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Corso di Filosofia Morale

Chiara Di Lizio

Dipartimento di Scienze e Tecniche Psicologiche


Loreta Risio
Università degli studi “G. d’Annunzio”
Chieti-Pescara

Anno accademico 2020-2021


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SOMMARIO
Cos’è la bioetica 5
Come nasce la bioetica: il medico ippocratico 5
Come cambia la bioetica: il medico moderno 7
I temi 8
• L’interruzione volontaria di gravidanza 8
Aborto storicamente illegale 8
Necessaria legislazione 9
Legge 194, 22 maggio 1978 10
comportamenti per diminuire gli aborti: 12
Obiezione di coscienza 13
Contraccezione d’emergenza 14
Interruzione di gravidanza farmacologica 14
• Fecondazione medicalmente assistita 15
Origine della PMA 15
Legge 40, 19 febbraio 2004 16
L. 194/1978 e L. 40/2004 a confronto 17
Posizioni etiche 18
• Eutanasia 20
La sofferenza 20
(in) Disponibilità della vita e (non) diritto a morire 20
Terminologia e distinzioni 21
Legislazione 23
•Il caso Piergiorgio Welby 23
Terminologia e distinzioni 25
•Il caso Eluana Englaro 26
•Il caso Dj Fabo 27
•Il caso Davide Trentini 29
Risvolti culturali 29
•L. 38 del 2010 29
•L. 219 del 2017 30
•Allocazione delle risorse in sanità 31
•Prima guerra mondiale 31
•Dialisi 31
✱Criteri di ordine di allocazione delle risorse 32
•Covid-19 33
-Respiratori artificiali 33
-Campagna vaccinali 33

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Cos’è la bioetica

La bioetica nasce nella seconda metà del XIX


secolo: termine bioetica ha iniziato a diffondersi dagli
anni 70 e nasce come una disciplina nuova e
autonoma di carattere interdisciplinare, è cioè il
terreno di incontro di diverse scienze e ambiti di
ricerca con lo scopo di mettere in comunicazione
diversi punti di vista, confrontare le conoscenze e
trovare soluzioni a problemi pratici sollevati dalla
pratica medica ma che interessano vari settori.

La bioetica ha una connotazione filosofica in quanto


ho un approccio razionale alle problematiche: individua i problemi, li analizza e analizza le diverse
posizioni delle diverse discipline in un dibattito. La bioetica è in sintesi la coscienza critica della
civiltà tecnologica: la civiltà tecnologica ha creato situazioni inaudite, fornendo all’uomo un potere
inauditi che mettono a repentaglio la sua dignità, la sua integrità fisica e genetica, soprattutto dal
punto di vista clinico. È per questo che è necessario un supplemento di ricerca e riflessione
filosofica ed etica al fine di autoregolarci circa l’utilizzo di tecnologia e scienze sull’uomo, affinché
venga utilizzata per migliorare la condizione e la qualità di vita.

Come nasce la bioetica: il medico ippocratico

Nonostante si cominci a parlare di bioetica in senso stretto a metà degli anni 70, le questioni di
bioetica riguardano tutta la storia della medicina, dai suoi esordi, In quanto è sempre esistita una
tematizzazioni etica della pratica medica. La medicina storicamente nasce con Ippocrate intorno al
IV secolo a.C. in quanto prima di lui era considerata la pratica della magia e della religione: la
malattia era considerata l’effetto di eventi soprannaturali (la forma con la quale la divinità o gli
antenati punivano l’uomo, o l’intervento di spiriti maligni che si impossessavano del corpo, o effetto
di un intervento magico) e, di conseguenza, attraverso mezzi soprannaturali si guariva.

Ippocrate rivoluziona questa concezione della malattia la quale dipende unicamente dal corpo e
da come esso interagisce con l’ambiente esterno (alimentazione, incidenti…). Egli inoltre si
approccia alla malattia secondo il metodo scientifico sperimentale: osserva un fenomeno, lo
descrive, lo studia, tenta di capire in che modo si manifesta la malattia, tenta di capirne l’origine e
attua dei comportamenti finalizzati alla guarigione. Se il suo tentativo di terapia non ha successo
cambia strategia ripartendo da capo. (A differenza nostra Ippocrate utilizzava un approccio
unicamente empirico in quanto non aveva a disposizione i numeri, infatti oggi, dal 600, grazie a
Galileo, sappiamo che “la natura è un libro scritto in termini matematici”). La medicina di Ippocrate
si basa sul presupposto che il corpo tende alla salute, il corpo e la vita tende a conservare se
stessa il più lungo possibile, quindi eliminando l’elemento di disturbo che caratterizza la malattia il
corpo tenterà di ripristinare la salute che è stata compromessa, per questo sono necessari il
rispetto e la comprensione di un organismo sano affinché si possa guidare e educare il paziente a
condurre una vita sana ponendo fine a comportamenti disfunzionali, talvolta curando con erbe
medicinali. La medicina ippocratica si basa quindi sul rapporto medico paziente: il paziente deve
accettare le prescrizioni del medico e adeguare il suo stile di vita a quanto il medico gli indicava
essere lo stile di vita più adatto. Un rapporto di questo tipo è possibile solo grazie alla fiducia
affinché il paziente si fidi del medico e necessario che pensi che:

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1) il medico sia una brava persona che agisca per il suo bene, affinché si instauri un rapporto di
amicizia e empatia (principio di beneficialità);
2) il medico si astenga dal fare del male (principio di non maleficenza);
3) il medico sia competente, preparato e professionale;
4) il medico sia discreto e rispetti il segreto professionale.
(Qualora una di queste caratteristiche venisse meno il medico ippocratico perderebbe di credibilità,
agendo a danno dei pazienti, come nel caso della seconda guerra mondiale, momento in cui,
tramite esperimenti e ricerche, “la medicina ha perso la sua innocenza”, mostrando come il medico
e la medicina sia in grado tanto di fare del bene quanto di nuocere).

Queste caratteristiche sono alla base dell’etica ippocratica e alla luce di ciò teorizzò un codice
deontologicamente corretto di cura del paziente. Se tutti questi principi vengono rispettati il
paziente sarà disposto ad ascoltare il medico e tenderà a pensare che guarirà e per il solo fatto di
pensare e credere che starà meglio il paziente migliorerà: si verificherà il cosiddetto effetto
placebo, uno degli strumenti della medicina di Ippocrate, il quale aveva già compresa l’importanza
dell’atteggiamento psicologico del paziente nella terapia. Egli infatti riteneva che qualora il medico
venisse a conoscenza di una malattia dalla quale il paziente non guarirà, debba astenersi dal dare
la notizia della prognosi infausta, nascondendo la verità al paziente qualora sia particolarmente
spiacevole, in modo tale da non interrompere l’ottimismo e l’effetto placebo. Di conseguenza sarà il
medico a decidere cosa è bene per il paziente in quanto è competente a livello scientifico (in grado
di diagnosticare: individuare la malattia, e di fare una prognosi: capire come evolverà la malattia e
cosa aspettarsi). È in grado di scegliere per lui, è razionale, lucido, consapevole, non
emotivamente coinvolto, non è dunque tenuto a informare il paziente e non è necessario
consultare il paziente per decidere la terapia da seguire. Ippocrate considerava il paziente come
un bambino da prendere per la mano e da proteggere, nascondendo talvolta la verità e le cose
sgradevoli, prendendo decisioni per lui e lo guidandolo per la strada che il medico ritiene migliore,
in quanto il paziente viene considerato non in grado di intendere e volere: il medico agisce come
un buon padre di famiglia, si parla per questo di paternalismo medico ed etico.

Come cambia la bioetica: il medico moderno

Nella modernità il paradigma etico ippocratico (racchiuso nel giuramento di Ippocrate), per molti
anni accolto e accettato poiché coerente con i valori del cristianesimo e di altre grandi religioni, è
stato respinto ed è entrato in crisi dopo la seconda metà del 900 e con esso il paternalismo
medico. Dall'illuminismo, e in particolare dalla rivoluzione francese e dal crollo dell’antico regime,
inizia a maturare la volontà del paziente di essere considerato un adulto consapevole, artefice
delle proprie decisioni e della propria vita in maniera razionale, in base alle proprie riflessioni, non

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vuole più essere guidato dalle autorità esterne (religione, Stato…) ma vuole essere autonomo, in
nome della libertà di scelta (politica, religiosa, di parola, di professione, di matrimonio...) e
dell’autodeterminazione (in nome della quale il medico moderno può far uso della pratica medica
per procedure che non hanno nulla a che vedere con la salute, quali la riattribuzione del sesso, la
chirurgia plastica… o, come nel caso dell’aborto, della pillola anticoncezionale o della
sterilizzazione, il medico può intervenire non a favore della vita, o, come con la fecondazione
assistita o la gestazione per altri, che non curano la sterilità, non ripristinano il normale
funzionamento del corpo ma soddisfano il bisogno di genitorialità,
anche nel caso di coppie omosessuali). Il medico non può più
nascondere la verità al paziente, non può mentire e deve ottenere il
consenso informato (considerato eticamente valido) prima di
intervenire: deve spiegare esattamente qual è la diagnosi e la
prognosi in un linguaggio che il paziente possa comprendere, deve
essere chiaro, deve illustrare le terapie, sia la migliore secondo la
comunità scientifica che le alternative, illustrando quali siano gli
effetti che si spera di ottenere e gli effetti collaterali e deve
comunicare cosa accadrà qualora il paziente rifiutasse le terapie,
egli infatti non può essere costretto a ricevere terapie senza il suo
consenso, in accordo con l’Art. 32 della Costituzione (il codice di
deontologia medica francese qualche anno fa ha introdotto il “diritto di non sapere”: il paziente può
manifestare il rifiuto di conoscere e delegare un parente, lasciando a lui e al medico la
responsabilità di prendere decisioni al posto suo). Inoltre cambia la concezione di cos’è bene e
cos’è male, a volte lo scopo, l’obiettivo e la concezione di bene del medico e del paziente non
coincidono: secondo la concezione ippocratica la salute costituisce il normale funzionamento del
corpo, la malattia interviene come un elemento di disordine e di disturbo in un macchinario che non
funziona più perfettamente e si inceppa. Il
medico Ippocratico aveva il compito di favorire
la vita a qualsiasi costo, sempre e comunque,
il più a lungo possibile, rispettando il principio
di sacralità della vita, secondo il quale la
natura, la vita, è il parametro di eticità
dell’azione medica (normatività etica della
natura). Nella modernità, però, non sempre
questa concezione coincide con ciò che il
paziente ritiene bene per se stesso,
manifestando il dissenso tra l’indicazione
medica e la volontà del paziente, come nel
caso del rifiuto delle cure mediche, nel quale il
paziente può attribuire maggior importanza
alla qualità della vita che alla durata, agendo contro il parere del medico, qualora il paziente
venga ritenuto in grado di intendere e di volere. Queste problematiche sorgono anche in funzione
degli strumenti e dei mezzi tecnologici odierni che tengono in vita pazienti, che, seppur dotati di
capacità cognitive illese, sono immobilizzati e impossibilitati a svolgere le attività vitali basilari
(parlare, mangiare, muoversi…) e il prolungamento di vita in queste condizioni può essere visto
come un male e non un bene (come nel caso del suicidio assistito di Dj Fabo).

