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Il diritto tributario si configura come una “disciplina orizzontale”, nel senso che si rivolge a rapporti e
situazioni per lo più già disciplinati altrove, cioè già filtrati dall’esperienza giuridica, in un rapporto di
dipendenza infraistituzionale e ricorre ai tradizionali strumenti del diritto amministrativo, processuale, penale
ecc., al fine di assicurare l’attuazione della pretesa tributaria.
Secondo il Giannini, il diritto tributario è stato tradizionalmente inquadrato nell’ambito del diritto pubblico, e
in particolare, del diritto amministrativo, identificandosi come “quel ramo del diritto amministrativo che
espone i principi e le norme relative all’imposizione e alla riscossione dei tributi e analizza i conseguenti
rapporti giuridici tra gli enti pubblici e i cittadini”.
Oltre che con il diritto amministrativo e il diritto privato, il diritto tributario ha numerosi punti di contatto
anche con altre branche dell’ordinamento:
• quanto al diritto costituzionale, vi sono nella Costituzione numerose norme che interessano il fenomeno
tributario. Ad esempio, l’art. 23 Cost. che contiene il principio di riserva di legge, l’art. 53 Cost. che
contiene il principio di capacita contributiva, art. 2 e 3 Cost., relativamente al dovere di solidarietà e
principio di uguaglianza, art. 14 Cost., che tutela la sfera personale del cittadino, e quindi, anche del
contribuente, l’art. 25 Cost. in tema di riserva di legge penale, art. 41 Cost., in tema di liberta di iniziativa
economica, art. 75 Cost., che vieta il referendum in materia tributaria, art. 81 Cost., che disciplina la legge
di bilancio;
• quanto al diritto europeo;
• quanto al diritto internazionale, trovano applicazione in materia tributaria sia le consuetudini internazionali
(seppur rare), sia le convenzioni internazionali soprattutto in materia di imposte sul reddito e sul
patrimonio;
• quanto al diritto penale;
• quanto al diritto sanzionatorio tributario amministrativo.
Nel nostro ordinamento non esistono definizioni legislative né del tributo né delle sue sottospecie come
l’imposta, la tassa e il contributo. Sicché la sua ricostruzione è di fonte dottrinale e giurisprudenziale.
Al fine di precisare la nozione di tributo, si ritiene utile muovere dalla classificazione delle entrate dello
Stato.
Nell’attuale contesto storico, le principali fonti di entrata per il finanziamento della spesa pubblica – diverse
da quelle tributarie – sono rappresentate da:
A. Entrate c.d “di diritto privato”, dove lo Stato amministra il proprio patrimonio, anche dismettendolo,
svolgendo attività economiche o partecipa al capitale di determinati soggetti che svolgono attività
economiche, e comportandosi alla stregua di un qualsiasi operatore privato (iure privatorum).
A. Entrate c.d. “di diritto pubblico” dove lo Stato agisce mediante il proprio potere autoritativo (iure imperii)
per procacciarsi le entrate.
La fondamentale differenza tra le entrate fiscali e le altre entrate è rappresentata dalla assoluta mancanza di
corrispettività tra prelievo fiscale e l’erogazione dei servizi resi dalla pubblica Amministrazione.
In sostanza, il tributo viene definito come un’obbligazione avente ad oggetto una prestazione di regola
pecuniaria a titolo definitivo o a fondo perduto (differenziandosi, sotto tale profilo, dal prestito forzoso),
coattiva e nascente dalla legge al verificarsi di un presupposto di fatto che di regola non ha natura di
illecito.
Infine il tributo realizza il concorso alla spesa pubblica (art.53 Cost.) ed il suo gettito è destinato a finanziare
lo Stato e gli altri enti pubblici. Non è tributo una prestazione imposta il cui creditore non sia un ente
pubblico, ma un soggetto di diritto privato. È dunque rilevante che il gettito sia attribuiti allo Stato o ad altri
enti pubblici, non è rilevante lo scopo per il quale è istituito; infatti un tributo può essere istituito per fini
fiscali (procurare un’entrata) o per fini extrafiscali (es. dazi protettivi). Il tributo, nel disegno costituzionale,
non deve semplicemente procurare entrate allo Stato, perché il finanziamento delle pubbliche spese è, a sua
volta, un mezzo per il raggiungimento dei fini sociali fissati dalla Costituzione.
Vi possono essere anche tributi con destinazione specifica, detti tributi di scopo o tributi parafiscali (es.
tributo a carico delle imprese che operano in un dato settore il cui gettito viene utilizzato dall’ente per
finanziare attività che giovino alle imprese di quel settore). I comuni possono deliberare l’istituzione di
imposte di scopo destinate alla parziale copertura delle spese per la realizzazione di opere pubbliche.
La Corte Costituzionale ha affermato che i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni
prelievi consistono:
1) nella doverosità della prestazione;
2) nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti;
3) nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto
economicamente rilevante.
In generale, la Corte costituzionale ha evidenziato in più occasioni che l’art. 23 Cost. (“nessuna prestazione
personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”) è rispettato quando la legge
definisce i criteri direttivi, i limiti e i controlli idonei a contenere la discrezionalità dell’ente impositore
nell’esercizio del potere che gli viene attribuito, affinché tale potere non si trasformi mai in arbitrio.
Segnatamente, devono essere fissati con legge:
1. il presupposto del tributo, inteso come atto o fatto al cui verificarsi è dovuto il tributo, rispetto al quale la
legge deve rigidamente prestabilirne il contenuto.
2. i soggetti passivi, intesi come coloro cui detto atto o fatto è riferibile.
3. la base imponibile del tributo, attinente alle regole di misurazione della capacità contributiva e l’aliquota,
che trova applicazione una volta misurato il presupposto per calcolare l’importo dovuto.
La giurisprudenza costituzionale adotta una nozione di tributo più ampia di quella tradizionale, infatti è una
nozione che comprende anche i contributi previdenziali e sanitari. Con riguardo all’art. 75 Cost. che vieta il
referendum abrogativo delle leggi tributarie, la Corte costituzionale afferma che la nozione di tributo è
caratterizzata dalla ricorrenza di due elementi essenziali: da un lato l’imposizione di un sacrificio economico
individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio; dall’altro la destinazione del
gettito allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario necessario a coprire le spese pubbliche.
In conclusione, sono considerate tributarie tutte le prestazioni imposte in via coattiva senza il consenso
Il termine “tributo” indica un genus comprendente imposte, tasse e contributi a cui taluni aggiungono i
monopoli fiscali. La distinzione tra imposte e tasse corrisponde alla distinzione della scienza delle finanze
che collega le entrate al tipo di spese pubbliche che servono a finanziare. Essendovi spese pubbliche
indivisibili e spese pubbliche divisibili, le entrate destinate a finanziare le spese indivisibili sono imposte,
quelle destinate a finanziare spese divisibili sono tasse.
L’imposta è il tributo per eccellenza. È infatti dovuta dal soggetto passivo al verificarsi di un determinato
presupposto ad esso riferibile che non presenta alcuna specifica relazione con una determinata attività
dell’ente pubblico.
Si pensi ad esempio al possesso di un reddito o di un patrimonio oppure al consumo di un bene. Il solo fatto
di essere titolari di tali indici di capacità contributiva, comporta l’obbligo di pagare l’imposta.
In considerazione di tale natura “acausale”, l’imposta viene anche definita un’obbligazione di riparto, poiché
il contribuente viene chiamato, quale membro della collettività, a partecipare alla spesa pubblica sulla base di
indici di riparto espressivi di forza economica.
Le imposte sono direttamente connesse ad una funzione di solidarietà (art. 2 Cost.), nel senso che in essa si
riscontra non solo un rapporto di carattere “verticale” (Stato - contribuente), ma anche di carattere
“orizzontale”, tra i contribuenti stessi. Sicché, se la spesa pubblica deve essere ripartita tra i contribuenti, la
minore imposta pagata da un soggetto comporta una maggiore imposta in capo ad un altro. Ciò significa non
solo che è fondamentale una corretta ripartizione della spesa pubblica, ma anche che lo Stato non può
rinunciare all’imposta nei confronti di un determinato consociato, perché altrimenti aumenterebbe l’imposta
dovuta dagli altri.
Dalla funzione di riparto si ricava così il c.d. “principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria”, nel
senso che l’Amministrazione finanziaria non ha la facoltà di scegliere, esercitando poteri discrezionali, se
prelevare o meno una determinata imposta, essendo tenuta ad esigere l’imposta se dovuta in base alla legge.
Questo principio deve peraltro confrontarsi con la creazione, nel corso del tempo, di istituti che consento di
raggiungere nella fase di attuazione del tributo (accertamento, riscossione e processo) degli “accordi” tra
Fisco e contribuente il cui effetto è quello di ridurre la maggiore imposta oggetto di accertamento nei
confronti del contribuente.
La tassa si distingue dall’imposta perché il suo presupposto è un atto o un’attività pubblica, ossia
l’emanazione di un provvedimento o la fruizione di un bene o servizio pubblico riguardanti un determinato
soggetto. Vi sono tasse collegate all’emanazione di atti o provvedimenti amministrativi (es. tasse sulle
concessioni governative), tasse collegate ad un’attività pubblica (es. tasse per iscrizione a ruolo delle cause
civili e amministrative) e tasse collegate alla fruizione di un bene pubblico (es. occupazione di spazi
pubblici) o di un servizio pubblico (es. rifiuti). La tassa è un istituto di confine essendo essa prossima da un
lato ai proventi di diritto pubblico di natura non tributaria (es. prezzi pubblici, tariffe, canoni) e dall’altro ai
corrispettivi di diritto privato (cd. entrate patrimoniali). La distinzione tra servizi pubblici alla cui prestazione
è collegato il pagamento di una tassa e servizi pubblici per i quali è dovuto il pagamento di un corrispettivo
(prezzo, tariffa, canone, ecc.) non dipende dalla natura del servizio: una medesima attività amministrativa
può essere assunta come presupposto di una tassa o come presupposto di proventi di altra natura, di diritto
pubblico o privato. Ciò che distingue la tassa dall’entrata di diritto privato è il suo regime giuridico: la
prestazione imposta coattivamente è una tassa; se ha base contrattuale ha natura privatistica. Nella tassa, non
vi è rapporto di sinallagmaticità, o di corrispettività, tra prestazione pecuniaria e attività pubblica, ma un
rapporto di correlatività. Nell’ambito della finanza locale, proventi aventi natura di tassa o di imposta,
possono essere sostituiti con proventi di natura non tributaria (es. i comuni possono con regolamento
escludere l’imposta sulla pubblicità e prevedere il pagamento di un canone). Infine, il contributo unificato
per le spese degli atti giudiziari ha natura di tassa. Il canone televisivo invece è un’imposta.
Gli elementi costitutivi della tassa, che la differenziano dall’imposta, sono in particolare due:
Per quanto riguarda il primo elemento, il pagamento della tassa è di regola determinato da una domanda del
soggetto volta ad ottenere quel determinato servizio o quella determinata attività. Talvolta, tuttavia, può
trattarsi di un'attività semplicemente provocata dal comportamento del soggetto, come accade ad esempio per
le tasse giudiziarie poste a carico dell’imputato che venga condannato in un processo penale.
Per quanto riguarda lo scambio di utilità, il soggetto destinatario riceve normalmente un vantaggio
(beneficio) individuale dall’espletamento di una determinata attività o servizio.
APPROFONDIMENTO: la TARSU, ad esempio, è dovuta anche laddove l’abitazione non sia utilizzata,
ma potenzialmente in grado di usufruire di quel servizio. Tale prestazione è così ritenuta dovuta per la sola
circostanza che esiste un servizio istituito nel comune, di cui si può fruire indipendentemente dalla utilità
concreta per il soggetto del servizio.
Pertanto, la tassa è si correlata ad un servizio e/o attività pubblica, ma non costituisce un vero e proprio
corrispettivo nell’ottica dei rapporti sinallagmatici di stampo privatistico.
Il contributo o tributo speciale si colloca in un livello intermedio tra la figura dell’imposta e della tassa,
ricollegandosi, come per la tassa, allo svolgimento da parte dell’ente pubblico di una determinata attività o
realizzazione di un’opera (ad es. l’urbanizzazione, la bonifica, ecc.), tuttavia svolta nei confronti di una
determinata collettività qualificata (e non di un singolo soggetto), e tenendo conto, come per l’imposta, dello
specifico vantaggio (ad es. l’incremento del valore dell’immobile) pervenuto al contribuente, di talché la
misura del contributo verrebbe determinata in ragione differenziata dell’arricchimento che deriva a ciascun
membro della collettività e, dunque, in misura diversa a seconda del vantaggio ritratto.
Nel diritto tributario è denominato contributo (o tributo speciale) quel particolare tipo di tributo che ha come
presupposto l’arricchimento che determinate categorie di soggetti ritraggono dall’esecuzione di una opera
pubblica destinata alla collettività in modo indistinto. Sono inoltre denominati contributi le prestazioni
dovute a determinati enti (associazioni, consorzi, ecc.) per il loro funzionamento;
Taluni includono tra le entrate tributarie anche quelle derivanti dai monopoli fiscali.
Per quanto riguarda, infine, i monopoli fiscali, la loro caratteristica è quella di consentire allo Stato, per
effetto della riserva monopolistica, di fissare il prezzo del bene o del servizio in misura superiore a quello
che sarebbe stato fissato in condizioni di libera concorrenza, così traducendosi in sostanza in una entrata per
lo Stato.
In sostanza, riservano la commercializzazione di un certo bene allo Stato garantendo ad esso il percepimento
di un prezzo maggiore di quello che sarebbe generato dal libero mercato.
APPUNTI: Il principio di uguaglianza implica che devono essere trattate allo stesso modo situazioni uguali.
Se sono differenziate deve valere un principio di proporzionalità.
Tale articolo è rivolto al legislatore, in quanto da una parte sancisce la funzione solidaristica del concorso
alle spese pubbliche, testimoniata anche dalla collocazione della norma nel Titolo dedicato ai “rapporti
politici” e dunque, in tale prospettiva, la legittimità costituzionale dell’imposizione; e dall’altra, esprime la
funzione garantista della capacità contributiva e costituisce sia l’indispensabile presupposto (e limite)
dell’imposizione, nel senso che solo chi ha capacità contributiva può essere tenuto a concorrere alle
pubbliche spese, sia il parametro dell’imposizione medesima, nel senso che l’ammontare del prelievo
tributario deve essere commisurato alla capacità contributiva del singolo.
È ulteriormente rivolto al contribuente, in quanto nell’espressione “sono tenuti” può rinvenirsi la doverosità
del concorso necessario per la stessa sopravvivenza dello Stato, nell’ottica di un rapporto anche orizzontale
“tra contribuenti” e non solo meramente verticale “Stato - contribuente”.
Non ogni forma di capacità economica costituisce tuttavia capacità contributiva, in quanto occorre
considerare il principio dell’esenzione del c.d. “minimo vitale”, nel senso che non può formare oggetto di
prelievo tributario quel minimo di capacità economica necessario a soddisfare le esigenze primarie
In riferimento alla capacità contributiva quale limite al potere impositivo, sussistono infatti ad oggi due
differenti teorie:
1) quella che individua il principio di capacità contributiva quale limite assoluto alle scelte del legislatore;
2) quella che individua il principio di capacità contributiva quale limite relativo alle scelte del legislatore;
Secondo i sostenitori della teoria della capacità contributiva quale limite assoluto, sono espressivi di capacità
contributiva quei fatti o quelle situazioni che rivelano direttamente od indirettamente l’esistenza di una
ricchezza in capo al contribuente. Il reddito, il patrimonio, i consumi sono indici di capacità contributiva,
perché sono indici da cui direttamente o indirettamente si desume la ricchezza dei singoli. Un prelievo può
esistere solo laddove vi sia ricchezza, laddove vi sia una fonte economica.
Tale tesi, connessa all’art. 2 Cost., identifica la capacità contributiva con la titolarità di situazioni giuridiche
soggettive a contenuto patrimoniale, scambiabili sul mercato, che consentano in sé di estinguere
l’obbligazione tributaria.
I sostenitori della teoria della capacità contributiva come limite relativo, invece, ragionano nella logica
dell’art. 3 Cost., sposando un’ottica meramente distributiva. Essi ritengono che siano espressivi di capacità
contributiva tutti quei fatti o quelle situazioni che siano in grado di “modificare la posizione” del consociato
all’interno dell’ordinamento e che quindi possano essere soggetti passivi d’imposta anche coloro che
pongono in essere presupposti socialmente rilevanti, purché espressivi di una capacita differenziata
economicamente valutabile.
L’art. 53 Cost. avrebbe quindi una funzione di riparto e si limiterebbe ad “imporre criteri distributivi equi e
ragionevoli, che possono essere anche fatti non patrimoniali, purché naturalmente rilevabili e misurabili in
denaro, senza che il presupposto contenga necessariamente in se la disponibilità economica per far fronte
all’obbligazione tributaria.
Tali tesi sono anche strettamente connesse al rapporto tra l’art. 53 Cost. e il “diritto di proprietà”.
Secondo la teoria della capacità contributiva come limite assoluto, l’art. 53 Cost. non può comprimere il
diritto di proprietà dell’individuo, ma costituisce un limite al potere d’intervento del legislatore tributario per
tutelare il diritto di proprietà stesso. Conseguentemente, l’imposta non potrebbe mai avere carattere
espropriativo o comunque eccessivamente pregiudizievole per il diritto di proprietà. Esisterebbe dunque un
limite massimo all’imposizione tributaria, nel senso che una determinata capacita contributiva, anche per
effetto del concorso di imposte di diversa natura, non dovrebbe superare una “quota” del reddito complessivo
del soggetto (talvolta identificata nel 50% del reddito complessivo, sulla base di una, non univoca,
giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca) pena una vera e propria “natura espropriativa del
prelievo”.
Secondo i sostenitori della capacità contributiva come limite relativo, la proprietà non è un diritto naturale
intoccabile che preesiste all’intervento statale, bensì costituisce frutto di un riconoscimento dello Stato,
dovendo dunque i diritti di proprietà “cedere” rispetto agli obiettivi solidaristici dell’ordinamento
costituzionale.
La posizione della Corte costituzionale, in merito, è stata nel corso del tempo oscillante, anche se parrebbe
potersi individuare un progressivo spostamento vero la tesi della capacita contributiva come limite
“relativo”.
Il discorso sul rapporto tra l’art. 53 Cost. e gli altri principi costituzionali va tuttavia ampliato.
Per quanto riguarda i rapporti con gli artt. 2 e 3 Cost., esso costituisce rispettivamente una proiezione del
solidarismo e del principio di uguaglianza.
Quanto al principio di eguaglianza formale, esso impone, infatti, di trattare in modo uguale situazioni uguali
e in modo disuguale situazioni diverse, dovendosi prevedere trattamenti fiscali differenziati per ricchezze
diverse.
In altre parole, è legittimo un prelievo maggiore su una capacità contributiva maggiore ed uno minore su una
capacita contributiva minore. L’accertamento di tale differenziazione spetta al legislatore, con l’unico limite
della ragionevolezza della scelta operata, intesa come obbligo di coerenza e di non contraddittorietà.
