Le prime nozioni sul teatro greco le abbiamo da Aristotele, che nella sua “Poetica” afferma che la tragedia
nascerebbe da coloro che intonano il ditirambo, inno in onore di Dioniso. Il teatro nacque cioè in connessione con
la religione, andando poi a spaziare fino ai personaggi eroici del V sec. a.C. La parola “tragedia”, deriva
probabilmente da “canto del capro”, in quanto la celebrazione corale di Dioniso era affidata ai satiri. L’origine
religiosa della tragedia non toglie però che l’evento teatrale sia soprattutto spettacolo, infatti la parola teatro
deriva dal verbo “theaomai” che vuol dire guardare.
L’edificio teatrale greco utilizzava un pendio naturale in cui si insediavano dei gradini disposti a forma di
semicerchio al centro del cui vi era uno spazio circolare chiamato orchestra ove si esibiva il Coro, coloro che
anticamente danzavano e cantavano (prima 12 e poi 15 persone), mentre l’attore recitava. In fondo all’orchestra
c’era lo skené, edificio usato per i cambi di scena. Coro e attori utilizzavano lo stesso spazio per esibirsi, ed era uno
spazio rasoterra. Inizialmente c’era un solo attore, poi Eschilo ne introdusse un secondo e Sofocle un terzo. Per un
pregiudizio femminista, gli attori erano solo maschi fino a Shakespeare, salvo qualche eccezione. Caratteristica del
teatro greco è la presenza della maschera, posta sul volto degli attori e del coro, collegata all’origine religiosa della
tragedia in quanto anticamente essa compiva funzione rituale, consentiva di diventare qualcosa di diverso da sé
stessi. Infatti, la parola greca hypokrités= colui che risponde, parola con cui si identificava l’attore, è stata tradotta
in latino come ipocrita= chi mente, perché appunto l’attore assume falsamente le sembianze altrui.
Logicamente la maschera ha anche la funzione di facilitare l’identificazione e l’immedesimazione dell’attore con e
nel personaggio e consentiva di far interpretare più ruoli all’attore, per risparmiare le paghe e perché era difficile
identificare persone dotate di capacità recitative. (Es: 3 attori , 10 ruoli)
La maschere dell’età ellenistica (morte di Alessandro Magno, 323 a.C.) e romana erano dotate di grandi bocche
che, in modo esagerato, esprimevano sentimenti di dolore o gioia. I costumi di epoca ellenistica erano
caratterizzati da imbottiture e alti calzari (coturni) ; invece quelli del V secolo erano simili a quelli odierni.
Il teatro greco non mancava di rudimentali effetti scenici come il theologhéion( luogo da dove parla un dio) una
sorta di piattaforma al di sopra della skené; o il mechané (gru che sollevava gli attori).
Durante le festività religiose (Grandi Dionisie) o cittadine, lo stesso Stato pagava attori ed autori, mentre il coro
era pagato da ricchi privati; lo Stato metteva però a disposizione il rimborso del biglietto qualora il cittadino fosse
insoddisfatto. A teatro potevano recarsi tutti i cittadini senza differenza di sesso e classe sociale. Lo spettacolo
teatrale prevedeva una tetralogia, composta da tre tragedie e un dramma satiresco : forma burlesca con presenza
dei satiri. L’unica trilogia tragica a noi giunta è l’ “Orestea” di Eschilo, che comprende: “Agamennone”, che parla
della sua uccisione ad opera della moglie Clitemestra, “Coefore”, che parla dell’omicidio di Clitemestra e
dell’amante ad opera di Oreste, figlio di Agamennone, ed “Eumenidi”, che parla dell’assoluzione di Oreste. Erano
previsti premi , al miglior autore , al miglior attore e al miglior coro.
Nella sua “Poetica”, Aristotele constatava che nella maggior parte delle tragedie, la vicenda si svolgeva in un luogo
fisso, senza cambiamenti di scena ed entro le 24 o 12 ore, prevedendo un’unica azione (tre regole aristoteliche :
unità di azione, tempo e luogo). Tuttavia vi erano delle eccezioni, come la stessa “Orestea”. I teorici del
Cinquecento resero obbligatorie queste constatazioni, che sono sopravvissute fino all’epoca romantica. Inoltre, le
rappresentazioni erano perlopiù di 5 atti. La tragedia rappresentava una vicenda umana, incentrata su un
problema etico o religioso, con un epilogo drammatico. I protagonisti potevano essere dèi, re, eroi, ma anche
uomini comuni.
Tragedia greca.
I tre grandi tragici, Eschilo (525 – 456 a.C.), Sofocle ed Euripide, attingono dal patrimonio culturale degli eroi e al
drammatico. La civiltà greca, priva della fede cristiana, si conformava perfettamente alla tragedia che ha come
centro il tema del dolore, della sofferenza, della colpa.
Eschilo fissò le regole fondamentali del dramma tragico . La tragedia inizia generalmente con un prologo, che ha la
funzione di introdurre il dramma; segue la parodo, che consiste nell’entrata in scena del coro attraverso dei
corridoi laterali; l’azione scenica vera e propria si dispiega quindi attraverso tre o più episodi intervallati dagli
intermezzi; la tragedia si conclude con l’esodo.
A differenza dei primi due però, più interessati agli antichi valori e alle divinità, Euripide metteva al centro della
scena l’uomo, le sue azioni e le sue motivazioni psicologiche e sentimentali in contrasto con le esigenze del
potere, e con i vecchi valori fondanti della città greca. Un esempio è “Ifigenia in Aulide”, in cui il protagonista
Agamennone viene presentato inadeguato al suo ruolo di condottiero, infatti è assalito da crisi e dubbi prima della
spedizione contro Troia. Quando però un indovino afferma che c’è bisogno di placare l’ira di Artemide con un
sacrificio, Agamennone dapprima offre sua figlia Ifigenia, che però non è con loro, è rimasta a casa, così
Agamennone le scrive una lettera in cui le prospetta un matrimonio con Achille, chiedendole quindi di raggiungerli
in Aulide. In seguito però, pentito di questo inganno, cerca di avvertire la figlia di non mettersi in viaggio
scrivendole un altro messaggio. Il secondo messaggio viene intercettato da Menelao, che lo toglie di mano al
vecchio che lo portava con sé e rimprovera aspramente Agamennone per il suo tentativo di tradimento. Arrivano
quindi in Aulide Ifigenia e la madre Clitemestra per le nozze. A quel punto viene a galla la verità, sicché le due
donne si ribellano furiosamente: Clitemestra biasimando aspramente il marito, Ifigenia chiedendo pietà con
parole toccanti. Anche Achille, nello scoprire che il suo nome era stato usato per un atto tanto infame, minaccia
vendetta. Però Ifigenia, nel vedere l’importanza che la spedizione ricopre per tutti i greci, cambia atteggiamento e
offre la propria vita, calmando la madre e respingendo l’aiuto di Achille. Al momento del sacrificio, però, la
ragazza scompare ed al suo posto la dea Artemide invia una cerva, tra lo stupore e la felicità dei presenti, che in
tal modo capiscono che la ragazza è stata salvata dagli dei ed ora dimora presso di loro. Il vento torna a spirare e
la flotta può finalmente salpare verso Troia.
Quest’opera è una sorta di tragi-commedia, Agamennone oscilla tra desiderio e paura, ambizione e scrupoli, fa e
dis-fa con incoerenza, non ha la stoffa del vero leader.
Vi sono tutta una serie di equivoci che si avvicinano ad una vera e propria commedia: Agamennone e Menelao
sanno che deve essere fatto un sacrificio, Clitemestra ed Ifigenia credono invece che si tratti di un matrimonio,
mentre Achille è all’oscuro di entrambe le cose. Questo crea una serie di malintesi (Ifigenia non sa spiegarsi come
mai il padre nel vederla non appaia felice ma pianga, così come Clitemestra fatica a capire come mai Achille sia
così disorientato quando lei gli parla di matrimonio). Inoltre, pur essendo alcuni tra i più grandi eroi della
mitologia greca, i personaggi appaiono impotenti ed incapaci di intervenire in maniera fattiva nella vicenda.
Agamennone si dispera per l’imminente sacrificio della figlia, ma non sembra in grado di fare nulla per impedirlo,
e lo stesso vale per Achille, più preoccupato di salvaguardare il proprio buon nome che la vita della ragazza. Il
punto fondamentale è che tutti questi eroi cercano innanzitutto di mantenere il proprio potere: Agamennone non
vuole rinunciare a comandare la spedizione verso Troia, né Menelao ed Achille vogliono rinunciare a parteciparvi.
Ifigenia, che accetta di morire quando vede quanto importante è per tutti la spedizione, compie un atto di grande
generosità, qualificandosi come l’unico personaggio dall’animo nobile di tutta la tragedia.
L’Ifigenia in Aulide è dunque un’opera che smaschera i meccanismi del potere, mostrando fino a quali bassezze
l’uomo è disposto ad arrivare pur di ottenerlo ed esercitarlo.
Secondo Aristotele, la tragedia perfetta è “Edipo re” di Sofocle, con personaggi di rango elevato. Nella “Poetica”,
la tragedia è definita come imitazione di un’azione di carattere elevato e completo, di una certa estensione, in un
linguaggio ricco di ornamenti, che si svolge attraverso persone che agiscono e non attraverso narrazione, che
produce, mediante pietà e terrore, la catarsi, ovvero la purificazione di questi sentimenti. La catarsi è motore della
crisi ma anche risoluzione della stessa. La tragedia produce pietà e terrore per le vicende che affrontano i
protagonisti, che sono però sempre personaggi diversi da noi, in situazioni estreme: nell’ “Ifigenia in Aulide” di
Euripide c’è Agamennone che vuol sacrificare la figlia; nell’ “Orestea” di Eschilo c’è l’uccisione di Agamennone da
parte della moglie, che viene a sua volta uccisa dal figlio; nell’ “Edipo re” di Sofocle il protagonista uccide il padre
e sposa sua madre; nella “Medea” di Euripide una madre uccide i suoi figli e così via (trama : a Corinto, a sud della
Grecia, Medea, suo marito Giasone ed i loro due figli vivono tranquillamente. La donna ha aiutato il marito
nell’impresa del vello d’oro. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia in sposa a Giasone,
dando così a quest’ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie
Medea. Vista l’indifferenza di Giasone, malgrado la disperazione della donna, Medea medita una tremenda
vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane neosposa, la quale, non sapendo che il
dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morirne fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca
anch’egli il mantello, morendo. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Per assicurarsi che Giasone non abbia
discendenza, uccide i figli avuti con lui. Questi personaggi aristocratici delle tragedie sono la proiezione delle
trasgressioni che la società ateniese, civile e democratica, non poteva praticare.