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I temi
Il campo di applicazione della bioetica è molto vasto e l’indagine bioetica riguarda gli interventi
medici utilizzati per curare, intervenire e manipolare la vita. Andremo ad analizzare alcuni dei temi
trattati da questa disciplina.
• L’interruzione volontaria di gravidanza
Aborto storicamente illegale
L’interruzione di gravidanza è una pratica antica quanto l’uomo, attuata in qualsiasi periodo e
contesto sociale, per i motivi più disparati che, nella tradizione medica, da Ippocrate in poi, è
sempre stata condannata, alla luce di principi etici (sacralità e normatività etica della vita) e sociali
(il parto era una questione di pertinenza unicamente delle donne). Fino al 1978, anno in cui venne
abrogato il codice penale Rocco (emanato sotto il regime fascista nel 1930, che condannava
l’interruzione di gravidanza), in Italia era vietato l’aborto per le seguenti motivazioni:
○ motivazioni religiose: l’interruzione di gravidanza è considerata peccato di onnipotenza,
rifiutando il dono di Dio offendendolo, poiché la procreazione è considerata
compartecipazione dei genitori alla volontà e creazione di Dio. L’aborto, in quest’ottica,
rappresenta un’interferenza e un rifiuto del piano di Dio e del processo naturale da Lui
voluto, concezione che si sposa perfettamente con quella ippocratica.
Ciononostante il codice penale Rocco e il divieto di interrompere una gravidanza non
prevede l’ottica spirituale religiosa. La protezione della vita, quindi la concezione dell’aborto
come omicidio, è una concezione piuttosto recente. Prima di qualche decennio fa si
sosteneva che la vita iniziasse nel momento della nascita: si comincia dunque ad avere
diritti (primo tra tutti quello alla vita) in quel momento, quando si inizia ad esistere (secondo
San Tommaso d’Aquino, il quale parlava di animazione ritardata, l’anima, intesa come
razionalità, capacità di contemplare Dio, non giunge nel corpo al momento del
concepimento ma a un certo stadio dello sviluppo; uno degli argomenti più discussi della
bioetica moderna è appunto “quando inizia la vita?”). Negli stadi iniziali, l'embrione e poi il
feto non veniva considerato una persona, quindi il codice penale Rocco non mirava alla
salvaguardia della vita ma alla grandezza del regime (leggi quanto segue).

○ motivazione nazionalista: nel 1930 il codice Rocco vieta l’interruzione di gravidanza in


quanto dannosa e deleteria nei confronti dello Stato, il quale forza lavoro tanto agraria
quanto militare. Era considerato reato contro il regime e la nazione, crimine contro la
stirpe, il codice penale Rocco salvaguardia l’interesse collettivo a discapito di quello
individuale, considerato di minor importanza.

○ motivazione sociale: il ruolo della donna: la donna era completamente subordinata al


capofamiglia (sotto la potestà del padre da nubile, del marito da sposata) in una
concezione patriarcale e, pertanto, impossibilitata a scegliere. Ella aveva il ruolo e il
dovere di procreare il più possibile, crescere i figli e occuparsi della casa e del marito.

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Necessaria legislazione
○ (aborti clandestini) Nonostante quanto impone la legislazione, l’interruzione di gravidanza
è un’operazione che è sempre stata molto praticata, con conseguenze talvolta tragiche,
divenendo così una piaga sociale. Tra le ragioni che inducono a una scelta di questo tipo ci
sono motivazioni economiche o le condizioni del concepimento (abuso o extraconiugali per
evitare stigma sociale). Le donne più benestanti che decidevano in questo senso potevano
permettersi di andare in una clinica all’estero, quelle più bisognose ricorrevano a metodi
clandestini, con l’aiuto delle sole levatrici, in condizioni inadeguate e antigeniche, che
provocavano talvolta sterilità, emorragie o infezioni e, in casi estremi, morte (notizie di
questo tipo suscitavano forte scalpore e reazioni emotive che hanno contribuito alla nascita
dell’esigenza di porre fine alle pratiche di aborto clandestino legalizzando e normando
l’interruzione volontaria di gravidanza, cosa che accadrà per vie legali, con la legge 194
del 1978).

○ (aspetto legislativo) Nel 1975 ci fu un processo ad una donna che aveva posto fine a una
gravidanza che l’avrebbe resa cieca. In tale occasione, alcuni giudici si domandarono se
fosse lecito condannare una donna che aveva interrotto una gravidanza per salvaguardare
il suo stato di salute, in nome di uno stato di necessità, secondo il quale nessuno può
essere punito in caso di reato commesso per salvare la propria vita se a rischio di grave
pericolo imminente (come nel caso della legittima difesa), a condizione che il danno che si
arreca sia proporzionato al bene che si difende. Lo stato di necessità rappresenta, dunque,
l’unica eccezione ad una condanna per reato. In questo caso, però, il rischio di cecità della
donna non denota un pericolo imminente per la sua vita e, quindi, non rappresenta uno
stato di necessità strettamente inteso; non vi è proporzione tra la salute della donna, che
può essere sacrificata, e la vita del bambino. Per questa ragione i giudici sollevarono un
dubbio di costituzionalità alla Corte costituzionale, alla luce della difesa da parte della
costituzione del diritto fondamentale alla salute. La Corte riconobbe la contraddizione: il
divieto di aborto viola il diritto alla salute. Fu così che la questione della regolamentazione
dell’interruzione volontaria di gravidanza in caso di pericolo per la salute della donna arrivò
in parlamento, il quale 3 anni dopo promulgherà una legge a riguardo.
Il giudice riconobbe, inoltre, una disparità di tutela tra la vita della donna e quella del
nascituro: il diritto alla vita di qualcuno che non è ancora nato (e non ha ancora
diritti) non può essere salvaguardato più del diritto alla salute di una donna già
esistente, mettendo sullo stesso piano due vite che non sono equivalenti.

○ (aspetto sociale) Dopo questo episodio in Italia si accende il dibattito in Italia e si inizia
finalmente a parlare di aborto: fino agli anni 60 alcuni argomenti come interruzione
volontaria di gravidanza, vita sessuale, omosessualità e tematiche affini erano considerati
tabù, censurati dalla televisione poiché considerate problematiche inopportune. Questa
nuova libertà di parola fu possibile poiché nel 1968 si sollevò un grande movimento
culturale di rivolta da parte, soprattutto, delle nuove generazioni nei confronti di quelle
che erano le istituzioni consolidate (famiglia, Stato, chiesa, e la loro concezione della
morale) che diede il via a un profondo e radicale cambiamento del costume in Italia, in
Europa, nel Nord America e in buona parte del mondo occidentale. Tra le tematiche centrali
dei movimenti giovanili vediamo il ruolo della donna nella società, l’etica sessuale (i rapporti
sessuali sono considerati leciti solo tra i coniugi, retaggio della chiesa cattolica, quindi
immorale se prima del matrimonio e se adulteri), rivendicando maggiore
autodeterminazione (principio di autodeterminazione della donna), autonomia da costumi e
tradizioni, la libertà sessuale, l'emancipazione femminile (rivendicazione delle donne, col
movimento femminista, di essere considerate al pari degli uomini, con gli stessi diritti e le

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stesse possibilità di indipendenza, con la possibilità di studiare, lavorare e scegliere per se
stessa, per la propria sessualità, per il proprio corpo e per la propria vita riproduttiva,
○ anche per mezzo di anticoncezionali (aspetto medico/scientifico). (La pillola
anticoncezionale, ad esempio, nonostante sia stata inventata negli anni 20, ha iniziato a
diffondersi negli anni 50 ed è un farmaco che può prevenire la gravidanza anche senza
l’approvazione del compagno, anche se solo di recente è stata socialmente accettata come
scelta unicamente della donna e non di competenza del marito. Venne inoltre utilizzata e
ampiamente discussa intorno agli anni 50 e 60, periodo nel quale nacquero molti bambini
gravemente malformati, erroneamente sviluppati a livello embrionale, a seguito di utilizzo di
talidomide, farmaco utilizzato come sedativo, anti-nausea e ipnotico, rivolto in particolar
modo alle donne in gravidanza).
Anche alla luce di questo rinnovato panorama storico, sociale, scientifico e culturale si apre il
dibattito sulla legge sull interruzione gravidanza.

Legge 194, 22 maggio 1978


Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e


responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela
la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della
gravidanza, di cui alla presente legge, non e' mezzo per il
controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali,
nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono
e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative
necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della
limitazione delle nascite.

Tecnicamente e legislativamente, in Italia, ad oggi, l’interruzione volontaria di gravidanza non è


considerata un diritto della donna ma l’extrema ratio di una situazione problematica, ciononostante
assistiamo a differenti prese di posizione:
➔ da un lato c’è chi sostiene che dovrebbe essere un
diritto di scelta e autodeterminazione della donna,
riguarda lei e il suo corpo, per il quale non dovrebbe
giustificarsi né chiedere il permesso
➔ dall’altro lato c’è chi ritiene che non dovrebbe essere
un diritto della donna, rimanendo a favore del divieto,
in nome del diritto alla vita del feto, per motivi religiosi
o sociali.

In vista di questi due opposti schieramenti, il legislatore ha


scelto la via del compromesso, una via intermedia, non
schierandosi e non accontentando completamente nessuno
delle due facce della medaglia: depenalizza l’interruzione di
gravidanza senza però riconoscerla come diritto:
➔ rimane dunque soggetto a limitazioni (sottoposto al
vaglio di un’autorità che ne certifichi motivazioni e
modalità e deve poi conciliare con l’obiezione di coscienza di un medico)
➔ senza riconoscere il diritto intrinseco alla vita dell’embrione o del feto (il quale è solo
oggetto di tutela, senza valore intrinseco o in sé ma solo in funzione di qualcun altro), non
vietando l’aborto.

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Parallelamente e contemporaneamente alla stesura di una norma si attuarono una serie di
comportamenti per diminuire gli aborti:
➢ l’informazione e l’educazione nelle scuole riguardo l’aborto, non come controllo delle
nascite ma come ultima istanza, come ultima soluzione al problema, quindi informazione
riguardo la prevenzione, non solo a stampo religioso cattolico (astinenza prematrimoniale
in quanto i rapporti dovrebbero avere luogo solo qualora si sia pronti a diventare genitori),
ma anche informazione circa gli anticoncezionali (preservativi, pillola anticoncezionali...).
Dal momento in cui in Italia, culturalmente parlando, non si è raggiunto un accordo circa le
modalità di prevenzione, non si è stati in grado di inserire all’interno del curriculum
scolastico una disciplina che educasse a queste tematiche, rimandate invece alla volontà di
scuole e docenti in maniera non sistematica ma sporadica, saltuaria e confusionaria.
➢ sussidi in caso di difficoltà economiche, in caso di reddito instabile o qualore si avessero
già altri figli da mantenere, o in caso in cui la madre sia single, soprattutto in età giovanile
(18-20 anni) (problema economico e dello stigma sociale) o in caso di gravidanza
inaspettata in età avanzata (intorno a 40 anni).
Questa legge è considerata una tra le più controverse e disattese del nostro sistema
giuridico in quanto non risolve, all’atto pratico, alcun problema: per garantire questi sussidi
a una donna sono necessari importanti investimenti in servizi e strutture che vadano
incontro alle necessità delle donne lavoratrici, o sostegni per le non lavoratrici...

Nel caso in cui la donna scegliesse ugualmente di andare incontro a interruzione volontaria di
gravidanza, lo stato garantisce la presenza di consultori familiari, strutture in cui si pratica
informazione e prevenzione alla salute e supporto e sostegno a gravidanze, anche indesiderate
(una volta dichiarate le intenzioni e le ragioni), tramite visite gratuite e anonime, consulenze e
sostegno psicologico pre e post parto, sussidi per le
cure mediche anche del bambino, suggerimenti per
strutture (ad esempio nidi in caso di donne lavoratrici).
Il consultorio ha dunque lo scopo di fornire tutti i mezzi
alla donna al fine di dissuaderla dall’abortire (motivo
per il quale l’ultima parola spetta a lei) e convincerla a
portare a termine la gravidanza alla luce
● della tutela e promozione sociale
della maternità come valore per lo stato e la
società per evitare l’invecchiamento della
popolazione, per il sistema assistenziale
pubblico, per il lavoro e il guadagno (legalizzare
l’aborto per poterlo combattere, atteggiamento
etico non neutrale)
● del riconoscimento del diritto alla
procreazione cosciente e responsabile della
madre che sia informata circa i suoi diritti di
madre, che abbia l’aiuto e il sostegno
economico, psicologico, medico… per evitarle
l’evento traumatico che è l’aborto. Il diritto alla maternità è considerato diritto passivo (lo
stato non ostacola la maternità), ma anche diritto attivo (la società chiede allo stato un aiuto
sotto forma di servizi) il quale talvolta viene meno non fornendo tutti i sussidi necessari per
portare a termine la gravidanza e crescere un figlio.

