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Braites Datas

Storie di devozione e pratiche rituali attraverso


votivi e strumenti del culto dai santuari della
Lucania antica

???????? (Matera, 19-20 febbraio 2010)

a cura di
Ilaria Battiloro e Massimo Osanna

Osanna Edizioni

2 3
NOTE SABRINA MUTINO

1
Grasso 2004; Poli 2006, pp. 239-246.
2
Adamesteanu, Dilthey 1992, p. 71, fig. 79. Ceramica a vernice nera
3
In totale, con i frammenti di cui è impossibile determinare la forma di appartenenza, si
arriva a 513 vasi miniaturistici.
4
é assente a Ruoti, poco rappresentata ad Ansanto e San Nicola di Albanella con rispet-
tivamente diciassette e ventiquattro esemplari, mentre a Roccagloriosa ne sono stati rinve-
nuti 115. Questi dati sono tratti da Horsnaes 2001, pp. 77-88, in particolare si veda il dia-
gramma in fig. 2, p. 80.
5
Assimilabile alla serie 5411 di Morel, più precisamente al tipo 5411b (Morel 1981, p.
360).
6
Rispettivamente appartenenti alla serie 2733, 2788 e 2424 a1di Morel (Morel 1981, p.
213, figg. 68, 74, p. 169, fig. 49).
7
Roccagloriosa I, p. 240, nn. 95a, 95b, 96.
8
Cipriani 1989, p. 64,
fig. 16, H 42.
9
Valle d’Ansanto, nn. 537-540.
10
Fabbricotti 1979, p. 359, n. 56.

L
11
San Nicola di Albanella, Timmari, Oppido Lucano e Metaponto (confronti già ’analisi dei manufatti ceramici “a vernice nera” può offrire un contri
evidenziati in Di Noia 2005, p. 343). buto notevole allo studio del contesto santuariale di Rossano di Vaglio.
12
Simili ad un esemplare proveniente dal santuario di Demetra a Policoro (Czysz 1996,
p. 170, n. 17) anche se, in quel caso, le prese sono forate. In particolare, l’osservazione dei dati di natura qualitativa, quantitativa
13
Greco 1988, p. 51, tav. 14; Di Noia 2005, p. 342, tav. LX, nn. 480, 481, 482, 483. e distributiva fornisce indicazioni utili per puntualizzarne da un lato la crono-
14
Grasso 2004, pp. 23-30, tav. 2. logia, dall’altro la specializzazione delle funzioni e l’inserimento entro circuiti
15
Grasso 2004, cit. p. 76. Per i contesti da cui provengono crateri miniaturizzati si veda
la nota 33. di scambio e circolazione dei materiali nelle diverse fasi di frequentazione.
16
A questo proposito si veda Cipriani 1989, p. 25, nota 13; Otto 2005, p. 8. In merito al primo punto è utile chiarire come, in passato, entro la stessa
17
Dalle analisi dei resti carbonizzati all’interno di sei vasetti miniaturistici rinvenuti a denominazione siano state incluse produzioni molto differenti, che possono
Siris sono stati individuati resti di offerte cerealicole (Otto 2005, p. 14).
18
Ekroth 2003, p. 36. quindi ritenersi classi ceramiche ben distinte, accomunate unicamente dalla
19
Su 142 miniaturistici identificati come vaso contenitore biansato, cinquantasei presen- superficie nera o nerastra, convenzionalmente definita “vernice”1. Le caratteri-
tano un’ansa spezzata. stiche tecniche di lucentezza, compattezza ed impermeabilità consentono di
20
Roccagloriosa I, p. 123, V51, V52; Roccagloriosa II, p. 46, AN117. Una quarantina di
thymiateria miniaturizzati sono attestati a Chiaromonte, come ricordato in Barra Bagnasco, individuare la specifica destinazione di questi vasi in eleganti servizi da mensa,
Russo Tagliente 1996, pp. 183-193, in particolare p. 188. realizzati prettamente per il contenimento, la mescita ed il consumo di cibi e
21
Russo Tagliente 2000, p. 78. bevande.
22
Adamesteanu, Dilthey 1992, p. 53, fig. 51b.
23
Ekroth 2003, p. 36. Difficile, nell’ambito di questo studio, ricostruire in maniera puntuale i
contesti di rinvenimento e l’associazione con altri materiali2. Di conseguenza,
si riduce la possibilità di riconoscere la funzione rituale o votiva della ceramica
a vernice nera del santuario. I vasi venivano usati, infatti, per compiere libagioni
o per il consumo rituale di cibi o liquidi, ma potevano rappresentare/contene-
re delle vere e proprie offerte votive. La riscontrata presenza su alcune phialai
di ampie tracce di bruciato ed addirittura di ricottura, a Rossano non può
essere attribuita con certezza alla stessa causa che, in contesti “chiusi” meglio
conservati3, è stata individuata nel loro uso rituale, concluso con il gettare le