Quanto al principio di eguaglianza sostanziale, lo Stato può utilizzare la leva fiscale per cercare di
promuovere e migliorare la situazione dei propri consociati, correggendo gli squilibri sociali dovuti a
situazioni sperequate di partenza (c.d. “azioni positive”), in un’ottica definibile di “giustizia redistributiva”.
1. L’art. 53 Cost. utilizza il pronome “tutti”, senza ulteriore specificazione, così distinguendosi dall’art. 25
dello Statuto albertino che, individuando specificamente il referente soggettivo, disponeva che “Essi (i
regnicoli) contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro avere, ai carichi dello Stato”.
Il termine “tutti” evidenzia il principio di “universalità del tributo”, che deve colpire, al verificarsi dei
presupposti, tutti i soggetti indipendentemente dalla loro cittadinanza.
La capacita contributiva deve riguardare il “singolo contribuente”.
Da qui l'illegittimità costituzionale del cumulo familiare dei redditi, che prevedeva l’imputazione al marito
dei redditi della moglie, pur non potendone il primo disporre. (sentenza 179/1976).
Il principio di universalità del tributo implica che sono obbligati a contribuire ai bisogni della spesa
pubblica, tutti i soggetti (persone fisiche o giuridiche) che operano nel territorio dello Stato, residenti e non
residenti, senza discriminazioni di età, sesso, religione, appartenenza politica, e simili.
Sarebbero perciò incostituzionali eventuali norme tributarie che determinassero la misura degli obblighi
fiscali in base a parametri quali lo stato civile o l’appartenenza politica o religiosa.
Ai fini I.R.P.E.F. ed I.R.E.S. i soggetti residenti sono tenuti al pagamento del tributo su tutti i redditi,
ovunque prodotti; i non residenti, sui redditi prodotti in Italia.
Con sentenza del 4 giugno 1964, n. 45, la Corte Cost. ha tuttavia superato questa impostazione originaria,
affermando che l’art. 53 Cost. costituisce una norma «precettiva» e definendo la capacità contributiva come:
…«l’idoneità economica del contribuente a corrispondere la prestazione coattiva imposta».
La capacità contributiva si può desumere da vari indici, quali:
- Il patrimonio;
- Il reddito;
- Il risparmio;
- La spesa per consumi o per investimenti;
- I trasferimenti di ricchezza; es. l’imposta di registro, cioè intesa come un imposta sugli atti, ad esempio un
Come si determina la capacità contributiva? La capacità contributiva si può desumere anche da indici
forfettari (come le rendite catastali) o da elementi presuntivi (come gli «studi di settore»).
Ogni presunzione deve essere relativa in quanto deve permettere al soggetto la possibilità di fornire la prova
contraria.
Una norma tributaria che ponesse una presunzione assoluta sarebbe incostituzionale, perché contraria al
principio di capacità contributiva (cfr. Corte Cost., n. 200/76 e n. 103/91).
Appaiono altresì contrarie al principio di capacità contributiva le norme tributarie che impongano sanzioni
improprie (come le norme che impedivano la deduzione dei costi non registrati o dei costi sostenuti
nell’esercizio di attività illecite).
Il principio di progressività.
Dall’art. 53 Cost. si evince altresì che la ricchezza cui viene commisurato il prelievo deve essere “effettiva”.
Secondo la Corte costituzionale, non può infatti essere considerata sufficiente una capacità meramente
fittizia o apparente.
L’art. 53 comma 2, Cost. dispone che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Un’imposta si definisce progressiva quando il suo ammontare aumenta in modo più che proporzionale al
crescere dell’imponibile. La progressività può essere assicurata intervenendo sia sull’aliquota, sia sulla base
imponibile.
Si tratta di un principio che indica la funzione non solo contributiva del sistema tributario, bensì anche
redistributiva e dunque costituisce, sotto tale profilo, un’ulteriore declinazione da un lato della funzione
solidaristica dell’art. 53 Cost. e dall’altro del principio di eguaglianza in quanto finalizzato, nella fattispecie,
a correggere gli squilibri sociali.
Inoltre, il principio di progressività indica che il sistema tributario non ha solo lo scopo di fornire mezzi
finanziari allo Stato, ma anche funzioni per il raggiungimento dei fini di giustizia sociale fissati dalla
Costituzione.
- mediante la differenziazione delle aliquote per le imposte sui consumi, e quindi mediante la previsione di
aliquote più basse per i consumi diretti a soddisfare esigenze primarie, e di aliquote più alte per i consumi
che soddisfano bisogni voluttuari; mediante l’applicazione di maggiori imposte sulle attività considerate
più remunerative (ad es., applicazione dell’I.R.A.P. sulle sole attività organizzate in forma di impresa, e
non pure sulle attività di lavoro).
Il primo aspetto attiene ai limiti alla retroattività di un tributo, inteso come possibilità di assumere a
presupposto di imposta un fatto espressivo di capacità contributiva manifestatosi in periodi di imposta
antecedenti quello dell’introduzione della norma.
A tal riguardo, l’art. 11 delle Preleggi fissa il principio di irretroattività delle leggi, affermando che “la
legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Tuttavia, essendo norma di legge
ordinaria, soccombe dinanzi a leggi speciali di pari rango: i limiti della retroattività dei tributi devono essere
rinvenuti quindi in fonti sovraordinate, ossia le norme costituzionali.
Quando nel 1991 il legislatore introduce la tassazione delle plusvalenze derivanti da indennità di esproprio
(riferite al triennio precedente all’introduzione della fattispecie normativa) la corte Costituzionale nel 1994,
chiamata a verificarne la legittimità, si espresse sottolineando che:
- il termine triennale è tale da far ragionevolmente presumere che la capacità contributiva espressa dal
fatto indice sussista ancora al momento in cui si eleva quest’ultimo, retroattivamente, a presupposto
d’imposto.
- Il sistema dell’imposta sui redditi consentiva al contribuente di prevedere ragionevolmente
l’introduzione di una tassazione sull’indennità di esproprio.
L’argomento della prevedibilità tuttavia fu ampiamente criticato, in quanto l’ordinamento è improntato su
una tassazione del c.d. reddito prodotto, ossia si fa riferimento a incrementi patrimoniali che derivano da
una fonte produttiva, intesa quale fonte suscettibile di riprodurre quei redditi nel tempo (ad es. l’affitto di un
immobile, il frutto di un capitale). Solo alcune ipotesi confinano nelle fattispecie di reddito entrata, inteso
come qualsiasi incremento patrimoniale del contribuente anche di carattere straordinario e fortuito, cui è
ascrivibile l’indennità di esproprio. Inoltre non si può pretendere che il contribuente regoli i propri
comportamenti su presunte scelte future (ed in quanto tali imprevedibili) del legislatore, come vorrebbe
invece il criterio della prevedibilità.
In altri ordinamenti la retroattività è valutata sotto il più ben incisivo profilo della tutela dell’affidamento
nella certezza del diritto.
Tale principio trova un importante riferimento sia nel diritto europeo che nella giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo.
- Quanto al diritto europeo, la Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che i principi di certezza
del diritto e di tutela del legittimo affidamento costituiscono principi generali dell’ordinamento
giuridico europeo, e ciò implica l’obbligo del rispetto di tali principi da parte delle istituzioni europee
e degli stati membri.
- Quanto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, essa ha affermato che seppur in astratto al potere
legislativo sia possibile regolare la materia civile con norme a portata retroattività, in realtà il principio
della prevalenza del diritto e la nozione del processo equo si oppongono a tale possibilità, salvo motivi
di interesse generale.
Sono principi fatti propri dalla Corte Costituzionale che si è riservata di valutare se un intervento del
legislatore con efficacia retroattiva sia giustificato da motivi di interesse generale.
L’art. 1 dello Statuto stabilisce che le disposizioni dello stesso possono essere derogate solo se
espressamente previsto e mai da leggi speciali poiché:
1. Sono espressive di principi costituzionali. (ma non possono fungere da parametro di costituzionalità)
2. Hanno natura di principi generali dell’ordinamento
2) Norme procedimentali sono quelle che regolano la fase attuativa dinamica dell’attuazione del tributo.
In presenza di norme procedimentali, vige il principio “tempus regit actum”, ossia si applica il
regime normativo in vigore nel momento in cui viene compiuto quel determinato atto o attività
(principio opposto a quello delle norme sanzionatorie).
3) Norme processuali sono quelle che regolano il contenzioso dinanzi ai giudici tributari.
2- L’argomento letterale.
Il profilo “testuale” dell’interpretazione è stato rivalutato nel corso degli anni, come testimonia lo
Tuttavia in tali fattispecie, la Corte ha precisato che la fonte del principio antiabuso va rinvenuta negli stessi
principi costituzionali. Però ha precisato che:
- Il Fisco deve verificare l’esistenza di un vantaggio fiscale che costituisca lo scopo predominante ed
assorbente dell’operazione posta in essere;
- Il Fisco deve inoltre provare il disegno elusivo e le modalità di alterazione degli schemi negoziali
classici
- Il contribuente deve allegare l’esistenza di valide ragioni economiche alternative di reale spessore che
giustifichino operazioni così strutturate.
L’amministrazione finanziaria è quindi tenuta ad una prova rigorosa.
4- L’argomento sistematico.
Ad un primo livello si pone il profilo sistematico-testuale, quale idea che gli enunciati contenuti nei testi
legislativi siano in relazione l’uno con l’altro, compongano un testo, in modo conforme ad una concezione
della legge come “norme espresse dal voto”
Ad un secondo livello si pone il profilo sistematico-concettuale relativo all’utilizzo in fase decisoria delle
teorie dogmatiche degli istituti giuridici. Esiste un sistema dei concetti nello studio del diritto tributario-
Ad un terzo livello il profilo del sistema-principi, ossia la conformità delle norme ai principi del diritto,
dove occorre verificare se e quali direttive possano derivare dall’interprete medesimo.
In merito agli interessi, vi è da un lato l’interesse del Fisco e più specificamente l’interesse alla riscossione
dei tributi, di importanza vitale per il corretto funzionamento dello stato. Dall’altro l’interesse del
contribuente ad essere tassato secondo legge, ossia che la prestazione sia imposta attraverso un
procedimento predeterminato e che essa sia collegata ad un presupposto economico.
- Esenzioni: le norme di esenzione sono invece le vere e proprie norme di agevolazione in senso stretto,
in assenza delle quali la fattispecie che ne forma oggetto rientrerebbe a pieno titolo nel presupposto
del tributo. Tali norme assumono natura derogatoria.
Il problema dell’interpretazione analogica delle norme di agevolazione ruota da sempre sulla natura
eccezionale che ad essa si è intesa attribuire.
L’art. 14 Preleggi vieterebbe per le norme eccezionali l’analogia e non anche l’interpretazione estensiva. Dal
noto brocardo latino singularia non sunt extendenda: in presenza di norme eccezionali, prevale l’argomento
a contrario su quello analogico.
Ciò non toglie la necessità di valutare caso per caso, ai fini dell’integrazione analogica, la rispondenza delle
norme di agevolazione a determinati principi, dai quali estrapolare la ratio, quella ragion sufficiente che ne
consenta l’applicazione a fattispecie simili a quelle direttamente regolate.
1-L’efficacia della norma tributaria nello spazio e la territorialità c.d. “in senso formale” ed “in senso
materiale”.
Il tema implica 3 ordini di problemi: a) determinazione dello spazio nel quale la legge esplica in generale la
propria efficacia, b) territorialità in senso formale, c) territorialità in senso materiale.
a) La legge tributaria esplica la propria efficacia in tutto il territorio (inteso in senso politico) dello Stato.
Può accadere che certe parti del territorio siano escluse dalla nozione di territorio doganale o di
territorio ai fini dell’IVA. Oppure può accadere che l’ambito di applicazione di alcune norme sia
limitato a porzioni del territorio (come avviene per i tributi locali).
b)Con l’espressione territorialità in senso formale (anche detta territorialità della potestà
amministrativa d’imposizione) si fa riferimento all’esigenza che l’attività amministrativa di attuazione
del tributo si confronti con i limiti di diritto internazionale che presiedono all’esercizio di poteri
pubblici. L’attuazione di un tributo può comportare attività di tipo istruttorio (accesso, verifica e
ispezione) nel territorio di un altro stato. Ma esiste un principio di non collaborazione tra Stati , nel
senso che altri Stati potrebbero legittimamente sottrarsi alla realizzazione sul proprio territorio dei
crediti tributari di Stati esteri.
Il tema ha avuto un impulso con l’emanazione nel 1988 dell’OCSE (Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico) del c.d. “codice di condotta” in esito al lavoro sulla lotta ai
paradisi fiscali (tax heavens) e ai regimi fiscali “preferenziali dannosi”. Mentre inizialmente i paradisi
fiscali furono ritenuti quelli con livello di imposizione nullo o irrilevante, nel 2001 fu introdotta una
nuova concezione basata sul grado di cooperazione dello Stato nei confronti delle Amministrazioni
degli altri Stati e sul grado di trasparenza dei regimi fiscali, al fine di ottenere l’impegno ad
assicurare la massima trasparenza e un effettivo scambio di informazioni.
Per l’OCSE lo scambio può considerarsi effettivo se si verificano 3 circostanze:
1) Disponibilità dell’informazione, ossia quando è possibile identificare i proprietari di società o
comunque i soggetti coinvolti in altri enti.
2) Appropriato accesso all’informazione che si ha quando le autorità fiscali dello Stato richiesto
dispongono di mezzi adeguati per reperirle e fornirle allo Stato richiedente.
3) Esistenza di un meccanismo di scambio di informazioni che si verifica quando lo scambio è
effettuato su richiesta, laddove le informazioni siano ragionevolmente rilevanti per lo stato
c) Con la territorialità in senso materiale ci si riferisce alla determinazione dell’ambito spaziale del
presupposto di imposta in sede di creazione della norma impositiva.
Anche qui vi è un quadro ricostruttivo disomogeneo, ora ritenendosi inesistente qualsiasi limite di
diritto internazionale alla potestà impositiva tributaria, ora sostenendosi la necessità della sussistenza
nella norma impositrice pur sempre di un criterio di collegamento effettivo di tipo soggettivo o
oggettivo.
Trattandosi del principio di capacità contributiva, si è visto che con riferimento al nostro ordinamento,
il fondamento del principio di “territorialità” debba rinvenirsi nell’uso del pronome “tutti” di cui
all’art. 53 Cost. e nel collegamento con l’art. 2 Cost., nel senso che sono tenuti a concorrere alla
spesa pubblica tutti e solo coloro in capo ai quali è rinvenibile un dovere solidaristico per essere in
qualche modo parte della collettività chiamata a contribuire. Ne deriva che un tributo che dovesse
assumere a presupposto un fatto che sia privo di qualsiasi collegamento con il nostro territorio
risulterebbe, prima ancora che in violazione del diritto internazionale, in violazione dell’art. 53 Cost.
Siamo in presenza, in questi casi, di ipotesi di doppia imposizione giuridica, nel senso che è lo stesso
reddito in capo al medesimo soggetto a formare oggetto di un doppio prelievo.
Possono aversi ipotesi di doppia imposizione economica, quando la medesima imposizione coinvolge lo
stesso reddito in senso economico ma in capo a soggetti diversi.
Riguardo al profilo della doppia imposizione internazionale di tipo giuridico, esistono meccanismi per la
relativa eliminazione, che possono essere:
- unilaterali (se previsti da ordinamenti interni): si applicano ai conflitti residenza/fonte, e possono
essere di due tipi: esclusione (o esenzione) dall’imponibile interno dei fatti extraterritoriali tassati
all’estero, oppure il credito d’imposta per le imposte pagate all’estero.
- oppure bilaterali o multilaterali (se previsti da convenzioni):
Il nostro ordinamento utilizza quale sistema unilaterale contro la doppia imposizione giuridica
internazionale il c.d. “credito per le imposte pagate all’estero”, in quanto conforme ad un sistema che si
propone di realizzare la personalità e la progressività dell’imposizione sui redditi e indifferente la circostanza
che il reddito sia stato prodotto in Italia o anche (o addirittura esclusivamente) all’estero.
Gli ordinamenti interni non possono invece risolvere il conflitto residenza/residenza perché se due Stati
considerano allo stesso tempo un soggetto fiscalmente residente nei rispettivi territori, nessuno dei due ha
l’obbligo di rinunciare in via unilaterale alla propria residenza fiscale.
Gli strumenti utilizzati per la risoluzione di queste problematiche di doppia imposizione sono le convenzioni
internazionali in materia di imposte sul reddito o sul patrimonio, ossia trattati che consentono di ripartire
la potestà impositiva tra lo Stato della residenza e lo Stato della fonte. Tali trattati hanno le seguenti norme:
- articoli che definiscono l’ambito di applicazione soggettivo, oggettivo o territoriale
- norme di definizione (imposte sul reddito, sul capitale, traffico internazionale, autorità competente,
residente di uno stato contraente, stabile organizzazione)
- norme che ripartiscono il potere impositivo tra gli Stati (norme di ripartizione). Le convenzioni
possono alternativamente: a) assegnare il diritto di imposizione al solo stato di residenza b) al solo
stato della fonte c) prevedere un diritto di tassazione concorrente tra lo stato della fonte e Stato della
residenza.
- C.d. norme bilaterali contro la doppia imposizione
- A) Norme sulla procedura amichevole, strumento di carattere internazionale finalizzato a risolvere i
conflitti che derivano dall’interpretazione o dall’applicazione della convenzione B) principio di non
discriminazione C) norme volte ad attuare il principio alla potestà amministrativa d’imposizione.
Art. 97 Cost.
“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buono
andamento e l’imparzialità della amministrazione”.
L’art. 97 della Costituzione impone che l’attività di accertamento e di riscossione delle imposte sia
improntata a criteri di: legalità, efficienza, trasparenza, non discriminazione.
La finanza locale ed il riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni in materia fiscale: (Art. 117,
secondo comma, Cost.)
“Lo Stato ha competenza esclusiva nelle seguenti materie […]”
Art. 116 Cost.: “il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sudtirol e la Valle
d’Aosta/Vallee d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi
statuti speciali adottati con legge costituzionale. La Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol è costituita dalle
Province Autonome di Trento e di Bolzano”.
LE FONTI INTERNE DEL DIRITTO TRIBUTARIO (TESAURO scelto per MAGGIORE SEMPLICITÀ
DATO L’ARGOMENTO NON TROPPO COMPLESSO E CHE NON RICHIEDE UN NECESSARIO
APPROFONDIMENTO)
1. La riserva di legge
L’art. 23 Cost. dispone che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base
alla legge. Riservando al Parlamento il potere di disporre in materia di entrate, l’art. 23 Cost. riproduce un
principio classico delle democrazie liberali (no taxation without representation). Al principio espresso
nell’art. 23 Cost. la dottrina tradizionale e la giurisprudenza costituzionale attribuiscono la funzione di
tutelare la libertà e la proprietà dei singoli nei confronti del potere esecutivo. Ma la riserva di legge, oltre che
garanzia per i singoli, è espressione di democrazia.
