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(tratto da Guido Guinizzelli, Rime, a c.

di Luciano Rossi, Nuova raccolta di classici italiani


annotati, diretta da Cesare Segre)

1. Al cor gentil rimpaira sempre amore

Nota metrica: Canzone di cinque stanze capfinidas, più una tornada o congedo, tutte di
dieci versi, endecasillabi e settenari; schema: AB AB (fronte) cDcEdE (sirma); la rima in
-ore, prima della prima strofe ricompare come c della seconda e addirittura come B, E
della quarta, mentre la formula chiave, diretta o invertita, cor gentil torna in tutte le
stanze, a eccezione del congedo.

Grazie al molteplice riuso fattone da Dante (VN, II, 3, Inf., V 100, Purg., XXII 10-11), la
canzone ha assunto il valore di un autentico manifesto poetico e morale, tale da segnare
una svolta radicale nella tradizione della lirica d’amore. Essa si ricollega in modo
organico alle speculazioni dei giuristi ghibellini attivi presso la corte federiciana, che
sostenevano la superiorità della gentilezza di costumi (probitas morum) sulla nobiltà dei
natali (nobilitas generis). In secondo luogo, la tesi mette a frutto analoghe affermazioni,
reperibili nella traduzione poetica gallo-romanza, nelle quali viene illustrata l’eccellenza
degli alti sentimenti, di gran lunga preferibile alle origini gentilizie. Confluite nel De
Amore di Andrea Cappellano, in cui viene teorizzato l’”amorem in morum probitate
perfulgentem”, tali concezioni erano ormai patrimonio comune della tradizione romanza.
Una delle principali novità del Guinizzelli consiste nell’avvalersi della dialettica
aristotelica potentia vs actus, evitando di postulare una dipendenza automatica fra amore
e cor gentile e riuscendo a conciliare tale rapporto coi concetti metafisico-teologici della
concomitanza degli attributi divini. A differenza dei suoi predecessori, Guido non si
limita a enunciare che Amore è attratto dal cuore raffinato, ma la sua affermazione è
ancora più drastica: in mancanza d’un cor gentile, cioè, non si dà Amore. L’avere, inoltre,
riservato alla Donna dimostrandone l’eccellenza con una fulgida varietà d’immagini
desunte dalla Fisica, la stessa attitudine a porre in atto una sorta di “laica” redenzione
dell’amante, conferisce alla canzone la sua cifra più peculiare.
A giudicare dalle contrastanti reazioni suscitate dalla canzone, va sfatata l’idea di un
Guinizzelli isolato anticipatore di idee destinate a diffondersi solo vari decenni dopo la
sua morte. Anche se Guido godette immediatamente della fama di saggio, proprio grazie
alla sua canzone più celebre, non c’è dubbio, però, che furono Guido Cavalcanti e Dante a
riconoscere in modo inequivocabile nel Bolognese l’unica voce capace di contrastare lo
strapotere di Guittone, facendo di lui un sicuro punto di riferimento e, se si vuole, un
indiscutibile precursore delle loro opzioni poetiche, anche quando queste ultime non
combaciavano perfettamente.
L’enunciazione della nuova teoria amorosa si fonda su un procedimento analogico, in un
percorso “naturale” che dal mondo animale, attraverso una serie di comparazioni desunte
dalla scienza del tempo, s’innalza al cielo e quindi al Paradiso. I punti di riferimento
dell’autore sono soprattutto la Consolatio boeziana e la stessa riflessione giuridica sul
concetto di Natura.

2. Dolente lasso, già non m’asecuro

Nota metrica: Sonetto, a schema ABAB, ABAB, CDE, CDE.


Il tema dell’impari duello con Amore, nel quale il locutore è destinato a soccombere, è di
indubbia matrice ovidiana (Amores, II 9), e verrà riutilizzato dal Dante petroso con
esplicito riferimento al Guinizzelli. Su di esso s’innesta la consueta comparazione del
lampo che irrompe nella stanza con la folgorazione erotica che, per il tramite degli occhi,
colpisce il locutore direttamente al cuore, suscitando in lui un desiderio inesaudibile. Qui
però lo sguardo dell’amata è esso stesso bagliore di luce repentina.

3. Io voglio del ver la mia donna laudare

Nota metrica: Sonetto a schema ABAB, ABAB, CDE, CDE.

La topica della laus mulieris è ben nota sia alla poesia classica che a quella trobadorica;
altrettanto può dirsi del resto dei Siciliani e dei cosiddetti Siculo-toscano, da Guittone a
Maestro Rinuccino. Rispetto alla tradizione, però, l’esaltazione dell’amata in Guinizzelli
diviene quasi adorante, sul modello santificetur nomen tuum del Pater Noster, nonché
delle Laudes ad omnes horas dicendae. La poetica dell’analogia fra oggetto amato e
forme naturali s’ispira manifestamente al Cantico dei Cantici, come rivela anche il verbo
(r)asembrare o somigliare. Qui Guinizzelli sembra far ricorso al Cantico, per prospettare,
in forma simbolica, un percorso ascensionale, dalla comparazione dell’amata con gli
elementi naturali, attraverso quella con gli astri, fino alle bellezze celesti. Si tratta di un
procedimento che, in maniera estremamente sintetica, richiama quello articolatamente
argomentato in Al cor gentil. E’ chiaro comunque che il complesso di virtù mirabilmente
racchiuse in una creatura terrestre qual è la mia donna è tale da compiere miracoli, non
diversi da quelli tradizionalmente attribuiti alla Vergine. Al tema della “lode”, svolto
nelle quartine, s’aggiunge quello del “saluto” purificatorio e nobilitante delle terzine, che
sarà più volte ripreso dal giovane Dante.

4. Omo ch’è saggio non corre leggero

Nota metrica: Sonetto-tenzone a schema con fronte a rime alternate e sirma a rime
replicate: ABAB, ABAB, CDE, CDE.

L’epiteto saggio era stato riferito di volta in volta da Guittone a Bernardo di Ventadorn,
allo stesso Bonagiunta (Orbiciani) da un anonimo rimatore, e sarà attribuito da Dante
proprio al Guinizzelli. Qui l’autore sembra deliberatamente riecheggiare con ironia un
attacco del suo interlocutore: Omo ch’è saggio ne lo cominciare. Alle accuse di
Bonagiunta, che considera un atto di vanagloria del Lucchese, Guinizzelli risponde con
sottile ironia, facendo appello alla propria cultura filosofica e mettendo in dubbio le
capacità dialettiche dell’avversario. In particolare, egli sembra utilizzare abbastanza
esplicitamente un testo ben noto anche al notaio lucchese: il Liber de doctrina dicendi et
tacendi, sorta di un manuale di oratoria per l’uomo politico dell’Italia comunale,
composto intorno al 1245 dal giurista Albertano da Brescia.

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