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CAPITOLO 1: INTRODUZIONE

1.PREMESSA

Il diritto amministrativo può essere definito come quella branca del diritto pubblico interno che ha per
oggetto l'organizzazione e l'attività della pubblica amministrazione. In particolare riguarda i rapporti che
quest'ultima instaura con i soggetti privati nell'esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di
interessi della collettività.

2.MODELLI DI STATO E NASCITA DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

2.1. Stato amministrativo

Prendendo in esame il caso francese, la nascita dello Stato moderno, con l'unificazione del potere politico
del re, andò di pari passo con la formazione di apparati amministrativi stabili, al centro e in periferia, posti
alle dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del re) e contrapposti a poteri locali. Nell'esperienza
francese lo Stato assoluto si definiva già come Stato amministrativo. Era inoltre uno Stato che estendeva il
suo raggio di azione a numerosi campi. Nel corso del XVIII secolo lo Stato assoluto assunse i caratteri
dell'assolutismo illuminato, cioè detto Stato di polizia, offrendo ai propri sudditi provvidenze di vario
genere. L'espansione dei compiti dello Stato e l'attribuzione di poteri amministrativi ai funzionari delegati
del sovrano e agli apparati burocratici stabili portarono poco a poco all'emersione della funzione
amministrativa come funziona autonoma, non più compresa in quella giudiziaria. La Rivoluzione francese
del 1789 e le costituzioni liberali approvate nei decenni successivi portarono alla nascita del modello dello
Stato di diritto (o Stato costituzionale).

2.2. Stato di diritto e Stato a regime di diritto amministrativo

Oggi lo Stato di diritto è uno dei principi fondanti dell'Unione europea, insieme a quelli della dignità umana,
della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e del rispetto dei diritti umani citati dall'art. 2 del Trattato
sull'Unione europea. Lo Stato di diritto si basa su alcuni elementi strutturali:

1. Lo Stato di diritto prevede il trasferimento della titolarità della sovranità dal rex legibus solutus a un
parlamento eletto da un corpo elettorale, prima ristretto poi a suffragio universale.

2. Si fonda sul principio della separazione dei poteri, per togliere il monopolio del potere al sovrano
assoluto, e in più per evitare abusi a danno dei cittadini. Secondo la tripartizione dei poteri (teorizzata nel
XVIII secolo da Montesquieu) il potere legislativo spetta a un parlamento elettivo, il potere esecutivo al re e
agli apparati burocratici da esso dipendenti e il potere giudiziario a una magistratura indipendente.
Il potere esecutivo in questo modo viene sottoposto alla legge, cioè alla supremazia del parlamento, che è
l'espressione della volontà popolare.

3. Un terzo elemento strutturale è l'inserimento nelle Costituzioni di riserve di legge. Queste escludono o
limitano anzitutto il potere normativo del governo. Infatti, il potere regolamentare dell'esecutivo è
ammesso esclusivamente nelle materie non sottoposte a riserva di legge assoluta. Nelle materie coperte da
riserva di legge relativa, esso si può compiere solo nel rispetto dei limiti e dei principi stabiliti dalla legge
(regolamenti esecutivi). Il principio di legalità è al centro dell'intera costruzione del diritto amministrativo.

4. Per far sì che sia effettiva la sottoposizione del potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti di
libertà, lo Stato di diritto richiede che al cittadino sia riconosciuta la possibilità di ottenere la tutela delle
proprie ragioni anche nei confronti della pubblica amministrazione davanti a un giudice imparziale,
indipendente dal potere esecutivo.
Lo Stato di diritto costituisce un modello e un ideale al quale tendere e che sempre si rinnova. Per esempio,
in Italia la Costituzione del 1948, la legge 7 Agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo e il
Codice del processo amministrativo del 2010 hanno contribuito ad avvicinarci sempre più a tale ideale.

2.3. Stato guardiano notturno, Stato sociale, Stato imprenditore, Stato regolatore

Nel XIX secolo nacque lo Stato guardiano notturno che aveva due compiti: la garanzia dell'ordine pubblico
interno e la difesa del territorio da potenziali nemici esterni. Dunque, alla società civile e al mercato
spettava lo svolgimento delle attività economiche e la cura di altri interessi della collettività (es. sanità). La
visione liberista e liberale di questo Stato entrarono in crisi verso la fine del XIX, inizio XX secolo. Queste
trasformazioni portarono il passaggio a un modello di Stato detto “Stato interventista”, “Stato sociale” o
“Stato del benessere” (Welfare State). I primi interventi furono attuati dalla Germania bismarckiana e
nell'Italia giolittiana. Nel corso del secolo si ebbero grandi sviluppi che portarono lo Stato ad intervenire
sempre più nei vari settori, in particolare nelle attività economiche e sociali, i quali portarono a un aumento
della spesa pubblica. Lo “Stato imprenditore” si trasformò via via in “Stato regolatore”, il quale rinuncia
cioè a dirigere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di predisporre
soltanto le regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l'attività dei privati, non vada a ledere
interessi pubblici rilevanti. Però con la crisi del 2008, che ha colpito anzitutto gli Stati Uniti, si è visto le
carenze strutturali di tale modello. Per far si che si evitasse un crollo del sistema finanziario, sono state
attuate misure di intervento pubblico diretto e indiretto utilizzando un gran numero di risorse pubbliche. A
livello europeo è stato introdotto il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF).

2.4. Cenni agli ordinamenti anglosassoni: l'Inghilterra e gli Stati Uniti

A partire dalla seconda metà del XX secolo, con l'ulteriore sviluppo del Welfare State, le Corti inglesi
presero coscienza dell'esistenza di una distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e iniziarono a
operare un sindacato giurisdizionale più intenso sull'attività dell'esecutivo. Però il diritto amministrativo
inglese non può ancora essere paragonato, per estensione e organicità, a quello degli ordinamenti
continentali. Anche negli Stati Uniti lo sviluppo dello Stato regolatore avvenne in epoca recente. Esso
rappresentò una variante originale di intervento pubblico che si sviluppò proprio negli Stati Uniti, un Paese
che respinse sempre interventi diretti dei pubblici poteri nella gestione nella socializzazione o
collettivizzazione di imprese. Nel 1946 venne approvata l'Administrative Procedure Act che costituisce uno
dei modelli principali di legge sul procedimento amministrativo. Questa legge, da una parte, legittimò e
consolidò il modello delle agenzie di regolazione; dall'altra, sottopose la loro attività a una serie di regole
procedurali che costituiscono l'ossatura del diritto amministrativo negli Stati Uniti. Negli anni Ottanta lo
Stato regolatore fu oggetto di ripensamento. Furono introdotte misure che servirono a controllare e
limitare l'attività delle Agenzie e a operare una riduzione della quantità e intrusività della regolazione
esistente (deregulation). Fu attuata la semplificazione delle procedure burocratiche e promosso il ritiro
dello Stato dalle politiche interventiste.

2.5. L'evoluzione della pubblica amministrazione in Italia

In Italia, in epoca di Cavour, venne adottato il modello dell'amministrazione per ministeri. All'inizio del XX
secolo, in epoca giolittiana, furono potenziate le strutture ministeriali e istituite le prime aziende ed enti
pubblici nazionali (INA, INPS). Negli anni Venti e Trenta, con la svolta autoritaria, iniziò il processo di
pubblicizzazione di molte attività economiche e sociali con l'istituzione di numerosi enti pubblici. La
Costituzione del 1948 incorporò un modello interventista nei rapporti tra Stato, società ed economia,
dando importanza non solo ai diritti di libertà e di proprietà di stampo liberale, ma anche sui diritti sociali.
L'espansione dei pubblici poteri continuò negli anni Sessanta e Settanta. Nel 1962 venne nazionalizzato il
settore dell'energia elettrica e istituito un ente pubblico economico (ENEL) per la gestione in regime di
monopolio di tutte le attività della filiera (produzione, trasmissione ecc.). A partire dagli anni Novanta del
secolo scorso, anche in Italia lo Stato imprenditore entrò in crisi dati i suoi costi meno sostenibili in una fase
di crisi della finanza pubblica. Vennero così avviati processi di liberalizzazione, imposti da direttive europee,
e di privatizzazione di imprese ritenute non strategiche. Si fece strada così lo Stato regolatore che comportò
un riassetto complessivo degli apparati amministrativi. Gli anni Novanta del XX secolo videro anche
affermarsi una concezione dello Stato che favorisce processi di decentramento e valorizza le autonomie
territoriali e funzionali. In particolare, le regioni e gli enti locali acquisirono nuove funzioni e spazi di
autonomia statutaria, organizzativa e finanziaria e fu operata una riforma dei ministeri. Il processo terminò
con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 che ridisegnò l'assetto delle competenze legislative dello
Stato e delle regioni e delle funzioni amministrative dei vari livelli di governo (Stato, regioni, province e
comuni) in base al principio della sussidiarietà verticale. La crisi economica e finanziaria in atto nel nostro
Paese ha favorito, soprattutto tra il 2011 e il 2012, processi di razionalizzazione degli apparati e di adozione
di meccanismi spending review che servono a contenere i costi e a ridurre gli sprechi. A fine 2012 è stata
approvata la legge anticorruzione (l. 190/2012) che impone alle amministrazioni l'adozione di misure di
prevenzione e obblighi di pubblicità.

3. DIRITTO AMMINISTRATIVO E SCIENZE SOCIALI: LA SCIENZA DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

3.1. Premessa

Oggetto del diritto amministrativo sono l'organizzazione, l'attività della pubblica amministrazione e i
principi speciali che le regolano.

3.2. La sociologia

La sociologia analizza le relazioni fattuali di potere interne e esterne agli apparati burocratici e la varietà dei
bisogni e degli interessi della collettività di cui essi si fanno carico. Il potere è un fenomeno sociale prima
ancora che giuridico presente in ogni collettività un minimo organizzata.

3.3. Le scienze politiche ed economiche. Fallimenti del mercato e “regulation”

Le scienze politiche ed economiche analizzano le situazioni nelle quali è giustificato l'intervento dei pubblici
poteri sotto forma di regolazione. Soprattutto nel mondo anglosassone ha avuto impulso la teoria della
regolazione pubblica (o regulation), che ha vari significati, riferita all'intervento dei poteri pubblici in campo
sociale e economico. Si distinguono due modelli di regolazione pubblica, la prima indirizzava a promuovere
scopi sociali (social regulation – per es. la tutela della salute); la seconda indirizzata a massimizzare
l'efficienza economica e il benessere dei consumatori (economic regulation). La regolazione economica
considera l'istituzione di apparati pubblici come rimedio per le situazioni di insuccesso o di “fallimento del
mercato” (market failures). I principali casi di fallimento del mercato che giustificano l'intervento dei poteri
pubblici sono:

1. I monopoli naturali, come le infrastrutture non facilmente duplicabili (es. le reti di trasporto ferroviarie).
Esse pongono chi gestisce l'attività in una situazione di “potere di mercato” che impedisce o altera lo
sviluppo di un mercato concorrenziale e che consentono extraprofitti dovuti alla rendita di posizione. I
rimedi più frequenti consistono nel sottoporre l'impresa monopolista a una serie di vincoli, come il
controllo dei prezzi ecc.

2. I cosiddetti beni pubblici, come la difesa esterna o l'ordine pubblico, dei quali beneficia l'intera
collettività, inclusi coloro che non sarebbero disponibili a farsi carico di una quota proporzionale di costi
(freeriders).

3. Le esternalità negative dovute per esempio a produzioni industriali inquinanti i cui benefici vanno a
vantaggio dell'impresa, ma i cui costi gravano sull'intera collettività.
4. Le asimmetrie informative tra chi offre e chi acquista beni e servizi circa le caratteristiche qualitative
essenziali di questi ultimi, come nei rapporti tra istituzioni finanziarie o imprese quotate in borsa e piccoli
risparmiatori non in grado di valutare i rischi degli investimenti proposti.

5. Le esigenze di coordinamento per esempio relative al sistema dei pesi e misure o al traffico stradale che
richiedono la fissazione di standard uniformi e di regole di comportamento al cui rispetto sono proposte
autorità pubbliche.

3.4 Cenni agli indirizzi della “public choise” e al modello “principal agent”

Sempre nell’ambito delle scienze economiche, va menzionato l’indirizzo della cosiddetta “Public Choise”,
affermatosi negli USA nella seconda metà del secolo scorso. Per spiegare il funzionamento effettivo degli
apparati pubblici è errato muovere dall’ipotesi che gli apparati pubblici (e i burocrati ad essa preposti)
agiscano sempre e necessariamente per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico: è più realistico,
invece, muovere dall’ipotesi che anche il loro comportamento è animato, al pari degli attori privati, da self-
interest (potere, livello retributivo, reputazione etc.). Gli apparati pubblici agiscono, cioè, come attori in
un’arena pubblica nella quale le decisioni sono il frutto di scambi e di negoziazioni tra i vari gruppi politici e
sociali e i rappresentanti degli interessi organizzati (political exchange), che mimano in qualche modo il
mercato (market exchange). In base a questo tipo di approccio, si tende a porre in evidenza, accanto alle
situazioni di market failures, quelle di government failures (o regulatory failures), cioè le inefficienze
strutturali e gli effetti negativi dell’azione dei poteri pubblici. Anche gli apparati amministrativi, al pari degli
agenti politici (Parlamento e Governo) tendono a essere influenzati nelle loro decisioni da interessi
soprattutto economici (varie lobby), deviando così dalla loro missione di cura dell’ interesse pubblico
generale. Teoria del Principal-Agent (Principale-Agente): teoria che studia i meccanismi e gli incentivi per
far sì che l’attività dell’agente, delegato dal principale a compiere una certa attività, venga posta in essere
nell’interesse di quest’ultimo e non venga piegata all’interesse egoistico dell’agente (spesso l’agente ha a
disposizione una mole di informazioni superiori a quella del principale circa le caratteristiche concrete
dell’attività da svolgere, la cd. “asimmetria informativa”). In questo caso l’agente è tentato di avere un
comportamento opportunistico sul quale il principale non è in grado di esercitare un controllo efficace.
Anche gli apparati burocratici possono essere considerati agenti del Parlamento. Gli interessi e gli incentivi
dei dirigenti pubblici, peraltro, non coincidono sempre con quelli dei vertici politici: da qui la perenne
tensione tra politica e amministrazione. A loro volta i vertici politici, scelti in base al metodo elettorale, sono
in qualche misura agenti dei cittadini elettori e occorre individuare strumenti di responsabilizzazione in
modo da evitare l’auto referenzialità della classe politica. La regolazione pubblica (“regulation”), in
generale, dovrebbe individuare gli strumenti (regole, incentivi, sanzioni) per allineare gli interessi
dell’agente a quelli del principale. La scienza dell’amministrazione risale al XIX secolo; in Italia il padre
fondatore è Gian Domenico Romagnosi (in Germania il padre fondatore fu Stein). Si ricollega al filone di
studi di finanza pubblica, ragionieristici e aziendalisti avviati già nel XVIII secolo. Tuttavia, la scienza
dell’amministrazione, in auge soprattutto nella metà del secolo scorso, non ha mai assunto statuto ben
definito all’interno delle scienze non giuridiche (sociologia, scienza politica, economia aziendale etc.). Oggi
è in declino.

3.6. La scienza del diritto amministrativo

Con l'evolversi dei rapporti politici e sociali e con l'espandersi della legislazione amministrativa soprattutto a
partire dagli anni Trenta del XX secolo, la scienza del diritto amministrativo estese il proprio campo di
indagine a fenomeni nascenti come l'ordinamento di credito, gli enti pubblici, l'impresa pubblica, ecc. Verso
la fine del secolo emerse anche una prospettiva volta a operare un riequilibrio nel rapporto tra Stato e
cittadino con due modalità principali. Il potenziamento delle garanzie formali e sostanziali a favore di
quest'ultimo; l'impiego di nuovi moduli consensuali di regolamentazione dei rapporti privati e pubblica
amministrazione. Gli anni Novanta del secolo scorso, segnati dall'introduzione della legge 1990, n. 241 sul
procedimento amministrativo e dall'influenza del diritto europeo in particolare nel settore dei servizi
pubblici, costituiscono idealmente una rottura tra la concezione più autoritaria del diritto amministrativo
che privilegia il punto di vista dell'amministrazione e pone l'accento sui poteri unilaterali attribuiti a
quest'ultima e un nuovo paradigma interpretativo. Quest'ultimo valorizza la posizione del cittadino, titolare
ormai di diversi diritti e garanzie all'interno del rapporto procedimentale, ed enfatizza la sottoposizione del
potere al principio di legalità inteso in senso più rigoroso. Il diritto amministrativo resta sempre il diritto
dell'autorità del potere pubblico per la cura degli interessi della collettività ma ha perso i connotati di un
diritto autoritario.

4. IL DIRITTO AMMINISTRATIVO E I SUOI RAPPORTI CON ALTRE BRANCHE DEL DIRITTO

4.1. Il diritto costituzionale

Anche se il diritto costituzionale e il diritto amministrativo riguardano rami differenti, sono strettamente
collegati. I legami da analizzare sono due: in primo luogo, il diritto amministrativo, per riprendere
l'espressione di F. Werner, non è altro che il diritto costituzionale reso concreto, cioè preso nella sua
effettiva realizzazione nella legislazione e nella vita dell'ordinamento. Per esempio, il diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione stabilito dall'art.
21 Cost. è condizionato dalla legislazione amministrativa sul sistema radiotelevisivo e sulla stampa. Un
secondo legame tra diritto costituzionale e diritto amministrativo è riassunto dall'affermazione di uno dei
maggiori giuristi tedeschi del primo Novecento (Otto Mayer) secondo il quale “il diritto costituzionale passa,
il diritto amministrativo resta”. Questo ci fa capire il disallineamento temporale dei mutamenti
costituzionali rispetto alle riforme amministrative.

4.2. Il diritto europeo

Il diritto amministrativo italiano ha acquisito una dimensione europea sotto cinque profili principali: la
legislazione amministrativa, l'attività, l'organizzazione, la finanza, la tutela giurisdizionale.

1. L'art. 117, comma 1, Cost. stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle regioni deve essere
esercitata nel rispetto, oltre che dalla Costituzione, “dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario”.

2. L'art. 1, comma 1, l. n. 241/1990 include tra i principi generali dell'attività amministrativa (economicità,
efficacia, imparzialità, pubblicità), anche “i principi generali dell'ordinamento comunitario”. Quest'ultimi si
ricavano sia dai Trattati e dalle altre fonti del diritto europeo, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia
dell'Unione europea. La pubblica amministrazione è citata anche nella Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea, che adesso è stato inserito come protocollo allegato al trattato di Lisbona e che ha
valore giuridico allo stesso modo del Trattato.

3. Il diritto europeo condiziona l'assetto organizzativo e funzionale degli apparati pubblici. Infatti, in Italia
sono state istituite molte agenzie e autorità indipendenti dalle direttive europee. Per esempio, il sistema
europeo delle banche centrali del quale fanno parte in modo organico le banche nazionali.

4. Il diritto europeo impone, poi, agli Stati membri vincoli sempre più pressanti alla finanza pubblica che
condizionano l'operatività delle pubbliche amministrazioni e l'attuazione dei loro programmi di intervento.

5. Infine, il diritto europeo esercita un'influenza anche sul diritto processuale amministrativo. Il Codice del
processo amministrativo, adottato con il d.lgs. 2 luglio 2010, stabilisce che la giurisdizione amministrativa
assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del “diritto europeo”.

Il diritto amministrativo si è aperto non soltanto a una dimensione europea, ma sta assumendo anche una
dimensione globale. Essa è legata allo sviluppo a livello mondiale di una serie di organizzazioni
internazionali (banca mondiale ecc.) che creano regole e standard che condizionano direttamente e
indirettamente i diritti nazionali.
4.3. Il diritto privato

I legami tra diritto amministrativo e diritto privato possono venir fuori da tre concetti principali: il diritto
amministrativo è un diritto autonomo dal diritto privato; non esaurisce tutta la disciplina dell'attività e
dell'organizzazione della pubblica amministrazione che attinge sempre più a moduli privatistici; ha una
capacità espansiva in quanto si applica anche a soggetti privati.

- L'autonomia del diritto amministrativo. Deriva da un istituto disciplinato dalla l. n. 241/1990 e cioè dagli
accordi stipulati tra amministrazione e soggetti privati e che disciplinano l'esercizio dei poteri discrezionali.
In generale il diritto amministrativo è un diritto in sé completo e autosufficiente. Esso può attingere a volte
al diritto privato, ma in modo indiretto e selettivo. La nascita del diritto amministrativo come disciplina
autonoma si fa risalire in Francia al celebre arret Blanco del 1873.

- I moduli privatistici dell'attività e dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni. L'attività delle


pubbliche amministrazioni è regolata in parte da leggi amministrative e in parte dal diritto privato. Le
pubbliche amministrazioni hanno anzitutto soggettività piena nell'ordinamento giuridico. Esse godono,
come le persone giuridiche private, di una capacità giuridica generale che permettono di assumere la
titolarità di diritti e obblighi in base alle norme del codice civile e delle leggi speciali. Quindi le pubbliche
amministrazioni possono instaurare relazioni giuridiche con altri soggetti dell'ordinamento regolate dal
diritto comune.

L'esercizio dei poteri amministrativi ha sostanza nell'adozione di atti che hanno natura autoritativa,
caratterizzati dall'unilateralità nella produzione degli effetti e dalla loro sottoposizione al principio di legalità
e altri principi del diritto amministrativo. In materia di contratti della pubblica amministrazione per la
fornitura di beni e servizi e per l'esecuzione di lavori, ci sono regole pubblicistiche e regole privatistiche. Le
prime sono contenute nel Codice di contratti pubblici e riguardano soprattutto la formazione della volontà
della pubblica amministrazione. Quelle privatistiche riguardano la fase dell'esecuzione degli obblighi
contrattuali assunti. La capacità di diritto privato ha consentito alle pubbliche amministrazioni di ricorrere
al modello della società di capitali in tutto o in parte a capitale pubblico per l'esercizio di servizi pubblici.

- La tendenza espansiva del diritto amministrativo. In certe condizioni, anche soggetti formalmente privati
sono sottoposti, almeno in parte, a un regime di diritto amministrativo. Per esempio, la costituzione di
società per azioni da parte di soggetti pubblici regolate in linea di principio dal diritto privato non comporta
sempre e necessariamente che esse siano qualificabili come persone giuridiche private. La giurisprudenza di
recente attribuisce ad alcune società in mano pubblica la natura giuridica di enti pubblici (es. Poste, ENEL).
È rivenuta fuori così la figura della società per azioni-ente pubblico. Va precisato che anche il diritto privato
include in qualche caso principi propri del diritto amministrativo. Come per esempio nel diritto societario.

5. I CARATTERI GENERALI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

5.1 La natura Giurisprudenziale del Diritto Amministrativo

Come si è già accennato il diritto amministrativo nasce in Francia ed in Italia, ed è legato all’istituzione della
figura di un giudice speciale per le controversie tra cittadino e pubblica amministrazione. Per questo motivo
il diritto amministrativo viene considerato un “diritto di provenienza giurisprudenziale” poiché nato dalle
sentenze dei primi giudici speciali operanti nel settore. Questo sistema lo fa assomigliare al sistema fondato
sul Common Law inglese. Le origini raccontano che in Francia tale contenzioso si distaccò dal diritto
comune e solo successivamente fu creato il Conseil De Roi organo di consulenza del re che
successivamente, in epoca napoleonica, prese il nome di Conseil D’Etat con il compito di formulare pareri
sui ricorsi presentati al re, il quale emanava decisione proprio recependo in pieno il parere dell’organo. Nel
1872 il Consiglio di Stato Francese divenne permanente e capace di formulare sentenze autonome in
ottemperanza a leggi che gli attribuivano tali poteri: si completò così la sua trasformazione e relativa
autonomia. Anche in Italia l’esperienza fu molto simile fino al 1865, quando una legge dello stato abolì il
contenzioso amministrativo ritenuto non compatibile con la visione di stato liberale: tale abolizione restò in
vigore fino al 1889, quando ci si rese conto del fallimento del giudice unico e fu creata la figura del giudice
amministrativo al Consiglio di Stato, che stilò i principi generali del giudice amministrativo, del diritto
amministrativo e del diritto processuale amministrativo, nonché la prima forma di riparto delle competenze
tra i giudici ordinari e quelli amministrativi (a seguito di un concordato tra Corte di Cassazione e Consiglio di
Stato). Oggi per dirimere le questioni di principio che danno vita a orientamenti giurisprudenziali difformi,
interviene l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (in collegio allargato), le cui decisioni sono vincolanti
per le sezioni singole dello stesso Consiglio. Oggi la basi del diritto amministrativo sono formulate dalla
legge 241/90 e dalla legge 15/2005, le quali tracciano le disposizioni generali del procedimento e del
provvedimento amministrativo. Tuttavia, neppure queste due leggi sono in grado di imbrigliare il potere
giurisprudenziale del diritto amministrativo in quanto entrambe le leggi sono state elaborate sulla scorta di
giurisprudenza consolidata, non apportando nessun ampliamento a quello già apportato dalla
giurisprudenza. Il diritto amministrativo ha un’altra caratteristica che lo avvicina al Common Law: l’elasticità
e l’adattabilità al variare delle situazioni ed all’emergere di nuove esigenze.

5.2 Il Diritto Amministrativo Generale e Speciale

Il Diritto Amministrativo si caratterizza per la vastità del materiale normativo e per l’ampiezza e varietà
delle materie incluse nel suo campo di indagine. È emersa così la distinzione tra diritto amministrativo
speciale e generale. Il Diritto Amministrativo Speciale è costituito da filoni legislativi (provenienti da fonti
statali, regionali o comunitari) che disciplinano i vari campi di intervento delle pubbliche amministrazioni
(sanità, ambiente, beni culturali, ordine pubblico, militare, sportivo, etc.). Il Diritto Amministrativo Generale
è comunque considerato il nucleo della materia e parte principale di ogni elaborazione ed è opera
soprattutto della scienza giuridica. La scienza giuridica procede alla rielaborazione del materiale giuridico,
costituito da norme vigenti e sentenze dei giudici, attraverso l’attività di classificazione, di individuazione di
strutture e principi portanti e costanti. Il diritto amministrativo generale è ora in buona parte codificato
nella l. 241/90. Entrambi i diritti (generale e speciale) si condizionano reciprocamente e si evolvono di pari
passo.
CAPITOLO 2: LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO

1.PREMESSA

Cosa s'intende per funzione regolatrice della P.A.? La legge si limita (sempre più spesso) a delineare i
principi fondamentali della disciplina di una materia e delega ad apparati amministrativi il compito di porre
in via sub-legislativa (con atti normativi e con altri tipi di atti quali linee guida, circolari, norme tecniche), le
regole di dettaglio volte a disciplinare anche i comportamenti dei privati. In questo modo possiamo dire che
la funzione regolatrice va ad attenuare il principio di separazione dei poteri, intervenendo la P.A. non solo
nell'esecutivo (come prescritto), ma anche a livello legislativo (funzione esclusiva del Parlamento), sia
ponendo regole, sia applicandole ai privati. Prima di essere soggetti regolatori, le P.A. sono soggetti regolati.
Da qui la differenza tra: • fonti sull'amministrazione → sono fonti che hanno come destinataria la P.A.: ne
disciplinano l'organizzazione, le funzioni e i poteri (OFP) e servono anche per sindacare la legittimità dei
provvedimenti emanati dalla P.A. . In base all’ art. 97 Cost (principio della “riserva di legge relativa”) esse
sono: - le fonti normative di rango primario; - le fonti normative di rango secondario (regolamenti
governativi che disciplinano un apparato pubblico). • fonti dell'amministrazione → strumenti a disposizione
della P.A. sia per regolare i comportamenti dei privati sia, nei limiti che impone la legge, per disciplinare i
propri apparati e il loro funzionamento. Tali fonti hanno sempre rango sub-legislativo, essendo la funzione
legislativa riservata al Parlamento. Sono sia fonti normative in senso proprio, sia atti di regolazione aventi
natura non normativa (come atti di pianificazione e programmazione, atti amministrativi generali, direttive,
circolari etc). Esse danno sostanza alla funzione di regolazione propria delle pubbliche amministrazioni.

2.LA COSTITUZIONE

Entrata in vigore nel 1948, può essere classificata costituzione rigida (necessita di un procedimento di
modificazione aggravato a maggioranza qualificata iac art. 138 Cost) e costituzione lunga (per le varie
materie regolate, dai diritti sulle libertà all'assetto dello Stato). La Costituzione indica anche una serie di
materie di cui lo Stato (e quindi la P.A.) deve farsi carico per il benessere della collettività (es. salute,
istruzione scolastica, previdenza sociale etc.). Non tratta dell'assetto della P.A., ma anzi vi sono enunciati
pochi principi costituzionali al riguardo dell'organizzazione (della P.A.). Tra questi: • art. 95 Cost: principio
della strumentalità dell'amministrazione rispetto alla politica generale del Governo e il principio della
responsabilità politica dei Ministri in relazione all'attività amministrativa; • art. 97 Cost: imparzialità e buon
andamento; • art. 118 Cost: principio di sussidiarietà come criterio generale di riparto delle funzioni
Amministrative.

3. FONTI DELL’UNIONE EUROPEA

Con la legge costituzionale 3/2001 (di modifica del Titolo V della Parte II della Cost → art. 117) sono state
ridefinite le competenze legislative tra Stato e Regioni esercitate in rispetto della Costituzione e dei trattati
comunitari. La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni è sottoposta ai vincoli derivanti dal diritto
comunitario. Nella gerarchia delle fonti, l’Unione Europea si pone su un livello più elevato rispetto alla legge
ordinaria: vige il principio secondo il quale “le norme nazionali contastanti con il diritto comunitario devono
essere disapplicate”. Tale principio deve essere utilizzato sia dai giudici in sede di controversie che dalla
pubblica amministrazione (quando esercita il potere di emanare un provvedimento). Infatti il Diritto
Europeo vieta ad una pubblica amministrazione di dare esecuzione ad un provvedimento illeggittimo e
contrario ad una sentenza della Corte Europea. Le fonti europee sono sostanzialmente formate da Trattati:
nel corso degli anni sono stati modificati e integrati, fino ad arrivare al Trattato di Lisbona (ultimo, in vigore
dal 2009). Il Trattato di Lisbona è frutto dell’unione dei due Trattati precedenti (trattato sull’Unione
Europea, il TUE, approvato nel 1992 e il trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, il TFUE, del 2004).
In aggiunta ai Trattati, altre fonti sono la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e la convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU). Altra fonte di Diritto Europeo sono i Regolamenti: disciplinati
art. 288 TFUE, hanno portata generale e sono direttamente vincolanti per gli Stati Membri ed i loro
cittadini, non richiedono alcun recepimento e non possono essere derogati dagli Stati. Devono essere
motivati (a differenza degli atti normativi nazionali); costituiscono, inoltre, un parametro diretto per
sindacare la legittimità degli atti amministrativi (molti regolamenti disciplinano materie che fanno parte del
diritto amministrativo speciale). Altra fonte del diritto europeo sono le Direttive (emanate dal Consiglio e
dalla Commissione UE), hanno per destinatari gli Stati e sono vincolanti per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, restando salva la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi iac. art. 288
TFUE. Di regola, non sono direttamente applicabili ed, al pari dei regolamenti, devono essere corredate
anch’esse da una motivazione (art. 296 TFUE). In base ai principi di sussidiarietà e proporzionalità, le
Direttive sono da preferire ai Regolamenti (mentre le Direttive Quadro vanno preferite alle Direttive
Dettagliate. Tra gli atti dell’Unione Europea si collocano per ultimo le Decisioni: hanno contenuto puntuale
(art.288 TFUE) e applicano a fattispecie concrete norme generali ed astratte previste da fonti comunitarie.
Sono vincolanti per gli Stati membri, ma non hanno un’efficacia diretta. Possono assumere una duplice
forma (Decisioni quadro adottate dal Consiglio e Regolamenti degli stati membri). Il recepimento delle
norme europee (anche delle sentenze della Corte di Giustizia) è disciplinato nel nostro ordinamento dalle
leggi 11/2005 e 234/2012. Lo strumento specifico è costituito da 2 leggi annuali (di iniziativa governativa): -
la legge europea: modifica o abroga le disposizioni statali vigenti contrastanti con il diritto europeo; - la
legge di delegazione europea: essa attribuisce deleghe legislative al Governo per il recepimento delle
direttive europee. Prevede che nelle materie non coperte da riserva di legge, il recepimento possa avvenire
in via regolamentare (e individua i principi fondamentali ai quali le Regioni si devono attenere per dare
attuazione alle direttive europee nelle materie attribuite alla loro competenza legislativa concorrente).

4. FONTI NORMATIVE STATALI, RISERVA DI LEGGE, PRINCIPIO DI LEGALITÀ.

Come già accennato, la Costituzione elenca tutte le fonti legislative statali di rango primario che sono: - la
legge ordinaria: approvata dal Parlamento e promulgata dal Presidente della Repubblica (artt.71-74); - il
decreto legge: emesso dal Governo in particolari condizioni di urgenza, che dovrà essere tramutato in legge
entro 60 giorni (art.77); - il decreto legislativo (art.76): emesso dal Governo su delega del Parlamento, che
ne determina i principi generali. Ricordiamo, inolte, che le leggi ordinarie dello stato potranno essere
emesse solo nelle materie dettate dall’art. 117 Cost: in base a questo articolo, lo Stato ha potestà legislativa
esclusiva in alcune materie (politica estera, rapporti con gli altri paesi, immigrazione, Difesa, Sicurezza etc..)
mentre sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione
europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, tutela della salute;
alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili;
grandi reti di trasporto e di navigazione etc.
Riserve di Legge: costituiscono uno degli elementi costitutivi dello Stato di diritto e sono individuate nella
Costituzione. Concorrono a definire i rapporti tra Parlamento e potere esecutivo (Governo): si tratta di una
riserva di competenza a disciplinare determinate materie (dettate da Cost.) riservata al Parlamento (con
legge o atti aventi forza di legge); ovvero si esclude, pertanto, il possibile ricorso a fonti secondarie e in
particolare a regolamenti governativi. Tre tipi (ARR): • assoluta (es. materia penale) → richiede che la legge
ponga una disciplina completa ed esaustiva della materia ed esclude l'intervento di fonti sub-legislative.
Sono ammessi soltanto i regolamenti di mera e stretta esecuzione, cioè di mero svolgimento dei precetti
legislativi (es. “nei soli casi e modi previsti dalla legge”); • rinforzata (es. diritti di libertà) → aggiunge al
carattere assolutezza il fatto che la Cost. stabilisca direttamente taluni principi materiali o procedurali
relativi alla disciplina della materia (che costituiscono un vincolo per il legislatore ordinario); • relativa (es.
materia tributaria o organizzazione dei pubblici uffici) → prevede che la legge ponga prescrizioni di principio
e consente l'emanazione di regolamenti di tipo esecutivo contenenti le norme più di dettaglio che
completano la disciplina della materia. (es. “in base alla legge” o “secondo disposizioni di legge”). La
qualificazione di una riserva di legge come assoluta o relativa dipende, nei singoli casi, da
un’interpretazione letterale e sistematica delle disposizioni costituzionali che la pongono (per es. la formula
“nei soli casi e nei modi previsti dalla legge” sta ad indicare una riserva di legge assoluta….). La riserva di
legge va distinta (anche se ha in comune la funzione di garanzia dei soggetti privati nei confronti
dell’amm.ne) dal principio di legalità.
Il principio di legalità: costituisce uno dei principi fondamentali del diritto amministrativo (dell'attività
amministrativa) → richiamato dall'art. 1 della legge 241/90, secondo il quale “l’attività amministrativa
persegue i fini determinati dalla legge”. Il principio di legalità si ricava, indirettamente, da disposizioni
contenute nella Costituzione (art.113 Cost. “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre
ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione
ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi
di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione
possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”)
e riceve un riconoscimento implicito anche dai Trattati Comunitari (Art.19 TUE e art. 262 TFUE). Assolve una
duplice funzione: • legalità-garanzia → garanzia delle situazioni giuridiche soggettive dei privati, che
possono essere incise dal potere amministrativo; • legalità-indirizzo → la legge funge da fattore di
legittimazione e di guida dell'attività amministrativa, perchè espressione della sovranità/volontà popolare. Il
principio di legalità può essere inteso in 2 accezioni: 1) coincide con il principio delle preferenza della legge,
ossia che gli atti emanati dalla P.A. non possono porsi in contrasto con la legge (la legge come limite
negativo all'attività della P.A.). Art. 4 D.P.C.C: “I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle
disposizioni di legge” 2) il principio di legalità richiede che il potere amministrativo trovi riferimento in una
norma di legge (aspetto oggi più rilevante). Legge come limite positivo all'attività della P.A.
Quest’ultima (legge) costituisce il fondamento esclusivo dei poteri dell’amministrazione, essa dovrà
attribuire in modo espresso alla pubblica amministrazione la titolarietà del potere disciplinandone le
modalità e i contenuti. La pubblica amministrazione non gode di una legittimazione propria ma i poteri a lei
assegnati dovranno pervenire dal circuito politico rappresentativo, cioè la legge. In assenza di una norma di
riferimento che dia potere all’amministrazione, gli atti emessi potranno essere dichiarati nulli. Duplice
funzione del principio di legalità inteso nel secondo senso (legge come limite positivo): • legalità formale →
per soddisfarla è sufficiente la semplice indicazione nella legge (da parte di una norma in bianco)
dell'apparato pubblico competente a esercitare un potere normativo secondario o amministrativo, che
risulta indeterminato nei suoi contenuti. • legalità sostanziale → per soddisfarla si esige che la legge ponga,
sia pur in termini generali, una disciplina materiale del potere amministrativo, definendone i presupposti
per l'esercizio, le modalità procedurali e le altre caratteristiche essenziali. Riserva di legge e principio di
legalità hanno alcuni elementi in comune: infatti la riserva di legge stabilisce condizioni e limiti del potere
regolamentare del governo ed esige che la legge disciplini almeno una parte della materia. Altrettanto per il
principio di legalità, che prescrive che il potere dell’amministrazione si esplichi attraverso l’emissione di
norme secondarie ma sempre in ottemperanza alla legge. Ecco la sovrapposizione con la riserva di legge
relativa.

5. LE LEGGI PROVVEDIMENTO

Si tratta di leggi ordinarie prive del carattere dell’astattezza e della generalità. Sono leggi ad hoc adottate
per fattispecie uniche come, ad esempio, una legge per regolamentare una azienda di rilievo o di interesse
nazionale (es. RAI, ENI). Oggi, tuttavia, il ricorso a tale forma di legge è sinonimo di disfunzione tra Governo
e Parlamento, in quanto tale iniziativa è a disposizione dell’Esecutivo ma sempre più spesso utilizzata dal
Parlamento (che usurpa ed invade spazi legislativi del Governo).

6. I REGOLAMENTI GOVERNATIVI

La l. 3/2001 ha introdotto il principio del parallelismo tra competenza legislativa e competenza


regolamentare dello Stato. Lo Stato è titolare di un potere regolamentare esclusivamente nelle materie di
cui all' art. 117 Cost. (“competenza legislativa esclusiva”). Tale potere può essere delegato alle Regioni, a cui
spetta invece la capacità legislativa delle altre materie residuali. Lo Stato può sostituirsi alle Regioni quando
queste siano in mora o in caso di inerzia o in caso di urgenza. L'art. 17 della l. 400/88 individua 5 tipi di
regolamenti governativi, attribuiti alla competenza del Consiglio dei Ministri: 1. esecutivi → tali regolamenti
pongono norme di dettaglio necessarie per l'applicazione concreta di una legge (come es. di ulteriore
specificazione delle fattispecie disciplinate). Importante: sono gli unici ammessi ad operare nell’ambito di
una riserva assoluta di legge. 2. integrativi → possono essere emanati nelle materie non coperte da riserva
di legge assoluta e nei casi in cui la legge si limiti a individuare i principi generali della materia e autorizzi
espressamente il Governo a porre la disciplina di dettaglio (non possono regolare materie riservate alla
competenza regionale, per le quali la competenza spetta alle leggi regionali); 3. indipendenti → sono
emanati nelle materie non soggette a riserva di legge assoluta o relativa, là dove manchi una disciplina di
rango primario (rari casi e possibile incostituzionalità dato l'ambio margine di discrezionalità dato in questi
regolamenti); 4. di organizzazione → emanati per disciplinare l'organizzazione e il funzionamento delle P.A.
“secondo le disposizioni dettate dalla legge” (art. 97 Cost., fonte primaria che detta le linee guida è sempre
necessaria). Sottospecie dei regolamenti esecutivi. 5. delegati o autorizzati (regolamenti di
delegificazione)→ sono previsti nelle materie non soggette a riserva assoluta di legge e attuano la
cosiddetta “delegificazione”. Sostituiscono cioè la disciplina posta da una fonte primaria con una disciplina
posta da una fonte secondaria. La loro entrata in vigore (regolamenti di delegificazione) determina infatti
l'abrogazione delle norme vigenti contenute in fonti anche di rango primario. L’Art. 17 (comma 2) della l.
400/88 pone alcune condizioni: • una legge deve autorizzare il Governo ad emanare tali regolamenti; • la
stessa legge deve contenere le norme generali regolatrici della materia; • la stessa legge deve disporre
l'abrogazione delle norme vigenti. 6. ministeriali e interministeriali →sono previsti dall'art. 17 comma 3
nelle materie attribuite alla competenza di uno o più Ministri. Questi regolamenti possono essere emanati
sono nei casi espressamente previsti dalla legge e sono gerarchicamente sottordinati ai regolamenti
governativi. Prima della loro emanazione, devono essere comunicati al Presidente del Consiglio ai fini del
coordinamento. Profili procedurali dei regolamenti → i regolamenti sono atti formalmente amministrativi
ma sostanzialmente normativi, sono adottati previo il parere del Consiglio di Stato, sottoposti al controllo
preventivo di legittimità e alla registrazione della Corte dei Conti e vengono pubblicati nella Gazzetta
Ufficiale. Il procedimento per la loro adozione non prevede la partecipazione dei privati (che anzi è
espressamente esclusa) e non è richiesta la motivazione. Caratteristiche dei regolamenti: il regime giuridico
dei regolamenti è in parte quello proprio dei provvedimenti amministrativi (sia pur con le deroghe su
richiamate in tema di partecipazione dei privati e obbligo di motivazione), in parte quello proprio delle fonti
di diritto. Disapplicazione dei regolamenti: → dal primo punto di vista, ove contengano disposizioni
contrarie alla legge, possono essere impugnati davanti al giudice amministrativo ed annullati. Di regola,
proprio perché i regolamenti contengono norme generali ed astratte, sotto il profilo processuale, l’interesse
all’impugnazione sorge allorché l’amministrazione emana un provvedimento applicativo idoneo a incidere
nella sfera giuridica di un destinatario individualizzato. Inoltre, in base al principio della preferenza della
legge, i regolamenti sono suscettibili di disapplicazione da parte del giudice ordinario. Anche il giudice
amministrativo, secondo una recente giurisprudenza, può disapplicare una norma regolamentare in 2
ipotesi: 1) quando il provvedimento impugnato viola un regolamento a sua volta difforme dalla legge; 2)
quando il provvedimento impugnato è conforme a un regolamento che però contrasta con una legge. Il
giudice può anche disapplicare un regolamento quando questo non sia stato espressamente impugnato
(“disapplicazione normativa”). → dal secondo punto di vista, in quanto fonti del diritto, ai regolamenti si
applicano le norme generali sull'interpretazione contenute nell'art. 12 delle Disposizioni Preliminari al
Codice Civile (“D.P.C.C.”), ovvero interpretazione letterale e logica; possibilità di ricorrere all’analogia legis
ed analogia juris. Inoltre, per essi: • vale il principio jura novit curia e la loro violazione può costituire
motivo di ricorso per Cassazione. • non possono essere oggetto di sindacato di costituzionalità innanzi alla
Corte Costituzionale (a differenza delle fonti primarie).

7. CENNI ALLE FONTI NORMATIVE REGIONALI, DEGLI ENTI LOCALI E DI ALTRI ENTI PUBBLICI
Le fonti normative regionali → sono 3 indicate da Cost: gli statuti, le leggi regionali ed i regolamenti. Lo
Statuto delle regioni ordinarie determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento. La sua approvazione avviene attraverso un procedimento aggravato che prevede una
duplice approvazione a maggioranza assoluta da parte del consiglio regionale e può essere sottoposto a
referendum popolare. Lo statuto delle regioni speciali invece è approvato da legge costituzionale. Le leggi
regionali invece sono approvate dal consiglio regionale e promulgate dal Presidente nelle materie alle
Regioni attribuite (o concorrenti) secondo art. 117. La giurisprudenza ha sostenuto che anche nelle
competenze regionali lo Stato può intervenire, quando le materie esclusive dello Stato hanno natura
trasversale e consentono dunque a leggi statali di introdurre disposizioni che non possono essere derogate
alle Regioni, oppure quando (“chiamata a sussidiarietà”) una funzione richieda di essere esercitata in modo
unitario a livello statale e quindi la funzione legislativa statale “irrompe” nelle competenze regionali. I
regolamenti regionali sono adottati dalla giunta regionale e possono essere emanati nelle materie attribuite
alle Regioni ex art.117.

Fonti normative degli enti locali (comuni, province e città metropolitane) → essenzialmente sono gli statuti
e i regolamenti (Art. 114 Cost). Gli statuti sono approvati dal consiglio dell'ente locale a maggioranza di 2/3:
devono contenere le norme fondamentali sull'organizzazione dell'ente, le forme di garanzia e di
partecipazione delle minoranze. Lo statuto ha rango sub-primario perchè si pone al di sotto delle leggi
statali. I regolamenti degli enti locali sono emanati nelle materie di competenza degli enti locali nel rispetto
dei principi fissati dalla legge e dallo statuto. Disciplinano l'organizzazione e il funzionamento degli organi e
degli uffici e l'esercizio delle funzioni. Molti altri enti pubblici hanno acquistato rilievo negli ultimi anni come
le Università e le camere di Commercio e possono dotarsi di propri statuti.

9.GLI ATTI DI REGOLAZIONE AVENTI NATURA NON NORMATIVA

Gli atti normativi → gli atti normativi hanno il carattere dell'astrattezza, generalità e della novità (intensa
come capacità di modificare, sostituire o integrare norme preesistenti). Sono atti giuridici che hanno come
effetto la creazione, modificazione o abrogazione di norme generali ed astratte di un determinato
ordinamento giuridico in base alle norme sulla produzione giuridica vigenti nello stesso ordinamento. La
giurisprudenza tende a qualificare come atti normativi atipici quelli che dettano regole di comportamento a
soggetti esterni all'amministrazione. In realtà nell'ambito del diritto amministrativo la distinzione tra atti
normativi e non, riferita sopratutto agli atti amministrativi generali (v. dopo), ha scarsa rilevanza, poiché il
loro regime è quasi identico, indicato dalla l. 241/90. In sede di teoria generale, si ritiene che dalla
qualificazione di un atto come normativo, derivino 3 conseguenze principali: 1. si applica il principio jura
novit curia, le parti possono limitarsi ad allegare e provare i fatti costituenti il diritto affermato in giudizio,
ma non hanno l'onere di allegazione e di prova delle norme applicabile al caso concreto. 2. è consentito il
ricorso per Cassazione per “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”; 3. valgono i criteri
d'interpretazione posti dall'art. 12 delle Preleggi. Queste particolarità sfumano , invece, in gran parte nel
contesto del diritto amministrativo se si considera il regime sostanziale e processuale degli atti
amministrativi, specie di quelli a contenuto generale. 1. Infatti, per quel che concerne il principio jura novit
curia, nel processo amministrativo il ricorrente deve specificare i motivi di ricorso, cioè i profili specifici di
vizio sottoposti all'esame del giudice e deve indicare quindi gli articoli di legge e di regolamento che si
ritengono violati. Il giudice quindi non può agire d'ufficio per individuare il parametro normativo in base al
quale operare il proprio sindacato. 2. Ricorribilità in Cassazione avverso sentenze del giudice
amministrativo per i “soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art.111 Cost). Pertanto non rileva se il
provvedimento amministrativo impugnato sia illegittimo per violazione di una norma giuridica in senso
proprio o per violazione di una prescrizione contenuta in atto amministrativo generale o circolare. La tutela
offerta è infatti in entrambi i casi identica perchè è comunque esclusa la ricorribilità avverso la sentenza del
giudice amministrativo che offra un'interpretazione errata della norma giuridica invocata come parametro
di legittimità del procedimento impugnato. 3. Per l'interpretazione valgono le norme sui contratti civili ma
ad esclusione di es. interpretazione del contratto in modo meno gravoso per l'obbligato e simili; in questo
modo il regime dell'interpretazione degli atti amministrativi finisce per coincidere in gran parte con quello
delle fonti normative di cui alle preleggi.

Provvedimento amministrativo: tra gli atti unilaterali, la figura principale è quella dei provvedimenti
amministrativi. È l’ atto emanato a conclusione del procedimento amministrativo, con il quale l’
amministrazioni esercita potere a lei conferito (dalle norme) per la cura degli interessi pubblici, producendo
effetti giuridici anche nei confronti di altri soggetti. I provvedimenti (atti unilaterali) vanno distinti dagli “atti
strumentali”, ovvero gli altri atti che si collocano all’interno dei procedimenti (pareri, proposte, richieste
d’informazione etc.). I vizi del provvedimento amministrativo sono 3: 1. violazione di legge; 2. eccesso di
potere; 3. incompetenza. Ciascuno dei 3 assume un’identica rilevanza ai fini dell’annullabilità del
provvedimento: così, ad es., il mancato rispetto di una disposizione contenuta in un regolamento o in un
bando di concorso (tipico atto amm.vo generale) determina in entrambi i casi l’illegittimità del
provvedimento applicativo.

10.GLI ATTI AMMINISTRATIVI GENERALI

Un atto amministrativo generale è un provvedimento amministrativo che contiene norme generali ma non
astratte, quindi: • generale → l'atto generale si rivolge ad una pluralità di destinatari, non determinati o
determinabili a priori ma soltanto a posteriori, ossia al momento dell'applicazione; • non astratto → non è
applicabile ad una pluralità indeterminata di casi. Cosa distingue un atto amministrativo generale da un atto
normativo?La mancanza dell'astrattezza!!! Pertanto, l'atto (amm.vo) generale, a differenza dell'atto
normativo, non può essere considerato fonte del diritto, proprio perchè manca questo carattere
dell'astrattezza. Il potere di emanare atti normativi deve essere espressamente conferito dalla legge,
mentre si ritiene che nella competenza amministrativa attribuita ad un organo sia implicitamente incluso il
potere di emanare atti amministrativi generali. • A livello statale la competenza è attribuita: - al Governo: al
quale spetta il compito di mantenere l'unità d'indirizzo politico-amministrativo e di coordinare l'attività dei
Ministri, - ai Ministri: che definiscono piani, programmi e direttive generali che trovano poi svolgimento
nell'attività dei dirigenti generali. • A livello locale spetta ai consigli comunali o provinciali che approvano
programmi, piani territoriali etc. Il regime giuridico degli atti amministrativi generali deroga alla l. 241/90
sul regime degli atti amministrativi in senso stretto, ricalcando quello degli atti normativi: - non è richiesta la
motivazione (art. 3 l. 241/90); - il procedimento non prevede la partecipazione dei privati (art. 13 l. 241/90);
- l'attività di amministrazione diretta alla loro emanazione è esclusa dal diritto di accesso (art. 24 l. 241/90);
- per molti atti generali è richiesto l'obbligo di pubblicazione e ciò accentua la loro valenza regolatoria. Tipi
di atti amministrativi generali: 1. bandi di concorso e avvisi di gara; 2. atti di pianificazione e di
programmazione (piani e programmi); 3. ordinanze contingibili e urgenti; 4. direttive e atti di indirizzo; 5.
“norme” interne – circolari.

11. A) BANDI DI CONCORSO E AVVISI DI GARA

Le P.A. organizzano concorsi sia per assumere personale sia per assegnare appalti/contratti di fornitura. I
bandi e avvisi di gara sono atti che disciplinano nel dettaglio le regole del concorso (es. quanti e quali posti
ci sono, specificano i requisiti per parteciparvi, indicano quali sono i documenti da presentare etc.). Sono
atti amministrativi generali perchè si rivolgono a persone indeterminate che non si conoscono e il bando
disciplina solo quella disciplina: quando si esaurisce il concorso, il bando termina i suoi effetti. Quando una
P.A. viola una disposizione del bando, il risultato del concorso è illegittimo perchè l’atto a monte è viziato.