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phialai stesse tra le fiamme, o quantomeno sulla brace ardente di una eschara.
I frammenti vascolari a vernice nera rinvenuti nel santuario di Rossano
sono pertinenti prevalentemente a forme come patere, coppe, coppette e, in
minor misura, skyphoi, mentre esigui risultano gli esemplari di olpai e brocchette
(figg. 1 e 2); per funzioni più specifiche, inoltre, è attestato l’uso di numerose
lekythoi, presto sostituite dagli unguentari, spesso verniciati di nero o bruno4.
In conclusione, alla terna di vasi utilizzati in area sacra, nell’ambito italico, per
libare e per il consumo rituale (skyphoi, phialai e coppe)5, si deve aggiungere la
lekane/pisside, forma legata in maniera più peculiare al mundus muliebris, spesso
in associazione con vasi per profumi.
Per via della sproporzione tra i frammenti rinvenuti attribuibili a vasi adat-
ti al consumo, le cosiddette “forme aperte”, e quelli riferibili genericamente a
“forme chiuse”, più consone alla conservazione, mescita e preparazione, non è
da escludere che in numerosi set utilizzati nel santuario la brocca fosse rappre-
sentata da esemplari acromi. Quest’ultimo dato, ben confrontabile con quan-
to emerso anche in santuari vicini dedicati a Mefite6, non sembra privo di
significato se paragonato a contesti santuariali che “attestano il trasferimento
della stessa cerimonialità del simposio, cui peraltro appartengono i vasi per la
libagione”7, dove per le forme chiuse si prediligono le realizzazioni vascolari
più prestigiose, come oinochoai decorate a figure rosse (almeno per la prima
fase) o sovraddipinte. D’altro canto, nel santuario di Rossano la prevalenza dei
vasi adatti a compiere abluzioni (coppe) ed a contenere solidi (patere e coppette),
rispetto a quelli deputati al consumo dei liquidi (skyphoi o kilikes), sembra la
spia di un rituale incentrato sulla valenza purificatoria dell’acqua, che, come è
stato suggestivamente proposto in passato8, qui potrebbe sostituire completa-
mente il vino. L’acqua porta a pensare a riti di espiazione e purificazione, ma
anche propiziatori per la fertilità, sia per quanto concerne i cicli della natura
che la vita femminile, in linea con i riconosciuti attributi della dea.
Per quanto riguarda le aparchai, invece, le caratteristiche stesse di Mefite,
Aravina e Kaporoinna, epiclesi attestate epigraficamente, giustificano l’offerta
di primizie e sementi, probabilmente veicolate dalle coppette concavo-conves-
se o dalle patere con i bordi più brevi ed i profili più accentuatamente obliqui9.
Ma, oltre che frutti commestibili o fiori odorosi, indiziati dai carporesti di
mandorle e noci, e dalla presenza del Prunus e del pericarpo della ghianda,
rilevati dalle recenti indagini archeobotaniche10, le coppette potrebbero aver
contenuto il miele, evocato secondo alcuni dal nome stesso della dea11. Accan-
to alle caratteristiche cererie, Mefite presenta anche l’epiteto di Fisica, come la
Venere romana. A questa peculiarità della divinità sembrano potersi ricondur-
re le numerose lekanai, scrigni per preziosi o cosmetici, votivi che si rinvengo-
Fig. 1. Patere (a-d); coppe (e-h)
no in discreta quantità nel santuario. é interessante notare, a questo proposito,