Contro quanto sostengono molti critici e studiosi, dato che la “Poetica” fu scritta tra 334 e 330 a.C., ovvero
quando lo statista Licurgo preparò una raccolta di tragedie per evitare le eccessive libere interpretazioni,
Aristotele non dava suprema importanza al testo teatrale più che allo spettacolo, ma anzi, nella sua “Poetica”, ove
enumera le sei parti costitutive della tragedia (favola, caratteri, elocuzione, pensiero, musica e opsis), parla
proprio del cosiddetto opsis ossia la dimensione spettacolare, lo stesso personaggio che in scena coinvolge il
pubblico; e l’opsis come rappresentazione scenica, è proprio il primo elemento, in cui logicamente stanno gli altri
cinque. Sofocle introdusse per primo skenografian ovvero la decorazione della scena (scenografia).
Anche la commedia rappresenta la società ateniese, anche se si affermò solo nel V sec. con le feste delle Lenee,
sempre in onore di Dioniso, erano proprio dedicate alla commedia, che sempre secondo Aristotele, ha origine da
cerimonie di fertilità, in cui, per assicurare la moltiplicazione delle specie, venivano avviati rituali ed esaltazioni
falliche, oggetto di derisione da parte della gente. Il termine commedia discenderebbe da komos= corteo festivo.
La commedia “antica” fu rappresentata da Aristofane (430-385 a.C.), essa presenta trame vaghe, è incentrata su
episodi satirici soprattutto sull’attualità. Questo tipo di commedia è diversa da quella cosiddetta “di mezzo” e da
quella “nuova” di Menandro (342-293 a.C.).
Tragedia latina.
A differenza del teatro greco, legato alla comunità e ai suoi valori, il teatro latino ne è più distaccato ed
interessava un’elite più elevata. Più fortuna, tra i romani, ebbe la commedia, con autori come Plauto (255-184
a.C.), vivace e spiccatamente satirico, e Terenzio (190-159 a.C.), in cui c’è maggior raffinatezza psicologica dei
personaggi. Entrambi, comunque, presero spunto da Menandro.
Il loro modello si esalta nella commedia rinascimentale italiana: domina la dimensione domestica, urbana, con al
centro la storia d’amore di un protagonista giovane, contrastato dai genitori, e il fenomeno dell’agnizione:
riconoscimento (padri che ritrovano figli, ragazze di origini incerte che si scoprono poi nobili ecc.).
Per la tragedia ricordiamo Seneca (5 a.C. – 65 d.C.), filosofo e autore di tragedie letterarie, scritte cioè più per
essere lette che per essere recitate. Seneca riprende gli elementi della tragedia greca, esasperandoli, attingendo
dal macabro, dal mostruoso, e che risente dei tempi duri dell’Impero Romano.
Il teatro greco è la base della drammaturgia, esso privilegia il dialogo, la parola, più che l’azione.
LA SCENA MEDIEVALE
Contestazioni.
Con il crollo dell’Impero romano, crollò anche l’istituzione culturale, e di conseguenza il teatro. Nel Medioevo
ebbe luogo anche un violento attacco della Chiesa cattolica nei confronti del teatro. Tra i rappresentanti della
Chiesa, ricordiamo Tertulliano e la sua opera “Sugli spettacoli”, ove sottolinea il legame tra spettacolo e divinità
pagane, soprattutto Venere, in quanto gli attori vengono paragonati a prostitute che mercificano il proprio corpo.
In un altro scritto, Tertulliano, afferma che il teatro ha natura diabolica perché il diavolo si è posto come privo
attore per ingannare Eva. Anche Lattanzio portò avanti un’aspra polemica contro la cultura greca, i mimi-donne
che inscenavano streap-tease. Agostino, nelle sue “Confessioni”, esorta l’amico Alipio a discostarsi dalla passione
per gli spettacoli nell’anfiteatro, ove si assiste a scene violente. Ma per la Chiesa l’attore era soprattutto colui che
mente, che rappresenta il falso.
Spettacolo religioso.
Nel Medioevo, dopo l’abbandono dei teatri, artisti di strada come mimi, giullari e historiones mantennero viva
una certa spettacolarità con le loro performances, che si avvicinava più alla dimensione di spettacolo che di teatro
in sé. Il giullare, ad esempio, raccontava una storia più che rappresentarla,era un affabulatore che si affidava alla
memoria più che al testo scritto. Lo stesso Francesco d’Assisi divenne giullare di Dio. Dunque, nel Medioevo, non
c’era una vera e propria nozione di teatro ma c’era l’idea di spettacolo, utile non solo per intrattenimento ma
anche come mezzo comunicativo e strumento educativo, che venne promossa anche all’interno della stessa
Chiesa, al fine di attrarre i fedeli. Il processo avvenne dalla stessa liturgia, soprattutto in occasione della Pasqua,
ove veniva inscenato una sorta di dialogo che rappresentava la Passione e la Resurrezione di Cristo. Uno dei
documenti più antichi, che testimonia questa teatralità medievale, è il “Jeu d’Adam”, un testo anonimo di metà
XII sec. che tratta la storia di Adamo ed Eva, di Caino e Abele e termina con la sfilata dei Profeti e l’annuncio della
venuta di Cristo. In questo testo si evince la comunicazione teatrale, la consapevolezza di rivolgersi ad un pubblico
ai fini di insegnamento catechetico. Il testo si compone di lingua volgare, per il popolo, e didascalie in latino per i
dotti.
I generi religiosi medievali sono essenzialmente: mystères francesi, miracle plays inglesi, autos sacramenteles
spagnoli, lauda e sacra rappresentazione italiani, l’imitatio Christi (genere che prende spunto dalla passione di
Cristo per raccontare vite di santi e martiri). Nella cultura cristiana non c’è contaminazione degli stili, l’idea di
ispirazione è Cristo. A differenza dei gloriosi eroi greci, Cristo è un eroe umiliato ed offeso, dio incarnato che
sperimenta le ignominie del mondo. La teatralità qui si svolge in spazi e tempi circoscritti, definiti. La
rappresentazione si svolgeva attraverso una successione di sequenze sceniche (per tappe). Altra caratteristica è la
mescolanza di stili.
Ancora una volta, come per il teatro greco, lo spettacolo nasceva in rapporto ai culti religiosi, coinvolgeva l’intera
collettività. Nel teatro medievale però, a differenza di quello greco, non c’era la costruzione di luoghi teatrali
specifici, il teatro era qui viandante, itinerante, di strada. Questo perché, dato che la Chiesa aveva per anni
combattuto il teatro greco, se si riappropriava di una forma teatrale, non poteva farlo nel modo in cui questa
forma l’aveva dapprima negata.
Il teatro moderno, comunque, deve molto di più al teatro profano che a quello religioso.
Principali esponenti.
Uno dei commediografi più rappresentativi del teatro rinascimentale è lo scrittore fiorentino Niccolò
Machiavelli, che si impose con “La mandragola”, commedia di 5 atti, satira sulla corruzione della società italiana
dell’epoca scritta durante l’esilio. La prima rappresentazione teatrale in occasione di carnevale, avendo come
tema principale la beffa, parla infatti di un uomo, innamorato di una donna sposata che non riesce ad avere figli,
che raggira il marito di questa donna per poter stare con lei, offrendole una “pozione per la fertilità” a base di
mandragola nociva per chiunque uomo fosse stato con la donna, e fingendo così di sacrificarsi.
Altro rappresentante è il cardinal Bibbiena con la sua “Calandria” , reputata la prima commedia italiana in
prosa, come scrisse Baldassarre Castiglione nel prologo dell’opera. Sin dal titolo il Bibbiena si distacca dalla
tradizione classica che trae ispirazione di Plauto e Terenzio, avvicinandosi invece alla novellistica medievale: il
nome del protagonista richiama, sia per il nome che per la beffa che viene perpetrata ai suoi danni, il personaggio
boccaccesco di Calandrino del Decameron. La messinscena dell’opera è innovativa anche dal punto di vista della
scenografia, una città vista in prospettiva.
Ma ricordiamo anche Ludivico Ariosto con “La Lena” e “Orlando furioso”, scritte per la corte degli Este di
Ferrara. La nascita della vera e propria commedia rinascimentale va proprio fatta risalire a due commedie di
Ariosto, la “Cassaria” e i “Suppositi”, rispettivamente del 1508 e 1509, dove Ariosto rivendica la necessità di
imitare i classici. La commedia rinascimentale nacque da un incontro tra la tradizione dei commediografi latini e
quella di Boccaccio, in particolar modo dal suo “Decamerone”, quindi resa più beffarda e a tratti piccante.
Genere villanesco.
Accanto alla commedia rinascimentale delle corti, troviamo varietà di stili come giocolieri, mimi, danzatori che
inventavano personaggi e maschere teatrali. Un rappresentante della “diversità” della commedia cinquecentesca
fu il senese Niccolò Campani, di cui ci sono pervenuti tre testi, il più importante è “Lo Strascino”. Sappiamo che fu
autore di commedie rusticane, villane, e pastorali; queste ultime si imposero come nuovo genere, detto appunto
terzo genere, che toccò l’apice con Torquato Tasso e la sua “L’Aminta” narra l’amore non corrisposto del
pastore Aminta per la ninfa cacciatrice Silvia, che si rende poi conto di amarlo quando Aminta sta tentando il
suicidio. Il genere, che con il Campani si impose presso le corti (soprattutto a Mantova e presso la corte papale),
metteva in scena il contadino, il personaggio villano, il contrasto città-campagna e cittadini-villani con rispettivi
lavori.
