l’utente quindi ad esempio lavorano con gli insegnanti nelle
scuole.

8. la professione dello psicologo di comunità dovrà caratterizzarsi per la flessibilità e uscire da


protocolli rigidi.

9. i programmi per essere efficaci dovranno essere stabili sulla base dei bisogni e degli interessi dei
membri della comunità. Per questo si richiede che essa partecipi allo sviluppo e alla attuazione dei
programmi stessi.

10. i problemi connessi con la salute mentale dovranno essere posti in un’ampia prospettiva che li
veda intrecciati con molti altri aspetti dell’esistenza e del benessere sociale. Gli psicologi di comunità
si sono resi conto di come molte problematiche erano connesse a situazioni di evidente svantaggio.

11. il pubblico va educato a capire la natura e le cause dei problemi psicosociali e a conoscere gli
strumenti cui si può ricorrere per affrontarli.

12. poiché molti problemi di salute mentale sono in rapporto con grosse tensioni sociali sulle quali
l’intervento non ha presa, lo psicologico di comunità deve interessarsi delle riforme sociali e favorirle.

13. la psicologia di comunità ha bisogno di metodi naturalistici ed ecologici per cui concreti e non
privi di fondamento. È poco interessata a studi di laboratorio con scarsa validità ecologica. Interessa
il problema nel contesto in cui esso si presenta.

– Orford (8):

1. assunti sulle cause dei problemi → in un’interazione nel tempo tra individui setting e schemi incluse
le strutture di potere e di sostegno sociale.

2. livelli di analisi. Dal micro alla macro con particolare enfasi sulle organizzazioni, i quartieri, le
comunità.

3. metodi di ricerca. Disegni quasi sperimentali, ricerche qualitative, ricerche intervento e modello dei
casi.

4. dove si pratica. Nei contesti sociali rilevanti, nei luoghi dove vivono gli utenti.

5. approccio alla pianificazione dei servizi proattivo volto alla valutazione dei bisogni e dei rischi in
una comunità.

6. strategie di intervento professionale. L’enfasi sulla prevenzione rispetto alla terapia.


7. atteggiamenti verso la condivisione delle conoscenze e delle competenze psicologiche. Si
incoraggiano tutte le modalità formali e informali di condivisione, compresa la consulenza.

8. atteggiamento verso i contributi non professionali. Forte sostegno ai gruppi di aiuto di volontariato
e non professionali.

(http://psiche.org/articoli/psicologia-comunita/)

7.3 Lo spazio per raccontarsi

A volte i centri di volontariato accolgono al loro interno ragazzi con disagi psicologici che fanno capo a
diverse tipologie di devianza e marginalità cui occorre dare risposta attraverso l’ausilio di figure
professionali qualificate sviluppando strumenti e tecniche tesi a promuovere una cultura della
responsabilità individuale e collettiva, indispensabile per poter garantire assistenza agli stessi ragazzi e
alle loro famiglie. Si rende necessario in questi casi attivare il “sostegno psicologico” per capire la
realtà globale del minore, i suoi schemi interpretativi e l’interazione con l’esterno, favorendo lo
sviluppo della rete di solidarietà, con particolare attenzione verso i fattori di rischio derivanti dal loro
disagio sociale.

Nell’indagare come si svolge il sostegno psicologico in comunità, ci si imbatte in alcune riflessioni