12. B) ATTI DI PIANIFICAZIONE E DI PROGRAMMAZIONE (piani e programmi)

Una delle esigenze che presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi è che esso avvenga in modo
ordinato e coerente con una stretegia complessiva. In molte materie, pertanto, la legge prevede un’attività
di pianificazione o programmazione con la quale si prefigurano obiettivi, limiti contingenti, priorità e altri
criteri che presiedono all'esercizio dei poteri amministrativi e all'attività degli uffici pubblici (es. rilascio dei
permessi di costruzione nel rispetto dei piani regolatori comunali etc.). L'attività di pianificazione serve
anche a creare i raccordi tra i diversi livelli di governo (Stato, Regioni e Comuni) secondo il metodo della
“pianificazione a cascata” (es. in materia sanitaria, l'attività di programmazione si articola nel piano
sanitario nazionale e, a livello regionale, nei piani sanitari regionali). Il piano regolatore è lo strumento
principale di governo del territorio da parte dei comuni. Suddivide: • zonizzazione → divisione in zone
omogenee, con l'indicazione per ciascuna di esse delle attività insediabili in base a criteri e a parametri
definiti in modo uniforme a livello nazionale (attività edificatoria, agricola, industriale etc.) • localizzazione
→ divisione in zone destinate a edifici - infrastrutture pubbliche o ad uso pubblico. Se la localizzazione
riguarda terreni di proprietà privata, essa determina un vincolo di inedificabilità della durata di 5 anni
(salvaguardia e misure di salvaguardia → si preclude la possibilità di rilasciare permessi a costruire non
compatibili con le nuove prescrizioni, fin dalla adozione formale del piano), che decade se nel frattempo
non interviene l'espropriazione. Il piano regolatore è approvato all'esito di un procedimento aperto alla
partecipazione dei privati. Infatti, il piano viene adottato dal comune e pubblicato per 30 gg. al fine di
consentire agli interessati di prenderne visione e di presentare osservazioni. Il piano adottato deve essere
poi approvato dalla Regione (pubbl. in Gazzetta della Regione). In definitiva, il piano regolatore si qualifica
come un atto complesso che prevede il coinvolgimento del Comune e della Regione con poteri propri.
Natura mista del piano (si discute se il piano sia un atto normativo o atto amministrativo generale): → da un
lato, dispongono in via generale ed astratta in ordine al governo ed all'utilizzazione dell'intero territorio
comunale; → dall'altro, contengono istruzioni, norme e prescrizioni di concreta definizione, destinazione e
sistemazione di singole parti del comprensorio urbano.

13. C) ORDINANZE CONTINGIBILI E URGENTI

Servono ad affrontare una situazione d'emergenza ed imprevedibile, quando tale situazione sia tale da
mettere a rischio interessi collettivi nazionali come incolumità, sicurezza pubblica o dell'ambiente. In tal
caso si attribuisce ad un organo (solitamente monocratico), il potere di adottare misure per affrontare
queste situazioni, di solito non precisate proprio perchè imprevedibili, ovvero si possono tipizzare solo
dopo che si sono realizzate (ex post): questo potere lo hanno il Prefetto, il Sindaco (in ambito locale) e il
Ministro. L'autorità competente è dotata di ampia discrezionalità sia nel momento in cui apprezza in
concreto se la situazione di fatto giustifichi l'esercizio del potere di ordinanza, sia nel momento in cui essa
individua le misure specifiche da adottare. È richiesta comunque una motivazione adeguata. Derogano al
principio di tipicità degli atti amministrativi. Deficit di tipicità: • limiti esterni → si è cercato di compensare il
deficit attraverso la Corte Costituzionale e altra giurisprudenza, che ha introdotto limiti che possono
derogare le norme di dettaglio, ma mai i principi generali dell'ordinamento giuridico e i principi della
Costituzione. Inoltre deve esserci una temporaneità delle misure adottate, quindi efficacia limitata e
devono essere sempre motivate e pubblicizzate. • limite interno → principio di proporzionalità e quindi il
contenuto deve essere rigidamente calibrato in funzione dell'emergenza in concreto fronteggiata. Le
ordinanze possono essere classificate come extra ordinem, a carattere residuale rispetto a norme vigenti.
C'è anche da dire che se l'ordinanza si protrae nel tempo, acquista necessariamente anche un carattere di
astrattezza e perde il carattere della temporaneità. • Atti necessitati ≠ ordinanze → gli atti necessitati hanno
come presupposto l'urgenza ma gli effetti sono predefiniti in tutto e per tutto (dalla norma attributiva del
potere).

14. D) DIRETTIVE E ATTI DI INDIRIZZO

Affini agli atti di pianificazione (in quanto espressione della funzione di indirizzo politico amm.vo), sono le
direttive amministrative. Caratteristica delle direttive amministrative è il loro contenuto, cioè le direttive
non contengono prescrizioni puntuali e vincolanti in modo assoluto (come accade, ad esempio, nel caso
delle fonti primarie e secondarie), ma hanno un contenuto che è limitato all’indicazione di fini e obiettivi da
raggiungere, criteri di massima e mezzi per raggiungere tali fini. Hanno un alto grado di elasticità e
consentono ai loro destinatari spazi di valutazione e di decisione più o meno estesi in modo tale da poter
tener conto in sede applicativa di tutte le circostanze del caso concreto. Possono suddividersi in: •
interorganiche → hanno valore organizzativo interno alla P.A. Sono le direttive con le quali un organo
sovraordinato orienta l'attività dell'organo sottordinato. Laddove il rapporto interorganico abbia un
carattere propriamente gerarchico (es. Ministro dell’Interno nei cfr. dei Prefetti), la direttiva può essere
usata talvolta in luogo dell’atto tipico che è l'ordine gerarchico (es. militari), che è l’atto tipico dei rapporti
di gerarchia in senso stretto, che ha contenuto puntuale ed è riferito ad una situazione concreta. Laddove,
invece, l’organo sottordinato mantenga una certa autonomia, la direttiva acquista contorni più tipici e
connota appunto un rapporto organico, usualmente definito come rapporto di direzione. Atto tipico dei
rapporti di direzione è quello tra Ministri e Dirigenti Generali: il Ministro può indirizzare l'attività del
Dirigente, può controllarla e il Dirigente può anche rispondere della mancata attuazione dell'indirizzo. Al
Ministro, di contro, è preclusa ogni competenza regionale e amministrativa diretta e può solo formulare
direttive generali per l'attività amministrativa e per la gestione ed esercitare un controllo ex post. Il Ministro
non può avocare a sé o sostituirsi nella competenza del Dirigente Generale, che mantiene una certa
autonomia. • intersoggettive → strumenti attraverso i quali il Ministro competente o la Regione (es.),
esercitano il potere di indirizzo nei confronti di enti pubblici strumentali, la cui attività deve essere resa
coerente con i fini istituzionali propri del Ministero di settore o della Regione. Storicamente, soprattutto
nella metà del 1900, sono state previste di frequente dal legislatore nel campo del diritto dell’economia.
Interi settori di imprese (p.es. le aziende di credito) o particolari categorie di enti pubblici economici (enti di
gestione di partecipazioni statali quali IRI, ENI, EFIM, Cassa per il Mezzogiorno) furono sottoposti a poteri di
indirizzo, oltre che di vigilanza, assai penetranti. La direttiva, con il suo carattere di elasticità, tentava di
conciliare l’esigenza di mantenere un legame istituzionale stretto (rispetto al versante della politica
governativa) con l’esigenza di assicurare una certa libertà di azione a soggetti in massima parte pubblici ma
operanti in regime in gran parte privatistico. Via via tali direttive sono state sempre meno usate (sino a
metà degli anni ’90, in cui è stata smantellata l’intera struttura di governo delle partecipazioni statali). In
occasione della riforma del Governo (d.lgs 300/99 – “Riforma dei Ministeri”), la direttiva è stata prevista per
creare un raccordo tra ministero di settore e le agenzie, istituite per lo svolgimento di particolari attività a
carattere tecnico-operativo (es. agenzie fiscali) e dotate di ambiti di autonomia funzionale e finanziaria
oppure tra Ministro vigilante ed enti pubblici strumentali.

15. E) NORME INTERNE E CIRCOLARI

Si elevano all'interno di un certo apparato amministrativo e hanno lo scopo di guidare e regolare l'attività
amministrativa degli uffici pubblici. Quindi non è volta a disciplinare comportamenti di enti/uffici esterni ma
solo quelli interni. • Ordinamenti sezionali o derivati (ordinamento giuridico particolare) → nel diritto
pubblico, il tema delle norme interne si ricollega alla ricostruzione dell’ordinamento della P.A. come
ordinamento giuridico particolare (sezionale o derivato), in qualche misura separato (autonomo)
dall’ordinamento generale statuale (considerati separati e distinti dall'ordinamento generale). Es.
ordinamento sportivo. All’interno dello Stato-Ordinamento (stato-Comunità) si colloca lo Stato-
Amministrazione, che costituisce uno dei tanti soggetti (quello più rilevante) dell’ordinamento statuale. In
base alla teoria della pluralità degli ordinamenti (Romano), ciò che avviene all’interno di ciascun
ordinamento particolare non ha sempre una rilevanza nell’ordinamento generale. Sono ammesse anche
norme derogatorie rispetto a quelle applicabili alla generalità dei consociati. Gli ordinamenti sezionali o
derivati si fondano su alcuni elementi costitutivi: a) la plurisoggettività (dei soggetti che costituiscono
l'ordinamento, che entrano tramite atti d'iscrizione, atti di ammissione); b) organizzazione interna stabile
all'interno della quale ci sono determinati ruoli e competenze; c) presenza di norme interne emanate dagli
organi preposti all’ordinamento speciale e rese effettive da un sistema di sanzioni anch’esse interne. d)
istituzione di organi giustizionali speciali (commissioni di disciplina, corti arbitrali sportive etc). Le norme
interne possono assumere variamente la forma di regolamenti interni, di istruzione e ordini di servizio,
direttive generali ecc. Il modello degli ordinamenti giuridici settoriali è stato via via superato dall'entrata in
vigore della Costituzione, che non ammette, se non entro limiti assai ristretti, la rinuncia o la compressione
dei diritti fondamentali. Le norme interne e i comportamenti assunti sulla base di essi hanno sempre
assunto più valore esterno → in caso di infortunio nel calcio per es. si può avere “cartellino rosso” secondo
ordinamento settoriale sportivo calcistico ma anche chiedere risarcimento del danno subito attraverso
l'ordinamento generale. La distinzione tra norme interne e norme esterne si sta andando sempre più
attenuando: a ciò ha contribuito anche la l. 241/90 che introduce l'obbligo di pubblicazione delle norme
interne (direttive, programmi, le istruzioni, le circolari e ogni atto che dispone in generale sulla
organizzazione, sulle funzioni, sugli obiettivi, sui procedimenti di una pubblica amm.ne, ovvero nel quale si
determina l’interpretazione di norme giuridiche o si dettano disposizioni per l’applicazione di esse) per farle
assumere valenza esterna (gli obblighi di pubblicità sono stati confermati anche per finalità di prevenzione
della corruzione iac d.lsg. 33/2013). Inoltre se una norma interna è violata da un provvedimento
amministrativo, il giudice amministrativo può censurarlo per eccesso di potere. • Una specie sui generis di
norma interna è costituita dalla prassi amministrativa, cioè dalla condotta uniforme assunta dal tempo dagli
uffici (da non confondersi con la consuetudine, che invece è fonte di diritto perché si forma un
convincimento generalizzato della sua obbligatorietà). Circolare → lo strumento di orientamento e di guida
principale dell'attività amministrativa. Secondo la definizione classica, la circolare è “un atto di un'autorità
superiore che stabilisce in via generale ed astratta regole di condotta di autorità inferiori nel disbrigo degli
affari d'ufficio”(Cammeo). Nella vita quotidiana sono considerate uno strumento di orientamento e di guida
degli uffici amministrativi che, di fatto, ha per questi un grado di cogenza, superiore alle norme giuridiche
anche di rango primario. Siccome il contenuto delle circolari può essere il più vario (possono contenere
ordini, direttive, interpretazioni di legge e altri atti normativi) perdono così il carattere di atto
amministrativo tipico e conservano soltanto il significato di strumento di comunicazione di atti, ciascuno dei
quali aventi una propria configurazione tipica. Esistono tre tipologie di circolari: 1. interpretative → servono
a rendere omogenea l'applicazione di nuove normative da parte della P.A. L'inferiore a livello gerarchico si
deve attenere all'interpretazione indicata dal superiore gerarchico negli stessi limiti entro i quali deve
ottemperare alle istruzioni e agli ordini emanati da quest'ultimo. L'interpretazione non è vincolante. 2.
normative → funzione di orientare l'esercizio del potere discrezionale degli organi titolari di poteri
amministrativi. Esse non hanno per oggetto l’interpretazione delle norme da applicare, bensì gli spazi di
valutazione discrezionale rimessi dalla legge all'autorità amministrativa. 3. informative → vengono diffuse
all'interno dell'organizzazione notizie , informazioni e messaggi di varia natura e in questo senso possono
essere assimilate a bollettini e newsletter specializzate e a diffusione limitata previste in molti contesti
anche privati.

16. TESTO UNICO E CODICE

Data la necessità (emersa intorno agli anni ’90) di riorganizzare la legislazione in determinate materie più
importanti, si è avuta un’evoluzione dello strumento dei testi unici, ovvero l’unificazione di norme già
esistenti, per farne un coordinamento formale. Si distinguono in testi unici innovativi e quelli di mera
compilazione: - innovativi: sono emanati su autorizzazione legislativa→ sono fonti di diritto in senso proprio
di rango primario o secondario a seconda del tipo di autorizzazione legislativa (determinano l'abrogazione
delle leggi precedenti). - mera compilazione: sono invece emanati su iniziativa autonoma del Governo e
hanno la funzione pratica di unificare in un unico testo le disposizioni di una materia. Il Codice invece è più
ambizioso perché ha un intento sistematico e avrebbe valenza di fonte primaria.

17. SVILUPPI RECENTI

La funzione di regolazione dello stato si sta sempre più evolvendo e mette in crisi le tradizionali
classificazioni in tema di fonti normative e di atti amministativi. - Una prima linea direttrice di evoluzione è
rappresentata dalla cosidetta Soft Law: tale evoluzione, proveniente dai paesi anglosassoni, prevede che
alcune autorità di regolazione (Consob, Banca d’Italia ecc.) pubblichino nei loro bollettini o nei loro siti atti e
note informative (ovvero strumenti informali), denominati (variamente) inviti, segnalazioni, messaggi, volti
a influenzare i comportamenti delle autorità amministrative e degli amministrati. Il grado di effettività della
soft law dipende essenzialmente dall’autorevolezza dell’organo da cui essa promana (es. la moral suasion
esercitata in via informale dalla Banca d’Italia nei confronti degli istituti di credito…). Altra forma evolutiva
si verifica con la cosidetta Comply or Explain, dove il regolatore non impone regole uguali per tutti ma
propone una soluzione ritenuta ottimale, non vincolante, per il singolo destinatario che, se non accetta,
dovrà motivare e accollarsi le responsabilita del caso. Questo sistema è applicato in molti paesi a livello
europeo nei codici di “Corporate Governance” che individuano l’assetto organizzativo di vertice delle
società, incluso il sistema dei controlli interni. Più flessibile appare una corrente di pensiero ispirata al
cosiddetto Paternalismo Libertario: in questo caso lo stato, anziché obbligare i soggetti (magari
minacciando sanzioni), individua una opzione preferibile per la tutela dei reali interessi dei soggetti privati,
senza però eliminare la loro possibilità di scelta. L’opzione proposta dai poteri pubblici si applica, per così
dire, di default, ovvero in mancanza di una diversa manifestazione di volontà esplicita del soggetto
interessato (i sistemi opt out sono preferibili rispetto agli opt in in quanto producono risultati migliori dal
punto di vista dell’interesse dello stesso soggetto privato e, in definitiva, dell’interesse pubblico). - Una
seconda linea direttrice dell’evoluzione consiste nell’emergere di ipotesi nelle quali la funzione di
regolazione è cogestita dal regolatore pubblico e da soggetti privati. Ultimamente, leggi recenti di
derivazione europea hanno reso obbligatorio attribuire ad autorità amministrative indipendenti il potere di
regolazione nei procedimenti di interesse. Altro modello di coregolazione moderna emerso in Italia è quello
della Autoregolazione Monitorata, prevista per l’organizzazione e la gestione dei mercati regolamentati di
strumenti finanziari, che può essere svolta da società di gestione del mercato, cioè da soggetti privati.
Questi hanno, tra l’altro, il compito di predisporre un regolamento di disciplina del mercato (il regolamento
approvato è poi sottoposto a controllo pubblicistico da parte della Consob). Altri modelli di coregolazione
sono rapresentati dai codici di rete per la definzione delle condizioni tecniche di accesso alle reti elettriche
e del gas: l’Aurotità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico definisce in modo più o meno dettagliato
il modello, che spetta poi ai titolari di rete ulteriormente specificare, sottoponendo la relativa proposta di
codice all’esame dell’Autorità. I procedimenti sanzionatori, volti all’accertamento di un illecito, spesso si
chiudono con l’emissione di una sanzione. Tuttavia, a volte, la P.A. (in casi meno gravi), accetta un impegno
da parte di un privato che possiede un carattere obbligatorio (qualora non onorato si tramuta in
procedimento sanzionatorio). - Una terza linea direttrice dell’evoluzione recente consiste nell’attenuarsi
della distinzione (o nell’emergere di una qualche fungibilità) tra procedimenti normativi (in senso lato) e
procedimenti amministrativi, che sfociano in provvedimenti individuali. Così, ad esempio, l’autorizzazione
definita come atto amministrativo che consente l’esercizio di un’attività rimuovendo un limite all’esercizio
di un diritto e che è emanata su istanza della parte interessata, acquista una dimensione regolatoria nei casi
in cui la legge preveda l’emanazione da parte dell’autorità amministrativa delle cosiddette autorizzazioni
generali. In materia di tutela della riservatezza, il Garante per la protezione dei dati personali può emanare
autorizzazioni generali che si considerano rilasciate anche senza un’istanza di parte a categorie di
destinatari predeterminate. Altra linea direttrice consiste nell’introduzione di strumenti volti a promuovere
la qualità della regolazione (Better Regulation), per il perseguimento di una pluralità di obiettivi: -
contenere l’iper-regolazione (regulatory inflation); - ridurre gli oneri finanziari e organizzativi; - evitare che
una quantità eccessiva di regole comprometta la competitività del sistema economico etc. L’analisi di
impatto della regolazione (AIR) obbliga le P.A., prima di approvare un atto di regolazione, a individuare
tutte le soluzioni possibili, inclusa la cosiddetta “opzione zero”, cioè non introdurre nuove norme,
valutando costi e benefici di ciascuna di esse e a esplicitarle in un documento che correda la proposta di
atto normativo. Una volta approvate, le norme devono essere sottoposte anche a una verifica ex post che
valuti, in particolare, i loro costi, le eventuali difficoltà applicative e i risultati conseguiti rispetto alle attese.
A questo fine interviene la VIR (verifica impatto della regolamentazione), che consiste in una valutazione
che può sfociare nella proposta di perfezionare, modificare o abrogare le norme emanate.

CAPITOLO 3: IL RAPPORTO GIURIDICO AMMINISTRATIVO


1.LE FUNZIONI E L’ATTIVITA’ AMMNISTRATIVA

La funzione di amministrazione “attiva” è l'esercizio dei poteri amministrativi attribuiti dalla legge ad
apparati pubblici al fine di curare, nella concretezza dei rapporti giuridici con soggetti privati, l'interesse
pubblico. Alcune nozioni per capire il tema: • funzione amministrativa: sono i compiti che la legge individua
come propri di un determinato apparato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata.
L'apparato è tenuto a esercitarle per la cura in concreto dell'interesse pubblico. In relazione ad essa la legge
conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolarità di questi
ultimi tra gli organi che compongono l'apparato (competenze). • l'attività amministrativa: l'esercizio delle
funzioni amministrative comporta lo svolgimento da parte dell'apparato pubblico di una varietà di attività
materiali e giuridiche. L’attività amministrativa consiste, pertanto, nell'insieme delle operazioni,
comportamenti e decisioni posti in essere o assunti da una P.A. nell'esercizio di funzioni affidate ad essa
dalla legge. L'attività è rivolta a uno scopo o a un fine pubblico, cioè alla cura di un interesse pubblico. È
dotata quindi del carattere della doverosità: il mancato esercizio dell'attività può essere fonte di
responsabilità (a differenza di quanto accade nell’ambito dei rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio
della capacità giuridica da parte dei soggetti privati è di regola libera). All’attività amministrativa fa
riferimento l’Art.1 - l. 241/90, secondo il quale “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla
legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza (EEIPT)”. Sotto il
profilo giuridico, la nozione di attività amministrativa va tenuta distinta da quella di atto o provvedimento
amministrativo. Essa si presta a qualificazioni che consentono di valutare in modo complessivo e unitario
l’operato delle singole amministrazioni in termini sia di legalità, sia di efficienza, efficacia ed economicità (si
pensi agli organi di controllo come la Corte dei Conti, preposta al controllo degli enti pubblici). L’atto
amministrativo, invece, si presta a essere valutato soprattutto sotto il profilo della conformità o meno
all’ordinamento (legittimità) e dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto l’interesse pubblico. L’attività
amministrativa può esprimersi, oltre che in operazioni materiali, anche nell’adozione di atti o
provvedimenti amministrativi, che sono la manifestazione concreta dei poteri amministrativi attribuiti dalla
legge a un apparato pubblico.

2.IL POTERE, IL PROVVEDIMENTO, IL PROCEDIMENTO

In relazione a ciascuna funzione e come specificazione della medesima, la legge individua in modo puntuale
i poteri (ordinatori, autorizzativi, ablatori, sanzionatori) conferiti al singolo apparato.

• Potere amministrativo: la nozione di potere è una nozione di teoria generale. Può essere riferita a diversi
poteri (legislativo, giurisdizionale, negoziale, etc. oltre che, ovviamente, a quello amministrativo). I poteri
amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità giuridica speciale di
diritto pubblico, che si concretizza nell'emanazione di provvedimenti produttivi di effetti giuridici nella sfera
dei destinatari. Essa si aggiunge, integrandola, alla capacità giuridica generale di diritto comune, intesa
come attitudine ad assumere la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive previste
dall’ordinamento di cui essi, al pari delle persone giuridiche private, sono dotati. Il potere amministrativo
pone il suo titolare in una posizione di sovraordinazione rispetto al soggetto nella cui sfera giurdica
ricadono gli effetti giuridici prodotti in seguito al suo esercizio. Il potere può essere classificato e diviso in: -
potere in astratto: la legge definisce gli elementi costitutivi di ciascun potere (potere in astratto). Ove
l’amministrazione agisca in mancanza di una norma attributiva del potere, si configura un difetto assoluto di
attribuzione che determina la nullità del provvedimento. Il potere in astratto ha il carattere
dell’inesauribilità, nel senso che fin tanto che resta in vigore la norma attributiva, esso si presta a essere
esercitato in una serie indeterminata di situazioni concrete. - potere in concreto: ogni qualvolta si verifica
una situazione di fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella norma di conferimento del potere,
l'amministrazione è legittimata ad esercitare il potere (potere in concreto o atto di esercizio del potere) e a
provvedere alla cura dell'interesse pubblico. Oltre che legittimata, l’amministrazione è tenuta ad avviare un
procedimento che si conclude con l’emenazione di un atto o provvedimento autoritativo, idoneo a incidere
unilateralmente nella sfera giuridica del soggetto destinatario.

• Atto e provvedimento amministrativo: nell'ordinamento italiano manca una definizione legislativa di atto
o provvedimento amministrativo. Nel nostro ordinamento l’atto amministrativo costituisce invece una
nozione, elaborata essenzialmente dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Possono ricavarsi alcune
indicazioni sia dalla Costituzione che da alcune leggi generali. L'art. 113 Cost. stabilisce che “contro gli atti
della P.A., è sempre ammessa la tutela giurisdizionale”. La legge determina quali organi giurisdizionali
“abbiano il potere di annullare gli atti della P.A. nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Queste
disposizioni richiamano 2 aspetti del regime giuridico degli atti amministrativi: 1. la loro sottoposizione
necessaria, costituzionalmente garantita a un controllo giurisdizionale, operata dal giudice amministrativo e
dal giudice ordinario; 2. la loro annullabilità nei casi di accertata difformità dei medesimi rispetto alle norme
giuridiche. Sul piano storico, la nozione di atto amministrativo assunse una rilevanza autonoma alla fine del
XIX secolo, allorquando venne istituito in Italia un giudice amministrativo, distinto da quello ordinario, allo
scopo di sindacare l’operato delle P.A., che tendevano ad abusare dei loro poteri. Il giudice amministrativo,
il cui nucleo era rappresentato dalla IV Sezione del Consiglio di Stato (istituita nel 1889), si pose subito il
problema di quali caratteristiche minime dovessero avere gli atti amministrativi per essere sottoposti al
controllo giurisdizionale: così facendo contribuì a elaborare la teoria dell’atto amministrativo. L’art. 26 T.U.
leggi sul Consiglio di Stato approvato con R.D. 105/1924, abrogato dal codice del processo amministrativo
(d.lgs. 104/2010) e sostituito con disposizioni analoghe, stabiliva che il giudice amministrativo “può
decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e
provvedimenti di un'autorità amministrativa che abbiano per oggetto un interesse d'individui o di enti
morali giuridici”. Doveva trattarsi, quindi, di un atto emanato da un'autorità amministrativa ritenuto
illegittimo (per le sopracitate cause) e che fosse lesivo per la sfera giuridica di un privato (interesse
legittimo). Altre disposizioni legislative rilevanti si ritrovano nella l. 241/90, come integrata dalla l. 15/2005,
che pone una disciplina generale del procedimento amministrativo e dell’atto amministrativo. L’Art.1
l.241/90 stabilisce che la P.A. agisce, di regola, secondo le norme del diritto privato “nell’adozione di atti di
natura non autoritativa”. Questi ultimi vanno pertanto distinti da quelli aventi natura autoritativa per i
quali, invece, vale il regime pubblicistico proprio degli atti amministrativi. L’art. 3 l. 241/90 stabilisce che
ogni provvedimento deve essere motivato (≠ dagli atti privati, dove vige l'irrilevanza dei motivi). L’art. 7
prevde che l’avvio del procedimento deve essere comunicato “ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti”. Questi provvedimenti richiamano
implicitamente un’altra caratteristica dei provvedimenti e cioè l’autoritarietà (o imperatività), intesa come
attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti giuridici nei confronti dei terzi.

Provvedimento amministrativo (subcategoria più importante degli atti amministrativi): “manifestazione di


volontà, espressa dall'amministrazione titolare del potere all'esito di un procedimento amministrativo,
volta alla cura, in concreto, di un interesse pubblico e tesa a produrre (in modo unilaterale) effetti giuridici
nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento medesimo” (es. decreto di espropriazione,
un’autorizzazione, una sanzione amministrativa).

• Il procedimento amministrativo: la l. 241/90 richiama già nel titolo e poi in numerose disposizioni la
nozione di procedimento amministrativo, anche se la legge stessa non fornisce una definizione di
procedimento (a differenza si quanto fanno le omologhe leggi di altri ordinamenti). Le leggi amministrative
attribuiscono alle P.A. poteri finalizzati alla cura degli interessi pubblici: l'esercizio del potere avviene
secondo il modulo del procedimento amministrativo, definito come “la sequenza di atti ed operazioni (tra
loro collegati funzionalmente) in vista ed al servizio dell’emissione dell’atto principale, cioè per la emissione
di un provvedimento amministrativo (che vada a produrre effetti nella sfera giuridica di un soggetto
privato). Il procedimento amm.vo svolge diverse funzioni (che analizzeremo al cap. 5). Il procedimento
costituisce, in realtà, la modalità ordinaria di esercizio di tutte le funzioni pubbliche corrispondenti ai 3
poteri dello stato, in considerazione delle esigenze di accentuare la trasparenza e di garantire meglio la
tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti che sono espressione diretta dell’autorità dello Stato: - la
funzione legislativa assume la forma del procedimento legislativo (disciplinato dalla Costituzione dai
regolamenti parlamentari e finalizzato all’emanazione di atti con “forza o valore di legge”); - la funzione
giurisdizionale assume quella del processo, improntato al principio del contraddittorio e disciplinato dai vari
codici processuali e si conclude con una sentenza dotata dell’autorità del giudicato; - la funzione
amministrativa si manifesta nel procedimento amministrativo, che si conclude con un provvedimento
dotato di autoritarietà o imperatività. Nel diritto privato, invece, l’attività che precede l’adozione di atti
negoziali è tendenzialmente irrilevante per il diritto e resta relegata alla sfera interna del soggetto, sia esso
persona fisica o persona giuridica.

3.IL RAPPORTO GIURIDICO AMMINISTRATIVO

la funzione di amministrazione attiva pone la P.A. titolare di un potere in una situazione di tipo relazionale
con i soggetti privati destinatari del provvedimento emanato. Solo nella giurisprudenza recente ha trovato il
suo spazio il rapporto giuridico amministrativo, ovvero il rapporto tra P.A. (che esercita un potere) e un
privato (titolare di un interesse legittimo). Quali sono i caratteri di tale rapporto (potere amministrativo vs.
interesse legittimo)? Prima di vederlo, bisogna partire da alcuni concetti base di diritto privato (cenni). I
rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti partendo dalla coppia diritto soggettivo-obbligo, i cui
termini si imputano, rispettivamente, al soggetto attivo e passivo del rapporto.
1) Diritto soggettivo-obbligo: il diritto soggettivo consiste in un potere di agire (riconosciuto e garantito
dall'ordinamento giuridico), per soddisfare un proprio interesse. Alla titolarità corrisponde in capo al
soggetto passivo un obbligo: es. un dovere generico e negativo di astensione, ovvero non interferire o
turbare l’esercizio del diritto (diritti assoluti, come i diritti reali e della personalità). Questo è un rapporto
paritario tra soggetti che agiscono nell’esercizio della loro capacità negoziale.
2) Potestà: situazione giuridica soggettiva attiva che, a differenza di quanto accade per il diritto soggettivo
attivo, è attribuita al singolo soggetto per il soddisfacimento di un interesse altrui. Si tratta, cioè, di un
potere-dovere, nel senso che il soggetto è tenuto a esercitarla secondo criteri “non già di pieno” ma di
“prudente arbitrio” e nel farlo deve perseguire la finalità della cura dell’interesse altrui (nel diritto di
famiglia, tipicamente, la potestà genitoriale).
3) Una particolare categoria di diritti soggettivi è costituita dal diritto potestativo: esso consiste nel potere
di produrre un effetto giuridico, con una propria manifestazione unilaterale di volontà. Ciò sul presupposto
di una prevalenza attribuita dalla norma all'interesse del titolare del potere rispetto a quello del soggetto
che subisce una modificazione nella propria sfera giuridica: quest’ultimo si trova in uno stato, definito, di
soggezione, ovvero nella posizione di colui sul quale ricadono, ineluttabilmente (ovvero indipendentemente
dalla propria volontà e senza che gli sia richiesta alcuna attività), le conseguenze della dichiarazione di
volontà altrui. I casi più tipici di diritto potestativo nei rapporti interprivati sono il diritto di prelazione,
diritto di riscatto nella compravendita, diritto di recesso, revoca del mandato etc. Questo è un rapporto non
paritario, molto simile al diritto amministrativo, che anch'esso può produrre un effetto costitutivo,
modificativo o estintivo di una situazione giuridica in modo unilaterale.
La produzione degli effetti giuridici segue usualmente lo schema norma-fatto-effetto giuridico. Il modo di
operare di questo schema, che è tipico delle relazioni ricostruibili in termini di diritto soggettivo-obbligo,
può essere così delineato: la norma individua gli elementi della fattispecie e l’effetto giuridico che ad essa si
ricollega, ponendo direttamente essa stessa la disciplina degli interessi in conflitto in relazione a un
determinato bene. Tutte le volte che nella vita economica e sociale si verifica un fatto concreto che è
riconducibile nella fattispecie normativa si produce, in modo automatico un effetto giuridico. Il diritto
conosce anche un’altra tecnica di produzione degli effetti che segue lo schema norma-fatto-potere-effetto
giuridico: questa sequenza si differenzia da quella sopra poiché viene meno l’automatismo nella produzione
dell’effetto giuridico: infatti, il verificarsi di un fatto concreto conforme alla norma attributiva del potere
determina in capo a un soggetto, il titolare del potere, la possibilità di produrre l’effetto giuridico
individuato a livello di fattispecie normativa attraverso una propria dichiarazione unilaterale di volontà. Tra
il fatto e l’effetto giuridico si interpone un elemento aggiuntivo, il potere e il titolare di quest’ultimo è libero
di decidere se provocare con una propria manifestazione di volontà l’effetto giuridico tipizzato dalla norma.
È questo lo schema proprio del diritto potestativo.
Il diritto potestativo può essere suddiviso in: 1. diritto potestativo stragiudiziale → l'effetto giuridico
discende direttamente dalla manifestazione di volontà del titolare del potere (es. licenziamento di un
lavoratore: anche in questo caso vi può essere intervento giudiziale ma ex-post rispetto alla produzione
dell'effetto giuridico). 2. diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale → l'effetto giuridico discende da
un previo accertamento giudiziale, in aggiunta alla dichiarazione di volontà del titolare del potere (es.
separazione giudiziale tra coniugi). Il potere amministrativo rientra nello schema del diritto potestativo del
primo tipo (stragiudiziale). La produzione dell'effetto giuridico discende in modo immediato dalla
dichiarazione di volontà della P.A. che emana il provvedimento. L'accertamento giudiziale può avvenire solo
ex-post innanzi al giudice amministrativo su iniziativa del soggetto privato nella cui sfera giuridica l'atto
impugnato ha prodotto l'effetto. Perché si sceglie il primo tipo? Per garantire l'immediata realizzazione
dell'interesse pubblico, la cui cura è affidata all'amministrazione. Specificità del potere amministrativo
rispetto al diritto potestativo stragiudiziale.

- Rapporti interprivati: • Il diritto potestativo stragiudiziale trova un fondamento consensuale di tipo


pattizio (es. contratto di lavoro). • La fattispecie descritta dal diritto potestativo è vincolata e non trova
spazio discrezionalità. Il solo ambito di scelta riconosciuto al titolare del diritto attiene al se esercitarlo.
- Rapporto amministrativo: • L'atto amministrativo trova fondamento nella legge, cioè nella norma di
conferimento del potere. • Il potere conferito dalla legge alla PA non è sempre integralmente vincolato ma
può esser lasciato spazio alla discrezionalità. Potere Amministrativo: la legge attribuisce tale potere ad una
amministrazione dello stato.

4.LA NORMA ATTRIBUTIVA DEL POTERE

Secondo una classificazione tradizionale, le norme che si riferiscono alla PA sono di due tipi: -norme di
azione, che disciplinano il potere amministrativo nell'interesse esclusivo della PA, hanno come scopo quello
di assicurare che l'emanazione degli atti sia conforme a parametri predeterminati e non hanno una
funzione di protezione dell'interesse dei soggetti privati. -norme di relazione: sono volte a regolare i
rapporti intercorrenti tra l'amministrazione e i soggetti privati, a garanzia anche di quest'ultimi, definendo
direttamente l'assetto degli interessi e dirimendo i conflitti insorgenti tra cittadino e PA. Da questa
ricostruzione dicotomica (norma di azione che segna i limiti interni al potere volti a guidare l’attività di
amministrazione e norma di relazione che segna i limiti esterni tracciando i confini tra la sfera giuridica dei
soggetti privati rispetto a quella dell’amministrazione) ne derivano alcune conseguenze come es.: la
distinzione tra interesse legittimo correlato alla prima e diritto soggettivo correlato alla seconda;
l'applicazione della annullabilità o della nullità degli atti che violano una o l'altra tipo di norma;
l'attribuzione delle controversie al giudice amministrativo o al giudice ordinario. In realtà anche alle norme
che disciplinano l'attività amministrativa va riconosciuta ormai una valenza relazionale e una funzione di
tutela dell'interesse del soggetto privato. Appare dunque preferibile utilizzare la formula più generica di
norma attributiva del potere. In attuazione del principio di legalità, la norma attributiva del potere individua
in astratto gli elementi caratterizzanti il potere in astratto attribuito ad un apparato pubblico:

1) il soggetto competente, uno e uno solo soggetto, oppure uno e uno solo organo. Violazione ->
incompetenza

2) il fine pubblico (o interesse pubblico primario), è l'interesse pubblico primario affidato alla cura
dell'apparato amministrativo titolare del potere La norma orienta le scelte effettuate in concreto
dall'amministrazione e condiziona la legittimità del provvedimento emanato. Violazione -> vizio di eccesso
di potere per sviamento.
3) i presupposti e requisiti (fatti costitutivi del potere). Il potere può essere più o meno ampliamento
vincolato o più o meno discrezionale, questo a seconda del grado di analitici richiesto nell’individuazione
del loro contenuto: poteri integralmente vincolati → l'amministrazione non ha altro compito se non quello
di verificare, in modo quasi meccanico, se nella fattispecie concreta siano rinvenibili tutti gli elementi
indicati dalla norma attributiva e, nel caso positivo, di emanare il provvedimento che produce gli effetti
anch'essi rigidamente predeterminati dalla norma; poteri sostanzialmente in bianco → es. le ordinande
d'urgenza e di necessità che rimettono al soggetto titolare del potere spazi pressoché illimitati di
apprezzamento, di valutazione delle fattispecie concrete e di determinazione delle misure necessarie. La
discrezionalità emerge quando una norma autorizza ma non obbliga l’amministrazione ad emanare un
certo provvedimento. Gli spazi di valutazione dei fatti costitutivi del potere sono tanto più ampi tanto più la
norma si rifà a concetti giuridici indeterminati. Questi concetti possono essere divisi in: a) concetti empirici
o descrittivi, che si riferiscono al modo di essere di una situazione di fatto ed involgono giudizi di carattere
tecnico-scientifico e coprono l'area delle valutazioni tecniche; b) concetti normativi o di valore, che
contengono un ineliminabile elemento di soggettività ed involgono giudizi di valore e coprono l'area della
discrezionalità amministrativa. Con riguardo ai primi l’indeterminatezza rende problematica la sussunzione
della fattispecie concreta al parametro normativo; con riguardo ai secondi è a monte la stessa
interpretazione in astratto del parametro normativo a presentare margini di opinabilità.

4) le modalità di esercizio del potere e i requisiti di forma. La forma solita richiesta dalla norma per il
provvedimento è quella scritta; inoltre la norma individua la sequenza di atti e adempimenti necessari per
l'emanazione del provvedimento, che insieme danno origine al procedimento amministrativo.

5) l’elemento temporale dell'esercizio del potere. La norma può individuare un termine per l'avvio dei
procedimenti d'ufficio, il termine massimo entro la quale l'amministrazione deve emanare il provvedimento
conclusivo, i tempi per l’adozione degli atti endoprocedimentali.

6) gli effetti giuridici. Dato che i provvedimenti, come detto prima, rientrano nella categoria dei diritti
potestativi stragiudiziali, i loro effetti possono costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche di cui
sono titolari i destinatari dei provvedimenti (effetti costitutivi)

5.IL POTERE DISCREZIONALE

La discrezionalità, che può essere riferita oltre che al potere, anche all’attività ed al provvedimento
amministrativo, costituisce la nozione più caratteristica del diritto amministrativo. Essa si rinviene, in realtà,
anche in altri ambiti del diritto pubblico (si parla infatti di discrezionalità del legislatore, del giudice etc.).
Nel diritto amministrativo, la discrezionalità connota l’essenza dell’amministrare, cioè della cura (in
concreto) degli interessi pubblici. Tale attività presuppone che l’apparato titolare del potere abbia la
discrezione di scegliere la soluzione migliore per ogni caso concreto. Sembra una contraddizione in termini,
poichè fin ora abbiamo sempre affermato che le amministrazioni sono vincolate a ciò che sancisce la norma
di riferimento. Tuttavia, dobbiamo anche ricordare che le situazioni soggettive possono anche essere
diverse da quelle menzionate nella fattispecie tipica e quindi è a quel punto che entra in gioco la
discrezionalità dell’apparato, che dovrà dare conto sempre al principio della legalità ma con qualche spazio
di manovra. Emerge qui una tensione quasi insanabile con il principio di legalità inteso in senso sostanziale,
che nella sua accezione più estrema porterebbe ad attribuire all’amministrazione soltanto poteri vincolati.
Ma questo è impossibile e inopportuno in quanto le situazioni concrete nelle quali l’amministrazione deve
intervenire hanno un grado ineliminabile di contingenza e imprevedibilità tale da richiedere nel decisore
uno spazio di adattabilità della misura da disporre. Sorge il problema di come conciliare due esigenze:
attribuire all’amministrazione quel tanto di discrezionalità che consente la flessibilità necessaria per gestire
i problemi della collettività ed evitare che questa si traduca in arbitrio. Su questo punto emerge una
differenza rispetto al diritto privato nel quale l’autonomia negoziale è espressione della libertà dei privati di
provvedere alla cura dei propri interessi. Invece, l’amministrazione titolare di un potere ha un ambito di
libertà più ristretto, in quanto la scelta tra una pluralità di soluzione può avvenire non solo nel rispetto dei
limiti posti dalla norma di conferimento del potere e dei principi generali dell’azione amministrativa, ma
anche nel rispetto del dovere di perseguire il fine pubblico. Quindi, la discrezionalità amministrativa
consiste nel limite di scelta che la norma rimette all’amministrazione affinché essa possa individuare, tra
quelle consentite, la soluzione migliore per curare nel caso concreto l’interesse pubblico. L’interesse
primario deve essere messo a confronto e valutato con gli interessi cosiddetti secondari rilevanti. In alcuni
casi sono individuati dalle norme che disciplinano il particolare tipo di procedimento, in altri vengono fuori
nel corso dell’istruttoria. Tra gli interessi secondari si annoverano non soltanto gli altri interessi pubblici
incisi dal provvedimento, ma anche gli interessi dei privati, i quali possono partecipare al procedimento allo
scopo di rappresentare il proprio punto di vista con la presentazione di memorie e documenti che
l’amministrazione ha l’obbligo di valutare.
Possiamo affermare che la discrezionalità amministrativa incide su 4 elementi distinti: 1) sull’an, se
esercitare il potere ed emanare un provvedimento in una determinata situazione concreta; 2) sul quid,
ovvero sul contenuto del provvedimento; 3) sul quomodo, sulle modalità da seguire per l’adozione di un
provvedimento al di là della disciplina dettata dalla legge; 4) sul quando, ovvero sul momento più
opportuno per esercitare tale potere ed avviare il procedimento.
In base alla norma di conferimento, un potere può essere discrezionale o vincolato in relazione a uno o più
di questi elementi. Occorre porre l’attenzione sulla distinzione tra discrezionalità in astratto e vincolatezza
in concreto: all’esito dell’attività istruttoria e della ponderazione di interessi può darsi che residui un’unica
scelta legittima tra quelle consentite in astratto dalla legge, per cui nel corso del procedimento la
discrezionalità può ridursi via via fino ad annullarsi del tutto. In questo caso si parla di vincolatezza in
concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto chi si verifica quando la norma predefinisce in modo
puntuale tutti gli elementi che caratterizzano il potere. Una riduzione dell’ambito della discrezionalità può
avvenire anche per un’altra via, ovvero attraverso l’autovincolo alla discrezionalità: questo accade ad
esempio nei giudizi valutativi espressi da commissioni di concorso.
Merito amministrativo. Ha dimensione negativa e residuale: si riferisce a quell’ambito di scelta, spettante
all’amministrazione, che si pone al di là dei limiti coperti dall’area delle legalità (vincoli giuridici posti dalle
norme e dai principi dell’azione amministrativa). In effetti, come abbiamo già accennato in precedenza, se il
potere è integralmente vincolato (in astratto o in concreto) alla norma, lo spazio del merito è totalmente
nullo. Il merito, in definitiva, connota l’attività dell’amministrazione, da considerarsi essenzialmente libera.
La scelta tra una pluralità di soluzioni tutte legittime ragionevoli, coerenti con il fine pubblico può essere
apprezzata solo in termini di opportunità o inopportunità e non è sindacabile dal giudice amministrativo. La
distinzione tra legittimità e merito rileva in più contesti: a) il primo è quello dei controlli amministrativi:
questi ultimi si articolano in controlli di legittimità e di merito; i primi (di legittimità) finalizzati ad annullare
gli atti amministrativi, i secondi (di merito) a modificare o sostituire l’atto oggetto del controllo e di tutela
giurisdizionale; b) in secondo luogo, il codice del processo amm.vo contrappone la giurisdizione di
legittimità (quella cui è investito in via ordinaria il giudice amm.vo) alla giurisdizione con “cognizione estesa
al merito”, nell’esercizio della quale “il giudice amm.vo può sostituirsi all’amm.ne”. c) in terzo luogo, i
confini tra legittimità e merito rilevano anche in materia di responsabilità amm.va, alla quale sono soggetti i
funzionari pubblici in relazione al cosiddetto danno erariale, cioè al danno provocato all’amm.ne stessa e
che rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti.

Valutazioni tecniche. Mentre la discrezionalità amministrativa attiene al piano della valutazione e


comparazione degli interessi, la valutazione attiene al piano dell'accertamento e della qualificazione di fatti
alla luce di criteri tecnici scientifici. Non consiste in un bilanciamento di interessi e manca l'elemento
volitivo (attività meramente interpretativa) che caratterizza invece la discrezionalità in senso stretto.
Tuttavia, vi è un controllo da parte del giudice che è simile a quello della discrezionalità pura; infatti in
entrambi i casi il giudice non può sostituirsi alla PA per fare la valutazione, quindi anche riguardo le
valutazioni i giudici amministrativi non possono sostituirsi alla PA. Il giudice può solo ripercorrere
dall'esterno l'attività valutativa per verificare se la valutazione è affetta da vizi logici, incongruenze o da
altre carenze. Solo in epoca recente il giudice amministrativo ha intrapreso un'opera volta a differenziare e
rendere più intenso il proprio sindacato in materia: il giudice si spinge a verificare l'attendibilità e la
correttezza del criterio tecnico utilizzato. La distinzione tra meri accertamenti tecnici e valutazione
tecniche: nel caso degli accertamenti non è necessario fare una valutazione (es. una misurazione).
L'accertamento deve dare risultati univoci ed è sempre ripetibile (sindacabile) da parte del giudice, a
differenza della valutazione.

6.L’INTERESSE LEGITTIMO

Al pari del diritto soggettivo, l’interesse legittimo trova un riconoscimento costituzionale nelle disposizioni
dedicate alla tutela giurisdizionale ed è quindi una situazione giuridica soggettiva dalla quale non si può
prescindere. La rilevanza della distinzione tra le due categorie di situazioni giuridiche è duplice: - è assunta
a criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, il primo investito della
giurisdizione sui diritti soggettivi, il secondo della giurisdizione sugli interessi legittimi; -è servita a delimitare
l'ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione che non includeva il danno derivante da
una lesione di interessi legittimi: questo secondo aspetto è stato superato ad opera di una sentenza della
cassazione che ha aperto la strada alla risarcibilità del danno da lesione di interesse. Evoluzione storica
dell'interesse legittimo: 1) L. del 1865 si adotta il modello belga e inglese del giudice unico. A causa della
“timidezza” del giudice civile a sindacare gli atti della PA si creò un vuoto di tutela di fronte a numerosi casi
di illegittimità e abusi da parte della PA, da qui nasce la 2) L. del 1889 che introduce un nuovo rimedio per
tutelare le situazioni non qualificabili come diritto soggettivo ovvero si investiva la IV Sezione del Consiglio
di Stato del compito di annullare per “incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro gli atti o
provvedimenti amministrativi aventi per oggetto un interesse d'individui o di enti morali giuridici”. Nacque
il problema in giurisprudenza e dottrina di definire il termine “interesse”, e nel tempo sono state offerte
varie interpretazioni: ◦ diritto fatto valere come interesse; ◦ interesse legittimo come interesse di mero fatto
(l’interesse legittimo fu cioè considerato come un interesse di mero fatto, correlato alla norma d’azione
volta a tutelare in modo esclusivo l’interesse pubblico; diritto alla legittimità degli atti; ◦ diritto affievolito
(cioè come la risultante dell'atto di esercizio del potere amministrativo che incide su un diritto soggettivo); ◦
Interesse occasionalmente (solo ove si sia in presenza di un diritto soggettivo, l’interesse del privato
correlato a un bene della vita è oggetto di una tutela diretta e immediata da parte dell’ordinamento).
L’interesse legittimo si distingue dal diritto soggettivo per il fatto che l'acquisizione o conservazione di un
determinato bene della vita non è assicurata in modo immediato dalla norma, che tutela in modo diretto
l'interesse pubblico, bensì passa attraverso l'esercizio del potere amministrativo, senza che peraltro sussista
alcuna garanzia in ordine alla sua acquisizione o conservazione. Dunque, l'interesse legittimo fonda in capo
al suo titolare soltanto la pretesa a che l'amministrazione eserciti il potere in modo legittimo, cioè in
conformità con la norma d'azione. La norma attributiva del potere offre in definitiva al titolare dell'interesse
legittimo una tutela strumentale, mediata attraverso l'esercizio del potere, anziché finale, come accade
invece per il diritto soggettivo, nel quale la norma attribuisce al suo titolare in modo diretto un certo bene
della vita o utilità. Ove il potere sia stato esercitato in modo non conforme alla norma attributiva del
potere, il titolare dell’interesse legittimo può proporre ricorso al giudice amministrativo al fine di ottenere
l’annullamento del provvedimento lesivo, cioè la rimozione con efficacia ex tunc degli affetti da esso
prodotti.
Ricostruzioni recenti dell'interesse legittimo: le soluzioni fino ora dette sono state sempre criticate in
dottrina, la quale ha messo in luce la loro connotazione ideologica, collegata a una visione autoritaria dei
rapporti tra Stato e cittadino e fondata sul postulato di generale sovra-ordinazione della p.a. Lo stato si
colloca in una posizione di sovra-ordinazione rispetto al cittadino e ciò esclude che tra essi possa
intercorrere un rapporto giuridico in senso tecnico. Si è anche criticata la tesi secondo la quale la norma
d’azione tutela il privato in via indiretta e occasionale —>Superamento della concezione tradizionale
dell'interesse legittimo, si riconosce natura sostanziale all'interesse legittimo (si considera oggetto
dell'interesse legittimo un bene della vita). Emerge una nuova sensibilità che muove dall’angolo di visuale
dei diritti di libertà del cittadino e dall’esigenza di offrire una protezione più completa delle situazioni
giuridiche soggettive. Al superamento della concezione tradizionale dell’interesse legittimo ha concorso
l’evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcibilità del danno: la Corte ha posto una linea di confine della
risarcibilità all’interno dell’interesse legittimo in ragione della rilevabilità, nella situazione concreta, di una
lesione a un bene della vita già ascrivibile alla sfera giuridica del soggetto privato titolare dell’interesse
legittimo. Se dalla ricostruzione della fattispecie emerge invece che il titolare dell’interesse legittimo non ha
una ragionevole aspettativa a poter acquisire o a conservare un bene della vita, non vi è spazio per una
tutela risarcitoria. La connotazione sostanziale dell’interesse legittimo emerge anche dal modo nel quale la
giurisprudenza ha inquadrato la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo devoluta ora alla giurisprudenza
del giudice amministrativo: la giurisprudenza si è posta la questione se il risarcimento del danno costituisca
un diritto soggettivo distinto dall’interesse legittimo. La Corte Cost ha inteso l'azione risarcitoria non già
come volta a tutelare un diritto soggettivo autonomo, bensì in funzione rimediale, cioè come tecnica di
tutela dell'interesse legittimo che si affianca e integra la tecnica di tutela più tradizionale costituita
dall'annullamento.
Si può dire che la norma di conferimento del potere abbia la doppia ed equiordinata funzione di tutelare
l'interesse pubblico (così da consentire la cura da parte dell’amministrazione, anche a costo del sacrificio di
interessi privati) e di tutelare l'interesse legittimo privato (che mira ad acquisire o conservare una utilità
finale o bene della vita).
Definizione di interesse legittimo → è una situazione giuridica soggettiva, correlata al potere della PA e
tutelata in modo diretto dalla norma di conferimento di potere, che attribuisce al suo titolare una serie di
poteri e facoltà volti a influire sull'esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un
bene della vita. I poteri e le facoltà sopracitate si esplicano principalmente nel procedimento attraverso
l'istituto della partecipazione. Quest'ultima consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista
presentando memorie e documenti e mediante l'accesso agli atti del procedimento. In questo modo il
privato può cercare di orientare le valutazioni discrezionali dell’amministrazione in senso a sé favorevole.
Questi poteri e facoltà tendono a riequilibrare la posizione di soggezione nei confronti del titolare del
potere.