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Nel momento in cui una donna si presenta al consultorio sospettando di essere incinta il medico
interverrà e la visiterà accertando la diagnosi quante settimane sono trascorse dal concepimento.
Da quel momento la donna può esprimere l’intenzione di interrompere la gravidanza ma è compito
del medico attendere una settimana affinché lei possa valutare attentamente la situazione ed è
compito del medico accertarne le motivazioni e rimuovere quanti più ostacoli possibili al
conseguimento della gravidanza (trovare sostegni economici, strutture che la ospitino, o proporre
soluzioni alternative quali l’affidamento a parenti o l’adozione, e, quando possibile, rintracciare il
padre, esclusi casi di stupro, sottrazione di responsabilità o disinteresse).
Sotto questo punto di vista è considerata una legge poco rispettata in quanto alle donne è
possibile accedere all’interruzione di gravidanza anche quando le motivazioni non sono stringenti
come dettato dalla legge, poiché da un lato i sussidi non sono sufficienti, dall’altro nella società è
passata l’idea che l’aborto sia un diritto.

Il consultorio ha quindi delle condizioni: può interrompere una gravidanza


● entro 90 giorni dal concepimento (termine perentorio)
○ se mette a rischio la vita fisica e psichica della donna
○ per problemi economici
○ per problemi sociali
○ per problemi familiari
○ per motivazioni legate al concepimento
(violenza, incesti...)
○ per anomalie e malformazioni del
concepito
■ (la volontà di non avere un figlio, per
qualsiasi motivo, non è una ragione
riconosciuta dalla legge)
● oltre 90 giorni dal concepimento
○ se la gravidanza o il parto rappresenta un
serio pericolo per la vita della donna
○ se il nascituro presenta gravi condizioni
patologiche che rappresentano un rischio
per la salute fisica o psichica della donna
(non è sufficiente che il concepito sia
malformato in quanto sarebbe una forma
di discriminazione: gli si riconoscerebbe un valore e una tutela minore).

Obiezione di coscienza
Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte agli interventi
di interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, dai quali può quindi
astenersi. Ciononostante ogni struttura sanitaria dovrebbe disporre, in ogni turno, di medici o
operatori non obiettori in grado di garantire questo servizio alla luce della legge dello Stato. Non è
possibile fare obiezione in altri casi: solo l’intervento di interruzione di gravidanza è soggetto a
obiezione di coscienza e non è neanche possibile attuare una forma di ostruzionismo (azione per
cui si tende, con cavilli e pignolerie, a ostacolare una determinata attività o linea di condotta. Ad
esempio non è possibile rifiutarsi visitare o consegnare un certificato medico per impedire l’aborto
facendo trascorrere i 90 giorni consentiti, o non è possibile astenersi dal dovere di curare un
paziente per questioni etiche, di razza, morali, di sesso...: l’omissione di soccorso, da parte di un
medico o di un qualsiasi cittadino, è considerato un reato, nel caso di un medico viene punito con

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la radiazione dall’albo. Parallelamente i farmacisti non possono rifiutarsi di dispensare un farmaco
come la pillola del giorno dopo o ritirare la prescrizione senza dispensare il farmaco).
Si veda l’esempio di una donna a Bari incinta di un figlio affetto da una malattia
incompatibile con la vita che decise di interrompere la gravidanza già inoltrata tramite
l’induzione prematura del parto. Il medico le somministrò il farmaco che dopo alcune ore le
indusse la gravidanza quando il turno di lavoro del medico era terminato. Per 12 ore la
donna venne lasciata con il figlio espulso e morto e con complicanze dovute dal farmaco
senza ricevere assistenza, fino a quando il turno cambiò nuovamente e tornò il medico non
obiettore. Nonostante la sua condizione di sofferenza era dovuta a un’interruzione di
gravidanza la donna resta comunque un paziente meritevole di assistenza e cure anche da
parte di un medico obiettore. L’obiezione di coscienza può aver luogo solamente contro
l’atto in sé, non contro la persona con funzione punitiva.

Contraccezione d’emergenza
La cosiddetta pillola del giorno dopo è un farmaco che
impedisce l’insorgere di una gravidanza e si può
assumere entro le 48, 72 ore o 4 giorni (in base al
farmaco) successive al rapporto non protetto. Sono
chiamati farmaci di contraccezione d’emergenza in
quanto hanno un effetto simile al farmaco contraccettivo
o alla tradizionale pillola anticoncezionale, la quale
impedisce il concepimento modificando il normale
funzionamento dell’organismo inibendo gli ormoni e
interrompendo l'ovulazione, ma ha anche un effetto
contragestivo, cioè che impedisce la gravidanza a concepimento avvenuto, modificando
l’ambiente uterino, impedendo l’annidamento dell’embrione. In passato, per la somministrazione,
era necessaria la prescrizione medica, la quale poteva venire meno se il medico fosse stato
obiettore di coscienza.

Interruzione di gravidanza farmacologica


Il farmaco RU486 è un farmaco abortivo (senza la
necessità di un intervento chirurgico) che permette
l’interruzione volontaria di gravidanza fino a 49 giorni dal
concepimento inducendo una sorta di travaglio.
Introdotto in Italia nel 2009, è stato ed è oggetto di
dibattiti e polemiche poiché, mentre in altri stati è fruibile
autonomamente e in casa, in Italia il suo utilizzo
presenta delle limitazioni: in tempi recenti è diventato
possibile assumerlo solo se somministrato all’interno di
strutture ospedaliere e in ricovero per controllare gli
aborti, come deterrente e fattore di dissuasione dall’interruzione volontaria di gravidanza
rendendola più difficile, e per motivazioni di sicurezza, nonostante non presenti controindicazioni
gravi particolarmente rilevanti.

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• Fecondazione medicalmente assistita
Origine della PMA
La fecondazione medicalmente assistita è una pratica piuttosto recente nata con lo scopo di
affrontare un problema sempre più diffuso, quello dell’infertilità (1 coppia su 3, dovuto dal fatto che
si posticipa il momento del concepimento, stress, inquinamento...): la prima volta che si è riuscito a
concepire una persona al di fuori dell'utero materno è nel 1978 a Londra, per mano di un medico
inglese. Inizialmente, ancor più di oggi, la pratica non aveva un’alta percentuale di successo (prima
attorno al 4%, oggi attorno al 30%).

Nel primo tentativo di fecondazione assistita, dopo che la donna aveva


- ricevuto farmaci e ormoni per la stimolazione dell'ovulazione (potenzialmente dannosa per
la donna),
- si procede al prelievo del maggior numero possibile di ovuli da fecondare (procedura
chirurgica abbastanza invasiva e onerosa per la donna, motivo per il quale si prelevavano
fino a 20 ovuli da poter conservare) e alla
- crioconservazione (conservare gli embrioni in sovrannumero a bassissime temperature
nell’azoto liquido)
- per poi terminare con il trasferimento di alcuni embrioni in utero e utilizzarne altri in
successivi tentativi (nel caso in cui il primo non avesse buon esito, dando quasi per
scontato che ne sia necessario più di uno, nonostante si sperava di riuscire in meno
tentativi possibili).

Dopo il 1978, con la nascita della prima donna concepita in vitro la pratica iniziò a diffondersi in
tutto il mondo negli anni 80 e negli anni 90 divenne una pratica frequente. In Italia si diffuse in
diversi centri, benché non normata fino al 2004, anno in cui viene promulgata la legge e vengono
imposte limitazioni (se non vi è alcun divieto la pratica è considerata legale, cosa valida anche per
la ricerca sperimentale sulle cellule staminali embrionali. Le cellule vengono estratte da embrioni,
che poi di fatto muoiono, donati o non utilizzati a seguito di rinuncia nella speranza, un giorno, di
guidare il processo di differenziazione delle cellule totipotenti di modo da poter generare tessuti e
organi per colmare la carenza nella medicina trapiantologica o per curare malattie degenerative
come l’alzheimer, Dopo il 2004 diventa illegale anche su cellule precedentemente prelevate.
La legge vieta inoltre la clonazione, a scopo terapeutico o riproduttivo, in nome del diritto
all’originalità genetica).
Le motivazioni per cui la legge ha tardato così tanto, quasi 25 anni, sono molteplici: la medicina
ippocratica, i movimenti per la vita, pro-life, e buona parte del mondo cattolico, tra cui la Chiesa,
videro con diffidenza la PMA e, con intenzione di limitarla, alcuni aspettavano un episodio
catastrofico per dimostrare al mondo quanto fosse aberrante e pericolosa la pratica, altri
sostengono che a causa del lungo e controverso dibattito non si riuscisse a trovare un accordo,
altri ancora sono del parere che non vi fosse nessuna necessità di normarla poiché era una pratica
medica e che spettasse unicamente a loro decidere come effettuarla. In particolare i medici
ippocratici si posero il problema della liceità di un intervento che sia al servizio della volontà delle
persone, che esaudisca un desiderio, che si sostituisca all’organismo senza curarlo e ripristinarne
il normale e naturale funzionamento. Ciononostante storicamente viviamo in un’epoca nella quale
prevale la necessità di autodeterminazione e percepiamo come dovere della società quello di
fornire gli strumenti (diritto attivo) e non imporre limiti (diritto passivo) alla realizzazione di noi
stessi.

14
Legge 40, 19 febbraio 2004
Norme in materia di procreazione medicalmente assistita
Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità
umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le
modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il
concepito.
Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi
terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità.

Dal primo articolo della legge è possibile cogliere i principi sui quali essa si basa:
● il concepito gode di diritti, è una persona giuridica, soggetto
di diritto, a differenza e fatto salvo di quanto dichiarato dalla
legge 194 del 1978, la quale non viene abrogata. In quanto
tale, l’embrione concepito in vitro ha diritto alla vita: non può
essere soppresso (sarebbe considerato omicidio a tutti gli
effetti) e diritto all’integrità: non può essere manipolato o
selezionato a scopo eugenetico (prima del 2004 era
possibile per poter generare embrioni non portatori di una patologia in caso di diagnosi
genetica preimpianto, dopo una coppia che teme di trasmettere una patologia ereditaria al
figlio non può richiedere l’accesso alla PMA, la quale, con questa legge, semplicemente si
sostituisce al rapporto sessuale)
*Il termine eugenetica non è neutrale, ha origini e rimandi all'ambizione e al
progetto razziale del regime dittatoriale nazista e, in una certa misura fascista, che
propagandava l’esistenza di un gruppo etnico superiore agli altri. Si riferisce alla
pulizia genetica che mirava all’eliminazione e alla sottomissione delle razze inferiori
e alla moltiplicazione dei membri della razza superiore. L’utilizzo di questa parola
nella normativa ha lo scopo di condannare un comportamento di alcuni aspiranti
genitori che non vogliono trasmettere una malattia genetica, che, agli occhi del
promulgatore della legge, è sullo stesso piano della selezione razziale*
● la fecondazione medicalmente assistita ha diritto di avere luogo solo in caso di sterilità o
infertilità, quindi solo in caso di problemi strettamente di salute e non di altro genere
(essere single, omosessuale, età avanzata, transessualità...) perché il bambino ha diritto
alla miglior vita possibile, le condizioni ottimali, in una famiglia tradizionale, con genitori
“veri e certi”: con due genitori biologici, eterosessuali, una madre e un padre, sposati o
stabilmente conviventi (no single, omosessuali, fecondazione eterologa quindi donatori di
gameti, gestazione per altri...).

