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APPROFONDIMENTO SULLE BACCANTI

Trama

Dioniso è giunto – come egli stesso dice nel prologo – a Tebe per dimostrare la sua divinità alle sorelle della madre
Semele, le quali negano che egli sia figlio di Zeus. Per punizione il dio le ha invasate insieme a tutte le altre donne di
Tebe che ora stanno baccheggiando sul monte Citerone.
Anche il vecchio re Cadmo – che ha ceduto il potere al nipote Penteo – e il vecchissimo sacerdote Tiresia si stanno
avviando, in abito da baccanti, alla celebrazione del rito orgiastico in onore del nuovo dio.
Penteo intende opporsi alla follia generale e ordina alle guardie di catturare e di portargli dinanzi quello straniero,
distruttore della società civile, che diffonde riti osceni.
Lo straniero non si oppone e si lascia arrestare. Condotto davanti a Penteo, ne ascolta con calma le infuriate accuse e
accetta di buon grado di lasciarsi chiudere in carcere, dicendosi sicuro che Dioniso (ma è ovviamente il dio stesso che
sta parlando in sembianze umane) lo libererà facilmente.
Ecco, infatti, subito dopo, che la terra trema, crolla la reggia di Penteo, un fulmine di Zeus fiammeggia sopra la tomba
di Semele e il dio ricompare in scena fra le baccanti prostrate.
Rientra in scena Penteo e, più furente che mai, ordina alle guardie di catturare e porre in ceppi tutte le baccanti.
Il dio, con sottile e feroce astuzia, inizia ora a tessere il piano della sua perfida vendetta. Convince, infatti, Penteo – a
poco a poco preso dalla leggera follia ispiratagli dal dio – a seguirlo sul Citerone, dopo essersi travestito da baccante,
per vedere egli stesso le baccanti.
Penteo si lascia persuadere e segue il dio. Questi, giunto sul monte, lo fa salire su un alto pino che ha con estrema
facilità piegato egli stesso sino a terra per consentire a Penteo di montarvi a cavalcioni. Un simile atto di forza
sovrumana dovrebbe rivelare a Penteo la vera identità e la vera natura dello straniero, ma il re di Tebe non avverte nulla
e, quindi, cade irreparabilmente nella terribile trappola.
Infatti, non appena il pino si è risollevato in alto, lasciato andare lentamente da Dioniso per non disarcionare Penteo, il
dio lancia un grido alle baccanti rivelando loro la presenza di Penteo, profanatore dei sacri riti. Le baccanti si scagliano,
guidate da Agave, la madre di Penteo, contro il misero re di Tebe. Tutte, infatti, in preda all’invasamento divino non lo
riconoscono e lo scambiano per un leone, facendone orrido scempio.
Ancora in preda alla furia bacchica, Agave ricompare in scena reggendo fra le mani il capo di Penteo che ancora crede
una testa di leone. Gradualmente riprende coscienza e alla fine ha la tragica consapevolezza di quanto la follia bacchica
l’ha spinta a compiere.
Mentre Agave e Cadmo piangono, sia la morte di Penteo che la rovina della loro casa, ricompare Dioniso, questa volta
in tutta la sua maestà divina. Il dio spiega di aver architettato il tutto per punire chi non credeva nella sua natura divina e
condanna Cadmo e Agave ad essere esiliati in terre lontane.

Il posto delle Baccanti nell’opera di Euripide


Dopo la messa in scena dell’Oreste nella primavera del 408 Euripide lasciò Atene, per non tornare più: egli aveva
accettato l’invito di Archelao, il sovrano ellenizzante dei semi-barbari Macedoni, ansioso di fare della sua corte un
centro di cultura greca. Il poeta aveva più di 70 anni e, come abbiamo ragione di credere, era un uomo deluso. Se gli
elenchi dei vincitori costituissero una prova, egli come drammaturgo aveva avuto un successo parziale; era diventato il
bersaglio dei poeti comici; e poi, in un’Atene agitata da venti anni di crescenti disastri bellici, le sue franche critiche alla
demagogia e al potere politico dovettero procurargli molti nemici. Può esserci del vero nella tradizione conservata in un
frammento di Filodemo: "Dicono che, pieno di amarezza perché quasi tutti si rallegravano dei suoi insuccessi, se ne
andò da Archelao". In Macedonia continuò a scrivere, mettendo in scena l’Archelao, un dramma su un antenato
eponimo del suo ospite, che poté essere rappresentato nel nuovo teatro fatto costruire da Archelao a Dione. E quando
egli morì, nell’inverno del 407-406, tre nuove tragedie furono trovate fra le sue carte: le Baccanti, l’Alcmeone a Corinto
(ora perduta) e l’Ifigenia in Aulide - quest’ultima forse incompiuta. In seguito questi drammi furono rappresentati ad
Atene dal figlio (o nipote) del poeta, Euripide il giovane, e vinsero il primo premio. La supposizione così venuta a
crearsi che le Baccanti furono completate, se non concepite, in Macedonia poggia sui riferimenti elogiativi alla Pieria
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(409-11) e alla valle del Ludia (568-75) - regioni entrambe visitate con piacere da Euripide, perché Dione era situata
nella prima e Ege, capitale della Macedonia, nella seconda.
Non ritengo tuttavia probabile che la tragedia fosse in origine destinata al pubblico macedone: le allusioni a teorie e
polemiche contemporanee dei vv. 201-3, 270-1, 274ss., 890ss., e altrove, sono di certo destinate ad un uditorio ateniese;
e noi abbiamo visto che in questo periodo il problema sociale della religione orgiastica era vivo ad Atene almeno quanto
in Macedonia.
Perché Euripide, innovatore e sperimentatore infaticabile qual era sempre stato, lasciò come ultima eredità ai suoi
compatrioti questa tragedia prodigiosa, attuale, eppure profondamente tradizionale, ‘arcaica’ sia per stile e struttura, sia
negli eventi che rappresentava, eppure carica di una sconvolgente tensione emotiva? Aveva egli qualche lezione da
impartire loro? La maggior parte dei suoi pretesi interpreti lo hanno creduto, anche se non sono riusciti a mettersi
d’accordo sulla natura di tale lezione. Poichè la tragedia mostra la potenza di Dioniso e il tremendo destino dei suoi
oppositori, la prima spiegazione venuta in mente agli studiosi fu che il poeta avesse avuto (o ritenuto utile fingere) una
conversione in punto di morte: le Baccanti erano una ‘palinodia’, una ritrattazione di quell’ ‘ateismo’, di cui Aristofane
lo aveva accusato (Thesm. 450s.); erano state scritte da Euripide per difendersi dall’accusa di empietà che presto
avrebbe schiacciato il suo amico Socrate (Tyrwhitt, Schoene), o "per metterlo in una giusta luce di fronte al pubblico su
questioni nelle quali era stato frainteso" (Sandys), o per un sincero convincimento "che la religione non dovesse essere
esposta alle sottigliezze del ragionamento" (K. O. Müller), in quanto "egli non aveva trovato nessun appagamento nella
sua miscredenza" (Paley). Piuttosto stranamente, pare che buoni studiosi cristiani siano stati ricompensati da questa idea
della conversione in extremis del loro poeta all’ortodossia pagana; e tale, o simile, rimase l’opinione prevalente fino alla
fine del XIX secolo. In questo periodo nacque una generazione che, nutrendo tutta una serie di diversi pregiudizi,
ammirò Euripide per tutt’altre ragioni e cercò di adeguare le Baccanti alle sue proprie vedute fornendone
un’interpretazione radicalmente opposta. Sottolineando correttamente che Cadmo e Tiresia sono mediocri campioni
dell’ortodossia e che Dioniso si comporta con spietata crudeltà non solo contro i suoi oppositori, Penteo e Agave, ma
anche con il suo sostenitore Cadmo. I più accorti fra i critici recenti hanno riconosciuto l’inadeguatezza sia della teoria
della ‘palinodia’, sia di quella opposta. Ciascuna tesi si adatta ad alcuni fatti, ma non chiaramente ad altri: vale a dire
che entrambe sono troppo riduttive.
(a) Uno studio più approfondito dell’opera del poeta nel suo complesso non rivela nessun volta-faccia così repentino,
come vorrebbe la tesi della ‘palinodia’. Da un lato l’interesse, la simpatia e la comprensione di Euripide per la religione
orgiastica non risalgono al suo soggiorno in Macedonia: appaiono già nel canto degli iniziati nei Cretesi (fr. 472
Nauck), nell’ode sui misteri della Madre della Montagna nell’Elena (1301 ss.) e nei frammenti di un coro nell’Ipsipile
(frr. 57, 58 Arnim = 31, 32 Hunt). L’Elena fu rappresentata nel 412, l’Ipsipile qualche anno dopo; ma i Cretesi
sembrano essere opera anteriore. I cori delle Baccanti costituiscono così l’ultima e più compiuta espressione di
sentimenti che avevano ossessionato Euripide per almeno sei anni prima della sua morte, e forse per molto di più. Così
anche gli attacchi alla ‘ingegnosa abilità’ e l’elogio alla saggezza istintiva della gente semplice, che bha sorpreso i
critici delle Baccanti, non sono in realtà niente di nuovo. D’altro canto, la discrepanza fra le norme morali implicite nei
miti e quelle dell’umanità civile, su cui molti dei personaggi di Euripide richiamano l’attenzione, non è ignorata nelle
Baccanti. La vendetta di Dioniso è tanto crudele e indiscriminata quanto quella di Afrodite nell’Ippolito. In entrambe le
tragedie un umile adoratore della divinità protesta contro questa immoralità, e protesta invano (Ba. 1348-9). Inoltre,
entrambe le tragedie finiscono con le simpatie del pubblico concentrate solamente sulle vittime del dio. Non è così che
Euripide, o chiunque altro, avrebbe composto una palinodia.

(bMa3

che Euripide
considerò Afrodite e Dioniso come demoni o come finzioni. A una tale interpretazione delle Baccanti è di fatale
ostacolo la caratterizzazione di Penteo. Se il culto dionisiaco è una superstizione immorale e niente più, ne consegue che
Penteo è uno dei martiri dell’illuminismo. Ma è molto più facile procedere alla calunnia di Dioniso che alla
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riabilitazione di Penteo. Alcuni critici razionalisti hanno imboccato questa seconda via, ma ci vuole una decisa
ristrettezza di vedute per scoprire in lui "il difensore della fede coniugale", "un personaggio coerentemente simpatico".
Euripide, in teoria, poteva rappresentarlo così; egli avrebbe potuto fare di lui un secondo Ippolito, fanatico, ma di un
fanatismo commovente ed eroico. Egli però non ha scelto di farlo così. E infatti gli ha attribuito la fisionomia di un
tipico tiranno da tragedia: mancanza di autocontrollo (214, 343ss., 620s., 670s.); disposizione a credere il peggio sulla
base di dicerie (221ss.) o senza alcuna prova (255 ss.); brutalità nei confronti dei deboli (231, 241, 511ss., 796s.); stolta
fiducia nella forza fisica come mezzo per risolvere problemi spirituali (781-6 n.). Per di più il poeta gli ha dato la stolta
superbia razziale di una Ermione (483-4 n.) e la curiosità sessuale di un voyeur (222-3, 957-60) Non è così che si
rappresentano i martiri dell’illuminismo. Né tali martiri, in punto di morte, ritrattano la loro fede come fa Penteo
(1120s.).
Che dire del divino Straniero? Egli ostenta in ogni momento qualità antitetiche a quelle del suo antagonista umano: in
ciò consiste la particolare efficacia delle scene di contrasto. Penteo è agitato, irascibile, pieno di una eccitazione
morbosa; lo Straniero mantiene dall’inizio alla fine una calma tranquilla e sorridente (hJsuciva, 621-2) - una calma che
noi troviamo dapprima toccante, poi vagamente inquietante, alla fine indescrivibilmente sinistra (439, 1020-23). Penteo
si affida ad uno spiegamento di forze militari; l’unica arma dello Straniero è il potere invisibile che alberga dentro di lui.
All’ ‘abilità ingegnosa’ o ‘realismo’, che vorrebbe misurare ogni cosa col metro volgare di un’esperienza ordinaria, egli
oppone un genere diverso di saggezza che, essendo essa stessa una parte dell’ordine delle cose, conosce quell’ordine e il
posto che vi occupa l’uomo. In tutti questi modi lo Straniero è caratterizzato come un personaggio soprannaturale, in
contrasto col suo avversario fin troppo umano. Lo Straniero si comporta "come un dio" greco si comporterebbe: egli è
l’equivalente di quell’essere sereno e pieno di dignità che noi vediamo rappresentato su certi vasi a figure rosse o in
opere di scultura d’ispirazione attica.
Ma lo Straniero non è semplicemente un essere idealizzato, estraneo al mondo dell’uomo; egli è Dioniso, la
personificazione di quelle tragiche contraddizioni - gioia e orrore, discernimento e follia, gaiezza innocente e tenebrosa
crudeltà - che, come abbiamo visto, sono implicite in ogni religione di tipo dionisiaco. Dal punto di vista della moralità
umana perciò egli è e deve essere una figura ambigua. Guardandolo da questa prospettiva, Cadmo alla fine della
tragedia condanna in modo esplicito la sua crudeltà. Ma la sua condanna è tanto futile quanto quella analoga di Afrodite
nell’Ippolito. Infatti, come Afrodite, Dioniso è una ‘persona’ o un agente morale solo per necessità scenica. Ciò che
Afrodite è in realtà il poeta ce l’ha detto chiaramente:
" Spazia per l’aria, è nel marino
flutto Cipride, tutto da lei ha origine:
è lei che semina e dà amore,
da lei traiamo origine tutti quanti siamo al mondo"
(Euripide, Hypp. 447 ss.)
Chiedersi se Euripide ‘credeva’ in questa Afrodite non ha senso, tanto quanto domandarsi se egli ‘credeva’ nel sesso.
La cosa non è diversa con Dioniso. Come la ‘morale’ dell’Ippolito è che il sesso è cosa sulla quale non ci si può
permettere di fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro rischio l’esigenza che lo spirito
umano ha di un’esperienza dionisiaca. Per chi non chiude la propria mente di fronte ad essa, un’esperienza di tal genere
può essere una sorgente profonda di arricchimento spirituale. Chi, invece, reprime in se stesso questo bisogno o ne
preclude ad altri il soddisfacimento, la trasforma col proprio atto in una potenza disintegrante e distruttiva, una cieca
forza naturale che spazza via l’innocente con il colpevole. Una volta che ciò è accaduto, è troppo tardi per ragionare o
protestare: nella giustizia dell’uomo c’è posto per la pietà, ma non ce n’è alcuno nella giustizia della Natura; al nostro
‘Dovresti’, l’unica risposta della Natura è il semplice ‘Devi’; per noi non esiste nessun’altra scelta, se non accettare
quella risposta e sopportare come meglio possiamo.
Se questo, o qualcosa di analogo, è il pensiero sottinteso della tragedia, ne deriva che il banale interrogativo posto dai
critici del XIX secolo - Euripide era ‘per’ o ‘contro’ Dioniso? - non ammette nessuna risposta formulata in questi
termini. Dioniso, in se stesso, è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (314-18), egli è ciò che noi
facciamo di lui. L’interrogativo posto nel XIX secolo poggiava di fatto sulla supposizione, comune alla scuola
razionalista e ai suoi oppositori, e ancora troppo spesso avanzata, che Euripide fosse, come alcuni dei suoi critici, più
interessato alla propaganda che ai compiti propri del poeta drammatico. Questa supposizione la ritengo falsa. E’ vero,
invece, che in molte delle sue tragedie egli cercò di infondere nuova linfa nei miti tradizionali, immettendovi un
contenuto nuovo e contemporaneo - riconoscendo negli eroi di antiche leggende l’espressione di tipi del V secolo e
ripresentando situazioni del mito nei termini di conflittualità tipiche del V secolo. Come abbiamo visto, qualcosa di
analogo può essere stato l’intendimento del poeta nelle Baccanti. Ma nelle sue migliori tragedie Euripide si serve di
questi conflitti non per fare propaganda, bensì come un drammaturgo dovrebbe servirsene, per far emergere dalla loro
tensione conflittuale il senso del tragico. Non c’è mai stato uno scrittore che in modo più chiaro fu privo della fede di un
propagandista per soluzioni facili e totali. Il suo metodo prediletto è assumere un punto di vista unilaterale: prendere
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una nobile affermazione, che è solo una mezza-verità, per mostrarne la nobiltà, e poi mettere in evidenza il disastro al
quale essa conduce i suoi ciechi seguaci - perché essa è dopo tutto solo una parte della verità. È così che egli ci mostra
nell’Ippolito la bellezza e la limitata insufficienza dell’ideale ascetico, nell’Eracle lo splendore della forza fisica e del
coraggio e il suo precipitare in rovinosa megalomania; è così che nelle sue tragedie di vendetta - Medea, Ecuba, Elettra
- la simpatia dello spettatore prima è rivolta al vendicatore e poi costretta ad estendersi alle sue vittime. Le Baccanti
sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito la gioiosa esplosione di vitalità arrecata dall’esperienza
dionisiaca, né attenuato l’orrore ferino del menadismo ‘nero’; deliberatamente egli guida il suo pubblico attraverso
l’intera gamma delle emozioni, dalla simpatia per il dio perseguitato, attraverso l’eccitazione dei prodigi della reggia e
la macabra tragicommedia della scena del travestimento, a partecipare, alla fine, alla reazione di Cadmo contro quella
giustizia inumana. È un errore chiedersi che cosa egli sta tentando di ‘dimostrare’: il suo intendimento in questa
tragedia, come in tutte le sue più grandi opere, non è di dimostrare qualcosa, ma di potenziare la nostra sensibilità - che
è il proposito proprio di un poeta.
Ciò che rende le Baccanti una tragedia diversa dagli altri lavori di Euripide non è qualche innovazione nella tecnica o
nell’atteggiamento intellettuale dell’autore. È piuttosto quello che sentì James Adam quando affermò che la tragedia
esprimeva "una dimensione emotiva aggiunta" e che era "pervasa da quel genere di gioiosa esaltazione che accompagna
una nuova scoperta o illuminazione". È come se il rinnovato contatto con la natura nella selvaggia regione della
Macedonia e l’immaginario ripensamento dell’antico mito, denso di prodigi, in quei luoghi avessero liberato qualche
scintilla nella mente del vecchio poeta, prima ristabilendo un contatto con sorgenti nascoste di potere che egli aveva
perduto nell’ambiente troppo intellettualistico dell’Atene del tardo V secolo, e poi mettendolo in grado di trovare uno
sbocco a sentimenti che per anni erano stati repressi nella sua coscienza senza giungere a completa espressione. Noi
possiamo immaginare che Euripide disse a se stesso in Macedonia proprio quanto Rilke disse a se stesso al principio del
suo ultimo periodo:
"L’opera della tua vista è compiuta: compi ora l’opera del tuo cuore con le immagini in te
prigioniere. Infatti tu le hai tenute sommerse; ma ora non puoi più"
La "dimensione emotiva aggiunta" insorge non da una conversione intellettuale, ma dall’opera del cuore: da una visione
introspettiva di immagini a lungo rimaste prigioniere nella mente.