A Venezia…
Il gusto teatrale, fuori dalle corti centrosettentrionali, si diffuse in ritardo. A Venezia, ad esempio, il teatro era una
sorta di trasgressione, portato avanti da compagnie organizzatrici di eventi e giochi, come la Compagnia della
Calza, composte da patrizi, dilettanti, buffoni, giocolieri ma anche professionisti come l’attore Francesco Nobili,
detto Cherea. A Venezia venivano inscenate commedie di vario stile, da quella classica rinascimentale alla
villanesca. Anche l’industria tipografica puntava molto sui testi teatrali.
Negli anni ‘20 s’ impose in ambiente veneziano lo scrittore padovano Angelo Beolco, detto Ruzante, borghese di
media cultura, rappresentante della commedia villanesca. Tra le sue opere ricordiamo:
“La Pastoral” protagonista il contadino, elemento di disturbo degli amori tra pastori e ninfe. Viene
parodizzata la figura del villano.
“La Betìa” altra opera in chiave parodistica sulla figura del contadino, ispirata alle nozze.
“Dialoghi di Ruzante” a partire da queste opere vi fu un superamento della chiave parodistica, dovuta
soprattutto alla carestia degli anni 30. I dialoghi, ambientati a Venezia, rappresentano uno dei momenti più alti
del teatro italiano; approfondiscono i temi più cari all’autore, come gli espedienti usati dai contadini per scampare
alla morte, lo sfruttamento della borghesia sui contadini. I due dialoghi:
- “Parlamento” dialogo del personaggio di Ruzante, un contadino, reduce dal campo militare. E’ la tragedia
del villano che va in guerra per sfuggire alla miseria ma che ritorna in condizioni peggiori, abbandonato anche
dalla sua donna, che preferisce un uomo benestante.
- “Bilora” stessa impostazione del primo dialogo, il contadino omonimo tenta di riprendersi sua moglie
portatagli via da un ricco mercante, che Bilora ucciderà.
“La Moscheta” prende il nome dal “parlar moscheto”, nome dialettale della lingua più raffinata (cittadina)
che si contrappone al dialetto contadino padovano in genere usato dal Ruzzante. A parlar moscheto ci prova il
personaggio Ruzante quando si traveste per mettere alla prova la fedeltà della moglie Betia; la moglie però
capisce l’inganno e lo punisce riallacciando una relazione adultera con un compare di Ruzante.
Si affermano, ancora una volta, i grandi motivi realistici dell’arte di Ruzante: la miseria del contadino, la guerra cui
è costretto proprio per sfuggire alla miseria, l’umiliazione dei suoi sentimenti più profondi, ma al tempo stesso
anche la sua vitalità, la sua commistione di astuzia e rozzezza.
“L’Anconitana” sua ultima commedia, è considerata un preludio della commedia dell’arte, in quanto il
contadino perde qui la propria personalità umana per addentrarsi nella maschera. Infatti, qui nel villano
compaiono i primi tratti della futura maschera di Arlecchino.
A Siena….
Nel 1531 a Siena si costituì un’associazione orientata, ancora una volta, verso lo stile rusticano. Essa fu la
Congrega dei Rozzi, associazione di formazione culturale, in ambito scrittorio, performativo e creativo, formata
perlopiù da dilettanti che desideravano apprendere e perfezionarsi. Con la Congrega il personaggio del villano,
che prima divideva la scena con il cittadino, era ora il personaggio centrale. Il punto di partenza era però sempre
la satira antivillanesca, in un periodo in cui, data la debolezza economica di Siena, l’inurbamento era impedito. In
quanto classe subalterna di artigiani, essi non si inserisvano nelle loro vicende teatrali, ma facevano parlare i
contadini come portavoci dell’insofferenza dell’artigianato nei confronti della classe dirigente, responsabile del
resto della fine dell’indipendenza senese a causa dell’intervento spagnolo di metà ‘500. Questa situazione fu
perfettamente rappresentata dal più importante dei Rozzi, il cartaio Salvestro il Fumoso, autore di quattro
commedie villanesche e due pastorali, incentrate non solo sulla satira ma anche sui contrasti sociali contadino-
cittadino, mezzadro-padrone. La sua opera più importante è “Il Capotondo” riprende gli stessi temi della Bilora
di Beolco.
La Commedia dell’Arte (arte= mestiere) è prerogativa italiana. Nacque da attori che provenivano dal popolo e che
avevano bisogno di parlare, di comunicare alla gente comune. Nacque come risposta ad un potere dominante,
agli aristocratici, ai regnanti, alla Chiesa. Nacque da attori che sentivano il bisogno di scendere nelle piazze, nelle
strade, dove si poteva radunare una comunità di persone, riunita per motivi quotidiani.
Questi attori si spostavano di continuo, ai fini di avere un pubblico variegato ed eterogeneo, e imponevano il
biglietto. Le compagnie era composte solitamente di circa 10 elementi, che si imposero caratteristiche ben
precise:
- ruoli fissi, in cui ogni attore si specializzava; spesso utilizzando la maschera, modellata secondo i prototipi della
società di allora (es. il Capitano, rappresentante del potere militare, che viene messo in ridicolo con azioni
comiche, o Pantalone, rappresentante del padrone di casa che sfrutta e schiavizza gli umili);
- ogni attore aveva un suo bagaglio di monologhi, dialoghi, che conosceva a memoria, chiamato generico,
poiché si adattavano con poche varianti a diverse commedie;
- uso del canovaccio, che sostituiva il testo, è un riassunto della commedia, a grandi linee, sulla cui base gli attori
improvvisavano;
- pluralismo linguistico (uso di dialetto e italiano per differenziare i personaggi);
- forte enfasi dei gesti del corpo;
- introduzione, nell’attività teatrale, della donna, tenuta fino allora distante perché proibita dalla Chiesa. La
presenza della donna nella compagnia fu una rivoluzione. Fino ad allora, notoriamente, in scena erano saliti
soltanto gli uomini, che ricoprivano i ruoli femminili travestendosi;
- uso di linguaggio e modalità di comunicazione innovativi che gli attori utilizzavano per svolgere le loro
performance gestualità fantasiosa, ritmi sottratti alla quotidianità, invenzioni vocali, costumi colorati e ricchi
di fantasia, azioni pantomimiche che sconfinano nella danza; ma soprattutto l’uso della maschera che subito
annuncia la tipologia del personaggio e del suo carattere.
- genere trasgressivo, liberatorio, in cui la comicità, il sarcasmo, lo sberleffo, dominano. I Comici dell’Arte
avevano arricchito la presenza del pubblico perché si erano rivolti anche a tutte la fasce della società. La loro
arte teatrale poteva agire ovunque, in spazi liberi, sfuggendo ai condizionamenti della macchina teatrale.
Invitavano lo spettatore ad immaginare, a partecipare con la fantasia.
Questo stile fu criticato dalla Chiesa per il modo trasgressivo in cui vivevano gli attori e per le rappresentazioni che
parlavano liberamente di tradimenti, ruberie, prepotenze, cioè temi di denuncia, pericolosi per chi doveva
mantenere il potere sul popolo. L’unico autentico uomo di teatro del periodo è Leone de’ Sommi, organizzatore
teatrale , direttore di spettacoli e autore di un trattato dove spiegava che il punto di vista privilegiato è quello
dello spettatore e non quello del lettore. Un testo può essere bello sulla carta e non in scena e viceversa.
Chiedeva agli attori di obbedire al corago e seguire prove lunghe.
Della commedia dell’arte facevano parte anche i comici illustri, in particolar modo tre furono i grandi
rappresentanti tra fine ‘500 e inizio ‘600:
-Isabella e Francesco Andreini :coniugi, nota è la pubblicazione de “Le bravure del Capitan Spavento”, che da
vita alla figura del Capitano.
-Flaminio Scala : nota è la pubblicazione de “Il teatro delle favole rappresentative, ovvero la ricreazione comica,
boscareccia e tragica: divisa in 50 giornate”; il riferimento è al Decamerone di Boccaccio. E’ una raccolta di 50
canovacci e da un lato, ognuno di esso elenca gli oggetti che serviranno agli interpreti, dunque con finalità pratica,
dall’altro viene introdotto un argomento, una sorta di novella per ogni canovaccio. Uno dei canovacci più
importanti è “Il ritratto”, che offre una visione della realtà dei teatranti vista da vicino ma coincidente con lo
sguardo critico della Chiesa. Parla infatti della vita quotidiana dei comici, basandosi soprattutto su intrecci amorosi
e sulla capacità attrattiva delle donne attrici, che si danno agli uomini, e che disintegrano l’unità familiare e la
moralità, portando all’adulterio, qui sbandierato e confessato.
Tra ‘400 e ‘500 in Italia si era verificata una rottura rispetto alla tradizione medievale: nelle piazze venivano
inscenati spettacoli religiosi, nelle corti spettacoli laici costruiti sulla teatralità classica. Anche la Francia, nel
‘600, subì l’influsso italiano.
A cavallo tra ‘500 e ‘600, invece, in paesi come Inghilterra, Spagna e Germania proseguì la tradizione del teatro
medievale. Il teatro inglese di quel periodo venne associato a due grandi figure: la regina Elisabetta, da cui trasse
il nome, e il drammaturgo William Shakespeare, che trattò, come gli altri autori di quel periodo, di conflitti di
potere, eventi storici, vicende d’amore, ignorando però le unità di tempo e luogo e utilizzando la libertà spazio-
temporale del teatro medievale. In Shakespeare troviamo anche la mescolanza di stili (tragico e comico) tipica del
teatro medievale, adottata nel teatro elisabettiano; infatti:
- In “Amleto” Shakespeare introduce due clown, con la funzione di becchini;
- in “Otello” c’è uno scambio di allusioni sessuali tra Iago e Desdemona;
- in “Macbeth” la figura dell’ubriaco.
Shakespeare cercò di individuare un teatro adatto al pubblico di massa, a cui piaceva molto Seneca e il macabro
delle sue tragedie. C’era dunque una grande produzione di testi teatrali. D’altro canto però, proprio in Inghilterra
era forte l’opposizione all’idea di teatro da parte della Chiesa e dei Puritani, appartenenti alla Riforma
protestante. I primi edifici teatrali, con Elisabetta I, nacquero nei pressi del Tamigi, erano di forma vagamente
circolare a cielo aperto, con palcoscenico proteso dentro la platea. Sul palcoscenico vi era una botola, al di sopra
di esso c’era invece un balcone, dove potevano stare i musicisti o gli attori per esigenze scenografiche.
