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Edizioni E/O
Via Camozzi, 1
00195 Roma
info@edizionieo.it
www.edizionieo.it
Copyright © 2012 by Edizioni
e/o
Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com
ISBN 9788866322382
INDICE DEI PERSONAGGI
E CENNI SULLE VICENDE
DEL PRIMO VOLUME
La famiglia Airota:
Airota, professore di Letteratura
greca.
Adele, sua moglie.
Mariarosa Airota, la figlia
maggiore, professoressa di Storia
dell’arte a Milano.
Pietro Airota, studente.
Gli insegnanti:
Ferraro, maestro e bibliotecario.
Il maestro da piccole ha premiato
sia Lila che Elena per la loro
assiduità di lettrici.
La Oliviero, maestra. È stata la
prima ad accorgersi delle
potenzialità di Lila ed Elena. Lila ha
scritto a dieci anni un raccontino
intitolato La fata blu. Il racconto è
piaciuto molto a Elena, che lo ha
dato in lettura alla Oliviero. Ma la
maestra, arrabbiata perché i
genitori di Lila hanno deciso di non
mandare la figlia alla scuola media,
su quel racconto non si è mai
pronunciata. Anzi, ha smesso di
occuparsi di Lila e si è concentrata
solo sulla buona riuscita di Elena.
Gerace, professore del ginnasio.
La Galiani, professoressa del
liceo. È un’insegnante
coltissima, comunista. Resta subito
incantata dall’intelligenza di Elena.
Le presta libri, la protegge nello
scontro con l’insegnante di
religione.
Altri personaggi:
Gino, il figlio del farmacista. È il
primo fidanzato di Elena.
Nella Incardo, la cugina della
maestra Oliviero. Risiede a Barano
d’Ischia e ha ospitato Elena per una
vacanza al mare.
Armando, studente di Medicina,
figlio della professoressa Galiani.
Nadia, studentessa, figlia della
professoressa Galiani.
Bruno Soccavo, amico di Nino
Sarratore e figlio di un ricco
industriale di San Giovanni a
Teduccio.
Franco Mari, studente.
GIOVINEZZA
1.
La professoressa di chimica fu
generosa con me (o forse fu la
Galiani a darsi da fare perché lo
diventasse), e mi regalò una
sufficienza. Fui promossa con tutti
sette nelle materie letterarie, tutti
sei in quelle scientifiche, sufficiente
in religione e per la prima volta otto
in condotta, segno che il prete e
buona parte del consiglio di classe
non mi avevano mai veramente
perdonata. Me ne dispiacqui, ormai
sentivo il vecchio conflitto col
professore di religione sul ruolo
dello Spirito Santo come un atto di
presunzione e rimpiangevo di non
aver dato retta ad Alfonso che,
all'epoca, aveva cercato di
trattenermi. Non ebbi naturalmente
la borsa di studio e mia madre si
arrabbiò, gridò che era colpa del
tempo che avevo perso dietro ad
Antonio. La cosa mi esasperò, dissi
che non volevo studiare più. Lei
alzò la mano per darmi uno
schiaffo, temette per gli occhiali e
corse a cercare il battipanni.
Giorni brutti, insomma, sempre
più brutti. L’unica cosa che mi
sembrò positiva fu che il bidello, la
mattina che andai a vedere i quadri,
mi rincorse e mi consegnò un pacco
lasciato per me dalla Galiani. Erano
libri, ma non romanzi: erano libri
pieni di ragionamenti, un segnale
delicato di fiducia che però non
bastò a risollevarmi.
Avevo troppe ansie e
l’impressione di essere sempre in
errore, qualsiasi cosa facessi. Cercai
il mio ex fidanzato sia a casa che sul
lavoro, ma lui riuscì sempre a
evitarmi.