ANTOLOGIA DI PASSI TRATTI DALLE BACCANTI

PROLOGO

DIONISO
Eccomi, sono qui, in questa terra di Tebe, io, figlio di Zeus,
Dionìso: mi genera - un tempo - la vergine di Cadmo,
Sèmele, aiutata nel parto dal fuoco della folgore.
Ho mascherato la mia forma, da dio che sono a uomo,
5 e sono qui alla fonte di Dirce e alle correnti dell’Ismeno.
Vedo la tomba di mia madre, lei, la folgorata,
là vicino al palazzo, e vedo le macerie della sua camera
in fumo, avvampate dal fuoco ancora vivo di Zeus:
non muore il rancore di Hera per lei, mia madre.
10 Io lodo Cadmo che ha reso questo luogo impenetrabile:
un reliquiario della figlia sua. Io l’ho velato
con corone di tralci e grappoli di vite.
Ho lasciato le piane ricche d’oro di Lidia
e di Frigia e le plaghe di Persia, sferzate dal sole,
15 e le muraglie della Battriana e la terra gelata
dei Medi; ho attraversato l’Arabia felice
e tutta l’Asia adagiata lungo il mare salato,
incrocio di razze greca e barbara,
che ha città con belle torri,
20 e per la prima volta sono giunto in questa città di Greci.
E in quelle terre ho danzato la mia danza e fondato
i miei misteri, per rivelare ai mortali la mia divinità,
e ora, di questa terra greca, Tebe, per prima,
ho scosso col mio grido, l’ho coperta di pelle di daino,
25 ho messo nelle sue mani il tirso, arma di edera:
merito delle sorelle di mia madre - e proprio loro non dovevano farlo:
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spargevano la voce che io, Dionìso, non sarei figlio di Zeus,


che lei, Sèmele, fatta donna da un uomo qualunque,
incolpava Zeus del peccato commesso nel suo letto
30 - astuzia davvero ispirata di Cadmo! -; e per questo godevano a sparlare,
piene d’invidia, che Zeus l’uccise, per la menzogna delle nozze.
E per questo io, fuori di casa l’ho sferzate col pungolo del mio delirio,
le ho spinte sul monte e là abitano segnate nella mente dalla mia follia,
costrette a vestire i paramenti dei miei riti,
35 e tutto il seme femminile dei Cadmei, tutte le donne,
le ho strappate alle case, in preda al mio furore.
E ora mischiate insieme alle figlie di Cadmo
giacciono sotto verdi abeti, tra rocce a cielo aperto.
Deve imparare bene questa città, fino in fondo, e anche contro la sua volontà,
40 che cosa significa non essere iniziati ai misteri di Bacco.
E io devo provare l’innocenza di Sèmele, mia madre:
e così rivelerò me stesso dio, quel dio che lei partorì a Zeus.
Cadmo ha ceduto il suo prestigio di tiranno
a Pènteo, nato da sua figlia Agàve,
45 e costui fa guerra solo alla mia divinità:
dai sacrifici mi esclude e nelle sue preghiere mai mi ricorda.
Ecco perché rivelerò a lui e a tutti i Tebani
il dio che è in me. Farò ordine qui,
poi muoverò il passo verso un’altra terra,
50 ma solo dopo la mia rivelazione. E se la città dei Tebani,
infuriata, si proverà con le armi a cacciare le Baccanti dal monte,
sarò io ad attaccare e guiderò un esercito in preda al furore.
Per questo ho preso forma mortale,
per questo mi sono trasformato e fatto uomo.
55 Ma voi, che avete lasciato il Tmolo, muraglia di Lidia,
mio tiaso, donne che da terre barbare
ho portato con me, mie compagne d’imprese e di strada,
su in alto i tamburi della terra dei Frigi
- invenzione di Rea Madre e mia -,
60 accerchiate questa reggia di Penteo
e fateli risuonare: ché veda la città di Cadmo!
Io salirò alle gole del Citerone:
là sono le Baccanti e là mi unirò ai loro cori.

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SECONDO EPISODIO

GUARDIA
Eccoci, Pènteo, l’abbiamo catturata, la tua preda,
435 come avevi ordinato. La caccia non è andata a vuoto.
Ma questa fiera fu mansueta con noi, non mosse piede
per darsi alla fuga, anzi ci ha offerto le sue mani, senza resistenza:
non è sbiancata e le sue guance, rosse come vino, non sono scolorite.
Sorrideva e s’è lasciata legare e portar via,
440 immobile, e ha reso facile l’impresa.
E io allora, pieno di rispetto, gli dico: “O Straniero, non per mia volontà
ti porto via, ma di Pènteo, che mi ha mandato, eseguo gli ordini”.
Ma le Baccanti che avevi catturato
e fatte rinchiudere legate nella nostra prigione,
445 loro sono lontane ormai, libere, su ai monti
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saltano e invocano Bromio dio:


da sé a loro le corde si sono sciolte dai piedi
e i chiavistelli hanno spalancato le porte senza che mano d’uomo li toccasse.
Quest’uomo è qui a Tebe con molti miracoli.
450 Al resto, tocca a te pensarci.
PENTEO
Sciogliete le sue mani. Nella rete com’è
non sarà poi tanto veloce da scapparmi via.
Eppure il tuo corpo non è davvero fatto male, Straniero,
almeno per le donne, e per le donne appunto sei venuto qui a Tebe:
455 chioma fluente la tua (non certo di uno che ama la lotta!),
riccioli che si spandono giù lungo le guance, pieni di desiderio;
carnato candido, che certo ti vuoi mantenere:
non vivi, tu, alla luce del sole, tu vivi nell’ombra,
a dài la caccia a Afrodite con questa tua beltà.
460 Ebbene, prima di tutto, dimmi di che razza sei.
DIONISO
Nessun vanto: facile dirti questo.
Il fiorito Tmolo certo tu lo conosci di fama.
PENTEO
So dov’è: circonda tutto intorno la città di Sardi.
DIONISO
Da là vengo: la Lidia è la mia patria.
PENTEO
465 E perché mai porti questi misteri in Grecia?
DIONISO
Dionìso mi ha introdotto, il figlio di Zeus.
PENTEO
C’è là uno Zeus che partorisce nuove divinità?
DIONISO
No. È lo stesso che qui si unì in nozze con Sèmele.
PENTEO
E in sogno o da sveglio ti ha imposto la sua volontà?
DIONISO
470 Io lo vedevo, lui vedeva me, e così mi affidò i suoi riti.
PENTEO
E questi riti, di che specie sono per te?
DIONISO
Cose da non dire: non può sapere chi non è iniziato.
PENTEO
E che guadagno c’è per chi li celebra?
DIONISO
A te è proibito sentire, ma conoscerli merita.
PENTEO
475 L’hai rigirata bene tu, questa risposta, per mettermi la voglia di sapere.
DIONISO
I riti del dio odiano chi pratica sacrilegio.
PENTEO
E questo dio, dici di averlo visto bene: com’era?
DIONISO
Come voleva: io questo non potevo imporlo.
PENTEO
Di nuovo giri intorno proprio bene e non mi dici niente.
DIONISO
480 Chi dice cose sagge, di certo sembra stolto a uno stolto.
PENTEO
È Tebe la prima città dove vieni a portare questo demone tuo?
DIONISO
Già tutti i barbari celebrano questi riti.
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PENTEO
Di certo! Sono più stolti di noi Greci.
DIONISO
Al contrario! Diversi sono i loro costumi.
PENTEO
485 E questi tuoi riti misteriosi, li compi di notte o di giorno?
DIONISO
Di notte, soprattutto: c’è qualcosa di sacro nelle tenebre.
PENTEO
Per le donne c’è solo inganno e marciume.
DIONISO
Se è per questo, la corruzione c’è chi la trova anche di giorno.
PENTEO
La devi pagare per questi tuoi sofismi maliziosi.
DIONISO
490 E tu per la tua stoltezza e, soprattutto, per la tua empietà.
PENTEO
Com’è sfrontato il baccante e a parole se la cava bene.
DIONISO
Dimmi cosa devo subire? Che mi farai di tanto tremendo?
PENTEO
Prima di tutto ti taglierò codesta tua chioma delicata.
DIONISO
Sono sacri i miei capelli: li curo per il dio.
PENTEO
495 Poi mi darai questo tirso che ti tieni in mano.
DIONISO
Prenditelo da solo: è di Dionìso il tirso.
PENTEO
Il tuo bel corpo, lo terremo in custodia dentro il carcere.
DIONISO
Il dio stesso mi libererà, quando io lo vorrò.
PENTEO
Sì, quando lo invocherai in mezzo alle tue Baccanti.
DIONISO
500 Anche ora vede la mia passione: lui è qui, vicino.
PENTEO
E dov’è? Questi occhi miei non lo vedono.
DIONISO
È qui con me: tu sei un empio, per questo non lo vedi.
PENTEO
Prendetelo! Costui non rispetta né me né la città di Tebe.
DIONISO
E io vi dico di non legarmi, io che sono saggio a voi pazzi.
PENTEO
505 E io, invece, dico di legarti, io che sono il più forte.
DIONISO
Tu non sai perché vivi, né che fai, né chi sei.
PENTEO
Io sono Pènteo, figlio di Agàve e di mio padre Echìone.
DIONISO
E proprio nel tuo nome sta scritto il tuo pentimento e patimento, Pènteo.
PENTEO
Vattene ora! E voi rinchiudetelo nelle stalle qui accanto,
510 perché veda bene, lui, laggiù nelle tenebre oscure.
E laggiù balla. E queste donne che ti tiri dietro,
complici del tuo male, le venderemo schiave,
le farò smettere io di far baccano con i loro tamburi
e le terrò ai telai a farmi da serve.
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DIONISO
515 Me ne andrò: ciò che non è destinato,
sta’ sicuro io non dovrò patirlo. Ma, attento! Verrà Dionìso,
quel dio che tu dici non esiste, e ti farà pagare le tue violenze:
tu fai ingiustizia a me, ma è lui che getti in carcere.