Insieme alla legge 194 del 1978, che tratta l’interruzione volontaria di gravidanza, la legge che
regola la fecondazione medicalmente assistita, la legge 40 del 2004, è l’unica che disciplina gli
interventi medici sulla la vita nascente dopo il concepimento e nelle prime fasi dello sviluppo.
La legge 40 del vietava la creazione di troppi embrioni che non
potevano essere crioconservati, per evitare un soprannumero, salvo
casi eccezionali (se ad esempio non si è immediatamente in
condizione di ricevere in utero gli embrioni essi possono essere
crioconservati per quando sarà possibile). Questa decisione venne
presa per rispetto alla vita dell’embrione alla luce del fatto che coppie
che erano riuscite ad avere uno o due figli o che avevano rinunciato,
lasciavano crioconservati in banche di azoto liquido una decina di
embrioni di cui non avevano più bisogno. In Italia, nei primi anni degli anni 2000 si è stimato che
c’era un numero che oscillava tra i 50.000 e i 200.000 embrioni crioconservati non reclamati.
Questa posizione verrà poi modificata.

15
L. 194/1978 e L. 40/2004 a confronto
Uno degli aspetti maggiormente dibattuto circa questa legge riguarda la coesistenza con la legge
194:
- l’aborto è una soluzione estrema, un extrema ratio, non un diritto, ad un problema già
esistente, la legge che lo normalizza è nata come compromesso, con lo scopo di far
emergere l’intenzione della donna e risolvere, nei limiti del possibile, le questioni che la
spingono a quell’intenzione.
- Per quanto riguarda la fecondazione medicalmente assistita, invece, si creano in
laboratorio degli embrioni, delle vite, delle persone, che si sa sin dal principio verranno
selezionati, scartati e usati per la sperimentazione, non tutti verranno fatti nascere, quindi
sarebbe considerata una situazione peggiore poiché è considerabile, in qualche modo, un
omicidio intenzionale e premeditato, se si presuppone che l’embrione sia una persona che
gode di diritti.
Per tentare risolvere questa controversia l’embrione è considerato titolare e soggetto di diritti
fintanto che è in vitro, come stabilito dalla legge 40 (se uno scienziato o un biologo lo seleziona è
accusato di reato), una volta trasferito nell’utero materno la donna può prendere le proprie
decisioni come stabilito dalla legge 194, diventando oggetto di tutela (ad esempio se una coppia
teme di trasmettere una malattia ereditaria al figlio e ricorre alla PMA, può effettuare i test genetici
prenatali, può legalmente interrompere la gravidanza, ma non può ricorrere alla PMA per
selezionare in vitro un embrione non portatore della patologia).

Le contraddizioni vennero risolte solo molti anni dopo da un giudice e da sentenze che hanno
modificato alcuni aspetti della legge: nel decennio successivo alla sua promulgazione, intorno al
2015, molte coppie hanno fatto ricorso a giudici, e a loro volta alla Corte Costituzionale, contro la
legge 40 e alcuni divieti sono caduti:

● viene eliminato il divieto alla diagnosi preimpianto,


rendendo possibile l’indagine (anche genica) e la
conoscenza dello stato di salute dell’embrione da parte dei
genitori, fermo restando che possono accedere alla PMA
sempre solo per problemi di infertilità. Se la donna ha la
possibilità di abortire in caso di patologia del figlio dovrebbe
poter rifiutare anche l’impianto embrionale alla luce degli esiti
della diagnosi preimpianto, rispettando lo stato di salute fisico
e psichico della madre e facendo cadere la contraddizione
tra la legge 197 e la legge 40 (quest’ultima viene modificata
poiché non rispettava il diritto alla salute della donna)

● viene eliminato il divieto della crioconservazione sempre in nome della salute della madre
(la quale viene messa a repentaglio dalla ripetizione della pratica) dando la possibilità agli
embrioni in sovrannumero una chance di vita

16
● viene eliminato il divieto alla fecondazione eterologa, il quale sarebbe anticostituzionale e
violerebbe la libertà di concepire un figlio con chi si vuole, diventa quindi possibile la
donazione in un gamete da parte di una persona esterna alla coppia, abrogando il diritto
del feto di avere genitori veri e certi (il nascituro non ha il diritto di sapere chi sono i genitori
veri, se biologici, gestazionali o sociali e, inoltre, questo non può negare il diritto di
procreazione dei genitori).
*Il termine eterologo deriva dalla zootecnia e originariamente fa riferimento
all’utilizzo di materiale biologico esterno alla specie per creare un ibrido o chimera.
Anche in questo caso il termine non è neutrale ma trasmette aberrazione e
devianza nei confronti della pratica*

● viene eliminato il limite massimo di 3 embrioni


da poter generare: diventa possibile generarne di
più in nome della salute della madre (evitandole
di subire ripetutamente interventi invasivi) ma la
coppia si prende la responsabilità degli embrioni
e si impegna a dare a tutti gli embrioni la stessa
possibilità di vivere, trasferendoli tutti (non più di
3) contestualmente in utero o facendo poi un
altro tentativo o avendo un altro figlio.

Posizioni etiche
Le problematiche che sollevarono la necessità di una legislazione furono molteplici ma non sempre
condivisi e approvati da tutti:
- la necessità di chiarire e imporre la responsabilità della genitorialità (ad esempio, il
riconoscimento di genitorialità in caso divorzio a seguito di fecondazione medicalmente
assistita, omologa, eterologa o di gestazione per altri, o la rivendicazione di
embrioni concepiti in vitro), unica esigenza riconosciuta di comune accordo

Le altre tematiche emerse (scopo della medicina e delle sue tecniche, valore della vita umana,
cosa l’uomo può o non può) e gli altri aspetti di questa legge sono fortemente discussi e
controversi e gli schieramenti ideologici opposti (pro-life e pro-choice) non possono trovare un
punto di incontro: alcuni critici la definirono una legge non adatta a esigenze di una società
pluralistica in quanto molto vicina al mondo cattolico, seppur non completamente in quanto il
mondo cattolico avrebbe vietato la PMA alla luce del Donum Vitae del 1978 di Giovanni Paolo II.
Tale documento condanna la fecondazione medicalmente assistita in quanto
➔ viola la dignità del concepimento: il concepimento è l’atto sacro frutto dell’unione coniugale
biologica, emotiva e spirituale di due individui congiuntamente con l’intervento divino il
quale fa il dono della vita. Nella pratica della PMA vi è separazione tra queste tre
dimensioni
➔ minaccia la famiglia e il matrimonio: per non perdere adesione di fede e per far valere il
principio dottrinale di far valere il valore del matrimonio e della famiglia naturale come
unica detentrice del diritto di concepire, la fecondazione medicalmente assistita non rientra
nell’idea di famiglia
*Quando si parla di famiglia naturale si fa riferimento all’articolo 29 della
costituzione, nel quale, con il termine naturale non si fa riferimento alla coppia
uomo e donna sposati (è una stortura delle intenzioni dei Padri Costituenti), bensì
che rispetti le scelta spontanea del singolo senza imposizioni e obblighi né familiari
né sociali (in un contesto post dittatura nella quale i matrimoni tra le razze erano
vietati)*

17
➔ non riconosce la sacralità della vita del singolo e come processo di concepimento,
attraverso la crescita, fino alla morte. Il concetto di sacralità nasce molto prima del
cristianesimo, nei momenti in cui non ci si riesce a spiegare un fenomeno: dagli elementi
naturali alla malattia, fino al secolo scorso in cui si comprese il funzionamento scientifico
del concepimento, la sua misteriosità lo rendeva sacro (intoccabile e intangibile) e
miracoloso, l’uomo non può intervenire nel processo voluto da Dio. Secondo questa visione
nessun intervento può intervenire per porre fine alla vita, che è sempre un valore positivo.

Nella tradizione si parla di persona come essere razionale e pensante, in un’ottica religiosa, come
sosteneva Tommaso d’Aquino, capace di venerare Dio, dunque non può considerarsi tale se
composta da 1 o 8 cellule ma può considerarsi vita umana (basti pensare all’embrione che può
scindersi generando due gemelli: l’anima non può dividersi, dunque non può arrivare nel momento
esatto del concepimento ma quando si diventa individuo, indivisibile, ovvero dopo 2 settimane dal
concepimento). Nonostante le difficoltà filosofiche, la legge 40 sostiene che l’embrione sia una
persona, la Chiesa e i teologi, invece, sostengono che l’embrione vada trattato come una persona
poiché, se il percorso dello sviluppo della sua vita non viene ostacolato, diventerà una persona:
l’embrione è una condizione sine qua non, necessaria alla genesi di una persona. La teologia
compara la contraccezione, l’aborto e la morte di un bambino nato, ponendole tutte sullo stesso
piano in quanto in ognuno di questi tre casi si interferisce e ostacola il processo della vita,
rifiutando il dono di Dio.

Dall’altra parte, nella posizione opposta, si difende il diritto all’autodeterminazione e alla scelta per
la propria vita, subordinando la durata della vita alla
➔ qualità e dignità della vita: la vita è degna di essere vissuta se ha delle caratteristiche e
condizioni positive: sta alla persona che vive la propria vita darle valore e giudicarla
meritevole di essere vissuta.

18
• Eutanasia
La sofferenza
➔ Sin dall’antica Grecia, per il paradigma della sacralità della vita, il dolore ha un senso, un
significato e un valore poiché è parte integrante della vita umana. Allora si riteneva che il mondo
fosse composto da opposti: luce e ombra, sole e luna, giorno e notte, vita e morte, sono tutte facce
della stessa medaglia, non esiste l’uno senza l’altro. Successivamente, nella visione teologica
cristiana, il dolore è considerata la possibilità di mettere alla prova la fede, di espiare i propri
peccati e portare sulle spalle la croce di Cristo entrando in comunione con il figlio di Dio, dunque la
sofferenza non va completamente eliminate, non è, di per sé, un male.
➔ Nella concezione del paradigma della qualità della vita la sofferenza viene spogliata dai
significati filosofici tradizionali ed è vista da un punto di vista medico: è il sintomo che va indagato
per comprendere la malattia o per tracciare un processo di
guarigione, e, se la sofferenza diviene cronica, in caso di malattia
irreversibile, perde di senso: viene vista come un ingiustizia alla
quale la medicina ha il dovere di porre fine, difendendo il diritto della
persona a non soffrire (non si cura solo la malattia ma anche il
dolore, concezione che in Italia risale a circa 5 anni fa).
(in) Disponibilità della vita e (non) diritto a morire
➔ Per il paradigma della sacralità della vita e per i movimento
pro-life l’essere umano non dispone della propria vita (bene
indisponibile), non ne è padrone ma è colui che l’ha ricevuta in
affidamento, è un dono di Dio e deve tutelarla. Il paziente non ha il
diritto di richiedere assistenza medica per porre fine alla propria vita,
per avere figli, per cambiare sesso o per modificare l’aspetto, in
quanto la medicina non è a servizio dell’autodeterminazione umana ma solo della vita, della salute
e della sua preservazione. Il medico ha il divieto di uccidere generale, in quanto persona, cristiano,
e professionale, in quanto medico. Negli anni l’etica ippocratica e la teologia cristiana e cattolica si
sono fusi e in merito all’eutanasia Papa Giovanni Paolo II fece svariati interventi condannando la
cultura della morte descritta nell’Evangelium Vitae del 1995. Parla dell’uomo moderno come non
più in grado di fronteggiare la vita, la sofferenza e la malattia e per questo le combatte. L’uomo
moderno venera il culto della bellezza e dell’apparenza, del corpo forte, sano, giovane e bello e ci
si vergogna degli aspetti reali della vita umana: il dolore e il corpo debole, senza fuggire il dolore
anticipando la morte, e senza fuggirla (no all’accanimento terapeutico).
➔ Per il paradigma della qualità della vita l’essere umano dispone della propria vita (bene
disponibile), ne è padrone e a lui spettano scelte e decisioni riguardo tutto il percorso (lavoro,
figli...), compresa anche la fine: la medicina è a servizio dell’uomo, delle sue scelte, della sua
volontà e dell’autodeterminazione. Alla luce di questa visione, il diritto a morire è un diritto forte
(che esercito esigendo da qualcun altro che mi si offrano dei servizi, come il diritto all’istruzione, al
contrario di un diritto debole, per il quale è sufficiente che nessuno mi ostacoli o me lo impedisca,
come il diritto alla libertà religiosa). Per i movimenti pro-choice il dolore totale (sofferenza estrema
che non può essere lenita né alleviata, che travolge la persona in tutto il suo essere rendendola
incapace di agire) è causato, nella stragrande maggioranza dei casi, dalla medicina, che offre
strumenti potenti in grado di procrastinare la morte, allungando i tempi della sofferenza connessa
al processo della morte (non più considerata come evento ma come processo, dovuto agli
strumenti della medicina di rianimazione che fanno ripartire il cuore, la respirazione e tutta la
macchina che si stava fermando, Così la morte può durare ore o giorni, diventando una lunga
agonia). Lo Stato, la medicina, i medici, il sistema sanitario nazionale hanno, per questo, il dovere
di aiutare e offrire i servizi per porre fine alla vita e interrompere le sofferenze delle quali spesso
sono responsabili, o comunque come strumento di autodeterminazione.