offerte da psicologi che rivestono questo ruolo. Si riporta di seguito, in sintesi, un interessante spunto
che ci permette di capire quanto, per gli ospiti minori di una comunità sia importante “raccontarsi” Tale
spunto ci viene offerto da Claudia Anzelmo, psicologa presso una comunità educativa femminile che
accoglie minori e neomaggiorenni fino ai 21 anni d’età, di sesso femminile, allontanate pro
tempore dalla famiglia di origine. Anzelmo asserisce che mentre negli altri contesti di vita le ragazze
giovani si possono raccontare attraverso una molteplicità di linguaggi e interazioni, in comunità, si
possono raccontare in maniera diversa poiché viene loro data l’opportunità di vivere uno spazio/tempo
di sospensione e di riflessione completamente dedicata a sé. Si tratta di uno “spazio” che si pone in
costante dialettica con tutti gli altri momenti di gruppo. È caratterizzato come momento protetto in cui
poter riflettere ed elaborare elementi della vita attuale o passata. Esso può divenire luogo in cui co-
costruire una rilettura critica e attenta delle dinamiche personali e relazionali vissute proprio nella
convivenza con le altre ospiti, con i familiari e le operatrici. Come momento di attivazione di una
narrazione di sé che spesso risulta bloccata o corrotta dagli eventi di vita sfavorevoli che si sono
vissuti, in una tensione verso la crescita e verso l’emergere della soggettività”.
(https://www.snodi.net/il-sostegno-psicologico-in-comunita-educativa/)

Siffatto spazio si presenta perciò come uno spazio “sicuro” dove la narrazione di sé risulta essere più
libera, scevra di giudizio e non bloccata o corrotta dagli altri vissuti. L’azione dovrà essere tesa verso
l’emergere della soggettività e dunque verso la crescita. L’intero processo avviene in una dimensione

di incontro di competenze, personalità e professionalità diversificate che può generare un


arricchimento reciproco, così come avviene in una sorta di continuo “viaggio condiviso” che
certamente presenta criticità ma che riveste una valenza molto positiva nel percorso di prevenzione e
superamento del disagio vissuto e di promozione delle risorse personali e sociali dei minori.

Al di là dei casi difficili che necessitano sicuramente di sostegno psicologico è necessario che i centri
di servizio per il volontariato diventino luoghi di rielaborazione dell'esperienza degli adolescenti.
Secondo Stefano Laffi non basta che i ragazzi facciano qualcosa perché ciò diventi un'esperienza in cui
mettersi alla prova per trovare la propria strada. Questo obiettivo si può raggiungere solo se c'è un
“luogo” in cui l’esperienza si può raccontare ed essere compresa nella sua efficacia. Bisogna capire che
impatto ha avuto la propria azione sul territorio e sulla comunità, perché i ragazzi hanno bisogno di
sentire che sono diventati più abili, più capaci. È fondamentale anche comprendere gli elementi di
fallimento, di insuccesso, ovvero ciò di cui i ragazzi hanno un’enorme paura e che la scuola del mattino
non consente di fare “perché nella scuola che frequentano la mattina la realtà semplicemente non c'è.
Nel senso che tutti i supporti della scuola (le lavagne, i quaderni ecc.) sono a due dimensioni. Puoi
solo disegnare la realtà, ma non la vivi, ti manca la profondità, che è la concretezza
dell'esperienza”. (https://www.csvnet.it/who-we-are/144-notizie/3102-volontariato-come-antidoto-allo-
scontento-video-intervista-a-stefano-laffi).
7.4 Il ruolo dei gruppi famigliare e multifamiliare

Le relazioni familiari rivestono un ruolo essenziale e delicato nel processo di crescita di un individuo.
La costruzione di un sé coeso, riflessivo, capace di adattamento e di relazione e affettività ha alla base
la qualità delle relazioni che si stabiliscono all’interno della famiglia: l’attaccamento tenero con la
madre, il gioco intersoggettivo di identificazioni, rispecchiamenti e sintonizzazioni emozionali.
(Simonelli et al., 2013)
La collaborazione dei famigliari è considerata pertanto un elemento determinante e imprescindibile
nell’aiutare i minori a superare la “crisi” e nel promuovere quelle risorse personali tese a migliorare
il loro percorso di crescita.
Le dinamiche familiari richiedono la presenza di tutti i membri disponibili per consentire di rielaborare
la genesi e lo sviluppo del disturbo, nella ricerca di un significato condiviso. In quest’ottica viene data
perciò anche ai genitori la possibilità di assumere un atteggiamento più consapevole e responsabile nei
confronti della dimensione esistenziale della sofferenza del ragazzo ma anche dei cambiamenti e
miglioramenti intervenuti nel percorso comunitario. La finalità di questa collaborazione è fare in modo
che le risposte dei famigliari siano sempre più adeguate e coerenti a tali cambiamenti.