7.GLI INTERESSI LEGITTIMI OPPOSITIVI E PRETENSIVI

L'interesse legittimo, peraltro, si distingue in interesse legittimo pretensivo e interesse legittimo oppositivo.
Si parla di interesse legittimo oppositivo quando l'interesse del privato è di conservare il bene della vita già
in suo possesso, il soggetto si oppone ad un provvedimento della P.A. sfavorevole che sacrifica il bene (per
esempio il provv. di espropriazione per pubblica utilità, con il quale la P.A. espropria un terreno di proprietà
di un soggetto). Qui il privato difende il proprio patrimonio dall’azione intrusiva della P.A. Invece, si parla di
interesse legittimo pretensivo quando l'interesse del privato è di ottenere il bene della vita: in tal caso
l'interesse del privato è l'ottenimento del provvedimento amministrativo favorevole che riconosca il bene
della vita agognato (come, ad esempio, l'autorizzazione a svolgere una determinata attività). Ne consegue
che il soggetto, nell'esercizio della posizione di diritto soggettivo, avrà una tutela diretta, piena e
incondizionata dal potere della P.A., mentre il soggetto titolare di un interesse legittimo avrà una tutela
piena ma non massima perché sarà limitata e condizionata dal modo in cui la P.A. eserciterà il suo potere. I
due tipi di dinamiche si riflettono sia sulla struttura del procedimento, sia su quella del processo
amministrativo: - nel caso di interessi legittimi oppositivi il procedimento si apre d’ufficio e la
comunicazione di avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo; - nel caso di
interessi legittimi pretensivi il procedimento si apre in seguito alla presentazione di un’istanza o domanda
di parte che fa sorgere l'obbligo di procedere e di provvedere in capo all'amministrazione titolare del
potere e che instaura il rapporto giuridico amministrativo. Anche il processo amministrativo e la tipologia di
azioni esperibili presentano caratteri propri in funzione del diverso bisogno di tutela: - nel caso di interessi
legittimi oppositivi l'annullamento dell'atto impugnato soddisfa il modo specifico tale bisogno; - nel caso di
interessi legittimi pretensivi il bisogno di tutela è correlato invece all'interesse all'acquisizione del bene
della vita per mezzo dell'emanazione del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato e
soltanto una sentenza che accerti la spettanza del bene della vita e che condanni l’ amministrazione a
emanare il provvedimento richiesto risulta pienamente satisfattiva e l’azione che consente questo risultato
è l’azione di adempimento, cioè l’azione di condanna a un facere specifico. In ogni caso, dato il carattere
infungibile del potere, l’emanazione del provvedimento in esecuzione della sentenza spetta sempre
all’amministrazione competente. La distinzione tra i due tipi di interessi legittimi consente di inquadrare i
“provvedimenti a doppio effetto”, i quali producono ad un tempo un effetto ampliato e un effetto restrittivo
nella sfera giuridica di due soggetti distinti e che danno origine a un rapporto giuridico trilaterale (es.
rilascio di un permesso a costruire un edificio che impedirebbe una vista panoramica al proprietario del
terreno confinante). In questo caso si instaura anche una dialettica che vede contrapposti due interessi
privati: nella fase procedimentale le parti private tenderanno a sottoporre all’amministrazione gli elementi
istruttori e valutativi che inducano quest’ultima a provvedere in senso conforme al proprio interesse e
contrario all’altra parte privata. Nella fase processuale successiva all’emanazione del provvedimento che
determina un effetto ampliativo nei confronti di un soggetto e uno restrittivo nei confronti dell’altro,
accanto alla parte ricorrente che impugna il provvedimento chiedendone l’annullamento e
all’amministrazione resistente, interviene come parte processuale necessaria il controinteressato.

8.I CRITERI DI DISTINZIONE TRA DIRITTI SOGGETTIVI E INTERESSI LEGITTIMI

Oltre al criterio della ripartizione giurisdizionale tra l’interesse legittimo (trattato dal giudice
amministrativo) e il diritto soggettivo (trattato dal giudice ordinario), la dottrina ha riconosciuto altri 3
criteri distintivi di queste posizioni giuridiche e sono:
1) struttura della norma attributiva del potere, ossia se la norma è di relazione o di azione. Se la norma è
una norma di relazione, ossia volta a regolare il rapporto giuridico tra l’amministrazione e il cittadino (la
produzione dell’effetto giuridico avviene in modo automatico, sulla base dello schema norma-fatto-effetto),
allora si tratta di un diritto soggettivo la cui tutela è a carico del giudice ordinario. Viceversa, se la norma è
una norma di azione, ossia volta a disciplinare l’attività della pubblica amministrazione al fine di tutelare un
interesse pubblico (la produzione dell’effetto giuridico avviene secondo lo schema di norma-fatto- potere-
effetto) allora si tratta di un interesse legittimo, la cui tutela è a carico del giudice amministrativo.
2) distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale: nei confronti di un’attività vincolata, il privato
vanterà un diritto soggettivo; al contrario, nel caso di attività discrezionale, il cittadino potrà vantare solo un
interesse legittimo. In realtà, mentre la dottrina instaura una correlazione biunivoca perfetta tra potere
vincolato e titolarità di un diritto soggettivo, la giurisprudenza amministrativa ammette l'esistenza di un
diritto soggettivo soltanto nel caso in cui i vincoli ricavabili dalla norma che disciplina il potere abbiano una
funzione di garanzia e di tutela diretta del soggetto privato, altrimenti dove questi siano finalizzati alla
tutela dell'interesse pubblico, deve essere riconosciuta l'esistenza di un interesse legittimo.
3) carenza di potere o cattivo esercizio del potere (introdotto dalla Cassazione): tutte le volte in cui si
lamenti un cattivo uso del potere, si farà valere un interesse legittimo. Mentre nel caso in cui si voglia
contestare l’esistenza stessa del potere in capo all’amministrazione, si farà valere un diritto soggettivo (si
tratta di diritti soggettivi non degradabili in interessi legittimi). La giurisprudenza ha incluso nella carenza di
potere anche la carenza di potere in concreto, ipotesi che si verifica nei casi in cui la norma in astratto
attribuisce il potere all’amministrazione, ma manca nella fattispecie concreta un presupposto essenziale per
poterlo esercitare.

9.IL DIRITTO DI ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI

È uno degli strumenti principali volti ad accrescere la trasparenza dell'attività amministrativa e promuovere
l'imparzialità. Consiste nel diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi. Esso è incluso tra i livelli essenziali delle prestazioni e rientra dunque nelle competenza
legislativa esclusiva dello Stato. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi rileva in due ambiti: -rientra
tra i diritti attribuiti ai soggetti che possono partecipare a un determinato procedimento amministrativo in
modo da consentire ad essi di tutelare meglio le loro ragioni avendo cognizione di tutti gli atti e documenti
acquisiti al procedimento che li riguardano (legame funzionale tra principio di trasparenza (e diritto di
partecipazione, si parla in questo caso di accesso procedimentale); -costituisce un diritto autonomo che può
essere esercitato anche al di fuori del procedimento da chi ha interesse a esaminare documenti detenuti
stabilmente da una p.a. Il diritto di accesso sembra essere indicato dalla L. 241/90 in termini di protezione
diretta di un bene della vita, quindi secondo lo schema del diritto soggettivo. In particolare, con riguardo
all’accesso non procedimentale esso sorge quando il soggetto che richiede l’accesso dimostri un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è richiesto l’accesso: può essere attribuito sia a coloro che devono accedere ad un
procedimento e che quindi vogliono conoscere al meglio gli atti e le circostanze, sia a coloro che hanno solo
interesse (ma non semplice curiosità) a esaminare documenti dalla PA, interesse dato dalla titolarità di una
posizione giuridica rilevante. Eccezioni: in materia ambientale, tutti possono prendere visione dei
documenti senza dover dichiarare un interesse; i consiglieri locali e provinciali hanno diritto ad accedere a
tutti i documenti della PA; l'accesso civico (introdotto di recente nell’ambito della normativa anticorruzione,
art. 5 dl.gs. 2013, n. 33): informazioni che le PA hanno obbligo di pubblicare su siti o con altre modalità
devono essere a disposizione di tutti. La richiesta di accesso civico, a differenza dell’istanza di accesso, non
è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva dell’istante, non deve essere
motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza dell’amministrazione obbligata alla
pubblicazione. La nuova disposizione, ribattezzata con una certa enfasi come “Freedom of Information Act”
(FOIA) sulla scorta dell’esempio statunitense, prevede due fattispecie. In primo luogo, chiunque può
richiedere l’accesso alle informazioni e ai dati che le amministrazioni avrebbero comunque l’obbligo di
pubblicare sui propri siti o con altre modalità tutte le volte in cui esse hanno omesso questo adempimento.
In secondo luogo, con previsione ancor più generale volta a “favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico”, chiunque ha diritto di accedere ai dati e documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni, anche di quelli per i quali non sussiste un obbligo di pubblicazione. In realtà,
questa forma di accesso generalizzato non riguarda, sotto il profilo oggettivo, tutti i dati e le informazioni
detenute dall’amministrazione, in quanto l’art. 5-bis prevede una serie tassativa di esclusioni in relazioni
alla necessità di tutelare interessi pubblici e privati come per esempio la sicurezza nazionale, la difesa, le
relazioni internazionali, la protezione dei dati personali, la libertà e segretezza della corrispondenza.

Le informazioni che non possono essere conosciute in base al solo interesse del privato sono i segreti di
Stato, procedimenti tributari, atti amministrativi generali o dati riservati, come quelli sensibili, soggetti al
regime della privacy (tranne se vi sia necessarietà e utilità imminente: se sono presenti esigenze di tutela
della riservatezza l’amministrazione deve comparare l’interesse all’accesso alla riservatezza di terzi e
valutare se l’accesso ha il carattere della necessarietà, da distinguersi dalla semplice utilità). Inoltre, è
attribuito all’amministrazione il differimento dell'accesso che consiste nella posticipazione del momento in
cui l'accesso può essere esercitato, da preferire alla negazione.
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è incluso tra le materie devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo e ciò costituisce sintomo che in questa materia possono porsi questioni di diritto
soggettivo. Recentemente si tende a preferire inquadrare il diritto di accesso come interesse legittimo più
che come diritto soggettivo, con conseguenza che il diniego di accesso costituisce un provvedimento in
senso proprio impugnabile nel termine di decadenza di 30 gg, piuttosto che nel termine più lungo
applicabile ai diritti soggettivi.

10.INTERESSI DI FATTO, DIFFUSI E COLLETTIVI


Interesse di fatto
Vi sono delle norme primarie e secondarie (oltre a quelle interne) che impongo alla PA doveri di
comportamento, finalizzati alla tutela dell'interessi pubblici, senza che ad essi corrisponda alcuna situazione
giuridica o altro tipo di pretesa giuridicamente tutelata in capo a soggetti esterni all'amministrazione. es.
norme che impongono alle amministrazioni di adottare atti di pianificazione, di realizzare determinate
opere ecc. La violazione di siffatti doveri rileva soltanto all'interno dell'organizzazione degli apparati
pubblici e può dar origine a interventi di tipo propulsivo (diffide) o sostitutivo da parte di organi dotati di
poteri di vigilanza. I soggetti privati che possono trarre beneficio o un pregiudizio indiretto da siffatte
attività possono vantare di regola un mero interesse di fatto a tutela del quale non è attivabile alcun
rimedio di tipo giurisdizionale. I criteri di distinzione tra interessi di fatto e interessi legittimi sono due: 1)
criterio della differenziazione: tale condizione (per l’interesse legittimo) è attivabile solo nel caso in cui un
privato sia in una posizione diversa dalla collettività dei soggetti nei confronti della pubblica
amministrazione; 2) criterio della qualificazione: una volta accertata questa differenziazione bisogna
valutare se tale interesse è tutelata dalle norme di riferimento e se il titolare possa vantare una posizione
qualificata di interesse legittimo.
Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale e così è emersa in
dottrina e in giurisprudenza la nozione di interesse diffuso.

Interesse diffuso
Sono interessi non personalizzati, senza struttura, riferibili in modo indistinto alla generalità della
collettività o a categoria più o meno estese di soggetti (consumatori, utenti, risparmiatori, ecc). Il carattere
diffuso dell’interesse deriva dalla caratteristica del bene materiale o immateriale ad esso correlato che non
è suscettibile di appropriazione e di godimento esclusivi (ambiente, patrimonio, paesaggio, concorrenza).
L’art. 9 della 241/90 attribuisce la facoltà di intervenire nei procedimenti amministrativi a qualsiasi soggetto
portatore di interessi pubblici o privati, “nonché ai portatori di interessi diffusi costituiti in comitati o
associazioni”. Per quanto riguarda la tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, sono stati elaborati 3 criteri
per aprire la strada verso la tutela, discussa in dottrina: 1. il collegamento con la partecipazione
procedimentale (dunque al processo amministrativo), che, tuttavia, non ha trovato riscontro in
giurisprudenza; 2. l'elaborazione della nozione di interesse collettivo, quale specie particolare di interesse
legittimo: gli interessi collettivi sono riferibili a specifiche categorie o gruppi organizzati (es. associazioni
sindacali lavoratori, collegi professionali). A questi organismi rappresentativi del gruppo è stata riconosciuta
la possibilità di agire in giudizio per tutelare i propri interessi di categoria, non dei singoli appartenenti alla
categoria, i quali sono legittimati ad agire solo se subiscono una lesione diretta nella loro sfera giuridica
individuale; 3. la legittimazione ex lege data a determinati soggetti, in settori particolari la legge (es. in
materia ambientale a determinate associazioni).

Interesse individuali isomorfi


Ultima categoria di interessi da prendere in considerazione sono gli interessi individuali omogenei o
isomorfi. La caratteristica di tale categoria, da non confondere con gli interessi diffusi e collettivi, è quella
della individualità ma che nel complesso acquistano una dimensione collettiva solo per il fatto di essere
comuni ad una pluralità o molteplicità di soggetti (es. utenti di una compagnia elettrica che crea un
blackout che provoca danni). Spesso succede che il danno subito e di lieve entità e le spese di giustizia siano
superiori alle entrate e, per questi motivi l’ordinamento prevede forme di tutela non giurisdizionali ma
semplici e meno costose innanzi ad organismi di mediazione o conciliazione oppure innanzi ad autorità
amministrative di regolazione. Di recente il legislatore ha introdotto rimedi processuali particolari chiamati
azioni di classe (class action) che prevede un’azione collettiva risarcitoria da proporre dinnanzi al Giudice
ordinario in relazione alla lesione di diritti di una pluralità di consumatori o utenti. Ultimamente tale
operazione è possibile avviarla anche nei confronti della pubblica amministrazione innanzi al giudice
amministrativo sollevando una violazione di efficienza e di standard qualitativi per i propri servizi offerti agli
utenti. Tale ricorso, in questo caso, non dà diritto ad un risarcimento del danno ma solo alla pronuncia di un
giudice il quale ordinerà il ripristino del corretto svolgimento dell’attività.

11.I PRINCIPI GENERALI

I principi generali dei rapporti giuridici amministrativi sono suddivisi in più categorie: 1) Principi sulle
funzioni; 2) Principi sulle attività; 3) Principi sull’esercizio del potere discrezionale; 4) Principi sul
provvedimento; 5) Principi sul procedimento.

A) Principi sulle funzioni.


l principi fondamentali sono senza dubbio il principio della sussidiarietà ed il principio della proporzionalità.
- Sussidiarietà (presente nei Trattati europei, e poi con la legge costituzionale n. 3/2001, nella Costituzione)
si suddivide in sussidiarietà verticale ed orizzontale. La sussidiarietà verticale è quel principio sancito in
dall’art. 118 Cost. secondo il quale le funzioni amministrative dello Stato sono attribuite all’ente più vicino
al cittadino (quindi al comune). Anche la sussidiarietà orizzontale è enunciata nell’art 118 Cost.: lo Stato
favorisce la libera iniziativa del privato a svolgere attività di interesse generale, sulla base del principio di
sussidiarietà.
- Proporzionalità: anche tale principio è enunciato in varie disposizioni legislative europee e sul Trattato
dell’Unione Europea. Questo principio afferma che il contenuto e le forme dell’azione dell’Unione non
devono eccedere quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati (commisurazione agli
obiettivi).

B) Principi sull’attività
Nell’art. 1 della l. 241/90 sono enunciati i criteri generale della pubblica amministrazione che sono (oltre la
legittimità): l’economicità, l’efficienza, l’imparzialità, la pubblicità e la trasparenza (EEIPT). Tutto sommato
tali criteri possono essere riferiti anche all’atto e al procedimento amministrativo per il fatto che questi due
istituti fanno parte integrante della vita dell’amministrazione. A tali criteri sono da sommare altri criteri
costituzionalmente garantiti come il criterio del buon andamento. Il buon andamento è sancito all’art. 97
Cost. e consiste nel conseguimento di risultati più o meno positivi effettivamente conseguiti mediante l’uso
efficiente delle risorse disponibili.
- Efficienza: tale principio è sancito dall’art. 1 della legge 241/90. Un’amministrazione si può definire
efficiente qualora abbia raggiunto considerevoli risultati, utilizzando in maniera oculata le risorse disponibili
e scegliendo tra le alternative quella che produce il massimo dei risultati con il minor impegno di mezzi. -
---- Efficacia: questa mette in relazione i risultati ottenuti con gli obiettivi prefissati in un piano o
programma. I due principi (efficienza ed efficacia) sono totalmente indipendenti in quanto si può
raggiungere un elevato grado di efficacia con un inefficiente apporto di risorse.
- Economicità: tale principio è considerato la risultanza degli altri due in quanto è la capacità di utilizzare in
modo efficiente le risorse disponibili per conseguire, in modo efficace, i propri obiettivi.

C) Principi sull’esercizio del potere discrezionale


Sono da considerare le linee guida delle amministrazioni dello stato nel caso la norma attribuisca scelte tra
molteplici soluzioni. Essi sono: principio di imparzialità, proporzionalità, ragionevolezza, legittimo
affidamento, certezza del diritto e precauzione.
- Imparzialità: richiamato dall’art. 97 Cost. e dall’art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione,
esso si riferisce all’esercizio della discrezionalità della P. A. e al divieto di favoritismi (o influenza) effettuata
sia dalla politica che dai privati. Tale principio è posto a garanzia della Par Condicio tra tutti i cittadini della
Comunità di fronte all’amministrazione.
- Proporzionalità: tale principio è di derivazione costituzionale tedesca e fatto proprio dalla cdg dell’UE. Esso
richiede all’amm.ne che opera una valutazione discrezionale un giudizio guidato, in sequenza, da 3 criteri:
idoneità, necessarietà e adeguatezza.
- Ragionevolezza: principio di carattere generale che raccoglie, anche in parte, il principio di
proporzionalità. Infatti, il fondamento di tale principio è la logicità intesa come oculata scelta dei mezzi e
delle decisioni (da parte dell’amm.ne), che non dovranno eccedere per dimensioni o intensità a quello
strettamente necessario per il conseguimento di un obiettivo.
- Legittimo Affidamento: mira a tutelare le aspettative ingenerate dalla pubblica amministrazione con un
proprio atto o comportamento. Nel diritto interno, il principio del legittimo affidamento interviene, ad
esempio, a proposito del potere di annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo, per l’esercizio del
quale è richiesta all’amm.ne una valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento e una
considerazione del tempo ormai trascorso.
- Certezza del diritto: principio fondamentale per il legislatore, il quale dovrà essere più chiaro possibile
quando trascrive una norma; altrettanto sarà il comportamento dell’amministrazione nello svolgimento
della sua opera: le situazioni giuridiche soggettive nonché i rapporti devono essere conoscibili e prevedibili.
- Precauzione: enunciato dal TUE in materia di ambiente, è stato adottato poi come principio generale. In
Italia è utilizzato soprattutto in giurisprudenza in materie di coltivazioni OGM: quando esistono gravi rischi
per la salute delle persone, le autorità possono adottare misure protettive in maniera precauzionale senza
dover attendere.

D) Principi sul provvedimento


I principi generali sul provvedimento sono 2: principio sulla motivazione e sulla sindacabilità degli atti (MS).
- Motivazione: tale principio sancisce l’obbligo per l’amministrazione di motivare per iscritto la decisione
alla base dell’emissione del provvedimento ai sensi dell’art. 1 L. 241/90 poiché, attraverso la motivazione, il
destinatario potrà ricostruire le ragioni poste a fondamento del provvedimento.
- Sindacabilità: il principio della sindacabilità degli atti amministrativi è sancito dagli artt. 24 e 113 Cost.:
nell’art. 113 si afferma che gli atti che legano i diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono sottoposti a
controllo giurisdizionale del giudice amministrativo e ordinario.

E) Principi sul procedimento


I principi relativi al procedimento sono il principio del contraddittorio, il principio di pubblicità e il principio
di trasparenza (CPT).
- Contraddittorio: tale principio è richiamato nella Carta Dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ed
acquisita forza nel nostro ordinamento all’art. 7 della L. 241/90, nel quale si sancisce il diritto di ogni
individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga sollevato un provvedimento che gli rechi
pregiudizio.
- Pubblicità e trasparenza: anch’esso enunciato nella Carta Dei Diritti Fondamentali Dell’unione Europea,
sancisce il diritto di ogni individuo di accedere al proprio fascicolo nel rispetto dei legittimi interessi della
riservatezza e del segreto professionale. Il principio in questione rileva in 2 ambiti. Il primo si riferisce alla
messa a disposizione della generalità degli interessati di una serie di informazioni riguardanti
l’organizzazione e l’attività dell’amministrazione stessa: la recente normativa anticorruzione del 2013
enuncia il principio generale di trasparenza intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti
l’organizzazione e l’attività delle p.a., allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull’esercizio delle risorse pubbliche. Il secondo si riferisce al diritto di accesso ai
documenti amministrativi. Il principio in questione è stato ulteriormente sviluppato con le nuove
disposizioni sull’accesso civico.
CAPITOLO 4: IL PROVVEDIMENTO

1.PREMESSA

Il provvedimento viene definito come la manifestazione del potere amministrativo volta a disciplinare un
rapporto giuridico intercorrente tra la pubblica amministrazione e un soggetto privato e avente per oggetto
un bene della vita. Manca nel nostro ordinamento sia una definizione legislativa di atto o provvedimento,
sia una disciplina organica delle sue caratteristiche strutturali e funzionali. Il suo regime giuridico si ricava in
parte dalle disposizioni contenute nella l. n. 241/1990, in parte dall’elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale. Il Capo IV-bis aggiunto dalla l. n. 15 del 2005, disciplina l’efficacia, l’invalidità, la revoca, e
l’annullamento d’ufficio. Ci sono varie misure di command and control (imposizione di obblighi, sanzioni,
ecc) attribuite alla competenza dei pubblici poteri: queste vanno ad integrare il diritto comune che manca
di strumenti idonei per curare in modo adeguato gli interessi pubblici di volta in volta coinvolti. Il
provvedimento amministrativo costituisce una manifestazione dell’autorità dello Stato. L’atto
amministrativo, espressione del potere esecutivo, si colloca a fianco di due atti tipici riconducibili agli altri
due poteri dello stato: la legge (espressione del potere legislativo) e la sentenza (espressione del potere
giurisdizionale). Le caratteristiche principali del provvedimento amministrativo sono (UIIEENT):
Unilateralità, Imperatività, Inoppugnabilità, Esecutività, Esecutorietà, Nominatività, Tipicità

2. IL REGIME DEL PROVVEDIMENTO: a) TIPICITA’ e NOMINATIVITA’

Considerando il regime e i caratteri dell’atto amministrativo, va richiamata anzitutto la tipicità. Essa si


contrappone all’atipicità dei negozi giuridici privati. La p.a. è tenuta, in base al principio di legalità inteso in
senso sostanziale a perseguire esclusivamente il fine stabilito dalla norma di conferimento del potere e può
utilizzare soltanto lo strumento giuridico definito dalla stessa norma. Costituiscono un’attenuazione del
principio di tipicità le ordinanze continuabili e urgenti che possono essere emanate solo nei casi e per i fini
precisi dalla legge ma non sono tipizzate, nel senso che la legge lascia all’organo competente la
determinazione del contenuto e degli effetti del provvedimento.
Talora si fa riferimento anche alla nominatività dei provvedimenti amministrativi per indicare che
l’amministrazione può emanare soltanto i provvedimenti ai quali la legge fa espresso riferimento. Questi
principi escludono che si possano riconoscere in capo all’amministrazione poteri impliciti.

3. b) LA COSIDDETTA IMPERATIVITA’ e L’UNILATERALITA’

L’imperatività indica la particolare forza giuridica del provvedimento atta a far prevalere, ove occorra,
l’interesse pubblico sugli interessi dei soggetti privati. L’imperatività o autoritarietà consiste nel fatto che la
pubblica amministrazione titolare di un potere attribuito dalla legge può, mediante l’emanazione del
provvedimento, imporre al soggetto privato destinatario di quest’ultimo (e senza la sua collaborazione) le
proprie determinazioni operando in modo unilaterale una modifica nella sua sfera giuridica.
Nell’imperatività si manifesta la dimensione verticale (di sovraordinazione) dei rapporti tra Stato e cittadino
che si contrappone a quella orizzontale (di equiordinazione) delle relazioni giuridiche privatistiche. Del
resto, la stessa unilateralità non è un carattere indefettibile del provvedimento dato che l’esercizio del
potere può prevedere un momento consensuale, allorché l’amministrazione proceda alla stipula di un
accordo con il soggetto privato avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento.
L’imperatività del provvedimento non presuppone la validità del medesimo. Anche l’atto illegittimo ha
l’attitudine a produrre gli effetti tipici (al pari dell’atto valido) che potranno essere rimossi soltanto ove
quest’ultimo venga annullato (principio di equiparazione dell’atto invalido all’atto valido). Solo il
provvedimento affetto da nullità non ha carattere imperativo e dunque le situazioni giuridiche soggettive di
cui è titolare il soggetto privato destinatario non sono danneggiate e “resistono” di fronte alla pretesa
dell'amministrazione. La relazione giuridica con l’amministrazione non è paritaria neppure nel caso degli
atti amministrativi emanati su domanda o istanza dell’interessato e che determinano un effetto ampliativi
della sfera giuridica di quest’ultimo. La volontà del soggetto privato espressa nell’istanza costituisce il fatto
presupposto che legittima l’esercizio del potere. Essa però non si fonde con quella dell’amministrazione che
emana il provvedimento e l’effetto giuridico ampliativo viene comunque prodotto in via unilaterale dal
provvedimento emanato.

4. c) L’ESECUTORIETA’ e L’EFFICACIA

L'esecutorietà, un'altra caratteristica dei provvedimenti amministrativi, è disciplinata dall'art. 21- ter l. n.
241/1990. Essa può essere definita come il potere dell'amministrazione di procedere all'esecuzione del
provvedimento imposta per legge in caso di mancata cooperazione da parte del privato obbligato, senza
dover prima rivolgersi a un giudice allo scopo di ottenere l'esecuzione forzata. L’esecutorietà deroga al
principio civilistico del divieto di autotutela, cioè di farsi giustizia da sé. Infatti, nei rapporti interprivati la
regola generale è che chi vuole far valere le proprie ragioni deve rivolgersi al giudice civile che accerti,
nell’ambito di un giudizio di cognizione, l’inadempimento degli obblighi ed emani una sentenza di
condanna, e disponga le misure per l’esecuzione della sentenza. Ma dove si trova il fondamento
dell’esecutorietà del provvedimento amministrativo? In passato veniva rinvenuto nella presunzione di
legittimità del provvedimento. L’art.21-ter ha il valore simbolico di confermare le conclusioni raggiunte
dalla dottrina prevalente secondo le quali l’esecutorietà non è una caratteristica propria di tutti i
provvedimenti amministrativi, ma deve essere di volta in volta prevista dalla legge: il potere di imporre
coattivamente l'adempimento degli obblighi è attribuito all'amministrazione solo “nei casi e con le modalità
stabiliti dalla legge”. In relazione agli obblighi che nascono per effetto di un provvedimento amministrativo,
quest'ultimo deve indicare il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Inoltre,
l'esecuzione coattiva può avvenire solo precedentemente l'adozione di un atto di diffida con il quale
l'amministrazione intima al privato di porre in essere le attività esecutive già indicate nel provvedimento.
L'esecutorietà del provvedimento presuppone che il provvedimento emanato sia efficace e esecutivo.
Secondo l'art. 21-bis il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia con la
comunicazione al destinatario. Da qui viene fuori la distinzione tra provvedimenti limitativi della sfera
giuridica dei privati e provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati. I primi hanno natura di atti
recettizi, perché la loro efficacia è subordinata alla comunicazione all'interessato. Sono esclusi dall’obbligo
di comunicazione i provvedimenti che hanno carattere cautelare ed urgente che sono sempre
immediatamente efficaci. L'esecutività del provvedimento è disciplinata dall'art. 21-quater, secondo il quale
i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito
dalla legge o dal provvedimento amministrativo. Quindi all'efficacia del provvedimento segue la necessità
che esso venga portato subito ad esecuzione, a seconda dei casi, dalla stessa amministrazione che ha
emanato l'atto, oppure dal destinatario del medesimo là dove il provvedimento faccia sorgere in capo a
quest'ultimo un obbligo di dare o di fare. In realtà non tutti i provvedimenti amministrativi pongono un
problema di esecutività: spesso infatti la produzione dell’effetto giuridico realizza appieno l’interesse
pubblico alla cui cura è finalizzato il provvedimento emanato, senza bisogno di ulteriori attività di tipo
esecutivo.

5. d) L’INOPPUGNABILITA’

L'inoppugnabilità (o incontestabilità) si ha quando cominciano i termini previsti per l’esperimento dei


rimedi giurisdizionali davanti al giudice amministrativo. In particolare, l’azione di annullamento del
provvedimento va proposta nel termine di decadenza di 60 giorni (art. 29 Codice del processo
amministrativo); l’azione di nullità è soggetta a un termine di 180 giorni; l’azione risarcitoria può essere
proposta in via autonoma (cioè senza la parallela azione di annullamento) nel termine di 120 giorni (art. 31,
comma 4, e art. 30, comma 3, Codice). L’atto amministrativo può diventare inoppugnabile anche per
l’acquiescenza da parte del suo destinatario (dichiarazione espressa o tacita). D’altra parte,
l’inoppugnabilità non esclude che l’amministrazione possa mettere in discussione il rapporto giuridico
esercitando il potere di autotutela (annullamento d'ufficio che può essere disposto ai sensi dell'art. 21-
nonies l. n. 241/1990 “entro un termine ragionevole” o revoca ai sensi dell'art. 21-quinquies l. n. 241/1990).
Emerge un ulteriore elemento di asimmetria tra le parti del rapporto giuridico amministrativo:
l’inoppugnabilità garantisce la stabilità del rapporto giuridico amministrativo solo sul versante delle possibili
contestazioni da parte del soggetto privato.

8.GLI ELEMENTI STRUTTURALI DELL’ATTO AMMINISTRATIVO. L’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE

Anche per l'atto amministrativo possono essere individuati alcuni elementi strutturali che consentono di
identificarlo e qualificarlo. Essi sono:
1. Il soggetto: è l'organo che, in base alle norme sulla competenza e l'investitura, è incaricato di emanare
l'atto. Di solito, si tratta di pubbliche amministrazioni, ma in casi particolari anche soggetti privati sono
titolari di poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili come amministrativi. Si pensi al caso di
un’impresa privata concessionaria di un pubblico servizio che sia tenuta ad esperire procedure a evidenza
pubblica per l’acquisto di beni e servizi.
2. La volontà: il provvedimento amministrativo è manifestazione della volontà dell’amministrazione, la
quale va intesa in senso oggettivato, ossia la volontà procedimentale (e non in senso psicologico). I vizi della
volontà non determinano in via diretta l'annullabilità del provvedimento, come invece accade nel negozio
privato, ma rilevano un eccesso di potere.
3. L'oggetto: è la cosa, attività o situazione soggettiva cui il provvedimento si riferisce (esempio il bene
demaniale dato in concessione) e deve essere determinato o quanto meno determinabile.
4. Il contenuto: si ritrova nella parte dispositiva dell'atto e consiste in “ciò che con esso l'autorità intende
disporre, ordinare, permettere, attestare, certificare”. Il contenuto necessario dell'atto discrezionale può
essere integrato con clausole accessorie che fissano condizioni e altre prescrizioni (elementi accidentali),
senza alterare il contenuto tipico del provvedimento e coerentemente con il fine pubblico.
Tra gli elementi dell'atto amministrativo non assume rilievo autonomo la causa, perché i poteri
amministrativi sono tutti riconducibili a schemi tipici individuati per legge. Con riferimento all’atto
amministrativo ricorre invece più frequentemente la nozione di motivi dell’atto, cioè le ragioni di interesse
pubblico poste alla base del provvedimento.
5. La motivazione, da cui si ricavano le ragioni (i motivi) che sono alla base dell'atto amministrativo, è la
parte del provvedimento che secondo la definizione contenuta nell'art. 3 l. n. 241/1990 enuncia i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in
relazione alle risultanze dell'istruttoria. Nel caso in cui il provvedimento si basi su una pluralità di motivi,
basta che uno solo sia conforme alla legge per essere legittimo (prova di resistenza). La violazione
dell'obbligo di motivazione può essere una causa di annullabilità. Questa ha tre funzioni: promuove la
trasparenza, rende più agevole l'interpretazione e consente un controllo giurisdizionale più incisivo
sull'operato dell'amministrazione. Nella motivazione l’amministrazione deve dar conto di tutti gli elementi
rilevanti, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale, che l’hanno indotta a operare una determinata
scelta. In particolare, devono emergere le valutazioni operate dall’amministrazione sugli apporti
partecipativi dei privati. In ogni caso dalla motivazione deve essere possibile ricostruire in modo puntuale
l’iter logico seguito dall’amministrazione per arrivare a una certa determinazione. La motivazione può
essere anche per relationem, cioè con un rinvio ad altro atto acquisito al procedimento del quale si fanno
proprie le ragioni. La motivazione ha particolare importanza nel caso di provvedimenti discrezionali, mentre
in quelli vincolati essa può essere limitata all'enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che
giustificano l'esercizio del potere. È lo strumento principale per controllare la legittimità, in particolare in
termini di ragionevolezza e di proporzionalità, delle scelte operate dall'amministrazione.
6. La forma: di regola è richiesta la forma scritta (in alcuni casi l'atto può essere emanato oralmente) e oggi
l’atto può essere sottoscritto con la firma digitale e comunicato utilizzando le tecnologie informatiche. A
volte in giurisprudenza viene fuori anche la nozione di provvedimento implicito (es. la nomina di un
dipendente pubblico che, senza l'atto formale, venga inserito nell'organizzazione).
7.I PROVVEDIMENTI ABLATORI REALI, I PROVVEDIMENTI ORDINATORI E LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

Le principali subcategorie dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari (i quali sono
correlati a interessi oppositivi) sono i provvedimenti ablatori, gli ordini e le diffide, i provvedimenti
sanzionatori: essi acquistano efficacia con la comunicazione formale ai destinatari e quindi vengono
qualificati come atti recettizi.

I provvedimenti ablatori reali


Tra i provvedimenti ablatori (reali, personali, obbligatori) fanno parte un’ampissima gamma di atti
autoritativi che restringono la sfera patrimoniale e personale del destinatario, estinguendo o modificando
una situazione giuridica soggettiva attraverso l’imposizione di prestazioni o obblighi di non fare o di non
fare. Tra i provvedimenti ablatori reali è importante soprattutto l’espropriazione per pubblica utilità, in cui
si manifesta al massimo grado il conflitto tra interesse pubblico e gli interessi privati, attribuendo al privato
il diritto, costituzionalmente garantito, a un indennizzo (art. 42, comma 3, Cost.). L’indennizzo non deve
coincidere necessariamente con il valore di mercato, ma non deve essere comunque irrisorio (Corte
Costituzionale, “serio ristoro”, in base al quale occorre far riferimento “al valore del bene in relazione alle
sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge”).
Recentemente la Corte edu ha censurato alcuni parametri legislativi che riducevano l’indennità a un
ammontare eccessivamente basso rispetto al valore di mercato e la Corte Costituzionale ha previsto che
l’indennità di espropriazione di un’area edificabile sia determinata nella misura pari al valore venale del
bene.

I provvedimenti ordinatori
Tra i provvedimenti ablatori personali vanno collocati gli ordini amministrativi e i provvedimenti che
impongono ai destinatari obblighi di fare o di non fare (divieti) puntuali. Nelle organizzazioni, basate sul
principio gerarchico (es. l'esercito e le forze di polizia), l’ordine, che prescrive un comportamento specifico
da adottare in una situazione determinata, è lo strumento in base al quale il titolare dell’organo o
dell’ufficio sovraordinato impone la propria volontà e guida all’attività dell’organo o dell’ufficio sotto-
ordinato. Come precisa in termini generali il Testo unico degli impiegati civili dello Stato l'impiegato deve
eseguire gli ordini impartiti dal superiore gerarchico. Se l'ordine è illegittimo, l'impiegato è tenuto a fare
reclamo motivato al superiore, il quale ha sempre il potere di rinnovarlo per iscritto. In questo caso,
l'impiegato è tenuto a darvi esecuzione, a meno che non si tratti di un atto vietato dalla legge penale. La
mancata osservanza dell'ordine ricevuto può comportare l'adozione di sanzioni disciplinari in capo al
titolare dell'organo o dell'ufficio sottordinato e può indurre il superiore gerarchico a chiamare a sé la
competenza. Gli ordini amministrativi possono essere previsti talora anche al di fuori dei rapporti
interorganici e dunque riguardare rapporti intersoggettivi tra l’amministrazione titolare del potere e i
soggetti privati destinatari (ordini di polizia, emanati dalle autorità di pubblica sicurezza). Esempio di ordine
aventi contenuto negativi (divieti) è il divieto di svolgimento di riunioni per ragioni di ordine pubblico.
Un altro provvedimento ordinatorio è la diffida, che consiste nell’ordine di cessare da un determinato
comportamento posto in essere in violazione di norme amministrative, anche con la fissazione di un
termine per eliminare gli effetti dell’infrazione. La diffida può essere accompagnata da sanzioni di tipo
amministrativo (es. l'autorità competente al controllo degli scarichi di acque inquinanti può intimare il
titolare dell'autorizzazione che non rispetta le condizioni di cessare il comportamento entro un termine).

Le sanzioni amministrative
Costituiscono un’altra tipologia di provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario e sono volte
a reprimere illeciti di tipo amministrativo e hanno dunque una funzione afflittiva e una valenza dissuasiva.
Esse garantiscono l’effettività e l’autosufficienza degli ordinamenti settoriali rispetto all’ordinamento
generale. Le sanzioni amministrative sono previste dalle leggi settoriali per garantire effettività sia in caso di
violazione dei comandi in esse contenuti (es. Codice della strada), sia nel caso di violazione dei
provvedimenti emanati sulla base di tali leggi (es. TU degli enti locali nel caso di violazione di regolamenti
degli enti locali o delle ordinanze contingibili e urgenti emanate dal sindaco o dal presidente della
provincia). In molti casi, la deterrenza delle sanzioni amministrative è accresciuta dalla previsione in
parallelo di sanzioni di tipo penale. Sussiste un certo grado di fungibilità tra sanzioni penali e sanzioni
amministrative: entrambe hanno finalità di prevenzione generale e speciale di illeciti e ciò spiega una certa
affinità di regime. La legge n.689/1981 che detta una disciplina generale delle sanzioni amministrative,
richiama una serie di principi tipicamente penalistici, in particolare principio di legalità, della personalità. Le
sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: ci sono sanzioni pecuniarie, che fanno nascere l'obbligo
di pagare una somma di denaro determinata entro un minimo e un massimo stabilito dalla norma; le
sanzioni interdittive che incidono sull'attività posta in essere dal soggetto destinatario del provvedimento
(ritiro della patente, sospensione da un albo professionale); le sanzioni disciplinari. Per le sanzioni
amministrative pecuniarie, l’obbligazione grava a titolo di solidarietà in capo a soggetti diversi da colui che
pone in essere il comportamento illecito (es. l'ente del quale è dipendente l'autore dell'illecito). Inoltre, è
data la facoltà di estinguere l’obbligazione tramite il pagamento di una somma in misura ridotta (oblazione)
entro 60 giorni dalla contestazione della violazione, cioè prima che abbia corso il procedimento in
contraddittorio per l‘accertamento dell’illecito. Le sanzioni disciplinari si applicano a soggetti che
intrattengono una relazione particolare con le pubbliche amministrazioni (dipendenti pubblici,
professionisti iscritti ad albi, ecc.) e colpiscono comportamenti che violano obblighi speciali collegati allo
status particolare (doveri di servizio, codici deontologici, ecc.): consistono nell’ammonizione, nella
sospensione del servizio o dall’albo per un periodo di tempo determinato, nella radiazione da un albo o
nella destituzione. Queste sanzioni sono regolate da leggi speciali. Infine, bisogna distinguere le sanzioni in
senso proprio, che hanno un significato essenzialmente repressivo e punitivo del colpevole, e le sanzioni
ripristinatorie, che hanno lo scopo di reintegrare l’interesse pubblico leso da un comportamento illecito. Le
sanzioni amministrative sono applicate di regola soltanto nei confronti della persona fisica del trasgressore
e ciò in coerenza con il carattere personale della responsabilità. La persona giuridica può essere chiamata a
rispondere solo a titolo di responsabilità solidale e in ogni caso l’ente che paghi la sanzione può esercitare
l’azione di regresso nei confronti dell’autore dell’illecito. Di recente è stata introdotta una particolare forma
di responsabilità amministrativa per fatto proprio delle imprese e degli enti “per gli illeciti amministrativi
dipendenti da reato, qualora sia commesso nel suo interesse o a suo vantaggio” dagli amministratori e
dipendenti. La responsabilità amministrativa degli enti comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie e
interdittive.

8.LE ATTIVITA’ LIBERE SOTTOPOSTE A REGIME DI COMUNICAZIONE PREVENTIVA. LA SEGNALAZIONE


CERTIFICATA D’INIZIO ATTIVITA’

I provvedimenti amministrativi con effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario sono
essenzialmente quelli di tipo autorizzativo. Bisogna sottolineare che negli ordinamenti giuridici fondati sullo
Stato di diritto di matrice liberale l’attività dei privati è in linea di principio libera, nel senso che è sottoposta
esclusivamente al diritto comune: vale quindi la regola che è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato, salvo i limiti generali posti dall’ordinamento civile. Tuttavia, nei casi in cui l’attività dei privati può
interferire o mettere a rischio un interesse della collettività si giustificano regole speciali volte a porre
prescrizioni e vincoli particolari. Il rispetto delle norme poste dalle leggi amministrative può essere
assicurato in un primo gruppo di casi esclusivamente attraverso un'attività di vigilanza, che può portare
all'esercizio di poteri repressivi e sanzionatori se vengono accertate violazioni. Per agevolare i controlli
effettuati dall'amministrazione, in un secondo gruppo di casi di attività libere, la legge grava i privati di un
obbligo di comunicare preventivamente a una pubblica amministrazione l'intenzione di intraprendere
un'attività. A volte, la comunicazione è contemporanea all'avvio dell'attività: altre volte tra la
comunicazione e l'avvio dell'attività è previsto un termine minimo. La fattispecie delle attività libere
regolate da leggi di tipo amministrativo e sottoposte a un regime di comunicazione preventiva è ora
disciplinata dall'art. 19 l. n. 241/1990. Questo articolo prevede l'istituto della segnalazione certificata di
inizio attività (SCIA, introdotta nel 2010 in sostituzione della cosiddetta dichiarazione d'inizio di attività o
DIA). La SCIA riconduce una serie di attività, per le quali in precedenza era previsto un regime di controllo
preventivo a un regime meno intrusivo di controllo successivo, ossia ex post, effettuato
dall’amministrazione una volta ricevuta la comunicazione di avvio dell’attività. L'avvio dell'attività può
essere contemporaneo alla prestazione della dichiarazione. Il privato deve dotare la segnalazione con
un'autocertificazione del possesso dei presupposti e requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento
dell'attività (in caso di dichiarazioni false scattano sanzioni amministrative e penali). Essa ha soltanto la
funzione di sollecitare l'amministrazione a verificare se l'attività in questione è adatta alle norme
amministrative e a richiedere nel caso informazioni e chiarimenti. In caso di “accertata carenza dei requisiti
e dei presupposti” previsti dalla legge per lo svolgimento dell'attività l'amministrazione, entro 60 giorni, può
richiedere al privato di adattare l'attività alla normativa vigente entro un termine fissato. Se ciò non
avviene, emana un provvedimento motivato di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi
effetti. L’amministrazione esercita un potere d’ufficio che può sfociare in un provvedimento di tipo
ordinatorio. Il rapporto giuridico amministrativo si struttura così secondo lo schema del potere e
dell’interesse legittimo oppositivo, a differenza del regime autorizzatorio tradizionale nel quale il rapporto
giuridico amministrativo segue lo schema del potere e dell’interesse legittimo pretensivo. Quindi le attività
assoggettate al regime della SCIA restano libere. Vero è peraltro che anche dopo la scadenza del termine di
60 giorni per l’attività di controllo, l’amministrazione può esercitare i poteri di vigilanza, prevenzione e
controllo previsti da leggi vigenti e persino attivare il potere interdittivo (di autotutela) se vi è pericolo di un
danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, la salute, la sicurezza pubblica o la difesa
nazionale (nel termine di 18 mesi). Il campo di applicazione della SCIA non è definito con precisione dalla
legge. L'art. 19 si limita a porre un criterio generale in base al quale la SCIA sostituisce di diritto ogni atto di
tipo autorizzativo “il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti
richiesti dalla legge”, cioè ogni atto di tipo vincolato. Un secondo criterio è che deve trattarsi di atti
autorizzativi per i quali non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o altri strumenti di
programmazione di settore, perché in questi casi occorre individuare qualche criterio per selezionare gli
aspiranti a svolgere l’attività e attivare un procedimento comparativo incompatibile con l’avvio della stessa
sulla base di una semplice comunicazione. Accanto a questi due criteri generali, l'art. 19 prevede alcuni casi
di esclusione quando entrino in gioco interessi pubblici particolarmente rilevanti (ambiente, difesa
nazionale ecc.), oppure di atti autorizzativi imposti dalla normativa europea. Per ridurre i margini di
incertezza il d.lgs. 2016, n. 222 ha previsto un lungo elenco di casi sottoposti al regime della SCIA o del
silenzio assenso. Resta peraltro incerta la questione della tutela del terzo che affermi di subire una lesione
nella propria sfera giuridica per effetto dell'avvio dell'attività. Nel caso della SCIA manca un provvedimento
che consenta il ricorso al giudice amministrativo da parte del terzo. Il terzo che desideri contrastare l'avvio
dell'attività deve invitare l'amministrazione a emanare un provvedimento che ne vieti l'avvio o la
prosecuzione e se l'amministrazione non provvede può rivolgersi al giudice per fare accertare l'obbligo di
provvedere. In realtà, la C. cost. (2019), anche in presenza di un siffatto invito vale per l’amministrazione il
termine perentorio di 60 gg e 18 mesi prima richiamati. In realtà, la stessa Corte ha invitato il parlamento
ad introdurre alcune modifiche specifiche.

9.LE AUTORIZZAZIONI E LE CONCESSIONI

Con i regimi che subordinano l’avvio dell’attività a un provvedimento di assenso (controllo ex ante) si passa
al modello dell’amministrazione titolare di poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi della sfera
giuridica del privato. Nell’ambito del controllo preventivo sulle attività dei privati vanno considerate
principalmente le autorizzazioni e le concessioni. L'autorizzazione è l'atto con il quale l'amministrazione
rimuove un limite all'esercizio di un diritto soggettivo del quale è già titolare il soggetto che presenta la
domanda. Il suo rilascio presuppone una verifica della conformità dell'attività ai principi normativi posti a
tutela dell'interesse pubblico (funzione di controllo). Quindi le autorizzazioni danno origine a diritti
soggettivi in attesa di espansione, il cui esercizio è subordinato a una verifica preventiva del rispetto dei
presupposti e dei requisiti stabiliti dalla legge in relazione all'esigenza di tutela di un interesse pubblico.
La concessione è invece l'atto con il quale l'amministrazione attribuisce ex novo o trasferisce la titolarità di
un diritto soggettivo in capo a un soggetto privato. Nel rapporto giuridico amministrativo che si instaura tra
il soggetto privato che presenta l’istanza di concessione e l’amministrazione, il primo si presenta titolare di
un interesse legittimo pretensivo allo stato puro. Solo in seguito all’emanazione del provvedimento
concessorio sorge in capo al privato un diritto soggettivo pieno che può essere fatto valere anche nei
confronti dei terzi. Sul piano funzionale l’autorizzazione è uno strumento di controllo da parte
dell’amministrazione sullo svolgimento dell’attività allo scopo di verificare preventivamente che essa non si
ponga in contrasto con un interesse pubblico. Invece la concessione instaura un rapporto di lunga durata
con il concessionario caratterizzato da diritti e obblighi reciproci e da poteri di vigilanza più continuativa e
talora anche di indirizzo delle attività poste in essere in base alla concessione. La concessione costituisce
spesso uno strumento attraverso il quale l’amministrazione, anziché provvedere con le proprie strutture
alla gestione di beni, attività o prerogative proprie, l’affida a soggetti privati. Le concessioni si dividono in
due categorie: le concessioni traslative, che trasferiscono in capo a un soggetto privato un diritto o un
potere del quale è titolare l'amministrazione, e le concessioni costitutive, che attribuiscono al soggetto
privato un nuovo diritto. Per quanto riguarda l'oggetto, le concessioni sono di varie specie. Ci sono le
concessioni di beni pubblici, come i beni demaniali sui quali possono essere attribuiti diritti d’uso esclusivi
(es. radiofrequenze); le concessioni di servizi pubblici o di attività sottoposte a un regime di monopolio
legale o di riserva di attività a favore dello Stato o di enti pubblici; le concessioni di lavoro o di servizi
assimilati dal Codice dei contratti pubblici e normali contratti. Infine, fanno parte delle concessioni alcuni
tipi di sovvenzioni, sussidi e contributi di denaro pubblico erogati, per il perseguimento di interessi pubblici
alle quali fa riferimento l'art. 12 l. n. 241/1990.
La bipartizione delle autorizzazioni e delle concessioni apparve fin da subito troppo rigida e inadatta a
inquadrare una realtà molto più variegata e complessa. Venne così individuata all’interno di ciascuna
categoria, una serie di subcategorie intermedie. Le figure intermedie di atti autorizzativi si dividono in:
autorizzazioni costitutive, permissive (operano come fatti permissivi o ostativi all’esercizio di una
determinata attività con funzione di mero controllo o di programmazione) e ricognitive (volte a valutare
l’idoneità tecnica di persone o di cose).
La distinzione tra autorizzazioni e concessioni è stata rivalutata sia in base al diritto europeo, il quale ignora
la distinzione tra diritto soggettivi e interessi legittimi e che tende a considerare in modo unitario gli atti che
realizzano forme di controllo ex ante, sia alla luce del diritto interno. Alla fine, ciò che conta, sia per le
autorizzazioni sia per le concessioni, è che in mancanza di assenso preventivo dell'amministrazione l'attività
non può essere intrapresa. La direttiva servizi del 2006 recepita nel 2010 dà una definizione
onnicomprensiva di regime autorizzatorio, che include qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un
destinatario a rivolgersi a un’autorità competente allo scopo di ottenere una decisione formale o una
decisione implicita relativa all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio. Come impostazione
generale, il diritto europeo è sempre stato nemico della discrezionalità: subordinare l’esercizio di un’attività
a una valutazione discrezionale dell’amministrazione significa negare la possibilità di ricostruire la posizione
giuridica soggettiva del privato o dell’impresa in termini di diritto in senso proprio e ciò può costituire una
barriera all’entrata in un determinato mercato. Proprio per questa ragione numerose direttive europee
emanate nell’ultima parte del secolo scorso hanno trasformato i regimi di concessione discrezionale in
regimi di autorizzazione vincolata. In termini più generali, il decreto del 2010 di recepimento della direttiva
servizi, nel porre alcune disposizioni guida in materia di regimi autorizzato rivolte soprattutto al legislatore,
enuncia il principio che l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi costituiscono espressione della libertà
di iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie. Il
decreto individua una serie di requisiti di accesso all’attività vietati in modo assoluto perché non giustificati
o discriminatori: ad esempio sono discriminatori i requisiti che richiedono al prestatore di servizi la
cittadinanza o la residenza italiana; non giustificata è invece l’applicazione caso per caso di una verifica di
natura economica che subordina il rilascio del titolo autorizzatorio alla prova dell’esistenza di un bisogno
economico o di una domanda di mercato. Accanto ai requisiti vietati, ce ne sono alcuni che sono ammessi
solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale e previa notifica alla Commissione europea:
tra questi rientrano ad esempio la previsione di tariffe obbligatorie minime o massime, di restrizioni
quantitative o territoriali, o di un numero minimo di dipendenti. Nei casi in cui il numero delle
autorizzazioni deve essere limitato “per ragioni collegate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità
tecniche disponibili” o per altri motivi interpretativi di interesse generale, il loro rilascio deve avvenire
attraverso una procedura di selezione pubblica sulla base di criteri resi pubblici, atti ad assicurare
l'imparzialità. In conclusione, alla luce dell'evoluzione del diritto europeo e del diritto interno, la distinzione
più rilevante in materia di autorizzazioni e concessioni è tra atti vincolanti e atti discrezionali o tra come è
stato detto tra autorizzazioni discrezionali costitutive e autorizzazioni vincolate ricognitive. Per le prime
l'atto amministrativo è la fonte diretta dell'effetto giuridico prodotto, secondo lo schema della norma
attributiva del potere (norma-fatto-effetto); nelle seconde l'effetto giuridico si ricollega direttamente alla
legge, cioè al verificarsi di un fatto sussumibile nella norma. All’autorità che emana l’atto è riservato in via
esclusiva il compito di accertare la produzione dell’effetto giuridico. L’avvio dell’attività nel secondo tipo di
autorizzazioni è precluso in assenza dell’atto amministrativo per ragioni di certezza delle relazioni
giuridiche, in quanto l’ordinamento riserva almeno in prima battuta all’amministrazione il compito di
verificar se sussistono in concreto i presupposti e i requisiti richiesti dalla norma per svolgerla.