Feci capolino in salumeria per
chiedere l’aiuto di Ada. Lei mi trattò
con freddezza, disse che il fratello
non mi voleva vedere più e da quel
giorno, se ci incrociavamo, girò la
faccia dall'altra parte. Ora che ero
senza scuola, svegliarmi la mattina
diventò traumatico, una specie di
urto doloroso nella testa. All'inizio
mi sforzai di leggere qualche pagina
dei libri della Galiani, ma mi
annoiavo, capivo poco o niente.
Ricominciai a prendere in prestito i
romanzi della biblioteca circolante,
ne lessi uno dietro l’altro. Ma a
lung’andare non mi giovarono.
Proponevano vite intense, dialoghi
profondi, un fantasma di realtà più
avvincente della mia vita reale.
Così, per sentirmi come se non fossi
vera, qualche volta mi spinsi fino a
scuola con la speranza di vedere
Nino, che era impegnato negli
esami di maturità.
Nel giorno dello scritto di greco
lo aspettai per ore, pazientemente.
Ma proprio quando i primi
candidati cominciarono a uscire col
Rocci sotto braccio, comparve la
ragazza bella e pulita che avevo
visto offrirgli le labbra. Si dispose in
attesa a pochi metri da me e in un
attimo passai a immaginare noi due
– figurine esposte come in un
catalogo – quali saremmo apparse
agli occhi del figlio di Sarratore nel
momento in cui fosse uscito dal
portone. Mi sentii brutta, sciatta, e
me ne andai.
Corsi a casa di Lila in cerca di
conforto. Ma sapevo di aver
sbagliato anche con lei, avevo fatto
una cosa stupida: non le avevo detto
che ero andata con Stefano a
riprendere la foto. Perché ero stata
zitta? Mi ero compiaciuta del ruolo
di pacificatrice che suo marito mi
aveva proposto e avevo pensato di
poterlo esercitare meglio tacendole
la corsa in macchina al Rettifilo?
Avevo temuto di tradire le
confidenze di Stefano e di
conseguenza, senza rendermene
conto, avevo tradito lei?
Non lo sapevo. Di sicuro la mia
non era stata una vera decisione,
piuttosto un’incertezza diventata
prima una finta distrazione, poi la
convinzione che non aver detto
subito com’erano andate le cose
rendesse ormai complicato e forse
inutile rimediare. Com’era facile far
male. Cercavo giustificazioni che
potessero sembrarle convincenti,
ma non ero in grado di darne
nemmeno a me stessa. Intuivo un
fondo guasto nei miei
comportamenti, tacevo.
Lei d’altra parte non aveva
mostrato mai di sapere che c’era
stato quell’incontro. Mi accoglieva
sempre con gentilezza, lasciava che
facessi il bagno nella sua vasca, che
usassi i suoi trucchi. Ma
commentava poco o niente le storie
dei romanzi che le raccontavo,
preferiva darmi informazioni frivole
sulla vita di attori e cantanti di cui
leggeva nei rotocalchi. E non mi
diceva più nessun pensiero suo o
progetto segreto. Se le vedevo
qualche livido, se partivo di lì per
spingerla a interrogarsi sulle ragioni
di quella brutta reazione di Stefano,
se le dicevo che forse lui diventava
cattivo perché avrebbe voluto che
lei lo aiutasse, lo sostenesse in tutte
le avversità, mi guardava
ironicamente, alzava le spalle,
svicolava. Nel giro di poco tempo
avevo capito che pur non volendo
rompere il rapporto con me, aveva
deciso di non farmi più confidenze.
Sapeva dunque davvero e non
mi considerava più un’amica
affidabile? Ero arrivata persino a
diradare le visite sperando che lei
sentisse la mia assenza, me ne
chiedesse conto e arrivassimo a
spiegarci. Ma mi era sembrato che
nemmeno se ne accorgesse. allora
non avevo resistito ed ero tornata a
vederla con assiduità, cosa di cui
non si era mostrata né contenta né
scontenta.