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una singolare concentrazione dei vasi di questo genere, del più antico tipo
attestato (metà del III sec. a.C.) nell’ambiente VII, uno dei quattro piccoli vani
“di servizio” scoperti negli scavi del 1979 e non ancora indagati in profondità,
se non per un saggio limitato. Le lekanai appaiono adatte al contenimento di
polveri cosmetiche; dagli stessi strati sembrano provenire le lekythoi a bocchello
campanulato. In epoca successiva (inizi II sec. a.C.), invece, questa forma viene
sostituita, sinora con attestazione più cospicua dall’ambiente II, dalla pisside a
profilo verticale con piccola base di appoggio, di dimensioni e morfologia appa-
rentemente più adatte a contenere preziosi, anche per l’assenza di coperchio. Ad
esse sono invece associati gli unguentari. Dell’uso di pigmenti, d’altronde, ab-
biamo prova per lo specifico ritrovamento in una struttura connessa con il san-
tuario, a nord/nord-ovest di esso, di numerose conchiglie, tra cui la purpurea,
dalla quale si ricava un pigmento comunemente usato per tingere la lana12.
Pur non presentando in questa sede un dettagliato schema tipologico dei
vasi a vernice nera del santuario, è possibile fornire qualche dato orientativo.
Considerate nella prospettiva diacronica, le già poche forme a vernice nera
presentano, con qualche eccezione, un carattere estremamente stereotipato,
determinato dalla dimensione regionale, o probabilmente locale, delle produ-
zioni, solo in minima parte accostabili alla seriazione del Morel13.
Dall’analisi incrociata dei dati concernenti gli impasti argillosi, le caratteri-
stiche della vernice e la tettonica dei vasi, è possibile trarre alcune considera-
zioni generali. Tra i materiali più ricorrenti si evidenziano almeno cinque di-
stinte produzioni. I primi esemplari, databili nell’ultimo quarto del IV sec.
a.C., presentano una vernice di buona qualità ed un’argilla rosata o arancio
abbastanza dura, forse il segno della presenza di prodotti in circolazione sulla
costa ionica, immediatamente preceduti da alcune brocchette “a fasce”, appar-
tenenti ad un orizzonte cronologico più antico, i cui resti sono stati rinvenuti
prevalentemente nell’ambiente Ia.
Nel corso del III sec. a.C. si riconoscono due produzioni, caratterizzate
una da argilla beige rosato più compatta e vernice lucente, o comunque di
migliore qualità, l’altra da argilla camoscio estremamente polverosa14 rivestita
da una vernice più scadente.
Ad esse si affianca, ma solo a partire dalla fine del III sec., una produzione
in argilla dalla straordinaria durezza, di colore rosso, estremamente compatta,
ma ricca di inclusi micacei, con un certo conservatorismo delle forme, per cui
si nota un attardamento nella produzione della patera con labbro verticale e
degli skyphoi di “tipo apulo”. Gli esiti finali sono rappresentati dalla sporadica
comparsa di coppe e patere con orlo ripiegato oppure “a mandorla”, dalle
pareti estremamente sottili, realizzate con argilla compatta e molto depurata,
Fig. 2. Coppette (a, b); skyphoi (c, d); lekane (e); pisside (f); brocca (g) che assume una colorazione rosso acceso. Resta dubbia, tuttavia, la possibilità