Gli incontri dovrebbero essere inoltre orientati a consentire una migliore gestione dell'emotività
espressa da tutti i membri del nucleo famigliare e che è spesso causa di forti tensioni e conflitti.

In alcune associazioni, le dinamiche, si estendono anche al gruppo generato dall'incontro di più sistemi
contemporaneamente: l'individuo, la famiglia, il gruppo di famiglie e il gruppo dei curanti con lo
scopo, di costruire un quadro complessivo di riferimento per la concettualizzazione della sofferenza e
della sua cura. Questo metodo promuove la costruzione di uno scenario nuovo, multifamigliare
all'interno del quale i vari nuclei familiari, compresi i pazienti, hanno la possibilità di mettere a
confronto le proprie esperienze e di lavorare, davanti a un grande gruppo e con il suo aiuto:
"sull'articolazione tra una famiglia un'altra, facendo scaturire la ricchezza delle somiglianze, delle
differenze e delle contraddizioni, per generare nuove organizzazioni individuali e famigliari, allo stesso
tempo". In questo modo le storie si trasformano e si arricchiscono, consentendo di ricostruire una trama
narrativa del disagio individuale e familiare, spesso semplificata o occultata da altri schemi.
(Badaracco, 2000)
7.5 Setting individuale e setting di gruppo nel disagio adolescenziale

La vita di un’organizzazione passa attraverso il gruppo inteso quest’ultimo non solamente come
insieme di persone che si organizzano per raggiungere uno scopo, ma dal punto di vista psicodinamico
cioè nel suo “essere e diventare” gruppo.

La psicologia sociale definisce il gruppo come un insieme di persone in interazione. Non è quindi
sufficiente che un insieme di persone condivida uno spazio, un tempo e un’idealità per affermare che
esse costituiscono un gruppo. Piuttosto queste sono condizioni necessarie, ma poi si tratta di registrare
la presenza o meno di interazione, cioè di relazioni effettive di scambio (di emozioni, di idee, di risorse,
proposte ecc.) tra le persone presenti. Generalmente si osserva che di fatto un gruppo assume
un’identità e manifesta un comportamento che rappresenta qualcosa di più e di diverso dalla semplice
sommatoria della identità e dei comportamenti dei singoli che lo compongono.

Sono noti gli effetti positivi del gruppo in tutti gli ambienti di educazione e formazione e a tutte le età,
ma lo sono in particolar modo all’interno delle comunità che si adoperano per il recupero ed il
benessere degli adolescenti che, nella dimensione gruppale, trovano non solo il modo di fare emergere
le loro emozioni ed i loro sentimenti ma anche efficaci punti di riferimento per uscire dalla crisi tipica
dell’età, nel tentativo di costruire la propria identità e assumere un ruolo attivo nel tessuto sociale.