Commento

[la sigla DMD seguita dal numero romano rinvia alle schede su "Dioniso e il mondo dionisiaco", che costituiscono un
approfondimento di queste note. Sono stati inseriti solo un numero ridotto di approfondimenti, estratti da un lavoro più
ampio, quindi sono la leggere e studiare solo quelli proposti. Per tutto il resto sono sufficienti le note]
Prologo (1-63). "Come la maggior parte delle tragedie di Euripide, le Baccanti si aprono con un monologo (mentre
Sofocle preferisce il dialogo). Qui, come in altre opere, la finalità principale del monologo è situare l’azione nel suo
contesto di tradizione leggendaria, fornendo coordinate temporali e spaziali, un sommario degli antefatti e le relazioni
fra i principali personaggi" (Dodds). Il fatto che il prologo sia recitato da Dionìso stesso, che è anche protagonista della
tragedia fu, considerato dai contemporanei di Euripide una vera e propria innovazione, perché nelle altre opere chi
recitava il prologo non aveva nessuna parte nel dramma. Aristofane nelle Rane (945s.) mette in evidenza questa
caratteristica attribuendo a Euripide un elogio dei suoi stessi prologhi in polemica con quelli prolissi di Eschilo: "Io non
la facevo tanto lunga con le chiacchiere e non confondevo le cose: chi entrava in scena raccontava tutto d’un fiato
l’origine dell’azione". Con questo non si deve ritenere che il prologo euripideo sia puramente convenzionale e
informativo: soprattutto quello delle Baccanti assume un valore particolare perché rivela allo spettatore tutta l’ambiguità
della natura di Dionìso e proietta così sull’azione drammatica un senso di profonda inquietudine per quanto accadrà di lì
a poco. Il dio stesso, che parla dal theologhèion (la parte dell’edificio teatrale riservata all’intervento di divinità), si
presenta nelle vesti di un giovane Straniero che proviene dalla Lidia: l’attore doveva portare una maschera di tipo
androgino (la descrizione si ricava dai versi 453ss.), maschera che fa emergere quell’idea di ‘alterità’ e di ‘doppio’ che
caratterizza questa inquietante divinità (vd. DMD IV).
1. L’arrivo di Dionìso a Tebe presenta i tratti tipici di un’epifania divina. Il dio ribadisce con forza ed orgoglio la sua
discendenza da Zeus (il nome Diònysos è forse da intendere etimologicamente come "figlio di Zeus") e dice di essere
giunto in città per rivendicare la sua natura divina contro l’empio scetticismo delle figlie di Cadmo.
3. Semele, figlia di Armonia e Cadmo, re fenicio fondatore di Tebe, fece innamorare di sé Zeus e ne rimase incinta
suscitando la gelosia di Era (9), che, prese le sembianze di una donna tebana, consigliò alla principessa di chiedere a
Zeus di mostrarsi in tutto il suo splendore divino. Il padre degli dèi cedette alla richiesta, ma Semele non potè reggere
alla vista di quello splendore soprannaturale e morì incenerita dal fulmine. Morendo generò prematuramente Dionìso
che Hermes riuscì a salvare cucendolo nella coscia di Zeus (la mitica nascita è raccontata nei dettagli dal Coro ai versi
89ss.; vd. anche DMD I).
5. Dirce è la celebre fonte di Tebe; l’eziologia del nome risale al seguente evento mitico: Dirce era la moglie di Lico di
Tebe, la quale, per aver maltrattato Antiope, fu punita dai figli di quest’ultima, Anfione e Zeto; essi la legarono alle
corna di un toro infuriato che la trascinò a morire dentro una fonte che poi prese il suo nome. La vicenda era narrata
nell’Antiope, una tragedia perduta dello stesso Euripide.
6-8. Da Pausania, il periegeta del II secolo d.C., sappiamo che palazzo e camera esistevano davvero: nella piazza
dell’acropoli di Tebe c’erano infatti dei ruderi oggetto di culto; la tomba era situata, invece, nella parte bassa della città
(Descrizione della Grecia, 9.12.3, 9.16.7).
10-11. Cadmo ha reso la porzione di terra toccata dal fulmine un luogo inaccessibile, sacro. Come ricorda M. Eliade
"per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo; presenta talune spaccature, o fratture: vi sono settori dello spazio
qualitativamente differenti tra loro… Nel momento in cui il sacro si manifesta attraverso una qualsiasi ierofania, non
soltanto viene interrotta l’omogeneità dello spazio, ma avviene contemporaneamente la rivelazione di una realtà
assoluta, in opposizione alla non-realtà dell’immensa distesa che la circonda. La manifestazione del sacro fonda
ontologicamente il Mondo. Nella distesa omogenea ed infinita, senza punti di riferimento né possibilità alcuna di
‘orientamento’, la ierofania rivela un ‘punto fisso’ assoluto, un ‘Centro’… Per vivere nel Mondo bisogna fondarlo e
nessun mondo può nascere nel ‘caos’ della omogeneità e relatività dello spazio profano" (Il sacro e il profano, To, 1976,
pp. 19ss.).
9

11-12. La vite che germoglia e produce grappoli d’uva in luoghi inaspettati, come qui tra le macerie, è un segno
miracoloso della presenza del dio. Un fenomeno analogo è descritto nell’Inno Omerico a Dionìso, dove la vite si
arrampica e avvolge l’albero della nave sulla quale Dionìso era trasportato.
13-19. Enumerazione catalogica dei paesi attraverso i quali si propaga il culto orgiastico di Dionìso. Dionìso è dio
‘Straniero’ che si espande nell’immensità della terra. Il catalogo dal sapore esotico doveva provocare una forte
suggestione di potenza agli orecchi dello spettatore antico. L’itinerario descritto non è lineare, ma estremamente sinuoso
per accentuare il senso di spazialità: si va dalle coste dell’Asia Minore (Lidia e Frigia), fino alla Persia e all’odierno
Afghanistan (Battriana); da qui, con una deviazione verso sud, si raggiunge lo Yemen (Arabia Felice), poi ancora le
coste anatoliche ricche di popolazioni miste, perché i Greci, nella seconda colonizzazione, vi si erano fusi con i popoli
indigeni. La descrizione dei viaggi di Dionìso sarà ripresa con ampiezza di particolari nei Dionisiakà di Nonno di
Panopoli.
20-25. Dionìso stesso enumera alcuni fondamentali attributi del suo culto. La danza estatica, che unitamente alla musica
favoriva la trance, i riti misterici, il grido di invocazione, emesso dalle donne durante le cerimonie religiose, la pelle di
daino, usata come paramento rituale a sottolineare l’aspetto ferino degli adepti, e infine il tirso o nartece (cioè una canna
adorna di elementi vegetali) sono emblemi caratteristici delle orge dionisiache (per tali attributi e il loro significato, vd.
DMD III e IX).
26-38. Le sorelle di Semele, madre di Dionìso, sono Ino, Autonoe e Agàve, madre di Pènteo. Esse, incredule e invidiose
perché Semele fu messa incinta da Zeus, calunniano la sorella e la incolpano di aver voluto rifarsi una reputazione
inventandosi questa storia, secondo loro suggerita dal padre Cadmo che avrebbe voluto proteggere con la menzogna
l’onore della figlia. Le sorelle rappresentano la mentalità comune, poco propensa a credere che una donna mortale
potesse partorire un dio. Esse, di fatto, negano l’essenza divina di Dionìso che per questo le punisce. La punizione
inflitta da Dionìso è la follia: l’invasamento dionisiaco le ha costrette ad abbandonare la loro vita domestica di mogli e
di madri per vivere sul Citerone, il monte della Beozia non lontano da Tebe. Nella tragedia la montagna rappresenta lo
spazio aperto, selvaggio e irrazionale, in contrasto con lo spazio chiuso, civilizzato e razionale, della città. Sulla
montagna le donne vivono tutte insieme, principesse e serve, nella più completa promiscuità dei ruoli sociali, e proprio
questo sovvertimento è una caratteristica del culto dionisiaco, che rompe ogni barriera e annulla ogni forma di
emarginazione attraverso la proposta di un nuovo modello religioso. Già da questo momento è introdotta una
distinzione netta e fondamentale per la comprensione della tragedia: il titolo del dramma, Baccanti, è da intendersi in
senso generale, mentre la follia divina investe due diversi tipi di donne, coinvolgendole in diverso modo; una tipologia è
costituita dalle Baccanti o Menadi asiatiche, che sono le fedeli del corteggio di Dionìso, ricolme della sua beatitudine, e
formano il Coro della tragedia; l’altra tipologia è costituita dalle Baccanti o Menadi tebane, quelle punite dal dio per la
loro incredulità. Dodds (I greci e l’irrazionale, Fi, 1973, p. 324, n. 3), analizzando gli aspetti più profondi e reali del
culto, distingue un menadismo bianco da un menadismo nero che corrispondono appunto alle due tipologie presenti
nella tragedia.
39-40. L’idea del ‘si deve’, della ‘costrizione’, è alla base di tutti i culti iniziatici, nei quali è il dio che sceglie e
costringe i suoi adepti. Come suggerisce G. Rouget, "se si diventa seguaci di un culto estatico non è perché lo si sia
voluto – non, in ogni caso, perché lo si è voluto consciamente – bensì perché un dio lo vuole" (Musica e trance, To,
1986, pp. 52ss.). Ma al di là di questo, si deve anche notare che l’idea di ‘costrizione’ è un motivo chiave di questa
tragedia nella quale comportamenti, azioni, gesti anche comuni sono tutti dominati da una superiore necessità.
43-52. Dionìso presenta Pènteo, suo antagonista e vittima rituale, come blasfemo e sacrilego, che non vuole riconoscere
la potenza divina e anzi vuole contrastare la diffusione del culto, addirittura ‘combattere il dio’ (theomachèin). A lui
Dionìso si oppone con il suo ‘esercito’, la sua turba guerriera di donne armate di tirso.
55. Il Tmolo (odierno Musa Dagh) sorgeva a ridosso di Sardi, capitale della Lidia.
56. Il thiasos era una compagnia religiosa (vd. DMD VII).
58-59. I tamburi, o timpani (vd. DMD IX), erano strumento tipico dei culti orgiastici, che non appartenevano in origine
alla tradizione musicale greca, ma provenivano da quella orientale (la Frigia era appunto una regione dell’Asia). Lo
strumento è detto ‘invenzione di Rea’, perché servì a coprire i vagiti di Zeus infante (vd. n. a 120-130).

Secondo episodio (434-518). "Questa è la prima delle tre scene tra uomo e dio, Pènteo e lo Straniero. Esse formano una
specie di trittico, artisticamente costruito con quella equilibrata, antitetica simmetria per la quale risplende l’arte
classica. In questo primo breve incontro il forte gioca a fare il debole, mentre il debole si illude di essere il forte: si
conclude con l’apparente completa vittoria dell’uomo sull’essere soprannaturale. La lunga scena centrale, attentamente
costruita (642-861) mostra il processo attraverso il quale il rapporto viene lentamente rovesciato. La terza scena
10

(912-976), di nuovo breve, mostra il rovesciamento completamente effettuato. Questo conflitto nei suoi tre momenti
costituisce il nucleo drammatico della tragedia: ogni altra cosa conduce ad esso e scaturisce da esso"(Dodds).
"È notevole il reimpiego di questa scena all’interno delle coordinate culturali della Chiesa primitiva: Clemente
Alessandrino, commentando l’episodio di Cristo trascinato davanti ai suoi giudici, impiega alcuni versi di Dionìso
(470-476), istituendo in tal modo una contiguità simbolica tra le due figure del dio perseguitato" (Guidorizzi).
434-437. La guardia, che trascina Dionìso in una rete, esordisce con una metafora della caccia, riprendendo un motivo
già introdotto da Pènteo (228-232) e che avrà un suo seguito con l’ingresso di Agàve in scena, la quale, portando la testa
di Pènteo, vanterà la sua abilità di cacciatrice (1203-1210). Chiara anche l’ironia tragica, dato che poi sarà proprio
Pènteo a cadere nella ‘rete’ tramata per lui da Dionìso.
438-440. Anche il motivo delle guance vermiglie, colore del vino, era già stato anticipato da Pènteo (236): è un tratto
tradizionale della descrizione del dio, come quello del sorriso enigmatico, proprio della statuaria arcaica e che appare
già nell’Inno Omerico a Dionìso (7.4) quando il dio è descritto "sorridente" mentre i pirati lo stanno legando.
447-449. La serie degli eventi miracolosi è segno della presenza del dio e appartiene già al folclore e alla letteratura
(Inno Omerico a Dionìso, 7.13-14). "Si suole citare, a proposito della liberazione prodigiosa delle Baccanti, la
liberazione dal carcere di S. Pietro narrata negli Atti degli Apostoli (12.7) … Dionìso compie qui un tipo di prodigio più
da mago che da dio, rivelando la sua misteriosa natura orientale, e inclina a quella magia teurgica, che in Grecia non si
trova se non nei Misteri o come importazione dall’Oriente, Egitto, India e Persia" (Scazzoso).
453-459. "Un discorso molto ambiguo. L’ironia di Pènteo verso l’aspetto femmineo del suo prigioniero è in primo luogo
quella dell’uomo virile, che contempla con sprezzante superiorità la mollezza orientale del suo avversario (un tema
tipico della ideologia razzista greca). … Inoltre, come è stato notato, c’è una certa morbosa attenzione, quasi una
repressa attrazione da parte di Pènteo, verso l’efebo che gli sta di fronte. Questo prelude ad uno sviluppo fondamentale
nella psicologia del re: l’inquietudine con cui scruta i tratti del suo rivale si manifesterà apertamente quando Pènteo
stesso osserverà compiaciuto il proprio "io" femminile, e le vesti con cui si è mascherato. Ancora, l’attenzione del re si
sofferma in particolare sulla testa del suo prigioniero – quella stessa testa che poco sopra (241) egli proclamava di voler
decapitare o impiccare: un’anticipazione autoreferenziale, dato che alla fine sarà proprio la testa di Pènteo ad essere
staccata dal corpo, mentre la madre delirante si soffermerà a lungo nella descrizione del capo che porta in mano"
(Guidorizzi). Per il travestimento di Pènteo ed il suo autocompiacimento, vd. nn. Ai vv. 821-836; e vv. 925-944.
461-518. "La sticomitia tra Pènteo e Dionìso non è un semplice dialogo, ma un vero e proprio interrogatorio giudiziario,
in cui Pènteo si erige a giudice che ha dinanzi a sé un reo. Tale dialogo inizia con un tono di ufficialità, quasi distaccata,
ma ben presto un sentimento di complesso, risultante da curiosità, odio, esasperazione, rende passionali le battute di
Pènteo, mentre il dio mantiene inalterata la sua hesychìa, "tranquillità" (Scazzoso).
465. "Tutto ciò che veniva dall’Oriente in Grecia ai tempi di Euripide era accolto con una specie di interesse morboso
per quel mondo sconosciuto e pieno di misteri, misto a una certa antipatia e diffidenza. – In Pènteo conservatore e
tiranno la diffidenza e l’antipatia prevalgono…" (Scazzoso).
469. Da Platone sappiamo che molti culti furono istituiti grazie a visioni oniriche (Leggi, 909e).
471-476. L’iniziato a qualsiasi culto misterico aveva l’obbligo del silenzio e la violazione comportava severe punizioni.
Non sarà quindi certamente il dio a trasgredire le prescrizioni e, per questo, Dionìso con ironia elude le domande del
profano Pènteo.
485-486. I riti dionisiaci erano celebrati davvero di notte. In molte località della Grecia, fra cui Delfi, si celebravano le
"feste delle fiaccole" (daidaphòria), a Pellene le "feste dei lumi" (lamptèria); uno degli epiteti di Dionìso era "Notturno"
(Nyktèlios).
493-494. I capelli lunghi e sciolti rientravano nell’abbigliamento dionisiaco: gli iniziati, infatti, agitavano la loro chioma
durante le orge dionisiache (vd. v. 150, e n. a vv. 135-167). I capelli, d’altra parte, venivano spesso consacrati ad una
divinità o all’anima dei defunti,
514. Pènteo è ossessionato dal ricondurre tutto alla normalità, e ricondurre le donne al telaio, funzione essenziale della
donna greca nell’ambito domestico, significa ripristinare l’ordine che Dionìso ha sovvertito.
Secondo Stasimo (519-575). "Un canto in un tempo di dolore paragonabile nel tono e nell’atmosfera ad alcuni dei
Salmi. Il Coro fa un ultimo appello a Tebe; riafferma la propria fede nel mistero di Dionìso Dithyrambos (strofe) e
denuncia il persecutore (antistrofe); il canto culmina (epodo) in un solenne hymnos kletikòs ("canto di invocazione"),
un invito del Coro al dio affinché lo salvi e un quadro della sua venuta come guida delle danze orgiastiche e principe
della Gioia" (Dodds). Ma questo canto, che trabocca di fede religiosa, s’inserisce anche fra quanto avvenuto
nell’episodio precedente: infatti il Coro, preso dallo sconforto per la cattura del dio, ha parole di rimprovero per la città
di Tebe e condanna l’empio atteggiamento di Pènteo; d’altra parte, l’invocazione del Coro prelude anche a quello che
11