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di riconoscervi la “HFR”, individuata con certezza a Valesio ed a Taranto15.
Per quanto attiene alla circolazione dei materiali, è senz’altro eloquente la
presenza di alcune decorazioni accessorie di tipo plastico su vasi databili alla
metà del III sec. a.C., applicate in corrispondenza dei punti di attacco delle
anse o all’interno dei fondi, in un solo caso all’esterno. Mentre da un lato
queste sembrano ancora influenzate dalle iconografie magnogreche, legate ai
personaggi delle rappresentazioni teatrali e del corteggio dionisiaco16, dall’al-
tro si affacciano elementi più pertinenti al “barocchismo” campano dell’epo-
ca, come le coppe con conchiglie plastiche sul fondo, che trovano un confron-
to puntuale a Minturno17 (fig. 3, a).
In effetti, nel corso del III sec. a.C. l’eterogeneità del materiale rinvenuto
sembra parlare in favore di una grande apertura a contatti esterni, anche ad
ampio raggio. Probabilmente è la stessa Venosa, alla fine del secolo, a rappre-
sentare il filtro della presenza romana, indiziata dalle produzioni “dei piccoli
stampigli”18. Era già noto dalle precedenti pubblicazioni19 un fondo di coppa
con la triskeles, ma, nel riesame complessivo dei frammenti, numerosi sembra-
no i motivi censiti, nelle due distinte realizzazioni: profilate a rilievo su fondo
in cavo (fig. 3, c), oppure, con più diretta ispirazione dal vasellame metallico,
quelle interamente a rilievo (fig. 3, d). Per una prima fase si leggono palmette,
rosette, fiori di loto, motivi vegetali con disposizione radiale o inscritti in
tondelli, i più tardi dei quali presentano la classica lavorazione “a rotella”, che
prelude ai successivi marcati dischi di impilamento. Esse sembrano tutte collo-
carsi entro l’ultimo quarto del III sec., con caratteristiche più fedeli a quelle
delle officine laziali, ad esempio “delle palmette radiali”.
Successivamente prevarranno le cosiddette produzioni locali “B-oidi”, che
sembrano riflettere cambiamenti nella frequentazione del santuario nel corso
del II sec. a.C. I materiali a vernice nera di questa ultima fase, meno permeati
dagli influssi esterni che avevano caratterizzato il santuario nel secolo prece-
dente, presentano infatti una estrema divaricazione, tra l’accentuazione del
carattere locale della produzione ed il massiccio ricorso alla importazione dei
pezzi più raffinati. Per il primo aspetto, essi sembrano rientrare a pieno titolo
nella koinè osco-campana, come deducibile anche da un’analisi linguistica20.
Quanto ai vasi più pregiati, invece, verranno ormai realizzati prevalentemente
in pasta grigia e progressivamente ad essi saranno preferiti i prodotti in terra
sigillata italica, non privi di ibridi, frutto probabilmente dello sperimentalismo Fig. 3. Fondo configurato di coppa a vernice nera: all’esterno due conchiglie plastiche fun-
locale. gono da base di appoggio (a); fondo configurato di coppa a vernice nera: all’interno testa di
Infine, di estremo interesse risulta, per le implicazioni socio-culturali, il Satiro (Dioniso?) bendato (b); fondo stampigliato di patera a vernice nera: sul fondo cavo
circoscritto triscele a rilievo (c); fondo stampigliato di patera a vernice nera: tondello centra-
fondo di una patera a vernice nera con bollo osco #et 21 (fig. 3, e, f). Tale le con “E” iscritta entro corona di punti a rilievo (d); fondo di patera a vernice nera con
interpretazione, se confermata, porterebbe a riconoscervi una ulteriore atte- cartiglio circolare inscritto (e); particolare del bollo con iscrizione #et a rilievo, in caratteri
stazione della base #e, già nota su bolli della Lucania e del Bruzio tra il IV ed il greci (f)