È utile a questo proposito illustrare i principali interventi psicodinamici condotti nei gruppi degli
adolescenti suggeriti da Malerba.
Si tratta di strategie d’intervento a sostegno degli adolescenti che presentano disturbi e che hanno la
finalità di accogliere ed accompagnare il ragazzo o la ragazza nel difficile percorso trasformativo della
sua mente e del suo corpo, facilitando la mobilità del pensiero e fluidificando la tendenza alla rigidità
rappresentazionale. (Malerba, 2004)
Siffatte strategie si dirigono verso due livelli diversi ma che possono procedere parallelamente:
personale (setting individuale) e sociale (setting gruppale).
Il setting individuale può essere di tipo riabilitativo, che riguarda specialmente i disturbi legati alla
espressione verbale e alle varie inibizioni o supportivo, che riguarda l’esperienza globale, e che si basa
maggiormente sulla dimensione introspettiva. (Malerba, 2004).
Il setting di gruppo riveste invece un ruolo di primo piano per disturbi più lievi e in molteplici
situazioni in quanto il gruppo rappresenta un punto di riferimento alternativo se non superiore a quello
genitoriale, molto attraente per i soggetti di quest’età.
Senza considerare le tecniche specifiche suggerite da alcuni autori quali: la terapia del sé di Senise
(1981) e Novelletto (1986) o il transfert il Kernberg (1984) e l’ampia letteratura che esiste in merito, un
punto importante su cui è sostanzialmente d’accordo il parere degli esperti , è quello della necessità di
saper utilizzare appieno con l'adolescente la relazione empatica ed i livelli preconsci del pensiero,
evitando ogni tendenza a fornire più o meno dotte interpretazioni o spiegazioni, anche quando a
richiederle sono gli stessi soggetti.
È necessario immergersi completamente insieme all’adolescente nelle aree più confuse della sua mente,
tollerare insieme a lui la sofferenza profonda che caratterizza la sua situazione psicodinamica
transizionale ed affiancarlo nella sua ricerca di una personale via di uscita.
“Per l’adolescente in cerca di un qualche aiuto” rileva Del Lungo, “l’incontro è un’esperienza
globale che come tale va restituita all’interlocutore”, in un clima di reciproca fiducia, perché il
bisogno che egli ha è quello “di poter sperimentare che le sue parole comunicano e che la sua
domanda trova ascolto da parte di un interlocutore adulto” (Malerba, 2004 pp. 164-165).
Lo spazio individuale ha le caratteristiche del rapporto amichevole ed intimo e proprio per questo
consente ad ogni ospite la possibilità di raccontarsi in maniera diversa rispetto a quanto invece emerge
nelle situazioni gruppali, e di ripensare alle proprie problematiche con modalità e tempi di sospensione
e di maggiore riflessione e riservatezza, senza alcun vincolo decisionale e senza alcun orientamento a
fare.
A livello individuale all’ adolescente viene dunque data la possibilità di un ascolto privilegiato e
personalizzato che non si discosta tuttavia dai momenti gruppali della comunità. Ciò significa che in
questo “spazio” possono e devono essere “raccolti” anche i “racconti” di quanto accade nella vita
comunitaria ma sviluppando la capacità di “rileggerli” con spirito critico e sguardo più attento. (Del
Lungo, 1999)
Il setting di gruppo si rivela un importante mezzo per lo scambio relazionale e nutre l’esigenza di
sperimentare e di vedere rispecchiato il proprio funzionamento mentale.
Meltzer (1975) mostra, a questo riguardo, come l’adolescente si serva spesso di ciascun membro del
gruppo per proiettarvi una parte scissa di sé stesso. Il gruppo permette la scissione e la dispersione delle
parti scisse di sé su ciascun membro del gruppo (spesso parti psicotiche della personalità), ma è proprio
in questa dialettica, che avvengono trasformazioni positive sia per i singoli membri sia per il gruppo nel
suo insieme. (Corbella, 2002).
Lo spazio del gruppo si configura come “spazio transizionale”, all’interno del quale diventa possibile
far emergere le esperienze pregresse e nello stesso tempo creare una nuova cultura e fondare valori
condivisi, senza doverle abbandonare del tutto.
Rispetto alla terapia individuale, il gruppo riduce le paure di eccessiva dipendenza dal terapeuta, e che
emergono frequentemente nella terapia.
Spesso gli adolescenti presentano problemi a causa di deficit nella costruzione e nello sviluppo del Sé e
necessitano (come prima menzionato) di un “oggetto-sé ideale”. Tale funzione può essere assolta dal
gruppo terapeutico nel suo insieme. “Il gruppo come oggetto-sé” sottolinea Corbella “fa emergere e
mantiene il sé di ogni componente e gli dà significato. Il gruppo può fungere quindi sia da oggetto-sé
rispecchiante, sia da oggetto sé ideale ed onnipotente […] sia da oggetto-sé gemellare” (Corbella,
2002, pp. 34-37).
Tradotti nella pratica, i suddetti assunti teorici ci fanno comprendere che il gruppo può essere terapia
nel momento in cui ognuno ha facoltà di parola, riesce ad esprimere sé stesso, le proprie gioie e dolori,
rispecchiare le sue emozioni e i suoi affetti, cercare soluzioni originali e non ripetitive alle diverse
questioni che emergono. Il gruppo può farsi inoltre depositario di ansie, può sciogliere e chiarire
le dinamiche relazionali più ingarbugliate che insorgono durante la vita di comunità sia nel gruppo
ristretto nel gruppo più allargato sia nella relazione con gli operatori, sia nella relazione con le
istituzioni.