19
Terminologia e distinzioni

*Con il termine eutanasia si intende


un’azione o un’omissione che abbia
come scopo quello di procurare la
morte, porre fine alla vita allo scopo
di eliminare il dolore con mezzi
proporzionati al raggiungimento dello
scopo (un farmaco con lo scopo di
diminuire il dolore non può velocizzare la morte). Il dibattito bioetico in Italia riguarda
unicamente l’eutanasia voluta e richiesta dal paziente, non da altri (medici, famiglia,
Stato… altrimenti si parlerebbe di omicidio).*

Storicamente si parla di eutanasia come buona morte del filosofo (per esempio
Socrate) senza aver paura dell’aldilà, in pace con i suoi valori. Successivamente si
parla di eutanasia nel ‘900 in riferimento alla morte di Stato, la morte imposta dal
regima nazifascista alle persone considerate indegne. Ad oggi per eutanasia non ci
si riferisce a un’azione imposta da altri ma a un mezzo di autodeterminazione.

*Per accanimento terapeutico si intendono tutti quegli interventi finalizzati a procrastinare


il momento o processo del morire quando inevitabile, in corso e imminente (rianimazione,
intubazione... ossia pratiche dalle quali il paziente già incosciente non può trarre
giovamento, per questo talvolta sono considerate pratiche sproporzionate in quanto a costi
e benefici, messe in atto con l'unica motivazione di non rimanere inermi. Ciononostante la
legge DAT concede di fare dichiarazione anticipata dei trattamenti e indicare un tutore
legale che faccia i nostri interessi quando non si è capaci di intendere e volere). La rinuncia
all’accanimento terapeutico non è considerata eutanasia, neppure dal fronte della sacralità
della vita, poiché a risultare fatale sarà la naturale evoluzione della condizione patologica,
nonostante si abbia difficoltà a
concordare circa la definizione di cure
sproporzionate e cure minime
dovute (le quali, essendo
obbligatorie, non potrebbero essere
rifiutate, al contrario di quanto accade
per i trattamenti sanitari).*

20
*Con rifiuto delle cure si fa
riferimento al diritto difeso
dall’Articolo 32 della Costituzione di
decidere di accettare o meno cure o
trattamenti, non può essere obbligato
a riceverli in nome dell’indisponibilità
del corpo da parte della collettività
contro la volontà, salvo casi specifici
normati dalla legge in nome del diritto
alla salute, all’integrità... (tra le
eccezioni vi è l’obbligo di quarantena, i
vaccini, ai quali ci si può opporre se si
rinuncia a rivestire ruoli pubblici come ad
esempio membri del personale scolastico
o del sistema sanitario o il TSO, trattamento sanitario obbligatorio, una misura ordinata dalle autorità
attuata nel caso in cui una persona si mostra pericolosa per sé stessa e per gli altri). Il rifiuto delle
cure mediche non è considerata eutanasia poiché a risultare fatale sarà la naturale
evoluzione della condizione patologica.*
*Analogamente è possibile esercitare il proprio diritto di sospendere le cure già in atto e
interrompere un percorso terapeutico o uscire da una ricerca sperimentale, anche se la si
aveva precedentemente accettata.*

*Con cure palliative si fa riferimento a tutti quei trattamenti


terapeutici che non curano la malattia in sé (che è
irreversibile), bensì i suoi sintomi, fisici, psicologici o
spirituali: hanno l’obiettivo di migliorare la qualità della vita
e lenire il dolore e i sintomi (ad esempio in caso di pazienti
in fasi terminale di una malattia dalla prognosi infausta). Le
situazioni di anticipazione o accelerazione della morte, che
possono talvolta essere l’effetto o la controindicazione di
cure palliative o farmaci (ad esempio la morfina e i suoi
derivati), non sono considerate eutanasia.*

*Con suicidio assistito si fa riferimento all’atto che pone fine


alla vita del paziente che ne fa richiesta consapevolmente,
tramite l’aiuto di un terzo che gli procura o prescrive i farmaci
necessari. La differenza con l’eutanasia è che nel caso del
suicidio assistito è il paziente stesso a compiere su sé stesso
l’atto, non è un operatore sanitario o un parente a
somministrare il farmaco. Sebbene la differenza sia minima in alcuni stati quale la Svizzera
o la Germania è consentito il suicidio assistito e illegale l’eutanasia*

21
Legislazione
La prima legge in Europa che riguarda
l’eutanasia risale al 2002, in Olanda, e
permette l’eutanasia se è una scelta
libera e spontanea, non indotta, non
presa sotto coercizione, ponderata e
motivata e costante, maturata nel
tempo e che nel tempo di protrae
(presa da un maggiorenne o da un
minore emancipato). La scelta deve
essere presa razionalmente e
lucidamente, sostenuta e seguita da
uno psicologo che ne accerti le motivazioni, la reale volontà, che accerti che il paziente sia in
possesso delle proprie facoltà, che sia in grado di intendere e di volere. Inoltre la legge autorizza la
pratica dell’eutanasia solo nel caso in cui sia l’unica alternativa valida, verificata da una
commissione medica, la quale offre terapie alternative e servizi di supporto, e, se, nonostante
questo percorso, il paziente non ha cambiato idea, gli si garantisce l’accesso a questa pratica. La
legge belga, nel 2003, ricalca queste stesse linee guida.
In Italia il dibattito si aprì solo successivamente, con i casi di Piergiorgio Welby (2006) e Eluana
Englaro (2009), i quali, per primi, affrontarono un dibattito pubblico e un percorso giudiziario per
vedersi riconosciute la prerogativa di poter interrompere i trattamenti sanitari. Non vi è ancora una
legge vera e propria che legalizzi o proibisca l’eutanasia, ma solo leggi circa l’interruzione di
terapie e il diritto delle cure palliative, il Parlamento non si è pronunciato in merito ma le sentenze e
i giudici, tramite battaglie legali (e culturali), hanno modificato le prassi , non tramite un percorso
parlamentare ma giudiziario.

•Il caso Piergiorgio Welby

Piergiorgio Welby era un giornalista, artista e attivista al quale, da adolescente, è stata


diagnosticata una forma di distrofia muscolare, la quale comporta una progressiva
degenerazione, fino all'immobilità e, poi, all’incapacità di respirazione autonoma e alla necessità di
supporto da parte di macchine quali il respiratore artificiale. Nel corso degli anni dichiarò
chiaramente e in maniera univoca di non voler essere attaccato a macchinari e relegato a letto,
incapace di respirare, parlare e deglutire. L’inevitabile crisi respiratoria si verificò nel 1997 e
Piergiorgio perse conoscenza, la moglie e attivista, Mina Welby, chiamò i soccorsi e, in quanto
privo di sensi, i sanitari intervennero e lo intubarono per il principio in dubio pro vita. Egli si svegliò
in ospedale attaccato ad un ventilatore artificiale e, fintantoché era attivo e in grado di scrivere,
innescare e partecipare al dibattito pubblico circa i diritti dei pazienti e l’autodeterminazione (anche
tramite un blog, inizialmente scrivendo, poi, quando impossibilitato, attraverso un rilevatore di
movimento oculare), accettò la situazione, al fine di ottenere il diritto a interrompere le cure a
supporto vitale e ricevere un trattamento di palliazione del dolore, per poter morire senza soffrire,
diritti che vedrà riconosciuti solo 10 anni dopo. Nonostante secondo l’Art. 32 della Costituzione il
paziente può rifiutare le cure mediche, interrompere terapie in corso o uscire da percorsi
sperimentali, moltissimi medici declinarono le richieste di Welby in forza del fatto che si sarebbe
trattato di un atto di eutanasia e il medico sarebbe potuto essere accusato di istigazione al suicidio
o omicidio e sarebbe potuto essere punito con il carcere, andando contro non solo il codice
deontologico medico ma anche al codice penale italiano (gli Art. 579 e 580 del codice penale, che
puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio, sono pensati per proteggere i
fragili dalle manipolazioni e venivano erroneamente e per estensione applicate all’eutanasia).

22
Inoltre, paradossalmente, supponendo che il medico interrompa le
cure, nel momento in cui il paziente perde coscienza, è dovere del
medico rianimarlo poiché nel dubbio sulla sua volontà e in caso in
cui non possa farla valere è tenuto ad agire a favore della sua vita.
Quando le sue condizioni si aggravarono Piergiorgio scrisse una
lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in cui
rivendicava i propri diritti chiedendo un suo un intervento in questa
battaglia: egli prese una posizione e sollecitò il Parlamento a
rispondere all’esigenza concreta di molte persone, normando il fine
vita e chiarire i termini del dibattito, ma la richiesta non venne
accolta dalle camere. Piergiorgio Welby iniziò, allora, una battaglia
legale, rivendicando il suo diritto a morire, interrompendo le cure a
supporto vitale ma ricevendo un farmaco lenitivo del dolore. Il
tribunale riconobbe il diritto di rifiutare le cure da parte del paziente
ma ribadì l’assenza di una legge che spiegasse come e cosa si
potesse fare e, pertanto, si vide impossibilitato a emanare un
verdetto e indicare lo strumento per far valere questo diritto (che
dovrebbe essere attivo ma non sono decretati strumenti e persone
addette e tenute all’erogazione dei servizi per l’interruzione della
vita). Dal momento in cui si vede rifiutare dalla magistratura il diritto
all’interruzione della vita, nel 2006 trovò un anestesista e
rianimatore, il dottor Mario Riccio (attivista per i diritti e
l’autodeterminazione dei pazienti), che spontaneamente si dichiarò
disponibile ad eseguire le sue richieste, dopo aver verificato
l’autenticità delle sue intenzioni e volontà e essersi sincerato della
sua lucidità. 2 giorni dopo gli somministrò un farmaco che lo fece
addormentare e staccò il ventilatore artificiale che gli causò
un’insufficienza cardio respiratoria e l’arresto cardiaco nel giro di
30 minuti.
Alla sua morte non gli fu concesso il funerale che desiderava in
quanto il suo, dal punto di vista cristiano, è considerato suicidio e,
in quanto tale, rifiuto del dono di Dio del quale non ci si può
pentire e riscattare. (Tradizionalmente non veniva celebrato il
funerale e non vi era la possibilità di essere seppelliti in terra
consacrata: una serie di usanze e possibili punizioni per il suicida,
ad esempio espropriando lui e la sua famiglia dei beni che avrebbero ereditato). Oggi i funerali per i
suicidi si celebrano, confidando nella inconsapevolezza o nella disperazione della persona, ma il
caso di Piergiorgio Welby, in quanto era perfettamente in grado di intendere e di volere.
Dopo la sua morte Mario Riccio incorse in un procedimento disciplinare da parte dell’ordine dei
medici e ad un procedimento penale. L’ordine dei medici riconobbe il diritto di rifiutare le cure e il
diritto alle cure palliative da parte di Piergiorgio Welby, quindi Mario Riccio venne assolto e,
analogamente, sul piano penale, la morte di Piergiorgio Welby venne considerata il naturale
progredire della malattia a seguito di sospensione delle cure e non atto eutanasico e il farmaco
somministratgli non era la causa della morte ma cure palliative che gli permisero di morire senza
soffrire. Non vi fu nessun rinvio a giudizio poiché l’istruttoria si fermò prima, vi fu una sentenza di
non luogo a procedere: l'udienza preliminare riconobbe l’inesistenza del reato.
Circa un anno prima del caso Welby, nel 2005, Papa Karol Wojtyla, malato di parkinson, dopo
l’ennesima crisi respiratoria rifiutò il respiratore artificiale chiedendo di essere estubato. Nel suo
caso, però, non rivendicava il diritto a disporre della propria vita ma chiedeva di andare alla casa del
Padre, accettando la morte nel momento del suo arrivo, senza rifiutarla e decidere su di essa: si
tratta di una vera e propria differenza culturale, di atteggiamento e interpretazione.