Quel giorno caldissimo di luglio
arrivai da lei particolarmente
avvilita e tuttavia non le dissi niente
di Nino, della ragazza di Nino,
perché senza volerlo – si sa come
vanno queste cose – avevo finito
per ridurre anche io il gioco delle
confidenze a quasi nulla. Fu
accogliente come al solito. Preparò
un’orzata, mi accoccolai a bere lo
sciroppo gelido di mandorla sul
divano in camera da pranzo,
infastidita dallo sferragliare dei
treni, dal sudore, da tutto.
La osservai in silenzio mentre si
muoveva per la casa, provai rabbia
per la sua capacità di aggirarsi nei
labirinti più deprimenti tenendosi
al filo di una sua decisione bellicosa
senza darlo a vedere. Pensai a ciò
che mi aveva detto il marito, alle
parole sulla potenza che Lila
tratteneva come la molla di un
congegno pericoloso. Le guardai la
pancia e mi immaginai che davvero
lì dentro, ogni giorno, ogni notte, si
impegnasse in una sua battaglia per
distruggere la vita che Stefano
voleva inserirle a forza. Per quanto
tempo resisterà, mi chiesi, ma non
osai fare domande esplicite, sapevo
che le avrebbe considerate
sgradevoli.
Di lì a poco arrivò Pinuccia,
all'apparenza una visita tra cognate.
In realtà dieci minuti dopo si fece
vivo anche Rino, lui e Pina si
sbaciucchiarono un po’ sotto i
nostri occhi in un modo così
eccessivo che io e Lila ci
scambiammo sguardi ironici.
Quando Pina disse che voleva
vedere il panorama, lui la seguì e si
chiusero in una stanza per una
buona mezzora.
Succedeva spesso, Lila me ne
parlò con un misto di fastidio e
sarcasmo, e io provai invidia per la
disinvoltura dei due fidanzati:
niente paure, niente scomodità,
quando riapparvero erano più
contenti di prima. Rino andò in
cucina a prendersi qualcosa da
mangiucchiare, tornò, parlò di
scarpe con la sorella, disse che le
cose andavano sempre meglio,
cercò di carpirle suggerimenti per
poi andare a farsi bello con i Solara.
«Lo sai che Marcello e Michele
vogliono mettere la tua foto nel
negozio di piazza dei Martiri?» le
chiese all'improvviso con tono
accattivante.
«Non mi pare il caso»
intervenne subito Pinuccia.
«Perché?» chiese Rino.
«Che domanda è? Se vuole, Lina
la fotografia se la mette nella
salumeria nuova: tocca a lei
gestirla, no? Se a me invece spetta il
negozio di piazza dei Martiri,
permetti che decido io cosa ci va là
dentro?».
Parlò come se stesse difendendo
innanzitutto i diritti di Lila contro
l’invadenza del fratello. In realtà
sapevamo tutti che difendeva se
stessa e il proprio futuro. S’era
stufata di dipendere da Stefano,
voleva mollare la salumeria e le
piaceva poter pensare di far la
padrona in un negozio del centro.
Perciò da un po’ di tempo tra Rino e
Michele si combatteva una piccola
guerra che aveva al centro la
gestione del negozio di scarpe, una
guerra attizzata dalle pressioni delle
rispettive fidanzate: Rino insisteva
perché se ne occupasse Pinuccia,
Michele perché se ne occupasse
Gigliola. Ma Pinuccia era la più
aggressiva e non aveva dubbi che
avrebbe avuto la meglio, sapeva di
poter sommare l’autorità del
fidanzato a quella del fratello.
Perciò in ogni occasione si dava
le arie di una che ha già fatto il salto
di qualità, il rione se l’è lasciato alle
spalle e ora stabilisce quello che è
adatto e quello che non è adatto alla
finezza dei clienti del centro.
Mi accorsi che Rino temeva che
la sorella passasse all'attacco ma
Lila mostrò la massima
indifferenza. allora controllò
l’orologio per dare a intendere che
era molto indaffarato, disse con il
tono di chi vede lontano: «Secondo
me quella foto ha grandi
potenzialità commerciali», poi baciò
Pina, che subito si sottrasse per
mandargli un segnale di dissenso, e
se la filò.