Ascoltare storie e opinioni altrui, all’interno del gruppo, può diventare, altresì, un'occasione di problem
solving di difficoltà pratiche, che spesso rimangono irrisolte perché impedite da paure, rigidità,
ripetizioni.

Il gruppo offre insomma una possibilità di riscatto dall'isolamento della propria condizione, ma anche
di decentramento anti-narcisistico, nel quale il proprio “segreto” può diventare “parlabile” in un
contesto accogliente e comprensivo.
Conclusioni

Lo scopo di questo elaborato finale era quello di capire quali sono le variabili che intervengono a
determinare nelle persone la scelta di volersi dedicare ad attività di volontariato e a quali i fattori è
dovuto il benessere che scaturisce dallo svolgere queste attività.

Posta in altri termini la questione di fondo era se è vero che “fare del bene fa bene”, come assicurare
questo beneficio nel tempo e coglierne le occasioni. A questo interrogativo si è cercato di rispondere
partendo da una riflessione sulla pro-socialità. Intesa, quest’ultima, come disposizione personale a fare
del bene agli altri ha fatto sì che questa ricerca fosse inizialmente diretta alla sfera più ampia della
personalità prendendo in considerazione i comportamenti manifesti nonché le emozioni, le abilità, le
convinzioni morali e le mete che li determinano. La ricerca è proseguita indagando sui contesti
sociali, le esperienze e la cultura che possono plasmare e indirizzare la personalità includendo anche
quelle pratiche di tipo educativo-formativo e quelle relazioni interpersonali che possono dispiegare i
processi affettivi e cognitivi ottimali per favorire condotte volte a favore del prossimo.

Procedendo in questo modo si è compreso come il volontariato fosse un fenomeno complesso e in


continua dinamicità, variabile da persona a persona e da situazione a situazione, tanto da non poter
essere “inglobato” in una definizione chiara ed esauriente.

Alla luce degli studi che ci offre la letteratura è possibile affermare che è’ vero che alcuni individui
sono geneticamente più inclini di altri ad impegnarsi per il bene altrui ma sembra improbabile che
l’azione dei geni possa spingersi oltre, fino determinare, nei comportamenti volontari, differenze
significative. Al contrario, sembra verosimile, che le suddette differenze siano dovute ad una
complessa concertazione di inclinazioni, sentimenti, affetti e cognizioni che maturano nel tempo e
interagiscono con modelli, valori, occasioni e riconoscimenti sociali che provengono dall’ambiente.
Quindi sembra essere la concomitanza di fattori biologici e culturali uniti a risorse sociali che sono
spesso associate ad una migliore salute e ad una sopravvivenza più lunga.

Se ciò è vero per qualsiasi attività prosociale, lo è soprattutto per il volontariato in considerazione del
fatto che il fenomeno non si esplica in maniera occasionale ma intenzionale e programmata, all’interno
di strutture organizzate, supportate da specialisti e ispirate a determinati ideali.