avverrà all’inizio del terzo episodio, quando Dionìso, in tutta la sua potenza, esaudirà la preghiera delle sue adepte,
comparendo per distruggere la reggia di Pènteo.
520-525. L’Acheloo (oggi Aspropotamos) è un fiume che scorre fra l’Acarnania e l’Etolia ed era considerato già da
Omero "sorgente di tutti gli altri fiumi" (Iliade, 21.195), quindi anche della sorgente di Dirce, indicata qui da Euripide
come fonte in cui fu lavato Dionìso neonato quando uscì dal grembo della madre. L’episodio mitico del lavacro rituale e
purificatorio del dio era narrato nella perduta tragedia dello stesso poeta, dal titolo Semele o le Portatrici d’acqua.
526-529. Dithyrambos era l’inno dionisiaco da cui secondo Aristotele sarebbe nata la stessa tragedia (Poetica, 1449a;
vd. DMD XI); poi diventa epiteto cultuale del dio. Euripide lo riconduce etimologicamente a ho dis thyraze bebekòs,
"colui che è uscito due volte", alludendo alla doppia nascita di Dionìso, prima dal grembo di Semele fulminata, poi dalla
coscia di Zeus. Altri, invece, dicono che Dionìso sarebbe stato chiamato così perché allevato a Nisa, in un antro "a due
porte". I moderni, tuttavia, sono orientati ad altre interpretazioni: (1) dìos thrìambos, cioè divinus triumphus; (2) oppure
collegano il nome ad una radice amb- ( "passo"), per cui significherebbe "passo a quattro tempi", come iambos "passo a
due tempi, e triambos "passo a tre tempi"; infine, lo pongono anche in relazione ad un termine frigio dìthrera, "tomba a
doppia porta", da cui dithrèrambos, "signore della tomba".
537-544. Pènteo, il blasfemo, perde i suoi connotati umani ed è ricondotto dal Coro al suo elemento originario, cioè la
terra ("razza della terra"), in quanto figlio di Echione, uomo "serpente", che è animale ctonio. Il serpente (vd. DMD V) è
animale ambiguo, divino e mostruoso al tempo stesso, e qui il Coro insiste sul suo aspetto di impurità. Altri esseri ctoni
erano i Giganti, nati da Gaia, e paradigma di inciviltà e barbarie, tanto che osarono opporsi agli dèi.
556-560. Motivo topico della preghiera è la menzione di luoghi consacrati al dio. Si tratta in questo caso di località
montane, come è naturale per la divinità dell’oreibasìa. Per quanto riguarda Nisa, è difficile indicare la localizzazione,
dato che esistevano almeno 15 luoghi con questo nome. Alcuni studiosi moderni pensano che si tratti di un monte
‘mistico’ più che geografico. Il Corico è una delle cime del Parnaso, dove c’era anche una grotta sacra a Pan e alle
Ninfe collegate a Dionìso.
561-564. Noto il potere magico e psicagogico della musica e del canto di Orfeo, che spesso e in vari modi appare
collegato a Dionìso: "Orfeo e Dionìso tendono a convergere. Entrambi hanno a che fare con la musica, con
l’immediatezza del sentimento e con l’abbattimento delle barriere fra sé e gli altri. Per entrambi il ritmo e le cadenze
della musica costituiscono il mezzo per abbattere tali barriere … La musica agisce in un ambito tenuto accuratamente
distinto da quello del consorzio civile e anzi, nel caso tanto di Orfeo quanto di Dionìso, volutamente contrapposto a
esso. Il particolare uditorio di Orfeo è formato da alberi e fiere, non da cittadini" (Ch. Segal, Orfeo. Il mito del poeta,
To, 1995, pp. 13s.). D’altra parte, si consideri che anche Orfeo è divinità misterica e che figura nel mito come vittima
sacrificale delle Baccanti di Tracia. Inoltre, si consideri che i culti orfici godevano di ampia diffusione in Macedonia,
dove Euripide compose e rappresentò appunto le sue Baccanti.
565-575. La Pieria è chiamata ‘beata’ e "l’elogio fa risaltare, per contrasto sottinteso, l’empietà e la sfortuna di Tebe che
non vuole il dio" (Scazzoso). L’Assio (oggi Vardar) e il Lidia (oggi Mavronero) sono due fiumi della Macedonia: la
menzione - come sopra quella di Orfeo – suona di omaggio alla Macedonia e al suo re Archelao, di cui Euripide era
ospite.

I. La nascita di Dioniso
A Zeus la cadmeia Semele generò un figlio illustre,
unitasi a lui in amore, Dioniso ricco di gioia,
lei mortale un figlio immortale, e ora ambedue sono dèi.
In questi versi di Esiodo (Teogonia, 940-42) sono già tracciate le linee essenziali del mito di Semele: dal suo grembo
uscì Dioniso quando lei morì incenerita dalla folgore di Zeus. Semele è in origine dea ctonia dell’Anatolia ed il suo
nome è forse da legare col nome slavo Zemlja, che significa "terra". L’unione ierogamica sembra riflettere uno schema
tipico della cosmologia mitica: Semele, la terra, è fecondata da Zeus, il fulmine, cui segue tempesta ed acqua pluviale. Il
mito racconta di amori segreti tra Semele, figlia di Cadmo e Armonia, e Zeus. Hera, gelosa, con un’astuzia mortale tenta
di opporsi all’amore del re degli dèi con la principessa tebana: appare in sogno alla giovane nelle vesti della sua nutrice
e convince Semele a chiedere al re degli dèi, suo amante, di mostrarsi a lei come appariva alla sua moglie legittima.
Zeus allora venne tra tuoni e lampi a visitarla, e Semele restò folgorata. Zeus, però, riuscì a salvare il feto di Dioniso
dalle fiamme e lo cucì nella sua coscia fino al compimento della gestazione. Fatali furono le doglie di Semele, fatale il
suo tragico parto di Dioniso, che ebbe dunque gestazione e nascita maschile: si tratta di un motivo arcano della
mitologia indoeuropea, che trova un altrettanto misterioso parallelo nella tradizione indiana delle Upanishad. Il dio
Soma, equivalente indiano di Dioniso, in quanto patrono delle inebrianti bevande fermentate a base di miele, fu cucito
nella coscia della divinità celeste Indra. Ma questa seconda nascita di Dioniso può essere posta anche in relazione
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simbolica con forme di adozione: è attestata una pratica detta couvade, in cui il padre simulando un parto maschile,
riconosceva come proprio il figlio: in questo modo si voleva forse preservare la buona salute del neonato, legato da
indissolubile rapporto simpatetico col padre. L’usanza appartiene a popoli mediterranei, quali corsi, iberi e ciprioti, ed
ha avuto grande diffusione in varie epoche e fino ai nostri giorni. Ne abbiamo notizia anche da Apollonio Rodio
(2.1011) che a proposito degli abitanti di Amatunte racconta:
Qui, quando le donne partoriscono figli ai mariti,
sono essi, i mariti, che si mettono a letto e che gemono,
con il capo bendato, e le donne provvedono al cibo
per loro e preparano i bagni rituali del parto.
II. Epiteti cultuali di Dioniso
L’origine e la natura variegata di Dioniso si manifesta nel gran numero di epiteti, che si riferiscono alle sue molteplici
forme e caratteristiche divine: epiteti legati alla sua vitalità animale e vegetale, a eventi e invocazioni rituali, a luoghi di
culto, ad aspetti inerenti al mito, a prerogative e attribuzioni della sua complessa figura divina.
In qualità di inventore del vino Dioniso viene chiamato Ampelos, "tralcio di vite"; ma in Attica tale epiteto è sempre
sostituito con Kissòs, "edera", pianta che al tempo stesso dissimula e simboleggia la forma della vite; alla stessa sfera
rinvia l’appellativo poetico di Oinops o Oinopos, attribuito all’edera. Affine a questo nome è Perikìonos, proprio
dell’area tebana: il suo significato è Dioniso "che si avvinghia alla colonna" in forma di edera. L’appellativo Oinos,
"vino", identifica il dio col prodotto della pianta a lui per eccellenza legata, e a Dioniso Oinos veniva sacrificato un
capretto, forse per offrire carne in cambio di vino e neutralizzare con la mescolanza di cibo e bevanda ogni eccesso
pericoloso di ebbrezza. Ambiguo l’epiteto Orthòs, Dioniso "diritto", forse riferito al fatto che in origine il dio era
adorato all’origine nella forma di phallòs "eretto", simbolo di fecondità; ma l’epiclesi potrebbe anche essere interpretata
nel senso che gli uomini, avendo imparato da lui a mescolare il vino con l’acqua, da quel momento sarebbero stati in
grado di tenersi "diritti" in piedi. Al vino si lega anche il furor bacchico e a tale stato psicologico è da connettersi
l’epiteto Mainòmenos, Dioniso "furibondo". Ancora al vino, che "scioglie" e "libera" dagli affanni, si riferisce Lysios, il
Liber dei romani. Il dio è anche Endendros e Dendrìtes, ossia lo "spirito dell’albero". Infine, come Euànthes, Dioniso
della "feconda fioritura", era invocato dai seguaci del thìasos durante il periodo delle scorribande nelle campagne.
Eriphos, Dioniso "capretto", designa l’aspetto ferino più noto nella mitologia; l’appellativo riflette il mito giovanile di
Dioniso sbranato dai Titani, fatto a pezzi e poi messo a bollire. Zeus, attratto dall’odore, apparve e col fulmine impedì ai
Titani di consumare il pasto, sostituendolo con il capro sacrificale. A questo animale si riferisce anche il culto di
Dioniso Melànaigis, il dio "con la nera pelle di capra". Di grande importanza anche gli epiteti che propongono l’identità
del dio col vitello e col toro: Bougenès significa Dioniso "figlio di vacca" e "nobile toro". Gli epiteti Eriphos, Bougenès
e Taùros dicono anche che Dioniso è la preda a cui si dà la caccia e l’animale sacrificale da divorare crudo. Ma il dio è
anche Omàdios e Omestès, "colui che si ciba di carne cruda", e per lui viene imbandito un pasto sacrificale. Anche
l’appellativo Isodaìtes, "spartitore esatto di carne sacrificale", rimanda al destino del dio smembrato e al tempo stesso
istigatore dello sparagmòs e dell’omophagìa, e Anthroporràistes lo designa addirittura come "colui che si ciba di carne
umana". È probabile che questi epiteti risalgano ad un’epoca in cui a Dioniso venivano immolate vittime umane.
Dioniso è pure Zagreùs, il "grande cacciatore": a Pilo c’era un sacerdote che rivestiva la funzione di Dioniso cacciatore
di fiere vive. Nella città portuale tessalica di Pagase il dio era venerato col titolo di Pèlekys, Dioniso "doppia scure": lo
strumento era l’arma sacrificale con la quale si compiva l’uccisione del dio in forma di vitello o di toro.
Al mito della sua nascita rinvia l’epiteto cultuale e poetico Eiraphiòtes, Dioniso "cucito nella coscia" (vd. I. La nascita
di Dioniso). Anche l’appellativo Dimètor, "colui che ha due madri", si riferisce appunto a questa doppia ‘maternità’ del
dio. La folgorazione di Semele è ricordata dall’epiteto Pyrìgenos, "nato dal fuoco" o "dalla folgore"; e Bròmios, Dioniso
"rumoroso", il dio del "tuono" (bròmos), rievoca l’evento che accompagnò la sua nascita (così è invocato spesso nelle
Baccanti). Ai cicli annuali di rinascita si riferisce l’epiteto Trieterikòs, il dio "dei due anni alterni": la trieterìs era
appunto un periodo triennale e al terzo anno iniziavano le celebrazioni festive del dio. Al mondo ctonio, oscuro e
notturno di Dioniso, si riferisce l’epiteto Nuktèlios, che dice il momento in cui si celebravano le orge, cioè di notte.
Anche Meilìkios, che designa Dioniso come il dio "dolce mielato", appartiene alla sfera ctonia del dio, perché il miele
era offerto in libagione ai defunti e serviva alla loro imbalsamazione (Persefone, che è divinità sotterranea dei morti, è
detta Melitòdes, la dea "mielata"). Ma Dioniso può manifestarsi anche come divinità luminosa e a questa sua
prerogativa è forse da collegarsi l’invocazione rituale di Iakchos, il dio portatore di fiaccola nei misteri notturni.
Molti tra gli epiteti riguardano i luoghi di culto più importanti: Kàdmeios si riferisce al palazzo di Cadmo, dove c’era la
tomba di sua madre Semele. Nysàios e Krèsios rinviano ai luoghi cultuali di Nisa e Creta. Come Limnàios, Dioniso era
venerato, all’inizio dei mesi invernali, nella palude di Limna, a sud dell’acropoli di Atene, dove c’era un tempio; nei
suoi pressi scaturivano sorgenti la cui acqua era mescolata con vino per evitare eccessi di ebbrezza dovuti al liquore di
Dioniso: era l’occasione in cui gli Ateniesi celebravano il nuovo anno vinario.
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Alla natura androgina del dio, che contrasta con la sua forza generatrice maschile ma ribadisce il suo essere ambiguo,
appartengono appellativi quali Gynnìs, "femminella" (Baccanti, v. 335 "straniero dalle forme di femmina") e
Arrenòthelys, "ermafrodito". Alla sfera della sessualità allude Enòrches, "colui che è in possesso dei testicoli", epiteto
con cui era venerato a Samo e a Lesbo.
Connessi con le immagini e le scorribande dei thìasoi sono le invocazioni a Dioniso come Archìbakchos, "colui che
conduce i bàkchoi", oppure Bakchèus e Dithyrambos (Baccanti, 526) quest’ultimo impiegato nelle Antesterie, feste
della stagione primaverile, e spiegato dagli antichi come o dis thyraze bebekòs, "colui che è venuto due volte alle porte
della nascita", con chiaro riferimento alla doppia gestazione del dio, prima nel ventre di Semele, poi nella coscia di
Zeus. Con Thrìambos (cfr. il nome latino triumphus) si voleva ricordare che a lui per primo fu decretato il "trionfo": fu
celebrato così quando, come dio vagabondo e guerriero, tornò dalla sua spedizione in India. L’appellativo Mitrephòros
designa il dio come "portatore di mitra", una fascia arrotolata sul capo al modo di un turbante, un capo di abbigliamento
rituale indossato anche dagli adepti che manifestavano così la propria identificazione colla divinità. Integrato nel
contesto cittadino e ristretto delle eterie simposiali, il dio era invocato come Melpòmenos, perché alle bevute in onore
del dio si mischiava il canto (molpè) e la musica.
III. Elementi dell'abbigliamento rituale: il tirso, la nebride, la mitra
Ogni culto ha i propri elementi di abbigliamento rituale: Dioniso e i suoi seguaci indossano accessori caratteristici quali
il tirso, la nebride e la mitra.
Thyrsos è parola non greca e di etimologia incerta: alcuni studiosi definiscono la parola "di importazione" e ne vedono
la probabile derivazione dall’ittita tuwarsa, che significa "ceppo di vigna", "tralcio". All’origine doveva trattarsi di una
canna lunga qualche metro, chiamata anche narthe ("nartece"), che propriamente è una parte del tirso, benché Euripide
nelle Baccanti usi i due termini come sinonimi. Quando il culto dionisiaco penetrò in terra greca, il tirso fu un semplice
ramo di pino; poi fu ricavato anche da piante dionisiache per eccellenza, quali la vite e l’edera, e il fedele lo decorava
con le proprie mani: sulla cima innestava una pigna, intorno ad essa arrotolava rami d’edera e bende di stoffa, ed anche
piccoli sistri e nacchere, atti a produrre suoni estatici di accompagnamento al cerimoniale orgiastico. Il tirso è un vero e
proprio totem vegetale, che si carica della magica e vitalistica forza della vegetazione per trasmetterla a chi lo porta.
Possiamo anzi affermare che il tirso ha tutte le caratteristiche e le prerogative di una bacchetta magica: è così dotato
delle intrinseche e straordinarie potenze della natura, che le Baccanti hanno il potere di far sgorgare dalle rocce latte,
vino e miele, col solo tocco del tirso (Baccanti, 704ss.); e non solo può produrre miracoli benefici, ma anche infondere
pazzia. Il tirso è pure arma di offesa: ancora le Baccanti di Euripide se ne servono come picca di guerra per respingere
gli assalti dei pastori tebani (Baccanti, 732); e nell’esodo della stessa tragedia, il tirso è usato come una picca su cui
esporre la testa di Penteo. Ma l’uso più proprio e consueto di questo strumento riguarda i rituali orgiastici, dove serviva
come accompagnamento alle frenetiche danze delle menadi: l’espressione tecnica thyrson tinassein, "scuotere il tirso",
dice appunto il suo impiego vorticoso durante le danze.
La nebris era una pelle di animale indossata dai seguaci di Dioniso come una tunica. L’animale prediletto da cui si
ricavava questo capo d’abbigliamento rituale era di solito il cerbiatto, ma anche la pantera, il capro o la capra, la lince e
la volpe (bassaris). La simbologia legata alla nebride è quella di una animalità ferina e selvaggia, di una forza bestiale;
una veste che infonde, dunque, il desiderio di varcare i confini del mondo civilizzato per immergersi nella selvaggia
naturalità. Il verbo nebrizein ha due significati: "indossare la nebride" e "dilaniare il cerbiatto". I due sensi si integrano a
vicenda, perché la nebris delle Baccanti veniva certo ricavata dalla pelle dell’animale fatto a brani durante le orge in
onore del dio: lo sbranamento e il conseguente pasto di carne cruda rinviano ancora ad uno stato pre-civile, ad un
mondo dominato dallo sparagmòs e dalla omophagìa, fuori dalla civiltà, della quale sua cifra profonda è anche la
cottura dei cibi.
La mitra è propriamente una fascia, un nastro per capelli, arrotolato sulla testa e intorno alle tempie come un turbante;
in origine è un copricapo femminile, ma nel culto dionisiaco era indossato da uomini e donne, il che ribadisce quel
superamento e annientamento delle barriere sessuali che caratterizza il culto dionisiaco: un segno di consacrazione che
indica tutti i ministri delle orge.
IV. La maschera e il doppio
Sul famoso vaso François di Firenze è raffigurata una processione di divinità. Le loro figure sono tutte di profilo,
escluso una: quella di Dioniso. La sua non è una fuggevole sagoma, ma un volto frontale che pianta il suo sguardo nero
nelle pupille dell’osservatore, un volto bloccato in un’espressione innaturale e ambigua, statica ma allo stesso tempo in
tensione. Quello del vaso François non è un caso isolato: si è appurato ormai che solo al volto di Dioniso o alle sue
maschere è riservato, nell’iconografia vascolare greca, il privilegio della frontalità. Dioniso, dunque, non è un dio
‘obliquo’, come Apollo: il suo messaggio è diretto al fedele in modo esplicito, senza compromessi o ambiguità
oracolari, e il fedele lo deve accogliere come un’esperienza totalizzante, che investe tutta la sfera dell’essere.
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Ma qual è il messaggio che il dio, tramite la maschera, trasmette all’uomo?