La scenografia era povera, senza l’aiuto di macchine o luci artificiali, gli attori inglesi svilupparono al massimo
creatività e fantasia personale; le compagnie erano composte da non più di una dozzina di attori, i personaggi
femminili erano interpretati da giovani travestiti, come accadeva nel teatro italiano del primo ‘500 (le attrici
arriveranno con la riapertura dei teatri con Carlo II). Oltre allo stile e alle tecniche, anche le tematiche sociali
erano affrontate in modo moderno, in tutta la loro complessità psicologica infrangendo consolidati tabù sociali
(sesso, morte, follia). Si pensi, ad esempio, all’amore proibito tra Romeo e Giulietta, due ragazzi di quattordici anni
che decidono in pochi giorni di sposarsi e fuggire di casa; e alla rappresentazione del suicidio degli amanti.
Spiccavano il senso dell’avventura, il gusto per la brutalità, l’intolleranza religiosa, la costante presenza di un
elemento negativo (scetticismo, vuoto, morte) accanto al fervore dell’esistenza. La contraddittorietà, il gioco
dell’affermazione e della negazione di sé, fu uno dei motori della scena elisabettiana.
Il teatro piaceva molto ai nobili e all’aristocrazia, alla stessa Elisabetta, in quanto forma d’arte più vicina alla vita,
cui ne fornisce un’immagine, un’illusione di essa, divenendo rappresentazione della contraddittorietà del periodo;
gli attori che venivano perseguitati perché equiparati ai vagabondi, venivano presi proprio sotto l’ala protettiva
dei nobili.
Principali esponenti.
Alla vita reale dell’Inghilterra elisabettiana, potenza marinara e mercantile con una società dinamica di ribelli,
avventurieri, corrispondevano altrettante biografie tormentate di autori teatrali:
-Christopher Marlowe: intellettuale omosessuale, morto prematuramente in una rissa.
-Thomas Kyd :scrittore che fu anche arrestato. Tra le sue opere: “La tragedia spagnola”, esempio di tragedia
senechiana, con tema la vendetta.“Doctor Faustus” , tratto dal best seller tedesco. “L’ebreo di Malta”
improntato sulle tensioni sociali anti ebraiche.
-John Ford : Con lui si chiude il filone elisabettiano. Ford è fuori dall’arco cronologico di quel periodo ma ne
assume i caratteri salienti, della dimensione estrema e trasgressiva della fantasia. Il suo capolavoro è “Peccato
che fosse una sgualdrina”, sullo sfondo di una società cinica e crudele si svolge la vicenda incestuosa di due
fratelli, che scoprono l’amore nell’attrazione consanguinea. Sono due giovani inesperti, candidi, che però si
cimentano nella loro prima relazione proprio nel modo più sbagliato, tra parenti; la gravidanza inaspettata di lei è
anche simbolo della loro inesperienza. In questo caso l’eros incestuoso non è visto come un vizio, ma come un
timido timore di approcciarsi al mondo esterno e voler restare tra le mura domestiche, di voler sentire il calore
familiare perso per la madre morta e il padre sempre impegnato.
William Shakespeare.
Sicuramente Shakespeare è il più grande autore del periodo in questione e uno dei più grandi di tutti i tempi.
Abbiamo poche notizie sulla sua vita, sappiamo che fu sposato con figli, che aveva un modo di operare
“artigianale”, fatto spesso di adattamenti di altri testi, cui dava un’originalità secondo il suo gusto personale, e che
il suo impegno principale fu quello di fornitore di copioni scritti parte in versi e parte in prosa. La grandezza di
Shakespeare sta nel suo senso di tolleranza, di equilibrio, in quell’assenza del gusto alla violenza, per cui pare far
da tramite al tumultuoso Rinascimento inglese e a quello più pacato italiano. Anche il gusto per l’esotico, per i
viaggi e per l’avventura in Shakespeare viene interiorizzato, in molte sue opere il luoghi di viaggio sono luoghi
spirituali.
Fino al ‘700 la critica considerò Shakespeare un autore geniale ma poco raffinato. Altri critici invece intravidero in
Shakespeare la grandezza del genio. Maggiori riconoscimenti gli vennero nell’800, quando i romantici
cominciarono a considerarlo la voce più significativa del teatro europeo.
In Italia, oltre a suscitare l’interesse di Alfieri e Monti, fu oggetto di profonda ammirazione da parte di Foscolo e
Manzoni.
E’ autore di moltissimi capolavori, tra cui:
“Amleto” : (tragedia) racconta della regina di Danimarca che, alla morte del re, si risposa con il cognato. Lo
spettro del morto sovrano appare al figlio Amleto e gli rivela che in realtà è stato avvelenato dal fratello. Amleto,
dopo molti indugi, si vendica uccidendo suo zio per poi morire lui.
Amleto, nell’interpretazione comune, è considerato l’eroe del dubbio, della riflessione, dell’esitazione.
Addirittura, secondo Freud, l’indugio continuo nella vendetta rappresenterebbe il complesso di Edipo che porta il
desiderio di morte del padre per poter stare accanto alla madre (quindi è come se Amleto si identificasse nello
zio). Amleto, invece, indugia perché ha solo un sospetto di omicidio, il suo informatore del resto è uno spettro,
quindi deve accertarsi della veridicità dei fatti prima di commettere un omicidio. Peraltro Amleto, in molti
passaggi dell’opera, per altre questioni, si mostra risoluto, come nel caso di alcune uccisioni non inerenti a suo zio.
Azioni che vengono, in qualche modo, giustificate da Freud per evitare che si contraddicesse.
Emerge, in questo testo, anche l’esempio di metateatro ossia il teatro nel teatro, tipico della scena elisabettiana.
Amleto ingaggia una troupe di attori itineranti per far rappresentare di fronte agli occhi dello zio un dramma che
ricostruisce il presunto assassinio del padre. Al finale a sorpresa lo zio si alza sconvolto e terrorizzato, lasciando la
corte. Da qui il giovane Amleto si convincerà della colpevolezza del patrigno, architettando la sua uccisione.
Altro elemento prevalente è la critica al femminismo da parte Amleto, che, dopo la visione di suo padre, comincia
a considerare la madre quasi come complice dell’omicidio e prostituta che non è riuscita a restare fedele a suo
marito, e da lì la critica si estende a tutte le donne, in cui Amleto perde fiducia, compresa Ofelia, presunta amata
dal giovane e costante oggetto di allusioni sessuali da parte di Amleto.
Singolari i monologhi, marchio di riconoscimento del protagonista, che lo esprimono in tutto e per tutto.
In questa tragedia, Shakespeare affronta il tema della inesorabilità del destino: non si può sfuggire a un destino
già scritto, così come evidente e ricorrente è il tema della vendetta, quello della sfiducia nella vita e nei suoi
aspetti più importanti, famiglia, amicizia, sentimenti verso le donne.
“Otello” (tragedia) narra di Otello, generale moro (di etnia non specificata) al servizio della repubblica veneta,
al quale è stato affidato il compito di comandare l’esercito veneziano contro i turchi nell’isola di Cipro. All’inizio
del dramma, Otello parte da Venezia in compagnia del luogotenente Cassio, lo avrebbe seguito Desdemona,
sposata al Moro in gran segreto (ma fatto svelare da Iago) scortata da Iago ed Emilia. All’arrivo, scoprono che la
flotta turca è stata distrutta dalla tempesta. L’infido alfiere Iago tenta in vari modi di far destituire Cassio,
riuscendoci infine con uno stratagemma. Iago fa arrivare un prezioso fazzoletto di Desdemona tra le mani di
Cassio, convincendo Otello (che lo osserva di nascosto su consiglio di Iago) del tradimento di Desdemona. Le false
difese di Cassio da parte di Iago e le sue studiate reticenze sono la parte centrale dell’opera di persuasione che
sfocia nella furia cieca del Moro. Otello uccide Desdemona nel letto nuziale, travolto dalla gelosia. Nell’immediato
epilogo, Emilia rivela che il tradimento di Desdemona era soltanto un’invenzione del marito Iago, il quale
freddamente la uccide. Otello, preso dal rimorso, a sua volta si toglie la vita.
Otello sovverte il tradizionale simbolismo teatrale. Un pubblico contemporaneo avrebbe visto la pelle nera come
segno di barbarie, un soldato bianco sarebbe invece stato interpretato come simbolo di onestà. In Otello, tuttavia,
il personaggio nero è nobile e cristiano; e il soldato bianco è un bugiardo malvagio.
Nel finale, nell’ultimo discorso di Otello su argomenti politici, in particolare riguardanti i suoi servigi allo stato
veneziano, si capisce che il vero amore di Otello non è Desdemona bensì Venezia. Il matrimonio con Desdemona
è uno status symbol del nero che sposa la bianca figlia di un senatore veneziano, per cui si integra alla classe
dirigente veneziana. Il “tradimento” di Desdemona è la presunta sconfitta di Otello, del nero che si sente inutile in
quell’ambiente, sconfitta che viene poi sostituita dalla vera sconfitta, quando viene a sapere che in realtà
Desdemona non l’aveva tradito, che mostra la propria inferiorità razziale a quei tempi.
“Macbeth” con cui Shakespeare inventa il suo primo grande personaggio femminile. E’ la storia di una
tentazione dell’anima, per vedere fino a che punto osa spingersi lo spirito umano, in questo caso abbagliato dal
sogno di diventare re. Narra dei generali Macbeth e Banquo reduci da una vittoriosa battaglia contro i rivoltosi.