Gli anni della gioventù e in particolare dell'adolescenza sono particolarmente propizi per svolgere
attività di volontariato. Le ricerche ci permettono di constatare che a quest’ età è forte il desiderio di un
inserimento sociale e comunitario in quanto fa rivolgere lo sguardo a contesti extrafamiliari e sociali,
nella faticosa ricerca di modelli che favoriscono la costruzione della propria identità e la conquista
dell’autonomia personale.

Il volontariato può far si che gli adolescenti emergano come persone sviluppando in loro quel senso di
appartenenza capace di ridurre il livello di isolamento e di alienazione comune in tanti soggetti. La
condivisione di azioni ed emozioni, attraverso i momenti di coesione e formazione, li fa entrare in
relazione con il vissuto degli altri e, soprattutto con il proprio vissuto, rendendoli più consapevoli delle
carenze o potenzialità che ostacolano o favoriscono il proprio sviluppo in termini di realizzazione
personale e sociale.
In genere dai 16 anni in su, si raggiunge la consapevolezza giusta ed un senso critico solido necessari
per poter far scelte personali per cui, vivere   esperienze di volontariato, scelte
spontaneamente, favorisce l'insorgenza ed il consolidamento di atteggiamenti altruistici e
comportamenti volti alla pro-socialità limitando la possibilità di intraprendere percorsi devianti e
antisociali.
Per essere orientati a scelte di carattere altruistico e solidale, i giovani possono essere “raggiunti”
attraverso molteplici canali; risultano molto efficaci, tuttavia, le esperienze dirette e i “racconti” da
parte di chi ha già intrapreso questo percorso. Occorre utilizzare messaggi chiari, concreti e
coinvolgenti, che abbiano una risonanza emotiva e che incontrino la voglia di protagonismo dei
giovani. E’ fondamentale con loro stabilire un contatto diretto, nei loro ambienti di scuola e di tempo
libero, attraverso una conoscenza credibile connaturata con la testimonianza diretta di chi fa
volontariato.
L'esperienza dei ragazzi in una organizzazione di volontariato costituisce un’occasione formativa
indiscutibile. I mutamenti nel mondo delle professioni richiedono oggi persone che siano duttili, che
abbiano i requisiti di base, formazione culturale e non solo tecniche, ma anche formazione civile,
sociale, mezzi espressivi, capacità di comunicazione. Le qualità umane, il saper lavorare con gli altri,
l’attitudine all’ascolto, alla ricerca, il lavorare per progetti, l’uso del virtuale e la gestione di un sito
web e altre ancora che sono competenze trasversali a qualunque professione, sono anche materia di
esercizio costante in generale nel mondo del volontariato.

Il volontariato può sortire i suoi effetti benefici anche nei soggetti “a rischio” o che hanno già compiuto
scelte devianti e antisociali. Si è visto come, nella maggior parte dei casi queste scelte pur essendo
legate a molteplici fattori, rispondono all’unico e comune bisogno di avallare le proprie angosce e le
proprie difese grazie alla condivisione con quelle degli altri membri del gruppo, mediante
l’identificazione proiettiva reciproca.

Come dall’appartenenza ad un gruppo possono discendere comportamenti distruttivi, allo stesso modo
possono discendere comportamenti tesi ad una crescita sana ed armoniosa, sia sotto l’aspetto
individuale, sia sotto l’aspetto sociale. L ‘aiuto più valido che la dimensione gruppale può offrire è
tuttavia quello che passa attraverso il “potere curativo” all'interno dei contesti educativi di base
(famiglia, scuola), all'interno delle istituzioni, (centri di aggregazione giovanile, associazioni di
volontariato, case-famiglia) e non per ultime, nelle istituzioni riabilitative e curative (servizi della
giustizia minorile e della neuropsichiatria infantile).
Accanto a questi” punti di forza,” il volontariato presenta tuttavia anche dei “punti di debolezza” sia a
livello associativo che a livello personale.