Su questo argomento la materia rimane ancora confusa e sono state avanzate molte ipotesi, che tuttavia concordano su
un fatto: le maschere di Dioniso erano venerate come "epifanie" del dio stesso, e non come semplici suoi simboli.
L’uomo che indossava una simile maschera, in un certo senso, indossava il dio, e non solo in apparenza, assumendo le
sue fantastiche sembianze del volto, ma anche nella sostanza, immedesimando il proprio spirito con quello di Dioniso.
L’adepto che compiva questo camuffamento diventava, per così dire, un essere ‘altro’ da se stesso. In effetti Dioniso è il
"dio-altro", il "dio-estraneo", il "dio-straniero": non fa parte del consesso olimpico, perché forse è venuto da lontano, dal
di fuori. Pausania racconta la storia di un oggetto ‘estraneo’, una enigmatica maschera di legno trovata da alcuni
pescatori di Lesbo in fondo al mare, che subito fu considerata epifania di Dioniso. Questa immagine che emerge dal
mare, anch’esso uno spazio ‘altro’, è un enigma da decifrare, perché in questo volto c’è appunto qualcosa di xènos
(Baccanti, 453), cioè di "strano" e di "straniero", secondo il doppio, ambiguo, significato della parola greca: "straniero",
infatti, non designa il non-greco, ossia il "barbaro", ma il cittadino di una comunità vicina. Penteo, nelle Baccanti di
Euripide, si rivolge a Dioniso come xènos. Chi indossava la maschera, dunque, diventava "altro".
Ma come mai l’ "alterità" sembra essere l’unico fine a cui i fedeli tendevano durante i culti misterici?
Perché "altro", in campo dionisiaco, era sinonimo di "tutto". Essere "altro" dall’individuo significava divenire uguale
alla "totalità": totalità che in questo caso è coincidentia oppositorum, unione dei contrari. La maschera stessa, di per sé,
contiene una polarità di significati opposti: è "presenza", perché considerata epifania di Dioniso, ma allo stesso tempo è
"assenza", perché ha le orbite vuote, e aspetta di essere indossata da qualcuno. E questo qualcuno diventa Dioniso, pur
rimanendo se stesso, e, anche se UNO, rispecchia in sé i MOLTI.
C’è un mito orfico in cui Dioniso ci appare bambino che, con la faccia tutta impiastricciata di gesso (una sorta di
maschera bianca), si guarda allo specchio e non riconosce più la sua stessa figura, considerandosi "altro" da sé. Che
cosa significa questo mito?
Esso ci dice che il dio bambino, guardando la sua faccia bianca in uno specchio, non vede più se stesso, ma il Tutto. Ed
ecco perché nel celebre affresco della Villa dei Misteri a Pompei è raffigurato un adepto che guarda in una coppa di
vino, nella quale è riflessa l’enigmatica espressione di una maschera dionisiaca: in quella coppa c’è il Tutto.
Il dionisismo, dunque, è la ricerca di una divina armonia con l’universo, il tentativo di abolire le differenze fra animale e
uomo e fra uomo e dio. Tappa forzata, però, e straziante, è l’annullamento dei contrari: la maschera costituisce l’arché e
il tèlos, il "principio" e il "fine", di questo cammino di misteriosa trasformazione; e lo sguardo inquietante delle sue
orbite vuote apre l’adepto a prospettive oscure e luminose, comunque sovrumane.
V. Bestiario dionisiaco e significato di tragedia
Tra gli animali erano particolarmente sacri a Dionso il capro, il toro, la pantera, il leone, il serpente e l’asino.
Il capro è l’animale ‘tragico’ per eccellenza: esiste, come noto, un legame sicuro, anche se controverso, fra la tragedia e
il capro, da cui essa prende il nome. Il termine ΤΡΑΓΩΙΔΙΑ (tragoidia) è infatti formato da ΤΡΑΓΟΣ (tragos) + ΩΙΔΗ
(oide) = "capro + canto", ed è spiegato in vari modi:
a. canto dei ΤΡΑΓΟΙ, ossia i seguaci di Dioniso mascherati da capri;
b. canto per il capro, come premio del vincitore;
c. canto sul/in onore del capro.
La ΤΡΑΓΩΙΔΙΑ era il canto religioso con cui, nelle feste di Dioniso, si accompagnava il sacrificio di un capro, la vittima
preferita dal dio. Forse fu la sua ben nota lascivia e sfrenatezza sessuale a fare del capro uno dei membri del corteggio
dionisiaco; ma importante poteva essere anche il fatto che i capri mangiassero con avidità i tralci della vite. Il
collegamento tra il Dioniso e l’animale risulta evidente anche dalle denominazioni cultuali del dio: come "giovane
capro" Dioniso era invocato a Metaponto. Anche nel mito spesso il dio si manifesta in forma di capro: si narrava che
Zeus, per difendere il fanciullo dalle insidie di Era, lo trasformò in un capretto; e nella fuga davanti al tremendo Tifone,
Dioniso fuggì in Egitto, dopo aver assunto forma caprina.
Il toro fra i popoli antichi fu considerato come il simbolo della fecondità e della forza generatrice; proprio per questo
Dioniso ne assumeva di preferenza l’aspetto quando si presentava ai suoi fedeli. Tuttavia, non soltanto la vitalistica
pienezza generatrice fece del toro una delle manifestazioni del dio, ma anche la sua furia selvaggia che lo rende un
animale pericoloso. Anche il toro, dunque, come tutte le autentiche manifestazioni dionisiache, ha la duplicità di natura
di chi dona e anche distrugge la vita in preda al furore bacchico. Fu appunto il toro furioso che i fedeli avevano in
mente, quando invocavano Dioniso. Nelle Baccanti il coro invoca il dio perché appaia in forma di toro, e così si
manifesta a Penteo per condurlo alla sua orrenda fine. L’epifania, in questa scena della tragedia, era forse indicata dalla
maschera indossata dall’attore con le corna che spuntano dal capo (v. 921): Dioniso è il "toro munito di corna". Penteo è
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in preda all’allucinazione, "paragonabile - secondo Dodds - alle visioni dei satanisti medievali che vedevano il loro
maestro con corna caprine". Le Mimallones, cioè le Baccanti macedoni, "portavano corna sul capo ad imitazione di
Dioniso" (Scholia a Licofrone 1237). Agli occhi allucinati dello stesso Penteo il dio era già apparso nel suo aspetto
taurino; il re lo aveva condotto alla greppia per imprigionarlo, ma qui aveva trovato un toro (Baccanti, 618). L’episodio
è forse la reminiscenza di un tradizionale rituale dionisiaco: l’inseguimento e la cattura del toro sacrificale divino
(Pindaro, Ol. 13.18). Pausania (8.19.2) racconta di una corrida celebrata in Arcadia dove un giovane torello veniva
staccato dal branco, catturato dai giovani a mani nude e, infine, sacrificato a Dioniso. Con la metamorfosi taurina del
dio è da mettersi in relazione l’appellativo "Bromio", epiteto cultuale di Dioniso "Signore delle grida". Eschilo in una
scena degli Edoni (fr. 57 Radt) descrive terrificanti apparizioni che muggiscono nell’oscurità con orrende voci taurine.
Plutarco (Iside e Osiride, 35) così descrive i riti delle donne dell’Elide:
Molti Greci rappresentano Dioniso in forma di toro, e in Elide in particolare le donne invocano il dio pregandolo di
venire a loro ‘con piede taurino’. Gli Argivi poi danno a Dioniso l’epiteto di ‘figlio di toro’ e
lo chiamano con le trombe perché risorga dalle acque.
La pantera compare con frequenza nei miti dionisiaci e la pelle di pantera fa parte dell’abbigliamento del dio e dei suoi
seguaci. In Beozia il dio fece impazzire di terrore le Miniadi con le sue metamorfosi in toro, leone e, infine, in pantera.
Il carro nuziale su cui salì dopo le nozze con Arianna era trainato da sei pantere. A motivo della sua bellezza e della sua
taglia, la pantera era stata consacrata a Dioniso. Per qualche tempo la fiera aveva accettato le carezze del padrone; poi,
eccitata dalla primavera, era partita per le montagne. Fu catturata nella Panfilia, dove gli aromi l’avevano attratta. Si
stabilisce anche un forte legame tra la pantera e il vino, liquore dionisiaco per eccellenza: secondo gli antichi, infatti, le
pantere, sempre assetate per natura, potevano essere catturate proprio grazie al vino; bastava spargerne qualche
recipiente in prossimità di un punto di abbeveramento e le fiere, stimolate dall’aroma, si avvicinano, bevevano finché ce
n’era e, approfittando della loro ubriachezza, erano prese facilmente.
La figura del leone è presente nel mondo greco a partire dall’arte minoica; qui la Grande Madre delle Fiere, la Pòtnia
Theròn, viene raffigurata sulla cima di un monte scortata da due leoni. Su una gemma minoica appare invece un
personaggio identificato come "Signore degli animali selvatici". La relazione esistente fra lui e i due leoni che lo
fiancheggiano è chiaramente espressa dal suo gesto: egli impone le sue mani sollevate sopra gli animali rampanti, li
addomestica, li attrae in suo potere e li fa suoi prigionieri.
Il serpente è un altro animale che riveste un ruolo fondamentale nel culto di Dioniso. Già nell’arte minoica troviamo la
figura del serpente: reperti archeologici del Palazzo di Cnosso rappresentano la figura femminile della Potnia a seno
scoperto, con le mani protese o allargate, nell’atto di maneggiare serpenti. In un passo delle Dionisiache di Nonno di
Panopoli si legge che fu il serpente a indurre Dioniso a gustare l’uva. Il serpente è bestia ambigua, doppia: sanguinaria e
divina; è animale ctonio collegato colla sfera della morte; le serpi nascono dal midollo osseo dei morti, secondo Eliano.
Si ripropone il binomio vita-morte che è segno di ambiguità, della doppia natura di Dioniso. Nei riti dionisiaci le
Baccanti mettono a rischio la propria vita, giocando con la morte, tramite la manipolazione dei serpenti (Baccanti, 698).
In epoca più tarda il culto di Dioniso pretendeva che le Menadi adoperassero serpenti non velenosi, quale barbaro
ornamento della loro acconciatura di Baccanti.
Anche l’asino appartiene al contesto dionisiaco, ma con importanza forse minore rispetto agli altri animali: nessuno
degli epiteti del dio lo menziona, né il dio prese mai la sua forma. Il legame Dioniso-asino è tuttavia testimoniato da
diversi reperti figurativi della ceramica vascolare, che fanno di questo animale la cavalcatura del dio. D’altra parte,
anche l’idea della forza fallica dell’asino permetteva un facile rapporto con Dioniso, divinità legata alla fecondità e alla
potenza generatrice della natura. L’asino poi, come il capro, è divoratore di piante predilette da Dioniso, vite e anche
fico. Come sempre, tuttavia, nel ciclo della rinascita e nel segno dell’ambiguità dionisiaca, la vita coincide con la morte
e, non a caso, l’asino farà parte integrante anche del simbolismo funerario degli antichi.
X. Il ditirambo di Dioniso e l'origine della tragedia
Sull’origine e sull’etimologia del termine dithyrambos restano ancora vari dubbi. Di sicuro si può dire soltanto che
ditirambo è parola di origine anellenica, assorbita dagli indoeuropei solo dopo il loro arrivo nella penisola ellenica.
Secondo alcuni dithyrambos sarebbe un antico nome cultuale di Dioniso. Il secondo elemento del termine (-ambos)
figura in altre parole simili, anch’esse legate al culto dionisiaco, quali thriambos e iambos: ne deduciamo che esso
significa canto (M. Unterstainer).
In un’iscrizione frigia, figura la parola dithrera, col significato di sepolcro, e ciò lascia supporre che il ditirambo sia
stato, all’origine, un canto epitombale. L’ipotesi è supportata dal confronto fra Iliade XXIV 721 e un passo della
Poetica di Aristotele (IV 1449a9): i threnon exarchoi, "coloro che intonano il lamento", di cui parla Omero, altri non
sarebbero infatti che gli exarchontes ton dithyrambon, "coloro che intonano il ditirambo", ritenuti da Aristotele i
precursori della tragedia, nata, forse, da canti cultuali in onore di Dioniso prima e di eroi poi. Il legame fra canto
epitombale e ditirambo sembra dunque completo: ai suoi inizi il ditirambo, come la maggior parte della lirica corale,
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appartiene alla sfera del culto; è un canto per Dioniso ed è seguito da un gruppo di persone guidate da un exarchon, le
quali accompagnano in processione l’animale sacrificale e si dispongono intorno all’altare del sacrificio. La più antica
menzione del termine ditirambo è in un famoso frammento di Archiloco (120 W.), dove il poeta afferma con orgoglio:
io so intonare il bel canto di Dioniso Signore,
il ditirambo, quando nell'animo sono folgorato dal vino.
Il frammento apre una nuova prospettiva: Archiloco concepisce il suo rapporto col canto in modo nuovo e diverso
rispetto all’aedo omerico; egli lo definisce "bello", è orgoglioso di saperne creare il testo e la musica (molpè) e non si
dichiara più ispirato dalle Muse, ma dal vino di Dioniso, che ispira lui solo e non chiunque ne beva. Questa decisa
affermazione della propria personalità, comune ai poeti contemporanei ad Archiloco, e a quelli delle generazioni
successive, aiuta a spiegare l’evoluzione dei canti cultuali (l’inno, il prosodio, il peana, il partenio, i nomoi), ma non è
sufficiente a chiarire l’evoluzione del ditirambo da canto cultuale in onore di Dioniso a rappresentazione musicale, in
quanto essa ha cause molteplici di natura sociale, politica, religiosa e culturale.
All’inizio del VI sec. a.C., dopo la colonizzazione, l’economia basata sui commerci tende a soppiantare l’antico sistema
sociale, fondato su un’economia agraria; sul piano socio-politico viene scosso e frantumato il predominio
dell’aristocrazia con la conseguente nascita delle tirannidi. Quando i tiranni cercano di mediare realtà opposte e
conflittuali, il culto di Dioniso si rivela il più adatto a interpretare le esigenze religiose di tutta la comunità proprio
perché, svincolato dai gruppi ristretti dei ghéne, si propone come religione universale. Su questo sfondo si colloca
proprio la riforma del ditirambo attuata a Corinto da Arione al tempo del tiranno Periandro. La fonte diretta è Erodoto:
"primo fra gli uomini dei quali abbiamo conoscenza, Arione compose un ditirambo, gli diede il nome e lo fece
rappresentare a Corinto". Per la prima volta il ditirambo diviene spettacolo eseguito durante la festa per Dioniso, come
avverrà ad Atene nel V secolo. Dal canto dell’eroe Adrasto e dalle sue sofferenze mitiche si passa ad uno spettacolo in
onore di Dioniso, l’unico dio che ha fatto esperienza della morte come l’uomo e che con il suo essere simbolo di una
visione del profondo e del mistero della vita, rende visibile sulla scena tutte le contraddizioni dell’esistenza stessa. La
tragedia infatti nasce dalla crisi irrisolvibile di giustizie diverse che si scontrano nella storia.
La questione, comunque, è molto controversa e lontana ancora ogni ipotesi definitiva: allo stato attuale si può solo
affermare che Arione, a Corinto, imprime un nuovo corso al ditirambo, ma la sua storia, legata alla tragedia come noi
l'intendiamo, sembra iniziare con Laso di Ermione, che opera alla corte dei Pisistratidi.
L’organizzazione dell’agone tragico sotto Pisistrato (535 a. C. circa) rientra in una politica culturale e religiosa, che
interpreta a pieno i forti mutamenti della realtà socio-economica, e contribuisce enormemente a fare della polis attica il
centro della cultura greca. La costituzione di Clistene (508 a.C.) sostituisce dieci tribù alle quattro tradizionali e
stabilisce che alle Grandi Dionisie ogni tribù presenti un coro ditirambico di 50 uomini o ragazzi. Le spese sono
sostenute da un corego che, oltre a scegliere il poeta, provvede all’istituzione e al mantenimento del coro. Le gare
ditirambiche aprono le Grandi Dionisie di Elafebolione (marzo-aprile) e sono le più entusiasmanti, perché a vincere non
è solo il poeta, ma l’intera tribù. Il carattere agonale favorisce e accelera l’evoluzione del genere e la musica appare
subito come un campo quasi inesplorato: l’aulòs per la sua struttura permette effetti polifonici estranei all’eptacordo e
ribelli alla disciplina ritmica del testo. Il ditirambo, che per strumento ha appunto l’aulòs, porta ad Atene la ricca
esperienza dei popoli asiani, i registri tonali dell’aulòs, al tempo stesso dolci e cupi, gravi e acuti fanno entrare davvero
lo spettatore in contatto con Dioniso.