10.GLI ATTI DICHIARATIVI

Esaminiamo ora altre classificazioni elaborate dalla dottrina e della giurisprudenza. Una prima categoria
include gli atti amministrativi dichiarativi, nei quali il momento volitivo tipico dei provvedimenti è assente e
ai quali va riconosciuta una funzione ricognitiva e dichiarativa finalizzata alla produzione di certezze
giuridiche. Nella categoria degli atti dichiarativi fanno parte le certificazioni, che sono dichiarazioni di
scienza effettuate da una pubblica amministrazione in relazione ad “atti, fatti, qualità e stati soggettivi” (art.
18 l. n. 241/1990). Le certificazioni relative a questo tipo di dati si ricollegano a una funzione di certezza
pubblica, la quale si realizza sia con la tenuta e l’aggiornamento di registri, albi, elenchi pubblici, sia con la
messa a disposizione ai soggetti interessati dei dati in essi contenuti per mezzo di attestazioni e
certificazioni. Le certificazioni costituiscono la modalità tradizionale per dimostrare il possesso di
presupposti e requisiti richiesti ai privati per potere svolgere molte attività. La l. n. 241/1990 (art. 18) e il
Testo unico sulla documentazione amministrativa (d.p.r. n. 445/2000) prevedono però due modalità
alternative da preferire alle certificazioni. Da un lato, le pubbliche amministrazioni dovrebbero scambiarsi
d'ufficio le informazioni rilevanti senza gravare i soggetti privati dell'onere di ottenere il rilascio dei
certificati (art. 18, commi 2 e 3; art. 43 d.p.r. n. 445/2000). Dall'altro, in molti casi le certificazioni possono
essere sostituite con l'autocertificazione, cioè tramite una dichiarazione formale assunta sotto propria
responsabilità dal soggetto. Se l'autocertificazione è falsa possono essere inflitte sanzioni anche penali.
Inoltre, in caso di dichiarazioni e attestazioni false, sempre tramite sanzioni, all'interessato è negata la
possibilità di adattare l'attività alla legge sanando la propria posizione (art. 21 l. n. 241/1990) e viene
stabilita nei suoi confronti la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti dal provvedimento emanato
in base alla dichiarazione non veritiera (art. 75 d.p.r. n. 445/2000).
Tra gli atti dichiarativi vanno inclusi i cosiddetti atti paritetici: una categoria di atti elaborata dalla
giurisprudenza quando il legislatore attribuì al giudice amministrativo in particolari materie la cognizione di
diritti soggettivi in aggiunta ai tradizionali interessi legittimi. È un atto meramente ricognitivo di un assetto
già definito in tutti i suoi elementi dalla norma attributiva di un diritto soggettivo, e serviva a superare il
termine dei 60 gg (il privato poteva far valere la sua richiesta secondo i normali termini di prescrizione).
Rientrano tra gli atti dichiarativi, inoltre, le verbalizzazioni, che consistono nella “narrazione storico-
giuridica” da parte di un ufficio pubblico di atti, fatti e operazioni avvenuti in sua presenza.
Tra gli atti amministrativi non provvedimentali ci sono, infine, i pareri e le valutazioni tecniche:
manifestazioni di giudizio da parte di organi o enti pubblici contenenti valutazioni e apprezzamenti in
ordine di interessi pubblici secondari o a elementi di carattere tecnico di cui l'amministrazione deve tenere
conto.
11.ALTRE CLASSIFICAZIONI: ATTI COLLEGIALI, COLLETTIVI, PLURIMI, DI ALTA AMMINISTRAZIONE

- Il criterio dei destinatari del provvedimento consente di individuare prima di tutto la categoria degli atti
amministrativi generali, che si rivolgono, invece che a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno
ampie di soggetti. Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi. Gli atti collettivi si
indirizzano a categorie ristrette di soggetti considerati in modo unitario precedentemente individuati con
precisione (ad esempio allo scioglimento di un consiglio comunale). Gli atti plurimi sono anch’essi rivolti ad
una pluralità di soggetti, ma prevedono la scindibilità dei destinatari (ad esempio la trascrizione di una
graduatoria dei vincitori di un concorso pubblico). La distinzione rispetto ad un atto collettivo si vede
soprattutto in sede di tutela giurisdizionale, in quanto un singolo elemento della graduatoria potrà
appellare un fatto personale senza che tale situazioni rientri nella sfera giuridica degli altri componenti della
stessa graduatoria.
- Atti di alta amministrazione: questa tipologia di atti è emersa per distinguerli dagli atti politici (non
sottoposti a regime di provvedimento amministrativo e distinti dagli atti amministrativi). Infatti, tali atti
sono sempre eseguiti dal Governo ma, a differenza degli atti politici, possono essere sottoposti a tutela
giurisdizionale amministrativa e spesso hanno funzioni organizzative e di raccordo interno tra il potere
politico e la pubblica amministrazione (es.tra uffici di ministri e presidenti con nomina e revoca di prefetti).
- Accanto alla possibilità che l’emanazione di un provvedimento amministrativo avvenga per mano di un
organo monocratico, vi è la possibilità che il provvedimento venga emesso dalla volontà di più organi o
soggetti e ha quindi natura di atto complesso (ad esempio un provvedimento interministeriale). Inoltre, ci
sono gli atti collegiali, ove il provvedimento è emanato da un organo composto da una pluralità di
componenti designati con vari criteri (elezione, nomina da parte di organi politici).

12.L’INVALIDITA’ DELL’ATTO AMMINISTRATIVO

Prima di tutto, va detto che non tutti i casi di difformità tra il provvedimento e le norme che lo disciplinano
crea invalidità. Le conseguenze di tale difformità possono essere variamente articolate e graduate dal
diritto positivo. Nei casi di imperfezioni minori l’atto è semplicemente irregolare ed è suscettibile di rettifica
o regolarizzazione. Si ha invalidità quando la difformità tra atto e norme determina una lesione di interessi
tutelati da queste ultime e incide sull'efficacia del primo in modo più o meno definitivo, sotto forma di
nullità o di annullabilità. Per prima cosa bisogna fare una distinzione tra norme che regolano una condotta e
norme che conferiscono poteri. Le prime impongono obblighi o attribuiscono diritti; le seconde conferiscono
poteri, come per esempio fare testamento, di contrarre un matrimonio o di porre in essere un contratto. I
comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti e contro di essi
l'ordinamento reagisce attraverso l'imposizione di sanzioni di varia natura (sanzioni penali, obbligo di
risarcimento). Gli atti posti in essere in violazione delle norme del secondo tipo sono qualificabili come
invalidi e contro di essi l'ordinamento reagisce disconoscendone gli effetti. L'invalidità può essere definita
più precisamente come la difformità di un negozio o di un atto dal suo modello legale. Essa può essere
sanzionata, in base alla gravità della violazione, in due modi: l'inidoneità dell'atto a produrre gli effetti
giuridici tipici, cioè a creare diritti e obblighi o altre modificazioni nella sfera giuridica dei soggetti
dell'ordinamento (nullità); l'idoneità a produrli in via precaria, cioè fino a quando non interviene un giudice
(o un altro organo) che, accertata l'invalidità, rimuova gli effetti prodotti con efficacia retroattiva
(annullamento). Il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo si ispira ma non coincide con
quello del codice civile, che nell’ambito della disciplina del contratto, distingue la nullità e l’annullabilità.
Nel diritto civile la nullità ha carattere atipico: si sanzionano con la nullità tutti i casi di contrarietà del
contratto a norme imperative, rimettendo quindi all’interprete la valutazione caso per caso in ordine al
carattere imperativo o meno della norma violata. Invece la nullità del provvedimento amministrativo è
prevista solo in relazione a poche ipotesi tassative, mentre la violazione delle norme attributive del potere
viene attratta nel regime ordinario dell’annullabilità. Questa differenza si spiega per il fatto che le norme in
materia di contratti hanno di regola carattere dispositivo, cioè possono essere derogate dalle parti. Le
norme imperative segnano invece in negativo i limiti all’autonomia negoziale a tutela di interessi generali,
limiti che l’autonomia privata non può superare. Nel diritto amministrativo invece in coerenza con la logica
della legalità e della tipicità, le norme attributive del potere, in quanto finalizzate a garantire i soggetti
destinatari del provvedimento e a tutelare un interesse pubblico, hanno di regola carattere cogente, ossia
non possono essere derogate o disapplicate dall’amministrazione. Sanzionare con la nullità ogni difformità
tra provvedimento e norma attributiva del potere costituirebbe una reazione sproporzionata da parte
dell’ordinamento.
Sempre in via generale, si fa una distinzione tra invalidità totale e parziale: la prima riguarda l'intero atto, la
seconda una parte di questo, lasciando inalterata la validità e l'efficacia della parte non affetta dal vizio.
Anche il provvedimento amministrativo può essere colpito da invalidità totale o parziale. Quest'ultima si ha
nel caso di provvedimenti con effetti scindibili, come in quello degli atti plurimi (es. atto di nomina di una
pluralità di vincitori di un concorso) o il piano regolatore con riferimento alle destinazioni edificatorie delle
singole aree.
L'invalidità di un provvedimento può essere propria o derivata, originaria o sopravvenuta. Nel caso di
invalidità propria hanno importanza i vizi dei quali è affetto l'atto. Nel caso di invalidità derivata, l'invalidità
dell'atto deriva per propagazione dell'invalidità di un atto presupposto. L'invalidità derivata può essere ad
effetto caducante, e in questo caso travolge in modo automatico l'atto assunto sulla base dell'atto invalido,
o a effetto invalidante, e in questo caso l'atto affetto da invalidità derivata, per quanto a sua volta invalido,
conserva i suoi effetti fino a che non venga annullato. L'effetto caducante si verifica in presenza di un
rapporto di stretta casualità tra i due atti: il secondo costituisce una semplice esecuzione del primo. Invece,
quando l'atto successivo non costituisce una conseguenza inevitabile del primo, ma presuppone nuovi e
ulteriori apprezzamenti, l'invalidità derivata ha soltanto un effetto viziante, con la conseguenza che essa
deve essere fatta valere attraverso l'impugnazione autonoma di quest'ultimo (es. l’invalidità degli atti di
ammissione dei singoli candidati a una prova concorsuale si propaga agli atti successivi della procedura fino
all’approvazione della graduatoria, ma quest’ultima è affetta da un’invalidità derivata viziante e non
caducante).
Considerando l'invalidità originaria e l'invalidità sopravvenuta trova applicazione nel diritto amministrativo
anche il principio del tempus regit actum, secondo il quale la validità di un provvedimento si determina con
riguardo alle norme in vigore al momento della sua adozione. Si parla di invalidità sopravvenuta dei
provvedimenti amministrativi nel caso di legge retroattiva, di legge di interpretazione autentica e di
dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Svolgiamo ora due considerazioni generali sull’invalidità del provvedimento: 1) La legge n.241/1990 ha
razionalizzato le acquisizioni giurisprudenziali. La teoria dei vizi dell’atto amministrativo è il frutto in gran
parte dell’elaborazione del Consiglio di Stato. La giurisprudenza ha subito interpretato la formula eccesso di
potere, non già come straripamento di potere, ma come sviamento di potere. Il primo si riferisce ai casi di
sconfinamento macroscopico dall’ambito di competenza da parte dell’autorità amministrativa (difetto
assoluto di attribuzione); il secondo ai casi nei quali il potere viene esercitato per un fine diverso da quello
posto dalla norma attributiva del potere. In secondo luogo, la giurisprudenza individuò ipotesi nelle quali il
provvedimento è affetto da deviazioni così abnormi dalla norma attributiva del potere o è addirittura
emanato in assenza di una base legislativa tanto da non poter essere inquadrato all’interno del regime
dell’illegittimità. In presenza di questi vizi il provvedimento perde il carattere imperativo e non è in grado di
travolgere i diritti soggettivi: gli atti assunti in carenza di potere vennero attribuiti alla cognizione del giudice
ordinario, mentre gli atti con riferimento ai quali veniva contestato soltanto il cattivo esercizio del potere
restarono affidati alla cognizione del giudice amministrativo. 2) Una seconda osservazione è che la teoria
dei vizi del provvedimento è stata condizionata dalla questione del riparto di giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo fondato sulla distinzione tra le figure del diritto soggettivo e
dell’interesse legittimo, considerati nella loro interazione con il potere amministrativo. In questo contesto è
anche stata elaborata la distinzione tra 2 tipi di comportamenti patologici dell’amministrazione: da un lato
vi sono i meri comportamenti assunti in violazione di una norma di relazione, cioè lesivi di un diritto
soggettivo e ascrivibili alla categoria della illiceità (equiparabili a qualsivoglia comportamento posto in
essere da un soggetto privato non conforme alle norme civilistiche). Dall’altro vi sono i comportamenti nei
quali il collegamento funzionale tra provvedimento invalido e l’attività materiale esecutiva posta in essere
dall’amministrazione integra una violazione della norma attributiva del potere e lede un interesse legittimo,
facendo confluire l’intera fattispecie nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo. La questione
è sorta a proposito dell'espropriazione nel quale si contrappone la cosiddetta “occupazione usurpativa”,
quando il terreno viene occupato in carenza di alcun titolo (in “via di fatto” o in carenza di potere), alla
“occupazione appropriativa”, quando l'occupazione avviene nell'ambito di una procedura di espropriazione
(a seguito della dichiarazione di pubblica utilità) sebbene illegittima: in quest’ultimo caso, secondo la Corte
Costituzionale, i comportamenti costituiscono esercizio, anche se viziato da illegittimità, della funzione
pubblica della p.a. e pertanto sono inclusi nella giurisdizione del giudice amministrativo. Al contrario i
comportamenti che danno origine a un’occupazione usurpativa sono qualificati come illeciti e sono
attribuiti alla giurisdizione del giudice ordinario.
La disposizioni rilevanti in tema di invalidità del provvedimento amministrativo sono contenute nella legge
n.241/1990 e nel Codice del processo amministrativo. L'annullabilità è disciplinata dall'art. 21-octies l. n.
241/1990 e dall'art. 29 Cpa. Invece la nullità è disciplinata dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 e dall'art. 31
Cpa che disciplina l'azione di nullità.

13.L’ANNULLABILITA’

In generale, l'atto amministrativo affetto da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge viene
qualificato come illegittimo (e quindi soggetto ad annullamento). Invece la l. n. 241/1990 ripercorre la
distinzione civilistica tra nullità e annullabilità. Infatti, l'art. 21-octies fa riferimento a quest'ultima. Mentre
l'art. 21-nonies usa ancora la terminologia “provvedimento amministrativo illegittimo” prevedendo che
esso possa essere annullato d'ufficio. Di uso corrente è anche l’espressione “vizi di legittimità” da
contrapporre ai “vizi di merito”, che vengono riferiti alla contrarietà dell’atto a norme o parametri non
giuridici o a canoni più generici di opportunità o di convenienza. In realtà annullabilità e illegittimità sono
vocaboli intercambiabili ma non si può ritenere che tutti gli atti illegittimi siano annullabili: l’atto non
annullabile resta pur sempre illegittimo, cioè connotato da un disvalore maggiore rispetto alla semplice
irregolarità. Le conseguenze dell'annullamento, cioè il venir meno degli effetti del provvedimento con
efficacia retroattiva (ex tunc), non cambiano in base al tipo di vizio accertato. Comunque, l'annullamento
elimina l'atto e i suoi effetti in modo retroattivo e grava sull'amministrazione l'obbligo di porre in essere
tutte le attività necessarie per ripristinare, per quanto possibile, la situazione di fatto e di diritto in cui si
sarebbe trovato il destinatario dell'atto dove quest'ultimo non fosse stato emanato (effetto ripristinatorio).
Invece ciò che varia in funzione del tipo di vizio è il cosiddetto effetto conformativo dell'annullamento, cioè
il vincolo che nasce in capo all'amministrazione nel momento in cui essa emana un nuovo provvedimento in
sostituzione a quello annullato. Da questo punto di vista la distinzione più notevole è tra vizi formali e vizi
sostanziali. Infatti, se il vizio accertato è formale o procedurale, come la mancata acquisizione di un parere
obbligatorio o la rilevazione del vizio di incompetenza, non è da escludere che l'amministrazione possa
emanare un nuovo atto del contenuto identico rispetto a quello dell'atto annullato. Se invece, il vizio è
sostanziale, l'amministrazione non potrà reiterare l'atto annullato. Per quanto riguardano i profili
processuali, l'art. 29 Cpa dichiara che contro il provvedimento affetto da violazione di legge, incompetenza
ed eccesso di potere può essere proposta l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo entro
60 giorni. L'annullabilità non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma, in base al principio dispositivo,
può essere pronunciata solo in seguito alla domanda proposta nel ricorso che deve indicare anche in modo
specifico i profili di vizio denunciati (motivi di ricorso). Inoltre, l'art. 30 Cpa stabilisce che insieme all'azione
di annullamento può essere proposta anche l'azione risarcitoria.
14. a) L’INCOMPETENZA

L’incompetenza è un vizio del provvedimento adottato da un organo o da un soggetto diverso da quello


indicato dalla norma attributiva del potere: si tratta, cioè, di un vizio che attiene all’elemento soggettivo
dell’atto. Le incompetenze possono essere: relative, ossia quando il provvedimento viene emanato da un
organo che appartiene alla stessa branca o settore dell’organo titolare del potere assegnato dalla norma;
assolute, che determinano nullità o carenza di potere (difetto di attribuzione), si ha allorché esista assoluta
estraneità soggettiva e funzionale tra l’organo che ha emanato l’atto e quello competente. In realtà la
differenza tra queste due incompetenze è molto sottile: il vizio viene qualificato usualmente come
incompetenza relativa, mentre l’incompetenza assoluta è rara. Sul piano meramente descrittivo, il vizio
dell’incompetenza si articola in 3 ipotesi principali: 1) incompetenza per materia, che attiene alla titolarità
della funzione; 2) incompetenza per grado, attiene all’articolazione interna degli organi (il provvedimento
viene emesso da un organo senza tener conto della gerarchia); 3) incompetenza per territorio, ossia il
provvedimento viene emesso da un organo che non ha competenza di operare sul quel territorio.
La giurisprudenza più recente ritiene applicabile al vizio di incompetenza l’art. 21-octies, comma 2, cioè il
principio della dequotazione dei vizi formali volto a limitare l’annullabilità degli atti vincolati. Inoltre,
almeno sotto il profilo logico, il vizio di incompetenza assume una priorità rispetto ad altri motivi formulati
nel ricorso, nel senso che il giudice dovrebbe prenderlo in esame per primo e, nel caso in cui accerti il vizio,
deve annullare il provvedimento, senza esaminare ulteriori motivi di ricorso, rimettendo l’affare all’autorità
competente. Infine, a differenza di quanto accade per i vizi formali, si riteneva sin dall’inizio ammessa la
convalida dell’atto da parte dell’organo competente anche in corso di giudizio. Tuttavia, l’art. 21-novies,
comma prevede in via generale la possibilità della convalida del provvedimento annullabile ed è dunque
dubbio se sopravviva ancora questa specificità del regime dell’incompetenza.

15. b) LA VIOLAZIONE DI LEGGE

La seconda tipologia di vizi che possono causare annullabilità è la violazione di legge, la quale è considerata
una categoria residuale, perché in essa ci sono tutti i vizi che non sono elencati come incompetenza o
eccesso di potere. Essa raggruppa tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni
normative contenute in fonti di rango primario o secondario che definiscono i profili vincolanti, formali e
sostanziali, del potere. La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella tra vizi formali e vizi
sostanziali. L'art. 21-octies, comma 2 spiega tra le ipotesi di violazione di legge la “violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti”, cioè una subcategoria di vizi formali che, a certe condizioni sono
dequotati a vizi che non determinano l'annullabilità del provvedimento. Questa disposizione mira a
garantire il rispetto della principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa a scapito di quello del
rispetto della forma. La disposizione pone le seguenti condizioni: che il provvedimento abbia “natura
vincolata” e che, dunque, “sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello il concreto adottato”. In questo caso il provvedimento non può essere annullato né dal giudice
amministrativo nell’ambito di un giudizio di impugnazione, né dalla stessa amministrazione in sede di
esercizio del potere di autotutela. Infatti, l’amministrazione può annullare il provvedimento illegittimo ai
sensi art.21-octies esclusi i casi di cui al medesimo articolo comma 2. Il secondo periodo dell'art. 21-octies,
comma 2, l. n. 241/1990 individua un'ipotesi particolare costituita dall'omessa comunicazione dell'avvio del
procedimento: se il contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato, l'atto non può essere annullato. La disposizione presenta però due specificità: manca il
riferimento alla natura vincolata del potere e si richiede all’amministrazione che ha emanato l’atto di
dimostrare in giudizio che il vizio procedurale o formale accertato non ha avuto alcuna influenza sul
contenuto del (deroga alle regole processuali ordinarie che vietano all’amministrazione di integrare la
motivazione nel corso del giudizio). Tuttavia, poiché la prova richiesta dalla disposizione è una prova
negativa, la giurisprudenza addossa sul ricorrente l’onere di allegare in giudizio gli elementi che sarebbero
stati prodotti nell’ambito del procedimento ove la comunicazione di avvio del medesimo procedimento
fosse stata effettuata nelle forme prescritte.
È preferibile l’interpretazione che qualifica come illegittimi anche i provvedimenti non annullabili ai sensi
della disposizione (al riguardo si è parlato di atto meramente illegittimo per differenziarlo da quello anche
annullabile). In definitiva, l’art.21-octies ha stabilito soltanto che per taluni atti illegittimi l’annullamento
costituisce una reazione dell’ordinamento da ritenersi non proporzionata, visto che il provvedimento risulta
sostanzialmente legittimo.

16. c) L’ECCESSO DI POTERE

L'eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. Esso è lo strumento che
consente al giudice amministrativo, pur mantenendosi all'interno del giudizio di legittimità, di censurare le
scelte operate dell'amministrazione. L’eccesso di potere ha riguardo all’aspetto funzionale del potere, cioè
alla realizzazione in concreto dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione. Dell’eccesso di
potere sono state fornite in dottrina molte ricostruzioni che lo qualificavano come vizio della causa, della
volontà, dei motivi, del contenuto del provvedimento. L'elaborazione oggi prevalente definisce l'eccesso di
potere come vizio della funzione, intesa come la dimensione dinamica che attualizza e concretizza la norma
astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti. In questo passaggio, cioè
all'interno delle fasi del procedimento, possono venir fuori anomalie, incongruenze e disfunzioni che danno
origine appunto all'eccesso di potere. La figura originaria dell'eccesso di potere è lo sviamento di potere che
consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma attributiva del potere. Questo tipo
di violazione avviene quando il provvedimento emanato persegue un fine diverso da quello in relazione al
quale il potere è conferito dalla legge all'amministrazione. Nella pratica lo sviamento di potere è difficile da
provare, in quanto il provvedimento, all’apparenza, si presenta perfettamente conforme alle disposizioni
normative che regolano quel particolare potere. Ciò ha indotto la giurisprudenza a rilevare il vizio in via
indiretta, attraverso elementi indiziari del cattivo esercizio del potere discrezionale costituiti dalle
cosiddette figure sintomatiche. Alcuni le catalogano in ordine logico e cronologico distinguendo quelle che
riguardano la fase istruttoria e quelle che riguardano la fase decisionale; altri le distinguono in intrinseche,
che emergono direttamente dall’analisi del provvedimento e degli atti procedimentali, ed estrinseche, che
invece emergono dal confronto tra il provvedimento ed elementi di contesto esterno. Le principali figure
sintomatiche dell'eccesso di potere sono:

- Errore o travisamento dei fatti, se il provvedimento viene emanato sul presupposto dell'esistenza di
un fatto o di una circostanza che invece risulta inesistente o, viceversa, della non esistenza di un
fatto o di una circostanza che invece risulta esistente. Non rileva se l’errore è inconsapevole o
volontario. Inoltre, l’errore di fatto riguarda esclusivamente la percezione oggettiva della realtà
materiale e non anche il momento della valutazione dei fatti che è invece rimessa al suo
apprezzamento.
- Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria (d'indagine) del procedimento l'amministrazione è tenuta
ad accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile
per operare una scelta consapevole e ponderata. Ove questa attività manchi del tutto o sia
effettuata in modo frettoloso, incompleto o poco approfondito, il provvedimento è viziato sotto il
profilo dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria. A differenza dell’errore di fatto, nel caso di
difetto di istruttoria non può concludersi che il quadro fattuale posto alla base del provvedimento
risulti in effetti esistente e che dunque la scelta operata sia quella corretta, ma l’analisi del
provvedimento e degli atti procedimentali lascia dubbi in proposito. L’amministrazione, una volta
annullato il procedimento, ben potrebbe adottarne uno con il medesimo contenuto.
- Difetto di motivazione. Nella motivazione del provvedimento l'amministrazione deve dar conto
all'esito dell'istruttoria, delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Essa deve consentire
una verifica del corretto esercizio del potere, cioè della procedura seguita per pervenire alla
determinazione contenuta nel provvedimento, ricavando la serie degli elementi istruttori rilevanti e
operando l'analisi degli interessi. Il difetto di motivazione ha varie sfaccettature. La motivazione
può essere insufficiente, incompleta o generica, se da essa non si manifesta compiutamente la
procedura logica seguita dall'amministrazione e quindi non vengono fuori le ragioni sottostanti la
scelta operata. La legge 241/1990 contiene alcune disposizioni che specificano il contenuto minimo
della motivazione: l’amministrazione deve valutare e motivare gli apporti partecipativi di chi
interviene nel procedimento e dar conto delle ragioni per le quali non accoglie le osservazioni
presentate dall’interessato al quale sia comunicato il preavviso di rigetto di un’istanza. Inoltre,
l’organo competente ad adottare il provvedimento finale, ove ritenga di discostarsi dalle risultanze
dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, deve darne conto nella motivazione. La
motivazione può consistere solo in un sintetico riferimento ai punti di fatto o di diritto, ritenuto
risolutivo, nel caso in cui l’amministrazione ritenga un’istanza manifestamente inammissibile o
infondata. In realtà non esiste un criterio univoco per determinare se una motivazione sia
sufficiente: si può ritenere che quanto più ampia è la discrezionalità dell’amministrazione e quanto
più gravosi sono gli effetti del provvedimento nella sfera soggettiva dei destinatari, tanto più
elevato è lo standard quantitativo e qualitativo imposto dalla motivazione. Inoltre, la motivazione
può essere illogica, contraddittoria, o incongrua, quando essa contenga proposizioni o riferimenti a
elementi incompatibili tra loro. Nel caso in cui la motivazione manchi del tutto, il vizio può essere
qualificato come violazione di legge, in quanto l’obbligo di motivazione è ora previsto
espressamente. Infine, può essere perplessa o dubbiosa dove non consenta di individuare con
precisione il potere che l'amministrazione ha inteso esercitare.
- Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà. Si è osservato che il diritto amministrativo assume che
la pubblica amministrazione agisca come un soggetto razionale. Quindi, vieni fuori un vizio di
eccesso di potere tutte le volte che il contenuto del provvedimento e le statuizioni dello stesso
fanno emergere profili di illogicità o irragionevolezza, apprezzabili in modo oggettivo in base a
regole di esperienza. Per esempio, un provvedimento di diffida a cessare e a porre rimedio ad una
violazione di una norma amministrativa non può assegnare al diffidato un termine così breve da
non poter essere rispettato. Una sottospecie di illogicità e irragionevolezza può essere considerata
la contraddittorietà interna (intrinseca) al provvedimento. Questa viene fuori se non c'è
consequenzialità tra le premesse del provvedimento e le conclusioni tratte nel dispositivo. La
contraddittorietà può essere anche esterna (estrinseca) al provvedimento, cioè essere rilevata dal
raffronto tra provvedimento impugnato e altri provvedimenti precedenti dell'amministrazione che
riguardano lo stesso soggetto. Esso costituisce una violazione del principio di coerenza che deve
presiedere all’agire della pubblica amministrazione.
- Disparità di trattamento. Il principio di coerenza e il principio di eguaglianza impongono anche
all'amministrazione di trattare in modo uguale casi uguali. Il vizio può venir fuori sia nel caso in cui
casi uguali siano trattati in modo diseguali, sia nel caso in cui casi diseguali siano trattati in modo
uguale. Per stabilire se le situazioni da confrontare sono identiche o differenziate va utilizzato il
criterio della ragionevolezza. Il vizio di cui si parla emerge spesso nei giudizi comparativi, nelle
progressioni di carriera o nel riconoscimento di altri benefici ai dipendenti pubblici. Per far sì che sia
censurata la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento sia discrezionale e che la
comparizione si riferisca a provvedimenti emanati in modo legittimo. L’emanazione di un atto
illegittimo a favore di uno o più soggetti non può cioè fondare la pretesa di un altro soggetto a
vedersi riconoscere, sempre illegittimamente, la stessa utilità.
- Violazione delle circolari e delle norme interne, della prassi amministrativa. L'attività della pubblica
amministrazione deve essere posta in essere non solo in corrispondenza con le disposizioni
contenute in leggi, regolamenti e in altre fonti normative, ma anche in corrispondenza con le
norme interne contenute in circolari, direttive, atti di pianificazione o di altri atti contenenti criteri e
principi di vario tipo che hanno come scopo quello di orientare l'esercizio della discrezionalità da
parte dell'organo competente a emanare il provvedimento. I principi di coerenza e di rispetto
dell’assetto organizzativo dell’amministrazione prevedono che il titolare del potere deve esplicitare
nella motivazione le ragioni per le quali ha ritenuto di disattendere nel caso concreto le prescrizioni
poste dalle norme interne. Una particolare specie di norma interna è costituita dalla prassi
amministrativa che si forma all’interno delle amministrazioni attraverso una serie di comportamenti
e decisioni assunte in situazioni similari. Anch’essa crea un vincolo di coerenza e di parità di
trattamento. Pertanto, se l’amministrazione disattende in un caso particolare la prassi seguita in
precedenza senza motivare le ragioni che giustificano una siffatta deviazione, l’atto è affetto da
eccesso di potere.
- Ingiustizia grave e manifesta. In qualche rara occasione la giurisprudenza, per ragioni equitative, si
spinge fino al punto di censurare provvedimenti discrezionali il cui contenuto appaia in modo
palese e manifesto ingiusto. Il caso dal quale trae origine questa figura riguardava un dipendente
delle ferrovie che dopo aver subito un grave incidente veniva esonerato per scarso rendimento.
L’ingiustizia manifesta è una figura sintomatica che si colloca al confine tra il sindacato di legittimità
e il sindacato di merito. Il carattere ingiusto deve essere manifesto cioè di immediata evidenza.

Accanto a queste figure sintomatiche, ve ne sono altre che hanno una configurazione più dubbia. Talora in
esse vengono inclusi anche i vizi della volontà, la violazione dei principi di proporzionalità e del legittimo
affidamento. Questi principi hanno ormai un fondamento legislativo tramite il rinvio all’ordinamento
europeo contenuto nell’art. 1 della legge 241/1990 e pertanto la loro violazione può essere qualificata
come violazione di legge. In prospettiva, potrebbero emergere anche nuove figure.
La giustificazione teorica delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere è controversa. 1.Secondo alcune
teorie, esse rilevano essenzialmente come prove indirette dello sviamento di potere e hanno una valenza
essenzialmente processuale. Cioè possono essere ricondotte allo schema civilistico delle presunzioni. Una
eventuale prova contraria non è compatibile con la struttura attuale del processo amministrativo, che è
ancora ispirato al principio del divieto di integrazione della motivazione del procedimento in corso di
giudizio. 2.Secondo altre teorie, le figure sintomatiche hanno ormai raggiunto una completa autonomia
dallo sviamento di potere e hanno una valenza sostanziale, prima ancora che processuale. Cioè esse sono
riconducibili a ipotesi di violazione dei principi generali dell'azione amministrativa e più precisamente dei
principi logici e giuridici che dirigono l'esercizio della discrezionalità. Il giudice analizza dunque tutte le fasi
dell’esercizio discrezionale ripercorrendo l’iter procedimentale e verificando la ricostruzione della
situazione di fatto e l’acquisizione di tutti gli elementi rilevanti per la decisione, la valutazione e la
ponderazione degli interessi acquisiti, la coerenza tra le premesse e il dispositivo del provvedimento, gli
altri elementi di contesto. 3.Di recente le figure sintomatiche sono state ricondotte alle clausole generali
(buona fede, imparzialità) che, analogamente a quanto accade nelle relazioni giuridiche privatistiche, fanno
nascere obblighi comportamentali nell'ambito del rapporto giuridico amministrativo frapponendosi tra la
pubblica amministrazione e il cittadino. In definitiva, le figure sintomatiche dell’eccesso di potere hanno
ancora uno statuto teorico incerto.

17.LA NULLITA’

L'art. 21-septies l. n. 241/1990 prima di tutto individua quattro ipotesi di nullità: la mancanza degli elementi
essenziali; il difetto assoluto di attribuzione; la violazione o elusione del giudicato; gli altri casi
espressamente previsti dalla legge. 1. La mancanza degli elementi essenziali associa la nullità del
provvedimento a quella del contratto, anche se la l. n. 241/1990 non li elenca in modo preciso, rimettendo
così all’interprete il compito di individuare le singole fattispecie. 2. Il difetto assoluto di attribuzione
corrisponde alla figura dello straripamento di potere che avrebbe potuto costituire il primo modello
dell'eccesso di potere. 3. La violazione o elusione del giudicato si ha quando l'amministrazione in sede di
nuovo esercizio del potere in seguito all'annullamento pronunciato dal giudice con sentenza passata in
giudicato emana un nuovo atto che si pone in contrasto con quest'ultima quando essa ponga un vincolo
puntuale e non lasci all'amministrazione alcuno spazio di valutazione. 4. La quarta ipotesi di nullità si
riferisce ai casi in cui la legge qualifica espressamente come nullo un atto amministrativo (nullità testuale).
Un'ipotesi di nullità prevista per legge riguarda gli atti adottati da organi collegiali scaduti, passato il tempo
di 45 giorni in cui possono comunque essere posti in essere solo gli atti di ordinaria amministrazione.
Sul versante processuale, l'art. 31.4 Cpa introduce un'azione per la declaratoria della nullità che può essere
proposta davanti al giudice amministrativo entro un termine di decadenza breve (180 giorni) e ciò in
relazione all'esigenza di garantire stabilità all'ordine dei rapporti di diritto pubblico. A differenza di quanto
accade per l'annullabilità, la nullità può essere sempre rilevata d'ufficio dal giudice o opposta dalla parte
resistente (pubblica amministrazione). Inoltre, sempre sul versante processuale, viene attribuito alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia relativa alla nullità dell’atto adottato in
violazione o elusione del giudicato: il vizio va fatto valere, nella sede del giudizio di ottemperanza, cioè del
rito speciale previsto nel caso di mancata esecuzione da parte della p.a. delle sentenze del giudice
amministrativo e del giudice ordinario e il ricorso può essere proposto nel termine di 10 anni dal passaggio
in giudicato della sentenza e il giudice ove accolga il ricorso emana una sentenza che dichiara la nullità del
provvedimento.

18.L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO, LA CONVALIDA, LA RATIFICA, LA SANATORIA, LA CONFERMA, LA


CONVERSIONE, LA REVOCA, IL RECESSO

Conviene ora esaminare i provvedimenti che l’amministrazione può emanare per porre rimedio
all’invalidità o non conformità all’interesse pubblico di un provvedimento amministrativo.

L'annullamento d'ufficio
L'annullamento del provvedimento può essere pronunciato oltre che dal giudice amministrativo in caso di
accoglimento del ricorso proposto dal titolare dell'interesse legittimo, anche in altri contesti e da altri
soggetti: dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi amministrativi, dagli organi
amministrativi nominati al controllo di legittimità di alcune categorie di provvedimenti; dal ministro con
riferimento agli atti emanati dai dirigenti ad esso sottoposti; dal Consiglio dei ministri nei confronti di tutti
gli atti degli apparati statali, regionali e locali. Il cosiddetto annullamento straordinario da parte del governo
rientra tra gli atti di alta amministrazione ampiamente discrezionali e persegue appunto un fine specifico,
cioè quello di “tutela dell'unità dell'ordinamento” di fronte al rischio che gli enti territoriali autonomi
assumano determinazioni anomale. Proprio per la sua particolare delicatezza, l'annullamento straordinario
richiede l'acquisizione preventiva di un parere del Consiglio di Stato. L'annullamento d'ufficio è disciplinato
in termini generali dall’art. 21 nonies l.241/1990. Per far sì che l'amministrazione possa esercitare in modo
legittimo il potere di annullamento d'ufficio devono esistere quattro presupposti esplicitati dall'art. 21-
nonies: 1. che il provvedimento sia “illegittimo ai sensi dell'art. 21-octies”, e quindi sia affetto da un vizio di
violazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere, ma non si deve ricadere in una delle ipotesi di
vizi formali del comma 2 dell'articolo; 2. devono esistere ragioni di “interesse pubblico”, rimesse alla
valutazione dell'amministrazione, che rendano preferibile la rimozione dell'atto e dei suoi effetti piuttosto
che la loro conservazione, pur in presenza di un'illegittimità accertata; 3. un'analisi di tutti gli interessi in
gioco che deve essere esplicitata nella motivazione (oltre all'interesse pubblico all'annullamento, da un lato
quello del destinatario del provvedimento, dall'altro quello degli eventuali controinteressati); 4. la
valutazione discrezionale deve tener presente il fattore temporale, per cui l'annullamento può essere
attuato “entro un termine ragionevole” e, se è passato tanto tempo dall'emanazione del provvedimento
illegittimo, prevale tendenzialmente l'interesse a mantenere inalterato lo status quo ante e a tutelare
l'affidamento creato, mentre, se l'annullamento rileva immediatamente l'illegittimità del provvedimento
emanato, l'amministrazione può procedere all'annullamento d'ufficio senza dover valutare in modo
approfondito interessi diversi dal semplice ripristino della legalità. Rientra nella discrezionalità
dell’amministrazione stabilire se il termine è ragionevole e poiché ciò introduce un elemento di incertezza
sulla stabilità dei rapporti giuridici amministrativi, per alcuni tipi di provvedimenti è fissato il termine di 18
mesi. Nel caso di provvedimenti che comportano esborsi di danaro da parte dell’amministrazione, si ritiene
generalmente che l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio sussista in re ipsa. Il potere di
annullamento deve rispettare le regole generali previste in tema di comunicazione di avvio del
procedimento e di partecipazione dei soggetti interessati.

La convalida
L'art. 21-nonies, in alternativa all'annullamento d'ufficio, prevede che l'amministrazione possa procedere
alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre per ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole. Il potere in questione è espressione del principio generale della conservazione dei valori
giuridici e che consiste nell’eliminazione del vizio del quale è affetto il provvedimento amministrativo. La
convalida è operata dalla stessa amministrazione cui è imputabile il vizio rilevato. Se la convalida riguarda il
vizio di incompetenza è ricorrente l’espressione di ratifica. Tuttavia, la ratifica riguarda le ipotesi in cui
all'interno di un'amministrazione pubblica può, in base alla legge, esercitare in caso d'urgenza una
competenza attribuita in via ordinaria a un altro organo, che poi è chiamato a far proprio l'atto emanato.

La sanatoria
Si parla di sanatoria nei casi in cui l'atto è emanato in mancanza di un presupposto e quest'ultimo si
materializza in un momento successivo, o nei casi in cui un atto della sequenza procedimentale viene posto
in essere dopo il provvedimento conclusivo.

La conferma e l'atto confermativo


All’esito di un procedimento di riesame aperto su sollecitazione di un privato o anche d’ufficio
l'amministrazione può pervenire alla conclusione che il provvedimento non è affetto da nessun vizio. In
questi casi l'amministrazione emana un provvedimento di conferma. Nella giurisprudenza si distingue tra
conferma, che costituisce un provvedimento amministrativo autonomo dal contenuto identico di quello
oggetto del riesame, e atto semplicemente confermativo. Con quest'ultimo l'amministrazione si limita a
comunicare al privato che chiede il riesame che non ci sono motivi per riaprire il procedimento e procedere
a una nuova valutazione: tale atto non può essere impugnato.

La conversione
Con riferimento ai provvedimenti affetti da nullità e annullabilità, si ritiene generalmente applicabile, anche
se manca una disposizione legislativa espressa, la conversione, sull'esempio del modello civilistico (art.
1424 cod. civ., “il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i
requisiti di forma e sostanza, qualora, avuto riguardo allo scopo, debba ritenersi che le parti lo avrebbero
voluto se avessero conosciuto la nullità”).

La revoca
Anche i provvedimenti perfettamente validi ed efficaci possono essere soggetti a un riesame che ha per
oggetto il merito (opportunità), cioè la conformità all'interesse pubblico dell'assetto degli interessi
risultante dall'atto emanato. Interviene qui la revoca del provvedimento. Il potere di revoca è considerato
come una manifestazione del potere di autotutela della pubblica amministrazione ammesso da sempre
dalla giurisprudenza. Il potere di revoca è giustificato dall’esigenza di garantire nel tempo la conformità
dell’interesse pubblico dell’assetto giuridico derivante da un provvedimento amministrativo. L' art. 21-
quinquies l. 241/1990 pone una disciplina generale della revoca precisandone meglio i presupposti e gli
effetti. L’articolo distingue due tipi: revoca per sopravvenienza e revoca espressione dello jus poenitendi.
Sono riconducibili alla prima fattispecie la revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o anche
quella per mutamento della situazione di fatto. La revoca espressione dello jus poenitendi riguarda l'ipotesi
di “nuova valutazione dell'interesse pubblico originario”, che si ha nei casi in cui l'amministrazione si rende
conto di aver compiuto analisi errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. Essa
può essere disposta dallo stesso organo che ha emanato l’atto o da altro organo previsto dalla legge. A
differenza dell'annullamento d'ufficio, che ha efficacia retroattiva, la revoca “determina l'idoneità del
provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti” (ex nunc). Non sono suscettibili di revoca gli ordini già
interamente eseguiti, gli atti vincolati e più in generale le certificazioni e le valutazioni tecniche. Una novità
introdotta dall'art. 21-quinquies per la revoca è la generalizzazione dell'obbligo di indennizzo nei casi in cui
essa comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, con alcuni criteri per quantificare
l’indennizzo in caso di revoca di atti che incidono su rapporti negoziali nell’obiettivo di ridurne l’incarico.
L’indennizzo è limitato al solo danno emergente, con possibilità di applicare alcune riduzioni. Le
controversie relative alla quantificazione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo. La revoca rimane comunque un provvedimento discrezionale che richiede una
motivazione adeguata. La revoca disciplinata dall'art. 21-quinquies va tenuta distinta dalla cosiddetta
revoca sanzionatoria e dal mero ritiro. La revoca sanzionatoria può essere posta dall'amministrazione nel
caso in cui il privato, destinatario di un provvedimento amministrativo favorevole, non rispetti le condizioni
e i limiti in esso previsti, o non intraprenda l'attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto. Il
mero ritiro ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci. Può avvenire per ragioni di
legittimità o anche di merito e non necessita di una valutazione specifica dell’interesse pubblico e degli
interessi dei destinatari del provvedimento.

Il recesso dai contratti


L'art. 21-sexies l. 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale dai contratti della pubblica
amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo “nei casi previsti dalla legge o dal contratto”. Si
tratta di una disposizione che riguarda l’attività negoziale di diritto privato della PA e che ribadisce che in
questo ambito essa non gode di alcun privilegio. Tra le disposizioni legislative che disciplinano in modo
specifico il recesso dai contratti c'è quella in tema di comunicazioni e certificazioni antimafia che lo prevede
nei casi in cui emergano tentativi di infiltrazione mafiosa.
CAPITOLO 5: IL PROCEDIMENTO

1.NOZIONI E FUNZIONI DEL PROCEDIMENTO

Il procedimento amministrativo può essere definito come la “sequenza di atti e operazioni tra loro collegati
funzionalmente in vista e al servizio dell'atto principale”, cioè del provvedimento produttivo di effetti nella
sfera giuridica di un soggetto privato. Esso è prima di tutto una nozione teorica generale del diritto collegata
alle modalità di produzione di un effetto giuridico. Una prima funzione è quella di consentire un controllo
sull'esercizio del potere (soprattutto ad opera del giudice), attraverso una verifica del rispetto della
sequenza degli atti e operazioni normativamente predefinite. Una seconda funzione è quella di far venire
fuori e dar voce a tutti gli interessi impressi direttamente o indirettamente dal provvedimento. Ciò sia
nell'interesse dell'amministrazione che può così ricoprire gli squilibri informativi che spesso ci sono nei
rapporti con i soggetti privati, sia nell'interesse di questi ultimi che hanno la possibilità di rappresentare e
difendere il proprio punto di vista: la partecipazione ha così una dimensione collaborativa. Questo avviene
soprattutto nei procedimenti di tipo individuale in cui il procedimento determina effetti verso il
destinatario. Qui la partecipazione del privato al procedimento è utile sia all’amministrazione in relazione
alle esigenze di completezza dell’istruttoria, sia al privato che ha così la possibilità di sottoporre
all’amministrazione gli elementi necessari affinché essa emani il provvedimento favorevole e gli attribuisca
il bene della vita al quale ispira. Una terza funzione è quella del contraddittorio (scritto e a volte anche
orale) a favore dei soggetti influiti negativamente dal provvedimento. Essa riguarda soprattutto i
procedimenti individuali, in cui l'amministrazione esercita un potere che determina effetti restrittivi o
limitativi della sfera giuridica del destinatario e il rapporto giuridico si definisce in termini di
contrapposizione, anziché di collaborazione. Il contraddittorio procedimentale, che connota in senso
giustiziale il procedimento, può essere verticale o orizzontale. Il primo si riferisce ai casi in cui il rapporto
giuridico ha carattere bilaterale e coinvolge l’amministrazione titolare del potere e il destinatario diretto
dell’effetto giuridico restrittivo (provvedimenti sanzionatori, di imposizione di vincoli): qui
l’amministrazione deve essere parte imparziale, deve cioè curare l’interesse pubblico di cui essa è
portatrice e garantire la posizione della parte privata portatrice di un interesse contrapposto. C’è però il
rischio che l’amministrazione tenda a considerare il contraddittorio come un impaccio alla propria azione
che rende meno rapida ed efficiente l’azione amministrativa: quindi una soluzione organizzativa per
assicurare una maggiore terzietà dell’amministrazione, prevista per le autorità indipendenti, consiste
nell’attribuire le funzioni decisionali a un organo distinto dall’ufficio che cura l’attività istruttoria. La
dimensione orizzontale del contraddittorio emerge nei procedimenti nei quali i privati sono portatori di
interessi contrapposti e pertanto l’organo decidente è chiamato a garantire la parità. In alcuni casi il
contraddittorio è perfettamente paritario, in altri casi il contraddittorio orizzontale non è del tutto paritario,
come nei procedimenti sanzionatori antitrust nei quali l’impresa sospettata di aver compiuto un illecito
anticoncorrenziale si contrappone l’impresa che ha denunciato all’Autorità garante della concorrenza e del
mercato. All’impresa denunciante sono riconosciuti alcuni poteri, ma prevale l’esigenza di assicurare
all’impresa oggetto del procedimento sanzionatorio una possibilità di tutelare pienamente la propria
posizione nei confronti dell’autorità procedente, rispetto alla quale il contraddittorio mantiene la sua
dimensione verticale. Una quarta funzione del procedimento è quella di operare da fattore di
legittimazione del potere dell'amministrazione e quindi di promuovere la democraticità dell'ordinamento
amministrativo: il procedimento, aperto alla partecipazione di tutti i soggetti interessati, diviene la sede
nella quale si procede a individuare e a precisare la regola per il caso concreto da porre come contenuto del
provvedimento. Infine, il procedimento ha la funzione di attuare il coordinamento tra più amministrazioni,
ognuna delle quali deve curare un interesse pubblico, nei casi in cui un provvedimento amministrativo vada
a incidere su una pluralità di interessi pubblici. Accanto a modelli di coordinamento debole (parere
obbligatorio, ma non vincolante), la legislazione amministrativa prevede modelli di coordinamento più forte
(parere vincolante, intesa, concerto, decreto interministeriale, ecc.). Quando il coordinamento tra interessi
non sia possibile all'interno del singolo procedimento e l'avvio di un'attività da parte di un privato sia
subordinata al rilascio di una pluralità di atti autorizzativi all'esito di una pluralità di procedimenti autonomi
paralleli, il coordinamento può avvenire con altre modalità (la conferenza dei servizi, l'autorizzazione
unica).
Dunque, nei procedimenti di tipo individuale rileva soprattutto la funzione di garanzia del soggetto nella cui
sfera ricadono gli effetti del provvedimento. Nei procedimenti di tipo contenzioso prevale la funzione di
garanzia del contraddittorio paritario.