A livello associativo accade che il volontariato pur essendo in sé, è esperienza di condivisione a volte


non offre spazi autentici di relazione, che consentono di entrare in risonanza con l’essenza delle
persone, il loro status di unicità, verità e valore. Di qui la necessità che l’associazione di volontariato
diventi luogo elettivo di condivisione, considerato che al suo interno delle persone si mettono insieme
per realizzare uno scopo solidaristico, in cui tutti si riconoscono e lo fanno con gratuità, ovvero nella
libertà dell’incontro con l’altro in quanto tale. Ciò fonda la relazione che si realizza pienamente quando
la comunicazione interpersonale giunge a farsi libera condivisione di quel che si è, si sente, si sa e si ha.

A livello personale può accadere che da alcune situazioni che i volontari vivono, possano scaturire
senso di inefficacia, di inadeguatezza, o al contrario, di onnipotenza. Criticità queste che si possono
tuttavia superare attivando monitoraggi continui e strutturando percorsi ah hoc tesi ad agire,
tempestivamente, con la guida di operatori, anche esperti, sia sui singoli che nel gruppo, al fine di
ristabilire la giusta relazione tra il sé e il sociale.

I due grandi problemi dell’adolescenza sono: trovarsi un posto nella società e, allo stesso tempo,
trovare sé stessi. (Bruno Bettelheim), equilibrio questo che i giovani possono raggiungere attraverso
figure di supporto durante questo difficile cammino di transizione verso l’età adulta. Sarebbe
auspicabile che questo supporto avvenisse in ambienti “protetti”, organizzati con tempi e spazi dedicati
al dialogo e al confronto, nei quali ognuno possa sentirsi incoraggiato a manifestare i propri dubbi e le
proprie paure, essere compreso e non giudicato, avvalersi di buoni ed efficaci esempi di vita, socialità e
civiltà da seguire.
Note: Esperienza personale sul volontariato

Dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze e Tecniche psicologiche, ho maturato la scelta di
fare il Servizio Civile Nazionale convinto che poteva darmi l'occasione concreta di contribuire in
maniera volontaria e un domani anche professionale, a quello che è lo scopo principale di tutti quelli
che, come noi, hanno intrapreso questo percorso di studi: il benessere della persona.

L’associazione di cui ho fatto parte e che tutt’oggi mi vede impegnato nelle sue attività, è “La
Misericordia del Galluzzo”. Situata nella parte sud di Firenze, l’associazione opera dal 1933 in tutto il
territorio fiorentino svolgendo varie tipologie di servizi fra i quali soccorso sanitario, trasporti sociali,
raccolta sangue, assistenza alla persona, protezione civile, guardia medica, ecc…La sua mission
specifica è quella di rispondere ai bisogni di pronto intervento, trasporto ed assistenza dei pazienti
affetti da patologie temporaneamente e/o permanentemente invalidanti e/o in fase terminale, nonché
bisogni assistenziali e socio assistenziali. Il servizio vero e proprio non è disgiunto dalla valenza sociale
che viene data dall’aggregazione che si crea all’interno della SAP, soprattutto per i giovani che
vogliono dedicare il loro tempo a svolgere attività di volontariato.

Il nome Misericordia viene riferito a numerose Congregazioni oggi diffuse in tutto il mondo ma delle
quali la prima, secondo antiche fonti documentali, è stata fondata a Firenze nel 1244.

La Misericordia di Galluzzo appartiene a un gruppo di Confraternite con origine cristiana ad


ispirazione cattolica, tuttavia chiunque può farne parte, indipendentemente dal suo credo religioso;
oggi, infatti, alcuni membri sono atei o appartenenti ad altri culti e religioni.

Ho iniziato il mio percorso in questa associazione in qualità di volontario del Servizio Civile
Nazionale che prevede lo svolgimento di progetti per giovani con trattamento economico pari a 444, 30
euro mensili.