La fortuna del dio del dolore


Riconoscere nel dionisismo una costante dell’esperienza umana (o, se si vuole, in particolare un contenuto perenne di
determinate forme di conoscenza) e tentazione cui più volte si e consentito nella storia della cultura europea. La prima
critica all’atteggiamento cui conduce il cedere a tale tentazione consiste nella precaria applicabilità di uno schema
temporale a una realtà che si sottrae a priori alla dimensione temporale apprezzata dalla storicismo. Parlare di una
"costante fuori tempo" o di una "perennità atemporale" significa ricorrere a paradossi accettabili solo se di là da essi
affiora la nozione di una doppia realtà, per la quale varrebbero il "fin qui siamo" e il "resto è cosa degli dei" usati da
Rilke nella I Elegia di Duino. ( ... ) Jeanmaire ha probabilmente ragione: Dioniso non è "attuale", e solo con arbitrio si
può ravvisare nella religione dionisiaca storicamente raffigurata un "dionisismo" perenne. Ciò non significa, però, che
Dioniso quale "dio del dolore" non abbia goduto di una fortuna secolare, largamente posteriore al limite storico della
devozione organizzata verso di lui. E soprattutto ciò non significa che quella fortuna del dio "inattuale" fosse
effettivamente inattuale. Del passato ciò che veramente importa è ciò che si dimentica. Ciò che si ricorda è soltanto
sedimento e scoria. Ciò che importa, ciò che è destinato a sopravvivere, sopravvive apparentemente in segreto, in realtà,
nel modo più palese, giacché sopravvive come materia esistente di chi ha sperimentato il passato: come presente
vivente, non come memoria di passato morto. L’esperienza dionisiaca consentiva, appunto, di teologizzare queste
proposizioni. Dioniso era il dio del dolore poiché è dolorosa la perdita del passato quando il passato non è ricordato in
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quanto è rimasto presente. La meccanica e superficiale interpretazione dello schema di morte e rinascita intravisto nelle
testimonianze della religiosità dionisiaca può essere modificata in questo senso: così come nell’iniziazione primordiale,
l’esperienza di morte e rinascita è innanzitutto cambiamento, passaggio da uno stato ad un altro, da un tempo ad un
altro. La morte che prelude alla rinascita e l’abbandono del passato, il quale cessa di essere tale e non è ricordato poiché
è divenuto presente. La rinascita è, appunto, l’esperienza di quel presente che comprende in se tutto ciò che del passato
era vivo ed è vivo: tutto ciò che non si ricorda. Questo è soltanto uno schema temporale della dinamica interna
all’esperienza religiosa dionisiaca. Qual è il contenuto di quell’esperienza? Paradossalmente avremmo ragione ad
affermare che il contenuto è proprio lo schema temporale, il passaggio, la perdita del passato in quanto divenuto
presente. Giustamente si è riconosciuto in Dioniso il dio del dolore. Ciò che davvero rende bifronte ai nostri occhi il
volto di Dioniso e il dolore implicito nella rinascita: il dolore che è fatale all’accesso della gioia. Ma a questo punto si
sovrappone allo schema temporale lo schema metafisico, o, in altri termini, si appalesa il senso della misura temporale.
Giacché il passato è il "fin qui noi siamo" pronunciato dagli uomini, e il presente è il "il resto è cosa degli dei". E
quando nell’esperienza dionisiaca il passato è dimenticato, dunque è divenuto presente, l’uomo accede a "il resto è cosa
degli dei", sperimentando il dolore dell’essere allontanato dal "fin qui noi siamo". ( ... ) La ricorrente fortuna del
"dionisismo" consente di osservare il paradosso del dolore implicito nella rinascita in una prospettiva più ampia, tale da
coinvolgere non solo il passato personale dell’individuo, ma anche il passato di una comunità, di una generazione, di
una cultura. Il "dionisismo" è infatti inattuale, e lo è stato ricorrentemente nel corso dei rapporti fra la cultura degli
ultimi cinque secoli e l’antichità classica, nella misura in cui l’esperienza religiosa dionisiaca è stata dimenticata, e
dunque è divenuta materia vivente dei singoli presenti. Dal punto di vista di uno storico e di un filologo rigoroso come
Jeanmaire, il "dionisismo" sperimentato da Lorenzo de’ Medici o quello sperimentato da Nietzsche non erano il
dionisismo originario, il quale sarebbe stato profondamente inattuale nel XV cosi come nel XIX secolo. Ma quel
dionisismo, quello originario, era appunto "cio che del passato si dimentica", e il "dionisismo" del Magnifico Lorenzo o
quello di Nietzsche erano il presente nutrito del passato, il presente in cui non si può riconoscere più il passato, poiché il
passato è diventato presente. Indubbiamente, sia Lorenzo sia Nietzsche erano convinti di "ricordare il passato". In realtà
né lo ricordavano, né avrebbero potuto ricordarlo. E l’uno e l’altro – non soltanto essi d’altronde – soffrirono le pene di
chi ha perduto il passato; le soffrirono anche se solitamente non seppero riconoscerne la causa (poiché il passato
credevano di "ricordarlo"), anche se almeno uno di essi – Nietzsche, appunto – ebbe in proposito più di una repentina
illuminazione. Non a caso, nel paragrafo 224 di Al di là del bene e del male, Nietzsche scrisse: "i nostri istinti
ripercorrono tutte le vie del passato, noi stessi siamo in una specie di chaos: ma infine, come già dicemmo, "lo "spirito"
sa trovarci il suo vantaggio". Si direbbe, a una prima superficiale lettura, che "ripercorrere tutte le vie del passato" sia
esattamente il contrario di aver "perduto il passato". Ma se si guarda più a fondo appare molto più probabile che il
"ripercorrere tutte le vie del passato" da parte dei "nostri istinti" significhi l’aver dimenticato il passato poiché ciò che
del passato è vivo è il presente. Ma non senza dolore ci si stacca dal passato per possedere solo il presente, non senza
dolore si rinasce, non senza morire.