23
Terminologia e distinzioni
● Il coma è una situazione di assenza di coscienza transitoria: dal coma si esce risvegliandosi,
entrando in stato di morte cerebrale o in stato vegetativo o morendo. Può derivare da un incidente o
può essere indotto farmacologicamente allo scopo di far riposare e riprendere l’organismo.

● La morte cerebrale è una situazione nella quale la circolazione e il respiro continuano a funzionare
grazie all’ausilio di macchine, ma l’encefalo, in tutte le sue parti, smette di funzionare e con esso
tutte le funzioni che svolge (pensieri, memoria, linguaggio, coscienza e le funzioni vegetative del
tronco cerebrale come il ciclo sonno/veglia, respirazione spontanea...) e gli strumenti non rilevano
alcuna attività cerebrale (encefalogramma piatto) . La definizione risale al 1968 ad opera di una
commissione nell’università di medicina di Harvard in risposta alla questione pazienti la cui
coscienza è irrimediabilmente compromessa (cosa fare? È possibile sospendere le cure e
considerare donatori di organi?) in modo da definire la situazione di quei pazienti allora definiti in
coma irreversibile o coma depassè (coma oltrepassato).
- La medicina dei trapianti nasce nella prima metà del ‘900, inizialmente si riuscì a
congiungere i vasi sanguigni e attorno al 1920 si comincia a comprendere la questione della
compatibilità. I primi organi trapiantati con relativo successo sono i reni, i quali resistono
bene e a lungo espiantati, dopo la morte del paziente. L'ultimo organo trapiantato con
relativo successo per la prima volta è il cuore, nel 1967 in Sudafrica. Quest’organo in
particolar modo presenta la questione della poca disponibilità e la necessità di conservarlo
ossigenato e irrorato dal sangue costantemente: se si aspetta il tempo necessario dopo che
il cuore del paziente cessa di battere per dichiararlo morto e espiantare gli organi, il cuore,
che deperisce immediatamente quando non ossigenato, sarà diventato inutilizzabile (la
dichiarazione di morte fino al ‘900 inoltrato avviene attraverso il criterio cardiocircolatorio: se
il cuore non batte, se il sangue non circola e se la persona respira). In Sudafrica il trapianto
è stato reso possibile dalle norme sulla dichiarazione di morte meno restrittive (attesa meno
lunga tra l’arresto cardiaco e la dichiarazione di morte).
- La medicina di rianimazione nasce intorno alla metà del ‘900 e consiste, letteralmente, di
riportare l’anima nel corpo (si pensava che l’anima lasciasse il corpo con l’esalazione
dell’ultimo respiro): è in grado di far ripartire la respirazione e il battito cardiaco grazie a
macchinari e strumenti quali il defibrillatore e il respiratore artificiale. La medicina di
rianimazione ha creato situazioni clinicamente nuove in assenza di coscienza ma respiro e
battito funzionano grazie all’ausilio delle macchine, aprendo un lungo e complesso dibattito
a riguardo (secondo il criterio cardiocircolatorio non erano considerati morti: non era
possibile interrompere i trattamenti di supporto vitale e non erano considerabili donatori di
organi)
La commissione Harvard elabora una nuova definizione di morte da affiancare a quella già esistente
di morte cardiocircolatoria: la morte cerebrale definendo le condizioni alle quali il paziente è definibile
morto, chiarendo cosa fosse possibile fare per questi pazienti (sospendere le cure e donare gli
organi). La definizione inizialmente venne accolta da molti Stati con entusiasmo, compresa l’Italia (L.
578 del 1993) ma suscitò alcune polemiche in seguito sulla scia della riflessione del filosofo Hans
Jonas: con macchinari più sofisticati e sensibili è possibile rilevare un’attività cerebrale minima
residua non percepita precedentemente su pazienti considerati cerebralmente morti. Si iniziò anche
a dibattere circa la morte cerebrale basata sul non funzionamento dell’intero organismo o del solo
organo che definisce l’identità, la personalità e l’elemento caratterizzante del paziente? (in caso della
seconda anche lo stato vegetativo sarebbe considerabile morte cerebrale).

● Lo stato vegetativo è una situazione nella quale il paziente conserva solo le funzioni vegetative del
tronco cerebrale, il quale presiede le funzioni della respirazione spontanea e collabora al battito
cardiaco, produce ormoni e regola il ciclo di sonno/veglia, senza mai recuperare la coscienza. Ad
essere danneggiata è la corteccia cerebrale che presiede ai pensieri, alla coscienza, alla memoria,
al linguaggio, alla capacità di interagire col mondo esterno… (lo stato vegetativo può esserci un
diverso grado di recupero e coscienza, in base alla vastità del danno).

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•Il caso Eluana Englaro

Eluana Englaro era una ragazza di 21 anni che nel 1992 ebbe un
tragico incidente stradale a seguito del quale andò in ospedale
priva di sensi e venne operata, entrò in stato di coma per
emorragia cerebrale e poi in stato vegetativo permanente, a
causa del danno esteso. Eluana era quindi in uno stato in cui i
muscoli necessari per la respirazione continuassero a contrarsi
perché il tronco cerebrale era ancora perfettamente funzionante:
non era attaccata a un respiratore artificiale per sopravvivere ma
riceveva nutrizione e idratazione artificiale attraverso un sondino
naso-gastrico.
Dopo un anno la famiglia inizia la battaglia legale per vedersi
riconoscere il diritto all’interruzione delle cure, ma, a differenza di
Piergiorgio Welby, era irrimediabilmente priva di coscienza e
dunque incapace di esprimere la propria volontà, e a parlare per lei
sono i suoi familiari, in particolare il padre, Peppino Englaro, il
quale diceva che Eluana non avrebbe mai voluto vivere in questa
condizione di incoscienza e immobilità, nutrita e idratata dalle
macchine, facendo rispettare la dignità e il volere della figlia (un
anno prima un suo amico visse una situazione analoga ed Eluana
espresse le sue opinioni a riguardo, dicendo di pregare affinchè lui
morisse perchè quella circostanza non rispettava la persona che era: se
fosse capitato a lei avrebbe preferito non dover essere trattata e accudita
come una cossa). Peppino riuscì, dopo 4 anni, a farsi riconoscere
come suo tutore legale della figlia chiedendo per lei l’interruzione
delle cure ai medici, richiesta che si vede rifiutare. Si rivolge così
ad un tribunale e molti anni dopo, nel 1999, il tribunale di Milano
esprime un parere negativo circa la sua richiesta, sostenendo che
l’idratazione e la nutrizione artificiale sono cure minime dovute e
non accanimento terapeutico, in quanto il processo del morire non
era cominciato e le cure minime dovute (non trattamenti medici in
quanto acqua e cibo non sono medicinali) offerte non creano un
disagio sproporzionato e non presentano un costo eccessivamente
elevato rispetto ai benefici che provocano e rispetto al bene della
vita. Inoltre il tribunale sostenne che non vi fosse la possibilità di verificare la volontà attuale del
paziente incosciente di interrompere le cure: nel corso degli anni si è discusso molto del valore
della volontà del paziente incosciente, il quale non è presente e non può esprimere il suo volere in
maniera attuale (non certa poiché non attuale: per il fronte della sacralità della vita non gli
verrebbe riconosciuto il diritto di cambiare un’idea espressa anni prima e in un’altra circostanza, e,
dunque, dovrebbe valere il principio in dubio pro vita).
Venne addirittura messo in discussione tutto ciò che si pensava di sapere riguardo lo stato
vegetativo: le funzioni cerebrali funzionanti in quella condizione, la capacità o meno di pensare,
sentire e cambiare idea, il reale stato di coscienza e la sua personalità...
Ci si domandò che valore legale avesse una volontà espressa ora per allora, in un momento
diverso da una persona che non è ancora in una situazione che però si trova a giudicare e
normare. Dicendo che la volontà attuale non può determinare il da farsi di molti anni dopo si
presuppone anche l’impossibilità lasciare un testamento biologico (cosa che in Italia non si poteva
fare fino a prima di Eluana).
La vicenda Englaro si svolse nell’arco di 17 anni, tempo necessario alla famiglia per arrivare alla
sentenza che permise alla ragazza di morire, nel 2009. Nel 2008 la Corte Costituzionale decise
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che se lo stato della paziente è dichiarato irreversibile dalla scienza, senza alcuna possibilità di
recupero dello stato di coscienza, e se è accertata la volontà della paziente, allora si può
procedere all’interruzione dei trattamenti di supporto vitale: si arrivò a far valere
- il principio secondo il quale, pur non essendo accanimento terapeutico, l’idratazione e
l’alimentazione artificiali sono considerati trattamenti medici sanitari (invasivi e imposti)
da poter interrompere
- il principio secondo il quale la volontà del paziente è valida e va rispettata anche se non
espressa attualmente, se vi sono certezze e testimonianze.
(il paziente non va più considerato come un bambino, va superata la concezione paternalistica della
medicina ippocratica secondo la quale una persona sana, nel pieno delle facoltà mentali non può
voler morire: negava la validità della volontà di una persona che sceglieva di morire: si riteneva che
una scelta che toglie la vita non può essere stata presa lucidamente ma a causa di un disturbo e
dunque non è valida)

Nonostante la sentenza non fu semplice per la famiglia Englaro trovare una sede nella quale interrompere i
trattamenti sanitari (alcune regioni come la Lombardia, con un decreto a livello regionale, si imposero alla
sentenza della Corte Costituzionale), fu un periodo di grande fermento: ebbero luogo svariate manifestazioni
pro choice e pro vitae, finchè nel 2009, dopo molti mesi di ricerca, la famiglia di Eluana trovò una clinica a
Udine, disposta a rispettare le volontà della paziente. A quel punto, il Parlamento e il Governo, i quali poco
prima non avevano risposto agli appelli di Giorgio Napolitano, della famiglia Englaro e di Piergiorgio Welby,
emanarono un decreto d’urgenza (dal Governo in maniera più veloce) che impone di riprendere l’idratazione
e l’alimentazione artificiale perchè il paziente non poteva rifiutarli, in quanto erano considerate cure minime
dovute e la volontà della paziente non era valida poiché non attuale. Il decreto non venne mai applicato
perché il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale deve firmare e dare il veto affinché diventi
esecutivo, respinse il documento sostenendo che fosse materia parlamentare e che non fosse urgente, in
quanto era una questione stata sollevata 2 anni fa ma ignorata dal Parlamento (fu uno scontro istituzionale
raro).