Durante questo servizio mi è stata data la possibilità di seguire un corso di formazione di livello base su
tecniche di barellaggio, seguito da un corso di primo livello di BLS (Supporto Vitale di Base,
massaggio cardiaco), e infine un corso di livello avanzato concentrato sul trattamento di traumi dovuti a
incidenti, cadute e ferite nonché sostegno al personale sanitario nell’utilizzo dei presidi forniti dal 118.

L’anno 2020 ha visto l’Associazione Misericordia del Galluzzo operare in piena crisi pandemica.
Di fronte all’emergenza, la percezione iniziale tra i volontari, tutti giovani di età compresa tra i 18 e i
22 anni, è stata di smarrimento, tuttavia, tutti hanno continuato ad assicurare la loro presenza e la loro
attività di supporto, nonostante le oggettive problematiche registrate in particolare sul fronte dello
svolgimento degli eventi necessari a reperire risorse di sostegno e le difficoltà a lavorare con gli attuali
protocolli di sicurezza. Il nostro servizio in quel frangente, oltre al trasporto sociale sanitario,
riguardava anche l’impacchettamento e la distribuzione a domicilio dei beni di prima necessità: la
spesa, i farmaci, i dispositivi sanitari (mascherine e gel igienizzanti).

Stando ai racconti dei soggetti coinvolti, la stanchezza e la tenuta psicologica di ciascuno è stata messa
a dura prova, la mole di lavoro è stata tanta ma, parallelamente, si è accresciuto in molti il desiderio di
volersi “formare”, anche in rete, per acquisire le competenze sanitarie necessarie del momento….

Pur nella sua negatività e drammaticità, la pandemia è stata “occasione” per operare con più slancio e
sinergia, sia all’interno che all’esterno dell’associazione, tra volontari e con gli altri enti, pubblici e non
del territorio. Il 2020 è stato sicuramente un anno di sacrifici e rinunce ma anche un anno di grandi
opportunità che ci ha permesso scoprire le grandi potenzialità che un’associazione può possedere:
forza, vitalità, resilienza, generosità, capacità di mettersi in gioco e di reinventarsi. 

Prestando il servizio civile, sono stato a contatto presso la struttura, con una molteplicità di figure: dai
volontari, agli operatori sociosanitari, ai legali nonché con alcuni ragazzi di età compresa tra i 16 i 20
anni che avevano vissuto e stavano continuando a vivere momenti di fragilità dovuta ad esperienze di
percorsi penali per aver commesso dei reati. La loro presenza presso l’Associazione ha suscitato in me
la curiosità di conoscere il tipo di percorso di recupero che era stato attivato nei loro confronti. Ed è
stato così che ho scoperto e constato nei fatti, che si trattava un percorso educativo “solido” monitorato
da professionisti e teso ad offrire a questi ragazzi la possibilità di dimostrare a sé stessi e agli altri di
“potercela fare”, con le proprie forze e competenze, senza cadere in quelle condizioni di marginalità e
devianza difficilmente recuperabili da adulti.

Ciò che ho molto gradito è stato il clima di fiducia e di accoglienza reciproca che si è instaurato tra
tutti anche grazie ai momenti di convivialità durante i quali si sono potute condividere e scambiare
esperienze, nel rispetto dei Protocolli per la prevenzione del contagio da Covid19.

Ritengo che l’esperienza che ho vissuto sia stata arricchente in quanto mi ha permesso non solo di
acquisire competenze in campo prettamente sanitario ma anche di condividere ideali, trovare affinità,
costruire relazioni positive, affinare le mie capacità di ascolto, confrontarmi, con molteplici modi di
sentire e pensare, accrescere la mia autostima. Tutto ciò ha contribuito a farmi maturare la decisione di
continuare il mio “lavoro” di volontario, anche senza alcun compenso economico, non appena ho finito
di svolgere il servizio civile.
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