I problemi esegetici (interpretativi) posti dall’art. 23 sono essenzialmente tre: nozione di legge; nozione di
base legislativa; nozione di prestazione imposta. A) Il termine legge è assunto nell’art. 23 Cost. per indicare
non soltanto la legge statale ordinaria ma anche gli atti aventi forza di legge e cioè i decreti-legge e i decreti
legislativi. Anche le leggi regionali (e provinciali per Trento e Bolzano) soddisfano il precetto dell’art. 23
Cost. La riserva di legge non impedisce che in materia tributaria possano esservi fonti comunitarie. Il
problema di conciliare le norme comunitarie in materia tributaria con la riserva di legge nazionale posta
dall’art. 23 riguarda in particolare i regolamenti comunitari che sono direttamente applicabili. La Corte
costituzionale ha affermato che, con l’adesione al trattato CE, l’Italia ha operato una limitazione della
propria sovranità pienamente legittimata dall’art. 11 Cost. il che comporta una deroga alle norme
costituzionali sia in materia di potestà legislativa che in materia di riserva di legge.
B) Le riserve di legge sono assolute se la disciplina di una determinata materia è rimessa solamente alla
legge; sono invece relative se la legge può limitarsi a disciplinare le linee fondamentali della materia,
rimettendone il completamento a norme di rango non legislativo. La riserva dell’art. 23Cost. è una riserva
relativa. È richiesta infatti soltanto una base legislativa. Ciò significa che non è necessario che la prestazione
2.2 I decreti-legge.
La funzione legislativa spetta la Parlamento ma il Governo può emanare decreti con forza di legge, ossia
decreti-legge e decreti legislativi. I decreti-legge sono provvedimenti provvisori con forza di legge che
possono essere adottati dal Governo in casi straordinari di necessità ed urgenza. I decreti legge hanno
2. Addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali; le regioni, con propria legge, possono introdurre
variazioni percentuali delle aliquote delle addizionali e possono disporre detrazioni entro i limiti fissati dalla
legislazione statale;
3. Tributi propri istituti dalle regioni con proprie leggi in relazione a presupposti non assoggettati ad
imposizione erariale.
6. Le convenzioni internazionali
L’art. 117 Cost. subordina la potestà legislativa statale e regionale al vincolo derivanti dagli obblighi
internazionali; pertanto è incostituzionale la norma di legge che si pone in contrasto con norme di
convenzioni internazionali. Le convenzioni internazionali in materia tributaria riguardano i dazi e la doppia
imposizione dei redditi, dei patrimoni e delle successioni. Le convenzioni internazionali in materia tributaria
riguardano, inoltre, la collaborazione tra autorità fiscali di Stati diversi, la lotta all’evasione e all’elusione
fiscale internazionale ecc. Di regola le norme delle convenzioni in quanto norme speciali prevalgono sulle
norme interne. Peraltro, nei casi in cui la norma interna è più favorevole di quella del trattato, si applica la
norma interna.
Lo Statuto del Contribuente non è una legge costituzionale, in guisa che le sue disposizioni non
costituiscono un parametro per valutare la legittimità delle altre leggi (cfr. Corte Cost., sent. n. 58 del
Tuttavia, esso si propone il fine di dare attuazione, nell’ambito del diritto tributario, ai principi costituzionali
contenuti negli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. (art. 1, comma 1).
Esso stabilisce dunque i principi generali della materia, ai quali sono tenuti ad uniformarsi, il legislatore,
l’interprete, l’Amministrazione finanziaria e il contribuente.
Lo Statuto del Contribuente cristallizza i fondamentali principi direttivi per il legislatore, per l’interprete, per
l’amministrazione, per il contribuente e per un equilibrato rapporto tra contribuente e amministrazione.
N.B.: Le regole per il legislatore, non essendo “costituzionalizzate”, possono essere derogate (e sono di fatto
frequentemente derogate) da leggi successive.
Lo Statuto del Contribuente si propone la finalità di tradurre nell’ambito del diritto tributario i principi
generali dell’azione amministrativa stabiliti dalla l. 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.
e) Obbligo di motivazione
«Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della
legge 7 agosto 1990, n. 241»… Gli atti richiamati nel provvedimento devono essere ad esso allegati, salvo
che non siano già conosciuti dal contribuente o non ne riproducano il contenuto essenziale.
APPUNTI: l’obbligo di motivazione è espressione del principio di trasparenza dell’azione amministrativa.
Tale principio si ricollega a quello stabilito dell’art. 3 l. 241/1990. Tale obbligo comprende l’obbligo di
allegare agli atti impositivo dell’amministrazione, gli atti richiamati che non siano già conosciuti dal
contribuente. Se manca una motivazione chiara, l’accertamento manca dei requisiti essenziali per il
raggiungimento del proprio scopo.
L’obbligo di motivazione coincide con il generale obbligo di motivazione dell’art. 3 della l. 241/1990 oppure
ha caratteristiche particolari?
Ci sono due scuole di pensiero:
1) Secondo una prima scuola di pensiero si tratta dello stesso obbligo generale del provvedimento
amministrativo, per cui l’atto finisce per essere viziato, la motivazione deve ritenersi viziato e quindi
l’atto nullo per mancanza degli elementi essenziali, nel caso in cui la motivazione sia affetta da vizi
di illogicità, contraddittorietà, insufficienza ecc.
2) Secondo un altro indirizzo di pensiero, dobbiamo tener presente che siamo in presenza di un
rapporto di natura tributaria, diverso dal rapporto generale di diritto amministrativo. Nell’ambito del
diritto amm. ci troviamo in presenza di un provvedimento di natura discrezionale, dove
l’amministrazione deve motivare le ragioni della propria scelta, nel campo del diritto tributario
invece siamo in presenza di rapporti disciplinati per legge. Si compie quindi un atto dovuto per la
regolamentazione di un rapporto disciplinato interamente in base alla legge. La giurisprudenza. della
Cassazione afferma quindi che la motivazione serve al contribuente per conoscere le ragioni
finalizzate ad esercitare il proprio diritto di difesa nelle sede competenti giurisdizionali.
c) Il diritto all’interpello
«Ciascun contribuente può inoltrare per iscritto all’amministrazione, che risponde entro centoventi giorni,
circostanziate e specifiche istanze di interpello …
La risposta dell’amministrazione finanziaria … vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto
dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente …» (Art. 11)
APPUNTI: Processo verbale di imposizione: non può dare corso all'attività di accertamento e notificare il
provvedimento con il quale determinato il maggiore tributo dovuto se non è decorso il termine di 60 giorni.
Tali 60 giorni serve al contribuente per intervenire con l’Amministrazione. Se il termine non viene
rispettato, secondo la Cassazione a SS. UU., tutta l'attività di verifica e accertamento è nulla. Il sistema
tributario si basa su un sistema di decadenza.
L’art. 10, primo comma, della l. 212/00 (Statuto del Contribuente) dispone che “i rapporti tra
contribuente e amministrazione finanziaria (FISCO) sono improntati al principio della collaborazione e
della buona fede”
Per il principio di buona fede, il diritto tributario deve superare e ripudiare tutti i comportamenti
formalistici e cavillosi, astuti e fraudolenti che spesso caratterizzano la prassi.
Il principio di “buona fede” – che introduce nel diritto tributario la regola fondamentale dei rapporti
giuridici privati elaborata dal diritto romano e dal diritto civile (principio di bona fides) – costituisce il
motivo ispiratore dello Statuto del contribuente e dell’intero sistema fiscale. Il principio di buona fede vale:
- nella fase costitutiva del rapporto (le parti devono comportarsi secondo buona fede);
- nella fase esecutiva (le obbligazioni devono essere eseguiti secondo buona fede);
- nella fase interpretativa (gli atti devono essere interpretati in modo da realizzare un
contemperamento di interessi conforme a buona fede).
Principio di collaborazione
È espresso dagli obblighi dell’amministrazione di informare il contribuente su fatti e circostanze cui possano
derivare dei crediti ecc.
Il principio di collaborazione si può vedere anche dal punto di vista del contribuente. Una forma di
applicazione è rappresentato dal “sostituto d’imposta”, cioè quelle ipotesi in cui determinati soggetti siano
obbligati di adempiere ad obblighi fiscali di un altro contribuente, in sostituzione ad esso.
Sezione Terza: Principi Comunitari (APPROFONDITO con aggiunta di parti del TESAURO)
Le norme fiscali del Trattato
Il legislatore fiscale è vincolato anche dal diritto comunitario: dalle norme del trattato istitutivo della
Comunità europea e dalle norme di diritto derivato. Il trattato non prevede che la comunità abbia competenza
generale in materia tributaria e che abbia un proprio sistema di imposte. Le norme del trattato che hanno
contenuto o rilevanza tributaria non sono dunque rivolte a procurare entrate ma ad assicurare che il mercato
comune abbia le caratteristiche di un mercato interno e che in esso vi sia un regime di libera concorrenza.
In funzione dunque del mercato comune l’art. 3 stabilisce il divieto tra gli stati membri dei dazi doganali e
delle restrizioni quantitative all’entrata e all’uscita delle merci e di ogni ostacolo alla libera circolazione di
merci, persone, servizi e capitali. Nell’ambito del sistema normativo diretto a garantire la libera concorrenza,
troviamo disposizioni che vietano agli Stati: a) di concedere alle imprese aiuti che possano falsare la
concorrenza, come le agevolazioni fiscali; b) di tassare le merci provenienti dai paesi comunitari in misura
maggiore rispetto ai prodotti interni; c) di concedere ai prodotti esportati ristorni di imposizioni interne
superiori alle imposizioni effettivamente applicate.
L’art. 93 infine attribuisce al Consiglio il potere di armonizzare le legislazioni degli stati membri in materia
di imposte indirette. Le deliberazioni devono essere adottate all’unanimità su proposta della commissione e
dopo aver sentito il parlamento europeo ed il comitato economico e sociale. Tale disposizione ha lo scopo di
eliminare le disparità dei regimi fiscali nazionali ma solo nella misura in cui ciò è necessario per assicurare
l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed un regime di libera concorrenza non alterato da
distorsioni fiscali. L’armonizzazione non riguarda tutte le imposte, ma solo le imposte sulla cifra d’affari, le
imposte sui consumi ed altre imposte indirette.
Per le imposte dirette, non è espressamente prevista l’armonizzazione delle legislazioni nazionali. Si è però
ritenuto che l’UE possa agire anche in tale settore, in base alla norma generale in tema di ravvicinamento
La libertà di stabilimento
A) Ai sensi dell’art. 43 del Trattato la libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività non salariate e al
loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’art. 48,
alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini fatte
salve le disposizioni del capo relativo ai capitali. L’art. 48 del Trattato prevede inoltre che le società
costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro (e con sede sociale, amministrazione o
centro di attività principale nell’UE) siano equiparate alle persone fisiche aventi la cittadinanza di quello
Stato.
La libertà di stabilimento presenta due aspetti: essa comporta da un lato il diritto di esercitare un’attività
Rule of reason
A)Non ogni disparità di trattamento fondata sulla nazionalità (o su criteri equivalenti) è incompatibile con le
libertà fondamentali sancite dal Trattato. Possono darsi, dunque, deroghe al divieto di non discriminazione.
In particolare, si tratta dei motivi elencati dagli artt. 30 e 58 del Trattato, i quali riconoscono agli Stati
membri la facoltà di introdurre restrizioni, rispettivamente alla libera circolazione delle merci e dei capitali a
tutela dell’ordinamento pubblico, della moralità e della salute pubblica, nonché, per ciò che concerne la sola
circolazione dei capitali, per impedire la violazione delle leggi fiscali.
In materia di libertà di stabilimento, l’art.46 fa salve le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative che prevedano un regime particolare per i cittadini stranieri e che siano giustificate da motivi
di ordine pubblico, di sicurezza pubblica e di sanità pubblica. Come abbiamo visto, l’art. 58 consente
differenze di trattamento in materia di tassazione dei redditi da capitale tra contribuenti residenti e non.
B)A parte le deroghe al principio di non discriminazione, espressamente consentite da norme del Trattato, la
Corte di giustizia ha elaborato altre causa di giustificazione comunemente denominate rule of reason. La
Corte ha riconosciuto che sono “rule of reason”: l’esigenza di contrastare l’elusione fiscale; l’esigenza di
preservare l’efficacia dei controlli fiscali; il principio di coerenza dell’ordinamento fiscale nazionale.
C) L’esigenza di preservare la coerenza del proprio sistema fiscale è la motivazione con cui la Corte ha
giustificato la non deducibilità dei premi di assicurazione versati a compagnie assicuratrici non residenti.
Quando i premi sono versati a compagnie residenti, la deduzione dei premi operata dall’assicurato è
controbilanciata dalla tassazione del capitale, mentre ciò non avviene nell’ipotesi di impresa di assicurazione
non residente. In sostanza, per la Corte, il trattamento dei contributi deve essere coerente con quello delle
pensioni: se i contributi non sono deducibili , la pensione può essere tassata.
Le tappe fondamentali di questo processo di integrazione sono rappresentate dai Trattati di Roma, di
Maastricht e di Lisbona.
Le sue fasi sono costituite dalla realizzazione:
L’integrazione dei sistemi economici richiede e determina un processo di armonizzazione dei sistemi
legislativi degli Stati.
Il diritto tributario è particolarmente sensibile a questo processo di armonizzazione degli ordinamenti
giuridici degli Stati, perché il sistema della tassazione incide in maniera significativa sulle attività produttive
e commerciali, che costituiscono oggetto del processo di globalizzazione.
Per garantire un mercato effettivamente concorrenziale, fondato sul libero gioco della domanda e
dell’offerta, occorre eliminare – per quanto possibile – ogni restrizione che possa derivare da sistemi
impositivi che favoriscano od ostacolino la loro allocazione sul mercato non in ragione della loro qualità e
dei loro costi di produzione, ma in conseguenza del livello degli oneri fiscali gravanti su di essi.
La formazione di un mercato europeo di libero scambio richiede perciò un intenso processo di
armonizzazione delle legislazioni fiscali degli Stati membri.
In particolare, l’art. 288 TFUE, stabilisce su un piano generale che “per esercitare le competenze
dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri”, delineando
così le varie fonti del diritto europeo.
Non costituiscono invece fonti normative le raccomandazioni e i pareri, dato il loro carattere non vincolante.
1. Introduzione
Esaminando il principio di riserva di legge, abbiamo evidenziato come debbano essere individuati i
soggetti passivi, intesi come coloro cui è riferibile il presupposto. Per “soggetti passivi” devono essere intesi
non i soggetti in senso stretto, quindi i titolari dell’indice di capacità contributiva, ma anche quei soggetti che
pur non avendo realizzato il presupposto formano oggetto di un obbligo di natura patrimoniale. Ci si riferisce
alla figura del sostituto d’imposta, ossia colui che in luogo di altri è tenuto al pagamento del tributo, oppure
alla figura del responsabile d’imposta, ossia colui che è coinvolto a titolo di solidarietà passiva dipendente
nel pagamento di un tributo per un fatto riferibile al titolare dell’indice di capacità contributiva.
In secondo luogo, l’art. 53 Cost. evidenzia un nesso diretto tra capacità contributiva e soggetto obbligato (“in
ragione della ‘loro’ capacitò contributiva”) sicché la capacità contributiva deve riguardare il singolo
contribuente. Da qui l’illegittimità costituzionale del cumulo familiare dei redditi ad esempio.
Poi inoltre il legislatore può ampliare la sfera dei soggetti passivi ed imporre il prelievo anche a soggetti
diversi da coloro cui è riferibile l’indice di forza economica, ma che quest’ultimo deve avere la sicura
possibilità di far ricadere l’onere economico sulla persona che realizza il fatto che manifesta la capacità
contributiva (c.d. “diritto di rivalsa”). Vi è dunque un concetto di soggetto passivo più ampio di quello inteso
come titolare della capacità contributiva, ma in ogni caso deve essere ad egli consentito di far ricadere il
carico finale del tributo su colui che di tale capacità contributiva è titolare.
L’art. 8, co. 2, dello Statuto dei diritti del contribuente ammette in materia tributaria l’accollo e quindi la
traslazione del tributo da un soggetto ad un altro purché non si liberi dalla prestazione l’originario
debitore.
B) Nelle ipotesi di ritenuta a titolo di imposta con rivalsa obbligatoria si possono avere i casi:
• il sostituto effettua la ritenuta ma non la versa: il sostituto rischia la sanzione per omesso
versamento ex art. 13, d.lgs. 471/1997
• il sostituto non effettua la ritenuta, ma ciononostante la versa: il sostituto non subisce
sanzioni, ma può recuperare in via di regresso l’importo della ritenuta in capo al sostituito.
• Il sostituto non effettua e non versa la ritenuta: l’art. 35 d.p.r. 602/1973 prevede che il
sostituito sia obbligato in solido nel caso di iscrizione a ruolo del sostituto per le imposte, gli
interessi e le sanzioni relativi ai redditi sui quali esso non ha operato e versato le ritenute. Potrà
anche intervenire nel procedimento instaurato nei confronti del sostituto.
D) Ultima ipotesi: il sostituto effettua la ritenuta ma questa è contestata dal sostituito non ritenendo
costui che la somma erogata abbia natura di reddito imponibile. In tal caso spetta al giudice ordinario
(Cassazione a SS. UU. 14309/2013) la giurisdizione, posto che si tratta di diritto esercitato dal
sostituto verso il sostituito nell’ambito di un rapporto privatistico.
Il diritto tributario è una disciplina che si avvale della collaborazione di altre discipline, come il diritto civile
e amministrativo, utilizzandone istituti e schemi.
In sostanza quindi, il tributo viene definito come un’obbligazione avente ad oggetto una prestazione di
regola pecuniaria, a titolo definitivo o a fondo perduto, nascente dalla legge, al verificarsi di un presupposto
di fatto che non ha natura di illecito.
Il “rapporto giuridico di imposta” può essere definito come un rapporto obbligatorio di diritto pubblico a
carattere patrimoniale disciplinato interamente in base alla legge.
Il rapporto giuridico di imposta può essere dunque inquadrato nell’ambito della categoria generale delle
obbligazioni disciplinata dal codice civile. (che include tra le fonti dell’obbligazione “ogni atto o fatto
idoneo a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico”: art. 1173 c.c.)
Ai sensi dell’art. 1174 c.c.: “La natura pubblicistica del rapporto giustifica anche la speciale tutela penale
che assiste le varie fasi del suo svolgimento”.
Ai sensi dell’art. 8, l. 212/200, “l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”.
Un’ulteriore modalità di estinzione dell’obbligazione tributaria consiste nella confusione, anche se l’unica
ipotesi prospettabile in materia tributaria è quella dell’ente impositore cui sia devoluta l’eredita’ del
contribuente debitore e nelle normative di condono fiscale, con le quali viene consentito al contribuente di
definire in via agevolata l’obbligazione con il pagamento di una somma ridotta.
L’obbligazione tributaria può altresì estinguersi per intervenuta decadenza dell’azione amministrativa di
accertamento o liquidazione, cioè per il mancato esercizio di tipici poteri amministrativi; oppure per
prescrizione del credito ormai liquido ed esigibile, ma non azionato esecutivamente nei termini di legge.
Quanto alla prima, infatti, la legge disciplina i termini di decadenza dell’azione di accertamento, diversi
da imposta ad imposta. I termini di decadenza operano tuttavia anche a sfavore del contribuente, ad esempio
in relazione al potere di chiedere il rimborso dell’imposta.