Tre streghe, che li stavano aspettando, compaiono a loro e pronunciano profezie, affermando che Machbeth
sarebbe stato barone e poi re e Banquo capostipite di una dinastia di re. Mentre i due uomini si stupiscono delle
parole delle tre streghe, queste svaniscono e un messaggero del re subito arriva e informa Macbeth del titolo che
questi ha appena acquisito: Barone di Cawdor. La prima profezia è così realizzata. Macbeth incomincia a nutrire
l’ambizione di diventare re, scrive alla moglie delle profezie delle tre streghe. Lady Macbeth escogita così un piano
per uccidere il re di Scozia e assicurare il trono al marito, facendo ricadere le colpe su altri e riuscendo
nell’impresa. Macbeth non è però a suo agio circa la profezia per cui Banquo sarebbe diventato il capostipite di
una dinastia di re. Così invita Banquo a un banchetto reale e ingaggia due sicari per ucciderlo insieme a suo figlio,
che però riesce a fuggire. Macbeth si reca dalle streghe ancora una volta, che danno ulteriori profezie: egli resterà
signore di Scozia e invincibile da tutti coloro nati da donna, e lo resterà fino a quando la foresta del regno non gli
muoverà contro. Lady Macbeth intanto lo incita a uccidere la moglie e i figli di Macduff che, con Malcom, (due
nobili scozzesi) sta preparando, in Inghilterra un esercito con cui muovere contro la Scozia. L’esercito invasore,
giunto nei pressi della foresta scozzese, si mimetizza con molti rami e marcia verso lo scontro decisivo. La
battaglia culmina con il confronto tra MacDuff e Macbeth, che non lo teme in quanto la profezia gli aveva detto
che non poteva essere ferito o ucciso da nessuno nato da donna. MacDuff però dichiara di essere stato strappato
prima del tempo dal ventre di sua madre e che quindi non era propriamente nato da donna. Infatti, MacDuff lo
decapita, realizzando così l’ultima delle profezie.
Lady Macbeth svolge un ruolo importante nella vicenda, perché è lei a guidare il marito nelle sue azioni e ad
incitarlo, è come se lui fosse un burattino mosso dalle sue mani, che si rende autonomo solo alla morte di Lady
Macbeth, quando diventa pazza per il troppo peso degli omicidi (infatti in un sogno creca di lavarsi via il sangue
dalle mani, non riuscendovi).
Altro tema ricorrente è la magia, grazie al quale si svolge l’intera vicenda; nonché quello dell’inganno.
Tra altre sue opere, citiamo:
- Tragedie “Romeo e Giulietta”, “Re Lear”, “Antonio e Cleopatra”, “Giulio Cesare”
- Commedie “La bisbetica domata”, “Sogno di una notte di mezz’estate”, “Il mercante di Venezia”, “Le
allegre comari di Windsor”, “Il racconto d’inverno”
Il ‘600 per la Spagna teatrale viene definito il Siglo de Oro. I teatri in Spagna fiorirono nello stesso periodo inglese,
ovvero nel decennio che va dal 1570 al 1580. Entrambi infatti nascevano dalla matrice comune delle scena
medievale. Anche se dal punto di vista storico, mentre l’Inghilterra si accingeva a divenire grande potenza
marittima e mercantile, in Spagna, dopo aver raggiunto l’apice con Carlo V, si avvertì un periodo di decadenza, in
particolar modo a causa dell’espulsione di ebrei e mori che non si convertirono al cristianesimo, perdendo così
molta forza lavoro. La Spagna, sia dai tempi dei re cattolici del ‘400, aveva come punto di riferimento e come
simbolo di unificazione la religione, tant’è vero che allo scoppio della Riforma protestante fu in prima linea per
difendere l’ortodossia cattolica e per lottare contro ogni forma di eresia. Tutti questi avvenimenti si ripercossero
nel teatro, molti personaggi del teatro spagnolo erano direttamente coinvolti nella vita ecclesiastica, anche se
spesso alternavano testi profani a quelli religiosi, destinati soprattutto a esaltare il sacramento dell’eucarestia e la
vita dei santi e personaggi biblici. Anche qui la Chiesa, sebbene vi fossero contenuti religiosi, guardava con aria
diffidente in teatro, che però era richiestissimo, tanto che la produzione di quel periodo pare ammontasse a circa
10.000 testi. Per quanto concerne la struttura teatrale, al centro della scena spagnola c’era il corral, un recinto
formato da pareti di case contigue, e ad un’estremità c’era il palcoscenico. I posti a sedere (o in piedi) erano divisi
per sesso e per appartenenza sociale. La Commedia dell’Arte italiana incise sul teatro spagnolo prevalentemente
per la figura femminile dell’attrice. Grande interesse, vista la sensibilità religiosa della civiltà spagnola, si ebbe per
la riflessione sulla condizione umana, espressa in molti testi teatrali.
Molte innovazioni furono apportate dai principali esponenti del periodo.
PRINCIPALI ESPONENTI
Carpio Lope de Vega prese gli ordini religiosi a 50 anni dopo un’intensa vita amorosa; è il fondatore della
comedia nueva, molto utilizzata nella Spagna del ‘600, che riproponeva gli elementi più significativi della
tradizione medievale libertà spaziotemporale, mescolanza di generi (che dà vita alla tragicommedia), presenza
del buffone. Accanto a questi elementi, la commedia nueva presentava innovazioni attenzione ai problemi
contemporanei mediante commedie avventurose, divise perlopiù in tre atti. A lui possiamo attribuire una copiosa
produzione, che consta circa 400 testi.
Nel saggio “Nuova arte di far commedi di questi tempi”, Lope riconosce la centralità sociologica del pubblico, per
cui l’autore deve adeguarsi il più possibile ai suoi gusti. Tra le sue opere, la più nota:
“Fuente Ovejuna” opera che rispecchia il conservatorismo e l’immobilità ideologica dati dal clima della
Controriforma e dalla rigida ortodossia spagnola. Narra della rivolta contadina del paese omonimo, verso un
governatore ingiusto e tiranno, e che si oppone ai sovrani cattolici Isabella e Ferdinando, contrari all’anarchia
feudale. Qui vi è anche un rovesciamento della vecchia polemica antivillanesca, il contadino è considerato
portatore di moralismo e dignità, contro gli ignobili gesti nobiliari. Vi è l’esaltazione del centralismo
amministrativo nelle mani di sovrani giusti, e non delegato agli amministratori locali.
Fernando de Rojas ebreo convertito al cattolicesimo, autore di una sola opera, la “Comedia de Calisto y
Melibea”, conosciuta anche come “La Celestina” sappiamo che fu un’opera che ebbe molto successo, tradotta
in molte lingue; da essa si evidenzia nell’autore la conoscenza di Boccaccio, tanto da ispirarsi alle sue novelle. E’
una sorta di testo teatrale da leggere, che non nasce propriamente per la rappresentazione e che rivela un forte
legame con il teatro medievale, soprattutto per il tema amoroso.
Si presenta una parodia iniziale dell’amor cortese di Calisto (in realtà è il desiderio carnale che fa funzionare il suo
amore e non il sentimento amoroso puro) per Melibea, che prima rifiuta il corteggiamento di Calisto ma che poi
accetta un rapporto con lui, seppur tormentata dagli insegnamenti che le erano stati imposti e dal senso di dignità
e pudore. A questo si mescola l’elemento realista e subdolo fatto di servi senza scrupoli, prostitute, ruffiane, come
Celestina, donna senza scrupoli e avida di denaro. Il finale è triste: Calisto muore scavalcando un cancello mentre
Melibea si suicida buttandosi dalla torre più alta del suo castello. Più che sulla relazione tra i due giovani, l’opera si
incentra sulla figura di Celestina, donna di basso livello sociale che pensa solo al proprio profitto personale e che
incentiva il rapporto dei giovani amanti per ottenere guadagni. Si serve di tutti coloro che possano tornarle utili
per i sui fini senza soffermarsi troppo sulle conseguenze.
E’ un’opera dal tono moralistico, che si evince dalla morte dei protagonisti negativi, per simboleggiare la
punizione per gli avari e mettere in guardia dai servi adulatori. Ma moriranno anche i protagonisti, come se
venisse inflitta loro una punizione per i loro comportamenti lascivi. La società descritta è dominata dall’idea
dell’onnipotenza del denaro e viene messa in contrasto con il mondo cavalleresco, dove non conta il denaro ma
l’onore e la stirpe. I personaggi sanno che, con le monete d’oro, possono avere quello che vogliono, anche
l’amore. La mezzana Celestina è la rappresentanza terrena del denaro, un’entità che tutto può dietro adeguato
compenso, ma che in punto di morte invoca la confessione.
Tirso de Molina prende i voti giovanissimo, si innesta sulla scia di Lope. La sua opera più nota è
“L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra” ha dato vita al musicale “Don Giovanni” mozartiano.
L’intreccio si basa sulle gesta di Don Juan, dongiovanni già promesso sposo della figlia di don Gonzalo, che però
seduce una nobile napoletana, fingendosi il suo promesso sposo. Fuggito da Napoli per salvare la pelle, approda in
Spagna dove viene raccolto, dopo un naufragio, da una pescatrice che cede al suo fascino. Il re però dispone che
don Juan sposi l’offesa donna napoletana, mentre il suo vero promesso convolerà a nozze con la promessa sposa
di Juan. Don Juan, contrario alla costrizione del matrimonio, uccide don Gonzalo. Dopo altre avventure con
donne, ritorna a Sevilla dove, sulla tomba di don Gonzalo, si burla del defunto invitandolo a cena. Tuttavia, la
statua si presenta all’appuntamento quando realmente nessuno spera che un morto sia in grado di fare una cosa
simile. Successivamente lo stesso don Gonzalo invita don Juan a cenare nella sua cappella, don Juan accetta e si
presenta il giorno dopo. Lì la statua lo ucciderà per punirlo delle sue malefatte.
Compare qui il tema della burla, in quanto la vera passione di don Juan non è propriamente la donna, ma il
prendersi gioco di essa, seducendola per poi abbandonarla. Don Juan, come Celestina, in punto di morte invoca la
confessione ma anche l’assoluzione. Questa è la principale distinzione con il “Don Giovanni” di Moliere, un Don
Juan eroico ma che non crede in Dio, che si è liberato dai dogmi religiosi, e che alla fine della sua vita non invoca il
perdono ma descrive le sensazioni che lo pervadono mentre muore.