•Il caso Dj Fabo

Fabiano Antoniani, conosciuto anche come Dj Fabo, era un dj milanese che nel 2014 subì un
gravissimo incidente d’auto che lo rese tetraplegico, quasi completamente cieco e con profonde
difficoltà nell’articolazione delle parole, a deglutire e talvolta anche a respirare. Dopo diversi anni
trascorsi in viaggi all’estero, nella speranza di trovare una qualche cura, anche con terapie
sperimentali, comprese di non poter migliorare il suo stato di salute e, tra il 2016 e il 2017 iniziò a
chiedere di poter accedere ad una forma di suicidio assistito.
Il suicidio assistito e l’eutanasia in Italia non sono normati e quindi non vietati in maniera in diretta,
ma solo indirettamente: si applicano, in questi casi, per estensione e per colmare un vuoto
legislativo, due articoli del codice penale: l’Art. 579, che parla di omicidio del consenziente e l’Art.
580 che parla di istigazione al suicidio, puniti entrambi con la reclusione.

La sua richiesta cadde nel vuoto e, essendo consapevole che, qualora si fosse fatto aiutare da un
parente ad andare all’estero per vedersi accolta questa istanza, il congiunto sarebbe andato
incontro a rischio di processo e condanna per istigazione al suicidio, pensò di andare
autonomamente in Svizzera, dove il suicidio assistito è stato legalizzato. Per evitare di esporre la
madre e la compagna a rischio di processo di rivolse all’Associazione Luca Coscioni e, in
particolare, al tesoriere Marco Cappato (attivista per i diritti civili, parlamentare europeo,
presidente dei Radicali italiani) i quali si batteva per i diritti dei pazienti in fine vita
(e per la libertà di ricerca, in particolare contro la legge 40 che limita la libertà di ricerca sulle cellule
staminali: questa causa era stata combattuta da Luca Coscioni, il quale soffriva di una malattia
degenerativa e confidava nei risultati di tali ricerche).
Marco Cappato accettò di aiutare Dj Fabo e, accertate le sue motivazioni e la sua volontà lo
accompagna in auto in Svizzera, nella clinica in cui Fabiano Antoniani otterrà l’interruzione delle
terapie di supporto vitale (non era attaccato al respiratore ma spesso aveva bisogno di

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alimentazione artificiale, a volte anche di sostegno respiratorio e di terapie del dolore). Lì,
accertate nuovamente condizioni (anche tramite cartelle cliniche che devono manifestare una
situazione patologica grave: condizione terminale o dolore acuto insopportabile), motivazioni e
volontà (verificate tramite colloquio con un’équipe di medici e psicologi), il paziente venne posto
nelle condizioni di potersi togliere la vita autonomamente, nel caso di Dj Fabo crearono un
meccanismo che egli fu in grado di attivare attraverso un pulsante che riuscì a mordere,
causandogli la morte nel 2017 (in seguito un agente di polizia si accertò che si trattasse realmente
di un suicidio).

Marco Cappato, tornato in Italia, si recò in questura e denunciò sé stesso (strategia della
disobbedienza civile utilizzata dal movimento dei Radicali allo scopo di spingere il tribunale e il
legislatore a normare un comportamento e a prendere una posizione) per violazione dell’Art. 580
del codice penale per aiuto al suicidio (non si tratta di istigazione al suicidio, non è plasmare e
persuadere qualcuno a togliersi la vita, ma si tratta di aiutare qualcuno la cui volontà sia stata
formata autonomamnete), andando incontro al processo. Venne imputato per istigazione e aiuto al
suicidio per una pena dai 5 ai 12 anni di reclusione. Dalla prima imputazione (quella di istigazione)
venne assolto immediatamente: è comprovato che la volontà di Dj Fabo era solida, autonoma e
spontanea, era stato lo stesso Fabiano Antoniani a cercare Marco Cappato e moltissime
testimonianze di amici e parenti, video e interviste lo provavano. Dalla seconda imputazione
(quella di aiuto) dovrebbe essere condannato: di fatto lo accompagnò in Svizzera aiutandolo, ma il
giudice ordinario del caso di Marco sollevò, nel 2018, un dubbio di costituzionalità ritenendo che
possa non essere coerente con la Costituzione il divieto di aiutare una persona a togliersi la vita
(appurate le motivazioni, la volontà...) e rimanda la questione alla Corte Costituzionale, la quale
riconosce la validità delle osservazioni avanzate dal tribunale ordinario e rimanda la questione al
Parlamento, chiedendo di prendere posizione e emanare una legge che chiarisca la situazione. Il
Parlamento non risponde a questa richiesta e, un anno dopo, nell’ottobre del 2019, la Corte
Costituzionale è costretta a tornare sul caso agendo giurisdizionalmente, decidendo la sentenza al
di là della legge senza abrogare nessun divieto ma modificando l’interpretazione di alcuni articoli
del codice penale.
Dichiara che non può essere considerata punibile una persona che aiuti un paziente a porre fine
alla sua vita ammesso che il paziente
○ abbia espresso una volontà chiara e che la sua volontà si sia formata autonomamente e
che non sia stata manipolata
○ è affetto da gravi situazioni patologiche irreversibili
○ soffra di un dolore reputato insopportabile
○ se la sua vita dipenda dall’azione di terapie o macchinari straordinari
Da allora in poi, dal 2019, l’aiuto al suicidio, quindi il suicidio assistito non è più un reato alle
suddette condizioni. In forza della sentenza della Corte Costituzionale, Marco Cappato venne
assolto da tutte le accuse a suo carico. Nonostante tale sentenza in Italia non è una pratica attuata
in quanto non vi è una legge che ne indichi le modalità (come, quando, chi, quali sono le
procedure) e questo controsenso ha fatto discutere circa la giustizia della possibilità di ricorrere a
un intervento simile sono se si dispone di mezzi economici e logistici per raggiungere un paese
estero (riaccendendo il dibattito circa la medicina a servizio della volontà del paziente e quindi lo
Stato dovrebbe finanziare e permettere a chiunque di accedere all’interruzione volontaria delle
cure e al suicidio assistito) e circa le condizioni del paziente che può richiedere il suicidio assistito
(volontà, motivazioni, sofferenza, macchinari, condizioni irreversibili: secondo alcuni è una
situazione troppo estrema, vedi la vicenda di Davide Trentini) e circa la punibilità della persona
che aiuta.

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•Il caso Davide Trentini

Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla, chiese aiuto a Mina Welby (moglie di Piergiorgio
Welby) e a Marco Cappato di essere accompagnato in Svizzera per il suicidio medicalmente
assistito nonostante, dato lo stato non ancora terminale della sua patologia, non avesse ancora
bisogno di macchinari. Mina lo accompagnò e Marco ne organizzò l’aspetto logistico e economico,
(organizzando anche raccolte fondi per la pratica molto costosa e dispendiosa, che ammonta
attorno a 17.000€). Al termine del suicidio assistito di Davide, tornati in Italia, si denunciarono e
costituirono e, nonostante le condizioni di salute non ancora estremamente critiche, il tribunale li
assolse, facendo valere per la prima volta il principio secondo il quale le persone che aiutano un
paziente nella procedura di suicidio assistito non sono punibili, anche quando, come in questo
caso, il paziente non dipenda da macchinari, facendo cadere questo limite.
Risvolti culturali
•L. 38 del 2010
La battaglia della famiglia Englaro e di Piergiorgio Welby hanno fatto passare l’idea che il paziente
può rifiutare e interrompere i trattamenti di sostegno vitale anche se questo vuol dire andare
incontro alla morte, mettendo definitivamente in discussione il principio di sacralità della vita, il
volere del paziente ha la supremazia sul parere del medico (fino ad allora il paziente non poteva
fare atto di coercizione imponendo al medico di interrompere le terapie salvavita già in corso per
non violare il principio di autodeterminazione del medico, il quale si sarebbe stato esposto a
denuncia per omicidio e a rischio di radiazione dall’albo), e, nello specifico, con il caso Englaro
vediamo affermarsi il principio di una volontà che vale anche a distanza di tempo: finalmente
in Italia, dopo la sentenza, viene normato il testamento biologico, chiamato poi DAT
(determinazioni anticipate di trattamento), il quale dà valore alla volontà della persona espressa
prima della perdita di coscienza e delle facoltà di intendere e di volere.
Dopo il caso Welby e il caso Englaro la medicina ha subito una svolta con la promulgazione della
legge 38 del 2010 sul consenso informato, sul rifiuto delle cure e sul diritto alle cure palliative, che
ha trasformato i diritti passivi in diritti attivi, attribuendo a qualcuno dei doveri, individuando
qualcuno dal quale esigere che i propri diritti vengano rispettati, tutelando pazienti e medici.

Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore
1. La presente legge tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia
del dolore.
2. È tutelato e garantito, in particolare, l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da
parte del malato, [...] nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza [...] al fine di assicurare il
rispetto della dignità e dell'autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l'equità
nell'accesso all'assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle
specifiche esigenze

Garantisce inoltre la palliazione profonda e continua che ha lo scopo di eliminare il dolore


azzerando, però, la coscienza del paziente nelle fasi finali e terminali della sua vita, accogliendo la
morte nel sonno (a tale legge si è appellata Marina Ripa di Meana, una stilista che, malata di
tumore, nelle fasi terminali della sua vita, ha fruito della sedazione palliativa profonda continua.
Prima della morte, in un’intervista disse che la sedazione profonda e continua è la soluzione
italiana contro l’eutanasia).
Alcuni bioeticisti si sono opposti all’idea che le cure palliative siano sostituibili all’eutanasia in quanto
si dovrebbe aspettare che il paziente si trovi nella situazione infernale (agonia insopportabile,
continuo e refrattario, non alleviabile più da nessun tipo di farmaco): non è possibile somministrare
cure palliative ad un paziente che è prossimo alla morte a meno che sia in condizioni irreversibili,
che dipenda dalle macchine e soffra di un dolore insopportabile, secondo alcuni è disumano, la
legge non è abbastanza è non è rivolta a tutti (a differenza di quanto sosteneva Marina Ripa di

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Meana): non è concessa a pazienti in situazioni croniche non gravi, di dolore intermittente e non
sempre refrattari ai farmaci (vedi il caso di Dj Fabo e Davide Trentini, nessuno dei due soffriva di un
dolore costante e nessuno dei due era completamente refrattario ai farmaci e Trentini non dipendeva
da macchinari). Inoltre viene considerata quasi eutanasia, avvicina il momento della morte che però
si attende arrivi naturalmente senza poter decidere effettivamente in quale momento, non
garantendo a tutti lo stesso diritto di decidere sulla propria morte (coloro che non hanno uno stato di
sofferenza continuativa e refrattarietà ai farmaci non possono richiedere il trattamento).

•L. 219 del 2017


La legge 219 del 2017 introduce quelle che in Italia vengono chiamate disposizioni anticipate di
trattamento (DAT) e che altrove viene chiamato testamento biologico. Tale legge rappresenta una
vera e propria rottura con il passato: non è più il principio della sacralità della vita a guidare
l’intervento del medico ma il rispetto della volontà del paziente: si annuncia per la prima volta in
Italia che il paziente può decidere per un futuro prossimo, può dichiarare le sue volontà anche per
un futuro remoto e inimmaginabile, per quando non sarà più in grado di intendere e di volere e
privo di coscienza. Inoltre il paziente può indicare un fiduciario, un (non necessariamente un
famigliare) che venga interpellato in caso di dubbio circa le disposizioni anticipate di trattamento
(qualora la situazione clinica non sia tra quelle esplicitate nel documento), una persona che
interpreti le volontà del paziente nell'ottica in cui lui si sarebbe posto, una persona che lo conosce
e di cui si fida, che sia in grado di mettersi nei suoi panni e, alla luce della personalità e identità,
possa dire cosa il paziente avrebbe voluto.