Quanto alla seconda, una volta che il credito sia divenuto liquido ed esigibile, decorre il termine di
relativa prescrizione, che si ritiene essere quello decennale previsto dalla disciplina codicistica ex art. 2946
c.c.
Si distinguono:
• i c.d. tributi senza accertamento: ovvero quelli nei quali è assente la fase di accertamento in quanto il
concretarsi della fattispecie astratta prevista dalla norma impositiva determina direttamente la necessita’
di eseguire la prestazione da parte del soggetto passivo e in quanto all’esecuzione della prestazione segue
poi il controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria circa l’esatto adempimento dell’obbligazione
imposta.
• i c.d. tributi con accertamento: ovvero quelli nei quali è presente una fase di accertamento
Le regole dei procedimenti tributari non sono racchiuse in un testo organico ma in più testi. Valgono
innanzitutto, sia pure con alcune limitazioni, i principi e le regole dettate in generale per i procedimenti
amministrativi dalla legge 241/90. In secondo luogo si applicano le norme dello statuto dei diritti del
contribuente, approvato con l. 212/2000. In terzo luogo, regole procedimentali sono contenute in specifici
testi normativi, come il d.p.r. 600/73 in tema di accertamento delle imposte sui redditi; il d.p.r. 633/72 in
tema di accertamento dell’IVA; il d.p.r. 602/73 in tema di riscossione; il d.lgs. 472/97 in materia di sanzioni.
Il contribuente deve adempiere a degli obblighi (dichiarare e versare); il fisco deve controllare e, se del caso,
esercitare i suoi poteri autoritativi. La trama dei rapporti tra fisco e contribuente è però molto più ricca.
Secondo l’immagine tradizionale l’AF agisce come autrice di atti unilaterali. A partire dagli anni ‘90, questa
immagine è mutata, principalmente per effetto della legge sui procedimenti amministrativi, dello Statuto del
contribuente, di altri specifici interventi normativi e della istituzione delle agenzie fiscali.
La legge 241/90, in tema di procedimenti amministrativi, non ha soltanto modificato alcune tradizioni regole
di comportamento delle pubbliche amministrazioni, ma ha altresì profondamente inciso sulla complessiva
disciplina dei rapporti stato-cittadini e fisco-contribuenti. All’interno di questo profondo mutamento si
collocano i nuovi istituti tra i quali l’interpello, l’accertamento con adesione, la conciliazione e l’autotutela.
La legge 241/90 realizza i principi di imparzialità e buon andamento contenuti nell’art. 97 Cost. L’art. 1 di
tale legge indica, come principi generali dell’azione amministrativa, i principi di economicità, efficacia,
pubblicità e trasparenza, richiamando inoltre i principi dell’ordinamento comunitario. L’economicità impone
alla pubblica amministrazione il dovere di fare adeguato uso delle risorse a sua disposizione; l’efficacia
impone un’azione idonea al conseguimento del risultato. Anche le agenzie fiscali devono operare nel rispetto
di tali principi, i quali esigono la realizzazione del massimo risultato con il minor dispendio di risorse.
Trasparenza significa accessibilità agli atti e ai documenti del procedimento; non ha però rilievo in materia
fiscale, perché ai procedimenti tributari non si applicano né le norme sull’accesso né le norme sull’avvio del
procedimento e sulla partecipazione. Tra i principi dell’ordinamento comunitario che possono interessare
l’azione delle agenzie fiscali, sono da ricordare il principio di imparzialità, il principio di partecipazione,
l’obbligo di motivazione, il principio del contraddittorio, la risarcibilità dei danni prodotti
dall’amministrazione, il termine ragionevole nel quale le pubbliche amministrazioni debbono pronunciarsi, il
principio di proporzionalità, il principio di legittima aspettativa.
B) Nel diritto amministrativo generale, i procedimenti sono disciplinati dalla legge 241/90 (legge generale
sui procedimenti amministrativi). Vi sono però differenze non lievi tra disciplina dei procedimenti
amministrativi e disciplina dei procedimenti tributari. Della legge generale sui procedimenti amministrativi
2. La dichiarazione costituisce la base per l’autoliquidazione del tributo ad opera del contribuente. Si
considera quindi “omessa” non solo quando la sua dichiarazione manchi del tutto, ma anche nel caso
in cui essa sia presentata oltre i 90 giorni dalla scadenza del termine utile. La dichiarazione è invece
affetta da nullità allorché essa non rechi la sottoscrizione del contribuente ovvero di colui che ne ha
la rappresentanza legale o negoziale, nonché ove essa non sia redatta su modelli conformi a quelli
approvati e resi disponibili dall’Amministrazione finanziaria (art. 1, d.p.r.322/1998). La
dichiarazione presentata oltre i 90 giorni pur considerandosi omessa ai fini della successiva fase di
accertamento, costituisce titolo per l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle somme dovute.
3. La fase successiva alla presentazione della dichiarazione riguarda la sua liquidazione ed il suo
controllo di carattere formale; attività queste che, avendo ad oggetto la dichiarazione del
contribuente, non possono naturalmente essere svolte qualora questi ne abbia, legittimamente o
illegittimamente, omesso la presentazione. La liquidazione è prevista per le imposte sui redditi ed è
finalizzata a correggere esclusivamente gli errori materiali e di calcolo riguardanti i versamenti delle
imposte, la determinazione degli imponibili e comunque gli errori rilevabili direttamente dalla
dichiarazione. Tale attività di liquidazione ha carattere generalizzato, non richiede lo svolgimento di
alcuna attività di ricerca di informazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria (fondandosi
esclusivamente sulle risultanze della dichiarazione o su dati già a disposizione della stessa
Amministrazione) e non prevede l’instaurazione di un contraddittorio con il contribuente, essendo
disposta solo una comunicazione dell’esito del controllo. Qualora dalla liquidazione della
dichiarazione emerga un’imposta o una maggiore imposta dovuta, si evidenzia un collegamento
immediato e diretto tra la fase in discorso e quella della riscossione, atteso che l’Amministrazione
procede, successivamente alla menzionata comunicazione, all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo
delle somme dovute. Del pari, qualora emerga una posizione di credito del contribuente, si procede
al rimborso del quantum non dovuto dal contribuente.
4. La quarta fase riguarda i c.d. controlli sostanziali, rivolti non già ad una mera correzione di errori
materiali o di calcoli commessi dal contribuente in sede di redazione della dichiarazione, quanto alla
negazione dell’intrinseca veridicità dei fatti esposti nella dichiarazione. Si tratta quindi della fase di
accertamento “in senso stretto” avente ad oggetto l’individuazione del presupposto di fatto posto
in essere dal contribuente e che si compone di un complesso di atti e fatti, legati in procedimento.
Potere di iniziativa del procedimento di accertamento spetta non solo agli organi
dell’Amministrazione finanziaria, ma anche alla Guardia di Finanza ex. art. 33 d.p.r. 600/1973. Si
tratta, dunque, di un procedimento ad iniziativa d’ufficio, non potendo ascrivere alla dichiarazione
una funzione di impulso procedimentale. La funzione dei controlli sostanziali, da individuarsi nella
determinazione dell’an e del quantum del presupposto del tributo, deve comunque essere
6. Alla fase della dichiarazione, dei controlli formali, dei controlli sostanziali e dell’avviso di
accertamento segue quella della riscossione, finalizzata a consentire all’Erario di incassare i tributi
dovuti dal contribuente. Si tratta di una fase che sottosta’ al principio di tipicità, nel senso che gli
obblighi di versamento in capo ai contribuenti e i poteri di riscossione, anche forzata, da parte
dell’Amministrazione finanziaria, seguono procedure ben precise, stabilite dalla legge. Essa può
avere natura spontanea o forzata (coattiva), nei casi in cui il contribuente non adempia
volontariamente alla propria obbligazione tributaria. L’atto tipico della fase della riscossione coattiva
è stato il “ruolo”. È un atto recettizio che costituisce titolo esecutivo., in quanto in base ad esso si
può immediatamente procedere alla riscossione coattiva. L’iscrizione a ruolo del contribuente si
distingue a seconda che sia “a titolo provvisorio” ovvero “a titolo definitivo”. Il ruolo, quale mero
elenco dei debitori delle imposte formato dall’Amministrazione finanziaria, non ha contenuto
individuale, nel senso che non è atto specificamente riferito al singolo contribuente debitore. A tal
fine assolve, invece, la cartella di pagamento il cui contenuto si risolve in un estratto a portata
individuale del ruolo dei debitori. A differenza del ruolo, la cartella di pagamento è atto non
dell’amministrazione finanziaria, bensì dell’Agente della Riscossione, il quale provvede a redigerla e
a notificarla al contribuente entro il termine di decadenza di cui all’art. 25, d.p.r 602/1973.
La netta separazione delle fasi di adozione dell’avviso di accertamento e di riscossione del quantum
dovuto è venuta ormai meno a partire dal 2011, a partire cioè dal momento di efficacia della riforma
stessa, che ha introdotto nel nostro ordinamento i c.d. “accertamenti esecutivi”, sia pur limitatamente
alle imposte sui redditi, all’IVA e all’IRAP. Tali modifiche hanno riguardato il contenuto
dell’avviso, prevedendo che esso debba contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il
termine di presentazione del ricorso (60 giorni dalla notifica) e all’obbligo di pagamento degli
importi nello stesso indicati. Mediante tali modifiche è stata eliminata la fase dell’iscrizione a
ruolo, per cui l’agente della riscossione, sulla base dell’avviso di accertamento e senza la
preventiva notifica della cartella di pagamento, può ora direttamente procedere ad espropriazione
forzata.
7. Al mancato adempimento entro il termine previsto (60 giorni dalla notifica) del debito recato dalla
cartella di pagamento ovvero dall’avviso di accertamento, fa seguito l’inizio dell’espropriazione
forzata, cui provvede l’agente della riscossione. Tale fase trova la propria disciplina generale nelle
regole processualcivilistiche applicabili per l’esecuzione forzata tra privati; sebbene, la differenza
principale della riscossione esattoriale rispetto all’ordinario processo di esecuzione è costituito dal
ruolo dell'autorità giudiziaria: mentre il privato è tenuto a rivolgersi a questa per il compimento
dei diversi atti in cui consiste l’espropriazione forzata, l’agente della riscossione, quale soggetto che
Esistono altresì delle ipotesi in cui l'obbligo di presentazione della dichiarazione è posta in capo a soggetti
che non sono contribuenti: così, il sostituto d'imposta deve presentare ogni anno dichiarazione in cui è tenuto
ad elencare tutti soggetti nei cui confronti operato quale sostituto, l'ammontare dei redditi corrisposti, la
ritenuta operata per versamenti effettuati.
A tal proposito, la dichiarazione, oltre a riportare gli estremi identificativi del contribuente e odi chi ne ha la
rappresentanza contiene di norma l'indicazione degli elementi attivi e passivi necessari secondo le norme
concernenti le singole imposte, Alla determinazione dell'imponibile dell'imposta.
La dichiarazione dei redditi contiene anche la liquidazione dell'imposta dovuta in base imponibile dichiarato
all'imponibile dichiarato: si tratta della cosiddetta autoliquidazione autotassazione.
La dichiarazione può altresì contenere dati e notizie non è immediatamente rilevanti per la determinazione
delle imposte, ma utili ai fini dell'attività di accertamento attraverso quello che viene comunemente definito
come monitoraggio fiscale.
.
È importante constatare come il legislatore tributario, in tempi recenti, al fine di semplificare gli
adempimenti e stimolare l’assolvimento degli obblighi tributari a favorire e favorire l'emersione spontanea di
basi imponibili, ha introdotto la cosiddetta dichiarazione precompilata.
Allora, la dichiarazione può contenere dati o notizie non immediatamente rilevanti per la determinazione
delle imposte ma utili ai fini dell'attività di accertamento aperta parentesi ad esempio l'obbligo di indicazione
di trasferimenti di denaro dati per l'estero e delle consistenze patrimoniali.
Con la dichiarazione annuale Iva, Il contribuente riepiloga le liquidazioni periodiche e i versamenti effettuati.
In linea di principio, la dichiarazione deve essere presentata dai soggetti titolari di redditi imponibili, Anche
se talvolta il legislatore ha previsto dei casi in cui è dovuta anche in assenza di debito d'imposta e di redditi:
infatti la dichiarazione deve essere presentata anche se non vi consegua alcun debito di imposta e anche se
non c'è stato prodotto alcun reddito.
Le dichiarazioni devono essere redatte appena di nullità su stampati conformi ai modelli approvati con
provvedimento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale E devono essere presentate obbligatoriamente in via
telematica.
In particolare è stato introdotto nel nostro ordinamento nelle 1998 la cosiddetta dichiarazione telematica
ovvero l'obbligo da parte dei soggetti di presentare le dichiarazioni dei redditi non più raccomandata
attraverso una procedura di carattere informatico all'agenzia delle entrate.
La presentazione va effettuata entro il 30 settembre dell'anno successivo a quello cui i redditi si riferiscono.
La dichiarazione “rettificativa”, intesa come ulteriore dichiarazione presentata entro il termine per la
presentazione della dichiarazione originaria, consente al contribuente di esercitare tutte le facoltà previste in
sede di dichiarazione e non dà luogo ad alcuna sanzione amministrativa.
La presentazione della dichiarazione in via telematica costituisce ormai la modalità esclusiva di trasmissione.
Se la dichiarazione è inviata a mezzo posta essa si considera presentata nel giorno in cui è consegnata dal
contribuente all'ufficio postale che rilascia apposita ricevuta costituente prova della presentazione; in questo
caso va presentata dal 1 maggio al 30 giugno dell'anno successivo a quello cui i redditi si riferiscono.
Si considera valida la dichiarazione presentata entro 90 giorni dalla scadenza, salva l'applicazione delle
sanzioni.
La dichiarazione presentata oltre i 90 giorni si considera invece ho messa ma costituisce in ogni caso titolo
per la riscossione delle imposte da essa risultanti.
La dichiarazione deve essere sottoscritta dal contribuente appena di nullità.
L’ art. 2 legge n. 16/2012 contiene la possibilità di sanare la mancata comunicazione preventiva per la
fruizione di benefici di natura fiscale o l’accesso a regimi fiscali opzionali, in presenza dei seguenti requisiti:
a) la violazione non sia già stata oggetto di constatazione o di attività di accertamento.
b) il contribuente abbia i requisiti sostanziali previsti dalle norme di riferimento.
c) Comunicazione o adempimento effettuati entro il termine di presentazione della prima dichiarazione
utile.
d) versamento contestuale della sanzione di 258 euro.
Si tratta di una particolare forma di ravvedimento operoso, finalizzato ad evitare che mere dimenticanze
relative a comunicazioni o, in generale, ad adempimenti formali non eseguiti tempestivamente precludano al
contribuente, la possibilità di fruire di benefici fiscali o di regimi opzionali.
Può accadere che la dichiarazione sia errata, a danno del fisco quando danno del contribuente. Scaduto il
La fase successiva alla dichiarazione dei redditi, in relazione all’esigenza di un controllo immediato delle
dichiarazioni è stata risolta con l’introduzione della liquidazione e il controllo formale delle dichiarazioni.
con il d.p.r. 600/1973.
La liquidazione non è quindi finalizzata alla rettifica del reddito, bensì alla sola verifica dell’esattezza
numerica dei dati dichiarati. Se risulta che l’importo da versare in base alla stessa dichiarazione è inferiore a
quello autoliquidato dal contribuente e versato, non viene emesso un avviso di accertamento, ma si procede
direttamente alla riscossione della somma non versati.
Sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in
possesso dell’anagrafe tributaria, l’ufficio, entro il termine ordinatorio di inizio del periodo di presentazione
delle dichiarazioni relative all’anno successivo, provvede a:
a) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti nella determinazione degli
imponibili, delle imposte, dei contributi e dei premi;
b) correggere gli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze delle imposte, dei
contributi e dei premi risultanti dalle precedenti dichiarazioni;
c) ridurre le detrazioni d’imposta
d) ridurre le deduzioni dal reddito
lezione può seguire il cosiddetto controllo formale delle dichiarazioni, A cui gli uffici dell'agenzia delle
entrate provvedono entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione. Il controllo
formale non è automatico ma è svolto in base a criteri selettivi fissati dal ministero. Il controllo formale si
differenzia quindi dalla liquidazione perché non riguarda solo la dichiarazione ma anche i documenti che
devono corredarla.
In esito al controllo formali, gli uffici dopo aver invitato il contribuente a produrre documenti o fornire
chiarimenti:
a) escludono lo scomputo delle ritenute d’acconto non documentate;
b) escludono le detrazioni d’imposta non spettanti, anche in base a documenti eventualmente richiesti;
c) determinare i crediti d’imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti
richiesti ai contribuenti;
d) liquidano la maggiore imposta e i maggiori contributi dovuti sull’ammontare complessivo dei redditi
risultanti da più dichiarazioni o certificati, presentati per lo stesso anno dal medesimo contribuente;
e) correggono gli errori materiali e di calcolo contenuti nelle dichiarazioni dei sostituti d’imposta.
L’esito del controllo formale (cosi come l’esito della liquidazione) è comunicato al contribuente alla sostituto
d'imposta con l'indicazione dei motivi che hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili o di altri dati
Decorsi i termini di legge per adempiere agli obblighi direttivi, può prendere avvio la fase di controllo da
parte dell'amministrazione finanziaria.
Tale controllo concerne tutti gli adempimenti formali e strumentali connessi rispetto al verificarsi del
presupposto o anche adesso svincolati; inoltre talvolta si risolve in attività meramente conoscitive finalizzate
solo ad una migliore percezione di quella stessa realtà economica da sottoporre a controllo.
In sintesi l'attività istruttoria va ben oltre l'emissione degli avvisi di accertamento.
Possiamo pertanto affermare che l'attività istruttoria dell'amministrazione natura conoscitiva in senso lato, in
quanto finalizzata a fornire all'erario tutte le conoscenze per svolgere le proprie attività, su tutte la
determinazione del presupposto d'imposta previa acquisizione di tutti gli elementi rilevanti.
Caratteristiche:
1. l’atto finale risultante all’esito dell’esercizio di poteri istruttori non richiede necessariamente che si sia
esperito un previo contraddittorio con il contribuente, nella fase istruttoria non può dirsi ancora esistente
un principio generale del contraddittorio.
2. l’attività istruttoria finisce per incidere su una serie di posizioni soggettive e in particolare sulle libertà
individuali del privato.
Ai sensi dell’art. 37 d.p.r. 600/1973, la selezione delle dichiarazioni da sottoporre a controllo avviene sulla
base di liste selettive, attraverso cui si individuano possibili operazioni sospette o categorie di contribuenti.
Più precisamente, i destinatari dell’attività di accertamento sono individuati “sulla base di criteri selettivi
fissati annualmente dal Ministro delle Finanze”. Essi sono finalizzati a garantire l’efficienza, l’imparzialità e
l’obiettività dell’attività di controllo.
Soggetti titolari dei poteri istruttori sono l’Amministrazione finanziaria e Guardia di Finanza.
I poteri istruttori si distinguono, sulla base della diversa pervasività che li caratterizza, in due categorie:
Nel novero dei poteri istruttori accordati all'ufficio, una trattazione autonoma richiede il potere di indagini
finanziarie, per l’importanza crescente che sta assumendo nel contrasto all’evasione fiscale.