Restammo noi ragazze. Pinuccia
mi chiese imbronciata, sperando di
poter usare la mia autorità per
chiudere la questione:
«Lenù, tu che pensi? Ti pare che
la foto di Lina deve stare in piazza
dei Martiri?».
Io dissi in italiano:
«È Stefano che deve decidere e
poiché è andato apposta dalla sarta
per farla togliere dalla vetrina,
escludo che darà il permesso».
Pinuccia s’accese di
soddisfazione, quasi gridò:
«Madonna, come sei brava, Lenù».
Aspettai che Lila dicesse la sua.
Ci fu un lungo silenzio, poi lei parlò
solo a me:
«Quanto vuoi scommettere che
hai torto? Stefano darà il
permesso».
«Ma no».
«Sì».
«Cosa vuoi scommettere?».
«Se perdi non dovrai mai più
essere promossa con meno della
media dell’otto».
La guardai in imbarazzo. Non
avevamo parlato dellamia
promozione stentata, credevo che
nemmeno lo sapesse, e invece era
informata e ora mi stava
rimproverando. Non sei stata
all'altezza, stava dicendo, hai preso
voti scadenti.
Pretendeva da me ciò che
avrebbe fatto lei al posto mio.
Mi voleva davvero inchiodata al
ruolo di chi passa la vita sui libri,
mentre lei aveva soldi, bei vestiti, la
casa, la televisione, l’automobile, si
prendeva tutto, si concedeva tutto.
«E se perdi tu?» chiesi con una
sfumatura d’astio.
Le ritornò di colpo quel suo
sguardo sparato da feritoie scure.
«Mi iscrivo a una scuola privata,
mi rimetto a studiare e giuro che
prendo la licenza insieme a te e
meglio di te».
Insieme a te e meglio di te. Era
questo che aveva in mente? Mi
sentii come se tutto ciò che mi si
agitava dentro in quel brutto
periodo – Antonio, Nino, lo
scontento per il niente che era la
mia vita – fosse risucchiato da un
sospiro di grande ampiezza.
«Dici sul serio?».
«Quando mai le scommesse si
fanno per scherzo?».
Intervenne Pinuccia, molto
aggressiva.
«Lina, non ti mettere a fare la
pazza secondo il tuo solito: tu hai la
salumeria nuova, Stefano non ce la
può fare da solo». Subito però si
contenne, aggiunse con finta
dolcezza: «Oltre al fatto che vorrei
sapere quando tu e Stefano mi
farete diventare zia».
Usò quella formula dolciastra
ma il suo tono mi giunse rancoroso,
e sentii le ragioni di quel rancore
mescolarsi fastidiosamente alle
mie. Pinuccia voleva dire: ti sei
sposata, mio fratello ti dà tutto,
adesso fa’ quello che devi fare. E
infatti che senso aveva essere la
signora Carracci e intanto chiudere
tutte le porte, barricarsi, ostruirsi,
custodire un furore avvelenato nella
pancia? Possibile che devi sempre
far danno, Lila? Quando la finirai?
Si ridurrà la tua energia, si distrarrà,
crollerà finalmente come una
sentinella assonnata? Quando
succederà che ti spalancherai e
siederai alla cassa, nel rione nuovo,
con la pancia sempre più gonfia, e
farai diventare Pinuccia zia, e me,
me, mi lascerai andare per la mia
strada?
«Chi lo sa» rispose Lila mentre
le tornavano in faccia occhi grandi e
profondi.
«Non è che divento mamma
prima io?» disse la cognata ridendo.
«Se stai sempre così incollata a
Rino, è possibile».
Ebbero una piccola schermaglia,
non stetti più a sentire.
20.
Le cominciò l’ossessione di
stimolare l’intelligenza del figlio.