Pedro Calderòn de La Barca si dedica alla carriera ecclesiastica verso i 50 anni. Il punto più alto del teatro
spagnolo del ‘600 è rappresentato dalla sua “La vita è sogno” narra che in un’immaginaria Polonia, vive re
Basilio, esperto di astrologia. Egli, alla nascita del figlio Sigismondo, prevede che questi diventerà un principe
sanguinario e tiranno. Per evitare che ciò accada lo fa rinchiudere in una torre e viene custodito dal servo
Clotaldo, che lo istruisce sul mondo esterno. Il giovane cresce forte, ma selvaggio, senza conoscere nulla del
mondo. Passano gli anni, e Basilio decide di fare un esperimento, vuole vedere se un uomo può vincere il proprio
destino; ordina quindi che Sigismondo venga portato a corte. Sigismondo però si comporta con tutti come un
selvaggio, rivelando la bestialità dei suoi istinti; solo davanti al padre prova un sentimento di innato rispetto.
Questi, tuttavia, decide di rimandarlo nella torre convinto che gli astri abbiano predetto il vero, e dice al figlio di
considerare il breve tempo trascorso a corte come un sogno; viene addormentato e, al suo risveglio, si ritrova
dove è cresciuto: si convince così di aver davvero sognato. Clotaldo gli spiega allora che la vita degli uomini è per
tutti un sogno: quando viviamo in questa vita, ci illudiamo di vivere ma sogniamo, per destarci poi nell’altra vita
che è la vera. E’ bene che durante questo sogno, le nostre opere siano tali che non dobbiamo pentircene quando
saremo nell’altra. Queste parole producono nell’animo di Sigismondo un cambiamento; tutta la sua esistenza gli
appare diversa e si chiede cosa sia la vita, ma la sola risposta che sa darsi è che si tratta di un’illusione continua:
ognuno quaggiù rappresenta una parte che si crede definitiva e invece non è che provvisoria. Frattanto Basilio
abdica in favore del nipote. Il popolo, tuttavia, vuole Sigismondo e lo acclama re. Sigismondo, memore di quanto
aveva meditato, una volta diventato re, decide di agire bene, in modo da non doversi pentire al suo risveglio. In
quest’opera si trovano tutti i temi cari a Calderòn, punti base della sua concezione filosofica: l’importanza
dell’educazione nella vita dell’uomo, il potere della volontà umana contro il destino, lo scarso valore della vita,
considerata come semplice apparenza, l’idea rasserenante che anche se in sogno, non vanno perdute le buone
azioni, la fede nell’aldilà.
Anche in Francia, così come per la Spagna, il ‘600 fu un secolo proficuo, tanto da esser definito Grand Siecle.
Mentre Spagna e Inghilterra del ‘600 conservavano forti legami con la tradizione medievale, la Francia, essendo
più vicina all’Italia, ne subì l’influsso classicista del Rinascimento ma anche della Commedia dell’Arte, di cui la
Francia divenne la seconda patria. Nel 1635 il cardinale Richelieu fondò l’Academie Francaise, primo esempio di
intervento statale nella gestione della cultura.
Il secondo fu la fondazione, nel 1680, della Comedie Francaise, teatro stabile sovvenzionato dallo Stato. Il teatro
francese era luogo privilegiato di conflitti sociali tra borghesia, classe in ascesa ambiziosa di potere, e aristocrazia,
che a seguito dell’instaurazione dell’assolutismo monarchico francese, desiderava riconquistare l’antico potere
feudale. E fu proprio l’aristocrazia a tentare di usare il teatro come arma ideologica per celebrare la superiorità
della propria classe.
La sala teatrale dell’epoca è definita sala all’italiana, con pubblico contrapposto frontalmente agli attori.
Principali esponenti
-Pierre Corneille il più vecchio dei tragediografi francesi, tra le sue opere:
“Cid” rappresenta l’esempio più elevato dei tentativi di autocelebrazione dell’aristocrazia .
L’opera, il cui nome vuol dire “signore” in arabo, presenta una vicenda ispirata a cronache spagnole medievale di
lotta contro i Mori. Narra dell’amore di due giovani, Rodrigo e Chimena, i cui padri sono in contrasto tra loro;
come precettore di suo figlio il re ha preferito il padre di Rodrigo, don Diego, a quello di Chimena, don Gomes.
Durante la disputa il padre di Chimena dà uno schiaffo a don Diego (lo schiaffo è simbolo di sfida). Egli non può
vendicarsi per la sua vecchiaia e dunque chiede al figlio di farlo per lui. Rodrigo si trova di fronte ad un forte e
straziante dilemma: se egli non vendica l’onore del padre, perderà l’amore di Chimena, perché non c’è amore
senza stima; se vendica il suo onore e uccide il padre della sua fidanzata, Chimena non sposerà mai l’assassino di
suo padre. Rodrigo sceglie di battersi ed è vincitore. Chimena, a sua volta, si trova nello stesso dilemma: per
salvare il suo onore, non potendo farlo lei di persona in quanto donna, chiede al re la morte di Rodrigo; lei non ha
scelta: se non lo farà, Rodrigo non la sposerà mai. I Mori, intanto, arrivano alle porte della città; Rodrigo riporta
una grande vittoria su di loro, è riconosciuto come Cid, Signore degli Arabi sconfitti, e salva così la patria
dall’invasione. Il re, al quale Chimena si è rivolta, si trova in grande imbarazzo; non potendo rischiare di perdere il
suo salvatore, egli ricorre a uno stratagemma: il duello tra Rodrigo e l’eroe incaricato di combattere per Chimena,
si farà ma egli si fa promettere dalla giovane donna che sposerà il vincitore. L’avversario è sconfitto, ma il re, al
contrario, annuncia a Chimena la morte di Rodrigo. Chimena, sulla scena, dichiara tutto il suo amore per Rodrigo.
L’opera finisce con la promessa di matrimonio tra i due protagonisti.
Quest’opera viene presentata da Corneille come tragicommedia, genere nuovo e di successo tra il 1630 e il 1640,
tanto che vennero rappresentate, in quel periodo, circa 80 tragicommedie, mescolanza di genere tragico e
comico, con eventuale lieto fine (come nel caso della “Cid”). La rappresentazione del Cid fu subito un trionfo, ma
allo stesso tempo fu criticata, per il suo genere tragicomico. Tra i critici che condannarono l’opera, vi fu il
cardinale Richelieu che non aveva perdonato a Corneille l’abbandono dalla Società di attori che aveva creato. Per
attaccare Corneille, si appoggiò alle regole del teatro classico: Cid, in quanto tragicommedia, non rispettava le
unità aristoteliche di azione, tempo e luogo. Il cardinale Richelieu spinse l’Accademia Francese a pubblicare un
testo critico contro il Cid, ma poi modificò la sua posizione in considerando lo straordinario successo che ottenne.
In quest’opera, di stampo medievale, si può però ritrovare la condizione inquieta della Francia seicentesca,
oppressa dagli Asburgo e dagli spagnoli che avevano occupato alcune zone dello stato francese. Tema innovativo
e ricorrente di quest’opera, così come tutto il teatro di Corneille, da “Orazio” a “Poliuto martire”, è il
combattimento tra amore e onore. Prima del Cid venne scritta la curiosa commedia “L’illusione teatrale” ,
commedia meta teatrale , tutt’oggi ancora rappresentata.
-Jean Racine grande classicista, che leggeva e commentava testi di autori grechi come Euripide. Illustre
tragediografo, che secondo molti studiosi, aveva il dono di rappresentare la vera natura dell’uomo, raffingurarlo
per ciò che realmente è. La maggior parte dei personaggi di Racine appaiono divorati dalla passione, dai propri
sentimenti, violenti, pronti a ricattare, a pretendere l’amore. Tra le sue opere:
“Andromaca” , si ispira all’omonima opera di Euripide. Dopo la caduta di Troia Andromaca vedova di Ettore, e
suo figlio Astianatte, sono prigionieri di Pirro, che è innamorato di Andromaca, per cui trascura la sua promessa
Ermione, ma Andromaca si ostina a restare fedele alla memoria di Ettore. Pirro le promette di proteggere
Astianatte, che una delegazione di greci (con a capo l’ambasciatore Oreste) vuole uccidere. Andromaca, dopo
alcuni rifiuti, accetta un compromesso: sposerà Pirro, ma si ucciderà subito dopo la cerimonia. Ermione accecata
dalla gelosia si promette a Oreste, che la ama, purché questi uccida Pirro prima del matrimonio. E così accade, ma
Ermione, sconvolta, corre a uccidersi sul corpo di Pirro. Andromaca ha intanto sollevato il popolo dell’Epiro contro
i greci.
E’ il primo capolavoro di Racine, il primo esempio del suo teatro di passione e realismo psicologico. Troviamo
infatti personaggi illustri che in effetti sono dediti, più che ai loro compiti, alle passioni, che pur essendo
condottieri, regnanti, si concentrano maggiormente su temi come il desiderio e la vendetta. Ermione, veemente e
appassionata, è la prima delle amanti frenetiche raciniane; Andromaca è qui vista in luce più candida rispetto
all’opera di Euripide, Racine purifica la sua figura sulla base del buon senso che le impedisce azioni brutali e
volgari, togliendole anche la nuova forzata maternità che era nell’Andromaca di Euripide, che era più realista sul
punto di vista materiale, che descriveva ciò che realmente accadeva nella società, mentre Racine si sofferma più
sull’aspetto psicologico.
“Fedra” opera che fu già di Euripide e Seneca. Racine, prende spunto da questi testi ma ci aggiunge la
dimensione della predestinazione al peccato, così come il suo consueto realismo psicologico che mette a nudo
l’anima della protagonista, divisa tra passione e senso morale, aggiungendo, alla sua presentazione, l’elemento
della gelosia. Altra differenza con i testi classici, sta nel fatto che in Euripide, è Fedra stessa che, in una lettera
scritta prima di suicidarsi, dichiara di essere stata violentata da Ippolito, mentre in Racine è la nutrice a fabbricare
la calunnia, che però accusa Ippolito solo di una tentata violenza carnale. Racine rinnova la vicenda facendo la
protagonista una vittima del fato, né completamente colpevole, né completamente innocente. Seconda moglie di
Teseo che è scomparso durante un viaggio, Fedra ha un male misterioso. Si confessa alla nutrice: ama il figliastro
Ippolito. All’annuncio della morte di Teseo, convinta che il suo amore non sia più colpevole, Fedra svela la sua
passione a Ippolito che si indigna. Teseo torna però incolume. Per salvare Fedra, la nutrice accusa di amore
incestuoso Ippolito che viene maledetto e scacciato dal padre. Fedra è sconvolta, vorrebbe confessare a Teseo la
verità. La notizia che Ippolito ama ricambiato la principessa Aricia, provoca in Fedra una violenta gelosia. Aricia
lascia intendere a Teseo che Ippolito è innocente. Teseo è turbato, supplica Nettuno di non voler tenere conto
della maledizione lanciata contro il figlio, ma è troppo tardi. Fedra confessa la verità e si uccide.