A tale riguardo, gli uffici (e la Gdf) possono richiedere:
a) agli organi e alle amministrazioni dello Stato alle società ed enti di assicurazioni, la comunicazione di
Strumento fondamentale alle indagini finanziarie, sono le c.d. “indagini bancarie”, le quali possono essere
svolte in via amministrativa sia dalla Agenzia delle Entrate sia dalla Guardia di Finanza. La Corte
Costituzionale ha precisato dunque, che il dovere di riservatezza, connesso con il segreto bancario, non può
essere di ostacolo all’accertamento degli illeciti tributari. Ciò nonostante, le indagini bancarie sono
comunque soggette a vincoli e limiti.
Il principale “modulo ispettivo” adottato dall’Amministrazione finanziaria per accertare l’assolvimento degli
obblighi da parte del contribuente è costituito dalla verifica fiscale.
Si tratta di un’attività di carattere amministrativo ed autoritativo posta in essere dall’ Amm. e consta di
quattro fasi:
1) Accesso. Consiste nel potere di entrare e permanere nei locali di pertinenza dello stesso.
(Sedi di attività commerciale o agricola, enti non commerciali, studi professionali, locali promiscui e locali
diversi da quelli in cui si esercita l’attività).
2) Ricerca. È un’attività a carattere amministrativo alla quale gli uffici possono procedere previa
autorizzazione. È finalizzata all’acquisizione di elementi utili alla ricostruzione della posizione tributaria del
contribuente.
3) Ispezioni. Sono delle attività concernenti il controllo delle scritture contabili o altra documentazione
rilevante. Tale controllo è finalizzato a verificare la regolarità formale e sostanziale.
4) Verificazioni. Consistono nel riscontro tra gli elementi contabili e quelli di fatto
(es. possono essere oggetto di verifica la resa di una certa macchina o le rimanenze di un magazzino).
L’analisi della normativa di cui ai d.p.r. 600/1973 e 633/1972 deve essere completata con l’art. 12 dello
Statuto del contribuente, rubricato “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”.
Il comma 1 prevede che l ‘accesso deve essere effettuato solo quando vi sia un’effettiva esigenza d’indagine
e controllo sul luogo.
Il comma 2 prevede invece il diritto del contribuente ad essere informato delle ragioni che abbiano
giustificato la verifica e l’oggetto che la riguarda.
Il comma 5 prevede poi che l'attività di verifica presso la sede della contribuente non si possa protrarre oltre i
30 giorni lavorativi, prorogabili di altri 30 giorni nei casi di particolare complessità individuati e motivati dal
dirigente dell’ufficio.
Ambedue i termini sono ridotti a 15 giorni nei casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in
contabilità semplificata e lavoratori autonomi.
Il comma 4 prevede la redazione, al termine della verifica, di un processo verbale di constatazione
contenente l'esposizione analitica dei rilievi effettuati e l'individuazione delle sanzioni applicabili.
In quanto redatto da pubblici ufficiali esso costituisce atto pubblico e prova legale, per cui fa piena prova
L’avviso di accertamento assume denominazioni diverse a seconda del metodo con cui viene determinato
l’imponibile.
L'articolo 38 d.p.r. 600/1973 disciplina i metodi di accertamento del reddito delle persone fisiche
distinguendo tra:
1. metodo analitico;
2. metodo analitico-induttivo
3. metodo sintetico-puro (c.d. spesometro)
4. metodo sintetico-redditometrico.
L’Articolo 39 disciplina invece i metodi di accertamento dei redditi determinati in base alle scritture
contabili, vale a dire dei soggetti esercenti attività di impresa e di lavoro autonomo, distinguendo tra:
1. metodo analitico o contabile,
2. metodo analitico-induttivo
3. metodo di accertamento c.d. induttivo o extra contabile.
I metodi di accertamento del reddito delle persone fisiche: il metodo analitico ed analitico-induttivo.
Oggetto dell’accertamento analitico sono i redditi appartenenti alle singole categorie reddituali, secondo
cui la rettifica deve essere fatta “con riferimento analitico ai redditi delle varie categorie di cui all’art.6”
L’accertamento analitico consiste nella rettifica di specifiche voci della dichiarazione e nel recupero a
tassazione di particolari elementi del reddito in base a prove documentali ovvero a presunzioni dotate dei
Per procedere all'accertamento analitico, gli uffici dovranno muovere dalla verifica della certezza oggettiva
del presupposto e successivamente procedere alla determinazione della base imponibile il terzo comma
dell'articolo 38 comma 2 aggiunge che l'incompletezza, la falsità o l'inesattezza dei dati indicati nella
dichiarazione possono essere desunte dalla dichiarazione stessa dal confronto con le dichiarazioni relative ad
anni precedenti.
L’art. 22 d.l. 78/2010 ha apportato significative modifiche all’istituto dell’accertamento sintetico, applicabili
a partire dagli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla
data della sua entrata in vigore.
Il comma 4 disciplina il c.d. “accertamento sintetico-puro” (o in senso stretto), non richiamando più il
contenuto induttivo di “elementi e circostanze di fatto certi”, bensì si riferisce, indistintamente alle spese di
qualsiasi genere sostenute nel periodo di imposta.
Il comma 5 dell’art. 38 disciplina invece l’accertamento c.d. “sintetico-redditometrico”.
2. L’accertamento sintetico può essere effettuato anche in base ad altri fatti tra cui la spesa per incrementi
patrimoniali. Quando l’esborso è elevato in rapporto ai redditi dichiarati dal contribuente nell’anno in cui
viene fatta la spesa e in quelli precedenti, è legittimo presumere che siano stati utilizzati redditi non
dichiarati.
3. Il redditometro si basa sull’assunto che in base a determinate spese si può presumere il reddito globale. La
prassi precedente muoveva dalla ricostruzione presuntiva della spesa globale per risalire da questa al reddito
globale.
L’avviso di accertamento si configura come l’atto finale attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria
procede ad accertare le eventuali irregolarità emerse in sede di controllo c.d. “sostanziale”.
Il procedimento amministrativo di applicazione delle imposte sfocia dunque in un provvedimento impositivo
denominato “avviso di accertamento”.
Esso dunque, chiude la fase di controllo ed apre alla possibile fase contenziosa mediante l’impugnazione
dell’avviso stesso: tra le due fasi si collocano, tuttavia, gli strumenti c.d. “deflattivi” del contenzioso, che
vedremo successivamente.
Secondo la Corte costituzionale (313/1985), l’avviso di accertamento “deve intendersi come atto efficace nei
confronti del soggetto passivo di imposta, conclusivo di un procedimento o di un subprocedimento di
accertamento; di un procedimento, cioè, che accerta e dichiara la sussistenza, in tutto o in parte,
dell’obbligazione tributaria..”.
Si tratta comunque di un atto non necessario, che attiene alla fase patologica del rapporto di imposta e dal
quale gli uffici possono prescindere qualora il controllo sostanziale si concluda con la constatazione della
correttezza del comportamento del contribuente.
L’avviso di accertamento può avere contenuto “rettificativo” oppure “sostitutivo” dell’adempimento
spontaneo: nel primo caso, l’’accertamento (c.d. in rettifica) presuppone l’avvenuta alida presentazione di
una dichiarazione dei redditi da parte del contribuente; nel secondo caso, l’accertamento (c.d. d’ufficio)
presuppone, invece, l’omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente o la presentazione
di una dichiarazione nulla.
La differenza sostanziale tra le due ipotesi consiste nel minor rigore probatorio richiesto nella seconda.
L’avviso di accertamento è un atto unilaterale di natura autoritativa e produttivo di effetti sul piano
sostanziale, indipendentemente dalla volontà delle parti.
Inoltre, costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, e quindi diventa definitiva, qualora non
venga impugnato entro 60 giorni dalla sua notificazione.
Nel diritto tributario, dove è assente una teoria generale delle invalidità, si è tradizionalmente ritenuto che
l’invalidità dell’atto tributario dovesse essere regolata secondo gli schemi del diritto amministrativo. Ai sensi
dell’art. 21-septies “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è
viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché
negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.
In questa prospettiva la nullità assorbe l’inesistenza e si configura come categoria eccezionale ricorrente in
ipotesi tassativamente indicate.
1) atto impositivo
2) titolo esecutivo
3) precetto.
In base a tali segnalazioni l’ufficio può rettificare la dichiarazione accertando un reddito non dichiarato, il
maggior ammontare di un reddito parzialmente dichiarato e la non spettanza di deduzioni, esenzioni o
agevolazioni.
L’istituto dell’accertamento parziale svolge un ruolo significativo anche nel sistema dell’accertamento ai
fini IVA. Gli artt. 54-bis e ss. d.p.r. 633/1972 prevedono che qualora vi sia fondato pericolo per la
riscossione delle imposte, l’ufficio può procedere:
L’avviso di accertamento integrativo invece, viene disciplinato dall’art. 43 d.p.r. 600/1973 e interviene
successivamente all’emanazione di un primo avviso di accertamento.
Si parla più esattamente di:
a) avviso di accertamento integrativo, se l’ufficio trova nuovi elementi che riguardino questioni non
considerate nel primo avviso.
b) avviso di accertamento modificativo, se l’ufficio rinviene nuovi elementi che riguardino questioni già
oggetto di un precedente avviso, mutandone tuttavia la qualificazione (ad es. reddito di impresa anziché
di lavoro autonomo) o la quantificazione (ad es. la percentuale di deducibilità diversa).
Tale accertamento, oltre a possedere i requisiti ex art. 42 d.p.r. 600/1973 dovrà, a pena di nullità, indicare
specificatamente i nuovi “elementi” dei quali l’ufficio è venuto a conoscenza, intendendosi come tali tutti
quei fatti o circostanze idonei a portare ad una contestazione a carico del contribuente.
Dall'ultimo decennio del secolo scorso, il legislatore tributario, ha s's' avviato un percorso teso ad introdurre
nell'ordinamento una serie di istituti che si caratterizzano il fatto che il contribuente, trovandosi in una
situazione di lite potenziale con gli uffici, versa subito (parzialmente o integralmente) l'imposta oggetto di
contestazione, rinunciando al contenzioso ed accendendo per l'effetto ad una serie di vantaggi.
Si tratta degli istituti che costituiscono espressione dei nuovi modelli dell'azione amministrativa in materia
tributaria improntata sempre più all'ampliamento degli istituti partecipativi, alla valorizzazione delle
forme di collaborazione tra fisco e contribuente e a forme di esercizio consensuale del potere piuttosto che
a manifestazioni collaterali ed autoritative della potestà pubblica.
Ad oggi il quadro degli strumenti c. d. “deflattivi” del contenzioso risulta così composto:
1. accertamento con adesione
2. acquiescenza
3. reclamo e mediazione
4. conciliazione giudiziale
5. adesione al processo verbale di constatazione
6. adesione al contenuto dell'invito al contraddittorio
(5 e 6 per i soli atti notificati fino al 31/12/2015)
Tali strumenti non presuppongono necessariamente il coinvolgimento del contribuente nella fase
procedimentale o processuale.
Quest'ultimo si verifica soltanto per gli istituti “bilaterali” (accertamento con adesione, reclamo e
conciliazione giudiziale) e non per quelli “unilaterali”, rimessi alla volontà del contribuente (acquiescenza).
Il concerto di istituti deflattivi può essere esteso anche alle altre occasioni di contatto tra
l'Amministrazione finanziaria ed i contribuenti (interpello ed autotutela) in cui si rinvengono delle
finalità di prevenire o eliminare il contenzioso.
L’interpello
(È uno strumento il quale consente al contribuente di conoscere preventivamente l’opinione dell’Amm.
ad essi si aggiungono:
5. I casi speciali in cui il legislatore ha previsto la procedura dell'interpello ordinario ai fini della
valutazione da parte dell'agenzia cerca ricorrenza dei presupposti per l'applicazione di specifiche
disposizioni tributarie anche di tipo agevolativo, oppure per la disapplicazione di talune disposizioni
tributarie volte a prevenire comportamenti lesivi.
6. la generale attività di consulenza giuridica.
C) L’interpello per la disapplicazione delle norme antielusive consiste nella possibilità per il
contribuente di chiedere la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare
comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive
altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario. Il contribuente in via preventiva può presentare
un’istanza attinente a fattispecie concrete, in relazione alle quali specifiche norme di legge limitano i
suoi comportamenti funzione antielusiva, dimostrando che in quella fattispecie gli effetti elusivi che
la norma intendeva precludere non si verificano. L’istanza è rivolta al Direttore regionale delle
entrate competente per territorio ed è spedita all’ufficio finanziario competente in ragione del
domicilio fiscale del contribuente. Questo trasmette al D.r.. l’istanza, assieme al proprio parere, entro
30 giorni dalla ricezione della medesima. Le determinazioni del D.r vanno comunicate al
contribuente con un provvedimento definitivo, entro 90 giorni dalla presentazione dell’istanza.
Se la risposta è positiva, nulla viene detto riguardo l’efficacia vincolante del parere
dell’Amministrazione. Se, invece, è negativa l’Agenzia delle entrate non può opporre alcun diniego,
una volta appurato che l’operazione non ha natura elusiva. Il contribuente può quindi
“autodisapplicare” la norma antielusiva nonostante il parere negativo dell’Amministrazione,
impugnando il successivo atto di accertamento o diniego di rimborso e chiedendo al giudice di
accertare la natura non elusiva dell’operazione compiuta.
La procedura si avvia con una istanza del contribuente. Il soggetto interessato deve sempre prospettare il
terzo incontro verso, illustrando la soluzione che intende adottare sul piano applicativo della normativa di
riferimento prescelta. Segue una fase in contraddittorio dell'esito finale consiste nella seconda dell'accordo
del competente ufficio dell'agenzia delle entrate il contribuente; vincolante per il periodo di imposta nel
corso del quale esso è stipulato e per i quattro beni d'imposta successivi.
Attraverso di esso il contribuente, correggendo gli errori entro appositi termini, può ottenere una riduzione
delle sanzioni.
Il campo di applicazione di tale seduto è stato ampliato dalla L. 190/2014 che intende favorire nuove forme
di comunicazione collaborazione tra contribuente Agenzia delle entrate. Quest'ultima può rendere
disponibile al contribuente di elementi di informazioni di cui è in possesso, riferibili lo stesso contribuente,
affinché possa valutare con attenzione la propria posizione.
Oggi per i tribuni amministrati dall'agenzia delle entrate non opera più la preclusione, solo la notifica
dell'avviso di liquidazione o di accertamento impedisce il ravvedimento operoso.
L'essersi avvalsi del ravvedimento operoso non preclude in ogni caso l'inizio ho la prosecuzione di accessi,
ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di controllo accertamento.
Il pagamento della sanzione ridotta, deve essere eseguito contestualmente al pagamento del tributo e al
pagamento degli interessi moratori calcolati al tasso legale con maturazione giorno per giorno.
Il legislatore ha inoltre modificato i termini della notifica delle cartelle e per gli accertamenti in caso di
presentazione di dichiarazione integrativa, che quindi decorrono dalla data della presentazione della
dichiarazione stessa.
4. L’autotutela.
Essa è espressione di quella capacità di "farsi giustizia da sé" che ordinamento conferisce ad ogni P. A. In
vista dell'esigenza di assicurare il più efficace perseguimento dell'interesse pubblico the, attribuendone la
possibilità di esaminare la propria attività senza l'intervento dell'autorità giudiziaria.
È un'attività formalmente amministrativa che può provenire dallo stesso ufficio autore dell'atto soggetto
riesame (autotutela immediata), oppure da un organo che appartiene alla stessa organizzazione dell'ufficio
autore dell’atto (autotutela mediata).
L'ufficio che ha emanato l'atto illegittimo o che è competente per gli accertamenti in ufficio ovvero, in caso
di grave inerzia, la Direzione regionale dalla quale l'ufficio dipende, hanno il potere dove-dovere di porre in
essere provvedimenti di autotutela, mediante l'annullamento o la revoca di atti riconosciuti illegittimi o
infondate, fatta eccezione per il caso in cui il provvedimento di accertamento di rilievo di rimborso sia
coperto da giudicato “sostanziale" favorevole all’amministrazione.
Una siffatta disciplina ad hoc si è resa necessaria per superare il principio dell'indisponibilità dei crediti
tributari la responsabilità dei funzionari per danno erariale.
Il ritiro del precedente atto non si è limitata alla fattispecie del c.d. controatto avente identica struttura
dell’atto precedente ma dispositivo di segno contrario, ma può coinvolgere anche la sua riforma, In cui non
se ne del contenuto dell'atto precedente ma lo si sostituisce con un diverso
(c. d. autotutela sostitutiva).
È altresì attribuito all'ufficio il potere di concedere la sospensione amministrativa dell'atto, anche in caso di
pendenza di ricorso giurisdizionale. Strano, quindi, i giudici tributari a decidere sulla validità dell'atto, senza
che la posizione del contribuente sia pregiudicata sul piano della riscossione. Se l'esercizio del potere-dovere
di autotutela risulta favorevole al contribuente e questi abbia già provveduto al pagamento delle imposte,
l’amministrazione sarà tenuta ai conseguenti obblighi di restituzione.
L’unico limite all’autotutela è l’emanazione di una sentenza passata in giudicato per motivi di ordine
sostanziale.
L’annullamento di un atto in vi di autotutela può essere attivato anche in mancanza dell’istanza del
contribuente, e dunque spontaneamente dall’ufficio anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilità dell’atto. Lo Statuto del contribuente ha previsto che il Garante del contribuente possa attivare
le procedure di autotutela nei confronti di atti amministrativi di accertamento o di riscossione notificati al
contribuente
1) Ritiene assenti quelle ulteriori esigenze di pubblico interesse in grado di giustificare l’annullamento
dell’atto, attribuendo al contribuente un interesse di mero fatto e negando l’autotutela in caso di
provvedimenti definitivi.
2) Riconosce i caratteri di discrezionalità e la titolarità di un interesse legittimo, ma solo di natura
procedimentale.
3) Riconosce nel potere di autotutela i caratteri della discrezionalità ma attribuisce una posizione di
interesse legittimo al contribuente, in modo che l’esercizio del potere di annullamento abbia luogo in
modo ragionevole e non arbitrario.
4) Ritiene il potere di autotutela si giustifichi con il solo riferimento al ripristino della legalità violata.
La natura degli istituti deflattivi del contenzioso tributario “in senso stretto”.
Gli istituti deflattivi del contenzioso tributario sono destinati ad operare nel caso in cui il contribuente,
trovandosi in una situazione di lite potenziale con gli uffici, rinuncia al contenzioso e versa l'imposta
determinata in contraddittorio con l'amministrazione, a fronte di una riduzione dell'entità delle sanzioni e di
altri vantaggi.
Tali istituti (in particolare l'accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale), vanno posti in relazione
con il dogma dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria.
Questo principio si fonda sulla constatazione secondo cui l'individuazione delle fattispecie impositive, dei
soggetti obbligati al pagamento del suo ammontare sono regolati da disposizioni imperative, quindi
vincolanti sia dello Stato sia privati.