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•Allocazione delle risorse in sanità
Per allocazione delle risorse si intende l’assegnazione e la distribuzione delle risorse ed è una
questione problematica nel momento in cui molte persone hanno la necessità di attingere a risorse
limitate e insufficienti per tutti: allora si inizia a discutere su come allocarle, a chi assegnarle e a chi
permettere di beneficiarne, soprattutto in ambito medico e sanitario. Si tratta di una tematica
prettamente moderna dal momento in cui il medico antico raramente si trovava a dover scegliere
quale paziente aiutare.

•Prima guerra mondiale


Per la prima volta si verificò in maniera lampante e eclatante una problematica di questo tipo
durante la prima guerra mondiale: ci si domandò su quale criterio utilizzare quando tante persone
hanno bisogno di aiuto ma si dispone di pochi medici e poco personale nei campi di battaglia:
come gestire la fase di Triage, cioè come decidere quale ferito soccorre per primo, quale dopo,
quale non soccorrere affatto? Nella circostanza della prima guerra mondiale si decise di utilizzare il
criterio basato sulla gravità ma ottimizzando, cercando quindi di salvare il maggior numero
possibile di persone trascurando i pochi che richiederebbero tante energie nonostante le quali
probabilmente sarebbero ugualmente morti: il più grave, il più a rischio di morte, che quasi
certamente morirà nonostante le cure, veniva lasciato senza cure per prestare soccorso ai casi
gravi ma che avevano chance di sopravvivenza, poi ai meno gravi e infine ai feriti lievi che
potevano aspettare.

•Dialisi
Nel corso degli anni casi del genere si sono verificati spesso, come nel 1962, quando venne
sviluppato il macchinario e la tecnica in grado di praticare la dialisi a Seattle, dove aprì il Seattle
Artificial Kidney Center, il primo centro dialisi al mondo. La dialisi è procedimento che permette ai
pazienti i cui reni non funzionano bene o affatto di vedere il proprio sangue filtrato e ripulito da tutte
le scorie solitamente espulse dai reni e continuare a condurre una vita qualitativamente buona.
Pazienti con problemi di reni se non dializzati o sottoposti a trapianto di reni sono destinati ad
andare incontro a morte. All’epoca però i macchinari a disposizione erano pochi mentre a questo
centro si rivolgevano moltissimi pazienti da tutto il paese: ci si ritrovò a dover scegliere quale
paziente potesse ricevere la dialisi e quale no. Per la scelta si istituì una commissione di sette
persone (2 medici e altri uomini presi dalla società civile: un giurista, un imprenditore, un commerciante, un
artigiano...) che valutasse tra i potenziali pazienti e giudicasse quali fossero i pazienti con un ruolo
sociale più importante, valutandone il curriculum e la scheda informativa, si decide quindi un
criterio basato su
● ordine sociale: valutando l’utilità sociale delle persone, le risorse vanno impegnate per
persone dalle quali la società (che investe) può aspettarsi un ritorno positivo, prediligendo i
pazienti qualificati e di successo (il padre di famiglia, medico luminare e impegnato nel sociale ect.
passa davanti al single disoccupato o insegnante o con precedenti penali, avvicinandosi all’ordine di censo)
Questo criterio presenta delle criticità: ruolo e utilità sociale non rispecchiano necessariamente il
merito, dal punto di vista della giustizia sociale potrebbe sembrare immeritato e non egualitario: non
sempre chi riveste un ruolo sociale prominente lo ha effettivamente meritato (una persona moralmente
retta potrebbe essere cresciuta in un ambiente o in una famiglia che non dispone dei mezzi per farlo
studiare… oppure un uomo che aveva già avuto la possibilità di affermarsi aveva la precedenza su un
ragazzo). E poi, chi decide chi sia socialmente utile? La commissione sarà costituita dall’élite della
società (uomini bianchi benestanti e padri), rappresentante la mentalità e lo stile di vita della classe
dominante, che naturalmente escludevano dall’accesso alle terapie tutti coloro non omologhi e
rispondenti ai valori dominanti della società (discriminando le minoranze).

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✱Criteri di ordine di allocazione delle risorse
Il problema dell’allocazione delle risorse per la dialisi venne superato con l’avanzare della
tecnologia, la produzione di più macchine e la creazione di più centri specializzati, rendendo
disponibile per tutti la possibilità di utilizzare i macchinari, ma nel frattempo si presero in
considerazione diversi criteri di scelta basati su:
● ordine di arrivo: insieme a quello di gravità è il criterio utilizzato nei pronto soccorso dei
nostri ospedali, a parità di gravità il primo, quindi il primo che arriva quindi il primo che ne
ha bisogno viene soccorso per primo (criterio utilizzato anche per i trapianti insieme a
quello di gravità delle condizioni mediche)
● ordine di gravità delle condizioni mediche: assicurandosi che le condizioni del paziente
gli permettano di trarre beneficio dal trattamento e che non abbiano ulteriori patologie che li
condurrebbero ugualmente alla morte: hanno la precedenza i più gravi in pericoli di vita che
vanno soccorsi per primi, poi i meno gravi e infine i feriti lievi che possono aspettare
(criterio utilizzato anche per i trapianti, insieme a quello di arrivo, tenendo anche conto
anche della compatibilità. Talvolta vengono escluse persone con dipendenze o problemi
psichiatrici se considerate incapaci di seguire un protocollo terapeutico post trapianto e
prive di assistenza familiare)
● ordine di censo: coloro in grado di pagare e che possono permettersi le cure sanitarie
hanno la precedenza
● ordine di età (sesso o razza): (connesso all’ordine sociale) dare la precedenza ai più
giovani i quali solitamente guariscono in minor tempo per liberare prima il macchinario e
permettere che salvi altre persone
Questo criterio presenta delle criticità etiche poiché si basa sul principio che le vite non hanno tutte il
medesimo valore: dire che un paziente ha il diritto di passare avanti ad un altro per un criterio che non
è meramente medico o di ordine di arrivo ma che va a valutare il tipo di vita equivale a dire che alcune
vite valgono più di altre.
● ordine di territorialità: dare la precedenza a pazienti del posto (nel caso del Seattle Hospital si
organizzarono per il loro bacino d’utenza con venti macchinari, l’ospedale era stato pensato per servire le
persone del luogo mentre poi si trovarono a dover servire anche persone provenienti da altri Stati. Per un attimo
si valutò questo criterio)
● ordine di sorte: scegliere a sorte e per casualità senza compiere una vera e propria scelta
e senza assumersi le responsabilità
Questo criterio presenta delle criticità logistiche in quanto i pazienti non arrivano tutti
contemporaneamente e sarebbe complesso tirare a sorte ogni qualvolta si presenti un nuovo paziente:
tirare a sorte anche tra i pazienti che già ne beneficiano, tirare a sorte ogni volta, anche se arrivano
molti pazienti al giorno?

Il criterio basato sull’ordine sociale venne poi superato poiché considerato iniquo e non
rappresentativo di tutta la popolazione ma venivano scelti pazienti che tendevano a riprodurre i
valori delle persone della commissione. Ad oggi, infatti, i criteri riconosciuti più ampiamente per il
triage al pronto soccorso e per l’assegnazione degli organi per il trapianto sono quelli
dell’indicazione terapeutica, della gravità e dell’ordine di arrivo. In Italia vale il principio di
equalitarismo affermato dall’Art. 32 della Costituzione secondo il quale La repubblica tutela la
salute come valore per l’individuo e per la collettività: tutti hanno diritto alla salute (a prescindere
dal ruolo sociale, dal censo, dal sesso, dall’età, dall’etnia, dal territorio e dall’orientamento
culturale, politico, sessuale etc.), la Repubblica si impegna a rimuovere i pericoli per la salute (in
diversi ambienti, sulla strada, sul lavoro, nell’industria alimentare...). Nel 1978, in Italia, viene
istituito il Sistema sanitario nazionale che è pubblico (pagato dallo Stato con la fiscalità generale),
nazionale (riguarda tutti, non solo un determinato territorio), universale (riguarda tutti, non solo i
lavoratori che possono permetterselo) e gratuito (non più solo per gli indigenti): a differenza di
quanto avviene negli Stati Uniti non è necessaria l’assicurazione medica (successivamente si attuò

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un sistema di pagamento a ticket in base al reddito, permettendo cure a costi contenuti ma
garantendo alcune cure meno di altre, come quelle odontoiatriche o psicologiche, garantendo
comunque cure assistenziali minime, rendendo il diritto alla salute un diritto attivo, o positivo).

•Covid-19
- Respiratori artificiali
La tematica dell'allocazione delle risorse si è riproposta l’anno scorso, nel 2020, durante la
prima ondata di Covid-19 a causa della carenza dei respiratori artificiali, soprattutto in
Lombardia dove, per ogni respiratore, vi erano sei persone che ne avevano urgente
bisogno. Analogamente al caso delle macchine per la dialisi ci si ritrovò a dover decidere
chi potesse usufruirne, i medici anestesisti, i quali erano chiamati a scegliere quale a quale
paziente riservare quale trattamento, si rivolsero alla SIAARTI (Società Italiana di
Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) la quale diramò delle linee guida
secondo le quali bisognava valutare le indicazioni mediche (bisogni, gravità e benefici) e le
prospettive e aspettative di vita (criterio per ordine di età: non rispettare l’ordine di arrivo o
gravità ma dare la precedenza ai più giovani i quali solitamente guariscono in minor
tempo). Questo criterio creò un gran problema a livello di dibattito bioetico poiché si basa
sul principio che le vite non hanno tutte il medesimo valore: dire che un paziente ha il diritto
di passare avanti ad un altro per un criterio che non è meramente medico o di ordine di
arrivo ma che va a valutare il tipo di vita equivale a dire che alcune vite valgono più di altre.
Successivamente il Comitato italiano per la bioetica si è pronunciato cercando di mediare
tra diverse posizioni, tra cui quella cattolica: non approva che qualcuno decida chi vive e
chi muore giocando a fare Dio, ma sostiene che i medici debbano curare i pazienti man
mano che arrivano con i mezzi che ritengono più adatti perché il diritto di una persona ad
essere curata non può essere in conflitto con quello di un’ipotetica persona che arriverà
successivamente, seguendo quindi l’ordine di gravità e arrivo. Alcuni bioeticisti si sono
pronunciati in disaccordo ritenendolo un criterio ipocrita che affida piena responsabilità di
scelta ai medici senza indicare delle effettive linee guida comportamentali.

- Campagna vaccinali
Il tema dell’allocazione delle risorse si è riproposto anche successivamente, nell’ambito
della pandemia di Covid-19, con l’inizio della campagna vaccinale: il sistema nazionale
pubblico sanitario offre il vaccino a tutti, tutti ne hanno diritto, ma dal momento in cui ne
arrivano solo una certa quantità per volta, chi vaccinare per primo?
1. I medici certamente saranno tra i primi a riceverlo perché in prima linea nella lotta
alla malattia, occupano una posizione strategica (se si ammala o muore per
estensione moriranno tutti quei pazienti che avrebbe potuto curare) e più esposti
(non si tratta di meritocrazia, valore di categoria professionale o utilità sociale in
generale ma perché sono strategicamente utili in un determinato contesto o
situazione).
2. Secondariamente si decise di vaccinare tutte le persone più esposte ad ammalarsi
gravemente e a morire, anziani o con gravi fragilità (non perché la loro vita valga più
di quella dei giovani ma perché sono loro che ammalandosi mettono in crisi il
sistema sanitario affolando i reparti, non solo di terapia intensiva).
3. Successivamente a queste categorie ci si domandò chi vaccinare, aprendo un
dibattito di bioetica molto acceso: insegnanti, politici (Presidente della Repubblica,
ministri, Presidenti delle Camere e del Governo, come è stato fatto con il Papa),
pubblici ufficiali, fattorini o commessi...

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