Tra altre sue opere: “Berenice”, “I litiganti”, “Ifigenia in Aulide”.
-Molière è l’artista francese più legato alla Commedia dell’Arte, da cui attinse molte delle sue commedie minori,
come “L’amore medico” e “Il medico per forza”. Le sue opere più importanti spianano invece la strada al dramma
borghese, nato nel ‘700 ma che si impose in tutta Europa nel secolo successivo. Non c’è ancora, nelle sue opere,
l’habitat propriamente borghese, così come gli ambienti che sono ancora imprecisi, ma si può già avvertire lo
status sociologico della condizione borghese. Scrisse sia in prosa che in versi. Il suo teatro, a differenza di quello
shakespeariano, è molto incentrato sull’attenzione alla tematica dello spazio e alla dimensione della prossemica
(rapporto di distanza o vicinanza che gli attori mantengono in scena). Tra le sue opere:
“Tartufo” si inserì, attorno agli anni 60 del ‘800, in un momento storico delicato, e lo fece con una satira
pungente che non fu gradita agli ambienti conservatori e religiosi della monarchia, tanto che vi fu la proibizione
della rappresentazione pubblica della commedia. Nel 1667 la compagnia di Molière (che ormai era diventata
compagnia del Re) ripropose al pubblico parigino la commedia, con leggeri cambi. Luigi XIV però rinnovò il divieto,
al termine di una diatriba che coinvolse anche le autorità religiose.
La questione si risolse nel 1669, a favore di Molière. Nel frattempo la situazione politica era cambiata, e il nuovo
clima di distensione rendeva possibile la revoca del divieto.
Narra di Tartufo, un mendicante molto devoto che Orgone, un ricco nobile di Parigi all’epoca del Re Sole, ha
ospitato nella sua casa. Il suo affetto per Tartufo è tale che lo promette come sposo alla figlia, che tuttavia è già
fidanzata. Tartufo, però, è segretamente innamorato della moglie di Orgone, Elmira, e a lei si dichiara. La donna,
respingendolo, promette di non dire niente al marito a patto che Tartufo rifiuti di sposare sua figlia, permettendo
così il matrimonio con il promesso. Il figlio maschio di Orgone, che ha ascoltato la conversazione nascosto in un
armadio, esce allo scoperto con l’intenzione di denunciare tutto ad Orgone, affinché Tartufo non rimanga
impunito. Orgone però non vuole credere alle accuse rivolte verso l’amico e, anzi, gli dona i suoi beni e la sua
casa. Dopo questi fatti Elmira è intenzionata a far scoprire al marito la verità e lo convince a restare nascosto sotto
ad un tavolo durante una sua conversazione con Tartufo. Durante questa conversazione Elmira riesce a far
confessare nuovamente Tartufo riguardo al suo amore per lei alla presenza di Orgone che, compresa la verità,
esce dal nascondiglio. Tartufo, smascherato, è però ormai proprietario di tutto, della casa e dei beni di Orgone ed
è intenzionato a scacciare lui e la sua famiglia; inoltre lo denuncia al re di tradimento, accusando Orgone di avere
tenuto nascosto a questo importanti segreti custoditi in una cassetta. Si reca così da Orgone con un ufficiale del re
che, però, a sorpresa arresta Tartufo; l’ufficiale spiega poi ad Orgone che egli è un noto truffatore e delinquente e
che, andando a denunciare il nobile, si è in realtà svelato; il re quindi ha annullato il contratto con cui Orgone ha
donato i beni all’impostore.
L’intera opera è una satira nei confronti della società nobile francese del ‘600. Tartufo è infatti l’emblema
dell’ipocrita che vive sotto la maschera della devozione religiosa e dell’amicizia verso Orgone ma in realtà vuole
approfittare della sua fiducia per trarne vantaggio e, in seguito, tradirlo. Così, come afferma Moliere stesso in una
presentazione della commedia al re di Francia, il compito della commedia essendo quello di correggere gli uomini
divertendoli, presentando i vizi e i difetti in modo anche esagerato.
Molto incentrato sul tema dell’origliare, dell’ascoltare, qui con un risvolto inevitabilmente comico. Qui si
evidenzia maggiormente la costruzione di un interno domestico, su cui si basano le commedie borghesi
ottocentesche (superamento della dimensione spaziale aperta). Un tema tabù e trasgressivo per l’epoca, trattato
nell’opera, è la corruzione domestica, esplicitata nel tentativo di seduzione di una donna sposata, sotto gli stessi
occhi del marito. Inoltre, in quest’opera più che in tutte le altre, si evince la stessa capacità di Racine. Benché
l’uno attraverso la commedia e l’altro attraverso la tragedia, entrambi gli autori evidenziano e rivelano
perfettamente il realismo psicologico, la forma inconscia dei personaggi, spianando la strada alla drammaturgia
borghese degli anni successivi.
Tra altre sue opere: “Don Giovanni e il convitato di pietra”, “Il misantropo”, “Il borghese gentiluomo”,
“L’avaro”.
SETTECENTO: LA NASCITA DEL DRAMMA BORGHESE
Tra ‘500 e ‘600 a teatro si trattavano solo i generi di commedia e tragedia. A metà ‘700, nel periodo illuminista,
risale la nascita del dramma borghese che nacque dalle esigenze di una drammaturgia che potesse rappresentare
la società contemporanea, il ceto borghese in ascesa nella sua realtà. La pietra miliare di tal genere è costituita da
un testo teatrale dell’enciclopedista francese Denise Diderot, ovvero “Il figlio naturale”, sulla base del quale
Diderot fissa due punti basilari della cultura borghese: valore pedagogico del teatro e la sua capacità di
impressionare gli spettatori; ma anche la qualità dei contenuti drammaturgici, che non vanno più attinti dai miti
classicisti, bensì dalla vita quotidiana, reale, privata. Altra peculiarità, come racconta anche Diderot, era quella
dello spazio scenico del dramma borghese, per cui veniva utilizzato anche il salotto di casa, dunque il proprio
spazio privato. Cambiavano, inoltre, anche i contenuti, per esempio, ne “Il figlio naturale”, oltre alla storia
d’amore tra due coppie di fratelli, ridondante è il tema del denaro, dell’ossessione per i soldi e per il successo
attraverso i lavori più in auge in quel periodo, come quello del commercio; quindi vengono trattati i temi centrali
della società borghese.
Tuttavia, vi era ancora una fazione di opposizione a questo teatro libero e puramente borghese, quella
conservatrice che temeva il teatro, che lo considerava ancora diletto aristocratico e prerogativa delle corti. Tra
questi rappresentanti, ricordiamo Rousseau, che, seguendo la scia del puritano Cromwell che nel ‘600 ordinò la
chiusura dei teatri inglesi, affermava, in una lettera a d’Alembert, pro-teatro borghese e libero dall’essere
assoggettato alla corte, che il teatro, ora prerogativa borghese, faticava a reggersi soltanto con le leggi del
commercio, necessitava ancora di sovvenzioni reali, di biglietti costosi.
La borghesia condivideva con i nobili la scena teatrale, ma questa si era svincolata dal classico teatro di corte,
come quello rinascimentale, andandosi ad inserire in un’ottica tipicamente borghese, nonché acquisendo valore
pedagogico. Questo filone lo seguì Gotthold Lessing autore tedesco, drammaturgo ad Amburgo, città mercantile
ed avanzata, presso il primo teatro stabile della città, fondato da un gruppo di cittadini influenti e ricchi
commercianti, e dotato di una compagnia di attori fissa.
Lessing appoggiava la stagione teatrale con una drammaturgia periodica, la “Drammaturgia d’Amburgo”. Furono
momenti fondamentali anche per il consolidarsi della nuova professione della critica teatrale, cui primo
contributo importante fu dato dal giornale “The Spectator” di Steele e Addison, padri fondatori del giornalismo
inglese nel primo decennio del ‘700. Il giornale era rivolto alla nuova classe borghese, trattando argomenti quali il
commercio, le mode culturali, il teatro, con specifiche recensioni sugli spettacoli.
Quindi, l’appropriazione del teatro borghese fu un passaggio lento, che vedeva contrapposte due fazioni della
stessa borghesia, pro e contro il nuovo teatro, che in Italia si diffuse ancor più a rilento, trovando come punta di
diamante Goldoni, che fu però anche bacchettato dai conservatori classicisti, in particolar modo il critico Baretti,
che si chiuse in un aristocratico disprezzo per il neoteatro borghese, ribadendo la superiorità della lettura privata,
nel proprio studio, non in scena. I testi goldoniani vengono da lui criticati per la lingua barbara, poco fine,
personaggi stravaganti e poco verosimili. Baretti è solo un esempio di una più estesa critica.
Principali esponenti.
Carlo Goldoni ,maggior rappresentante del teatro veneziano del ‘700, commediografo del periodo tra l’Arcadia e
l’Illuminismo ,accettava la natura e la semplicità della prima, rifiutandone però la trattazione di argomenti
superficiali, ma si inseriva nel secondo per l’appartenenza dei suoi soggetti alla classe borghese, sempre
protagonista delle sue opere. La produzione commediografa di Goldoni è vastissima, generalmente le
interpretazioni si basano sui testi più celebri e diffusi.