Non sapeva che libri comprare e
chiese ad Alfonso di domandare ai
librai. Alfonso le portò un paio di
volumi a cui Lila si dedicò con
molto impegno. Nei suoi quaderni
ho trovato appunti su come leggeva
testi complessi: avanzava a fatica
pagina dietro pagina, ma dopo un
po’ perdeva il senso, pensava ad
altro; tuttavia imponeva all'occhio
di continuare a scivolare lungo le
righe, le dita giravano la pagina
automaticamente e alla fine aveva
l’impressione che, anche se non
aveva capito, le parole le fossero
ugualmente entrate nella testa e
avessero portato pensieri.
A partire da quel momento
rileggeva il libro e leggendo
correggeva i pensieri o li ampliava,
finché il testo non le serviva più, ne
cercava altri.
Il marito rientrava la sera e la
trovava che non aveva cucinato, che
faceva giocare il bambino con giochi
che si era costruita da sola. Si
arrabbiava ma lei, come avveniva da
tempo, non aveva reazioni. Pareva
che non lo sentisse, quasi che la
casa fosse abitata solo da lei e dal
figlio, e quando si tirava su e si
metteva a cucinare lo faceva non
perché Stefano aveva fame, ma
perché la fame era venuta a lei.
Fu in quei mesi che i loro
rapporti, dopo un lungo periodo di
reciproca tol eranza, tornarono a
peggiorare.
Stefano le gridò una sera che
s’era stufato di lei, del bambino, di
tutto. In un’altra occasione disse
che si era sposato troppo giovane
senza capire quello che faceva.
Ma una volta che lei gli rispose:
«Nemmeno io so che ci faccio qua,
mi prendo il bambino e me ne
vado», lui, invece di gridarle
vattene, perse la calma come non la
perdeva da tempo e la picchiò
davanti al figlio, che la fissava dalla
coperta sul pavimento, un po’
intontito dal clamore. Col naso che
gocciolava sangue e Stefano che le
urlava insulti, Lila si rivolse al figlio
ridendo, gli disse in italiano (da
tempo gli parlava solo in italiano):
«Papà gioca, ci stiamo divertendo».
Non so perché, ma a un certo
punto prese a occuparsi anche del
nipote, Fernando, che ormai veniva
chiamato Dino. È possibile che
tutto sia cominciato perché aveva
bisogno di mettere Gennaro a
confronto con un altro bambino. O
forse no, forse sentì lo scrupolo di
dedicare le sue cure solo a suo figlio
e le sembrò giusto occuparsi anche
del nipote. Pinuccia, pur
continuando a considerare Dino la
prova vivente del disastro della sua
vita e a urlargli di continuo, a volte
malmenandolo: «La vuoi finire, la
vuoi finire? Che vuoi da me, mi
vuoi fare uscire pazza?», si oppose
risolutamente a che lei se lo
portasse a casa e lo tenesse a fare
giochi misteriosi insieme al piccolo
Gennaro. Le disse con rabbia:
«Pensa a crescere tuo figlio che io
penso al mio, e invece di perdere
tempo curati di tuo marito, se no lo
perdi». Ma ecco che subentrò Rino.
Era una fase pessima, per il
fratello di Lila. Litigava di continuo
col padre che voleva chiudere il
calzaturificio perché si era stufato
di faticare solo per arricchire i
Solara e, senza capire che bisognava
andare a tutti i costi avanti,
rimpiangeva la sua botteguccia.
Litigava di continuo con Marcello e
Michele, che però lo trattavano
come un ragazzino petulante e
quando il problema erano i soldi
parlavano direttamente con
Stefano. Litigava soprattutto con
quest’ultimo, urla e insulti, perché
il cognato non gli dava più un
centesimo e secondo lui era ormai
in trattative segrete per decidere il
passaggio di tutto l’affare delle
scarpe nelle mani dei Solara.
Litigava con Pinuccia, che lo
accusava di averle fatto credere di
essere chissà chi e invece era un
pupazzetto che si faceva manovrare
da chiunque, da suo padre, da
Stefano, da Marcello e Michele.