IL SIMPOSIO NELLA GRECIA ANTICA


Origini e usanze
Il termine sympòsion deriva da syn + pìnein, bere insieme. "I greci non bevevano da soli, perchè il consumo del vino era
vissuto come atto collettivo. Il simposio si organizza insieme ed ha le sue proprie regole, che mirano a stabilire una
precisa divisione del piacere". Il simposio è dunque una forma di socialità che caratterizza tutta la durata del mondo
antico. Anzi il simposio non si limita a questa vita; la nostalgia dei vivi immagina la felicità dei morti in tale forma:
all’iniziato viene promesso che da beato celebrerà banchetti avendo sul capo una perenne corona di fiori.
Omero non conosce ancora il simposio, in quanto non vi è ancora quella netta separazione temporale tra il mangiare e il
bere che lo caratterizza in epoca storica; gli ospiti non sono distesi sul triclinio, ma seduti sulle sedie; la presenza delle
donne non è esclusa. Al banchetto di Alcinoo, re dei Feaci, è infatti presente la regina Areta. In Omero, inoltre, non è il
singolo ospite o il gruppo dei convitati ad intonare i canti simposiali, ma il cantore addetto a questo scopo: Demodoco,
presso i Feaci, Femio presso gli Itacesi. Odìsseo racconta, non canta le sue esperienze. Achille e Patroclo intonano canti
epici per reciproco diletto non davanti ad ospiti. Nonostante queste differenze, anche per Omero il convito rappresenta il
momento più alto dell’esistenza e alcuni versi dell’Odissea (IX, 511ss.) esaltano il valore che il banchetto ha per la
società dell’epoca eroica.
Diversa la situazione nei secoli storici. Il fatto più appariscente è quello di stare sdraiati accanto alla tavola:. In Grecia -
a differenza che a Roma - di solito si è in due a giacere su una kline, un divano, il braccio sinistro appoggiato al cuscino
che sta sotto la nuca, il destro libero, secondo un uso penetrato dall’Asia Minore.
Nella sala del banchetto ciascuno è disposto in modo tale da essere a portata di voce e di sguardo con tutti i compagni.
Conosciamo queste sale grazie agli scavi archeologici : nel santuario di Artemide a Brauron ci sono nove sale di
dimensioni identiche aperte lungo il portico che accolgono undici klinai ciascuna. Il simmetrico spazio architettonico ha
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questa coppa del vasaio Ierone, che presenta una scena di simposiasti con etere. In questa scena sono presenti tutti gli
ingredienti del simposio: il vino, con il cratere e le coppe in mano ai convitati; la musica e la danza, con la flautista ed i
crotali, appesi sullo sfondo; l’erotismo, con le molteplici presenze femminili. I protagonisti principali sono però gli
uomini, disposti in cerchio in condizione di assoluta eguaglianza. La donna di condizione borghese manca nel simposio
greco fino al periodo ellenistico. In questo senso il simposio arcaico è uno spazio chiuso ed essenzialmente maschile,
circoscritto ad un numero limitato di convitati: il numero deve essere compreso tra quello delle Muse e quello delle
Grazie, cioè da nove a tre. Nel Simposio di Platone sono nominati sette convitati; solo nel IV secolo il banchetto si fa
più sontuoso e borghese.
Le occasioni di un simposio sono molteplici, quasi sempre fa seguito ad un pranzo e può essere una festa familiare,
soprattutto un matrimonio, oppure una festa religiosa o un pranzo sacrificale. Ad esempio il Simposio di Platone è
tenuto per celebrare la vittoria di Agatone negli agoni tragici; il Simposio di Senofonte la vittoria di un giovane nel
pancrazio. Spesso ognuno porta la sua quota, si uniscono le spese: si ha allora il banchetto aposymbolòn, con il
contributo dei partecipanti; affine è il banchetto comunitario èranos. Ma spesso ci si riunisce semplicemente per il
piacere della festa. Gli inviti si facevano di solito il giorno prima o lo stesso della festa, per non impegnare le persone
con settimane di anticipo. Andava insomma chi voleva e spesso un ospite stimato non si faceva scrupolo di portare con
sé un amico incontrato per caso in strada. Il simposio deve iniziare con la prima oscurità. Nel banchetto con invitati i
posti erano assegnati dal padrone di casa e poiché si sta sdraiati da sinistra a destra, ne deriva anche l’ordine
d’importanza. Del servizio si occupavano i giovani incaricati di miscelare il vino con l’acqua, e di attingerlo dal cratere
con la brocca o con il mestolo. La loro grazia giovanile è un ornamento essenziale della festa. Il filosofo e poeta della
Ionia Senofane di Colofone così esorta gli ospiti riuniti.
Svolgimento del simposio
Dopo il pasto vengono portate via le mense con gli avanzi e pulito il pavimento. Poi ognuno prende da una coppa,
passata in cerchio, un sorso di vino non annacquato per un brindisi in onore del buon genio, accompagnato dalle parole
agathoù daìmonos. Chi non vuol bere abbandona la sala. Viene portata poi acqua per lavarsi le mani, profumi e corone
per ungersi ed ornarsi la testa. Le corone sono di fiori e mirto, oppure di edera, pinta sacra a Dioniso. I poeti di Lesbo
menzionano anche le upothùmides, corone intrecciate da portarsi intorno al "tenero collo". Spesso il capo è ornato anche
di una tenia, una fascia colorata di lana rossa. Anche le coppe sono inghirlandate di edera.
Viene poi distribuito il vino miscelato con acqua nei crateri e da ognuno dei tre primi crateri si fa di nuovo un’offerta: si
versa fuori della coppa del vino. L’offerta del primo cratere è per gli dèi celesti e Zeus Olimpio, la seconda per gli
‘spiriti’ degli eroi, la terza per Zeus Salvatore. In occasione di queste offerte tutti cantano il peana accompagnati
dall’aulos, un inno antichissimo dal ritmo sostenuto, da cui deriva il nome di ‘metro spondaico’, da spondè, ‘libagione’.
Il significato sacrale
La libagione votiva ed il canto del peana dicono che il simposio è anche e soprattutto un evento sacrale. L’offerta è in
origine un rito che deve rompere il tabù insito nel vino: bere significa penetrare nel demoniaco e l’offerta reca in sé un
elemento magico. Sacrale è l’abluzione delle mani che deve determinare la purezza rituale e la corona ha una funzione
iniziatica, una pratica per essere accolti in una nuova comunità, non certo quella di proteggere dal mal di testa, come
hanno ritenuto alcuni studiosi. Anche l’iniziato ai misteri porta infatti una corona. La sacralità del simposio è
testimoniata dal fatto che anche lo stesso vino non è semplicemente un dono degli dèi, ma è divinità esso stesso, e nel
linguaggio simposiale il vino è chiamato Bacco, Bromio, Dioniso. Il carattere rituale attesta inoltre che i convitati non
sono una "società" nel nostro senso, ma un thìasos, una comunità in cui non può mancare il legame sacrale con il
divino. Chi è omòspondos, cioè chi ha versato insieme la libagione, si trova in un rapporto di comunione da cui i
malvagi sono esclusi:
Chi non odia costui come la peste,
Mai beva dalla coppa con noi alla festa.
(Aristofane, Cavalieri, 1288s.)
Il simposiarca e le usanze simposiali
Carattere sacrale ha anche l’uso di bere sotto una guida: si elegge o si sorteggia un re del simposio, un simposiarca che
regola le modalità del bere della comunità: è una sorta di re in un contesto pacifico. Ma facciamo iniziare il simposio: il
primo sorso è un "brindisi". Si fa poi girare la coppa verso destra, la parte indicante la fortuna, si beve e si passa la
coppa con le parole:
Prendi anche tu la bevanda di Igea,
e il bevante beve ughìeia, alla salute degli altri. Poi segue un brindisi speciale: kaìre, kaìre kaì pìe eù, salute salute e
bevi bene, facendo il nome del prescelto. L’intento è quello di accrescere con l’incitamento la forza del destinatario
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dell’omaggio. Un po’ diverso il brindisi all’amore: philotesìan propìnein, bevi la coppa dell’amore; poi si vuota la
coppa e la si passa, di nuovo colma, alla persona cui si rivolge l’omaggio, che a sua volta la vuota. Il simposiarca
stabilisce tutte le regole: quale debba essere la miscela da bere, la grandezza delle coppe, ecc. Bere vino puro è ritenuta
usanza barbara, ed anzi l’acqua deve essere in misura prevalente: una porzione di tre a uno; una miscela debole. Parti
eguali di acqua e vino sono già considerate ubriacanti ed è noto che misura e moderazione sono virtù elleniche. A
seconda del tipo di vino o dei personali desideri, l’acqua viene riscaldata o raffreddata con la neve. Spesso il
simposiarca costringe a bere grandi quantità di vino: è bere pros bìan, per costrizione, a comando, a contrario del bere
pros edonèn per piacere. Alceo che reggeva bene il vino lo esige nell’occasione della morte del suo nemico Mirsilo:
Ora bevete tutti, ubriacatevi,
magari a forza, è morto Mirsilo!
Tuttavia anche Socrate per tenere testa ad Alcibiade racanna due litri tutti in una volta. Prova di grande bravura è il
pìnein apneustì, amustì, bere senza riprendere fiato e chiudere le labbra. Nonostante l’ideale di moderazione spesso si
cominciava con piccole coppe e si finiva con grandi bevute fino all’ubriachezza, al mal di stomaco, alle zuffe e, infine
al kraipàle, al mal di testa. Lo stesso Dioniso, in una commedia di Eubulo, raccomanda in una commedia:
Tre coppe di vino non di più, stabilisco per i bevitori assennati. La prima per la salute di chi beve; la
seconda risveglia l’amore ed il piacere; la terza invita al sonno. Bevuta questa, chi vuol essere saggio, se
ne torna a casa. La quarta coppa non è più nostra, è fuori misura; la quinta urla; sei significa ormai
schiamazzi; sette occhi pesti; otto arriva lo sbirro; nove sale la bile; dieci si è perso il senno, si cade a
terra privi di sensi. Il vino versato troppo spesso in una piccola tazza taglia le gambe al bevitore.
Per evitare i cattivi effetti del vino mentre si beve si mangiano degli stuzzichini, dei dessert, le "seconde mense" ,
deutèrai tràpezai: pasticcini, frutta, noci, mandorle, miele e formaggi.