Commenta venditore della costituzione l'esistenza di indisponibilità dell'obbligazione tributaria stato desunto
da più principi:
1) riserva di legge (art.23 Cost.)
2) capacità contributiva (art. 53 Cost.)
3) imparzialità nell’azione della P.A. (art.97 Cost.)
La determinazione del debito fiscale cui si perviene con l'accertamento con adesione è risultato voluto dalla
legge di una valutazione critica è concorde di soggetti non pariordinati, volto superare lo stato di
incertezza della controversia in una disporre liberamente del debito d’imposta.
Lo scopo delle parti resta quello di individuare consensualmente, motivandola adeguatamente, una soluzione
del contrasto interpretativo che sia conforme a disposizione di legge applicabili nella specie.
Queste considerazioni possono essere estese alla conciliazione giudiziale.
La disciplina della conciliazione, però, sembra riconoscere margine di apprezzamento ben più ampi e dunque
anche accordi che si pongono in un’ottica transattiva.
Riguardo al ruolo attribuito al giudice avanti il quale si procede alla conciliazione, a questi è attribuito
esclusivamente il potere di verificare le condizioni per l'esperimento dell’adesione. Ha un ruolo meramente
esterno che si limita al vaglio della sussistenza delle condizioni per conciliare e non alla legittimità ed
opportunità del contenuto dell'accordo. Tale ruolo è stato, inoltre, considerato legittimo dalla Corte
costituzionale.
Effetti penali: riduzione delle pene fino ad un terzo e non si applicano le pene accessorie se i debiti tributari
relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento.
L’ufficio, entro 15 giorni dal ricevimento dell’istanza, formula al contribuente l'invito a comparire, Anche
telefonicamente o telematicamente.
Dalla giorno della presentazione dell'istanza sono sospesi per 90 giorni I termini per l'impugnazione.
Con la comparizione del contribuente nella data prefissata si avvia la fase di contraddittorio. Al termine dei
150 giorni dalla notifica dell'avviso di accertamento, non è stato sottoscritto l'atto di adesione, rimane
pienamente efficace l'atto iniziale.
Dalla data di sottoscrizione, il contribuente ha 20 giorni di tempo per effettuare il versamento della prima
L’acquiescenza.
L’acquiescenza può essere definita come la rinuncia ad opporsi giudizialmente alla pretesa del Fisco e ad
avviare un procedimento di adesione da parte del contribuente.
Non vi sono limiti all’utilizzo di tale strumento, che è un atto unilaterale del contribuente che non prevede
istanze da presentare e si realizza con il semplice pagamento, entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di
accertamento, degli importi indicati nell’atto stesso.
In particolare, ove il contribuente rinunzi ad impugnare l’avviso di accertamento o di liquidazione e
provveda a pagare le somme dovute, le sanzioni sono ridotte a un terzo.
Le somme dovute, in caso di acquiescenza, possono essere versate anche ratealmente, senza garanzie.
Il reclamo e la mediazione.
Tra gli istituti deflattivi del contenzioso tributario occorre annoverare anche il “reclamo” e la “mediazione”.
È stato dunque previsto che, per gli atti emessi dall’Agenzia delle entrate e notificati a partire dal 1 aprile
2012, riguardanti controversie di valore non superiore a € 20.000, chi intende proporre ricorso è tenuto
preliminarmente, a pena di improcedibilità dello stesso, a presentare reclamo presso la Direzione provinciale
ovvero regionale competente per territorio.
Il reclamo è volto all’annullamento totale o parziale dell’atto o finalizzato al componimento della
controversia tramite mediazione. Esso dovrà avere i contenuti previsti dall’art. 18, d.lgs 546/1992 per il
ricorso ed essere notificato entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto che si intende impugnare.
L’obbligo di presentazione del reclamo viene accompagnato dalla facoltà in capo al proponente di inserire
nello stesso una motivata proposta di mediazione, completa della rideterminazione dell’ammontare della
pretesa.
Il reclamo/mediazione costituisce un rimedio amministrativo para-processuale che, a differenza degli altri
istituti deflattivi del contenzioso tributario, come l’autotutela e l’accertamento con adesione, ha carattere
generale e obbligatorio.
La conciliazione giudiziale.
La conciliazione giudiziale è un istituto deflattivo del contenzioso tributario, laddove ciascuna delle parti
del processo tributario può presentare idonea istanza e proporre all’altra la conciliazione totale o parziale
della controversia.
Quest’ultima può aver luogo solo davanti alla Commissione provinciale e non oltre la prima udienza, nella
quale il tentativo di conciliazione può essere esperito d’ufficio anche dalla Commissione.
Secondo un’interpretazione letterale della norma, sembra possono essere oggetto di conciliazione tutte le
questioni pendenti avanti al giudice tributario. Sebbene, tale conclusione sembra essere suffragata da una
sostanziale continuità tra l'istituto in esame e l'accertamento con adesione.
Dal punto di vista procedurale, si distinguono due ipotesi di conciliazione:
Con il termine “riscossione” si fa riferimento al complesso delle norme e degli istituti predisposti dal
legislatore al fine di consentire all’ente impositore di incassare le somme dovute a titolo di imposte, sanzioni
ed interessi dai contribuenti.
I modi di attuazione della riscossione sono disciplinati dalla legge e la loro determinazione è tassativa.
È possibile distinguere, quindi, la riscossione spontanea e la riscossione da inadempimento, a seconda che
la riscossione stessa consegua o meno ad un inadempimento del contribuente.
Nel contesto della riscossione da inadempimento, assume particolare rilevanza la riscossione coattiva, cioè
intesa come quel complesso di procedure dirette a portare ad esecuzione forzata l'obbligo di pagamento delle
somme dovute dal contribuente.
Tanto la riscossione spontanea, quanto la riscossione per inadempimento trovano la loro disciplina
fondamentale nel d.p.r. 602/1973; tessuto normativo profondamente novellato (modificato) con legge delega
337/1998.
A partire dall’Unità d’Italia e fino al 1998, soggetti chiamati a svolgere le funzioni della riscossione, erano
gli esattori privati, attraverso un sistema ritenuto in grado di assicurare un flusso costante e regolare di
entrate all’Amministrazione finanziaria.
Successivamente, con la suddetta riforma del 1998, agli esattori sono stati sostituiti i concessionari, quali
soggetti privati incaricati della gestione della riscossione dei tributi sulla base di una concessione
amministrativa rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze dietro svolgimento di un’apposita gara.
Tra i principi fondamentali, posti alla base dell’attività degli esattori prima e dei concessionari poi, si
configura il c.d. obbligo di non riscosso per riscosso, in base al quale il soggetto incaricato della riscossione
era tenuto a versare all’Amministrazione finanziaria le somme iscritte a ruolo alle prescritte decadenze anche
ove non le avesse ancora riscosse. Tuttavia si riconosceva al concessionario il diritto ad ottenere il rimborso
delle somme da quasi anticipate in forza dell’obbligo c.d. di discarico (non riscosso per riscosso).
Tale obbligo é stato abolito dal d. lgs. 46/1999, che ha introdotto varie ipotesi di c.d. discarico automatico,
consentendo così al concessionario di interrompere l’azione di riscossione per le quote di contributi ritenuti
inesigibili al ricorrere di determinate condizioni.
Da qui si é generata la crisi del sistema di riscossione, con la diminuzione dell’ammontare delle somme
riscosse dai concessionari rispetto a quello dei ruoli affidati in carico.
Così si é giunti, nel 2005, all’abolizione dei concessionari ed all’attribuzione delle funzioni dei riscossione
all’Agenzia delle entrate, che la esercita tramite Equitalia S.p.A. (51% Ag. entr., 49% INPS);
configurandosi un sistema di permanente dissociazione tra l’ente titolare del credito da riscuotere ed il
soggetto chiamato alla riscossione del credito in veste di agente della riscossione (Equitalia).
N.B. Con d.lgs. 193/2016 è stata prevista lo scioglimento delle società del Gruppo Equitalia, con la
cancellazione d’ufficio dal registro delle imprese a decorrere dal 1° luglio 2017. Al fine di garantire la
continuità e la funzionalità delle attività di riscossione, è istituito un ente pubblico economico denominato
“Agenzia delle Entrate-Riscossione” che subentra a titolo universale nei rapporti giuridici attivi e passivi
del Gruppo Equitalia ed assume la qualifica di agente della Riscossione.
A tale ente è data la possibilità di avvalersi delle banche dati e delle informazioni alle quali la legge
riconnette la possibilità di essere utilizzate ai fini dell’accertamento e della riscossione.
La riscossione spontanea.
Prendendo le mosse dalla riscossione spontanea riguardo le imposte sui redditi, sono previste tre modalità di
riscossione:
1) ritenuta diretta;
2) versamenti diretti;
3) iscrizione a ruolo.
Per IRAP e IVA, l’unica modalità di riscossione spontanea sono i versamenti diretti.
La ritenuta diretta consiste nell’obbligo, posto a carico delle amministrazioni dello Stato che
corrispondono determinate somme, di trattenere una parte e riversarla all’Amministrazione
La riscossione da inadempimento.
Passando alla riscossione da inadempimento, la principale modalità di riscossione per le imposte sui
redditi, l’IRAP e l’IVA è costituita dall’avviso di accertamento esecutivo.
Ad essa si affianca l’iscrizione a ruolo.
Quanto all’avviso di accertamento esecutivo, questo riunisce in un unico atto le funzioni di atto impositivo,
titolo esecutivo e precetto; funzioni queste che, in precedenza, erano svolte, rispettivamente, dall’avviso di
accertamento, dall’iscrizione a ruolo e dalla cartella di pagamento.
Da modalità principale di riscossione dei tributi nel sistema tributario previgente alla riforma degli anni
Settanta, l’iscrizione a ruolo ha ormai assunto carattere residuale anche nel contesto della riscossione da
inadempimento, quantomeno con riferimento alle imposte sui redditi, all’IRAP ed all’IVA.
Nell’ambito delle impose sui redditi, dell’IRAP e dell’IVA, l’iscrizione a ruolo trova applicazione per la
riscossione delle:
a) maggiori imposte dovute a seguito di liquidazione o controllo formale della dichiarazione non versate
dal contribuente in base al c.d. “avviso bonario”.
b) sanzioni irrogate e non connesse con l’accertamento del tributo;
c) somme dovute in base all’adesione al processo verbale di constatazione.
I ruoli si distinguono in ruoli ordinari e ruoli straordinari: nei ruoli straordinari sono iscritte le imposte, le
sanzioni e gli interessi dovuti per i quali sussiste fondato pericolo per la riscossione.
Nei ruoli provvisorie, invece, sono iscritte le sole imposte accertate in base ad accertamenti non definitivi.
Quanto al contenuto del ruolo, esso deve indicare il codice fiscale del contribuente, la specie ordinaria o
straordinaria del ruolo, la data in cui il ruolo è divenuto esecutivo e il riferimento all’eventuale precedente
atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria.
La notificazione della cartella di pagamento, deve avvenire entro i termini perentori stabiliti dall’art. 25
La riscossione coattiva.
Qualora il contribuente non provveda al versamento degli importi iscritti a ruolo ovvero affidati in carico
all’agente della riscossione in base ad avviso di accertamento esecutivo, l’agente provvede ad esecuzione
forzata. L'esecuzione forzata tributaria è sempre attuata per espropriazione.
L'agente della riscossione procede all’esecuzione forzata sulla base del titolo esecutivo rappresentato dal
ruolo o dall'avviso di accertamento esecutivo.
L'avvio dell'espropriazione forzata è sottoposto diversi limiti:
1) Limite quantitativo. Sotto il suo profilo non si procede ad accertamento, iscrizione a ruolo e riscossione
dei crediti relativi a tributi erariali regionali qualora il credito sia di ammontare non superiore a € 30 per
ciascun periodo d'imposta.
2) Limiti temporali. Nel caso di somme iscritte a ruolo l'espropriazione forzata è avviata trascorsi 60 giorni
dalla notificazione della cartella di pagamento, mentre in presenza di avviso di accertamento esecutivo
l'agente della riscossione intraprende le azioni esecutive decorso un periodo di 180 giorni dall'affidamento
in carico dell'avviso; periodo nel quale l'esecuzione forzata è sospesa.
Ai menzionati termini dilatori, si affianca un termine acceleratorio per l'avvio dell'espropriazione forzata,
applicabile limitatamente alle imposte sui redditi, all'IVA ed all’IRAP: L’espropriazione forzata deve essere
iniziata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l’avviso di
accertamento esecutivo è divenuto definitivo.
Ove si trascorso più di un anno dalla notificazione della cartella di pagamento ovvero dell'avviso di
accertamento esecutivo, l'agente della riscossione deve far precedere l’avvio dell'espropriazione forzata dalla
notificazione dell'intimazione ad adempiere entro cinque giorni all'obbligo risultante dal ruolo o
dall’avviso di accertamento esecutivo.
1) la carenza di legge (carenza ab origine della norma impositiva, mancata conversione di un d. l.,
abrogazione retroattiva della norma impositiva, ecc.)
2) i versamenti anticipati rispetto al verificarsi del presupposto d’imposta, che si rivelino di
ammontare eccedente rispetto all'imposta effettivamente dovuta.
3) l’errore del contribuente o dell’ufficio
4) l’illegittimità dell'atto impositivo, sia esso appartenente alla fase dell'accertamento o della riscossione.
Il rimborso dell’IVA.
Nel contesto dell’IVA occorre distinguere il rimborso dell'imposta in senso proprio dal meccanismo della
c. d. procedura di variazione dell'imponibile dell'imposta.
Riguardo quest'ultima ipotesi, qualora un'operazione per cui sia stata emessa fattura venga meno in tutto in
parte o se ne riduca l'ammontare imponibile è consentito l'emissione di un'apposita nota di variazione in
diminuzione dell'imponibile dell'imposta. In tal caso il cedente o prestatore avrà diritto di recuperare la
maggiore IVA applicata sull'operazione portando il relativo ammontare in detrazione, mentre il cessionario
o committente avrà diritto alla restituzione dell'eccedenza di IVA applicata in rivalsa.
Riguardo il rimborso dell'imposta indebitamente versata, esso non trova un'apposita disciplina nel corpus
normativo dell'IVA e la giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere applicabile la previsione del d. lgs.
546 /1992, ammettendo il rimborso entro il termine di due anni dal pagamento o, se posteriore, dal giorno in
cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
Inoltre, occorre rilevare che il meccanismo applicativo del tributo e l'obbligo di versamento dello stesso a
scadenze periodiche annuali comportano di frequente l’emersione di un'eccedenza detraibile nella
dichiarazione annuale. Per questa ragione il legislatore consente al contribuente di attivare il rimborso di
tale eccedenza direttamente per mezzo della dichiarazione, permettendogli di optare, in alternativa al
rimborso, per il computo dell'eccedenza detraibile in detrazione nell'anno successivo ovvero per l'utilizzo in
compensazione.
Secondo la giurisprudenza prevalente il rimborso chiesto mediante la dichiarazione a soggetto solo
termine di prescrizione decennale e non anche quello di decadenza biennale.
Il creditore IVA quindi, in parole povere, ha una duplice possibilità: portare il credito all’esercizio oppure si
può chiedere il rimborso, ma tale rimborso si può chiedere solo in determinati casi, non sempre.
Nel diritto tributario, non si può parlare di obbligo se a fronte dell’obbligo stesso non si prevede
l’applicabilità di una sanzione in caso di sua inosservanza.
La sanzione è un istituto che si presta a svolgere diverse funzioni: la funzione preventiva, quella punitiva e
quella risarcitoria. Attraverso la sanzione, il legislatore intende perseguire la funzione preventiva, e lo
dimostra il fatto che il contribuente che ha violato una norma tributaria e poi vi pone rimedio, beneficia di
una riduzione della sanzione.
Nelle sanzioni amministrative tributarie è ravvisabile anche una funzione punitiva, sanzione commisurata al
maggior tributo accertato, quindi maggiore è l’evasione, maggiore sarà il pregiudizio che subirà il
contribuente dal punto di vista sanzionatorio.
Non sembra invece che si possa parlare di funzione risarcitoria. Una volta che ad un contribuente viene
notificato un avviso di accertamento attraverso il quale si recupera il maggior tributo, la collettività sarà
risarcita attraverso il pagamento del tributo evaso e degli interessi moratori. La sanzione va oltre la funzione
risarcitoria.
N.B. il d.lgs. 74/2000 è stato riformato dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 con cui il governo ha
esercitato la delega conferitagli con l'art. 8 co. 1 della legge 11 marzo 2014, n. 23, le cui disposizioni si
applicano a partire dal 1 gennaio 2017.
L’art. 15 prevede che le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni d’incertezza sulla
loro portata e sul loro ambito di applicazione non danno luogo a fatti punibili.
Il d.lgs. 158/2015 invece ha modificato l’art. 13 introduce come causa di non punibilità una nuova ipotesi:
l’estinzione del debito tributario mediante l’integrale pagamento, o di procedure conciliative, nonché del
ravvedimento operoso. Questo vale limitatamente A) ai reati di cui all’art. 10-bis 10-ter e 10-quater, co. 1, se
il pagamento avviene prima del dibattimento di primo grado B) per i reati di cui agli artt. 4 e 5, se il
ravvedimento operoso o la presentazione della dichiarazione omessa intervengano prima che l'autore del
reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività
di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
Inoltre, la soglia di punibilità per il reato di cui all'art. 10-bis viene triplicata, passando da cinquantamila a
150.000 euro, per ciascun periodo d'imposta.
All’art. 10-bis rinviano poi gli artt. 10-ter (che estende la fattispecie incriminatrice anche a chi non versa
l’IVA, dovuta in base alla dichiarazione annuale) e l’art. 10-quater, il quale prevede che la disposizione di
cui all’art. 10-bis si applica nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa le somme dovute, utilizzando
1. La giurisdizione tributaria.
Le controversie riguardanti la materia tributaria sono devolute ad un apposito giudice: le Commissioni
Tributarie Provinciali e Regionali (a cui si affianca la Corte di Cassazione per le sole questioni di legittimità.
L’organizzazione degli uffici è disciplinata dal d.lgs. 545/1992 mentre la disciplina del processo si rinviene
nel d.lgs. 546/1992.
È tuttavia alla L. 448/2001 che si deve l’attuale assetto della giurisdizione tributaria.
Prima la giurisdizione generale sulla materia tributaria era affidata al giudice ordinario con l’eccezione di
alcuni tributi. Alle Commissioni Tributarie erano devolute le controversie relative ad imposte sui redditi,
A) Con riguardo all’avviso di accertamento del tributo, per la Cassazione devono essere qualificati
come avvisi tutti quegli atti con cui l’amministrazione comunica al contribuente una pretesa
tributaria formalizzata.
B) Nella categoria degli avvisi di liquidazione del tributo dovrebbero invece rientrare quegli atti,
variamente denominati, che si caratterizzano per il fatto che attraverso di essi l’Ente impositore non
intima né richiede alcunché, ma si limita ad avvertire il contribuente della possibilità di iscrivere a
ruolo un tributo non producendo effetti negativi diretti a carico del contribuente
C) Tra i provvedimenti che irrogano le sanzioni vi rientrano quelli disciplinati dagli artt. 16 e ss.,
d.lgs. 472/1997 con i quali gli Uffici esercitano i poteri sanzionatori loro attribuiti.