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III sec. a.C. Il confronto per l’iscrizione della patera da Rossano, nello specifi- no rituale e votivo nell’orizzonte indigeno, cfr. Osanna 2004, pp. 44-61.
10
Ved. D. Novellis, Archeobotanica, in Colangelo et alii 2009.
co, sarebbe con un bollo laterizio da Piana della Tirena22, per il quale è stato 11
Secondo il Lavagnini (1923) dalla radice indeuropea *medhu, greco º ≠ ∏u, ossia
proposto lo scioglimento VE[REIA] T[OUTIKA], con chiaro riferimento alla bevanda inebriante derivata dal miele.
12
comunità, o comunque all’entità pubblica. Saremmo dunque dinanzi ad una Dilthey 1980, p. 544.
13
Ved. Morel 1981.
possibile offerta collettiva, una formula allargata di brateis datas? oppure po- 14
Come sembra riscontrarsi anche nelle fasi coeve dell’insediamento di Civita di Tricarico,
trebbe trattarsi del riferimento ad un uso collettivo? é difficile affermarlo con dove ne sono state trovate le fornaci; cfr. Pouzadoux 2008a, p. 396.
15
certezza; in ogni caso, i bolli su contenitori restano un fenomeno cronolo- La ceramica “HFR” è caratterizzata da argilla rossa dura, coperta da vernice nera. Si
tratta di una classe ceramica che prolifera tra II e I sec. a.C., nel momento in cui vengono
gicamente circoscritto all’epoca anteriore alla guerra annibalica, escludendo abbandonate le produzioni a vernice nera sovraddipinta e le rispettive forme (oinochoai e
quelli successivi alla metà del I sec., e tipologicamente piuttosto raro23. tazze biansate legate alla cultura funeraria di IV-III sec. a.C.). Essa è molto meno frequente
della ceramica in “pasta grigia”, rispetto alla quale compare immediatamente prima, e non
presenta particolari similitudini con le note classi centro-italiche (per es. con la CAMPA-
NA A, nonostante il colore dell’argilla sia simile). Yntema data la comparsa della HFR
all’ultimo terzo del III-prima metà del II sec. a.C. Spesso la forma è identica a quella dei
NOTE contemporanei vasi con argilla beige. Questa classe è conosciuta dai materiali provenienti da
scavi condotti a Valesio e Taranto; cfr. Hempel 1996.
16
Non appare fuori luogo il confronto con l’officina volterrana dei vasi “Malaceni”,
1
chiaramente influenzati dalle produzioni metalliche. Cfr. la patera con fondo configurato in
Secondo la Commissione Normal è possibile usare questo termine, anche se non si testa di Pan o Satiro, in Montagna Pasquinucci 1972, p. 399, fig. 50.
tratta di una vera e propria vernice ma di un rivestimento terroso con una composizione 17
Cfr. Morel 1981, p. 139, tipo 2133a, tav. XXXI.
molto simile al corpo ceramico. La “vernice nera” si ottiene da argille decantate, molto 18
Ved. Morel 1969.
diluite (barbottina), con componenti minerali aggiunti per dare lucentezza, compattezza e 19
Ved. Adamesteanu, Dilthey 1992, p. 70.
colore alla superficie; si tratta di un’argilla non porosa perché parzialmente vetrificata, im- 20
é quanto si evince dal bollo osco all’interno di una patera a vernice nera (cfr. infra), per
permeabile o quasi. il particolare, tradizionale, uso dell’alfabeto greco, la cui base #e=vereia, corrisponde
2
I reperti provengono per lo più da vecchi scavi, non condotti con metodo stratigrafico funzionalmente al greco dh=dhmñsion.
e la cui scarsa documentazione consente una localizzazione poco più che generica dei 21
La lettura si deve al prof. Paolo Poccetti, che ringrazio per la cortese disponibilità.
rinvenimenti. 22
Ved. Poccetti 1999.
3
Ved. i sette bothroi del templum italico dell’acropoli di Lavello; cfr. Bottini 1990, p. 23
Ved. Morel 1975, pp. 269-272. Un confronto è possibile con il fondo di una patera da
239. Cales con cartiglio subcircolare e monogramma di tre lettere latine in capitale “VAR”, inter-
4
L’esame del materiale emerso negli scavi condotti tra il 1969 ed il 1982 ha consentito di pretato come il gentilizio Varius; cfr. Pedroni 1990, pp. 178-180, n. 1063, tav. LV. Più diffuso
estrapolare unicamente un catalogo tipologico dei vasi a vernice nera presenti nel santuario. è il caso di incisioni indicanti la paternità del pezzo, come ad esempio il graffito osco “[—
Per un conteggio degli esemplari censiti non si può che fare riferimento, seppure a solo ]rebis : hœsdiis” su una patera a vernice nera dalla Civitella di Campochiaro, indicante un
titolo di esempio/campione, ai frammenti rinvenuti negli scavi stratigrafici del 2007 (patere: esponente di una famiglia frentana, Trebius Hosidius; cfr. Capini, Di Niro 1991, p. 160, n. 32d.
65; coppe: 51; coppette: 24; skyphoi: 16; olpai/brocchette: 7; lekythos: 1; lekanai: 8). Lo stato
di conservazione assolutamente frammentario e la standardizzazione delle forme a vernice
nera hanno, infatti, reso impossibile ipotizzare il numero reale dei contenitori trovati.
5
Ved. Osanna, Giammatteo 2001, p. 112, dove la riflessione riguarda nello specifico la
ricorrenza di queste tre forme in contesti chiusi del santuario di Torre di Satriano e di quello
settentrionale di Pontecagnano. Cfr. Mancusi 2005, pp. 575-595.
6
Cfr. Nigro, Virtuoso 2001, pp. 76-77.
7
Torelli 2011, cit. p. 115.
8
Ved. Poccetti 1982, p. 237; Lejeune 1986, p. 203; Falasca 2002. Gli studiosi sembrano
concordi nell’attribuire a Mefite una “pertinenza strettissima alle acque minerali e sulfuree,
come mostra la correlazione con altri luoghi dell’Italia centro-meridionale caratterizzati da
tale genere di fenomeni naturali” (P. Poccetti, intervento nella Tavola Rotonda in Basilicata,
p. 323). Inoltre, “è il suo essere assimilata all’acqua che spiega e conferma la molteplicità di
funzioni assolte dalla dea, perché la sua personificazione di un elemento vitale, fluido, mu-
tevole ed in perenne trasformazione da uno stato all’altro, le attribuisce la funzione di fatto-
re di unione di mondi diversi e, di conseguenza, di protezione dei momenti di passaggio tra
questi...” (Falasca 2002, cit. p. 55).
9
Sulle aparchai nel mondo greco, ved. Burkert 1987, pp. 43-50. Per lo studio del fenome-

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