2.LE LEGGI GENERALI SUL PROCEDIMENTO E LA L. 241/1990

Il procedimento amministrativo è al centro del sistema del diritto amministrativo in molti ordinamenti ed è
disciplinato da diverse leggi generali, tra cui la L. 241/1990. Essa si caratterizza per il fatto di essere una
legge soprattutto di principi, in cui però non contiene né una definizione generale di procedimento, né una
disciplina organica delle singole fasi in cui si articola. Disciplina solo alcuni istituti e fornisce una cornice
generale che si sovrappone e integra tutte le leggi amministrative che disciplinano i singoli procedimenti. Il
campo di applicazione della l. n. 241/1990 è stabilito in base a un criterio soggettivo e oggettivo. Sotto il
profilo soggettivo le disposizioni che ci sono al suo interno si applicano alle amministrazioni statali, agli enti
pubblici nazionali e anche alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente alle attività
che si sostanziano nell'esercizio delle funzioni amministrative (art. 29). Le disposizioni sul diritto di accesso
hanno un campo di applicazione ancora più esteso che include anche i gestori di pubblici servizi. Inoltre, le
regioni e gli enti locali possono dotarsi di una propria disciplina sulla base dei principi stabiliti da tale legge.
Bisogna però notare che le disposizioni che regolano i principali istituti sono qualificate come attinenti ai
livelli essenziali delle prestazioni, rientranti nella competenza esclusiva dello Stato. Gli spazi per una
disciplina regionale o locale difforme sono limitati e in ogni caso questa deve essere tale da prevedere
garanzie non inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni statali, con espressa previsione della
possibilità di prevedere livelli ulteriori di tutela. Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica
completamente ai procedimenti di tipo individuale. Invece, le disposizioni sull’obbligo di motivazione, sulla
partecipazione al procedimento e sul diritto di accesso non si applicano agli atti normativi e agli atti
amministrativi generali. Bisogna mettere in luce il nuovo modello di rapporto tra la pubblica
amministrazione e i cittadini: 1. La l. n. 241/1990 colma la distanza e la separatezza tradizionali tra
amministrazioni e soggetti privati, che avevano come unico punto di contatto il provvedimento autoritativo
emanato in modo unilaterale. Infatti, i soggetti privati possono “fare ingresso” nel procedimento attraverso
gli strumenti di partecipazione che consentono così ad essi di esprimere il proprio punto di vista. La
partecipazione dei privati è utile anche alla stessa p.a. in una visione di tipo collaborativo, oltre che di
garanzia del contraddittorio. Inoltre, la legge 241/1990 favorisce il ricorso a strumenti consensuali in
quanto prevede che l’amministrazione possa stipulare accordi con gli interessati, anche su proposta di
questi ultimi, per la determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento. 2. In secondo luogo, la
separatezza tra le stesse pubbliche amministrazioni, ciascuna con poteri autonomi, con pochi canali di
comunicazione, viene vista con sfavore, ma si preferisce strumenti consensuali di collaborazione paritaria
per lo svolgimento di attività di interesse comune e di coordinamento tra procedimenti paralleli. Devono
collaborare scambiandosi reciprocamente gli atti e i documenti in loro possesso che devono essere acquisiti
a un procedimento da esse curato, in modo da non farli procurare autonomamente al privato e richiedergli
soltanto un'autocertificazione. 3. In terzo luogo l'amministrazione si apre alle espressioni della società
civile. Soprattutto nei procedimenti di tipo pianificatorio e di programmazione ed esecuzione di grandi
opere pubbliche, che hanno un grande impatto sulle comunità locali e su interessi come quello ambientale.
4. La l. n. 241/1990 va oltre il principio del segreto d'ufficio sulle attività interne dell'amministrazione, ed
enuncia il principio di pubblicità e trasparenza e pone una disciplina del diritto di accesso ai documenti
amministrativi che tutela la riservatezza di soggetti terzi, non riconoscendo una riservatezza
dell'amministrazione. L'obbligo in capo ai dipendenti pubblici di mantenere il segreto d'ufficio, cioè di non
divulgare informazioni che riguardano l'attività amministrativa di cui l'impiegato è in possesso, opera in via
residuale, cioè al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dal diritto di accesso, le quali hanno una
priorità. Inoltre, per garantire l’accesso totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività
delle p.a. è previsto l’obbligo di rendere pubblici tutti gli atti organizzativi interni ed è stato introdotto
l’accesso civico. 5. In quinto luogo, la l. n. 241/1990 elimina l'anonimato che c'era tra cittadino e gli apparati
amministrativi. La figura del responsabile del procedimento personalizza e “umanizza” il rapporto con i
soggetti privati e consente di attribuire in modo più certo le responsabilità interne a ciascun apparato.
In definitiva, la l. n. 241/1990 ha superato il modello autoritario dei rapporti tra Stato e cittadino a favore di
un modello che mette in evidenza i diritti del cittadino che entra in contatto con l'amministrazione.

3.LE FASI DEL PROCEDIMENTO

La sequenza degli atti e degli adempimenti in cui si articola il procedimento può essere divisa in varie fasi:
l'iniziativa, l'istruttoria, la conclusione.

4. a) L’INIZIATIVA

La prima fase è quella dell’iniziativa, cioè dell’avvio formale del procedimento. Bisogna fare una distinzione
tra obbligo di procedere e l'obbligo di provvedere, i quali sono entrambi espressione del principio generale
della doverosi dell’esercizio del potere amministrativo. In base al primo, l'amministrazione competente è
tenuta ad aprire il procedimento e a porre in essere le attività previste nella sequenza procedimentale
propedeutiche alla determinazione finale. Il secondo, una volta aperto il procedimento, impone
all'amministrazione di portarlo a conclusione attraverso l'emanazione di un provvedimento espresso. I due
obblighi si deducono dall'art. 2 l. n. 241/1990. Questo fa riferimento all’ipotesi in cui il procedimento
consegua obbligatoriamente a un’istanza e a quella in cui esso debba essere iniziato d’ufficio, ponendo così
anche la distinzione tra procedimenti su istanza di parte e procedimenti d’ufficio e pone il dovere di
concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Nei procedimenti su
istanza di parte, l'atto di iniziativa consiste in una domanda o istanza formale presentata
all'amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un provvedimento favorevole, in
relazione al quale vanti un interesse legittimo pretensivo. Però non ogni istanza del privato fa nascere
l'obbligo di procedere. Infatti, quest'ultimo nasce solo in base ai procedimenti amministrativi disciplinati
nelle leggi amministrative di settore (es. nei procedimenti autorizzativi previsti dalle leggi che regolano le
attività economiche, al di fuori di essi le lettere e le richieste possono restare senza alcun seguito). In alcuni
casi il procedimento è aperto da pubbliche amministrazioni che formulano proposte all'amministrazione
competente (es. l’amministrazione straordinaria o la liquidazione coatta di un istituto di credito viene
disposta dal MEF su proposta Banca d’Italia). Nei procedimenti d'ufficio, l'apertura del procedimento
avviene da parte della stessa amministrazione competente a emanare il provvedimento finale. Questi
procedimenti riguardano per lo più poteri amministrativi il cui esercizio determina un effetto limitativo o
restrittivo nella sfera giuridica del soggetto privato destinatario, titolare di un interesse legittimo oppositivo.
Il problema dei procedimenti d'ufficio è il momento in cui nasce l'obbligo di procedere. Infatti, in molte
situazioni l’apertura formale del procedimento avviene alla fine di attività cosiddette preistruttorie,
condotte sempre d'ufficio, dai quali nascono situazioni di fatto che portano all'esercizio di un potere. Tra le
attività preistruttorie va incluso il potere di ispezione attribuito della legge ad autorità di vigilanza (Banca
d'Italia, CONSOB). L’ispezione, la quale può anche essere disposta nella fase propriamente istruttoria del
procedimento, consiste in una serie di operazioni di verifica effettuate tramite un soggetto privato delle
quali si dà atto in un verbale. L'ispezione può concludersi con la constatazione che l'attività è conforme alle
norme, o può far sorgere fatti che presentano qualche violazione. In quest'ultimo caso l'amministrazione è
tenuta ad aprire un procedimento d'ufficio per constatare la violazione, che può concludersi con l'adozione
di provvedimenti ordinatori o sanzionatori. Altre attività istruttorie includono: accessi ai luoghi, richieste di
documenti, assunzione di informazioni, rilievi segnaletici e fotografici, analisi di campioni. L'avvio dei
procedimenti d'ufficio di tipo repressivo, inibitorio e sanzionatorio può avvenire anche in seguito a
denunce, istanze o esposti di soggetti privati. Tuttavia, questi atti non fanno sorgere in modo automatico il
dovere dell’amministrazione di aprire il procedimento nei confronti del soggetto denunciato: rientra infatti
nella discrezionalità dell’amministrazione valutarne la serietà e la fondatezza, al fine di darvi eventualmente
seguito. L'amministrazione deve comunicare l'avvio del procedimento prima di tutto (e soprattutto) a
coloro “nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” (destinatari, art.
7 l.241/1990). La comunicazione viene anche inviata a eventuali altri soggetti che per legge devono
intervenire nel procedimento e, in generale, a soggetti individuati o individuabili che possono derivare un
pregiudizio dal provvedimento. La comunicazione deve contenere l'indicazione dell'amministrazione
competente, dell'oggetto del procedimento, del nome del responsabile del procedimento, il termine di
conclusione del procedimento e l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti (art. 8). Nei procedimenti
d’ufficio che si concludono con provvedimenti limitativi della sfera giuridica del destinatario la
comunicazione di avvio del procedimento è funzionale a garantire il contraddittorio. Infatti, il soggetto
privato, ricevuta la comunicazione, può intervenire nel procedimento per tutelare il proprio interesse.

5. b) L’ISTRUTTORIA

La fase dell'istruttoria del procedimento include le attività poste in essere dall'amministrazione e per essa
dal responsabile del procedimento allo scopo di accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti ai fini
della determinazione finale. I fatti da accertare si riferiscono ai presupposti e ai requisiti richiesti dalla
norma di conferimento del potere per l’emanazione del provvedimento. Uno dei compiti che il responsabile
del procedimento deve fare è valutare “le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i
presupposti che siano rilevanti per l'emanazione del provvedimento (art. 6). La fase istruttoria è retta dal
principio inquisitorio. Infatti, secondo l'art. 6, il responsabile del procedimento “accerta d'ufficio i fatti,
disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari”. Quindi quest'ultimo compie di propria iniziativa
tutte le indagini necessarie per ricostruire in modo esatto e completo la situazione di fatto, senza essere
vincolato alle allegazioni operate da soggetti privati, ciò tenuto conto che l'esercizio dei poteri avviene per
curare interessi pubblici. Al contrario di quanto avviene nell’istruttoria processuale, caratterizzata da una
tipizzazione per legge dei mezzi istruttori, nel procedimento amministrativo l’amministrazione può
compiere tutti gli accertamenti necessari con le modalità ritenute più idonee. Vengono menzionati tra gli
atti istruttori: il rilascio di dichiarazioni, l’esperimento di accertamenti tecnici, le ispezioni e l’ordine di
esibizioni documentali. Il responsabile del procedimento può anche compiere le verifiche della
documentazione prodotta dalle parti e della veridicità dei dati autocertificati dall’interessato. Ovviamente
nella scelta dei mezzi istruttori da utilizzare l’amministrazione deve attenersi a un principio di efficienza ed
economicità. Alcuni atti istruttori sono previsti da leggi che disciplinano i singoli procedimenti
amministrativi: questo è il caso dei pareri obbligatori e delle valutazioni tecniche di competenza di
amministrazioni diverse da quella procedente (organi consultivi, apparati tecnici). I pareri, espressione della
funzione consultiva, possono essere obbligatori o facoltativi. I pareri obbligatori sono previsti per legge in
base a specifici procedimenti e l’omessa richiesta determina un vizio procedimentale che rende illegittimo il
provvedimento finale. L’amministrazione cui vengono richiesti deve lasciarli entro un termine di 20 giorni.
In caso di ritardo, l’amministrazione titolare della competenza decisionale può procedere
indipendentemente dall’espressione del parere (art. 18). I pareri possono essere, in casi frequenti, anche
vincolanti: in questo caso l’amministrazione che li riceve non può assumere una decisione difforme dal
contenuto del parere, potendo solo rinunciare a emanare l’atto finale. Le valutazioni tecniche richieste a
organismi dotati di particolari competenze non giuridiche sono soggette a un regime che ricalca in parte
quello dei pareri. L’art. 17-bis stabilisce termini stringenti per il rilascio di assensi, concerti e nullaosta di
amministrazioni statali (di regola 30 gg) e introduce un meccanismo inedito di silenzio-assenso tra
amministrazioni. Il termine può essere interrotto nel caso in cui l’amministrazione che deve rendere
l’assenso, il concerto o il nullaosta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica motivate. Il
termine è di 90 gg nel caso in cui l’amministrazione che deve renderli sia preposta alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini. In caso di mancato accordo tra
amministrazioni statali, per comporre il dissenso la questione viene rimessa al presidente del Consiglio dei
ministri. Il silenzio-assenso tra amministrazioni, che non vale nel caso in cui il diritto dell’Unione europea
richieda l’adozione di provvedimenti espressi, costituisce una novità rilevante che dovrebbe accelerare i
tempi di conclusione dei procedimenti. La tendenza più recente dell’ordinamento in tema di adempimenti
istruttori è di liberare il più possibile i soggetti privati da doveri di documentazione e di certificazione,
imponendo all’amministrazione di acquisire d’ufficio i documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati
soggettivi necessari per l’istruttoria (art. 18). Ai privati può essere richiesta soltanto l’autocertificazione, che
consiste nella possibilità per i soggetti privati di dichiarare sotto propria responsabilità il possesso di
determinati stati e qualità. L’attività istruttoria può essere effettuata anche con modalità informali: es. per
favorire la conclusione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento può essere predisposto un
calendario di incontri ai quali sono invitati il destinatario del provvedimento ed eventuali cointeressati (art.
11). Inoltre, qualora sia opportuno un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un
procedimento, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi istruttoria nella quale
ciascuna amministrazione interessata può esprimere le proprie valutazioni (art. 14). La fase istruttoria è
aperta agli aiuti dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e partecipare al procedimento (art. 10,
partecipazione). Quest’ultimi sono i soggetti ai quali l’amministrazione è tenuta a comunicare l’avvio del
procedimento. Hanno facoltà di intervenire anche soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i
portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio del
provvedimento (art. 9). La partecipazione e l’intervento incorporano due diritti: il primo è quello di
prendere visione degli atti del procedimento (accesso procedimentale) non esclusi dal diritto di accesso; il
secondo consiste nella possibilità di presentare memorie scritte (che illustrano il punto di vista del soggetto
interessato) e documenti. Nel loro insieme essi concorrono a fondare il diritto alla partecipazione
informata. L’amministrazione ha l’obbligo di valutare i documenti e le memorie presentate, ove pertinenti
all’oggetto del procedimento e deve darne conto nella motivazione del procedimento.
Dal punto di vista organizzativo l’istruttoria è affidata alla figura del responsabile del procedimento,
assegnato di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito dopo l’apertura del
procedimento. Il suo nominativo viene comunicato o reso disponibile su richiesta a tutti i soggetti
interessati (art. 5). Si tratta di una figura importante nei rapporti tra p.a. e cittadino, perché consente a
quest’ultimo di avere un interlocutore certo e rende meno spersonalizzato il rapporto con gli uffici. I
compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 e includono tutte le attività
propedeutiche all’emanazione del provvedimento finale e l’adozione “di ogni misura per l’adeguato e
sollecito svolgimento dell’istruttoria”. Va anche richiamato il potere di chiedere la rettifica di dichiarazioni o
istanza erronee o incomplete: traspare una funzione di ausilio e supporto del responsabile del
procedimento nei confronti del soggetto privato che è spesso sfornito delle conoscenze e dell’esperienza
necessaria. Inoltre, deve astenersi quando si trovi in conflitto di interessi. Nei procedimenti a istanza di
parte il responsabile del procedimento è tenuto ad attivare una fase supplementare di contraddittorio nei
casi in cui l’istruttoria effettuata dia esito negativo e porterebbe all’adozione di un provvedimento di rigetto
dell’istanza (art. 10-bis). Al soggetto che l’ha proposta, e che dunque ha dato avvio al procedimento, deve
essere data comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Entro 10 giorni l’interessato
può presentare osservazioni scritte nel tentativo di superare le obiezioni formulate dall’amministrazione.
Usualmente il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette gli atti,
corredati da una relazione istruttoria, all’organo competente ad emanare il provvedimento finale.
Quest’ultimo si deve attenere alle risultanze dell’istruttoria e solo in alcuni casi eccezionali discostarsene,
indicando le ragioni nel provvedimento finale.

6. c) LA CONCLUSIONE: IL TERMINE, IL SILENZIO, GLI ACCORDI

Conclusa la fase istruttoria, l’organo competente assume la decisione all’esito di una valutazione
complessiva del materiale acquisito al procedimento. Se il potere esercitato ha natura discrezionale, nella
fase decisoria avviene la comparazione e ponderazione degli interessi che guida la scelta finale tra le più
soluzioni alternative. L’art. 2 pone l’obbligo all’amministrazione di concludere il procedimento tramite
l’adozione di un provvedimento espresso produttivo degli effetti nella sfera giuridica dei destinatari. Da un
punto di vista immaginario, se il procedimento è una specie di catena di montaggio, il provvedimento è il
prodotto finito. Il cosiddetto arresto procedimentale è legittimo solo in casi eccezionali. Il provvedimento
finale può essere emanato, a seconda dei casi, dal titolare di un organo individuale (come il sindaco o il
prefetto) oppure da un organo collegiale (giunta comunale, consiglio di amministrazione). In quest’ultimo
caso la determinazione vene assunta applicando le regole sulla convocazione dell’organo, sulla fissazione di
un ordine del giorno, sul quorum costitutivo e sul quorum, deliberativo. Accanto ad atti semplici è
frequente nelle leggi amministrative il ricorso ad atti complessi (pluristrutturati, es. decreti
interministeriali). Frequente è anche il concerto nel quale il ministero competente ad emanare il
provvedimento deve prima inviare al ministero organizzante lo schema di provvedimento per ottenere
l’assenso o indicazioni di modifica. L’atto finale è sottoscritto da entrambe le autorità. Un’altra decisione
pluristrutturata è l’intesa che interviene nei rapporti tra Stato e Regioni. La determinazione finale, così
come ogni atto della sequenza procedimentale, è assunta sulla base delle regole vigenti al momento in cui
essa è adottata. Il principio del tempus regit actum prevede che le modifiche legislative intervenute a
procedimento avviato trovino immediata applicazione, a meno che non si sia in presenza di situazioni
giuridiche ormai consolidate o di fasi procedimentali già del tutto esaurite. Facendo riferimento alla fase
decisionale, ci sono degli aspetti da approfondire. Il provvedimento deve essere emanato entro il termine
stabilito per lo specifico procedimento. L’art. 2 pone una disciplina generale e completa: generale perché
essa si applica là dove manchino disposizioni legislative speciali; completa perché l’applicazione della
medesima vale direttamente o indirettamente per tutte le fattispecie di procedimenti. Questa norma
rimette a ciascuna pubblica amministrazione l’obbligo di individuare i termini per ciascun procedimento con
propri atti di regolazione e di renderli pubblici. Di regola la durata massima non deve superare i 90 giorni
(commi 3 e 4). Se le amministrazioni non stabiliscono un termine, il termine generale è di 30 giorni (comma
2). In definitiva, la disciplina del termine del procedimento amministrativo posta dall’art. 2 crea il principio
della certezza del tempo dell’agire amministrativo. Il termine può essere sospeso per un periodo non
superiore a 30 giorni in caso di necessità di acquisire informazioni o certificazioni. Accanto ad essi, le leggi e
i regolamenti che disciplinano i singoli procedimenti prevedono talora termini endoprocedimentali relativi
ad adempimenti posti a carico dei soggetti privati o relativi attribuiti alla competenza di altre
amministrazioni. I termini endoprocedimentali e finali hanno di regola natura ordinatoria, perché la loro
scadenza non fa venir meno il potere di provvedere, né rende illegittimo (o nullo) il provvedimento finale
emanato in ritardo. Solo nei casi in cui la legge qualifichi in modo espresso il termine come perentorio e a
pena di decadenza il provvedimento tardivo è considerato viziato (es. in materia di espropriazione, la
dichiarazione di pubblica utilità indica un termine perentorio entro il quale quest’ultimo deve essere
emanato). In alcune fattispecie di poteri che incidono negativamente sui diritti di soggetti privati, la natura
perentoria del termine si ricava in via interpretativa (es. nell’ipotesi di beni culturali, il diritto di prelazione
dello Stato deve essere esercitato entro 60 giorni dalla denuncia dell’atto di trasferimento del bene tra
privati). I termini previsti per gli adempimenti a carico dei soggetti privati nell’ambito del procedimento
hanno invece di regola natura più cogente e il loro decorso fa decadere il soggetto privato dalla facoltà di
porlo in essere o, in casi di inadempimento tardivo, consente all’amministrazione di non tenerne conto. Il
mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento può provocare conseguenze di vario tipo,
come la nascita di una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario o una responsabilità
di tipo dirigenziale nei confronti del vertice della struttura. Può costituite un elemento di valutazione al fine
di attribuire la retribuzione di risultato, nonché nei casi più gravi può essere fonte di responsabilità penale.
Il mancato rispetto del termine può costituire anche motivo per l’esercizio del potere sostitutivo da parte
del dirigente sovraordinato. L’organo di governo di ciascuna amministrazione individua tra le figure apicali il
soggetto titolare del potere. Il privato può rivolgersi, in caso di ritardo, al titolare del potere sostitutivo che
deve concludere il procedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto
attraverso le strutture competenti o nominando un commissario ad acta. Entro il 30 gennaio di ogni anno il
titolare del potere sostitutivo comunica all’organo di governo i procedimenti nei quali non è stato rispettato
il termine e ciò al fine di sensibilizzarlo e indurlo a intraprendere le iniziative necessarie per risolvere questo
problema. I provvedimenti su istanza di parte rilasciati in ritardo devono indicare sia il termine previsto
dalla legge, sia il termine effettivamente impiegato. L’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento può anche far nascere l’obbligo di risarcire il danno da ritardo a favore del
privato. Ciò significa che il tempo dell’agire amministrativo costituisce un bene della vita autonomo. Il
comma 1-bis dell’art. 2-bis, prevede, anche a prescindere dalla sussistenza dei presupposti per il
risarcimento, il riconoscimento di un indennizzo automatico per il ritardo alle condizioni e con le modalità
stabilite da un regolamento.
Può accadere che l’amministrazione non concluda il procedimento entro il termine fissato per legge o
stabilito dall’amministrazione e la situazione di inattività si protragga nel tempo. Così, si pone la questione
del silenzio dell’amministrazione. Fino ad anni recenti il silenzio della pubblica amministrazione di fronte a
istanze o domande presentate da soggetti privati per ottenere un provvedimento favorevole è stato quello
del cosiddetto silenzio-inadempimento. In questi casi l’inattività mantenuta oltre il termine assume il
significato giuridico d’inadempimento dell’obbligo formale di provvedere posto dall’art. 2, cioè di
concludere il procedimento con un provvedimento di accoglimento dell’istanza, o con un provvedimento di
rigetto della medesima. L’inadempimento di tale obbligo non fa venire meno il potere-dovere di
provvedere. Ciò significa che l’amministrazione può emanare il provvedimento di accoglimento o rigetto
anche in ritardo, ferma restando l’eventuale responsabilità per il danno cagionato al privato che aveva
confidato nel rispetto dei termini. Nei casi di silenzio-inadempimento il privato interessato può proporre al
giudice amministrativo un’azione avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione, allo scopo di
accertare l’obbligo di quest’ultima di provvedere ed eventualmente la fondatezza della pretesa e un’azione
di adempimento volta a condannare l’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto. Per risolvere
il problema di una tutela poco efficace, nella legislazione amministrativa sono stati introdotti per singole
tipologie di procedimenti due regimi di silenzio significativo, che sono presenti nella l. 241/1990: il silenzio-
diniego (o rigetto) e il silenzio-assenso (o accoglimento). In entrambi i casi il procedimento si conclude con
un provvedimento tacito. Le fattispecie di silenzio avente valore di diniego sono tassativamente stabilite
per legge. Contro questo tipo di atto tacito di diniego può essere proposto ricorso in sede giurisdizionale
secondo le normali regole vigenti per il processo amministrativo. Le ipotesi legislative di silenzio-assenso
sono molto più numerose. Il testo vigente abbandona il criterio della tassatività e fa assurgere quest’ultimo
a regola generale in tema di silenzio. Il campo di applicazione del silenzio-assenso definito dall’art. 20 è
individuato in base ad alcuni criteri di tipo negativo: il regime non vale nei casi di provvedimenti
autorizzativi sostituiti dalla SCIA di cui all’art. 19, soggetti a un regime di liberalizzazione; non vale per i
procedimenti che riguardano un elenco piuttosto lungo di interessi pubblici; non vale neppure nei casi in cui
la normativa europea impone l’adozione di un provvedimento formale e nei casi tassativamente previsti
per legge di silenzio-rigetto; non vale infine per i procedimenti individuati con DPCM. Il silenzio-assenso ha
valore procedimentale, può essere oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma di revoca e di
annullamento d’ufficio, può essere impugnato innanzi al giudice amministrativo. Il regime del silenzio-
assenso ha alcuni difetti strutturali. Prima di tutto, siccome esso può applicarsi anche a provvedimenti
discrezionali, la valutazione di interessi pubblici, di fatto, nei casi di inattività assoluta dell’amministrazione,
non viene operata. In secondo luogo, dal punto di vista del soggetto privato che ha presentato istanza, il
silenzio-assenso non soddisfa compiutamente l’esigenza di certezza in relazione allo svolgimento di attività
sottoposte a controllo pubblico. Infatti, il privato non è in grado di sapere se dietro l’atteggiamento
silenzioso dell’amministrazione si celi un’inerzia, oppure se una qualche istruttoria sia stata comunque
realmente compiuta. Anche la Corte Costituzionale ha individuato limiti di ammissibilità del silenzio-assenso
allo scopo di contenerne gli ambiti di applicazione.

Gli accordi integrativi e sostitutivi


Il provvedimento espresso emanato in modo unilaterale dall’organo competente costituisce l’esito normale
e più frequente del procedimento amministrativo. Tuttavia, esiste una modalità alternativa di conclusione
del procedimento che la l. 241/1990 tende a favorire e cioè l’accordo integrativo o sostitutivo del
provvedimento (art. 11). Si tratta di un istituto che privilegia per quanto possibile soluzioni concordate volte
a ridurre il rischio di possibili contenziosi e che pone l’amministrazione su un piano più paritario nei
confronti del soggetto privato. In base alla l. 241/1990, l’accordo ha per oggetto il contenuto discrezionale
del provvedimento ed è finalizzato a ricercare una miglior composizione e mediazione tra l’interesse
pubblico perseguito dall’amministrazione procedente e l’interesse del privato. L’accordo può essere
promosso dal soggetto privato e fa salvi i diritti dei terzi che ben potrebbero contestarne i contenuti
proponendo un’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo secondo le regole ordinarie.
L’amministrazione non è tuttavia obbligata a concludere accordi integrativi o sostitutivi con i privati e può
sempre prediligere la via del provvedimento unilaterale non negoziato. Sotto il profilo formale, gli accordi
devono essere stipulati per atto scritto salvo che la legge non disponga altrimenti e devono essere motivati.
Ad essi si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto comparabili.
Gli accordi sono di due tipi e cioè integrativi o sostitutivi del provvedimento. Gli accordi integrativi servono
solo a concordare il contenuto del provvedimento finale che viene emanato successivamente alla stipula
dell’accordo e in attuazione di quest’ultimo. Negli accordi sostitutivi gli effetti giuridici si producono in via
diretta con la conclusione dell’accordo, senza alcuna necessità di un atto formale unilaterale di
recepimento. Gli accordi devono essere preceduti da una determinazione dell’organo che sarebbe
competente per l’adozione del provvedimento che autorizza e stabilisce i limiti della negoziazione.
Comunque, l’amministrazione, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, può recedere dall’accordo.
Tale potere è riconducibile alla revoca per sopravvenuti motivi di interesse pubblico ex art. 21-quinquies.
Ad esso si accompagna l’obbligo di liquidare un indennizzo per eventuali danni subiti dal privato. Di fatto,
non sono ancora frequenti le ipotesi nelle quali l’amministrazione utilizza l’accordo in luogo del
provvedimento unilaterale.

7.PROCEDIMENTI SEMPLICI, COMPLESSI, COLLEGATI. IL SUBPROCEDIMENTO

I procedimenti possono avere una struttura semplice o complessa in base al loro oggetto, al numero e alla
natura degli interessi pubblici e privati e quindi dalla necessità di coinvolgere una pluralità di
amministrazioni. Si parla di procedimenti autorizzatori semplici, in cui la sequenza procedimentale consiste
soltanto in una domanda o istanza presentata dall’interessato in un’istruttoria limitata a poche verifiche
documentali e a una decisione affidata a un’unica autorità, e procedimenti complessi che richiedono
accertamenti fattuali, momenti partecipativi, acquisizione di pareri o di valutazioni tecniche con il
coinvolgimento anche nella fase decisionale di una molteplicità di amministrazioni statali, regionali e locali.
I procedimenti complessi sono spesso articolati all’interno in subprocedimenti sequenziali, i quali hanno
ognuno una unità funzionale autonoma. Talvolta i subprocedimenti si concludono con atti suscettibili di
incidere in via immediata su situazioni giuridiche soggettive, in quanto produttivi di effetti esterni diversi e
indipendenti rispetto all’effetto giuridico primario riferibile al provvedimento assunto a conclusione
dell’intero procedimento.
Nei procedimenti sanzionatori di competenza dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato
l’impresa inquisita ha la possibilità di proporre all’Autorità che ha avviato il procedimento impegni formali
atti a rimuovere l’illecito concorrenziale. Se essa approva gli impegni il procedimento si conclude senza
ulteriori accertamenti istruttori e senza l’assunzione di un provvedimento sanzionatorio. Se l’Autorità
rigetta gli impegni, il procedimento prosegue sino all’emanazione di un provvedimento conclusivo che
accerta o meno l’esistenza dell’illecito e irroga la sanzione. Il provvedimento di rigetto degli impegni ha una
rilevanza meramente interna e non è suscettibile di impugnazione autonoma da parte dell’impresa che li ha
presentati. Il provvedimento di accoglimento degli impegni è invece impugnabile da parte di impresi
concorrenti.
Un punto fermo è che l’unitarietà del procedimento si ha solo là dove nessuno degli atti
endoprocedimentali sia suscettibile di produrre effetti giuridici autonomi esterni. In generale, si parla di
procedimenti collegati in tutti i casi in cui una pluralità di procedimenti, da avviare in sequenza o in
parallelo, sono funzionali a un risultato unitario. Un esempio di procedimenti collegati in sequenza è
l’espropriazione per pubblica utilità. Un esempio di procedimenti collegati avviati in parallelo è la
realizzazione e la messa in opera di un impianto industriale che presuppone il rilascio di una molteplicità di
atti autorizzativi. Il collegamento tra questo tipo di procedimenti è di tipo funzionale, nel senso che la
conclusione positiva di ciascuno di essi è necessaria per l’avvio di una determinata attività o l’ottenimento
di un certo risultato. Si possono distinguere procedimenti di primo grado che hanno il fine di emanare
provvedimenti amministrativi con effetti esterni e la cura di un interesse pubblico (es. licenza) e
procedimenti di secondo grado, che hanno per oggetto provvedimenti amministrativi già emanati e per
scopo la verifica della loro legittimità e compatibilità con l’interesse pubblico (es. annullamento d’ufficio).
Un’altra distinzione è tra procedimenti finali, che hanno la funzione di curare interessi pubblici nei rapporti
esterni con i soggetti privati, e procedimenti strumentali, che hanno una funzione prevalentemente
organizzatoria e riguardano principalmente la gestione del personale e delle risorse finanziarie. Un’ulteriore
distinzione è tra procedimento in senso proprio, che si riferisce agli atti della sequenza procedimentale che
trovano disciplina nella legge o in una fonte normativa in senso proprio, e procedura interna
all’amministrazione, che riguarda gli atti e gli adempimenti interni dell’amministrazione che sono previsti da
regole di tipo organizzativo o per procedure informali.

8.LA CONFERENZA DI SERVIZI E ALTRE FORME DI COORDINAMENTO

I procedimenti complessi e collegati pongono il problema del coordinamento degli adempimenti e delle
tempistiche relative all’adozione dei vari atti. La l. n. 241/1990 individua come strumento principale di
coordinamento la conferenza di servizi disciplinata dagli art. da 14 a 14-quinquies. Essa consiste in una o più
riunioni dei rappresentanti degli uffici o delle amministrazioni di volta in volta interessate che sono
chiamate a confrontarsi e a esprimere il proprio punto di vista, e nel caso di conferenza decisoria, anche a
deliberare. È volta sia a realizzare il coordinamento tra le amministrazioni, sia a semplificare lo svolgimento
del procedimento e a ridurre i tempi dell’emanazione dei provvedimenti. La l. n. 241/1990 distingue tre tipi
di conferenza di servizi: istruttoria, decisoria, preliminare.
La conferenza di servizi istruttoria è sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere un esame
contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento singolo o in più procedimenti
amministrativi collegati riguardanti le stesse attività o risultati (conferenza di servizi interprocedimentale).
Nel caso di procedimento singolo, la conferenza di servizi istruttoria che si conclude con la verbalizzazione
delle varie posizioni espresse, serve a raccogliere in un unico contesto gli elementi istruttori utili che
saranno poi posti alla base della decisione finale. Nel caso di conferenza di servizi interprocedimentale la
convocazione è operata dall’amministrazione che cura l’interesse pubblico prevalente. Anche questa
conferenza funge da sede per un confronto tra le amministrazioni preliminare all’assunzione da parte di
queste ultime delle proprie determinazioni.
La conferenza di servizi decisoria sostituisce i singoli atti volitivi e valutativi delle amministrazioni
competenti a emanare “intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati”, che devono essere
acquisiti per legge da parte dell’amministrazione procedente. Essa è convocata obbligatoriamente se
quest’ultima non riceve i singoli atti entro 30 giorni dalla richiesta oppure quando una delle amministrazioni
esprime il proprio dissenso. La conferenza è convocata dall’amministrazione competente ad adottare il
provvedimento finale, anche su richiesta del soggetto privato interessato, nei casi in cui la conferenza abbia
per oggetto atti di tipo autorizzativo che condizionano l’avvio di una attività. La conferenza di servizi si
conclude con un verbale in cui sono riportate le posizioni espresse da ciascuna amministrazione
partecipante. Sulla base del verbale, che è ancora un atto a rilevanza interna non impugnabile,
l’amministrazione procedente assume una determinazione motivata di conclusione del procedimento che
sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nullaosta o atto di assenso comunque
denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti. Sotto il profilo giuridico la conferenza di
servizi non può essere qualificata come un organo collegiale competente a emanare una determinazione
unitaria, ma ogni atto di assenso mantiene la propria autonomia in quanto a imputazione
all’amministrazione di riferimento. I lavori della conferenza dei servizi decisoria sono disciplinati da una
serie di regole sulle modalità di convocazione e di svolgimento, sulla tempistica e sull’assunzione della
decisione. Di regola la conferenza si svolge in forma semplificata (asincrona). In pratica, l’amministrazione
procedente acquisisce entro termini stabiliti (decorsi i quali opera il silenzio-assenso) le determinazioni
motivate (assenso, dissenso, proposta di modifica) di competenza delle altre amministrazioni. La
conferenza si conclude con una determinazione motivata. Se gli atti di dissenso pervenuti non possono
essere superati, la conferenza si chiude nei procedimenti a istanza di parte con il rigetto della domanda. La
modalità asincrona, introdotta dal d.lgs. n. 127/2016 con finalità acceleratorie, contraddice in parte la
logica di questo istituto, il cui pregio principale è quello dell’esame congiunto e contestuale delle questioni.
Nel caso di determinazioni di particolare complessità, la conferenza di servizi è convocata in forma
simultanea e con modalità sincrona, convocando cioè una riunione alla quale sono invitate tutte le
amministrazioni interessate. Gli aspetti più rilevanti di questa disciplina sono: partecipazione obbligatoria di
tutte le amministrazioni invitate, i cui rappresentanti devono essere muniti dei poteri necessari per
assumere determinazioni vincolanti. (l’assenza determina silenzio-assenso); la determinazione finale
motivata all’esito della conferenza di servizi adottata dall’amministrazione procedente è formulata sulla
base delle «posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti» (prima era prevista
l’unanimità). Quest’ultima espressione va intesa in senso qualitativo, anziché in quello quantitativo di voto
a maggioranza dei partecipanti, e consente dunque di superare il dissenso espresso da singole
amministrazioni. In caso di approvazione unanime la determinazione è immediatamente efficace. L’efficacia
della determinazione finale è invece sospesa nel caso in cui i rappresentanti di amministrazioni che curano
interessi pubblici ritenuti di rango prioritario (ambientale, paesaggistico, storico-artistico, salute,
incolumità) propongono una opposizione al presidente del Consiglio dei ministri il quale convoca una
riunione per cercare di trovare una soluzione condivisa. Se il dissenso non è superato, la determinazione
finale viene rimessa al Consiglio dei ministri. La conferenza di servizi è soprattutto uno strumento di
coordinamento tra pubbliche amministrazioni, ma in alcuni casi anche i soggetti privati possono
partecipare, pur senza diritto di voto
Il terzo tipo è la conferenza di servizi preliminare che può essere convocata su richiesta motivata di soggetti
privati interessati a realizzare progetti di particolare complessità o di insediamenti produttivi. Il privato
sottopone uno studio di attuabilità alle amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri
e le intese ancor prima di presentare formalmente le istanze necessarie. La legge n.124/2015 attribuisce al
governo una delega a rivedere e rendere più funzionale l’intera disciplina assicurando riduzioni e certezza
dei tempi di conclusione, nonché chiarezza e univocità delle conclusioni.
Accanto alla conferenza dei servizi l’ordinamento prevede altre forme di coordinamento: 1. Il testo unico
sull’ordinamento degli enti locali disciplina uno strumento di coordinamento analogo alla conferenza di
servizi decisoria costituito dall’accordo di programma promosso, a seconda dei casi, dal presidente della
regione, della provincia o del sindaco. Lo scopo dell’accordo è la definizione e attuazione di opere, di
interventi o di programmi di intervento che coinvolgono una pluralità di amministrazioni ed è ancora retto
dal principio del consenso unanime dei partecipanti. 2. La l. n. 241/1990 prevede come strumenti “per
disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”, gli accordi tra pubbliche
amministrazioni (art. 15). L’oggetto di questo tipo di accordi è definito in modo generico e quindi consente
di coprire un’amplissima gamma di situazioni nelle quali le amministrazioni si trovino a interagire. 3. Un
nuovo strumento per attuare un coordinamento tra una pluralità di amministrazioni competenti ad
emanare atti di assenso necessari per lo svolgimento di particolari attività, è la cosiddetta autorizzazione
unica, in cui confluiscono i singoli atti di assenso. L’autorizzazione unica è attribuita alla competenza della
regione la quale convoca una conferenza di servizi entro 30 giorni dal ricevimento della domanda di
autorizzazione. 4. Uno strumento organizzativo concepito per rendere più agevole il coordinamento e
semplificare i rapporti tra amministrazioni e soggetti privati è il cosiddetto sportello unico, cioè un ufficio
istituito con la funzione di far da tramite tra questi ultimi e gli uffici e amministrazioni competenti a
emanare gli atti di assenso, i pareri e le valutazioni di volta in volta necessari. Secondo la l.n. 241/1990
presso lo sportello unico (di regola telematico) va presentata in particolare la SCIA.
9.TIPI DI PROCEDIMENTO: a) L’ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’

Analizziamo i procedimenti relativi a provvedimenti che producono effetti restrittivi nella sfera giuridica del
destinatario: partiamo dal procedimento espropriativo, che incide sul diritto di proprietà e quindi c’è la
necessità di circondare l’esercizio del potere di una serie di garanzie a favore del soggetto privato. Il Testo
unico in materia di espropriazioni ha operato un’unificazione dei procedimenti prevedendo 4 fasi:
l’apposizione del vincolo finalizzato all’esproprio che consegue all’approvazione del piano urbanistico
generale o a una variante; la dichiarazione di pubblica utilità; l’emanazione del decreto di esproprio; la
determinazione dell’indennità di esproprio. Prima di tutto il Testo unico enuncia il principio di legalità
precisando che l’espropriazione “può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi o dai regolamenti”. Il
potere espropriativo è attribuito a tutte le amministrazioni (Stato, regioni, comuni) competenti a realizzare
un’opera pubblica: si parla di potere “diffuso” e accessorio (cioè funzionale alla realizzazione dell’opera).
1. Il vincolo preordinato all’esproprio genera un collegamento tra l’attività di pianificazione del territorio e il
procedimento espropriativo. Il vincolo può essere posto all’esito delle procedure di pianificazione
urbanistiche ordinarie o speciali o in seguito all’atto di approvazione di un progetto preliminare o definitivo
di un’opera pubblica. L’apposizione dei vincolo è circondata da alcune garanzie: è prevista la partecipazione
dei proprietari ai quali deve essere inviato con anticipo un avviso di avvio del procedimento affinché essi
possano formulare nei 30 giorni successivi le proprie osservazioni. L’avviso deve essere comunicato
personalmente agli interessati e se il numero di essi è superiore a 50, la comunicazione deve essere fatta
mediante pubblico. Il vincolo ha la durata di 5 anni e deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità
entro questo termine. Esso costituisce un atto impugnabile davanti al giudice amministrativo in quanto già
produttivo di effetti giuridici nei confronti dei proprietari.
2. Molte leggi ritengono la fase della dichiarazione di pubblica utilità (la quale è volta ad accertare la
conformità di una certa opera da realizzare all’interesse pubblico, così da legittimare il trasferimento
coattivo del diritto di proprietà dei terreni sui quali è prevista la costruzione dell’opera) assorbita e inclusa
in altri atti. Infatti, in molti casi la dichiarazione di pubblica utilità è implicita, perché costituisce uno degli
effetti automatici prodotti da alcuni atti come l’approvazione del progetto definitivo di un’opera pubblica,
oppure l’approvazione di un piano di lottizzazione: si ritiene che con questi atti risulti in re ipsa accertato
l’interesse pubblico. La dichiarazione di pubblica utilità ha un’efficacia temporalmente limitata (5 anni,
soggetta a proroga) e prima della scadenza del termine deve intervenire il decreto di esproprio.
3. Il decreto di esproprio determina il trasferimento del diritto di proprietà del soggetto espropriato al
soggetto nel cui interesse il procedimento è stato avviato. A questo effetto si aggiunge anche l’estinzione
automatica di tutti i diritti reali e personali gravanti sul bene espropriato, escluso quelli compatibili con i fini
cui l’espropriazione è preordinata. L’efficacia del provvedimento è subordinata a 2 condizioni sospensive:
l’effetto traslativo si produce in seguito sia alla notifica sia all’esecuzione del decreto che deve avvenire nel
termine perentorio di 2 anni mediante l’immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio.
4. Il decreto di esproprio deve indicare l’importo dell’indennità determinato provvisoriamente, il quale è
identificato all’esito di una fase in contraddittorio con gli interessati. Non appena sia divenuta efficace la
dichiarazione di pubblica utilità, il promotore della procedura espropriativa formula ai proprietari
un’offerta. Questi ultimi possono indicare quale sia il valore da attribuire al bene ai fini della
determinazione dell’indennità. L’autorità procedente, valutate le osservazioni degli interessati, determina
provvisoriamente la misura dell’indennità. I privati nei 30 giorni successivi possono comunicare all’autorità
espropriativa una dichiarazione irrevocabile di assenso alla proposta. Se il privato non accetta o sono
passati i 30 giorni, l’autorità espropriante emana il decreto di esproprio e deposita l’indennità provvisoria
rifiutata presso la Cassa depositi e prestiti. Da questo momento in poi il procedimento per la
determinazione in via definitiva dell’indennità ha uno svolgimento autonomo, con un’ulteriore fase di
contraddittorio con il privato. Infine, il procedimento prevede l’intervento di una Commissione provinciale
istituita presso l’ufficio tecnico erariale che procede alla determinazione definitiva dell’indennità, che potrà
essere impugnata in Corte d’appello entro 30 gg dalla notifica del decreto d’esproprio o della stima.
L’ordinamento tende a favorire soluzioni consensuali attraverso l’istituto della cessione volontaria del bene.
Essa è un diritto soggettivo dell’espropriando nei confronti del beneficiario dell’espropriazione che può
essere esercitato fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio. I vantaggi per l’espropriando sono di
tipo pecuniario, visto che il prezzo di cessione è commisurato all’indennità di esproprio con alcune
maggiorazioni e l’accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio.
La vicenda espropriativa può dar vita al fenomeno dei procedimenti collegati in parallelo: subito dopo la
dichiarazione di pubblica utilità, l’amministrazione può acquisire immediatamente la disponibilità materiale
del bene, per iniziare subito i lavori. L’amministrazione può avviare un procedimento autonomo, quindi
parallelo, di occupazione d’urgenza. Questo può avvenire in 3 ipotesi: quando l’amministrazione ritenga che
l’avvio dei lavori sia così urgente da non consentire il perfezionamento del procedimento ordinatorio; in
base ai progetti delle grandi opere pubbliche previste dalla legge obiettivo (legge 2001, n. 443) per le quali
l’urgenza è già accertata per legge; quando la procedura espropriativa riguardi più di 50 proprietari. Anche
in questo caso il procedimento si svolge in contraddittorio con i proprietari interessati nella fase di
immissione nel possesso dei beni.
Infine, la retrocessione dei beni espropriati consiste nel diritto del soggetto espropriato di riacquistare la
proprietà del bene nei casi in cui l’opera pubblica non viene realizzata o non tutto il bene espropriato viene
utilizzato. La retrocessione totale può avvenire nei casi in cui l’opera pubblica non sia stata realizzata nel
termine di 10 anni dall’esecuzione del decreto di espropriazione o anche prima quando risulti l’impossibilità
della sua esecuzione. L’espropriato può richiedere la restituzione integrale del bene e il pagamento di una
somma a titolo di indennità. La retrocessione parziale può essere richiesta per le parti del bene espropriato
che non siano state utilizzate una volta realizzata l’opera pubblica. Tuttavia, il comune ha un diritto di
prelazione sull’area inutilizzata.
Infine bisogna menzionare l’istituto dell’acquisizione sanante, il quale consente all’amministrazione che ha
occupato senza titolo un bene per scopi di pubblica utilità, che ha visto annullati dal giudice amministrativo
o che abbia annullato d’ufficio in pendenza di giudizio i provvedimenti emanati, di disporne l’acquisizione,
non retroattiva, al suo patrimonio indisponibile. Il provvedimento deve prevedere un indennizzo
corrispondente al valore venale del bene e un risarcimento del danno per il pericolo di occupazione senza
titolo. Il provvedimento di acquisizione richiede una motivazione puntuale in riferimento alle attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico, evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione.

10. b) LE SANZIONI PECUNIARIE E DISCIPLINARI

Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni è strutturato in modo da garantire il rispetto del principio
del contraddittorio. Le principali tipologie di sanzioni sono quelle pecuniarie quelle disciplinari. Il
procedimento per l’irrogazione delle sanzioni di tipo pecuniario è disciplinato dalla l. 689/1981, che
distingue più fasi: l’accertamento; la contestazione degli addebiti; l’ordinazione-ingiunzione (ed eventuale
opposizione all’ingiunzione).
1. La fase di accertamento consiste in un’attività di raccolta e di prima valutazione di elementi di fatto
soggetti a integrare una fattispecie di illecito amministrativo. L’attività pre-procedimentale consiste
nell’assunzione di informazioni, rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, ispezioni di cose e luoghi (diversi
dalla dimora privata) e altre operazioni. Queste attività sono effettuate dagli agenti accertatori individuati
nelle normative di settore, come gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria e gli organi amministrativi
addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni. In alcuni casi, le attività di accertamento avvengono in
contraddittorio. Le attività poste in essere e i risultati confluiscono in un verbale redatto dall’agente
accertatore e che vale come prova fino a querela di falso in relazione agli elementi fattuali oggettivi.
2. Se emerge una violazione, l’amministrazione procede alla contestazione dell’illecito al trasgressore. Dove
possibile la contestazione deve essere immediata e in ogni caso deve essere notificata entro 90 gg (termine
perentorio) dall’accertamento. La contestazione deve presentare in modo chiaro gli elementi che
dimostrano la violazione. Entro 30 gg dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli
interessati possono presentare scritti difensivi e possono chiedere di essere sentiti personalmente
dall’autorità amministrativa. Entro 60 gg dalla notificazione l’interessato può procedere all’oblazione, cioè
al pagamento di una somma ridotta, che estingue l’obbligazione pecuniaria senza che si proceda a un
accertamento definitivo dell’illecito.
3. L’autorità procedente, dove ritenga che sia provata la violazione, emana l’ordinanza-ingiunzione, cioè un
provvedimento motivato che determina la somma della sanzione pecuniaria e impone al trasgressore il
pagamento della stessa, insieme alle spese, entro 30 gg. In caso contrario l’autorità dispone l’archiviazione
con ordinanza motivata comunicata all’organo che ha messo per iscritto il rapporto. L’ordinanza-
ingiunzione può anche imporre sanzioni accessorie, come la confisca di cose, il cui uso costituisce violazione
amministrativa, o la sospensione di una licenza. Il pagamento deve essere effettuato entro 30 gg dalla
notificazione del provvedimento.
4. Contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione davanti al giudice ordinario entro 30 gg
dalla notificazione del provvedimento.
La l. 689/1981 contiene un sistema organico e compiuto di norme sostanziali e procedurali che è
autosufficiente, tale da non chiedere integrazioni esterne da parte della l. 241/1990. Tra le norme speciali
contenute nelle discipline di settore, si richiama la regola, introdotta per le autorità amministrative
indipendenti operanti in particolare nel settore finanziario, secondo cui le funzioni istruttorie devono essere
affidate a uffici o organi distinti dall’organo collegiale che assume la determinazione finale. Altre norme
speciali prevedono che il procedimento sanzionatorio possa concludersi, anziché con l’accertamento
dell’illecito e l’irrogazione della sanzione, con l’approvazione di impegni proposti dall’impresa alla quale è
stato contestato l’illecito volti a porre rimedio alle distorsioni concorrenziali. In caso di mancata
ottemperanza il procedimento sanzionatorio può essere riaperto. Una specie di sanzioni amministrative è
costituita dalle sanzioni disciplinari previste prima di tutto per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni,
ma anche per altri soggetti sottoposti a regimi speciali e poteri di vigilanza attribuiti ad apparati pubblici (es.
i promotori finanziari vigilati dalla CONSOB). In particolare, il d.lgs. 2001, n. 165 prevede che il dirigente
dell’ufficio o, per le sanzioni più gravi, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari che vengono a
conoscenza di comportamenti illeciti di un dipendente pubblico devono contestare per iscritto l’addebito
“senza indugio e comunque non oltre 20 giorni”. Il dipendente è convocato con un preavviso di 10 giorni
per esercitare il proprio diritto di difesa, ma può decidere di non presentarsi e può limitarsi a inviare una
memoria scritta. L’amministrazione procede, se necessario, a un’ulteriore attività istruttoria. Il
procedimento si conclude con l’archiviazione o con l’inflizione della sanzione (rimprovero scritto,
licenziamento, sospensione temporanea del servizio), entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito e le
sanzioni disciplinari possono essere impugnate dal dipendente davanti al giudice ordinario previo
esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione istituto presso la Direzione provinciale del lavoro o
attraverso altre procedure.

10. c) LE AUTORIZZAZIONI. IL PERMESSO A COSTRUIRE E LE VALUTAZIONI DI IMPATTO AMBIENTALE

Consideriamo ora i procedimenti che si concludono con provvedimenti che producono effetti ampliativi
della sfera giuridica del destinatario. Secondo la direttiva 2006/123/CE le procedure e le formalità per
l’accesso a un’attività di servizi devono essere “sufficientemente semplici”. Gli stati membri devono istituire
sportelli unici presso i quali gli interessati possono eseguire tutte le procedure e acquisire tutte le
informazioni (deve essere garantita la possibilità di effettuare gli adempimenti a distanza e per via
elettronica). Le procedure e le formalità devono essere chiare, rese pubbliche preventivamente e tali da
garantire ai richiedenti che la loro domanda sarà trattata con obiettività e imparzialità. La domanda di
autorizzazione deve essere trattata con massima sollecitudine e comunque entro un termine di risposta
ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente. La mancata risposta entro il termine stabilito fa
scattare il silenzio-assenso. Solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale le leggi di settore
possono escluderlo introducendo un regime del silenzio-inadempimento. Ogni domanda di autorizzazione
deve essere riscontrata con una ricevuta inviata al richiedente e contenente una serie di informazioni
relative al termine di conclusione del procedimento, ai mezzi di ricorso esperibili, all’eventuale applicazione
della regola del silenzio-assenso. Un esempio di procedimento autorizzatorio disciplinato dal diritto interno
è quello relativo al rilascio del permesso a costruire disciplinato dal Testo unico in materia edilizia
approvato. Il procedimento inizia con la presentazione allo sportello unico per l’edilizia del comune di una
domanda sottoscritta, di regola, dal proprietario. Entro 10 gg lo sportello unico comunica al richiedente il
nominativo del responsabile del procedimento. Quest’ultimo cura l’istruttoria acquisendo i pareri degli
uffici comunali, nonché altri pareri come quello dell’Azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco. All’esito
dell’istruttoria, entro 60 gg dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento formula
una proposta al dirigente del servizio che nei successivi 15 gg rilascia il permesso a costruire. Passati tali
termini “si intende formato il silenzio-rifiuto”. L’interessato può a questo punto proporre un ricorso in sede
giurisdizionale. In materia edilizia, molti interventi di minor impatto sono sottoposti a regimi semplificati di
segnalazione certificata di inizio attività.