D) Per il ruolo e la cartella di pagamento si rimanda al Cap. 17.
E) Sono impugnabili dinanzi alle Commissioni Tributarie il fermo di beni mobili registrati e
l’iscrizione di ipoteca sugli immobili. È stata così preferita dal legislatore la giurisdizione tributaria
a scapito di quella amministrativa o del giudice ordinario. Tuttavia il fermo non era atto recettizio, e
il contribuente poteva subirlo senza esserne a conoscenza. Così è stato stabilito che prima del Fermo
l’Amministrazione finanziaria deve inviare un preavviso con un ulteriore invito a pagare le somme
dovute entro i successivi 20 giorni decorsi i quali il preavviso assume valore di comunicazione di
iscrizione di fermo.
Anche per l’iscrizione di ipoteca (giurisdizione devoluta al giudice tributario se i crediti garanti
dall’ipoteca abbiano natura tributaria), si è posto il problema della sua conoscibilità da parte del
contribuente. È intervenuto il legislatore con il d.l. 70/2011 che ha previsto l’obbligatorietà della
preventiva comunicazione di iscrizione ipotecaria ai fini della validità della stessa misura cautelare.
L’agente della riscossione è tenuto a notificare una comunicazione preventiva con l’avviso che
decorsi 30 giorni senza pagamento, sarà iscritta l’ipoteca.
F) Gli atti relativi a “Rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed
interessi non dovuti” attengono a liti di rimborso.
Il rifiuto espresso non è vincolato a forme particolari, sicché può derivare da qualsiasi atto purché
emerga la volontà dell’Amministrazione di non accogliere le richieste del contribuente.
Il rifiuto tacito, nel sistema tributario, non costituisce un atto impugnabile di per sé ma un mero
presupposto processuale. In caso di silenzio dell’amministrazione, la pretesa di rimborso diviene
azionabile.
L’art. 19, d.lgs. 546/1992 prevede ulteriormente che:
• gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili.
• Ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri
• La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto
notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo.
1.Premesse.
L’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) costituisce, senza dubbio, il tributo di maggiore
importanza nell’ordinamento tributario italiano.
Per comprenderne la natura, è necessario richiamare le classificazioni delle imposte.
Anzitutto, le imposte possono essere classificate in dirette e indirette: le prime sono rivolte a colpire
manifestazioni dirette di capacita contributiva (reddito, patrimonio), le seconde invece, sono manifestazioni
indirette di capacita contributiva, vale a dire fatti economici indicatori dell’esistenza di ricchezza (scambi,
consumi ecc.).
È poi possibile distinguere le imposte sul reddito da quelle sul patrimonio: le imposte sul reddito colpiscono
il reddito, inteso come flusso di ricchezza pervenuto al soggetto in un determinato periodo di tempo; le
imposte sul patrimonio assoggettano ad imposizione, invece, il patrimonio mobiliare o immobiliare.
Un’ulteriore classificazione è quella tra imposte personali, che mirano a ricostruire la condizione reddituale
complessiva del contribuente, tenendo conto anche di circostanze personali o familiari, e imposte reali che
colpiscono singole manifestazioni di capacità contributiva e, quindi, il reddito oggettivamente considerato.
Da ultimo, sotto il profilo economico, le imposte possono essere classificate in (i) fisse, qualora stabilite in
base a parametri prestabiliti (peso, volume); (ii) proporzionali, quando l’aliquota media resta costante per
qualsiasi livello del reddito; (iii) progressive, quando l’aliquota media - intesa come rapporto tra imposta e
base imponibile - aumenta all’aumentare del reddito o del patrimonio e (iv) regressive, quando l’aliquota
media decresce all'aumentare del reddito o del patrimonio.
L’IRPEF è dunque, un tributo diretto, sul reddito, personale e progressivo, che rappresenta l’architrave del
sistema tributario italiano.
Assume grande importa in merito al contributo che fornisce al gettito erariale.
L’IRPEF costituisce il frutto della riforma tributaria di cui alla legge-delega 825/1971.
Mentre il precedente sistema di tassazione era articolato su un insieme di imposte reali e cedolari che
colpivano separatamente i vari terreni, redditi agrari, fabbricati e ricchezza mobile, ed era ancorata ad una
rigorosa applicazione del principio di territorialità, al fine di assicura una progressività dell’imposizione, nel
nuovo sistema viene mantenuta e confermata la classificazione dei redditi in sei distinte categorie, ma la
natura del reddito diviene irrilevante ai fini della tassazione confluendo tutti i redditi di categoria nel reddito
complessivo soggetto a tassazione personale e progressiva.
Oltre alla progressività, altro carattere fondamentale dell’IRPEF è la personalità, che si esprime attraverso
una determinazione quantitativa della base imponibile del tributo.
In sostanza si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta:
B. sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
C. hanno il domicilio in Italia, ai sensi dell’art. 43 c.c.;
D. hanno la residenza, ai sensi dell’art. 43, nel territorio dello Stato.
Sono ulteriormente considerati residenti, ai sensi dell’art. 2-bis TUIR, salvo prova contraria, i cittadini
italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori a regime fiscale
privilegiato (c.d. paradisi fiscali), individuati con D.M. 4-5-1999.
Per tutti e tre i requisiti - tra loro alternativi - vale inoltre il requisito temporale, nel senso che devono
sussistere per la maggior parte del periodo d’imposta, normalmente pari a 183 giorni (184 giorni per gli anni
bisestili).
Come accennato, è prevista una differenziazione tra i soggetti residenti e i soggetti non residenti.
I primi sono assoggettati ad imposizione per i redditi ovunque prodotti, in base al c.d. world wide principle o
principio della tassazione mondiale, in forza del quale concorrono a formare la base imponibile tutti i redditi,
sia di fonte estera che interna, posseduti dal soggetto;
I secondi, cioè i soggetti non residenti, la base imponibile IRPEF è costituita dai soli redditi prodotti nel
territorio dello Stato, alla stregua dei criteri di localizzazione indicati dall’art. 23 TUIR.
Ai sensi dell’art. 32 TUIR, in merito ai redditi prodotti dai soggetti non residenti, si considerano prodotti nel
territorio dello Stato:
8. redditi fondiari, che per definizione sono quelli inerenti ai terreni ed ai fabbricati situati nel territorio
Il reddito d’impresa trova la propria disciplina all’art. 55 TUIR (d.p.r 917/1986) per quanto riguarda
l'attività esercitata, e gli artt. 6 e 81 circa la natura giuridica del soggetto passivo.
Il comma 1 dell’art. 55 definisce redditi di impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese
commerciali, cioè dall’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate
dall’art. 2195 c.c.
Anzitutto, l'attività produttiva di un reddito d’impresa si presenta, nella maggior parte dei casi, composta al
suo interno da una pluralità di atti di scambio sul mercato.
Inoltre, al fine di potersi qualificare come produttiva di reddito d’impresa, l'attività deve presentare il
carattere dell'economicità, in quanto sostenuta da entrate di natura corrispettiva e priva di ricavi o non
preordinata almeno a coprire i costi di produzione.
Viceversa, per la qualificazione di impresa ai fini fiscali non si richiede il perseguimento di un fine di lucro,
sia esso di carattere oggettivo ovvero soggettivo.
La qualificazione dell'attività quale produttiva di redditi d’impresa richiede, poi, che essa sia svolta “per
professione abituale”. L'abitualità implica la stabilità, la regolarità dell’iniziativa, il suo protrarsi nel tempo,
anche se non con rigorosa continuità.
Secondo la dottrina dominante, il requisito dell'abitualità comprende quello della professionalità ed assume
una funzione di discriminazione della categoria dei redditi d’impresa rispetto a quella dei redditi diversi cui
vengono ricondotti i redditi da attività commerciali esercitate in modo occasionale.
Venendo al contenuto dell'attività esercitata, l’art. 55, comma 1 con rinvio all’art. 2195 c.c., definisce
fiscalmente commerciale l'attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi, quella di
intermediazione nella circolazione di beni, quella di trasporto per terra, acqua e aria, quella bancaria e
assicurativa, e le attività ausiliari alle precedenti.
In base al comma 2 dell’art. 55, sono considerate produttive di redditi d’impresa altre tre fattispecie:
- le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c. che siano organizzate in forma d’impresa;
- lo sfruttamento delle miniere, cave, torbiere, laghi ecc.
- le società agricole
Ai sensi dell’art. 6, comma 3, sono considerati ulteriormente redditi d’impresa, i redditi delle società in nome
collettivo e in accomandati semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale.
È controverso, invece, se la c.d “società tra professionisti” (c.d. “STP”) disciplinata dalla l. 183/2011
produca reddito di lavoro autonomo o reddito di impresa. L’orientamento prevalente identifica la STP in
1. Sono redditi d'impresa quelli che derivano dall'esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese
commerciali si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché' non esclusiva, delle attività' indicate
nell'art. 2195 c.c., e delle attività' indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell'art. 32 che eccedono i limiti
ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d'impresa.
2. Sono inoltre considerati redditi d'impresa:
a) i redditi derivanti dall'esercizio di attività' organizzate in forma d'impresa dirette alla prestazione di
servizi che non rientrano nell'art. 2195 c.c.;
b) i redditi derivanti dall'attività' di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre
acque interne;
c) i redditi dei terreni, per la parte derivante dall'esercizio delle attività' agricole di cui all'articolo 32, pur
se nei limiti ivi stabiliti, ove spettino alle società' in nome collettivo e in accomandita semplice nonché' alle
stabili organizzazioni di persone fisiche non residenti esercenti attività' di impresa.
- Le disposizioni in materia di imposte sui redditi che fanno riferimento alle attività' commerciali si
applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività' indicate nel presente articolo.
Le variazioni al risultato civilistico derivano, come sintetizzato nel prospetto, dall’applicazione delle norme
tributarie, che, in alcuni casi, divergono dalle norme civilistiche sul bilancio d’esercizio prevedendo un
trattamento specifico dei componenti positivi e negativi del reddito.
Nella determinazione del reddito imponibile dell’impresa da assoggettare alle diverse imposte (IRPEF/IRES,
IRAP) vi sono regole parzialmente diverse tali da determinare imponibili differenti.
Vale la pena ricordare che, in linea generale, una volta determinato l’imponibile da assoggettare a prelievo
fiscale, questo viene tassato nel seguente modo:
In considerazione di quanto previsto dall’art.56 TUIR, che determina come le regole per la formazione del
reddito d’impresa (artt. 81-110 TUIR) per le società di capitali si applichino anche per le società in nome
collettivo ed accomandita semplice (fatte salve le regole specifiche per questo tipo di società individuate agli
artt. 55-66), ci soffermeremo nel prosieguo sulle caratteristiche principali che caratterizzano la
determinazione del reddito delle società di capitali.
Stabilito quanto sopra, le norme fiscali che agiscono sulla determinazione dell'imponibile d’impresa possono
essere raggruppate come segue:
• norme generali sui componenti del reddito d’impresa;
• norme generali sulle valutazioni;
• norme sui componenti positivi del reddito;
• norme sui componenti negativi del reddito;
• le valutazioni delle rimanenze e poste assimilate.
Il legislatore fiscale ha previsto, accanto a norme volte a disciplinare singoli componenti positivi e negativi
del reddito, norme intese a fornire regole generali per la determinazione del reddito imponibile. Queste
norme sono contenute nell’art. 109 del TUIR e riguardano: la competenza, l’imputazione al conto economico
e l’inerenza.
• Il principio di competenza
In merito alla competenza si può affermare, come principio generale, che i ricavi, le spese e gli altri
componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza. Questo
principio può in alcuni casi essere derogato dalle norme relative ai singoli componenti. Tuttavia, i costi e i
ricavi di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo
l’ammontare, concorreranno a formare il reddito imponibile nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni.
Ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza:
i corrispettivi delle cessioni si considerano conseguiti, e le spese d’acquisizione dei beni si considerano
sostenute, alla data della consegna o spedizione per i beni mobili e della stipulazione dell’atto per gli
immobili e per le aziende, ovvero, se diversa e successiva, alla
• data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale;
• i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti, e le spese d’acquisizione dei servizi
si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle dipendenti
da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici,
alla data di maturazione dei corrispettivi.
• Il principio di inerenza.
Con riguardo all’inerenza l’art. 109 c. 5 TUIR definisce come costi deducibili ..... “ le spese e gli altri
componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale,......
se e nella misura in cui si riferiscono ad attività di beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono
a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.
Per poter procedere alla deduzione dei costi è quindi fondamentale che essi siano considerati inerenti
all’attività svolta, che cioè il loro sostenimento sia necessario per la produzione dei ricavi.
Con le sentenze del 24 febbraio 2006 e del 13 settembre 2010, la Corte di Cassazione ha specificato che, in
caso di verifica, la prova dell’effettiva inerenza della spesa spetti al contribuente; questi è quindi chiamato a
dimostrare che l’effettivo sostenimento del costo è strettamente legato all’attività svolta.
In sostanza la prova del sostenimento e "… dei presupposti dei costi … concorrenti alla determinazione del
reddito d'impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di
ricavi,…" non spetta, quindi, all'Amministrazione finanziaria che abbia recuperato tali elementi negativi in
sede di eventuale verifica, quanto piuttosto al contribuente che ne chiede la deducibilità (Cassazione
739/2010).
Come poi definito dalla circolare 1/2008 della Guardia di Finanza, l’inerenza deve essere dimostrata sia dal
punto di vista qualitativo che quantitativo:
• Qualitativo: è necessario dimostrare che i costi sostenuti sono direttamente imputabili all’attività
attraverso documenti che attestino, in maniera corretta e precisa, la loro inerenza. Ad esempio,
l’esplicita indicazione nella fattura che i costi sono sostenuti per un determinato progetto, cantiere o
lavorazione
• Quantitativo: in caso di verifica è necessario poter fornire indicazioni in merito all’ammontare del
costo sostenuto, ed alla sua congruità rispetto all’attività svolta e ai ricavi conseguiti. In particolare
nel caso in cui le spese sostenute siano sproporzionate rispetto ai ricavi, potrà sussistere la possibilità
che tali costi vengano ripresi a tassazione, salvo che il soggetto non sia in grado di dimostrarne il
motivo.
L’Amministrazione Finanziaria riconosce comunque che tale collegamento costi/ricavi può anche essere
adeguatamene provato con mezzi diversi dalle scritture contabili tradizionali, ma deve comunque risultare da
elementi certi e precisi.
Pertanto, una errata indicazione di elementi certi e precisi in documenti fiscalmente rilevanti, senza una
• I redditi fondiari.
La disciplina dei redditi fondiari è contenuta agli artt. da 25 a 43 TUIR (d.p.r. 917/1986).
“Sono redditi fondiari quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o
devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. I
redditi fondiari si distinguono in redditi dominicali dei terreni, redditi agrari e redditi dei fabbricati”.
La tassazione di tali redditi ruota intorno al “catasto”, che svolge nel nostro ordinamento una funzione
centrale nella c.d. “fiscalità immobiliare”. Il catasto, che è lo strumento sia per individuare i beni
immobili produttivi di redditi fondiari, sia per determinare il relativo reddito (rendita catastale), ha una
funzione strumentale ai fini della determinazione dei redditi fondiari.
A questa funzione se n’è aggiunta un'altra: il catasto adesso rileva anche quale fonte dei valori assunti a
base imponibile nell’ambito delle imposte sul patrimonio e sui trasferimenti di ricchezza.
A livello pratico, il catasto è un inventario in cui sono censiti i terreni ed i fabbricati con attribuzione di
rendita, nonché i proprietari o i titolari di diritti reali di godimento sugli stessi beni.
Il suo scopo fiscale consiste nell’attribuire una rendita a singole unità elementari, costituite:
- per i terreni, dalla c.d. “particella catastale”, intesa quale porzione continua di terreno di un
medesimo possessore
- per i fabbricati, dalla c.d. “unità immobiliare urbana”, intesa come fabbricato idonea a produrre un
reddito proprio, nello stato in cui si trova.
I redditi da terreni si distinguono in redditi dominicali e redditi agrari, distinzione che riflette l’ideale
scomposizione dei redditi dei terreni in quattro parti.
Il reddito dominicale è costituito dalla parte dominicale del reddito medio ordinario, ritraibile dal terreno
attraverso l’esercizio delle attività agricole. Si tratta di un reddito derivante da una fonte patrimoniale, dal
terreno nel suo stato naturale e dal capitale di miglioramento nella prospettiva dell’esercizio dell’attività
agricola.
Il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale
d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio,
su di esso, di attività agricole. È connesso, dunque, all’esercizio sul fondo delle attività agricole ed è pertanto
attribuito a chi coltiva il terreno.
Le attività agricole rilevanti sono:
- coltivazione del fondo e silvicoltura.
- allevamento di animali.
- produzione di vegetali
- attività connesse (terzo comma, art. 2135 c.c.) dirette alla manipolazione, conservazione,
trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di determinati beni, poste in essere dal
produttore agricolo, e provenienti dalla coltivazione del fondo, dalla silvicoltura e allevamento
bestiame.
Venendo ai criteri di imputazione soggettivi, i redditi sono attribuiti al possessore a titolo di proprietà,
enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale, per possesso si intende la nozione dell’art. 1140 c.c. stante il
collegamento con la res materiale dal quale al possessore gli deriva il reddito. (locazione e comodato non
attribuiscono il possesso, gli immobili dati in comodato danno luogo ad un reddito per il proprietario).
I redditi derivanti da terreni e i fabbricati possono dare luogo, a certe condizioni, anche a redditi di natura
non fondiaria, ed in particolare di lavoro autonomo, di impresa e diversi. Per quanto riguarda il rapporto con
il reddito di lavoro autonomo e di impresa dobbiamo distinguere varie ipotesi.
Per quanto riguarda i terreni, l’esercizio dell’agricoltura dà luogo a reddito d’impresa, e non a reddito
fondiario quando:
- nei casi in cui è svolto da società commerciali ovvero stabili organizzazione in Italia di soggetti non
residenti.
Il sistema di determinazione del reddito prevede “valvole di sicurezza”. In primo luogo, è previsto che le
tariffe d’estimo siano sottoposte a revisione d’ufficio ovvero su richiesta del Comune interessato per
sopravvenuta variazione degli elementi determinanti. In secondo luogo, sono previste ipotesi in cui sia il
contribuente a denunciare eventi che comportino una variazione del reddito domenicale.
Inoltre sono previste ipotesi di inesistenza parziale o totale del reddito dominicale. Tuttavia, non tutti i
redditi fondiari sono determinati sulla base delle tariffe d’estimo, come nel caso dei fabbricati “a
destinazione speciale o particolare” (determinato mediante stima diretta), o nel caso dei “fabbricati locati” in
cui rileva il reddito effettivo solo se sia superiore al reddito medio ordinario.
Il d.lgs. 23/2001 ha anche introdotto la c.d. cedolare secca sugli affitti, ovverosia un regime sostitutivo
opzionale di tassazione per gli immobili a destinazione abitativa consistente nella possibilità di assolvere
un’imposta sostitutiva dell’IRPEF pari al 21% del canone lordo percepito assorbendo peraltro questo
regime sostitutivo anche le addizionali, le imposte di registro e di bollo.