Iniziazione a Dioniso: breve excursus sulla Villa dei Misteri


La megalografia della Villa dei Misteri a Pompei è il più grande gruppo di figure dipinte tramandato dall’antichità e
anche oggi mantiene intatto tutto il suo fascino e il mistero del suo profondo significato religioso.
Datazione. Alcuni indicano come data di composizione il primo periodo augusteo; altri ritengono il dipinto eseguito
verso il 60 a.C., anno di svolta nell’evoluzione artistica romana, perché dà vita, proprio con le pitture parietali della
Villa dei Misteri, ad una fase assai originale della pittura architettonica pompeiana. In sostanza si può considerare il
consolato di Giulio Cesare nel 59 a.C. come termine post quem e la vittoria di Ottaviano ad Azio del 31 a.C. come
termine ante quem.
Descrizione e funzione della sala degli affreschi. Il grande fregio pittorico copre interamente le pareti di una sala
rettangolare pavimentata a quadri bianchi e neri. La sala era originariamente una oecus, cioè un "salone di ricevimento",
poi adibito a triclinio. Situata al lato di una doppia alcova, il cui ingresso, a sinistra, forse faceva parte del appartamenti
privati dei proprietari e, come tale, era destinata a rispondere più ai bisogni della vita quotidiana della famiglia che
all’esercizio del culto. La decorazione è di due tipi: architettonica e figurativa. Su un podio a imitazione marmorea corre
una cornice sulla quale si levano le scene rituali, sormontate da un fastoso fregio dipinto. Le pareti del fondo su cui sono
dipinti i personaggi sono rosso cinabro.
Descrizione delle scene e dei personaggi
A) Lettura del rituale. Una matrona ammantata, forse la domina, ascolta in piedi un fanciullo nudo, ma calzato di
coturni, che legge attentamente il papiro sacro con le prescrizioni rituali sotto la guida di un’altra matrona seduta. La
donna in piedi e in attesa è l’inizianda, la quale infatti resta al di fuori e a un livello più basso del piano rispetto alle altre
figure. Una giovane, vestita di chitone, con il mantello intorno alle anche e la testa cinta di una corona di mirto, incede
recando un ramoscello di lauro e le offerte sacre su un piatto di bronzo dorato, una lanx ricolma di primizie.
B) Abluzione. Una donna velata seduta di spalle, forse la sacerdotessa, attende ad un rituale di abluzione assistita da due
giovani donne e con le mani compie ieratici gesti: con la sinistra scopre una cesta tenuta dall’ancella, con la destra regge
un ramoscello verde sul quale un’altra ancella, che tiene un rotolo di papiro infilato nel mantello rimborsato in vita,
versa pura acqua lustrale da una piccola brocca.
C) Scena pastorale. Un vecchio Sileno, quasi del tutto nudo, con la testa cinta di mirto, canta e suona la lira guardando
con volto estatico la coppia Dioniso-Arianna sulla parete di fondo. Accanto a lui una giovane panisca offre il proprio
seno ad una capretta bianca, mentre un giovane satiro suona la siringa; tra i due, in primo piano, un capretto nero. In
contrasto con questa scena di serenità idillica si pone quella di una donna nell’atto di retrocedere atterrita, sembra, dalla
visione del demone alato e di una sua compagna flagellata (F). Il panneggio è agitato da un movimento violento: il
mantello si gonfia nel vento formando come un nimbo dietro la testa della donna, la quale sembra compiere un fiero
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gesto di ripulsa o di orrore, tenendo davanti a sé la palma aperta della mano sinistra come per difendersi o rimuovere
qualcosa.
D~E) Scene della parete centrale: Sileni, Dioniso e Arianna, svelamento del phallòs. Il gruppo di Dioniso e Arianna
costituisce il centro ideale e materiale di tutta la sacra rappresentazione: qui Dioniso, discinto, è mollemente appoggiato
ad Arianna, seduta e vestita in modo sontuoso. La coppia sembra essere insensibile a quanto avviene intorno, assorta
solo nella beatitudine ultraterrena.
Intorno a Dioniso e Arianna sono raffigurate due scene simmetriche, strettamente connesse ai riti misterici del dio
liberatore. A sinistra di chi guarda (D) ricompare l’elemento satiresco, prolungamento della scena precedente (C): un
vecchio Sileno, seduto e incoronato d’edera, porge a un Satiro una coppa, mentre un altro giovane satiro tiene sollevata
una maschera. Sileni e Satiri, elementi tipici del corteggio dionisiaco sembrano preludere alla presenza del dio. A destra
della coppia divina (E) una giovane donna in ginocchio, già iniziata ai misteri dionisiaci, è in procinto di sollevare il
drappo di porpora che ricopre il phallòs. Dietro a lei ci sono due giovani ministri della cerimonia, dei quali non resta
che la parte inferiore. Accanto c’è una figura femminile dalle ali nere, calzata di coturni, raffigurata nell’atto di colpire e
punire con il flagellum.
F) La donna flagellata. Una giovane donna, colpita sul dorso nudo, si rifugia nel grembo di una sua compagna. Accanto
a lei due baccanti: una tiene in mano il tirso, l’altra, nuda, danza in preda all’esaltazione orgiastica agitando il cembali.
G~H) Scena nuziale: l’addobbo della sposa. All’estremità della parete, interrotta da una grande finestra, segue la scena
nuziale: una sposa seduta deve prepararsi per l’iniziazione al mistero del matrimonio assistita da un amorino. Un altro
amorino assiste alla scena.
I) La donna assorta. Sulla parete, aperta sulla loggia, nell’angolo presso la porta, siede isolata e pensosa una donna; è
una figura matronale abbigliata in modo splendido. Forse è una domina già sposa e ministra del dio che assiste alla
scena della toletta come per ritrovarvi un suo pallido e lontano ricordo di quando anche le giovane donna si
predisponeva al rito del matrimonio.
Elementi simbolici
La raffigurazione rappresenta i riti iniziatici di carattere dionisiaco, attraverso i quali il credente accede ai misteri del
dio assicurandosi un nuovo status e una felicità divina. Gli elementi raffigurati sono pertanto carichi di profondi e
complessi significati simbolici, la cui interpretazione aiuta a comprendere il senso globale della raffigurazione.
1) La maschera e la coppa (D). Tre personaggi partecipano al rito: un Sileno, che lo inizia e dirige, e due Satiri
fanciulli. Strumento necessario per l’esecuzione della cerimonia è la coppa. Il fanciullo che vi avvicina il volto non
beve, ma guarda dentro la coppa profondamente. Il recipiente pare fungere da specchio concavo e colui che vi immerge
lo sguardo non vede il proprio volto, ma la maschera che l’altro Satiro tiene alzata alle sue spalle. Il giovane Satiro
crede di vedere se stesso e si riconosce come uno di quegli uomini più anziani, padri e maestri, che finora lo hanno
dominato e guidato, e del numero dei quali egli ora entra a far parte. È una trasformazione unificatrice prodotta dalla
maschera e da un’immagine paterna: Sileni patris imago. Si tratta di una di quelle fasi che gli antropologi definiscono
‘riti di passaggio’, con cui i ragazzi passano alla classe d’età degli uomini capaci di procreare e quindi presupposto di un
futuro matrimonio. La coppa, dunque, da poculum diviene speculum, punto focale dell’autentica iniziazione dionisiaca,
perché lo specchio era il simbolo della passione del dio orfico, invenzione di lui stesso, nunzio della sua missione nel
mondo. Ma la coppa mantiene ancora la sua funzione primaria di recipiente del vino, che è per eccellenza bevanda
dionisiaca, il sangue stesso di Dioniso di cui i fedeli si inebriano. La coppa allora indica anche l’iniziazione attraverso
l’ebbrezza. L’uomo attraverso l’ebbrezza dionisiaca diviene dio lui stesso. La maschera, travestimento rituale
caratteristico del thìasos bacchico diventerebbe l’immagine della nuova personalità dionisiaca dell’iniziato che aspira a
diventare come il dio dalle molteplici forme e creatore dell’illusione.
2) Il flagellum e il phallòs (E). Il flagellum è il simbolo dell’energia istigatrice di Dioniso ed il suo impiego libera il
neofita dagli ostacoli che avversano la fecondità materiale e la sua crescita spirituale, ed eccita i suoi sensi provocando
l’intervento mistico del dio. La fustigazione, la diamastìgosis, come prova di resistenza era praticata ad Alea in Arcadia
su giovani fanciulle durante gli Skièreia, cerimonie iniziatiche femminili in onore di Dioniso (Pausania 8.23.1). Il
phallòs costituisce l’emblema di Dioniso stesso, principio della fecondità, e la sua rivelazione rappresenta l’accesso alla
nuova vita propria dell’iniziato.
Attraverso questi oggetti sacri, tà hierà, si rivelano in sostanza due possibili forme di iniziazione: una maschile,
attraverso la maschera e la coppa; l’altra femminile, basata sulla sessualità e sulla fecondità, attraverso la frusta e il
fallo. Una conferma in questo senso può venire dalla stessa disposizione delle raffigurazioni: al lato di Arianna c’è la
rappresentazione di un rito iniziatico femminile, al lato di Dioniso, invece, si celebra un rito iniziatico maschile. La
struttura a livello grafico risulta perfettamente simmetrica, così come parallele e convergenti sono le due strade
iniziatiche, che costituiscono riti di passaggio che mirano allo stesso fine (tèlos).
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3) La donna velata e la donna flagellata. Nella figura della donna velata, il manto può rappresentare il segno
dell’iniziazione rifiutata. Il velo, infatti, è il tessuto del corpo: gli dèi della vita materiale rivestono l’anima con questo
vestito ingannevole. La terra stessa in chiave allegorica è l’ultima veste. Allude a questa simbologia il rituale della
‘lapidazione’, perché la lapidazione altro non è che un vestito di pietra, il riduttivo ritorno alla pura materialità (nelle
Baccanti di Euripide, Penteo, prima di subire lo sparagmòs, è fatto oggetto di lanci di pietre, perché ha rifiutato il culto
di Dioniso). Questo spiega perché le figure coperte di un mantello giochino un ruolo così importante anche nei vasi
iniziatici bacchici. Nella figura della donna velata potrebbe leggersi, dunque, una fuga di chi non accetta il mondo
dionisiaco; il gesto avvolgente della donna sembra calare su di sé l’oscurità materiale, che tutto copre di tenebra, e trova
un elemento di forte contrasto nella figura della donna che a lei sta di fronte nell’opposta parete (F). Questa donna sta
riversa nel grembo di una sua compagna, mentre sul dorso denudato attende il colpo con la tremante dedizione della
novizia, il colpo di sferza che le Menadi ricevevano come punizione misterica e liberatoria all’atto dell’iniziazione.
Ma la donna velata e in piedi non potrebbe essere anche la donna in ginocchio e flagellata? Le due figure non
potrebbero raffigurare la stessa persona presentata in due fasi diverse del rituale iniziatico? Se così, la stessa donna
prima è colta nella gestualità contraddittoria di chi tenta, opponendo il gesto fermo e illusorio della mano, di rifuggire il
tremendo mistero del rito, ma al tempo stesso sente di non poter sottrarsi al nuovo stato iniziatico. Ecco che allora si
spoglia del mantello che in ampio cerchio pare svolgersi come rapito da un vortice impetuoso e levarsi in volo. Il
mantello prima copre poi scopre la nudità dello spirito; allora l’iniziato ha la percezione profonda della sua intima
essenza e scopre la visione luminosa del divino: l’anima, la pura anima, annullamento di materialità, liberazione dal
carcere corporeo.
L’iniziazione è morte e vita: l’iniziato muore, ma la sua morte si trasforma in vittoriosa rinascita. Inganno e illusione,
vita insensata e vana toccano in sorte ai profani, a chi s’immerge nel mondo della pura materialità.
4) Il demone alato. Il demone alato può rappresentare Aidòs, il Pudore; demone della castità con le ali nere come la
notte; il sentimento dell’aidòs spiega forse il gesto di ripulsa nell’affrontare da parte della donna velata il rito iniziatico
a sfondo sessuale (e matrimoniale), che contempla lo svelamento del phallòs (E). La presenza delle ali è il segno che "i
confini della natura sono stati oltrepassati e si è entrati in una dimensione ulteriore percepibile solo tramite la capacità
visionaria" (Kerényi). Le ali alludono infatti alla vita che si leva ad una più alta e degna esistenza, rappresentano
l’anima liberata dal peso della materialità, l’anima alla quale è riservata l’immortalità: l’iniziato può ora levarsi in volo,
con le sue ali, come l’alata Psiche. Macrobio (Saturnali 1.18.2) dice che la presenza delle ali è ricorrente nei misteri
dionisiaci; e le figure alate sono connesse anche al principio femminile dell’uovo primordiale, perché da esse nascono:
ali ed uovo sono simboli tipici del simbolismo funerario degli antichi.
Percorsi interpretativi
Varie sono state le interpretazioni globali di questa raffigurazione, per molti aspetti indecifrata e indecifrabile.
1) Secondo alcuni il fregio rappresenta ‘episodi della vita di Dioniso’ e, in particolare, la sua iniziazione ai misteri: in
questo caso i personaggi non sarebbero che dei seguaci del thìasos bacchico. Dioniso è rappresentato dal fanciullo nudo
che legge il rituale o nella forma di capro allattato dalla panisca. La scena dal tono idillico pastorale celerebbe allora un
recondito significato mistico: la rinascita o l’epifania di Dioniso in forma animale. Più probabile, tuttavia, che si tratti
solo di una rappresentazione di naturismo orgiastico, analoga nell’insieme a quella delle Baccanti di Euripide descritte
mentre allattano lupacchiotti.
2) Un’altra interpretazione in chiave mitica vede nei quadri solo i preparativi alle nozze di Bacco e Arianna, annunciate
dal fanciullo nudo e completate dallo svelamento del phallòs. Secondo il mito il matrimonio sarebbe inutilmente,
impedito da Hera furente che avrebbe inviato contro Arianna il demone alato (F), ma favorito da Afrodite, raffigurata
nella donna alla toletta (G). La domina sul muro d’ingresso (I) sarebbe Semele, la madre di Dioniso, che assiste
soddisfatta alle nozze del proprio figlio.
3) Infine, una terza interpretazione, la più probabile ed esaustiva, perché tiene conto di vari elementi, conferendo al
fregio un senso globale fortemente religioso: il fregio rappresenta la specifica cerimonia di iniziazione della sposa al rito
nuziale, simbolicamente raffigurata nelle nozze di Dioniso e Arianna. Il personaggio principale più che Dioniso è la
stessa Arianna. La domina sul muro d’ingresso (I) è una sposa già iniziata, mentre la giovane donna che si pettina (G) è
la futura sposa intenta ai preparativi del rito nuziale, fondato sui misteri dionisiaci che assicurano la fecondità, la fedeltà
al vincolo matrimoniale e la felicità.
Tale interpretazione fa della coppia divina l’archetipo della coppia umana: qui Arianna diviene il tipo ideale della nuova
sposa, paradigma di felicità divina e umana. Il rito nuziale simboleggia l’ingresso nel mondo di una superiore
esperienza e conoscenza: il mistero della vita che Dioniso ha rivelato per la prima volta ad Arianna e qui svelato per
mezzo di prove iniziatiche alla nuova sposa. Attraverso i personaggi femminili del mito e del rito, di Arianna e della
sposa, il pensiero religioso sacralizza la sessualità umana ideata come mistero sacro e vissuta come esperienza cultuale.
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Il mito e il rito sacralizzano le cose terrene: fanno cioè percepire attraverso l’umano l’archetipo divino e stabiliscono un
rapporto reale e ideale fra uomo e dio, tra cielo e terra. Società umana e divina si proiettano l’una sull’altra e su
entrambe vengono riflessi i diversi aspetti dell’esperienza sessuale come atto di fecondità generatrice istituzionalizzata
nel matrimonio.
Il clima mistico del fregio della Villa dei Misteri rivela la preoccupazione di integrare nella religione tutto quanto tocca
la vita, di inserire l’esercizio delle forze generatrici in una rete di regole rituali e proibite, per proteggerle dall’atto
blasfemo della profanazione: la finalità suprema è stabilizzare il matrimonio in un ordine istituzionale garantito dalla
religione. Si deve allora supporre che:
i) una decorazione così fastosa sia stata eseguita per l’occasione di un matrimonio;
ii) che la scelta del tema sia stata dettata sia dalla posizione della sala attigua ad una doppia alcova, ambiente riservato
appunto all’intimità della coppia, sia dalle credenze religiose dei proprietari della Villa, i quali credevano nei riti
dionisiaci e nella potenza di Dioniso ‘archetipo della vita indistruttibile’.

Per saperne di più


Su Dioniso, il dionisismo e le Baccanti di Euripide esiste una bibliografia molto vasta, per non dire sterminata; qui, per
comodità, ci limitiamo a indicazioni bibliografiche selezionate su scritti più o meno recenti e facilmente reperibili:
> E.R. DODDS, Euripides, Bacchae, Oxford-New York, 1960.
> H. JEANMAIRE, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Torino, 1972.
> G.A. PRIVITERA, Il ditirambo da canto cultuale a spettacolo musicale, in "Cultura e scuola", 43, 1972,pp.56-66.
> E.R. DODDS, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1978 (in particolare, il saggio sul 'menadismo').
> AAVV, Poesia e simposio nella Grecia antica, a c. di M. Vetta, Bari-Roma, 1983.
> M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, Milano, 1984.
> M. DETIENNE, Dioniso a cielo aperto, Roma-Bari, 1987.
> A. HENRICHS, Changing Dionysiac Identities, in Jewish and Christian Self-Definition, III, Self-Definition in the
Graeco-Roman World, edd. B.F. Meyer e E.P. Sanders, London 1982, pp.137-160 (testo) e 213-236 (note).
> AAVV, Dionysos. Mito e Mistero, Bologna, 1989.
> G. GUIDORIZZI, Euripide, Le Baccanti, Venezia, 1989.
> F. LISSARAGUE, L'immaginario del simposio greco, Bari-Roma, 1989.
> J. KOTT, Mangiare Dio, Milano, 1990.
> W.F. OTTO, Dioniso. Mito e culto, Genova 1990.
> EURIPIDE, Alcesti, Medea, Baccanti, a c. di Ma. Vitali, Milano, 1991.
> K.KERÉNYI, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Milano, 1992.
> G. IERANÒ, Euripide, Baccanti, Milano, 1999.

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