12. d) I PROCEDIMENTI CONCORSUALI

Le pubbliche amministrazioni sono sempre più spesso enti erogatori di danaro o di altre utilità che vengono
messe a disposizione dei soggetti privati. Peraltro, in molti casi coloro che ambiscono ad acquisire i beni
sono in numero superiore rispetto alle quantità disponibili. Si pensi all’assegnazione di alloggi di edilizia
economica popolare, alla concessione di uso esclusivo di un bene demaniale, ecc. Per l’amministrazione si
pone il problema di come scegliere tra più aspiranti allo stesso bene o utilità. Alcune indicazioni si ricavano
già dalla Costituzione e dal diritto europeo. Per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e più
in generale agli uffici pubblici, gli artt. 51 e 97 cost. pongono il principio di eguaglianza e il principio di
concorso pubblico, oltre che di trasparenza, imparzialità e adeguata pubblicità. I procedimenti di tipo
competitivo o concorsuale hanno la funzione specifica di selezionare gli aspiranti a una risorsa scarsa in
base ad alcuni principi generali: il principio di pubblicità, il principio di parità di trattamento, il principio di
trasparenza della procedura, il principio di oggettività dei criteri di valutazione.

13. e) L’ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI

Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è disciplinato, oltre che dalla l. 241/1990, dal regolamento
attuativo approvato con d.p.r. 2006, n. 184. Il procedimento di accesso è a iniziativa di parte e si apre con la
richiesta presentata dal soggetto interessato. La richiesta va rivolta a una pubblica amministrazione. Essa
può riferirsi soltanto a documenti ben individuati e già formati. Il d.p.r. 184/2006 distingue due modalità di
accesso, formale e informale. L’accesso informale si può avere quando non ci sono controinteressati per i
quali si ponga un problema di riservatezza e in questo caso la richiesta può anche essere verbale. Essa è
esaminata immediatamente e senza formalità ed è accolta senza l’adozione di un particolare atto, ma
tramite l’esibizione del documento o l’estrazione di copia. L’accesso formale è necessario nei casi in cui
l’amministrazione riscontri l’esistenza di potenziali controinteressati, o quando nascono dubbi sulla
legittimazione del richiedente sotto il profilo dell’interesse o sull’accessibilità di un documento in base alle
norme sull’esclusione e in altre ipotesi che richiedono una valutazione più approfondita. La richiesta deve
essere presentata per iscritto e deve indicare gli estremi del documento o gli elementi che consentano di
individuarlo. Deve essere motivata sotto il profilo dell’interesse diretto, concreto e attuale connesso
all’oggetto della richiesta, che fa sorgere in capo al richiedente una situazione giuridica soggettiva
individualizzata. Il procedimento prevede anche una fase di contraddittorio con i soggetti contro interessati:
l’amministrazione è tenuta a comunicare a questi ultimi la richiesta presentata l’assegnazione di un termine
di 10 gg per l’eventuale presentazione di un’opposizione motivata. L’accesso è gratuito e consiste
nell’esame dei documenti presso l’ufficio con la presenza di personale addetto. È consentito prendere
appunti oppure trascrivere in tutto o in parte i documenti presi in visione. La copia di documenti è rilasciata
dietro il pagamento del solo rimborso del costo di produzione. Il procedimento di accesso deve concludersi
entro 30 gg dalla richiesta. Finito il termine la richiesta “si intende respinta” (art. 25 l.241/1990). L’atto di
accoglimento della richiesta indica l’ufficio e il periodo di tempo (almeno 15 gg) concesso per prendere
visione o per ottenere copia dei documenti. Il procedimento può concludersi, oltre che con un
provvedimento che concede o nega l’accesso, anche con un provvedimento che dispone il differimento
dell’accesso. Infatti, l’accesso non può essere negato quando possa essere sufficiente far ricorso al potere di
differimento. Quest’ultimo si giustifica nei casi in cui l’accesso possa compromettere il buon andamento
dell’azione amministrativa (art. 24 l. 241/1990), fermo restando che una volta concluso il procedimento
non c’è alcuna ragione per non rendere disponibile agli interessati l’intera documentazione. Un caso
importante di differimento previsto per legge riguarda l’accesso ai documenti nei procedimenti per
l’affidamento di contratti pubblici, in relazione all’esigenza di non compromettere la regolarità della
procedura. È vietato l’accesso all’elenco dei soggetti che hanno presentato l’offerta fino alla scadenza del
termine per la presentazione delle offerte. Contro il diniego espresso o tacito dell’accesso (anche contro il
differimento) può essere proposto un ricorso giurisdizionale entro 30 gg davanti al giudice amministrativo.
In alternativa al ricorso giurisdizionale, la l.241/1990 prevede un ricorso di tipo amministrativo attuabile, a
seconda dei casi, davanti al difensore civico o alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri che devono pronunciarsi entro 30 gg. Decorso questo
termine, il ricorso si intende respinto e può essere proposto ricorso in sede giurisdizionale. Se ritengono
illegittimi il diniego o il differimento dell’accesso, Il difensore civico o la commissione lo comunicano
all’autorità amministrativa. Se quest’ultima non emana un provvedimento confermativo motivato entro 30
gg, l’accesso è consentito.
Si è già accennato all’accesso civico che si caratterizza per il fatto di non richiedere la titolarità di una
situazione giuridica soggettiva in capo al richiedente. La richiesta di accesso civico non riguardante
documenti la cui pubblicazione è obbligatoria deve essere comunicata dall’amministrazione a eventuali
controinteressati che possono presentare opposizione motivata. Il procedimento deve concludersi con
provvedimento espresso motivato entro 30 gg. Nel caso di diniego il richiedente può presentare una
richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
CAPITOLO 8: L’ORGANIZZAZIONE

1.NOZIONE, FONTI NORMATIVE E PRINCIPI GENERALI

L'organizzazione può essere definita come una unità di persone, strutturata e gestita su base costitutiva allo
scopo di perseguire scopi comuni che i singoli non sarebbero in grado di raggiungere individualmente. Ogni
organizzazione ha una propria struttura gestionale che stabilisce le relazioni tra le funzioni e i ruoli e
attribuisce compiti e responsabilità ai singoli appartenenti. C'è una distinzione tra organizzazioni informali o
di fatto (clan, gruppo sportivo, ecc.) e organizzazioni formali o di diritto (partito politico, fondazione, ecc.).
Il moderno Stato di diritto presuppone due elementi: un sistema di regole oggettive precostituite e
l’istituzione di apparati burocratici stabili, ordinati in modo gerarchico, con un’attribuzione precisa di
competenze ai singoli uffici. A questi ultimi sono assegnati funzionari di carriera dotati di qualificazioni
specializzate. L'organizzazione politica è disciplinata nel nostro ordinamento da una pluralità di fonti che
regolano la struttura degli apparati amministrativi in modo molto preciso rispetto alle organizzazioni private
(associazioni, società, fondazioni).
- L'organizzazione delle pubbliche amministrazioni è citata nella Costituzione che esprime alcuni principi
generali: il principio del buon andamento, il principio di imparzialità, il principio autonomistico. Cost: p. di
imparzialità e buon andamento (art 97), p. autonomistico (art 5); individua i livelli di governo chiarendo la
suddivisione della Repubblica in comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato (art 114); prevede
l’organizzazione secondo ministeri; organizzazione e disciplina di regioni, province e comuni; stabilisce che
nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità dei
funzionari.
- Fonti legislative primarie → disciplinano l'organizzazione dei ministeri, della presidenza del Consiglio dei
ministri, degli enti locali e dei numerosi apparati ad enti pubblici
- Fonti sublegislative (regolamenti governativi, statuti, regolamenti di organizzazione, ecc) → individuano le
linee fondamentali di organizzazione degli uffici
- Fonti regionali (statuti e leggi regionali) → disciplinano l'organizzazione della regione e degli apparati
regionali
- Fonti degli enti locali (statuti e regolamenti) → stabiliscono le norme fondamentali dell'organizzazione
dell'ente (statuti) e disciplinano l'ordinamento generale degli uffici e dei servizi (regolamenti)
Dal complesso delle fonti si possono ricavare alcuni principi generali in materia di organizzazione: 1. Il
principio del buon andamento è citato anche dalla Carta dell'Unione europea che richiama “il diritto a una
buona amministrazione”. Esso ha risvolti sia in tema di attività della p.a. sia di organizzazione. Questa
seconda dimensione emerge in diverse disposizioni legislative, come il divieto di aggravare il procedimento
con adempimenti non necessari, la tempestività dell'azione amministrativa, il reclutamento del personale in
base a concorso e secondo le esigenze effettive rappresentate nelle piante organiche, l’accorpamento o
soppressione di enti pubblici e strutture inefficienti. 2. Il principio di imparzialità si esprime nelle regole
volte a far sì che la politica non si ingerisca nell’amministrazione e in particolare nel principio organizzativo
della distinzione tra funzioni di indirizzo e di controllo proprie dei vertici politici delle amministrazioni e
funzioni di gestione riservate ai dirigenti. Sta alla base dell’obbligo del responsabile del procedimento e dei
titolari degli uffici dichiarare situazioni di conflitto di interessi e quindi di astenersi dall’esercizio dei propri
poteri. È sotteso al principio della rotazione degli incarichi dirigenziali anche a fini di anticorruzione. Anche
la regola del concorso per l’accesso agli impieghi nelle p.a. mira a garantire l’imparzialità. 3. La Costituzione
pone anche il principio autonomistico che ispira i rapporti tra Stato e enti territoriali. Questo principio ha
effetti su diversi punti: autonomia statutaria, titolarità di funzioni proprie distribuite in base al principio di
sussidiarietà verticale (art. 118), autonomia finanziaria di entrata e di spesa (art. 119), potestà legislativa e
regolamentare (art. 117). 4. Il principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, prevede obblighi
di consultazione e informazione reciprochi e dovere di coordinamento e, anche se non è espresso nella
Cost., esso trova fondamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale che lo ha ricavato dal TUE. 5. Il
principio di pubblicità e trasparenza viene già citato nel procedimento amministrativo. La recente legge
anticorruzione del 2013 sviluppa anche una dimensione organizzativa del principio di trasparenza. Essa era
già presente nella legge 241/1990 che prevedeva la pubblicazione di tutti gli atti inerenti all’organizzazione
degli apparati pubblici. Il decreto del 2013 impone alle p.a. di pubblicare sui propri siti e di aggiornare le
informazioni e i dati concernenti la propria organizzazione, come l’articolazione degli uffici, le competenze e
le risorse a disposizione di ciascuno di essi; gli atti di nomina o di conferimento degli incarichi dei
componenti degli organi di indirizzo politico e dei dirigenti, i curricula e i compensi da essi percepiti; i
documenti e gli allegati del bilancio preventivo e del conto consultivo. La dimensione organizzativa del
principio di trasparenza si esprime anche nell’obbligo di istituire all’interno delle p.a. la figura del
responsabile della trasparenza, di norma coincidente con il responsabile per la prevenzione della
corruzione, il quale deve monitorare sul rispetto degli obblighi di pubblicazione segnalando all’organo di
indirizzo politico, all’organismo indipendente di valutazione e all’Autorità nazionale anticorruzione le
inadempienze. 6. In seguito alle modifiche all’art.97 Cost. introdotte nel 2012 le p.a. devono assicurare
l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.

2.PERSONE GIURIDICHE, ORGANI E UFFICI

Il codice civile all’art.11 pone una disposizione sulle persone giuridiche pubbliche: stabilisce in termini
generali che le province, i comuni e gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti
secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico. Le persone giuridiche pubbliche hanno la
medesima capacità giuridica delle persone giuridiche private, salvo il regime derogatorio che può derivare
da norme speciali. Lo Stato costituisce la persona giuridica per eccellenza. La teoria dell'organizzazione si
basa su tre concetti: persona giuridica, organo (e ufficio), persona fisica titolare dell'organo.
1. In termini giuridici, personalità significa attitudine riconosciuta dall'ordinamento a diventare soggetto a
diritti, cioè titolare di diritti e doveri giuridici. La personalità giuridica viene riconosciuta sia alle persone
fisiche (dotate di capacità giuridica e di capacità di agire), sia alle persone giuridiche. La persona giuridica è
un'organizzazione formale considerata dall'ordinamento giuridico come un soggetto di diritto separato
dalle persone fisiche che ne fanno parte e dotato di una propria capacità giuridica. Le persone giuridiche
private si distinguono in base alla struttura associativa, dove prevale l'elemento personale, o di fondazione,
dove prevale l'elemento patrimoniale. Anche tra le persone giuridiche pubbliche alcune hanno struttura
prevalentemente associativa (federazioni sportive), altre natura essenzialmente patrimoniale (enti
previdenziali). La costituzione della persona giuridica privata avviene tramite negozio o di atto unilaterale.
L’attribuzione della personalità giuridica consegue al riconoscimento determinato dall’iscrizione nel registro
delle persone giuridiche istituito presso le prefetture, una volta soddisfatte le condizioni stabilite dalla
legge. Invece l'istituzione di enti pubblici avviene direttamente per legge nel caso di enti a statuto singolare,
oppure tramite delibere amministrative in caso di categorie di enti previste da una legge generale
(università, camere di commercio). Nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non
per legge. La legge istitutiva di un singolo ente o di categorie di enti ne individua le finalità, l’assetto
organizzativo, i poteri.
2. Per instaurare rapporti esterni, le persone giuridiche utilizzano gli organi, che possono essere definiti
come centri di imputazione giuridica di competenza: la persona fisica titolare dell'organo ha il potere di
esprimere la volontà della persona giuridica attribuendo ad essa l'atto e gli effetti da esso prodotti
(immedesimazione organica). Un modello di imputazione giuridica alternativo a quello
dell’immedesimazione organica, ipotizzato in origine in dottrina, è quello della rappresentanza. Rispetto
all'immedesimazione organica, la rappresentanza stabilisce un legame meno forte perché l'atto è riferibile
solo al rappresentante, mentre gli effetti dell'atto, sempre che esso rientri nei limiti della facoltà conferite al
rappresentato, si attribuiscono direttamente a quest'ultimo. Il modello dell’immedesimazione organica è
preferibile perché riesce a dar conto dell’imputazione in capo alla persona giuridica anche dell’attività
illecita posta in essere dalla persona fisica titolare dell’organo nell’interesse della prima. L’individuazione
degli organi delle persone giuridiche (es. assemblea soci, il presidente), con specificazione delle relative
competenze, è operata dalla legge entro certi limiti anche dagli statuti dei singoli enti. Le persone giuridiche
utilizzano per la propria attività, oltre agli organi, gli uffici (o servizi), cioè unità operative interne definite da
organigrammi, dotate degli strumenti necessari (locali, attrezzature, ecc.), alle quali sono addette una o più
persone fisiche. In realtà, gli stessi organi possono essere considerati come una specie particolare di uffici il
cui titolare ha anche il potere di emanare atti giuridici che impegnano l’ente nei rapporti esterni (uffici-
organo). A differenza degli organi, gli uffici svolgono un'attività che ha rilevanza semplicemente interna e
natura strumentale rispetto a quella degli organi in senso proprio. Nelle amministrazioni pubbliche
l’organizzazione dei pubblici uffici è sottoposta a una riserva di legge relativa ed è disciplinata da fonti
legislative e da atti organizzativi emanati dai singoli enti.
3. Gli organi e gli uffici agiscono tramite persone fisiche. Alcune di esse ne divengono titolari; altre fanno
parte del personale addetto che svolge l'attività di supporto al titolare dell'organo o dell'ufficio.
L'assegnazione di una persona fisica a un organo o un ufficio, nel caso delle organizzazioni pubbliche,
richiede un atto formale: la cosiddetta investitura nel caso del titolare, o l'assegnazione in altri casi. L'atto è
emanato a volte da vertici dell'apparato o anche, a livelli meno elevati, dal dirigente dell'ufficio del
personale. L'atto formale di investitura o di assegnazione stabilisce il rapporto di immedesimazione
organica tra la persona fisica e l'organo o ufficio. Il rapporto di immedesimazione organica tra persona
fisica, organo o ufficio e persona giuridica è un rapporto interno di tipo organizzatorio. Però, la persona
fisica è legata alla persona giuridica anche da un rapporto esterno, cioè dal cosiddetto rapporto di servizio
(o d'impiego). Quest'ultimo è un rapporto giuridico bilaterale che contiene diritti (compenso, ferie) e
obblighi assunti dal dipendente nei confronti del titolare del lavoro, disciplinato da un contratto individuale
di lavoro in applicazione di un contratto collettivo. Ci sono varie tipologie di organi e uffici. a) Gli organi
possono essere interni o esterni. Gli organi esterni sono gli strumenti attraverso i quali la persona giuridica
opera nei rapporti con altri soggetti dell'ordinamento. Gli organi interni (o uffici) svolgono attività
propedeutiche alla formazione della volontà dell’amministrazione. b) Gli organi e uffici possono essere
necessari e non necessari, a seconda che la loro istituzione sia prevista come obbligatoria dalle norme che
disciplinano l'organizzazione dell'ente. c) Possono essere monocratici o collegiali. Le modalità previste per
la nomina dei componenti dell'organo collegiale variano a seconda dei casi: ove prevalga l’esigenza di
assicurare la rappresentanza di una pluralità di interessi pubblici o privati, le norme individuano i soggetti
che possono designare uno o più componenti. In altri casi i componenti sono scelti su base elettiva; in altri
casi ancora sono nominati in ragione di specifiche competenze tecniche. Gli organi collegiali costituiscono
collegi perfetti (o reali) quando è previsto che essi possono operare legittimamente solo se sono presenti
tutti i componenti (es. commissioni di concorso), anziché la metà più uno dei componenti (quorum
costitutivo). Anche la nomina dei titolari degli organi monocratici in alcuni casi è elettiva (sindaco,
presidente della Camera di commercio); in altri casi è affidata a uno o più soggetti esterni (i ministeri); in
altri casi ancora agli stessi organi collegiali. d) In base al tipo di funzioni esercitate, possono essere: attivi,
quando fanno sia atti amministrativi collegati alle funzioni proprie dell'ente, sia le attività; consultivi,
quando esprimono pareri tecnici o giuridici; di controllo.

3.LE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

Il concetto di p.a. ha contorni sfumati e il suo perimetro non è tracciato in modo netto ed univoco. Manca
nel nostro ordinamento una definizione legislativa unitaria di p.a. alla quale si ricolleghi l’applicazione di un
corpo di regole e principi che ne definiscano uno statuto giuridico omogeneo, ma questa può essere
desunta dalle leggi amministrative settoriali che pongono definizioni o elenchi di enti e soggetti che
rientrano nel loro campo di applicazione. Le amministrazioni pubbliche si caratterizzano per il fatto di
essere sottoposte al regime di diritto amministrativo per gli aspetti riguardanti l'organizzazione, il
personale, l'attività (procedimenti, contratti), i controlli, ecc. Rientrano nelle amministrazioni pubbliche in
senso stretto le amministrazioni statali (ministeri, agenzie), le regioni, gli enti locali, gli enti pubblici non
economici (università, enti previdenziali), le autorità indipendenti.
I principali regimi speciali da considerare sono quelli che riguardano il pubblico impiego, il procedimento
amministrativo, i contratti pubblici, il Patto di stabilità. 1. Un primo insieme di norme speciali pubblicistiche
è contenuto nel d.lgs. n. 165/2001 che pone la disciplina generale dell'organizzazione degli uffici pubblici e
dei rapporti di lavoro e definisce l'ambito di applicazione delle norme facendo un elenco che include tutte
le amministrazioni e agenzie dello Stato, gli enti territoriali (regioni, province, comuni), una serie di enti
pubblici nominativamente citati (università, enti del servizio sanitario) o comunque che rientrano tra gli enti
pubblici non economici. 2. Un secondo insieme di norme pubblicistiche è costituito dalla disciplina del
procedimento amministrativo contenuta nella l. n. 241/1990. Il suo campo di applicazione sotto il profilo
soggettivo è definito dall'art. 1 e dall'art. 29. Quest'ultimo cita le amministrazioni statali, gli enti pubblici, le
regioni e gli enti locali. Inoltre, rende applicabili in modo inderogabile alcune disposizioni della legge
genericamente a tutte le p.a. Inoltre, la legge 241 si applica anche ai soggetti privati preposti all’esercizio di
attività amministrative. 3. Un terzo insieme di norme pubblicistiche riguarda i contratti per l'acquisto di
beni, servizi e lavori. Esse sono contenute nel Codice dei contratti pubblici approvato con d.lgs. 12 aprile
2006, n. 163. 4. Un quarto insieme di regole speciali riguarda il Patto di stabilità che attribuisce al governo
strumenti per vincolare anche le regioni e gli enti locali per rispettare gli obiettivi di finanza pubblica.
I criteri principali per individuare le amministrazioni pubbliche e per distinguerle dal settore delle imprese
derivate dal regolamento sono: deve trattarsi di enti che producono beni e servizi che non siano destinati
alla vendita sul libero mercato; i beni e i servizi devono essere invece messi a disposizione della collettività
gratuitamente; l'attività dell'ente deve essere finanziata soprattutto dalle finanze pubbliche; infine la
funzione principale di essi deve essere quella di retribuzione del reddito e della ricchezza del Paese.
L'elenco dell'ISTAT, in base a questi criteri, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, divide le amministrazioni
pubbliche per tipologie: enti di regolazione dell'attività economica, agenzie, enti a struttura associativa,
autorità amministrative indipendenti, enti produttori di servizi assistenziali, ricreativi e culturali, enti di
ricerca, ecc. L’elenco fornisce una ricognizione completa delle p.a. che è utile per ricostruire la nozione
generale. In definitiva, da qui si ricava la nozione di pubblica amministrazione, la quale caratteristica è
quella di produrre beni pubblici materiali o immateriali, cioè quelli che il mercato non è in grado di
garantire in modo adeguato (ordine pubblico, sicurezza, difesa, ecc.) con scopi anche redistributivi. Il
finanziamento di questa attività è posto a carico della collettività attraverso la tassazione. Queste attività
possono consistere, a seconda delle funzioni attribuite alla singola amministrazione, sia nell'emanazione di
atti o provvedimenti amministrativi, sia in attività materiali (prestazioni sanitarie, istruzione scolastica, ecc.),
sia in erogazione di denaro (trattamenti pensionistici, contributi finanziari alle imprese, ecc.).Invece in senso
negativo le p.a. si collocano fuori dal mercato, nel senso che esse non producono beni o servizi resi sulla
base di prezzi che consentano di realizzare i ricavi atti a coprire i costi. La definizione esaminata però non
coincide con quella di pubblica amministrazione posta a livello europeo a proposito della libera circolazione
dei lavoratori all'interno dell'Unione europea. L'art. 45, comma 4, TFUE esclude l'applicazione di questa
libertà “agli impieghi nella pubblica amministrazione”: la Cdg si riferisce soltanto al nucleo ristretto di
apparati che partecipano in modo diretto o indiretto all’esercizio dei poteri pubblici e alla tutela degli
interessi generali dello Stato (es. non fanno parte di una p.a. gli infermieri delle aziende ospedaliere, gli
insegnati nelle scuole).

4.LO STATO

Lo Stato è da sempre l'amministrazione pubblica per eccellenza. Fin dalla riforma di Cavour, la struttura
amministrativa principale dello Stato è costituita dai ministeri. Inizialmente il modello di ministero era
composto al vertice dal ministro, punto di raccordo tra PA e politica e si connotava per la sua unitarietà,
secondo il principio gerarchico. Nel corso degli anni le loro funzioni sono cambiate e alcune delegate alle
regioni e enti locali; la loro organizzazione è divenuta meno compatta ed omogenea e sono aumentati
numericamente; il principio gerarchico è stato sostituito dal principio di distinzione tra politica e
amministrazione, in base al quale i dirigenti sono titolari di competenze proprie, mentre ai ministri spettano
solo funzioni di indirizzo e di controllo. In base all'art. 95, comma 4, Cost. spetta alla legge determinare il
numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei ministeri. La disciplina generale dei ministeri è contenuta nel
d.lgs. 300/1999, che contiene l'elenco completo dei ministeri, pone una disciplina generale della loro
organizzazione centrale e periferica (incluse le agenzie), specifica le attribuzioni le principali aree funzionali
dei singoli ministeri. Ogni ministero è disciplinato poi da un regolamento governativo che ne specifica
l'organizzazione, prevede la dotazione organica, individua gli uffici di livello dirigenziale generale. Accanto
ai ministeri indicati dal d.lgs. 300/1999 possono essere addetti a singoli uffici o dipartimenti della
presidenza del Consiglio dei ministri, i cosiddetti ministri senza portafoglio con funzioni delegate dal
presidente del Consiglio dei ministri. L'organizzazione dei ministeri è di due tipi a seconda che siano formati
da dipartimenti o da direzioni generali. Il modello dipartimentale è previsto per i ministeri preposti a una
pluralità di ambiti di intervento (es. MEF), mentre quello per direzioni generali riguarda ministeri con
competenze più omogenee e circoscritte. I dipartimenti assicurano l'esercizio organico e integrato di
funzioni e compiti finali riguardanti grandi aree di materie omogenee. Ad essi è addetto un capo
dipartimento che coordina gli uffici di livello dirigenziale generale compresi nel singolo dipartimento.
L'incarico di capo dipartimento è dato con un procedimento che coinvolge i vertici istituzionali
dell'ordinamento (decreto Presidente della Repubblica, dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri). I
ministeri strutturati in direzioni generali possono prevedere come figura di coordinamento un segretario
generale che funge da raccordo tra ministro e i dirigenti preposti alle direzioni generali. In tutti i ministeri ci
sono uffici di diretta collaborazione con il ministro (gabinetto, segreteria tecnica). Fanno parte
dell'organizzazione di alcuni ministeri anche strutture periferiche, che realizzano il cosiddetto
decentramento burocratico. Dal punto di vista descrittivo, si distinguono i ministeri con funzioni di ordine
(Interno, Difesa, Giustizia, Esteri), con funzioni economiche e finanziarie (Sviluppo economico, Politiche
agricole, alimentarie forestali), con funzioni di servizio sociale e culturale (Salute, Istruzione, Università e
Ricerca), con funzioni che riguardano le infrastrutture e i servizi collettivi (Infrastrutture e Trasporti). Ogni
ministero è titolare di fondi propri nell'ambito del bilancio dello Stato. Fanno parte dell'organizzazione dei
ministeri le agenzie, definite come strutture che servono a svolgere attività di carattere tecnico-operativo di
interesse nazionale, che hanno un'autonomia operativa (ma sono sottoposte ai poteri di indirizzo e di
vigilanza di un ministro), un organico e un bilancio proprio e sono disciplinate da uno statuto approvato con
regolamento governativo. Una specie particolare di agenzia è costituita dalle agenzie fiscali (es. Agenzia
delle entrate, delle dogane, del territorio, del demanio). A differenza delle altre, le agenzie fiscali hanno
personalità giuridica di diritto pubblico autonoma. Alcuni ministeri hanno istituito al proprio interno, a
partire dal secolo scorso, strutture, definite come aziende, che hanno un'autonomia operativa e che
svolgono l'esercizio di attività di erogazione di servizi pubblici (azienda di Stato per i servizi telefonici,
l’anas). La presidenza del Consiglio dei ministri, disciplinata dal d.lgs. 303/1999, è composta da una serie di
dipartimenti (es. dipartimento per gli affari giuridici legislativi) e uffici posti alle dipendenze di un segretario
generale che ha il compito di gestire le risorse umane e strumentali. Le strutture della presidenza si
occupano dei rapporti con il Parlamento, con gli organi costituzionali, con le istituzioni europee e con il
sistema delle autonomie, il coordinamento dell'attività amministrativa del governo, la promozione delle
pari opportunità. Alla presidenza del Consiglio dei ministri, e in particolare, al segretario generale, attiene,
per gli aspetti organizzativi, l'avvocatura dello Stato, con funzioni di consulenza generale e di
rappresentanza legale in giudizio delle amministrazioni statali.

5.GLI ENTI TERRITORIALI: I COMUNI, LE PROVINCIE, LE REGIONI

Secondo l’art. 114 Cost. la Repubblica è costituita, oltre che allo Stato, dai comuni, dalle province, dalle città
metropolitane e dalle regioni, definiti come enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni. Lo Stato ha
il potere legislativo esclusivo in tema di legislazione elettorale, di organi di governo e di funzioni
fondamentali di comuni, province e città metropolitane. Inoltre, la Costituzione individua gli organi
fondamentali delle regioni (consiglio regionale, giunta, presidente), definendone le funzioni principali (art.
121). I principi fondamentali per l’assegnazione delle funzioni tra i vari livelli di governo sono la sussidiarietà
(verticale), la differenziazione e l’adeguatezza (art. 118 Cost.). Inoltre, è garantita autonomia finanziaria di
entrata e di spesa, inclusa l’applicazione di tributi propri (art. 119). Il rapporto che c’è tra Stato, regioni ed
enti locali non è a cascata, ma triangolare, visto che i comuni intrattengono rapporti istituzionali diretti con
lo Stato, senza l’intervento delle regioni. Dal punto di vista del diritto amministrativo, gli enti locali e le
regioni sono una particolare categoria di enti pubblici. In primo luogo, si tratta di enti territoriali necessari,
nel senso che essi sono istituiti obbligatoriamente in tutto il territorio nazionale. In secondo luogo, sono
enti ad appartenenza necessaria, perché ogni cittadino, in base al criterio della residenza, trova un
riferimento stabile in ognuno di essi (es. esercizio di voto). In terzo luogo, sono enti a competenza generale,
perché possono curare gli interessi della popolazione di riferimento con una certa libertà, in base agli
indirizzi politici espressi dal corpo elettorale locale e agli indirizzi politico-amministrativi dell’organo
consiliare. In quarto luogo, si tratta di enti integralmente inseriti nell’ordinamento amministrativo poiché
tutti i loro atti normativi e non normativi sono sempre e necessariamente atti formalmente amministrativi.
La sola eccezione è costituita dalle leggi regionali, nelle materie e nei limiti definiti dall’art.117 Cost., per le
quali vige il regime proprio degli atti legislativi, incluso il controllo di costituzionalità da parte della Corte
Costituzionale. Gli enti locali sono disciplinati dal Testo unico approvato con d.lgs. n. 367/2000. Le province
(circa un centinaio) sono un ente intermedio tra i comuni e le regioni. Le province costituiscono un livello di
governo che sembrava destinato a essere superato essendo ritenuto poco funzionale e troppo oneroso.
Infatti, il disegno di legge di riforma costituzionale, già citato e che non è stato confermato dalla
consultazione referendaria del 4 dicembre 2016, proponeva la soppressione delle province. Peraltro, nel
2014 sono state modificate le regole di elezione del consiglio provinciale e del presidente della provincia
prevedendo che essi siano nominati dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni della provincia.
1. Il comune viene definito dal Testo unico come l’ente locale che rappresenta la comunità, ne cura gli
interessi e ne promuove lo sviluppo. Al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la
popolazione e il territorio comunale, nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto
ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico. Le funzioni dei comuni vengono date nelle varie
materie con legge statale o con legge regionale. L’autonomia dei comuni si manifesta prima di tutto tramite
il potere statutario. Lo statuto, approvato dal consiglio comunale a maggioranza qualificata, stabilisce le
norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e specifica le attribuzioni degli organi, le forme di
collaborazione tra comuni e province, la partecipazione popolare, l’accesso dei cittadini alle informazioni e
ai procedimenti amministrativi. In aggiunta alla potestà statutaria ai comuni è riconosciuta anche
un’autonomia regolamentare nelle materie di propria competenza e in particolare per ciò che riguarda
l’organizzazione e il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni, sia pur nel
rispetto dei requisiti minimi di uniformità definiti a seconda delle materie dalla legislazione statale o
regionale. Le funzioni principali dei comuni sono quelle che riguardano i servizi alla persona e alla comunità
(anziani, tossicodipendenti, disabili, ecc.), la polizia locale (vigilanza in materia di commercio, edilizia,
ambiente, ecc.), l’ordinamento e utilizzazione del territorio (pianificazione urbanistica, ecc.), le
infrastrutture, i trasporti e la circolazione stradale, l’ambiente, lo sviluppo economico, i servizi pubblici
locali. Sotto il profilo organizzativo, gli organi di governo del comune sono il consiglio, la giunta e il sindaco.
Il consiglio comunale è composto da un numero variabile di consiglieri eletti con un sistema proporzionale.
Il sindaco è eletto direttamente dal corpo elettorale per non più di due mandati quinquennali. È titolare
della maggior parte dei poteri comunali. La giunta è composta dal sindaco e da un numero variabile di
assessori nominati da quest’ultimo anche al di fuori dei componenti del consiglio. La giunta collabora con il
sindaco ed è titolare di tutte le competenze che non spettano al consiglio e al sindaco. In tutti i comuni,
accanto agli organi di governo c’è un segretario comunale che ha compiti di collaborazione e di assistenza
giuridico-amministrativa. Il direttore generale è una figura presente soltanto nei comuni con una
popolazione superiore ai 15000 abitanti. È nominato con delibera dalla giunta ed è assunto con un
contratto a tempo indeterminato al di fuori della pianta organica. Funge da accordo tra gli organi di
governo dell’ente e la dirigenza. I dirigenti degli enti locali sono addetti agli uffici e ai servizi e sono
responsabili della gestione amministrativa, finanziaria tecnica, con autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Nei comuni può essere istituito anche il
difensore civico, un ufficio indipendente all’interno dell’ente che svolge compiti di garanzia di imparzialità e
del buon andamento della pubblica amministrazione. Per favorire la cooperazione tra comuni, il Testo unico
prevede le convenzioni che hanno per oggetto l’esercizio coordinato di funzioni e servizi, i consorzi, istituti
per l’esercizio associato di funzioni e amministrati da un assemblea rappresentativa degli enti associati e da
un consiglio di amministrazione, le unioni di comuni per l’esercizio in comune di una serie di funzioni.
2. Le province sono enti intermedi tra i comuni e le regioni. Il Testo unico applica ad esse gran parte delle
disposizioni previste per i comuni. Bisogna ricordare che è in atto un processo di riforma costituzionale
volta a sopprimerle e nel frattempo una legge del 2014 ha introdotto regole volte a trasformarle in enti di
secondo grado di derivazione comunale. Esse sono titolari di funzioni amministrative limitate a pochi settori
e svolgono soprattutto funzioni di programmazione. In particolare, esse esercitano le funzioni di
pianificazione territoriale e provinciale di coordinamento, nonché di tutela e di valorizzazione
dell’ambiente; di pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale e di regolazione della
circolazione nell’ambito delle strade provinciali; di programmazione provinciale della rete scolastica. Si
aggiungono poi funzioni di gestione: autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato; costruzione
e gestione delle strade provinciali; raccolta ed elaborazione dati; gestione edilizia scolastica; promozione
pari opportunità sul territorio provinciale. Lo Stato e le Regioni poi possono delegare alle province ulteriori
funzioni, in attuazione dell’art.118 Cost. Gli organi di governo delle province sono costituiti dall’assemblea
dei sindaci, che ha poteri propositivi, consultivi e di controllo, dal consiglio provinciale, che è l’organo di
indirizzo politico-amministrativo e dal presidente della provincia. Infine, le città metropolitane, assorbono
le funzioni della provincia in aree caratterizzate dalla presenza dei comuni italiani più popolosi uniti a
contiguità territoriale e con rapporti di stretta integrazione in ordine all’attività economica, ai servizi
essenziali, ai caratteri ambientali e alle relazioni sociali e culturali. La loro istituzione è stata disposta di
recente in parallelo al riordino delle province. Sono organi della città metropolitana il sindaco
metropolitano, il consiglio metropolitano, che è l’organo di indirizzo e di controllo, e la conferenza
metropolitana che ha poteri sostitutivi e consultivi, nonché il potere di approvare lo statuto. Esse sono:
Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Oltre alle funzioni
fondamentali delle province, esse esercitano ulteriori funzioni stabilite direttamente dalla legge e che sono
necessarie per gestire le grandi conurbazioni anche al fine di promuovere lo sviluppo economico: adozione
di un piano strategico triennale del territorio metropolitano; pianificazione territoriale generale;
strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici; mobilità e viabilità.
3. Per quanto riguarda le regioni, la cui organizzazione è quasi uguale a quella degli enti locali, ha come
organi di governo il consiglio regionale, la giunta, il presidente (art. 121 Cost.), quest’ultimo eletto
direttamente dalla popolazione. Le regioni possono disciplinare con legge regionale il sistema di elezione,
anche se nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge statale (art. 122), e individuare nello statuto
la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento (art. 123).
Prima della legge costituzionale 3/2001, a livello regionale valeva, da un lato, il principio del parallelismo tra
funzioni amm.ve e funzioni legislative (art.118), in virtù del quale le prime (amm.ve) riguardavano
esclusivamente le materie attribuite dalla Costituzione alla competenza legislativa regionale; dall’altro, il
principio della delega agli enti locali con legge statale delle funzioni di interesse locale; dall’altro, il principio
secondo il quale la regione esercitava le proprie funzioni, di regola, delegandole agli enti locali o valendosi
dei loro uffici (amministrazione indiretta). In attuazione di questo disegno, lo Stato trasferì numerose
funzioni amm.ve di interesse locale direttamente agli enti locali. Il riparto delle funzioni amm.ve tra i vari
livelli di Governo è stato reimpostato in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza
(art.118) tra Stato e Regione. Un controllo sugli organi di governo regionale è previsto direttamente dalla
Costituzione. Infatti, l’art. 126 cost. prevede che con DPR possa essere sciolto il consiglio regionale e
rimosso il presidente della giunta per atti contrari alla Costituzione, per gravi violazioni di legge, o per
motivi di sicurezza nazionale. Di recente, sono stati rafforzati i poteri di controllo della Corte dei conti sulla
gestione finanziaria degli organi regionali. In generale, in base all’art. 120 Cost. il governo è titolare di un
potere sostitutivo nei confronti di organi della regione, ma anche degli enti locali, quando non vengono
rispettate le norme e i trattati internazionali, in caso di pericolo grave per l’incolumità e sicurezza pubblica o
quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica dell’ordinamento. Come si è già detto, il governo può
annullare d’ufficio gli atti amministrativi di tutte le amministrazioni pubbliche, inclusi gli enti territoriali, a
tutela dell’unità dell’ordinamento.
Conferenza Stato-Regioni e Conferenza Stato-città-autonomie locali: sono strumenti di raccordo
istituzionale tra i vari livelli. I due organi si riuniscono in conferenza unificata in relazione a materie di
interesse comune. In molti casi le leggi amm.ve affidano a questi organi, presieduti dal Presidente del
Consiglio (o da un suo delegato), il compito di esprimere un parere o addirittura un’intesa, quest’ultima
rilevante soprattutto nei rapporti tra Stato e Regione.

6.GLI ENTI PUBBLICI

A partire dal XX secolo, accanto allo Stato e agli enti territoriali, vennero istituiti numerosi enti pubblici,
diversi per struttura, funzioni, poteri e ambiti di autonomia (statutaria, organizzativa…). La crescita degli
enti pubblici, per superare la pesantezza e la rigidità delle amministrazioni statali, diede origine a quella che
venne definita l’amministrazione parallela. Ci sono varie tipologie di enti pubblici. 1. Una prima distinzione
è tra enti disciplinati da leggi generali che ne definiscono i caratteri comuni ed enti pubblici di tipo
singolare, istituiti con una legge ad hoc. I primi, per esempio, sono le camere di commercio, industria e
artigianato, le aziende sanitarie locali. Tra gli enti a statuto singolare ci sono, per esempio, l’Ente nazionale
di assistenza al volo (ENAC), il Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), l’Istituto nazionale di statistica
(ISTAT). 2. Una seconda distinzione è tra enti pubblici nazionali e regionali a seconda che si tratti di enti
istituiti a livello statale o a livello regionale. 3. Un’altra distinzione è tra enti di tipo associativo e non
associativo. I primi sono enti esponenziali di categorie o gruppi (gli ordini e collegi professionali). Gli enti
non associativi hanno natura prevalentemente patrimoniale e sono amministrati generalmente da un
consiglio di amministrazione con componenti nominati, a seconda dei casi, da ministeri e enti di riferimento
individuati dalla legge o dallo statuto. Hanno ambiti di autonomia maggiori. 4. Un ulteriore distinzione è tra
enti pubblici non economici ed economici. La L. 70/1975 elenca una serie di enti non economici distinti per
categorie omogenee (enti previdenziali e assistenziali, enti di promozione economica…). In termini generali
gli enti pubblici non economici si distinguono prima di tutto per essere istituiti per realizzare uno scopo
specifico e in questo si differenziano dagli enti territoriali (specie i comuni). Inoltre, sono sottoposti a poteri
di vigilanza e di indirizzo più o meno penetranti da parte dei ministri o delle regioni. Le risorse finanziarie di
cui dispongono provengono in modo diretto o indiretto da fonti erariali e quindi a differenza di molti enti
pubblici economici, non operano nel mercato. Infine, esercitano la propria attività con moduli
prevalentemente autoritativi, ossia con atti amministrativi. Gli enti pubblici economici hanno la particolarità
che, mentre l’organizzazione segue moduli pubblicistici, la loro attività segue il diritto privato (atti
negoziali). Cioè la loro attività ha in molti casi carattere esclusivamente imprenditoriale e si sostanza in
contratti di diritto comune. Inoltre, ai dipendenti di questi enti non viene applicata la disciplina generale dei
dipendenti pubblici. Tuttavia, siccome anche loro perseguono finalità pubblicistiche, anche loro sono
sottoposti a poteri di indirizzo e di controllo da parte dei ministeri e di altri soggetti pubblici. In seguito al
processo di liberalizzazione e di privatizzazione, molti enti pubblici economici sono stati o soppressi o
trasformati in società per azioni. Anche alcune categorie di enti pubblici non economici in anni recenti sono
state privatizzate anche se mantengono funzioni di tipo pubblicistico. Invece, per scelta legislativa, alcuni
enti pubblici non economici, come la Croce Rossa sono stati trasformati in enti non profit di natura privata
(fondazioni).
Un’ultima distinzione da fare è tra enti pubblici e enti privati. In proposito, si è dubitato dell’utilità non solo
di ricostruire una nozione unitaria di ente pubblico, ma anche di individuare i tratti distintivi dell’ente
pubblico rispetto all’ente privato. La giurisprudenza più recente, come si è accennato, ha precisato che si
tratta di una «nozione funzionale e cangiante» tale da escludere che il riconoscimento a un determinato
ente della natura pubblica implica automaticamente l’applicazione integrale della disciplina valevole in
generale per la pubblica amministrazione. Del resto, come visto, le principali leggi amministrative
prediligono il metodo dell’elencazione tassativa delle amministrazioni pubbliche che ricadono nel loro
ambito di applicazione e in esso rientrano talora anche soggetti formalmente privati. Inoltre, gli enti
pubblici e le società pubbliche si prestano a essere collocati lungo una linea continua che ha a un estremo le
amministrazioni pubbliche per eccellenza (Stato ed enti territoriali), nella parte mediana, gli enti pubblici
non economici, gli enti pubblici economici, le società in house e le società a controllo pubblico, e all’altro
estremo le società (non quotate e quotate) e gli enti di diritto comune partecipati dalle amministrazioni
pubbliche in base alla capacità di diritto privato e senza alcuna deroga alle disposizioni generali contenute
nel codice civile. Man mano che ci si sposta dal primo estremo all’altro prevalgono via via gli aspetti
privatistici. La questione della distinzione tra ente pubblico ed ente privati ha acquisito grande importanza
in base a una tendenza giurisprudenziale recente che tende a qualificare come enti pubblici anche alcune
società per azioni in mano pubblica, soprattutto con lo scopo di stabilire se gli atti da essa emanati ricadano
nella competenza del giudice amministrativo. Questo è accaduto per società che svolgono attività di
importanti interessi pubblici, istituite e disciplinate da leggi speciali.
Sono stati elaborati diversi indici di pubblicità per risolvere le questioni relative alla qualificazione pubblica
o privata di un ente: 1. istituzione per legge, 2. fine pubblico, 3. rapporto di strumentalità con lo Stato o un
ente territoriale, 4. sottoposizione a intensi poteri di indirizzo e di controllo da parte dello Stato, 5.
attribuzione per legge di poteri pubblicistici, 6. finanziamento a carico dell'erario, 7. carattere necessario
dell'ente.

7.LE AUTORITA’ INDIPENDENTI

Le autorità amministrative indipendenti sono una tipologia recente di enti pubblici che si è diffusa negli anni
‘90 con l’affermarsi dello Stato regolatore. Esse si distinguono, rispetto alle amministrazioni di tipo
tradizionale, oltre che per un elevato tasso di tecnicità e di professionalità, soprattutto per un livello di
indipendenza dal potere esecutivo. Cioè esse si sottraggono all’indirizzo politico amministrativo del governo
(e per questo si è dubitato della loro compatibilità con la Cost). Il loro ruolo (con la loro indipendenza e
terzietà) è quello di tutelare gli interessi pubblici e della collettività in diversi settori di rilevanza sociale. Si
possono analizzare quattro aspetti delle autorità indipendenti: le ragioni dell’indipendenza, gli strumenti
atti a garantirla, i tratti più caratteristici del loro regime, le categorie principali.
1. Una prima ragione di indipendenza si collega al dibattito politico-costituzionale sui cosiddetti poteri
neutri, concepiti come elementi moderatori all’interno dei sistemi politici in cui prevalgono le
contrapposizioni politiche e le fazioni. La tesi è che non tutti gli apparati pubblici devono mantenere un
collegamento stretto con il circuito politico rappresentativo che risente spesso di logiche di breve periodo
legate a cicli elettorali. Una seconda ragione si collega all’esigenza di garanzie rafforzate per alcuni valori
costituzionali nei settori cosiddetti sensibili (tutela risparmio, tutela privacy). Una terza ragione è la
necessita di risolvere conflitti di interesse potenziali tra stato regolatore, che deve fare da arbitro neutrale
tra le imprese concorrenti, e Stato imprenditore, proprietario di imprese pubbliche, che ha invece interesse
a favorire il loro sviluppo anche a scapito di quelle concorrenti.
2. Gli strumenti istituzionali che garantiscono l’indipendenza si ricavano dalle leggi istitutive delle singole
attività. In primo luogo, le autorità indipendenti hanno un legame istituzionale privilegiato con il
parlamento piuttosto che con il governo. A quest’ultimo o ai ministri di settore è invece precluso ogni
potere di direttiva e di indirizzo, cioè l’uso dello strumento tipico per orientare l’attività degli enti pubblici.
La nomina dei componenti dell’organo collegiale delle autorità è attribuita ai presidenti dei due rami del
parlamento. Le autorità svolgono un ruolo attivo di consulenza nei confronti del parlamento attraverso il
potere di segnalazione e di proposta con lo scopo di sollecitare gli interventi legislativi ritenuti necessari
nelle materie di competenza. Infine, le autorità inviano al parlamento una relazione annuale e i loro
presidenti sono di frequente convocati in audizione davanti alle commissioni al dine di acquisire
informazioni. In secondo luogo, c’è la disciplina degli organi. I componenti sono scelti in base a requisiti
rigorosi di professionalità, competenza, e di indipendenza. La durata in carica dell’organo è particolarmente
lunga (in genere 7 anni). I componenti dell’organo non possono essere confermati per un secondo mandato
e ciò li rende meno influenzabili. In terzo luogo, c’è l’ampia autonomia organizzativa, funzionale e
finanziaria delle autorità. Le leggi istitutive prevedono che esse operino “in piena autonomia e con
indipendenza di giudizio e di valutazione”. Inoltre, esse possono modellare liberamente le proprie strutture
interne con regolamenti di organizzazione e possono dotarsi del personale di cui necessitano. In quarto
luogo c’è l’inserimento in un circuito di autorità nazionali che fa capo a un regolatore europeo previsto nei
Trattati e nel diritto derivato.
3. Le autorità indipendenti derogano al principio tradizionale della separazione dei poteri. Infatti, riuniscono
poteri di regolazione, poteri amministrativi esercitati in applicazione ai casi singoli delle regole da esse
stesse poste e poteri di risoluzione in via stragiudiziale di controversie soprattutto tra imprese regolate e
consumatori. In relazione a quest’ultimo punto è giusto sottolineare il potere para-giurisdizionale a difesa
dei consumatori o utenti nei rapporti con le imprese regolate, sotto forma di reclami, ricorsi e altre forme di
risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione. I loro poteri in forma para-giurisdizionale
prevedono garanzie di contraddittorio rafforzate, coinvolgimento della Commissione europea o persino la
separazione tra funzioni istruttorie e decisorie, a garanzia di maggior terzietà nella decisione.
4. Le autorità indipendenti sono state istituite dal legislatore in un arco di tempo molto lungo e per finalità
e con assetti organizzativi e funzionali non del tutto omogenei.

Le autorità indipendenti possono essere raggruppate in tre tipologie principali: a) le autorità di tipo
generalista; b) le autorità di settore addette alla vigilanza sulle imprese operanti su mercati concorrenziali;
c) le autorità addette alla regolazione dei servizi pubblici istituite in seguito ai processi di liberalizzazione
(sottospecie delle seconde, analizzate nel capitolo 9).
1. Le autorità di tipo generalista esercitano i loro poteri nei confronti di tutte le imprese o di altri soggetti
pubblici o privati. Quelle principali sono l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e il Garante per
la protezione dei dati personali.

- Autorità garante della concorrenza e del mercato (ANTITRUST): fu istituita nel 1990, in ritardo in
raffronto agli altri Paesi UE. Le funzioni originarie (e a tutt’oggi originali) dell’autorità Antitrust
hanno un aggancio Costituzionale nell’art. 41 Cost e sono quelle relative all’applicazione della
disciplina della concorrenza. Questa ha, dunque, tra i compiti principali: vigilanza contro gli abusi di
posizione dominante; vigilanza sulle intese o sui cartelli che possono risultare lesivi o restrittivi per
la concorrenza; controllo sulle operazioni di concentramento aziendali (fusioni) che superano un
certo valore che possa sfalsare il mercato; tutela del consumatore, in materia di pratiche
commerciali scorrette, clausole vessatorie e pubblicità ingannevole. L’autorità in tali casi procede
ad istruire indagini conoscitive che potrebbero concludersi con una diffida o una sanzione
amministrativa, i cui provvedimenti possono essere impugnati dinnanzi al TAR del Lazio. L’Antitrust,
in sostanza, interpreta le norme in base ai principi dell’ordinamento comunitario e applica in modo
decentrato le regole del TFUE in materia di concorrenza. Ai fini dell’applicazione delle regole in
materia di concorrenza, è investita di poteri paralleli a quelli dell’autorità giudiziaria ordinaria, di
accertamento e repressione delle violazioni. I suoi atti sono impugnabili innanzi al giudice
amministrativo. L’autorità, annualmente, presenta una relazione al Presidente del Consiglio dei
Ministri, dove fa il punto sull’applicazione della normativa concorrenziale in Italia. Oltre a ciò, essa
ha la possibilità di esprimere un proprio parere sulle norme che regolano il mercato insieme alle
altre Autorità dell’Unione Europea, in quanto essa fa parte della rete UE delle Autorità in materia di
concorrenza.
- Autorità garante per la protezione dei dati personali, istituita nel 1996 (in attuazione di una direttiva
CE), è preposto all’applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs.
196/2003) ed esercita i propri poteri sia verso i soggetti privati sia, entro certi limiti, verso i soggetti
pubblici. Questa figura costituisce l’esempio forse più rilevante di tutela amministrativa dei diritti
soggettivi, tra i quali rientra sicuramente il diritto alla riservatezza (privacy). Tra i compiti principali
dell’Autorità ci sono: controllare che i trattamenti siano effettuati nel rispetto delle norme di legge;
ricevere ed esaminare i reclami e le segnalazioni e provvedere sui ricorsi presentati degli
interessati; vietare, anche d’ufficio, i trattamenti illeciti o non corretti ed eventualmente disporre il
blocco. Il garante è titolare di poteri normativi (prescrivere misure necessarie al fine di rendere
conforme il trattamento dei dati personali alla disciplina legislativa) e poteri amministrativi in senso
proprio (rilascio di autorizzazioni al trattamento dei dati sensibili, quali dati sanitari, religiosi, sulla
sessualità, convinzioni politiche etc.). Inoltre, promuove la sottoscrizione di codici di deontologia
adottati da varie categorie di operatori chiamati a confrontarsi con questioni relative alla privacy,
emana anche d’ufficio le cosiddette autorizzazioni generali pubblicate in G.U. volte a disciplinare il
trattamento dei dati personali. Il Garante è costituito da 4 membri, eletti da ciascuno dei due rami
del parlamento, i quali eleggono uno di loro come presidente. I membri dovranno essere scelti tra
persone che assicurano indipendenza e che siano esperti riconosciuti nelle materie del diritto o
dell’informatica.

2. Per quanto riguarda le autorità di tipo settoriale, si possono menzionare le autorità addette alla vigilanza
e alla regolazione dei mercati finanziari (Banca d’Italia, CONSOB, IVASS). Queste trovano una disciplina
minima unitaria nella cosiddetta “legge sul risparmio” (l.262/2005): inoltre esse operano in modo sempre
più integrato a livello europeo, soprattutto in seguito all’applicazione nel 2010 del SEVIF (sistema europeo
di vigilanza finanziaria).