• I redditi di capitale.
La disciplina dei redditi di capitale, contenuta negli artt. 44-48, costituisce il frutto di un duplice intervento
normativo: da un lato, del d.lgs. 461/1997 che ha ridisegnato il sistema di tassazione dei redditi di natura
finanziaria; dall’altro, del d.lgs. 344/2003 che ha disciplinato ex novo i redditi derivanti dalla partecipazione
in società. Il primo specialmente ha interessato i redditi di natura finanziaria, nozione con valore
descrittivo, che comprende i redditi di capitale, riconducibili alla nozione di reddito prodotto, e talune
fattispecie contenute nei redditi “diversi”, questi riconducibili alla nozione di reddito di entrata.
La nozione di “reddito di capitale” si rivolge a qualsiasi rapporto avente per oggetto l’impiego di
capitale”. Restano in tal modo attratti alla disciplina dei redditi diversi quei proventi che, pur implicando
un impiego del capitale, sono caratterizzati dall’incertezza del risultato economico, intesa come possibilità
che da detto impiego scaturisca un differenziale negativo o positivo. Sono quei redditi di natura finanziaria
che vengono definiti “da capitale” in contrapposizione con quelli “di capitale” disciplinati dall’omonima
categoria reddituale.
Le due categorie derivanti dalla nozione di “frutto civile” (art. 820 c.c.) (inteso come corrispettivo derivante
dalla concessone in godimento del capitale), sono le categorie di interessi e dei dividendi. Queste due
categorie costituiscono la struttura portante della nozione di reddito di capitale. Per quanto riguarda gli
interessi sono compresi quelli derivanti da mutui, depositi, conti correnti, obbligazioni ecc. Per interessi si
La disciplina dei redditi di lavoro dipendente è contenuta negli artt. 49-52. Ai sensi dell’art. 49 “sono redditi
di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro, con
qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri”.
La relativa definizione richiama gli elementi costitutivi della definizione di prestatore di lavoro art. 2094 c.c.
secondo cui è tale “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio
lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. I redditi della
categoria in esame sono quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro
subordinato.
Vi sono dei redditi equiparati e dei redditi assimilati.
- Si considerano redditi equiparati il lavoro a domicilio (quando è considerato lavoro dipendente
secondo le norme della legislazione sul lavoro) e le pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse
equiparati, nonché le somme di cui all’art. 429, ultimo comma, c.p.c., ossia interessi e
rivalutazioni relativi a crediti di lavoro.
- I redditi assimilati invece sono una serie di redditi che vengono assimilati a quelli di lavoro
dipendente, pur non avendone tutti gli elementi caratteristici, sia per evitare ogni dubbio di
qualificazione, sia per evitare possibili elusioni. Tra tali ipotesi, rientrano le c.d. collaborazioni
coordinate e continuative, intese come quelle attività svolte senza vincolo di subordinazione a
favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di
mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita.
• I redditi diversi.
La disciplina dei redditi diversi è contenuta agli artt. 67 - 71. È una categoria che accoglie ipotesi eterogenee,
talvolta non riconducibili ad una nozione di reddito prodotto (come le plusvalenze, ma anche i premi e
vincite), altre volte mancanti di qualche requisito che non consente di inquadrarle nelle altre categorie
reddituali. Possono essere definiti tale solo “se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono
conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in
accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente”. Possiamo individuare alcune
categorie di fattispecie omogenee all’interno della categoria dei redditi diversi. Una prima categoria attiene
alle plusvalenze immobiliari, una seconda categoria attiene alle plusvalenze e agli altri redditi di natura
5. La “partecipation exemption”.
L’ultimo istituto da esaminare, in quanto rilevante per la comprensione dell’istituto dell’IRES, attiene alla
c.d. “partecipation exemption” (o PEX) di cui all’art. 87 TUIR.
Le plusvalenze societarie sono strettamente connesse al valore attuale degli utili di impresa e le
partecipazioni costituiscono beni di secondo grado rappresentativi delle consistenze patrimoniali e delle
prospettive di reddito della società partecipata (beni di primo grado). Dividendi e plusvalenze sono redditi
della stessa natura da assoggettare allo stesso meccanismo di tassazione.
e) proventi immobiliari
Le regole applicabili ai proventi immobiliari sono state già esaminate in sede dei redditi fondiari, quindi si
rinvia a tale capitolo.
f) Proventi ed oneri non computabili nella determinazione del reddito (art. 91)
Alcuni proventi non concorrono in tutto o in parte alla formazione del reddito. Tali sono quelli che fruiscono
di esenzioni ad hoc o quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva.
1) Una quota del gettito dell’IVA è destinata al finanziamento delle politiche comunitarie.
2) La sua interpretazione pregiudiziale è rimessa ad un giudice ad hoc (CGUE).
1) Consiste nell’assumere come imponibile il valore pieno dei corrispettivi praticati, ma solo nell’ultima
fase degli scambi (imposta monofase).
2) Consiste nell’assumere come imponibile il valore pieno dei corrispettivi praticati in ogni singolo
scambio (imposta plurifase cumulativa).
3) Consiste nell’applicare l’imposta ad ogni singolo scambio, ma solo sul valore aggiunto (imposta
plurifase sul valore aggiunto).
Prima dell’IVA nel nostro ordinamento vigeva l’IGE ( posta Generale sulle Entrate); che corrispondeva al
secondo modello e non possedeva il carattere né di trasparenza né di neutralità.
L’ IVA, invece, è un’imposta plurifase non cumulativa, applicata ad ogni fase del ciclo produttivo -
distributivo, ma solo sulla differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti ( metodo di
calcolo c.d. “da imposta a imposta”).
In tal modo l’ammontare dell’imposta complessivamente versata all’Erario è sempre identico, così il prelievo
si configura come neutrale.
Il meccanismo dell’IVA coinvolge tre soggetti: un fornitore, un cliente e l’Erario.
Il fornitore deve addebitare in via di rivalsa al cliente il tributo e, a sua volta, deve versarlo all’Erario, al
netto tributo da lui stesso corrisposto ai propri fornitori: l’IVA sui beni e servizi acquistati nell’esercizio di
imprese, arti o professioni, può essere a sua volta detratta dall’IVA sulle operazioni attive. Questo calcolo
(liquidazione del tributo) avviene non per singola operazione, ma per masse: con riferimento a tutte le
operazioni attive e passive effettuate in un determinato periodo.
L’IVA non può essere detratta dal consumatore finale, che si limita a pagare l’IVA sul valore pieno. Così
l’imposta colpisce il consumo finale, mostrandosi invece neutrale nei passaggi intermedi tra produttori,
commercianti e professionisti. In sostanza quindi, il peso dell’IVA grava sul consumatore finale.
Il meccanismo applicativo dell’imposta è, dunque, incentrato sulla neutralità, del tributo per i soggetti IVA
attraverso l’esercizio della rivalsa e il diritto alla detrazione.
Iniziando dal profilo oggettivo dell’operazione, esso risulta dalle cessioni di beni e dalle prestazioni di
servizi (artt. 2 e 3).
In entrambi i casi deve trattarsi di attività economiche svolte in un mercato concorrenziale e pertanto
suscettibili di determinare effetti distorsivi. Ne restano pertanto estranee quelle attività che siano illecite in
senso assoluto, ma non anche quelle in senso relativo.
a) Cessioni di beni
Le caratteristiche della cessione sono la presenza di un atto, i suoi effetti giuridici traslativi o costitutivi, la
sua onerosità e l’oggetto costituito da un bene.
Non si ha cessione quando si tratti di un diritto reale di garanzia o personale di godimento odi un acquisto a
titolo originario.
Riguardo l’atto è sufficiente un qualsiasi atto produttivo di effetti giuridici traslativi e costitutivi.
Quanto al titolo oneroso non occorre necessariamente un contratto a prestazioni corrispettive ; ma deve
esserci una controprestazione ( compenso costituente il controvalore del servizio reso).
Art.2: serie tassativa di ipotesi assimilate alle cessioni, cui mancano alcuni elementi della nozione generale.
Dunque vi rientrano:
- Vendite con riserva di proprietà e delle locazioni con clausola di trasferimento della proprietà
vincolante per entrambe le parti.
Vi è poi una serie di assimilazioni che trovano la loro giustificazione nell’evitare l’immissione in consumo di
un bene senza pagamento dell’imposta:
In entrambe le ipotesi l’assimilazione non opera se non è stata operata la detrazione dell’imposta
sull’acquisto.
Infine sono assimilate alle cessioni onerose le assegnazioni ai soci fatte a qualsiasi titolo da società di ogni
tipo e le analoghe operazioni fatte da enti privati o pubblici.
b) prestazioni di servizi
IL PRESUPPOSTO SOGGETTIVO
Per quanto riguarda il presupposto soggettivo, gli artt. 4 e 5 definiscono rispettivamente l’esercizio di
imprese e l’esercizio di arti e professioni.
Ai sensi dell’art. 4, comma 1, “per esercizio di impresa si intende l’esercizio per professioni abituale,
ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195, anche se non
organizzate in forma di impresa, nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette alla
prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.”.
Requisiti fondamentali per gli imprenditori individuali sono essenzialmente due:
1) deve trattarsi di una delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. oppure nell’art. 2135, anche se svolta in
mancanza di organizzazione in forma di impresa.
2) l’abitualità, intesa come non “occasionalità”, da verificarsi in concreto rispetto alle singole attività
svolte. Dovrà in ogni caso trattarsi di atti svolti in modo sistematico e coordinato in vista di un fine
unitario, tali da costituire una vera e propria attività.
IL PRESUPPOSTO TERRITORIALE
L’art. 1 richiede, infine, che la cessione di beni o prestazione di servizi sia effettuata nel territorio dello Stato.
L’individuazione del requisito territoriale è fondamentale i quanto consente di stabilire che l’operazione è
“soggetta” ad IVA in quel determinato Stato e non in un altro, il quale Stato pertanto diventa creditore di
quella determina imposta. Al tempo stesso, gli effetti giuridici dell’IVA addebitata in quel determinato Stato
devono esaurirsi in quello stesso Stato.
L’art. 7 con la innanzitutto, la nozione di territorio, distinguendo tra territorio dello stato e territorio della
comunità.
Per quanto riguarda il territorio dello Stato, si tratta del territorio della Repubblica italiana, vale a dire quello
soggetto alla sua sovranità. Non comprende, invece, i comuni extradoganali di Livigno e di Campione
d'Italia e le acque nazionali del lago di Lugano.
Per quanto riguarda le regole generali di territorialità, È necessario distinguere tra cessioni di beni e
prestazioni di servizi.
1) Operazioni non imponibili. Consistono nelle esportazioni e non comportano l'addebito dell'imposta nei
confronti del concessionario ovvero del committente, in quanto si assume che il consumo avverrà in
territorio diverso da quello italiano. Tuttavia, esse consentono la detrazione dell'Iva assolta a monte
sugli acquisti di beni e servizi inerenti alla specifica attività economica esercitata.
1) Operazioni esenti. oNn comportano l'addebito dell'imposta ma, diversamente dalle operazioni non
imponibili, non concedono loro volta a chi le pone essere il diritto alla detrazione dell'imposta assolta a
monte. Ne consegue che il soggetto passivo che effettua attività che danno luogo a operazioni esenti, si
colloca nella medesima situazione del consumatore finale. Per quanto riguarda il relativo contenuto, la
tipologia delle operazioni esenti è molto ampia ed eterogenea e deve considerarsi tassativa.
1) Operazioni escluse/fuori campo IVA/non soggette. Si tratta, in primo luogo, di quelle operazioni che
difettano di tutti e tre i presupposti. Vi sono poi le operazioni escluse in senso tecnico. In ogni caso tali
operazioni non prevedono né l’applicabilità del tributo, né l’adempimento degli obblighi formali, né
il diritto alla detrazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1, la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, è data
dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o al prestatore secondo le condizioni
contrattuali; non ha dunque rilievo il valore normale o il valore venale dell’oggetto del contratto, ma il
corrispettivo pattuito.
Sono compresi nell’imponibile anche gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione, nonché i debiti e gli oneri
verso terzi accollati al cessionario o al committente e le integrazioni dovute da altri soggetti.
Ai sensi dell’art. 15, non concorrono, invece, a formare la base imponibile: gli interessi moratori e le penalità
in genere come ritardi o altre irregolarità negli adempimento degli obblighi del cessionario o del
committente; e le somme dovute a titolo di risarcimento del danno.
LA RIVALSA E LA DETRAZIONE
A) Secondo l’art. 18, il soggetto che effettua la prestazione di beni o la cessione di servizi deve addebitare la
relativa imposta a titolo di rivalsa al cessionario o al committente.
Il diritto di rivalsa è quindi un credito del soggetto passivo dell’IVA, nei confronti della controparte
contrattuale (cessionario o committente), che si aggiunge, per effetto di legge, al corrispettivo pattuito.
Il credito sorge, in concreto dall’addebito dell’IVA nella fattura. La fattispecie da cui scaturisce il diritto di
rivalsa è composta, perciò, di due elementi: la effettuazione di un’operazione imponibile e la emissione
della fattura.
Il soggetto passivo IVA, quando effettua una operazione imponibile, deve emettere fattura addebitando “la
relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente”.
La rivalsa, oltre che un diritto, è un obbligo. L’obbligo ha per oggetto l’emissione della fattura, con addebito
della rivalsa. Il soggetto passivo IVA ha l’obbligo di far sorgere il diritto di rivalsa; ha l’obbligo, in altri
termini, di costituirsi creditore.
B) Ai sensi dell’art. 19, per la determinazione dell’imposta dovuta, è detraibile dall’imposta sulle operazioni
effettuate (quindi dall’IVA sulle vendite o “a valle”), l’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui
addebitata a titolo di rivalsa per i beni o servizi importati o acquistati nell’esercizio della propria attività di
impresa, arte o professione. Ciò vale anche per i beni importati.
La detrazione, quindi, consente al soggetto passivo (o debitore dell’imposta) di recuperare il tributo a lui
addebitato in via di rivalsa dal cedente o dal prestatore, consentendogli di non rimanere inciso dall’imposta.
L’imposta è detraibile solo se inerente all’esercizio delle attività svolte, nel senso che il bene o il servizio
acquistato deve essere collegato all’attività del soggetto passivo.
L’imposta è detraibile dal cliente se addebitata sulle fatture di acquisto rilasciate dai fornitori di beni e
servizi, indipendentemente dall’avvenuto pagamento del relativo importo da parte del cliente stesso. (c.f.r.
credito di rivalsa).
Vi sono tuttavia dei casi in cui la detrazione non è ammessa, distinguendo due categorie:
1. ipotesi di indetraibilità c.d. oggettiva, disciplinate all’art. 19-bis. Per alcuni beni e servizi (ad es;
aeromobili, autovetture e autoveicoli, navi ecc.) sono infatti previste limitazioni (totali o parziali) al
diritto di detrazione, a meno che essi non formino oggetto dell’attività propria dell’impresa.
2. ipotesi di indetraibilità c.d. soggettiva, disciplinata dall’art. 19, comma 2 e 3. In particolare, si precisa
che non è detraibile l’imposta riguardante l’acquisto o l’importazione di beni e servizi afferenti
operazioni esenti, o comunque non soggette all’imposta. In altri termini, il soggetto che effettua questa
tipologia di operazioni non è ammesso a portare in detrazione l’IVA sugli acquisti su beni o servizi
utilizzati per effettuarle.
L’individuazione di chi è tenuto al pagamento dell’imposta, per la quale si siano verificati tutti i presupposti
(soggettivo, oggettivo e territoriale), trova applicazione ai sensi dell’art. 17.
Sono quindi soggetti passivi ai fini IVA coloro che esercitano attività di impresa.
Il comma 2 prevede, tuttavia, che nel caso di cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nel territorio
dello Stato da soggetti non residenti nei confronti di soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato, i
relativi obblighi sono adempiuti dai cessionari o committenti.
In altri termini, quando l’operazione si considera effettuata in Italia ed è stato un soggetto estero a porla in
essere, è il soggetto passivo cessionario o committente residente che porrà1 in essere gli obblighi di
fatturazione e versamento.
Vi è dunque un generalizzato obbligo di c.d. “reverse charge” (o inversione contabile) per tutte le cessioni di
beni e tutte le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti nei confronti
di soggetti “stabiliti” in Italia.
- procederà ad emettere una “autofattura” nell’ipotesi in cui il fornitore di beni o servizi sia un soggetto
stabilito fuori dall’UE.
- procederà invece ad una “integrazione della fattura” nell’ipotesi in cui tale fornitore sia stabilito (non
semplicemente identificato) nella UE e dunque sia già tenuto ad emettere fattura.
Il successivo comma 3 dispone, infine, che nel caso in cui gli obblighi (fatturazione e versamento) o i diritti
(si pensi al diritto al rimborso dell’imposta pagata) derivanti dall’applicazione delle norme IVA siano
previsti a carico ovvero a favore di soggetti non residenti e senza stabile organizzazione in Italia, i medesimi
sono esercitati, nei modi ordinari, dagli stessi soggetti direttamente ovvero tramite un loro rappresentante
fiscale.
Le disposizioni di cui ai citati commi 2 e 3 non si applicano, ovviamente, per le operazioni effettuate da o nei
confronti di soggetti non residenti, qualora le stesse siano rese o ricevute per il tramite di stabili
organizzazioni nel territorio dello Stato.
In tale contesto, il “reverse charge” nasce dall’esistenza di frodi ai fini IVA nelle quali il fornitore, dopo aver
addebitato l’IVA al cliente, si sottrae nei modi più diversi al relativo versamento restando tuttavia fermo il
diritto alla detrazione in capo al cessionario o al committente, salvo dimostrarne la malafede o la connivenza
con il fornitore. (c.d. “frodi carosello”). In questo modo, lo Stato si trova dinanzi ad un suo debito senza aver
mai incassato la corrispondente IVA.
Per contrastare tale tipologia di frodi, si è pertanto esteso a talune operazioni e per determinati settori a
maggior rischio (ad es., subappalti, fabbricati abitativi e strumentali), il meccanismo del c.d. “reverse
charge”, sulla base del quale il soggetto cedente non addebita l’IVA in fattura, non facendo pertanto sorgere
alcun suo debito nei confronti dell’Erario, ma emette fattura senza applicazione dell’imposta.
1. Il primo adempimento consiste nella presentazione della dichiarazione d’inizio attività (art. 35). Infatti,
chi intraprende l’esercizio di un’impresa arte o professione nel territorio dello Stato deve presentare
all’Agenzia delle entrate una dichiarazione di inizio attività, ricevendo un numero di partita IVA, che lo
identifica come soggetto passivo. Si tratta di una comunicazione che ha ad oggetto i dati identificativi del
contribuente, l’attività che si intende svolgere, i luoghi in cui la si intende esercitare e il luogo dove è
tenuta la contabilità. Essa deve essere effettuata entro 30 giorni dall’inizio dell’attività utilizzando un
modello approvato con provvedimento del Direttore generale dell’Agenzia delle entrate a pena di nullità.
Effettuata tale comunicazione all’Agenzia delle entrate, al contribuente viene attribuito un numero di
partita IVA che diventa il numero identificativo del contribuente.