Perciò, quando capì che Stefano ce
l’aveva con Lila in quanto faceva
troppo la mamma e poco la moglie,
e che Pinuccia non voleva affidare il
bambino alla cognata nemmeno per
un’ora, cominciò
provocatoriamente a portare lui in
persona il bambino alla sorella. E
poiché al calzaturificio c’era sempre
meno lavoro, prese l’abitudine di
restare a volte per ore
nell'appartamento del rione nuovo a
vedere ciò che faceva Lila con
Gennaro e con Dino.
Restò incantato dalla materna
pazienza di lei, da come si
divertivano i bambini, da come suo
figlio, che a casa piangeva sempre o
se ne stava torpido nel box come un
cucciolo malinconico, con Lila
diventava pronto, veloce, sembrava
felice.
«Che gli fai?» chiedeva
ammirato.
«Li faccio giocare».
«Mio figlio giocava pure prima».
«Qui gioca e impara».
«Perché ci perdi tanto tempo?».
«Perché ho letto che tutto quello
che siamo si decide adesso, nei
primi anni di vita».
«E il mio sta venendo bene?».
«Lo vedi».
«Sì, lo vedo, è più bravo del
tuo».
«Il mio è più piccolo».
«Secondo te Dino è
intelligente?».
«Lo sono tutti i bambini, basta
allenarli».
«E tu allenalo, Lina, non ti
stancare subito come fai di solito.
Fammelo diventare
intelligentissimo».
Ma successe che una sera
Stefano rientrò prima del solito e
particolarmente nervoso. Trovò il
cognato seduto sul pavimento della
cucina e invece di limitarsi a fare
una faccia scura per via del
disordine, del disinteresse della
moglie, dell’attenzione riservata ai
bambini invece che a lui, disse a
Rino che quella era casa sua, che
vederselo intorno tutti i giorni a
perdere tempo non gli piaceva, che
il calzaturificio stava andando a
rotoli proprio per quanto era
sfaticato, che i Cerullo erano
inaffidabili, che insomma o te ne
vai fuori immediatamente o ti
caccio a calci in culo.
Ci fu un parapiglia. Lila gridò
che non doveva parlare così a suo
fratello, Rino rinfacciò al cognato
tutto quello che fino a quel
momento o gli aveva solo accennato
o si teneva in petto per cautela.
Volarono insulti pesanti. I due
bambini, lasciati nella confusione,
passarono a strapparsi i giocattoli
gridando, specialmente il più
piccolo che era sopraffatto dal più
grande. Rino urlò a Stefano, il collo
gonfio, le vene come cavi elettrici,
che era facile fare il padrone coi
beni che don Achille aveva rubato a
mezzo rione, e aggiunse: «Tu non
sei nessuno, tu sei solo una merda,
tuo padre sì che sapeva fare il
delinquente, tu manco quello sai
fare».
Ci fu un momento terribile, al
quale Lila assistette esterrefatta.
All'improvviso Stefano afferrò con
tutt’e due le mani Rino per i fianchi,
come un ballerino di danza classica
con la sua partner, e sebbene
fossero della stessa statura, della
stessa corporatura, sebbene Rino si
dimenasse e urlasse e sputasse, lo
sollevò con una forza prodigiosa e
lo scagliò contro una parete. Subito
dopo lo prese per un braccio e lo
trascinò per il pavimento fino alla
porta, la aprì, lo rimise in piedi e lo
buttò giù per le scale, anche se Rino
cercava di reagire, anche se Lila si
era riscossa e gli si era aggrappata
addosso supplicandolo di calmarsi.
Non finì qui. Stefano tornò
indietro di furia e lei capì che voleva
fare a Dino lo stesso che aveva fatto
a suo padre, lanciarlo come una
cosa giù per le scale. Allora gli volò
addosso, alle spalle, e gli tirò la
faccia, lo graffiò gridando: «È un
bambino, Ste’, è un bambino». Lui
s’immobilizzò, disse piano: «Mi
sono rotto il cazzo di tutto, non ce la
faccio più».
100.