- La Banca d’Italia: istituita alla fine del 1800 in forma privatistica (l.449/1893) come istituto di
emissione e come banca commerciale ordinaria, acquisì progressivamente i caratteri di istituzione
pubblica con 2 tipi di funzioni: - funzione monetaria (governo della moneta, ai fini di garantirne la
stabilità); - funzione di vigilanza (autorità di vigilanza sugli istituti di credito al fine di garantirne la
solvibilità). La prima funzione è oggi attratta a livello europeo nel SEBC (sistema europeo banche
centrali), istituito nel 1992. Al SEBC il TFUE devolve le funzioni di definire e attuare la politica
monetaria, con l’obiettivo primario del mantenimento della stabilità dei prezzi e con il potere in via
esclusiva di autorizzare l’emissione di banconote all’interno della Comunità. Le banche centrali
costituiscono parte integrante del SEBC e agiscono secondo gli indirizzi e le istruzioni della BCE. Alla
BCE, invece, così come alle banche centrali nazionali, il Trattato garantisce invece l’indipendenza dai
governi nazionali, che non possono impartire istruzioni o influenzare le loro decisioni. La funzione di
vigilanza è disciplinata dal d.lgs. 385/1993 (TU delle leggi bancarie e creditizie) e da un corpo di
norme europee. Il testo unico attribuisce alla Banca d’Italia, ma anche in parte al Ministero
dell’Economia e al Comitato Interministeriale per il credito e per il risparmio, un’amplissima gamma
di poteri (normativi, prescrittivi, sanzionatori). Nel 2013 i governi dei paesi dell’area euro, a seguito
della crisi, hanno avviato un processo normativo (“Banking Union”), che ha portato, nel 2014, ad
attribuire alla BCE poteri di vigilanza sui principali gruppi bancari nazionali e ad introdurre regole
comuni per la prevenzione e la risoluzione delle crisi bancarie. Il cd. meccanismo di vigilanza unico
costituisce la punta più avanzata di integrazione tra apparati pubblici nazionali ed europei e di
coesione di poteri amm.vi.
- La CONSOB (“Commissione Nazionale per le società e la Borsa”): istituita con la l. 216/1974, svolge
funzioni di vigilanza e regolazione e di controllo sulla trasparenza e correttezza dei comportamenti
degli intermediari, sui mercati e sui prodotti finanziari. Nel tempo ha visto accrescere i propri poteri
notevolmente, ora disciplinati in gran parte dal TUF (d.lgs. 58/1998). Anche la Consob è titolare di
poteri normativi e amministrativi (atomizzatori, prescrittivi, sanzionatori, ispettivi, di acquisizione
dati) molto estesi: questi ultimi includono anche forme di soft law.
- L’IVASS (Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni) è sorto nel 2012 sulle ceneri del vecchio ISVAP,
presieduto dal direttore generale della Banca d’Italia ed ha come organo di indirizzo il direttorio
della Banca d’Italia, integrato da 2 componenti del consiglio dell’istituto, esperti in materia
assicurativa e previdenziale. L’istituto opera sulla base di principi di autonomia organizzativa
finanziaria e contabile, oltre che di trasparenza ed economicità per garantire la stabilità e il buon
funzionamento del sistema assicurativo e la tutela dei consumatori. Le funzioni principali
dell’IVASS: controlla la gestione tecnica, finanziaria patrimoniale e contabile delle imprese di
assicurazione; vigila sull’osservanza delle leggi e dei regolamenti in materia assicurativa da parte
delle imprese e degli agenti.

8.LE SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA

Il fenomeno della società a partecipazione pubblicasi lega a 3 cause:


1) Affermarsi dello Stato imprenditore (a partire dagli anni '30, con apice negli anni '60 e '70). Lo Stato
acquisì i caratteri di stato imprenditore attraverso la costituzione o l’acquisizione di imprese anche in settori
deregolamentati e aperti alla concorrenza. La giustificazione all’espansione dello stato imprenditore (forte
negli anni ‘60/’70) fu quella di intervenire con l’obiettivo di salvare imprese (aziende) in crisi al fine di
garantire l’occupazione e di promuovere politiche di pianificazione e di programmazione economica in
funzione di sostegno delle aree economiche più svantaggiate del paese. Nel secondo dopoguerra, le
imprese pubbliche vennero inserite nel sistema delle partecipazioni statali organizzato in modo piramidale,
con al vertice i 2 comitati interministeriali e il ministero delle Partecipazioni statali. Quest’ultimo venne
istituito nel 1956 con funzioni di vigilanza e poteri di direttiva nei confronti degli enti di gestione delle
partecipazioni statali, cioè di enti pubblici economici con funzione di holding finanziaria (IRI, ENI, EFIM).
Questi enti erano titolari in modo diretto o indiretto delle azioni delle società pubbliche ed esercitavano
l’influenza su queste ultime attraverso il diritto di voto nelle assemblee e la nomina degli amministratori. Il
sistema delle partecipazioni statali venne poi smantellato verso la fine degli anni ’80, in quanto troppo
oneroso per le finanze pubbliche.
2) la privatizzazione formale di enti pubblici (negli anni '90): gli enti pubblici economici che operavano in
regime di monopolio legale vennero trasformati per legge in spa con l'attribuzione della titolarità delle
azioni allo Stato (privatizzazione “fredda”). In molti casi queste ultime vennero cedute in tutto o in parte ad
azionisti privati (privatizzazione “calda”)
3) la esternalizzazione di attività svolte da apparati amministrativi (recentemente): molte PA hanno affidato
le proprie attività a società da esse costituite e partecipate che svolgono la propria attività in prevalenza e
per conto delle amministrazioni e degli enti pubblici di riferimento (società strumentali). Questo per ragioni
di efficienza e snellezza operativa (es. SOGEI, che cura per conto del ministero economia la riscossione
imposte).
Accanto a queste tre cause, per così dire, fisiologiche, in anni recenti il fenomeno delle società a
partecipazione pubblica è esploso, soprattutto a livello di enti locali, per ragioni patologiche (sono oggi circa
8.000): moltiplicazione di cariche da attribuire con criteri politici, elusione delle norme pubblicistiche in
tema di assunzioni di personale, di stipulazione dei contratti, di vincoli finanziari legati al patto di stabilità;
estensione del campo di azione in settori economici esposti alla concorrenza e che non presentano
situazioni di fallimento del mercato. Per contrastare gli abusi negli anni più recenti sono state introdotte
numerose leggi ispirate a liquidare o accorpare le società a partecipazione pubblica ritenute inutili o poco
vitali, rendere applicabile la disciplina pubblicistica (regole sui concorsi pubblici, sui contratti pubblici, patto
di stabilità, regole sulla trasparenza) anche ad alcuni tipi di società a partecipazione pubblica, ridurre i costi
e “moralizzare” il settore (attraverso per esempio la previsione di tetti ai compensi degli amministratori),
prevenire distorsioni della concorrenza limitando al massimo la possibilità delle pubbliche amministrazioni
di operare con proprie società in ambiti di propriamente di mercato.
Tipologie di società a partecipazione pubblica. Da ultimo un riordino e razionalizzazione della disciplina in
tema di società a partecipazione pubblica è stato avviato, con l’obiettivo dichiarato di ridurre drasticamente
il loro numero, nell’ambito della riforma Madia della pubblica amministrazione ad opera del Testo unico
approvato con d.lgs. 175/2016. Il d.lgs. n. 175/2016 si ispira, più che al principio europeo di neutralità, a
quello, sotteso alla normativa nazionale più recente, di contenimento del fenomeno delle società a
partecipazione pubblica, limitando in questo campo la capacità di diritto privato delle PA. Ad esse infatti è
imposto un divieto generale di costituire società, acquisire o mantenere azioni anche di minoranza in
società commerciali aventi per oggetto “la produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il
perseguimento delle proprie finalità istituzionali”. Inoltre, sempre nel rispetto di questo vincolo finalistico, il
d.lgs. n. 175/2016 elenca in modo tassativo le attività svolte dalle società a partecipazione pubblica: servizi
di interesse generale, progettazione o realizzazione di un’opera pubblica, autoproduzione di beni o servizi
strumentali agli enti partecipanti, servizi di committenza. Da questa impostazione derivano due
conseguenze principali: l’obbligo per le PA di approvare piani di riassetto annuali delle proprie
partecipazioni azionarie per verificare il rispetto una serie di parametri normativi (fatturato non inferiore a
una soglia minima, bilanci non in perdita, numero di dipendenti non inferiore a quelli degli amministratori,
ecc.) e per procedere a liquidazioni, cessioni e accorpamenti; l’obbligo di motivazione analitica delle
delibere relative alla costituzione e all’acquisto di partecipazioni societarie. Più in generale, il d.lgs.
175/2016 pone una disciplina pubblicistica dello Stato azionista, cioè dei principi e delle modalità
procedimentali che le pubbliche amministrazioni devono rispettare per acquisire, mantenere e alienare le
partecipazioni societarie. Quanto alle società a partecipazione pubblica il d.lgs. n. 175/2016 si attiene
invece in modo rigoroso al principio raccomandato dall’OCSE secondo il quale le società a partecipazione
pubblica sono sottoposte al regime di diritto comune, prevedendo pochissime deroghe espresse al codice
civile (tra queste, nel caso di costituzione di una società mista pubblico-privato per la gestione di un servizio
pubblico, i patti parasociali tra azionisti possono avere una durata superiore ai 5 anni).
Le società a partecipazione pubblica sono sottoposte a vincoli pubblicistici via via più intensi in base alla
seguente classificazione: le società quotate, alle quali il d.lgs. n. 175/2016 si applica solo nei casi
(pochissimi) nei quali esso le richiama espressamente e ciò al fine di non penalizzarle in alcun rispetto alle
società quotate private; le società meramente partecipate, nelle quali cioè le amministrazioni pubbliche
detengono solo pacchetti azionari di minoranza, anch’esse sottoposte in massima parte al diritto comune;
le società in controllo pubblico, nelle quali le amministrazioni pubbliche detengono direttamente o
indirettamente la maggioranza delle azioni, alle quali si applicano gran parte dei vincoli pubblicistici; le
società in-house per le quali sono previste il maggior numero di deroghe al codice civile e il cui regime è
equiparato in gran parte a quello delle pubbliche amministrazioni (inclusa la responsabilità per danno
erariale); le società a partecipazione pubblica di diritto singolare istituite per la gestione di servizi di
interesse generale o per altre finalità pubblicistiche (che sono cioè disciplinate da leggi particolari, come per
esempio la RAI) le cui disposizioni speciali continuano a trovare applicazione in aggiunta a quelle previste
dalla nuova disciplina.
Merita soffermarsi in modo più dettagliato sull’obbligo di motivazione analitica che costituisce il fulcro della
nuova disciplina: le amministrazioni pubbliche che intendano costituire o acquisire una partecipazione
societaria (di controllo, di minoranza, in-house, ecc.) devono adottare un atto deliberativo che motivi
analiticamente con riferimento alla necessità della partecipazione per il perseguimento dei propri fini
istituzionali esplicitando “le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta anche sul piano della
convenienza economica e della sostenibilità finanziaria”. La motivazione deve anche considerare la
“possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate, nonché di gestione diretta o
esternalizzata del servizio affidato” e dar conto della compatibilità con “i principi di efficienza, di efficacia e
di economicità dell’azione amministrativa” nonché con la disciplina degli aiuti di Stato. Gli enti locali devono
sottoporre lo schema di delibera a una consultazione pubblica. Inoltre, proprio per assicurare il rispetto di
parametri di legge così stringenti, le delibere in questione devono essere inviate alla Corte dei conti ai fini
del controllo e all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Una disciplina pubblicistica viene
imposta alle PA anche per l’alienazione delle partecipazioni che deve avvenire nel rispetto dei principi di
pubblicità, trasparenza e non discriminazione. Solo in via eccezionale, per ragioni che devono essere
esplicitate nella delibera sotto il profilo della convenienza economica, l’alienazione può avvenire mediante
una negoziazione diretta con un singolo acquirente. Il d.lgs. n. 175/2016, a completamento della disciplina
pubblicistica dello Stato azionista, introduce un sistema di monitoraggio, indirizzo e coordinamento sulle
società a partecipazione pubblica prevedendo l’istituzione nell’ambito del MEF di una struttura interna, con
poteri ispettivi sulle società, di emanazione di orientamenti e indicazioni sull’applicazione delle nuove
norme, nonché di individuazione delle migliori pratiche.
Società a controllo pubblico. Il regime introdotto dal d.lgs. n. 175/2016 per le società a controllo pubblico
prevede l’obbligo di dotarsi di: regolamenti interni volti a garantire la conformità dell’attività della società
alle norme a tutela della concorrenza, un ufficio di controllo interno, codici di condotta, programmi di
responsabilità sociale d’impresa. Sono previste una serie di prescrizioni minute, quali, per esempio, limiti al
numero dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, tetti ai compensi, divieti alla
corresponsione di gettoni di presenza. Trovano applicazione le disposizioni in materia di trasparenza con
finalità di anticorruzione previste dal d.lgs. 33/2013. Il personale deve essere assunto nel rispetto dei
principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi previsti per i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni.
Società in-house. Esse sono strettamente legate sul piano organizzativo e operativo a una PA, così da poter
essere equiparate ad un ufficio interno (in-house, appunto) della medesima. Sono destinatarie di
affidamenti diretti, in deroga al regime della concorsualità: si avrà una gestione in-house allorché le PA
realizzino le attività di loro competenza attraverso propri organismi, senza quindi ricorrere al mercato per
procurarsi (mediante appalti) lavori, servizi e forniture ad esse occorrenti o per erogare alla collettività
(mediante affidamenti interni) prestazioni di pubblico servizio. Gli organismi in-house, pur essendo parte
del sistema amministrativo facente capo alla pubblica amministrazione, non devono necessariamente
costituire un’articolazione interna dell’amministrazione stessa, priva di soggettività giuridica. Pertanto, è
ben possibile che gli organismi in-house siano dotati di una propria personalità giuridica distinta da
quell’amministrazione appartenente (trattasi, tuttavia, di una distinzione che rileva sul piano formale, ma
non su quello sostanziale). Le società in-house devono avere due caratteristiche:

a) Controllo analogo: tra PA titolari delle partecipazioni e società in-house deve intercorrere un
rapporto così stretto da assimilare quest'ultima a un organo interno della prima. Questa
compenetrazione esclude che gli atti o i contratti con i quali l’amministrazione affida alla società il
compito di svolgere nel suo interesse una determinata attività, di realizzare un’opera o di fornire un
bene o servizio, siano dei veri contratti. Per ottemperare al requisito del controllo analogo la
partecipazione deve essere totalitaria, nel senso che la presenza anche minoritaria del capitale
sociale di soggetti privati inquina la partecipazione pubblica. Inoltre, lo statuto della società o altri
strumenti devono garantire alla PA un potere di influire direttamente sulle strategie e decisioni
fondamentali della società e di controllarne l’attività (es. prevedendo che le delibere del cda siano
sottoposte ad approvazione specifica da parte del socio pubblico). Il controllo analogo può essere
anche congiunto e indiretto. È congiunto se più PA affidano a un'unica società la gestione unitaria di
un servizio pubblico, ma anche in questo caso ogni amministrazione partecipante deve essere in
grado di poter influire, insieme agli altri, sulle decisioni strategiche della società. È indiretto se una
PA detiene la partecipazione totalitaria di una società che a sua volta detiene a cascata una
partecipazione societaria totalitaria in un'altra società.
b) Attività svolta per conto della PA di riferimento: la società in-house non deve operare sul mercato,
per non alterare la situazione di parità concorrenziale rispetto a società che svolgono attività
similari sfruttando il vantaggio di aver ricevuto un affidamento diretto da parte di
un’amministrazione pubblica. Ha caratteri di società strumentale rispetto alla PA e non può
perseguire strategie operative volte ad affermare la sua presenza sul mercato in concorrenza con
altre imprese.

Le società qualificabili come in-house sulla base dei due requisiti sopra descritti sono sottoposte a regole
pubblicistiche ulteriori rispetto alle società a controllo pubblico. In particolare, sono tenute all’applicazione
integrale del Codice dei contratti pubblici e sono sottoposte alla giurisdizione della Corte dei conti per
danno erariale. Questa forma di responsabilità non vale invece per gli altri tipi di società a partecipazione
pubblica, anche se del danno erariale dovuto alla cattiva gestione rispondono comunque le pubbliche
amministrazioni titolari delle azioni sulle quali grava dunque un obbligo di monitorare in modo continuativo
le proprie partecipazioni azionarie. Le società in-house restano comunque sottoposte al diritto comune per
tutti gli aspetti non espressamente derogati dal d.lgs. n. 175/2016. Per esempio, sono soggette alle
ordinarie procedure fallimentari.
La rimozione di regole anticoncorrenziali è stata imposta dalla Corte Giustizia UE con riguardo alla c.d.
golden share, l’istituto giuridico in forza del quale uno Stato, durante e a seguito di un processo di
privatizzazione di un'impresa pubblica, si riserva poteri speciali allo scopo di tutelare l'interesse nazionale.
In sostanza, il Ministero Economia e delle Finanze aveva, in particolare, il potere di opporsi all’assunzione di
partecipazioni oltre la soglia del 5%, da parte di acquirenti privati. Con la golden share si mira ad evitare che
imprese strategiche possano finire sotto il controllo di fondi sovrani di Stati autoritari o di azionisti legati a
organizzazioni terroristiche. La golden share opererebbe in violazione dei principi di libera circolazione dei
capitali, poiché tale normativa, secondo la Corte di giustizia europea, accorderebbe un ambito di
valutazione discrezionale eccessivo. Dal 2012 è stata introdotta una nuova disciplina, che prevede che, in
caso di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale, il
governo possa esercitare una serie di poteri speciali, “golden power” (es. imposizione di condizioni relative
alla sicurezza degli approvvigionamenti o ai trasferimenti tecnologici in caso di acquisto di partecipazioni in
società che svolgono attività di rilevanza strategica in tali settori).

9.CENNI ALL’INTEGRAZIONE EUROPEA

L’influenza del diritto europeo sull’organizzazione amministrativa nazionale si manifesta in varie forme: in
primo luogo le amministrazioni nazionali si sono via via attrezzate per essere in grado di partecipare in
modo efficace alla determinazione delle decisioni in sede europea, svolgendo un ruolo attivo nell’ambito
dei processi di emanazione degli atti giuridici europei e alla loro attuazione in ambito nazionale (es. molti
ministeri si sono dotati di uffici che hanno come compito principale quello di curare i rapporti con l’ue; o
ancora il comitato interministeriale per la programmazione economica ha anche la responsabilità della
programmazione e dell’impulso delle politiche comunitarie); in secondo luogo le amministrazioni nazionali
e regionali sono talora coinvolte nello svolgimento di attività amministrative delle quale esse sono
contitolari con la commissione europea (cd. Co-amministrazione); infine in terzo luogo soprattutto per
quanto riguarda le autorità amministrative indipendenti esse sono inserite in modo sempre più stretto in
una rete di regolatori che fa capo ad agenzie e autorità europee istituite per promuovere l’elaborazione e
l’applicazione uniforme delle regole comunitarie.

10. LE RELAZIONI INTERORGANICHE E INTERSOGGETTIVE

Dobbiamo analizzare le relazioni organizzative interne alle amministrazioni e i rapporti tra amministrazioni
pubbliche. Le relazioni interorganiche e intersoggettive sono principalmente: gerarchia, direzione,
controllo, coordinamento.
1. Il rapporto di gerarchia presuppone che le competenze dell’organo o ufficio sottordinato siano tutte
incluse in quelle dell’organo o ufficio sovraordinato. Ciò spiega perché l’organo o ufficio gerarchicamente
sovraordinato, oltre a emanare ordini puntuali, può esercitare anche il potere: di avocare a sé un singolo
affare usualmente rimesso alla competenza dell’organo o ufficio sottordinato; di sostituirsi a quest'ultimo in
caso di inerzia; di risolvere conflitti insorgenti tra uffici sottordini; di decidere sui ricorsi gerarchici proposti
da soggetti terzi nei confronti degli atti emanati dall’organo subordinato; di annullare d’ufficio questi ultimi
e anche di revocarli. Il rapporto di gerarchia non interviene invece nelle relazioni intersoggettive tra enti
pubblici.
2. Per quanto riguarda il rapporto di direzione, si era già fatta (capitolo 2) la distinzione tra direttive che si
inseriscono in rapporti interorganici e direttive che riguardano rapporti intersoggettivi. Nell’ambito di
rapporti interorganici, le direttive sono uno strumento attraverso il quale l’organo sovraordinato condiziona
e orienta l’attività dell’organo o degli organi sottordinati quando quest’ultimo è titolare di una competenza
autonoma. Nei rapporti intersoggettivi le direttive sono uno strumento attraverso il quale il ministro
competente o la regione esercitano il potere di indirizzo nei confronti di enti pubblici strumentali, la cui
attività deve essere resa coerente con i fini istituzionali propri del ministero di settore o della regione.
3. Anche il controllo può avere natura interorganica (controlli interni) o intersoggettiva (controlli esterni) e
dà origine a un rapporto di sovraordinazione tra l’organo o l’ufficio titolare del potere di controllo e il
destinatario di quest’ultimo.
4. Il coordinamento è un’esigenza primaria in un sistema amministrativo che ha acquisito una dimensione
multilivello (nella direzione dell’autonomia) e di specializzazioni delle funzioni. Il coordinamento politico-
amministrativo riguarda i rapporti interni al governo (v. ruolo del CdM) e quelli tra lo Stato, le regioni e il
sistema delle autonomie locali (v. Conferenza Stato-regioni; Conferenza Stato, città e autonomie locali;
Conferenza unificata in relazione a materie di interesse comune). Il coordinamento amministrativo in senso
stretto avviene attraverso diversi strumenti come intese, pareri, conferenze di servizi, accordi tra le PA. Nel
caso delle autorità indipendenti, il coordinamento avviene su una dimensione paritaria, attraverso
protocolli di intesa tra le stesse autorità.

11.IL DISEGNO ORGANIZZATIVO DEGLI ENTI PUBBLICI E LO SPAZIO REGOLATORIO

Due nozioni utili per lo studio dell’apparato amministrativo sono: il disegno organizzativo degli enti pubblici
e il cosiddetto spazio regolatorio.
1. Il primo si sostanzia in una griglia di principi e indicatori che consentono di inquadrare comparativamente
qualsiasi tipo di apparato pubblico. Gli indicatori sono: le fonti che disciplinano l'apparato (legge istititutiva
o statuto); la tipologia di organi previsti per ciascun ente, modalità di nomina dei titolari dei medesimi,
ripartizione delle competenze; le funzioni e i poteri attribuiti all'ente (enti preposti all'esercizio di funzioni
propriamente amministrative e apparati preposti soprattutto all'erogazione di servizi); controlli e vigilanza
ai quali è sottoposto l'ente; risorse finanziarie sulle quali può fare affidamento l'ente (dipendenza da fondi
dell'erario o autosufficienza finanziaria).
2. Il disegno organizzativo tende a fornire un’immagine statica per così dire fotografica di ciascun apparato.
La sua collocazione nel cosiddetto “spazio regolatorio” tende invece a coglierne anche l’aspetto dinamico
all’interno di un sistema complesso di relazioni in qualche misura mobili tra apparati pubblici. Lo spazio
regolatorio è quello spazio in cui si collocano gli apparati, che non agiscono quasi mai da soli, ma si
sovrappongono ad altri, talvolta creando anche dei contrasti tra varie pubbliche amministrazioni.
CAPITOLO 9: I SERVIZI PUBBLICI

1.PREMESSA

Fino agli anni Ottanta del secolo scorso il tema dei servizi pubblici trovava la sua collocazione naturale nel
capitolo sull’organizzazione amministrativa. Infatti, prima dell’ondata di liberalizzazioni e privatizzazioni
dell’ultimo ventennio, l’erogazione dei servizi pubblici alla collettività era assicurata in gran parte da
apparati pubblici (enti pubblici, aziende speciali). Oggi invece il tema merita una trattazione a sé stante.
Conviene prendere la mosse dall’evoluzione storica. Il modello originario di organizzazione dei servizi
pubblici aveva 2 caratteristiche: a) l'istituzione per legge di un regime di riserva originaria dell'attività a
favore dello Stato, tale da escludere lo svolgimento del servizio da parte dei privati in regime di concorrenza
(monopoli legali); b) la gestione del servizio diretta (tramite aziende speciali interne allo Stato o al comune)
o indiretta (per mezzo di enti pubblici economici) da parte dei pubblici poteri. Si aveva una concezione
soggettiva di servizio pubblico (i servizi pubblici si riferiscono alle attività svolte dallo Stato a fini sociali in
forme non autoritative). Progressivamente, con l'affievolirsi dell'impostazione statalista, la concezione
soggettiva cambia in concezione oggettiva di servizi pubblici: i servizi pubblici si riferiscono ad attività
connotate per la loro finalizzazione al benessere della collettività, a prescindere dal fatto che esse siano
svolte da un soggetto pubblico o da soggetti privati. Con il passaggio da Stato gestore a Stato regolatore e
con l'avvio dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione, la materia dei servizi pubblici ha acquisito
definitivamente una dimensione autonoma, distinta da quella dell'organizzazione dei poteri pubblici. Il
compito dello Stato non è più erogare direttamente servizi, ma garantire attraverso gli strumenti della
regolazione che essi siano resi alla collettività secondo livelli qualitativi e quantitativi adeguati. Questa
concezione era più in linea con il principio di sussidiarietà orizzontale, volta a favorire il coinvolgimento dei
privati nello svolgimento di attività di interessi generali (art. 118 Cost.). I servizi pubblici sono menzionati in
vari art. Cost., che attribuisce allo stato, ad esempio, i compiti di tutelare la salute, garantire l’istruzione
pubblica, provvedere all’assistenza sociale etc. etc. La nozione di servizio pubblico ebbe una forza
espansiva nella seconda metà del secolo scorso, fino a diventare un istituto cardine dell’intero diritto
pubblico.
Classificazioni di servizi pubblici: servizi aventi rilevanza economica (gestiti in forma imprenditoriale anche
da soggetti privati in concorrenza, es. trasporti, energia elettrica, telecomunicazioni) e servizi non economici
(gestiti dalle PA, es. scuola, sanità, assistenza sociale); servizi a fruizione collettiva necessaria (si riferiscono
a beni non escludibili e sono erogati sulla base di atti che instaurano una relazione bilaterale tra PA e
gestore del servizio, es. illuminazione delle strade) e servizi a fruizione individuale (il gestore del servizio
intrattiene rapporti anche con l'utente del servizio, al quale viene richiesto un corrispettivo, es. trasporti
pubblici).

2.I SERVIZI DI INTERESSE GENERALE NEL DIRITTO EUROPEO

La prospettiva europea in materia di servizi pubblici ha due direttrici principali.


1. Secondo la prima direttrice essi costituiscono prima di tutto “elementi essenziali per garantire la coesione
sociale e territoriale e salvaguardare la competitività dell’economia europea”. I servizi sono citati dalla
Carta dei diritti fondamentali Ue che richiama specificamente il diritto ad accedere all’assistenza sociale,
alla prevenzione sanitaria e alle cure mediche e ai servizi d’interesse economico generale.
2. La seconda direttrice è presente nel Trattato che contiene una disposizione che pone come regola
generale l'applicabilità delle regole comuni in materia di concorrenza e ammette deroghe, in base al
principio di proporzionalità, solo nei limiti dello stretto necessario allo scopo di consentire il conseguimento
degli scopi di interesse pubblico che gli Stati membri si prefiggono. Così, in particolare, le imprese incaricate
di svolgere un servizio pubblico di interesse economico generale possono ricevere finanziamenti pubblici, in
deroga alla disciplina degli aiuti di Stato, a titolo di compensazione, secondo criteri di proporzionalità, in
relazione alla necessità di coprire i costi correlati all’adempimento degli obblighi di servizio pubblico.
Il diritto europeo pone una distinzione tra servizi di interesse economico generale, che riguardano beni o
servizi offerti in un determinato mercato (es. trasporti, poste, ecc.), e servizi non economici di interesse
generale, che invece sono fuori dal mercato (servizi sociali, istruzione, ecc.). Negli anni Novanta ci sono
state numerose direttive europee di settore (energia elettrica, gas, ecc.) che servirono per la liberalizzazione
dei servizi di interesse economico generale. Così, queste direttive hanno aperto il mercato alla concorrenza
tra più operatori, smantellando la riserva originaria di attività (nel linguaggio europeo, i diritti speciali o di
esclusiva). Le direttive di liberalizzazione fanno una distinzione tra concorrenza “nel mercato” e
concorrenza “per il mercato”: la concorrenza “nel mercato” riguarda i servizi pubblici per i quali, date le
caratteristiche particolari del mercato, la fornitura del servizio può essere svolta da una pluralità di
operatori in concorrenza tra loro; la concorrenza “per il mercato” riguarda le situazioni in cui, per ragioni di
tipo tecnico o economico (monopolio naturale, costi eccessivi, ecc.), il servizio pubblico viene svolto in
modo efficiente da un unico gestore. L’attribuzione del servizio avviene in seguito ad una procedura
competitiva di affidamento della concessione alla quale possono partecipare su un piano di parità tutti i
potenziali interessati.

3.LA REGOLAZIONE E LE FORME DI GESTIONE DEI SERVIZI PUBBLICI

Il tema dei servizi pubblici si divide in tre momenti logici (e giuridici): l'assunzione del servizio; la
regolazione; la gestione.
1. L'assunzione di un'attività come servizio pubblico viene da una decisione politica dei pubblici poteri che,
constatata l'insufficienza del mercato nell'offrire alla collettività determinati beni e servizi, opera interventi
di regolazione che servono a garantire livelli minimi qualitativi e quantitativi delle prestazioni. Se
necessario, vengono messe a disposizione anche risorse pubbliche. Ci sono due caratteristiche della
nozione di servizio pubblico: storicità e relatività. Quanto alla storicità, i beni e i servizi essenziali per il
benessere della collettività da considerare come servizi pubblici variano nel tempo in base alle esigenze
della società e alla situazione di mercato concreta. Quanto alla relatività, partendo dal fatto che le situazioni
economiche e sociali sono differenziate, l'area del servizio pubblico cambia da contesto a contesto.
2. La regolazione dei servizi pubblici è funzionale al raggiungimento di una serie di obiettivi e all'attuazione
dei principi giuridici in materia di servizi pubblici. Essi si ricavano, oltre che dalla giurisprudenza europea,
anche dalla L.481/1995, che pone alcune norme generali riferite alle autorità di settore.

a) In primo luogo, interviene il principio di doverosità. I pubblici poteri hanno il compito di garantire
direttamente o indirettamente all'attività l'erogazione del servizio secondo i criteri quantitativi e
qualitativi predeterminati.
b) Un secondo principio, legato alla doverosità, è quello della continuità, nel senso che l'erogazione
del servizio non può essere interrotta arbitrariamente. Il codice penale prevede, anzi, uno specifico
reato. Anche il diritto di sciopero dei lavoratori del settore subisce delle limitazioni in modo da
garantire comunque livelli minimi indispensabili di erogazione del servizio. La legge che regola il
diritto di sciopero nei servizi pubblici prevede anche l'istituzione di un'autorità indipendente
costituita dalla Commissione di garanzia.
c) Un terzo principio è quello della parità di trattamento. Cioè tutti gli utenti hanno pari diritto ad
accedere al servizio e a ottenere prestazioni di eguale qualità. Il fornitore di beni e servizi che non
costituisce servizio pubblico può selezionare la propria clientela, mentre il gestore del servizio no. Il
principio dell'obbligo a contrarre osservando la parità di trattamento è contenuto già nel codice
civile a carico dell'impresa che opera in condizione di monopolio legale.
d) Un quarto principio è quello dell’universalità. Di regola, le prestazioni collegate al servizio pubblico
devono essere garantite a tutti, a prescindere dalla localizzazione, dalla fascia sociale e dal reddito.
Le imprese che forniscono servizi pubblici, a differenza delle altre, non possono operare il
cosiddetto “cream skimming”, offrendo le loro prestazioni esclusivamente ai clienti e alle aree
territoriali più profittevoli. All’interno del perimetro del servizio pubblico in alcuni settori (es.
telefonia) il regolatore individua un nucleo minimo di prestazioni di base che costituiscono il
servizio universale e che devono essere erogate anche se producono perdite. Il costo della fornitura
del servizio universale viene ripartito fra tutti i gestori secondo criteri predeterminati.
e) Un quinto principio è quello della “abbordabilità”: il servizio deve essere fornito agli utenti a prezzi
accessibili. La regolazione prevede a volte agevolazioni a favore di categorie di utenti meno abbienti
o svantaggiate.
f) Un sesto principio è quello della economicità, in base al quale il gestore del servizio deve essere
posto nella condizione di svolgere l'attività in modo imprenditoriale, con la possibilità di conseguire
un certo livello di utile. Questo principio vincola il regolatore, nei casi in cui il servizio è erogato
all'utenza in base a tariffe, a definire criteri per la loro determinazione che siano convenienti.

3. Rientra tra i compiti di regolazione anche l'individuazione delle forme di gestione del servizio pubblico.
Le principali forme di gestione dei servizi pubblici aventi rilevanza economica, classificate in base al criterio
della maggiore o minore afferenza del gestore all’organizzazione della p.a., sono le seguenti:

a) Si ha gestione diretta quando l'attività è svolta da strutture dell'ente titolare del servizio (le aziende
speciali).
b) Si ha gestione indiretta quando è affidata a un ente pubblico incaricato dello svolgimento del
servizio.
c) La terza forma è la cosiddetta società in-house. Essa può ricevere in affidamento il servizio
attraverso una connessione o convenzione senza prima concludere una gara.
d) Una quarta forma è la cosiddetta società mista, a partecipazione pubblica e privata, che opera una
prima esternalizzazione, ancora parziale al servizio. Il modello della società mista richiede l’avvio di
una procedura competitiva che ha un doppio oggetto: la scelta del socio che abbia le caratteristiche
tecniche ed economiche migliori; l’affidamento della gestione del servizio alla società tramite il
rilascio di una concessione. Il socio privato è selezionato allo scopo di apportare alla società
competenza ed esperienza utili per la gestione del servizio. La società mista è una forma di
partenariato pubblico-privato istituzionale che realizza una collaborazione stabile e di lunga durata
attraverso l'istituzione di un'organizzazione comune. Il partenariato pubblico-privato può avere due
forme: di tipo istituzionale e di tipo contrattuale. La prima si caratterizza per il fatto di instaurare
una relazione di durata particolarmente lunga tra soggetti pubblici e privati che interagiscono
all'interno della società. La seconda si riferisce invece ai casi in cui un'amministrazione si rivolge al
mercato, sula base di un contratto, per acquisire un bene o un servizio. Il partenariato di tipo
contrattuale avente per oggetto la realizzazione e gestione di un’opera o la fornitura di un servizio
connesso all’utilizzo dell’opera è disciplinato dal Codice dei contratti pubblici e si caratterizza per il
fatto che il partner privato si assume ogni rischio economico.
e) Nel partenariato di tipo contrattuale rientra la quinta forma di gestione dei servizi pubblici,
costituita dalla concessione del servizio a soggetti terzi selezionati sulla base di procedure
competitive nei casi in cui per ragioni tecniche ed economiche il servizio si presta a essere erogato
da un solo gestore (concorrenza di mercato). La concessione a terzi dà vita a una relazione di lunga
durata tra concedente e concessionario. A differenza della società mista, la concessione a terzi non
prevede un coinvolgimento organizzativo diretto del soggetto pubblico nella gestione del servizio.
Quindi è essenziale che il contratto di servizio preveda strumenti efficaci di controllo sulla qualità
del servizio.
f) Un’ultima forma di gestione del servizio è costituita dall’autorizzazione rilasciata a più gestori che
erogano il servizio in concorrenza tra loro nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico stabiliti dal
regolatore (concorrenza nel mercato). Per quanto riguarda specificamente l'attività di gestione del
servizio, il soggetto incaricato di svolgerla provvede a operare, in forma imprenditoriale, tutte le
attività giuridiche (contatti con i fornitori, con i dipendenti, ecc.) e materiali necessarie.
L'erogazione del servizio da parte del concessionario deve avvenire nel rispetto del contratto di
servizio, delle carte dei servizi e dei contratti di utenza. Il contratto di servizio regola i rapporti tra
amministrazione titolare del servizio e gestore. I gestori del servizio devono dotarsi di carte dei
servizi che specificano i livelli qualitativi e quantitativi dei servizi, prevedendo sistemi di indennizzo
a favore dell'utente in caso di inadempimenti da parte del gestore. I rapporti tra il gestore e gli
utenti sono disciplinati su base privatistica per mezzo di contratti di utenza stipulati spesso in
conformità a contratti tipo stabiliti dal regolatore.

4. L’AUTORITA’ DI REGOLAZIONE

A proposito delle autorità indipendenti si è posta la distinzione tra autorità di tipo generalista e autorità di
settore. Una sottospecie di queste ultime è costituita dalle autorità di regolazione dei servizi pubblici aventi
rilevanze economica istituite in concomitanza con i processi di liberalizzazione avviati negli anni Novanta.
La composizione della regolazione è molto complessa sia sul versante dei rapporti tra gestori dei servizi e
autorità di regolazione, sia su quello di rapporti reciproci tra gestori di concorrenza, sia su quello dei
rapporti tra gestori e utenti.
1. Sul primo versante, i regolatori devono predisporre una serie di regole che consentono sia lo sviluppo di
un mercato concorrenziale in un ambiente dove ci sono monopoli naturali (reti e infrastrutture non
duplicabili), sia il raggiungimento degli obiettivi propri del servizio pubblico. La regolazione volta a creare in
modo artificiale i presupposti del mercato concorrenziale ha quindi i caratteri di una regolazione ex ante.
Ad essa si aggiunge l’applicazione (con sanzioni e altre misure applicate ex post) dei principi generali in
materia di concorrenza il cui rispetto è assicurato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. A
valle dell’attività normativa le autorità di regolazione devono assicurare l’osservanza puntuale delle regole
da parte dei gestori del servizio, esercitando poteri di vigilanza, avviando, se del caso, procedimenti
sanzionatori o dichiarando nei casi di infrazioni più gravi la decadenza dalla concessione.
2. Sul secondo versante, i gestori del servizio in concorrenza sono sottoposti in molti casi a obblighi
reciproci, come ad esempio, nel settore della telefonia mobile, consentire l’interconnessione della propria
rete con quella di altri operatori in modo tale che i clienti di un gestore possano comunicare con quelli degli
altri gestori. Le relazioni tra gestori in concorrenza sono rimesse a strumenti negoziali e in caso di
impossibilità di un accordo a provvedimenti unilaterali delle autorità di settore.
3. Sul terzo versante, il rapporto tra gestore e utenti del servizio è disciplinato da una serie di regole attuate
dalle autorità di settore e dalle carte dei servizi. Le principali autorità di regolazioni settoriali istituite a
livello nazionale sono l'Autorità di regolazione per l'energia, reti e ambiente (ARERA), l'Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni (AGOM), l'Autorità per i trasporti. Una serie minima di disposizioni comuni
alle autorità sono presenti nella L. 481/1995, che individua le finalità della regolazione (promozione
concorrenza ed efficienza, livelli di qualità in economicità e redditività, fruibilità e diffusione omogenea sul
territorio…), pone alcune regole organizzative che servono a garantire l'indipendenza delle autorità
(requisiti di competenza per i componenti dell’autorità, durata dell’incarico di 7 anni senza rinnovo),
delinea in termini generali le funzioni e i poteri delle autorità, specificati poi nella disciplina di settore
(formulare osservazioni e proposte al governo e al parlamento in modo da migliorare l’assetto della
regolazione, c.d. funzione di advocacy, controllare condizioni e modalità di accesso ai servizi…).
1. L'Autorità di regolazione per l'energia, reti e ambiente (ARERA), disciplinata dalla l. 481/1995, regola i
settori dell'energia elettrica, del gas, del settore idrico e dei rifiuti. Essa è stata istituita dopo la
liberalizzazione delle attività di produzione, acquisto, vendita, importazione, esportazione dell'energia
elettrica. L'Autorità opera in modo integrato con le corrispondenti autorità europee.
2. L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), istituita nel 1997, riguarda il settore delle
comunicazioni elettroniche (telefonia fissa e mobile, internet, ecc.), il settore dei media (radio, televisione,
stampa), e da ultimo il settore postale. Inoltre, nel settore dei media l'Autorità opera allo scopo di garantire
il pluralismo dell'informazione, la tutela dei minori e la par condicio nelle campagne elettorali. Oltre
all'organo collegiale (il consiglio), ci sono due sotto-organi con competenze specializzate nei settori, che
sono la commissione per le infrastrutture e la commissione per i servizi e i prodotti.
3. L'Autorità di regolazione dei trasporti istituita nel 2012, si occupa dei settori ferroviario, portuale,
aeroportuale e autostradale. L'Autorità ha il potere di stabilire i criteri per la fissazione delle tariffe, i
pedaggi e delle regole applicate agli utenti. Ha anche poteri di intervento in materia di servizio taxi.

5. I SERVIZI PUBBLICI LOCALI

La disciplina dei servizi pubblici locali è contenuta nel Testo unico degli enti locali (artt. 112 ss. d.lgs.
267/2000) e in leggi settoriali (statali, ma anche regionali) che regolano servizi specifici come la
distribuzione dell’energia elettrica e del gas o i trasporti locali. Le principali disposizioni in materia di
modalità di affidamento e di gestione dei servizi che perseguivano queste finalità sono venute meno in
seguito a una consultazione referendaria svoltasi nel 2011. Sono state altresì dichiarate incostituzionali le
disposizioni legislative emanate subito dopo la consultazione popolare per colmare il vuoto normativo
perché ritenute elusive della volontà popolare. L’ultimo tentativo di riforma organica dei servizi pubblici
locali avviato dalla legge Madia nel 2015 non è stato coronato di successo per effetto della già ricordata
sentenza della Corte costituzionale che ha ritenuto incostituzionale la legge delega perché ritenuta lesiva
delle prerogative regionali. La materia avrebbe comunque necessità di un riordino. In termini generali, i
servizi pubblici locali sono definiti come tutti i servizi “che abbiano per oggetto la produzione di beni ed
attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”
(art. 112 TUEL). Le delibera riguardanti l'organizzazione dei servizi vengono prese dal consiglio comunale o
provinciale. I servizi pubblici locali si dividono in due categorie: i servizi che hanno importanza economica e
i servizi che non hanno importanza economica. I primi sono gestiti in forma imprenditoriale e in regime di
concorrenza nel mercato, quando ci siano diversi gestori, oppure in regime di concorrenza per il mercato,
per ragioni di funzionalità e di presenza di elementi di monopolio naturale. In base alle disposizioni
legislative del TUEL (art. 113) le forme di gestione dei servizi aventi rilevanza economica sono tre: le società
di capitali individuate tramite una procedure a evidenza pubblica, le società a capitale misto pubblico-
privato con selezione del socio privato attraverso procedure a evidenza pubblica, le società in-house. Leggi
recenti avevano cercato di privilegiare le prime due forme di gestione in modo tale da aprire il settore della
concorrenza, ma tali indirizzi legislativi sono stati sconfessati da un referendum del 2011. Attualmente la
scelta tra l'affidamento in-house e l'avvio di procedure a evidenza pubblica è condizionata soltanto dai
principi di diritto europeo, i quali non pongono nessuna priorità.
Invece, i servizi che non hanno importanza economica sono gestiti principalmente da strutture pubbliche e,
dopo la sentenza della Cc che ha dichiarato incostituzionale l’art. 113bis TUEL, sancendo che alle Regioni
spetta individuare i modelli di gestione, restano in attesa di una razionalizzazione che non sembra
imminente.

6.IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE, IL SERVIZIO SCOLASTICO, I SERVIZI SOCIALI

Analizziamo alcuni servizi privi di rilevanza economica oggetto di leggi statali e regionali.

Il servizio sanitario nazionale


Uno dei più importanti è il servizio sanitario nazionale, istituito in attuazione dell'art. 32 Cost. secondo il
quale “La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività e
garantisce cure gratuite agli indigenti”. L'art. 117, comma 3, trasmette questa materia alla competenza
legislativa dello Stato e delle regioni. A livello europeo, il TFUE attribuisce a quest'ultima la competenza a
svolgere azioni che sostengono, coordinano o completano l'azione degli Stati membri in vari settori, tra i
quali, la “tutela e miglioramento della salute umana” e prevede che venga garantito “un livello elevato di
protezione della salute umana”.
Il SSN è definito dalla L.833/1978 come “il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle
attività destinati alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la
popolazione, assicurando l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”, sancendo quindi una
versione egualitaria ed onnicomprensiva. Il d.lgs. 502/1992 lo definisce come “il complesso delle funzioni e
delle attività assistenziali dei servizi sanitari regionali”. Le prestazioni offerte dal servizio nazionale
includono sia servizi di tipo erogativo (assistenza medico-generico, assistenza specialistica, assistenza
infermieristica), sia attività amministrative in materie di igiene, sicurezza sul lavoro e ambientale. Il
finanziamento è posto a carico della collettività e della fiscalità generale. Negli anni più recenti sono state
introdotte forme di partecipazione a carico di utenti (tickets) e di autofinanziamento regionale.
L'organizzazione del servizio dà origine a un'amministrazione composita, in cui partecipano lo Stato (in
particolare con il ministero della salute), al quale sono riservate competenze per garantire un minimo di
regole uniformi e ha la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute mediante un forte
sistema di garanzie attraverso i livelli essenziali di assistenza (LEA); le regioni, che hanno ormai la
responsabilità primaria di organizzazione del servizio, ad esse spettano funzioni legislative e amm.ve in
materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera e hanno la responsabilità diretta della realizzazione del
governo e della spesa per il raggiungimento degli obiettivi di salute (del Paese); gli enti locali che hanno un
ruolo più limitato. Le Unità (o Aziende) sanitarie locali sono definite come “aziende con personalità
giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale” (d.lgs. 502/1992) i cui organi sono il direttore generale e il
collegio sindacale. Le Aziende sanitarie locali (ASL) assicurano “l'assistenza sanitaria collettiva in ambiente
di vita e di lavoro, l'assistenza distrettuale e l'assistenza ospedaliera”. Il direttore generale è nominato dalla
regione con una procedura selettiva tra candidati iscritti in un albo nazionale in possesso di requisiti di
professionalità ed esperienza specifici ed è responsabile della gestione complessiva dell'azienda e in
particolare nomina il diretto amministrativo, il diretto sanitario e i responsabili di tutte le strutture
operative. Il modello attuale si ispira a criteri aziendalistici e attenua il legame con gli enti locali.
L'erogazione delle prestazioni sanitarie, corrispondenti ai livelli essenziali e uniformi garantiti dalla regione,
è affidata oltre che a presidi gestiti dalle ASL, anche ad altre strutture quali le aziende ospedaliere di rilievo
nazionale e interregionale, le aziende ospedaliere universitarie e gli istituti di ricovero e cura a carattere
scientifico. Anche strutture private possono partecipare a erogare le prestazioni sanitarie per il servizio
pubblico sulla base di un sistema di autorizzazione, di accreditamento e di accordi contrattuali (le 3 a). È
necessaria un'autorizzazione alla realizzazione delle strutture sanitarie e sociosanitarie e all'esercizio delle
attività che ha la funzione di verifica del possesso di requisiti tecnici minimi. Le strutture autorizzate devono
poi ottenere un accreditamento che la regione può rilasciare sulla base di valutazioni discrezionali correlate
alla funzionalità rispetto agli indirizzi della programmazione regionale, cioè al fabbisogno dei servizi definito
in base al piano sanitario regionale. Ove tale fabbisogno, definito dalla regione sulla base di criteri generali
uniformi, definiti con atto di indirizzo e coordinamento statale, risulti soddisfatto, la regione può rifiutare
ulteriori accreditamenti. Una volta ottenuto l'accreditamento, le strutture definiscono con la regione
accordi contrattuali che individuano programmi di attività che esse si impegnano a erogare per conto del
servizio sanitario e che sono remunerate a carico di quest'ultimo. All'esito di questa sequenza
procedimentale, le strutture private sono inserite nel Servizio sanitario regionale e acquistano la qualifica di
gestori del servizio pubblico, sottoposti alla vigilanza regionale. Un sistema di accordi con il servizio
sanitario riguarda anche la rete dei medici di base e le farmacie.

Il servizio scolastico
Il servizio scolastico può essere definito come un servizio pubblico sociale a uso individuale e a erogazione
gratuita. I principi fondamentali del servizio scolastico sono stabiliti nella Costituzione che tutela la libertà
di insegnamento (art. 33) e garantisce il diritto all'istruzione (art. 34). Anche la Carta dei diritti fondamentali
Ue cita il diritto all'istruzione. L’obbligatorietà e la gratuità sono enunciate dalla Costituzione per l'istruzione
inferiore (scuola dell'obbligo) che non può avere una durata inferiore a otto anni (art. 34, comma 2).
L'istruzione è definita a livello legislativo sia come diritto soggettivo riconosciuto a tutti, sia come dovere
sociale. Il servizio scolastico costituisce un compito costituzionalmente obbligatorio per lo Stato che deve
organizzarlo e gestirlo con proprie strutture. Infatti, in base all'art. 33, comma 2, Cost. la Repubblica detta
norme generali sull'istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e i gradi. Il legislatore ordinario
non potrebbe delegare interamente il servizio a soggetti privati. Ma non potrebbe neppure istituire un
regime di monopolio pubblico, atteso che i soggetti privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di
educazione, senza oneri per lo Stato. Le scuole private possono ottenere un riconoscimento statale, ove
esse siano in grado di garantire un trattamento equipollente a quello delle scuole statali. In ogni caso è
richiesto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole e per la conclusione di essi,
nonché per l'abilitazione all'esercizio professionale. In seguito alle modifiche introdotte dalla legge
costituzionale, l'istruzione è una materia attribuita alla competenza legislativa concorrente dello Stato e
delle regioni, le quali hanno competenza legislativa piena in materia di formazione professionale. Lo stato
ha il compito di determinare le norme generali sull'istruzione e sui livelli essenziali delle prestazioni, nonché
di effettuare il monitoraggio e la valutazione del servizio reso. Il ministero esercita le proprie funzioni a
livello periferico attraverso gli uffici scolastici regionali. Spetta in particolare al dirigente di questi ultimi
nominare il dirigente scolastico della scuola. Alle regioni spetta la programmazione della rete scolastica
inclusa la distribuzione del personale tra le scuole, mentre gli enti locali svolgono attività di supporto alle
istituzioni scolastiche. Le istituzioni scolastiche pubbliche, articolate in cicli di istruzione (scuola primaria,
scuola secondaria, ecc.), hanno personalità giuridica e autonomia organizzativa, didattica e finanziaria. Gli
organi dell'istituzione scolastica pubblica sono il dirigente scolastico, responsabile della gestione
ministeriale; il collegio dei docenti, composto dai docenti della scuola e responsabile del funzionamento
didattico; il consiglio d'istituto, presieduto dal dirigente scolastico e aperto alla partecipazione di una
rappresentanza di genitori e di studenti. Accanto alle istituzioni scolastiche pubbliche, il servizio scolastico si
articola in scuole private parificate. Esse sono soggette alla vigilanza statale allo scopo di verificare la
permanenza dei requisiti e il rispetto degli obblighi di servizio pubblico.

I servizi sociali
I servizi sociali includono “tutte le attività relative alla predisposizione e alla erogazioni di servizi, gratuiti e a
pagamento, o di prestazioni economiche destinati a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di
difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita” (art. 128 d.lgs. n. 112/1998, richiamato
dalla legge quadro in materia di servizi sociali 328/2000). La definizione legislativa dispone i servizi sociali
come materia autonoma, escludendo il sistema previdenziale, per il qual la disposizione costituzionale di
riferimento è l'art. 38 che prevede che il diritto dei lavoratori di avere mezzi adeguati in caso di infortunio,
malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria. I servizi sociali sono attribuiti alla competenza
residuale esclusiva delle regioni, mentre alla legge statale compete soltanto la determinazione dei libelli
essenziali delle prestazioni. Molte regioni si sono dotate di leggi che disciplinano la materia in coerenza con
le linee generali poste dalla L. 328/2000. Il sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali coinvolge
tutti i livelli di governo locale, in base al principio di sussidiarietà verticale. In particolare, le regioni
esercitano funzioni di programmazione, coordinamento e indirizzo, anche attraverso la predisposizione di
piani, la determinazione degli ambiti territoriali, l'individuazione degli strumenti per la gestione dei servizi,
le forme di integrazione tra servizi sociali e altri interventi regionali in materia di sanità, istruzione e lavoro;
le provincie svolgono attività di raccolta di dati e di analisi dell'offerta dei servizi; i comuni sono titolari delle
funzioni amministrative in materia e provvedono all'erogazione dei servizi e su di essi grava anche l'onere
economico. I servizi sociali sono un settore nel quale trova applicazione naturale anche il principio di
sussidiarietà orizzontale. La l. 328/2000 lo enuncia promuovendo e valorizzando il più possibile il terzo
settore con azioni di sostegno e di qualificazione da parte degli enti locali, delle regioni e dello Stato. Questa
menziona una serie di soggetti (gli organismi non lucrativi di utilità sociale (ONLUS), le organizzazioni di
volontariato, gli enti riconosciuti dalle confessioni religiose, le fondazioni, gli enti di patronato). In concreto,
spetta ai comuni rilasciare l'autorizzazione e provvedere all'accreditamento dei soggetti privati in modo da
garantire che tali soggetti abbiano i requisiti strutturali necessari previsti dalla legislazione regionale e che
siano in grado di erogare le prestazioni richieste dalla programmazione regionale. Uno dei requisiti per
ottenere l'accreditamento è l'adozione della carta dei servizi sociali, sulla base di uno schema generale di
riferimento approvato a livello statale. I comuni esercitano anche funzioni di vigilanza sui soggetti privati
autorizzati e accreditati. Tra i soggetti privati che operano nel settore dei servizi sociali, rientrano le
Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB). Esse vennero pubblicizzate in epoca crispina, in
modo tale da sottoporre a controlli statali una serie di istituzioni in origine private. In seguito a una
sentenza della CC il regime di pubblicizzazione è stato dichiarato illegittimo. Le IPAB sono state oggetto di
una disciplina speciale più rispettosa della loro autonomia.
CAPITOLO 10: IL PERSONALE

1.PREMESSA

Come tutte le organizzazioni, anche le pubbliche amministrazioni hanno necessita di dotarsi di personale
per assolvere ai propri compiti. Il rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è
disciplinato da un complesso di regole speciali, diverse sotto numerosi profili da quelle del diritto del lavoro
privato, oggi riordinate nel d.lgs. 165/2001 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni), più volte modificato, da ultimo nell’ambito della legge Madia di riforma della pubblica
amministrazione (legge n. 124/2015 anche se non tutte le deleghe legislative sono state esercitate per
effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016). Il rapporto di lavoro dei dipendenti delle PA
ha oscillato tra una concezione privatistica e una pubblicistica: Fino alla fine del 19’ secolo vi era una
concezione privatistica (era assente una disciplina legislativa speciale per i dipendenti della PA. Dalla fine
del 19’ sec. subentra una concezione pubblicistica, per alcune ragioni: a) poiché i dipendenti pubblici sono
titolari o partecipano all'esercizio di funzioni pubbliche, anche il rapporto di lavoro è attratto nel regime
pubblicistico dell'organizzazione amministrativa; b) attraverso il provvedimento amministrativo unilaterale
di nomina, il dipendente pubblico acquista uno status che lo differenzia da quello del comune cittadino; c) il
dipendente pubblico è sottoposto a un rapporto di supremazia speciale rispetto all'amministrazione di
appartenenza connotato da particolari doveri (fedeltà, obbedienza, segreto d'ufficio) e da limiti all'esercizio
di taluni diritti (appartenenza a organizzazioni politiche e sindacali). Lo stipendio non costituisce un
corrispettivo, ma un credito di diritto pubblico assimilabile a una prestazione alimentare (come tale anche
impignorabile). La concezione pubblicistica esclude che il rapporto di impiego possa essere disciplinato con
strumenti contrattuali: esso è regolato da atti normativi e da provvedimenti amministrativi unilaterali. Le
controversie nascenti dal rapporto di impiego sono attribuite alla cognizione del giudice amministrativo. La
Costituzione stabilisce prima di tutto che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione (art.
98), ossia sono investiti di una funzione neutrale e non possono essere sottomessi agli interessi della
politica della quale sono espressione invece i vertici delle amministrazioni (ministri, sindaci). Essi sono visti
come garanti, oltre che del buon andamento, dall’imparzialità dell’amministrazione (art. 97). In funzione di
questo obiettivo, l’accesso ai pubblici impieghi avviene di regola tramite concorso (art. 97, comma 3).
Inoltre, l’accesso ai pubblici uffici deve essere garantito a tutti i cittadini in condizione di eguaglianza (art.
51) e i cittadini ai quali sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e
onore, prestando anche giuramento (art. 54, comma 2).
In epoca successiva alla Costituzione, la concezione pubblicistica entra in crisi, per altre ragioni: a)
l’affermarsi anche nel pubblico impiego della pretesa a un riconoscimento più pieno di diritti sindacali e
introduzione di meccanismi di contrattazione collettiva; b) l’esigenza di rendere meno rigido il sistema in
modo da promuovere flessibilità ed efficienza nella gestione degli apparati amministrativi. All’inizio degli
anni Novanta del secolo scorso venne avviato il processo di riforma legislativa che portò all’assetto
normativo attuale accolto nel d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. La riforma si ispirava alla concezione privatistica
e si inseriva all’interno di un disegno più ampio di riassetto della pubblica amministrazione che serviva ad
accrescere l’efficienza e a contenere la spesa pubblica. Ciò avvenne attraverso due fasi. La prima con il d.lgs.
29/1993, che prevede una privatizzazione parziale del rapporto di impiego dei dipendenti pubblicisti,
escludendo alcune categorie e tutti i dirigenti generali. La “seconda privatizzazione” include anche i
dirigenti generali nel ’98. Le riforme furono poi riordinate nel d.lgs. 165/2001. Quest’ultimo fu poi
modificato dalla riforma Brunetta (d.lgs. 150/2009), che ha tentato di stimolare, attraverso un sistema di
incentivi e sanzioni, una maggiore produttività ed efficienza nel pubblico impiego ed ha accentuato i profili
di specialità del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.

2. LE FONTI DI DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI LAVORO

Il campo di applicazione delle norme generali dell’impiego pubblico privatizzato contenute nel d.lgs. n.
165/2001 è definito nell’art. 1, che individua un elenco molto ampio di amministrazioni pubbliche (Stato,
enti territoriali, camere di commercio, ecc.) i cui dipendenti ricadono nel regime privatistico (art. 2, comma
2). Però, alcune categorie di personale restano sottoposte al diritto pubblico. Esse sono il personale militare
e delle forze di polizia, i magistrati, gli avvocati dello Stato, i vigili del fuoco, ecc. (art. 3). Per queste
categorie valgono le regole pubblicistiche stabilite dai rispettivi ordinamenti. Per alcune di esse (es.
magistrati) il regime è integralmente pubblicistico; per altre alcuni aspetti del rapporto di lavoro sono
disciplinati da accordi collettivi (es. personale diplomatico e prefettizio) o sono previste procedure di
concertazione con rappresentanze del personale (personale militare). In entrambe le categorie la disciplina
viene adottata con provvedimenti unilaterali (dpr) e tutte le controversie sono attribuite alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Per il personale che fa parte del regime privatistico il sistema delle fonti dà origine a un diritto privato
differenziato. Infatti, il rapporto di lavoro è disciplinato dalle disposizioni del codice civile e dalla legge sui
rapporti di lavoro subordinato dell’impresa. Ci sono però numerose disposizioni derogatorie rispetto a
quelle del diritto comune e quindi il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici si connota per molteplici
profili di specialità (es. la regola secondo la quale l’esercizio fatto di mansioni superiori alla qualifica di
appartenenza non dà diritto, come accade invece in ambito privatistico, all’inquadramento del lavoratore
nella qualifica superiore). In aggiunta alle disposizioni legislative generali e speciali di livello primario, il
rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è regolato da due tipi di strumenti privatistici: i contratti collettivi
e i contratti individuali (art. 2, comma 3). La contrattazione collettiva “determina i diritti e gli obblighi
direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali” (art. 40). I
contratti individuali, che instaurano il rapporto di lavoro tra dipendente e amministrazione di regola
all’esito di un concorso pubblico, devono garantire la parità di trattamento, in particolare per quanto
riguarda gli aspetti retributivi previsti nei contratti collettivi (art. 2, comma 3).
Per i contratti collettivi vanno approfonditi due temi: l’ambito in cui essa opera e le modalità organizzative e
procedurali per la conclusione del contratto collettivo.
1. La contrattazione collettiva è ammessa entro uno spazio delimitato dal d.lgs. n. 165/2001. Sono escluse
da essa le materie che riguardano l’organizzazione degli uffici che sono disciplinate da ciascuna
amministrazione. Sono escluse le materie afferenti alle prerogative degli uffici i quali sono addetti
all’organizzazione degli stessi e alla gestione dei rapporti di lavoro. In pratica, la contrattazione collettiva
non può andare a limitare il potere manageriale della dirigenza, ma solo prevedere che alcune decisioni
siano assente previa informazione o esame congiunto con le organizzazioni sindacali. Sono anche escluse le
materie relative al conferimento e alla revoca degli incarichi dirigenziali, alla determinazione dei ruoli e
dotazioni organiche, ai procedimenti per l’accesso al lavoro, ecc.
2. Per quanto riguarda le modalità organizzative e procedurali, ci sono due aspetti importanti: i livelli della
contrattazione collettiva e i soggetti della contrattazione. 2a) Per il primo aspetto la legislazione delinea un
sistema a cascata, perché spetta alla contrattazione collettiva disciplinare la struttura contrattuale, i
rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi. In particolare, il d.lgs. n.
165/2001 prevede tre livelli di contrattazione. Il primo livello serve a individuare i comparti che includono
categorie di personale dipendente da amministrazioni omogenee (es. comparto enti locali). All’interno di
ciascun comparto possono essere costituite sezioni contrattuali per specifiche professionalità. Al di sotto
degli accordi di comparti, opera il secondo livello costituito dai contratti collettivi nazionali: disciplinano gli
aspetti economici e giuridici fondamentali del rapporto di lavoro, determinano le materie, i vincoli, i limiti
finanziari e le procedure relative ai contratti collettivi decentrati. Al di sotto dei contratti collettivi nazionali,
ci sono i contratti collettivi integrativi che riguardano il personale di una singola amministrazione ed hanno
lo scopo di assicurare adeguati livelli di efficienza e produttività e di valorizzazione, sotto il profilo del
trattamento economico accessorio e della performance individuale. 2b) Quanto ai soggetti della
contrattazione collettiva, per la parte pubblica è stato istituito un organismo tecnico, cioè l’Agenzia per la
rappresentanza regionale delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Essa ha la rappresentanza negoziale di
queste ultime in sede di negoziazione dei contratti collettivi nazionali e può assistere le singole
amministrazioni per la contrattazione integrativa. La controparte dell’ARAN in sede di contrattazione
collettiva è costituita dalle organizzazioni sindacali dei dipendenti pubblici. Quelle ammesse alla
negoziazione sono individuate in base a un criterio di rappresentatività che per ciascuna organizzazione non
deve essere inferiore al 5% (come media tra dato associativo, cioè il numero di deleghe dei dipendenti per il
versamento dei contributi sindacali, e dato elettorale, percentuali delle elezioni). L’ARAN può sottoscrivere i
contratti collettivi solo se le organizzazioni sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentano nel
loro complesso almeno il 51% come media tra il dato associativo ed elettorale nel comparto, o almeno il
60% del dato elettorale.

3. LA COSTITUZIONE E LO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO

Procedimenti di selezione e di avviamento al lavoro


I procedimenti di selezione e di avviamento al lavoro nelle pubbliche amministrazioni propedeutici alla
costituzione del rapporto di lavoro sono regolati solo dalla legge o con atti normativi o amministrativi. Il
concorso pubblico costituisce la regola generale per la selezione e l’avviamento al lavoro nelle pubbliche
amministrazioni (art. 97Cost.), anche al fine di contrattare il political patronage, cioè il reclutamento in base
a criteri di iscrizione politica e partitica. Il reclutamento del personale tramite procedure selettive che
rispettino i principi di pubblicità, trasparenza, oggettività e pari opportunità è obbligatorio per tutte le
amministrazioni pubbliche e per tutto il personale (art. 35 d.lgs. 165/2001). Le sole eccezioni riguardano il
personale con le qualifiche più basse che può essere assunto mediante avviamento degli iscritti nelle liste di
collocamento e le assunzioni obbligatorie degli invalidi che avviene per chiamata numerica degli iscritti
nelle apposite liste. Il concorso pubblico costituisce la regola generale anche per l’accesso alla qualifica di
dirigente di prima e di seconda fascia (artt. 28 e 28-bis). Per la selezione dei dirigenti di seconda fascia in
alternativa al concorso è previsto il corso-concorso pubblicato dalla Scuola superiore della pubblica
amministrazione, che dura 12 mesi. L’avvio alle procedure di reclutamento avviene in base all’esigenza di
copertura dei posti previsti dalle piante organiche determinate da ciascuna amministrazione. Le fasi del
procedimento sono quattro: l’avvio della procedura; l’ammissione delle domande di partecipazione; la fase
istruttoria-valutativa; la fase decisionale. A valle del procedimento c’è l’assunzione in servizio.
1. L’avvio della procedura avviene a cura di ogni amministrazione nell’ambito della programmazione
triennale del fabbisogno di personale, attraverso un provvedimento di indicazione del concorso e la
pubblicazione di un bando in G.U.
2. Le domande di partecipazione devono essere inviate o presentate entro 30 giorni dalla pubblicazione del
bando (art. 4). Le domande vengono esaminate dall’amministrazione che ha stabilito il concorso allo scopo
di valutarne l’ammissibilità in base ai requisiti generali e speciali richiesti dalla normativa e dal bando (es.
titoli di studio).
3. Allo scopo di garantire imparzialità e competenza, l’amministrazione affida la fase istruttoria-valutativa a
una commissione esaminatrice composta da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti fra
funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime. La commissione è addetta allo
svolgimento delle prove scritte e orali e alla valutazione dei titoli. Prima delle prove, essa deve stabilire i
criteri e le modalità di valutazione al fine di assegnare i punteggi (art. 12). Le prove si svolgono con modalità
volte a garantirne la regolarità (segretezza tracce, sorteggio tra buste chiuse, elaborati in buste anonime…).
4. La fase decisionale a cura dell’amministrazione che ha stabilito il concorso consiste in un esame della
regolarità della procedura e nell’approvazione della graduatoria di merito con l’indicazione dei candidati
vincitori o comunque idonei. La graduatoria dei vincitori è pubblicata nel bollettino dell’amministrazione
interessata e di essa viene data notizia nella GU (art. 15). Il provvedimento che approva la graduatoria
conclude il procedimento concorsuale ed è soggetto all’impugnazione davanti al giudice amministrativo.
5. Concluso il procedimento i vincitori vengono assunti in servizio con un contratto di lavoro individuale o,
nel caso dei dipendenti pubblici non sottoposti al regime privatistico, con un provvedimento di nomina.

Aspetti caratteristici del regime giuridico dei dipendenti pubblici


• Obbligo di esclusività → il dipendente s'impegna a dedicare tutte le sue energie lavorative alla PA di
appartenenza (non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle
dipendenze di privati). Tale regime di incompatibilità disciplinato ex lege prevede alcune deroghe in caso di
regime part-time (docenti universitari e delle scuole, medici di servizio sanitario nazionale), esclusione di
alcune attività retribuite (collaborazioni a giornali e riviste, partecipazione a convegni, ecc).
• Disciplina delle mansioni → il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o alle mansioni equivalenti (può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente
superiore solo in caso di vacanza di un posto in organico e in caso di sostituzione di altro dipendente in
aspettativa); i dipendenti sono inquadrati in almeno 3 aree funzionali e le progressioni all'interno della
stessa area avvengono secondo principi di selettività e di merito.
• Trattamento economico → è definito nella contrattazione collettiva ed è diviso in: trattamento
fondamentale e trattamento accessorio. Quest’ultimo è collegato: a) alla performance individuale, b) alla
performance organizzativa con riferimento all’amministrazione nel suo complesso e alle unità
organizzative, c) all’effettivo svolgimento di attività particolarmente disagiate, pericolose o dannose per la
salute.
• Mobilità → al fine di favorire i processi di mobilità fra i comparti della contrattazione collettiva, è prevista
l'elaborazione di una tabella di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai diversi contratti
collettivi. Inoltre, la PA, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali finalizzate alla
copertura di posti vacanti in organico, deve attivare la procedure di mobilità. Essa prevede che le
amministrazioni rendano pubblici i posti da ricoprire fissando i criteri di scelta e i dipendenti interessati
possono presentare domanda di trasferimento, senza più il consenso dell’amministrazione di appartenenza.
• Sanzioni disciplinari → la contrattazione collettiva si occupa di individuare la tipologia delle infrazioni e le
relative sanzioni (censura verbale, sospensione dal servizio, licenziamento disciplinare); la legge stabilisce
molte fattispecie che fanno sorgere la responsabilità disciplinare, individua molte ipotesi di licenziamento
disciplinare (es. falsa attestazione della presenza in servizio, assenza giustificata da una certificazione
medica falsa, ecc), individua il procedimento per l'irrogazione delle sanzioni. Quest’ultimo prevede: a) per
le sanzioni superiori al rimprovero verbale e inferiori alla sospensione dal servizio per più di 10gg → il
procedimento è avviato dal dirigente attraverso la contestazione degli addebiti, prevede una fase di
contraddittorio e si conclude con l'archiviazione o l'irrogazione della sanzione entro 60gg dalla
contestazione; b) per le sanzioni più gravi → il provvedimento è promosso da un ufficio competente per i
provvedimenti disciplinari istituito da ciascuna PA e prevede termini più lunghi. In aggiunta alla
responsabilità disciplinare i dipendenti pubblici sono sottoposti anche alla responsabilità amministrativa per
danno erariale e a responsabilità penale per reati propri. In caso di avvio di un procedimento penale in
relazione alla stessa condotta, è prevista per le sanzioni più gravi la sospensione facoltativa del
procedimento disciplinare fino al termine del primo.
• Tutela giurisdizionale → le controversie sono devolute al giudice originario; restano devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione
dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

4. LA DIRIGENZA PUBBLICA

La dirigenza pubblica si colloca al crocevia tra politica e amministrazione. La riforma degli anni '90 aveva tra
i suoi capisaldi la valorizzazione della dirigenza pubblica, ciò nella duplice prospettiva di accrescere
l'efficienza della PA (istituendo figure assimilabili ai manager privati) e garantire l'imparzialità dell'azione
amministrativa (limitando le ingerenze dei politici sulle decisioni dei dirigenti). Nella prima prospettiva i
dirigenti sono dotati di adeguati poteri e risorse da gestire in autonomia e senza vincoli di rigidità eccessive
per poter raggiunge gli obiettivi prefissati e, a questo fine, la riforma del 2001 procede alla privatizzazione
parziale dell’organizzazione amministrativa prevedendo che l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti
alla gestione dei rapporti di lavoro siano assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la
capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Nella seconda prospettiva si introduce il modello della
separazione o meglio distinzione tra politica e amministrazione, cercando di conciliare il principio
democratico, in base al quale nessuno può essere sottratto al circuito politico rappresentativo, con il
principio di imparzialità della PA. Il primo principio esclude che la burocrazia possa essere autoreferenziale,
cioè che si possa autolegittimare, in nome del principio tecnocratico, e le attribuisce un ruolo di fedele
esecuzione degli indirizzi politici del governo di volta in volta in carica e di garanzia di continuità, a
prescindere dai periodici avvicendamenti dovuti agli esiti della competizione elettorale: il rapporto tra
vertice politico e dirigenza assume un carattere fiduciario. Il secondo principio spinge invece nella direzione
di istituire presidi e limiti all’invadenza della politica nell’amministrazione, isolando e rendendo oggettivo e
neutrale il momento della decisione amministrativa riservata a una burocrazia professionale e dotata di alto
senso etico. Nel decreto del 2001 il punto di equilibrio tra i due principi involge due questioni principali:

A) Ripartizione delle competenze:


1) Vengono attribuiti ai vertici politici delle amministrazioni soltanto funzioni di indirizzo politico-
amministrativo e di controllo ex post e viene riservato ai dirigenti la responsabilità della
gestione, inclusa l’emanazione di provvedimenti amministrativi di tipo discrezionale. In
particolare, gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo,
definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare e verificando la rispondenza dei risultati
dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi politici. In particolare, ogni anno i
vertici politici definiscono gli obiettivi e le priorità in direttive generali assegnando ai dirigenti
preposti ai centri di responsabilità le risorse necessarie.
2) Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi nonché la gestione
finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle
risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività
amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. Le attribuzioni dei dirigenti possono essere
derogate in modo espresso da specifiche disposizioni legislative che devolvono la competenza
all’adozione di alcuni atti al vertice politico. In ogni amministrazione dello Stato è istituito il
ruolo dei dirigenti, che si articola nei dirigenti generali e dirigenti preposti a unità organizzative
di livello inferiore.
3) I dirigenti generali hanno funzioni di impulso generale degli uffici, di coordinamento e controllo
dei dirigenti. Formulano proposte ed esprimono pareri al vertice politico anche in relazione alle
direttive generali adottate annualmente da quest’ultimo. Queste disposizioni attribuiscono ai
dirigenti generali un ruolo in qualche modo attivo anche nella definizione dell’indirizzo politico-
amministrativo, il quale per essere efficace deve essere ben calibrato alla realtà amministrativa
sulla quale va ad incidere e deve essere condiviso. Il rapporto tra politica e amministrazione
diviene circolare.
4) I dirigenti di primo livello curano l'attuazione dei progetti e degli obiettivi assegnati dai dirigenti
generali, svolgono compiti da questi delegati, coordinano e controllano l'attività degli uffici,
provvedono alla gestione del personale ecc.

B) Conferimento degli incarichi dirigenziali:


1) Gli incarichi vengono affidati tenendo conto delle attitudini e delle capacità professionali del
singolo dirigente, dei risultati conseguiti negli incarichi precedenti, delle specifiche competenze
organizzative e di altre esperienze di direzione anche presso il settore privato o all’estero.
2) È prevista una durata limitata degli incarichi dirigenziali. Non può essere inferiore a 3 anni e
non può eccedere i 5 anni. La riforma del 2015 prevede una durata di 4 anni, prorogabile per
altri due.
3) Gli incarichi di rango più elevato sono conferiti con DPR, quelli generali con decreto del CdM,
mentre gli altri incarichi dirigenziali sono attribuiti dal dirigente dell'ufficio di livello dirigenziale
generale
La responsabilità dirigenziale può sorgere: per il mancato raggiungimento degli obiettivi, accertato
attraverso il sistema di valutazione delle performance, in aggiunta alla responsabilità disciplinare prevista
anche per i dirigenti in caso di violazione di doveri di servizio; in caso di inosservanza delle direttive
impartite dal vertice politico; in caso di violazione del dovere di vigilanza sul rispetto da parte del personale
sottoposto a standard qualitativi e quantitativi di performance fissati dalla PA. La responsabilità è accertata
in contraddittorio con l'interessato (previa contestazione degli addebiti e parere di un comitato di garanti) e
può comportare: il mancato rinnovo dell'incarico; la decurtazione della retribuzione di risultato; la revoca
dell'incarico e collocazione in altri ruoli; il recesso del rapporto di lavoro. La cessazione degli incarichi apicali
di segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali
generali opera in modo automatico in occasione dell'insediamento di un nuovo governo (si tratta di un
meccanismo di spoil system: questo sistema accentua il carattere fiduciario dell’alta dirigenza, ma favorisce
forme di clientelismo e di scambio politico incompatibili con il sistema di merito). La Corte ha più volte
ribadito come si tratti di un sistema che porta alla precarizzazione del ruolo della dirigenza. Esso contrasta
con il principio imparzialità che impone di sottrarre la dirigenza all’influenza dei partiti politici, con il
principio di buon andamento, poiché compromette la continuità dell’azione amministrativa e con il
principio del giusto procedimento poiché la cessazione dell’incarico avviene senza alcun contraddittorio con
l’interessato.
CAPITOLO 11: I BENI

1.LA DISCIPLINA PUBBLICISTICA DEI BENI

Tutte le organizzazioni hanno necessità di avere, oltre che di personale, beni strumentali necessari per lo
svolgimento della loro attività. Le PA, per realizzare i propri scopi, devono procurarsi immobili e beni mobili:
si tratta di beni che possono possedere a titolo di proprietà privata o ad altro titolo civilistico. Inoltre, a
differenza dei privati, le PA sono titolari e gestiscono alcuni tipi di beni non per necessità proprie, ma per
metterli a disposizione dell’intera collettività (es. strade, foreste, musei). Per quanto concerne il regime
alcuni beni sono pubblici solo in senso oggettivo perché il regime del bene è integralmente privatistico
(beni patrimoniali disponibili). Altri beni, ossia i beni pubblici in senso oggettivo, sono sottoposti invece ad
un regime speciale. La Costituzione stabilisce per prima cosa che “la proprietà è pubblica o privata” (art. 42,
comma 1). Per seconda cosa, precisa che “i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o privati”. Il
codice civile dedica gli artt. 822 ss. ai beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici:
esso pone la distinzione tra beni demaniali, disciplinati da regole pubblicistiche e beni patrimoniali, soggetti
invece alle regole particolari che li concernono e alle regole del codice. Anche i beni privati possono essere
talora oggetto, per profili particolari, di un regime pubblicistico. La proprietà privata, pur essendo
riconosciuta e garantita dalla legge, può essere conformata dal potere pubblico allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e di renderla appetibile a tutti. Rispetto ai beni i pubblici poteri possono assumere una
duplice veste di: a) Stato proprietario, che si riferisce ai beni dei quali le amministrazioni hanno la titolarità,
sia sulla base delle norme di diritto pubblico (beni demaniali), sia sulla base del diritto privato (beni
patrimoniali); b) oppure di Stato regolatore, che si riferisce ai poteri di conformazione del diritto di
proprietà dei privati che sono attribuiti dalla legge a varie pubbliche amministrazioni al fine di tutelare gli
interessi pubblici. Classificazione dei beni in funzione della specialità del regime: a) beni privati sottoposti a
un regime essenzialmente di diritto comune; b) beni privati di interesse pubblico; c) beni patrimoniali
indisponibili; d) beni pubblici sottoposti a un regime essenzialmente di diritto pubblico. Qui subentra
l’importanza dei principi di proporzionalità e sussidiarietà nel guidare il legislatore nel dettare il regime
pubblicistico dei beni.
La scienza economica classifica i beni in beni privati, beni pubblici, beni di club e beni collettivi. Queste
quattro categorie sono individuate in base a due criteri: l’”escludibilità” e la “rivalità”. I beni sono escludibili
(terreno recintabile) o non escludibili (l’atmosfera, i fari), a seconda che sia o non sia possibile escludere
alcuni soggetti dal loro uso, consumo o godimento. I beni possono essere rivali (una bibita) o non rivali (una
piscina, una strada) a seconda che l’uso, il consumo o il godimento di essi da parte di un soggetto limiti la
possibilità di uso o consumo da parte di altri. 1. I beni privati sono sia escludibili sia rivali (alimenti). 2. I beni
pubblici non sono né escludibili né rivali (illuminazione pubblica). 3. “I beni di club” hanno natura non rivale,
ma sono escludibili. Quindi essi possono essere prodotti e gestiti anche dal mercato, cioè da soggetti privati
che li producono dietro pagamento di una tariffa o di un canone (televisione via cavo a pagamento) o da
associazioni no profit (associazioni che gestiscono un campo da golf). 4. I beni comuni non sono escludibili e
hanno natura rivale (i pascoli, i fiumi, ecc.). Per essi si pone il problema del sovracconsumo da parte della
collettività tale da mettere a rischio nel lungo periodo l’esistenza stessa del bene e così si giustificano regole
pubblicistiche volte a limitarne l’uso.
La regolazione pubblica di alcuni beni privati è giustificata talora dal fatto che essi costituiscono monopoli
naturali. Si pensi per esempio alle reti e alle altre essential facilites (es. porti) non facilmente duplicabili il
cui accesso deve essere garantito a terzi in modo non discriminatorio e a un prezzo ragionevole.
L'intervento pubblico si manifesta in questi casi sotto forma di regolazione ex ante (regole sull’accesso,
controllo dei prezzi) o ex post, tramite l'applicazione dei principi del diritto antitrust in tema di abuso di
posizione dominante.
2. I BENI DI INTERESSE PRIVATO E I BENI DI INTERESSE PUBBLICO

Si distinguono beni privati di interesse privato e beni privati di interesse pubblico. Sotto il profilo giuridico i
beni possono essere classificati in base al criterio della minore o maggiore incidenza dei regimi pubblicistici
aggiuntivi o derogatori rispetto al diritto comune. Mentre i beni di interesse pubblico sono beni che sotto il
profilo oggettivo hanno un ‘importanza pubblicistica’, nei beni privati di interesse privato, invece,
l’interesse pubblico è, per così, dire esterno al bene.
I beni di interesse privato sono disciplinati integralmente dal codice civile: i proprietari dei beni di interesse
privato hanno diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo sia pure entro i limiti e con
l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico (art 832). Questi possono essere regolati
anche da regole pubblicistiche (es. disciplina ambientale o disciplina edilizia; disciplina alimentare europea).
La categoria dei beni di interesse privato comprende anche i beni patrimoniali disponibili appartenenti allo
Stato e agli enti territoriali regolati dal diritto comune: sono beni da cui la PA si limita a trarre reddito e non
sono adibiti né a uffici pubblici né a fruizione pubblica.
I beni di interesse pubblico hanno una rilevanza pubblica sotto il profilo oggettivo (es. reperto archeologico,
edificio, statua, dipinto antico). La categoria più importante di beni di interesse pubblico sono i beni
culturali e i beni paesaggistici. I primi sono costituiti dalle cose immobili e mobili che presentano interesse
artistico, storico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore
di civiltà. I secondi sono costituiti dagli immobili e dalle aree costituenti espressione dei valori storici,
culturali, naturali, morfologici, estetici del territorio. Conviene soffermarsi sui beni culturali e paesaggistici,
tutelati in base al TFUE e agli artt. 9 e 117 Cost (tutela affidata alla competenza esclusiva della Stato;
valorizzazione affidata alla competenza concorrente Stato-regioni).
I beni culturali sono individuati dal Codice con duplice modalità: a) elenchi tassativi di beni culturali ex lege
(musei, biblioteche, ecc); b) procedimento amministrativo in contraddittorio con i proprietari di alcuni beni
indicati dalla legge (es. raccolte librarie di privati). I beni culturali individuati sono inseriti in un catalogo
nazionale e sono soggetti a un regime speciale di vigilanza e ispezione relativo alla tutela, alla circolazione,
alla fruizione e alla valorizzazione. Per quanto riguardo la tutela, è prevista una serie di misure di protezione
e conservazione. La circolazione è gravata da vincoli: alcuni beni sono inalienabili, per altri è previsto un
regime di autorizzazione preventiva, i beni culturali di proprietà privata sono alienabili, ma lo Stato ha un
diritto di prelazione. Con riguardo alla fruizione: per i beni appartenenti agli enti pubblici sono previste
regole volte ad assicurare il massimo grado di fruizione pubblica; per i beni appartenenti a privati deve
essere consentita la visita da parte del pubblico in caso di beni dichiarati di “interesse eccezionale”. Infine,
la valorizzazione consiste nell'attività di promozione della conoscenza del patrimonio culturale (può essere
ad iniziativa pubblica o privata).
Per le aree naturali protette vige un regime speciale di tutela e di gestione posto dalla legge, volto alla
conservazione delle specie animali e vegetali, degli equilibri ecologici, ecc. Queste si distinguono in più
categorie: a) parchi nazionali; b) parchi naturali regionali; c) riserve naturali protette. I parchi nazionali
sono costituiti in enti aventi personalità giuridica di diritto pubblico (enti parco) e propri organi (presidente,
consiglio direttivo, giunta). L'ente parco disciplina i beni in esso inclusi con un regolamento e un piano. Il
regolamento disciplina le attività costruttive, economiche, ricreative, sportive di soggiorno e circolazione
imponendo una serie di divieti per quelle che possono compromettere i valori ambientali e paesaggistici. Il
piano del parco suddivide il territorio in base al diverso grado di protezione ritenuto necessario
distinguendolo in riserve integrali, nelle quali l'ambiente è conservato nella sua integrità; riserve generali
orientate, nelle quali sono vietate le nuove costruzioni e gli ampliamenti; aree di protezione, nelle quali
sono ammesse attività agricole; aree di promozione economica e sociale, nelle quali possono essere svolte
una gamma più ampia di attività compatibili con le finalità pubblicistiche. Tutti gli interventi, impianti e
opere all’interno del parco richiedono, in aggiunta alle autorizzazioni previste dalle normative generali, un
nullaosta dell’ente parco; quest’ultimo, inoltre, ha un diritto di prelazione in caso di cessione del diritto di
proprietà o di altro diritto reale dei terreni.
Le reti (infrastrutture fisiche necessarie per l'erogazione di alcuni servizi pubblici, es. reti di trasmissione e di
distribuzione dell'energia elettrica e del gas; reti di telecomunicazioni, ferrovie) costituiscono elementi di
monopolio naturale e richiedono una regolazione pubblica sotto 2 profili: garanzia di accesso alla rete da
parte di una pluralità di erogatori di servizi in base a criteri di uguaglianza; definizione delle tariffe per uso
della rete in modo da evitare che il monopolista possa abusare del suo potere di mercato. Molte reti sono
gestite da società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato.

3.I BENI PATRIMONIALI INDISPONIBILI E I BENI DEMANIALI

Il codice civile contiene una classificazione dei beni appartenenti allo Stato e agli enti pubblici fondata sulla
distinzione tra demanio pubblico (artt. 822 ss.) e beni patrimoniali. I beni patrimonali disponibili vanno
considerati, come già visto, come beni di interesse privato.
1. I beni patrimoniali indisponibili sono sottoposti a regole speciali e alle regole del codice civile (art. 828). Il
codice fornisce un elenco tassativo: foreste, miniere, caserme, ecc. Il carattere indisponibile del bene si
caratterizza nel fatto che essi non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti
dalla legge che li riguardano (art. 829 cod. civ.). Il vincolo di destinazione può essere rimosso usualmente
con un atto amministrativo. Inoltre, essi non possono essere oggetto di procedure di espropriazione forzata
in quanto bene necessari all'adempimento di un pubblico servizio. Anche le somme di denaro nella
disponibilità della p.a., che leggi speciali vincolano a una determinata destinazione, non possono essere
oggetto di procedure di espropriazione.
2. I beni demaniali ineriscono al demanio necessario o al demanio eventuale (o accidentale). I beni del
demanio necessario possono appartenere soltanto allo Stato e sono elencati in modo tassativo dall’art. 822,
comma 1: il lido del mare, la spiaggia, ecc. i beni del demanio eventuale fanno parte del demanio solo se
appartengono allo Stato, alle regioni o agli enti territoriali (art. 824) e sono elencati dall’art. 822, comma 2:
strade e autostrade, acquedotti, ecc. La condizione giuridica dei beni demaniali si caratterizza per il fatto
che essi sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei
limiti stabiliti dalle leggi. Si tratta dunque di beni incommerciabili, non aggredibili dai creditori dell'ente
secondo le regole ordinarie del codice civile, non usucapibili. Inoltre, l'autorità amministrativa ai fini di
tutela dei beni demaniali può ricorrere sia ai mezzi ordinari stabiliti dal codice civile a tutela della proprietà,
sia all'autotutela amministrativa. I beni demaniali sono in gran parte destinati alla fruizione pubblica.
Tuttavia, essi possono essere attribuiti in uso e godimento a singoli utilizzatori (uso particolare) attraverso
lo strumento della concessione amministrativa. La concessione prevede generalmente la corresponsione di
un canone o corrispettivo da parte del concessionario. Gli elenchi di beni demaniali del codice civile
includono sia beni naturali, sia beni artificiali. La distinzione rileva soprattutto sotto il profilo dell'acquisto e
della perdita della demanialità dovuta, nel primo caso a mutamenti della situazione di fatto (erosione di una
spiaggia), nel secondo caso, a determinazioni di tipo amministrativo. Il passaggio dei beni del demanio
pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall'autorità amministrativa con un atto del quale
deve essere data notizia nella GU. In seguito alla sdemanializzazione, al bene è applicabile il regime di
diritto privato e può essere alienato. Leggi recenti hanno attenuato il principio dell'inalienabilità dei beni
demaniali. Alcune hanno consentito il conferimento o il trasferimento di beni demaniali a società pubbliche
(ANAS) allo scopo di consentirne l'utilizzazione e la valorizzazione economica. È inoltre in corso un processo
di trasferimento di molti beni immobili dello Stato a favore delle regioni, delle province e dei comuni
(cosiddetto federalismo demaniale) che prevede anche la vendita di una parte del patrimonio a fini di
riequilibrio della finanza pubblica. Una categoria residuale di beni è caratterizzata da regimi di proprietà
collettiva. Si pensi ai beni sui quali insistono i cosiddetti usi civici, attribuiti a componenti della collettività.
Alcuni esempi sono i diritti attribuiti a collettività rurali (diritti di pascolo, di legnatico, di caccia) esercitati su
terreni di proprietà de comuni o anche di privati ora disciplinati in gran parte da leggi regionali.
4. I BENI COMUNI E LE PROSPETTIVE DI RIFORMA

I beni comuni sono per esempio l’aria, il mare o gli astri. Cioè si tratta, riprendendo la nozione del codice
civile di “cose che non possono formare oggetto di dritti” perché non hanno la caratteristica della appropri
abilità da parte dei singoli e dunque non sono qualificabili come “beni” in senso giuridico. In seguito al
progresso tecnologico, uno di questi beni, cioè l’etere (lo spettro delle frequenze radio), ha assunto la
natura di un bene in senso proprio (patrimoniale indisponibile), perché è una risorsa che può essere
attribuita in uso esclusivo a determinati soggetti per svolgere attività aventi anche rilevanza economica
(telefonia mobile). Da qualche anno, i beni comuni sono al centro di un dibattito che si è concentrato
principalmente su due temi. Da un lato, alcuni di essi stanno acquisendo la caratteristica della scarsità e
quindi richiedono una disciplina pubblicistica che ne impedisca il sovracconsumo e il depauperamento
(acqua); dall’altro, si è sottolineata la necessità di garantire l’accesso e l’uso da parte della collettività su
base paritaria.
CAPITOLO 13: LA FINANZA

1.PREMESSA

Per svolgere le proprie attività, ossia erogare servizi (finanza funzionale) e garantire il funzionamento degli
apparati (finanza strumentale) le organizzazioni hanno necessità di risorse. Gli esborsi possono avvenire in
forma diretta o indiretta: diretta attraverso incentivi, sovvenzioni, premi e contributi ai singoli aventi diritto;
indiretta, attraverso la realizzazione di opere (es. strade) e l'erogazione di servizi in natura (cure mediche,
istruzione). Di regola, le attività delle PA sono poste a carico della fiscalità in generale e non dei cittadini.
Infatti, la maggior parte delle entrate nelle PA hanno natura tributaria e solo in minima parte derivano da
proventi patrimoniali es. canoni di concessione, biglietti di musei ecc. La Cost. prevede al riguardo una
riserva relativa di legge (art. 23) e impone un obbligo di contribuire alle spese pubbliche in ragione della
propria capacità contributiva (art. 53), prevede che il sistema tributario sia informato a criteri di
progressività (art. 53.2) e attribuisce alle regioni e agli enti territoriali autonomia finanziaria di entrata e di
spesa, inclusa la potestà di istituire, entro certi limiti, tributi propri (art. 119). Il bilancio di previsione delle
PA serve ad allocare le risorse tra le diverse destinazioni, sia a stabilire i tetti di spesa, per garantire
l'equilibrio tra spesa ed entrata. Se le spese previste sono maggiori delle entrate, il governo può proporre di
coprire la differenza attraverso l'accensione di un prestito (es. emissioni di buoni del tesoro).
L'approvazione annuale del bilancio è obbligatoria e senza di essa non possono essere pagati stipendi,
pensioni o altre spese. La disciplina della finanza pubblica ha 2 dimensioni: una macro-dimensione e una
micro-dimensione. La prima tratta delle questione delle entrate e delle uscite in un’ottica di equilibrio
generale economico e finanziario; la seconda riguarda soprattutto la gestione delle risorse e i procedimenti
di spesa da parte delle PA. Le due dimensione sono strettamente collegate.

2. I PRINCIPI COSTITUZIONALI

L’art. 81 Cost. contiene le regole fondamentali in materia di finanzia pubblica. La L. cost. 1/2012 ha
sostituito integralmente il testo originario dell'articolo. La legge costituzionale è stata approvata in
esecuzione dell'impegno assunto dall'Italia di introdurre il principio del pareggio del bilancio: questo
impegno è previsto per gli Stati aderenti al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance
dell'UE economica e monetaria. ART. 81:
co.1: Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi
avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
co.2: Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e,
previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi
di eventi eccezionali.
co.3: Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.
co.4: Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal
Governo.
co.5: L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non
superiori complessivamente a quattro mesi.
co.6: Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra
le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni
sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto
dei princìpi definiti con legge costituzionale (legge quadro di contabilità).

I contenuti minimi della legge sono specificati nella L. cost. 1/2012 e, inoltre, la medesima legge introduce
altre modifiche: sancisce che le p.a., in coerenza con l’ordinamento UE, assicura l’equilibrio dei bilanci e la
sostenibilità del debito pubblico; prevede, modificando l’art. 119.1, che le regioni, le province e i comuni,
oltre ad assicurare l’equilibrio dei rispettivi bilanci, concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli
economici e finanziari dell’UE; integra l’art. 119.6 secondo il quale gli enti territoriali possono ricorrere
all’indebitamento esclusivamente per finanziare spese di investimento, ma solo con la contestuale
definizione di piani di ammortamento e a condizione che sia rispettato l’equilibrio di bilancio; modifica il
117 attribuendo alla competenza esclusiva dello Stato l’armonizzazione dei bilanci pubblici (In precedenza
vi era competenza concorrente).

3.I VINCOLI DI DERIVAZIONE EUROPEA

Le politiche di bilancio degli Stati membri dell’UE sono ormai condizionate dal diritto UE; in particolare, gli
Stati sono tenuti a raggiungere condizioni finanziarie stabili al fine di evitare che eventuali squilibri dei conti
pubblici distorcano l'allocazione delle risorse all'interno del mercato comune. Tali condizioni derivano dal
conseguimento da parte degli Stati membri di una situazione di bilancio non caratterizzata da un disavanzo
e da un debito eccessivi rispetto al PIL. A tal fine si è stabilito che il rapporto tra l'entità complessiva del
disavanzo annuale, cioè il deficit degli Stati, e il PIL non debba superare il 3%, mentre il rapporto tra il
debito pubblico e il PIL non possa superare il 60%. Queste sono state confermate dal Patto di stabilità e
crescita, che impone agli Stati aderenti all’euro di raggiungere nel medio termine l’obiettivo del pareggio di
bilancio. Un regolamento del 1997 (braccio dissuasivo del Patto) disciplina una procedure di controllo volta
a prevenire tempestivamente il determinarsi di disavanzi pubblici eccessivi e a promuovere la sorveglianza
e il coordinamento delle politiche economiche. A tal fine ogni Stato deve fornire alla Commissione e al
Consiglio informazioni necessarie sotto forma di programma di stabilità relativo all'anno in corso e ai 3 anni
successivi che indica gli interventi programmati per conseguire un saldo di bilancio prossimo al pareggio. La
Commissione nel caso in cui ritenga che uno Stato presenti un disavanzo pubblico eccessivo informa il
Consiglio, il quale può formulare una raccomandazione allo Stato affinché faccia cessare tale situazione,
oppure, nei casi più gravi, può applicare una misura a carattere sanzionatorio. La crisi che ha investito
l'Europa nel 2008 ha portato l'UE ad adottare un pacchetto di sei misure legislative in materia economica e
finanziaria (Six pack) per riformare la governance economica europea e introdurre norme più rigorose in
materia di politiche di bilancio. Le norme rafforzano sia meccanismi preventivi che correttivi del Patto di
stabilità e crescita (es. i paesi in cui il debito pubblico/pil supera il 60% sono tenuti progressivamente a
ridurre la parte eccedente nella misura di 1/20 all'anno). Il trattato disciplina pure il Fiscal compact il quale
mira a rafforzare la disciplina di bilancio degli Stati firmatari. Impone loro, da un lato, il mantenimento del
bilancio in pareggio o in avanzo, e dall'altro, l'attivazione di meccanismi automatici di correzione nel caso di
deviazioni significative dagli obiettivi di medio termine concordati a livello europeo. Gli Stati che hanno
ratificato il fiscal compact possono beneficiare del fondo salva-Stati (780 miliardi di euro, TRATTATO MES).

4. IL DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA, LA LEGGE DI BILANCIO

Il Documento di Economia e Finanza (o DEF)


Nella contabilità di Stato italiana, esso definisce la manovra di finanza pubblica per il periodo compreso nel
bilancio pluriennale. Va presentato dal Governo al Parlamento entro il 10 aprile di ogni anno (c.d.
“semestre europeo”). Non è una legge, anche se vincola politicamente le decisioni del Governo. Nel DEF si
delineano gli scopi che il bilancio pluriennale intende perseguire e si delimita l'ambito entro cui costruire il
bilancio annuale. Scopo del DEF è quello di permettere al Parlamento di conoscere con anticipo le linee di
politica economica e finanziaria del Governo; quest'ultimo è politicamente impegnato a redigere il
successivo bilancio annuale secondo i criteri scaturenti dal dibattito parlamentare. Si compone in 3 sezioni:
la prima costituita dallo schema del Programma di stabilità che contiene le informazioni richieste dalla
normativa dell'UE in attuazione del Patto di stabilità e crescita; la seconda contiene l'analisi del conto
economico e del conto di cassa della amministrazioni pubbliche nell'anno precedente e le previsioni per il
triennio successivo; la terza è costituita da uno schema del Programma nazionale di riforma contenente le
informazioni richieste della normativa europea.

La legge di stabilità (ex legge finanziaria)


Essa, insieme alla legge del bilancio dello Stato, è la norma principale prevista dall'ordinamento giuridico
italiano per regolare la vita economica del Paese per un triennio attraverso misure di finanza pubblica
ovvero di politica di bilancio. Con essa il Governo ha la facoltà di introdurre innovazioni normative in
materia di entrate e di spesa, fissando anche il tetto dell'indebitamento dello Stato. Deve essere presentata
dal Governo al Parlamento entro il 15 ottobre. Il Parlamento ha tempo di esaminarla ed emendarla fino al
31 dicembre. Oltre la scadenza di fine anno, la Costituzione, all’art. 81 c. 2, prevede il limite del successivo
30 aprile, da autorizzare con legge apposita che conceda l'esercizio provvisorio del bilancio. A seguito
dell'approvazione da parte del Parlamento, la legge finanziaria regola la vita economica del Paese nell'arco
di un anno solare. Gli obiettivi economici di più lungo periodo sono invece definiti dal Governo nel
Documento di economia e finanza (DEF). Nella legge finanziaria deve essere specificato, ad esempio: il saldo
netto da finanziare, ovvero il disavanzo pubblico tra spese e entrate finali; il saldo del ricorso al mercato,
ossia il deficit complessivo da coprire mediante prestiti; l'importo dei fondi speciali di bilancio.

La legge di bilancio
Viene presentata dal governo al parlamento il 15 ottobre; ha per oggetto il bilancio annuale di previsione in
base al quale si svolge la gestione finanziaria dello Stato. Il bilancio di previsione è redatto di sia in termini
di competenza (riferiti alle obbligazioni attive e passive assunte giuridicamente dall’amministrazione), sia in
termini di cassa (cioè di somme effettivamente pagate e incassate). Esso è costituito da due sezioni.
La prima dispone il quadro di riferimento finanziario e provvede alla regolazione annuale delle grandezze
previste dalla legislazione vigente al fine di adeguarne gli effetti finanziari agli obiettivi. La seconda è
costituita dallo stato di previsione dell’entrata; dagli stati di previsione della spesa distinti per ministero; dal
quadro generale riassuntivo. Gli stati di previsione sono accompagnanti da una nota integrativa e da una
scheda illustrativa. Le entrate sono ripartite in titoli, tipologie, categorie, capitoli; le spese sono invece
ripartite in missioni, programmi e capitoli. I principi generali in materia di bilancio sono: l’integrità,
l’universalità, l’unità del bilancio, la pubblicità, la veridicità.
Nel caso in cui il bilancio non venga approvato entro l’anno, può essere concesso l’esercizio provvisorio per
un periodo non superiore a 4 mesi. In tale periodo la gestione del bilancio è consentita per tanti dodicesimi
quanti sono i mesi dell’esercizio provvisiorio.
Accanto al bilancio annuale è previsto un bilancio pluriennale elaborato dal MEF in coerenza con gli
obiettivi del DEF. Esso compre un periodo di 3 anni e indica l’andamento delle entrate e delle spese previste
sia in base alla legislazione vigente sia tenendo conto degli effetti degli interventi normativi programmati
nel DEF. Viene presentato ogni anno insieme al bilancio annuale di previsione e, a differenza di
quest’ultimo, non vale come autorizzazione a riscuotere le entrate e a eseguire le spese in esso
contemplate.
Entro il mese di giugno di ogni anno, il MEF presenta alle Camere il rendiconto generale dell’esercizio
dell’anno precedente con allegata una nota integrativa. Il rendiconto si compone di 2 parti: 1. Il conto del
bilancio che espone le entrate e le uscite di competenza dell’anno precedente; 2. Il conto generale del
patrimonio che dà una rappresentazione della composizione e della variazione delle consistenze
patrimoniali dell’anno precedente. La nota integrativa si compone di 2 sezioni: 1. La prima illustra i risultati,
analizzando il grado di realizzazione degli obiettivi; 2. La seconda illustra i risultati finanziari ed espone i
principali fatti gestionali.
Per quanto riguarda la finanza delle regioni, delle province e dei comuni, la legge delega 42/2009 ha posto le
linee fondamentali del c.d. federalismo fiscale, volto a rafforzare l’autonomia finanziaria degli enti
territoriali; tuttavia tale processo ha subito un arresto a causa dell’emergenza finanziaria del 2011/12. Una
delle novità importanti di questa legge è rappresentata dal criterio di allocazione delle risorse: i costi
standard. L’obiettivo è quello di promuovere il confronto tra gli enti territoriali e di favorire comportamenti
virtuosi: se un’amministrazione ha costi superiori a quelli standard per una determinata funzione è tenuta a
varare misure organizzative volte ad allinearli. La determinazione dei costi standard è un’operazione
complessa data la quantità di variabili delle quali si deve tener conto. Anche la finanza degli enti territoriali
è condizionata dai vincoli europei attraverso l’imposizione del c.d. Patto di stabilità interno, volto al fine di
sottoporre a controllo l’indebitamento netto degli enti territoriali.

5. LA GESTIONE DELLE RISORSE E IL PROCEDIMENTO DI SPESA

Per quanto riguarda la dimensione micro della finanza pubblica, trattiamo l’attività e le procedure di spesa
della PA che condizionano l’utilizzo concreto delle risorse previste nel bilancio di previsione. Le risorse
economico-finanziarie assegnate a un determinato apparato amministrativo (es: un ministero) vengono
ripartite dall’organo di indirizzo politico-amministrativo tra gli uffici di livello dirigenziale generale, i quali a
loro volta le attribuiscono ai propri dirigenti: questi ultimi esercitano il potere di spesa. Le obbligazioni
assunte dalle PA che comportano spese a carico del bilancio derivano talvolta direttamente dalle legge o da
sentenze, da provvedimenti amministrativi e da contratti stipulati all’esito di una procedura a evidenza
pubblica. Il procedimento di spesa avviene in base a una sequenza procedimentale in 4 fasi che
coinvolgono una pluralità di uffici e che mirano a garantire il rispetto dei vincoli derivanti dal bilancio di
previsione e la regolarità dei pagamenti. Esse sono l’impegno, la liquidazione, l’ordinazione e il pagamento.
- L'impegno costituisce la prima fase del procedimento di spesa, con la quale, a seguito di obbligazione
giuridicamente perfezionata è determinata la somma da pagare, determinato il soggetto creditore, indicata
la ragione e la relativa scadenza e viene costituito il vincolo sulle previsioni di bilancio, nell'ambito della
disponibilità finanziaria. Ha rilevanza interna, e può riferirsi soltanto all’esercizio in corso. - La liquidazione è
una atto interno che verifica i titoli e documenti comprovanti i diritti dei creditori e determina così la
somma certa e liquida da pagare. - L’ordinazione è l’atto con il quale l’amministrazione impartisce al
tesoriere la disposizione di provvedere al pagamento. - Il pagamento è l’erogazione materiale della somma,
che può avvenire in varie forme.

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