Nelle sue opere Goldoni passa dalla lingua al dialetto e viceversa in relazione alle differenti situazioni in cui si
trovano i personaggi. La prima esperienza di Goldoni era legata alla Commedia dell’arte. Solo durante il periodo
veneziano Goldoni iniziò la sua riforma: obbligò gli attori a riferirsi ad un testo scritto, eliminò gradualmente le
maschere, inserendo la concretezza della classe borghese. Divise la commedia in scene e atti e la basò sulle
battute (dialoghi) e accanto ad esse inserì le didascalie (suggerimenti sull’atteggiamento da assumere). Secondo
Goldoni inoltre, la commedia deve insegnare il buon senso borghese, con grande fiducia nella natura umana. La
sua riforma provocò malcontento tra gli attori, a cui furono eliminate le loro tradizioni. Egli riteneva legittimo che
l’individuo potesse affermarsi, indipendentemente dalla classe a cui appartiene, attraverso l’onore e la
reputazione. L’autore portava sempre in scena l’amore, da lui considerato componente essenziale del mondo.
Rappresentava storie realistiche, per far immedesimare gli spettatori nei personaggi.
Per quanto concerne l’ambientazione, notiamo nelle opere di Goldoni una transizione dagli spazia aperti a quelli
chiusi. Gli ambienti di Goldoni conservano ancora qualcosa di aperto, di generico, rispetto a quelli di Diderot. Non
c’è ancora, in Goldoni, quella piena sensibilità dell’ambiente chiuso e ritirato, domestico e privato del dramma
borghese, fatta eccezione per qualche passo di alcune sue opere, come la descrizione delle porte, punto di
“trapasso” tra l’esterno e l’intimità dell’interno. Tra le sue opere:
“La Locandiera” tra le maggiori commedie di Goldoni. Vede protagonista Mirandolina, tre nobili e un
cameriere. Due dei 3 nobili si invaghiscono di lei, il terzo la disprezza. Mirandolina si finge d’accordo con lui nel
disprezzare le donne e lo fa innamorare, ma lei, sotto i suoi occhi, decide di sposare il cameriere. L’ambientazione
è in una locanda, luogo pubblico, di passaggio tra esterno ed interno.
“Gli Innamorati” mette in scena la forte gelosia. L’ambientazione è una stanza comune.
“Rusteghi”, “Casa Nova” illustrano il quadro domestico del mondo mercantile veneziano, più propense
all’ambiente domestico.
“Trilogia della villeggiatura” tipica mescolanza borghese di dissipazione finanziaria ed amorosa. Narra di un
padre in dissesto finanziario, pronto a sacrificare la figlia, ormai senza dote, ad uno spiantato.
L’INTERMEZZO CLASSICI – ROMANTICI
A metà del settecento commedia e tragedia stanno per essere sostituite da una nuova forma teatrale: il
dramma. Tuttavia la strada per arrivare al completo trionfo del dramma borghese è lunga e tortuosa.
Il francese Beaumarchais si muoveva all’interno del genere comico con “Il barbiere di Siviglia” e “Le nozze
di Figaro”. A quest'ultimo però affianca timbri nuovi, anche drammatici, che costituivano una satira sociale
contro il dispotismo della nobiltà e della magistratura del tempo.
Per quanto riguarda la tragedia essa appare irrimediabilmente condannata a causa della crisi dell'ideologia
aristocratica, della riflessione degli illuministi e della rivoluzione francese. Tuttavia nel corso del ‘700 molti
letterati continuarono a trattare questo genere basato sulle regole aristoteliche dell'unità di tempo e luogo.
Esempio tipico risulta essere Voltaire, autore francese che resta fedele alla forma canonica della tragedia.
In Italia invece, per quanto concerne la tragedia di quel periodo, l'autore più significativo è sicuramente
Vittorio Alfieri. Alfieri si avvicina al Romanticismo, ma l’avversione alla tirannia delle corti d’Europa lo lega
all’Illuminismo. Egli inizia a scrivere tragedie per esprimere la sua solitudine, rinuncia alla ricchezza per
dedicarsi alla letteratura, poiché vede anche nella ricchezza una limitazione alla libertà, intesa come assenza
di limitazione politica ed intellettuale. La tragedia di Alfieri è costruita intorno all’eroe, che con la sua forza si
impone sui personaggi minori. Lo scopo dell’eroe è la continua lotta contro la tirannia, al fine di conseguire
la tanto ambita libertà. Secondo Alfieri, la tragedia deve essere breve, in 5 atti, con pochi personaggi e al
centro deve esservi sempre l’eroe. Alla base di ogni vicenda c’è il fato, capace di far agire gli uomini. Riscrive
molte tragedie greche, oltre a molte sue.
Tra le sue opere dobbiamo ricordare:
- “Antigone” che è una tragedia di Sofocle rivisitata e ridotta ai quattro protagonisti principali. I due figli di
Edipo (Polinice ed Eteocle) sono morti in battaglia; Eteocle per difendere Tebe, Polinice per attaccarla.
Creonte, cognato di Edipo, governa la città e decreta che il cadavere di Polinice resti insepolto per infondere
terrore a chiunque attenti alla libertà della patria. Antigone, sorella dei due morti, disobbedisce al comando
e seppellisce Polinice, incorrendo nell'ira di Creonte che la condanna a morte, nonostante suo figlio, Emone,
la ami. Dunque il cognato di Edipo punisce Antigone non tanto per dare una lezione politica, ma piuttosto
per rafforzare il proprio potere. Anche qui compare il tema di lotta alla tirannia caro ad Alfieri, identificato in
Creonte, che in un certo senso usurpa il trono dell’unica erede legittima.
Romanticismo francese.
Il romanticismo italiano teatrale ebbe comunque scarsa consistenza, fu sopraffatto dal dramma di
ascendenza diderotiana, perché la borghesia in ascesa aveva bisogno del teatro come strumento sociale, in
cui rappresentare i propri valori. Lo stesso romanticismo francese si piegò a questa prospettiva. Tra i suoi
esponenti dobbiamo ricordare:
- Alfred de Vigny che operò in questa prospettiva, come dimostra la sua maggiore opera “Chatterton”.
Quest'ultima è ambientata nella Londra settecentesca e narra di un poeta povero (Chatterton), innamorato
e ricambiato della moglie del suo affittuario (Catherine detta Kitty), un ricco borghese. Ma è un amore
impossibile, a causa della moralità della donna. Finirà con l’avvelenamento di lui e la morte di lei addolorata.
Rappresenta i temi dell’opposizione tra arte e società capitalista ma anche della condizione borghese, tra
contraddizioni e desideri adulterini, tra contrapposizioni dovute alle barriere sociali.
- Alexandre Dumas (figlio) continuò il percorso di Vigny, facendo rappresentare il suo celeberrimo romanzo
“La signora delle camelie”. Storia di Marguerite, una prostituta di lusso, per cui un giovane rischia di
rovinarsi economicamente e viene obbligato dal padre ad interrompere la relazione con lei. Quando
Marguerite, morente, viene raggiunta al capezzale dal giovane, ella si fa promettere che sposerà una donna
buona e onesta. E’ evidente, nel romanzo, l’elemento romantico e drammatico (amore tra gentiluomo e
prostituta, morte di lei) unito al quadro sociale del tempo (società mondana del tempo, morale
conservatrice del padre del protagonista). L’opera ebbe così tanto successo che Verdi la traspose nella sua
“Traviata”.
Dall’opera di Dumas emergono i temi rappresentativi del periodo: problematiche della vita quotidiana,
questione femminile, adulterio.
Infine a Parigi, tra gli anni 30 e 40 dell'ottocento, dominava il vaudeville: un prodotto industriale fatto in
serie, a più mani, in cui parti dialogate si alternano a canzonette. Con il tempo però scomparve il cantato e
restò il genere leggero, fatto di imprevisti e situazioni piccanti naturalmente a lieto fine. Tra i protagonisti del
genere, citiamo autori come Scribe, Labiche, Sardou, Feydeau, autori della cosiddetta “opera ben fatta” che
intreccia, con ritmi tesi e comici, intrighi complicati e storie di adulteri.
Tra fine ottocento e inizio novecento, quando si fortificò il genere borghese, una volta superato l’intermezzo
romantico e la linea puritana di Russeau, si verificò un’altra divaricazione teatrale: la contrapposizione tra
divertimento ed istruzione.
La minoranza borghese in opposizione voleva dare al teatro la stessa funzione che aveva riservato al
romanzo, ovvero quella di informare il pubblico sugli importanti segni del capitalismo. Tuttavia, l’aumento
della popolazione nelle grandi capitali europee non solo fece aumentare il mercato teatrale ma anche il
numero degli edifici.
A Parigi, ad esempio, l’Esposizione Universale fu un incentivo per l’industria dello spettacolo e la prosperità
del pubblico teatrale fu accentuata anche dall’estendersi della rete ferroviaria francese ai paesi limitrofi.
Dunque il pubblico era eterogeneo, non solo elitario, costituito da gente di media cultura, soprattutto
commercianti, che si rispecchiavano nel teatro del periodo, trattante temi di passione e denaro.
Proprio grazie a quest’interesse per gli spettacoli, a metà secolo, Parigi fu invasa dai café concert, locali in
cui i consumatori potevano ascoltare musica ed esibizioni canore, cui pian piano si affiancarono esibizioni
sempre più articolate, con ballerini, acrobati, illusionisti e svariati performer, diventando un vero e proprio
varietà. Era però uno spettacolo molto alla mano, per accompagnare le consumazioni e le chiacchiere di
coloro che sedevano al café e che assistevano distrattamente alla messinscena.
Nel teatro di fine ‘800 contava molto lo sguardo, la logica della visuale, sia nel teatro minore come i café,
che in quello maggiore (non a caso quelli sono gli anni di nascita, nei locali minori, dello strip tease).
Ovunque, per quanto concerne il teatro maggiore, dominava la sala all’italiana ricca di velluti e fregi a ferro
di cavallo con palchi e platea. Si lavorava molto anche sugli effetti ottici e speciali, proprio in funzione
dell’importanza del dato visivo, attraverso macchinari sempre più sofisticati. Ed è in funzione dello stesso
dato visivo che le attrici si esibivano perlopiù sul proscenio.
Principali esponenti.
Tra i principali esponenti ricordiamo:
- Henrik Ibsen, autore norvegese, è il principale rappresentante della riflessione borghese a teatro, nonché
inventore del teatro del salotto borghese. Se con Diderot le didascalie iniziano ad infittirsi per meglio
definire l'interno della casa, con Ibsen queste didascalie diventano significative, cominciano a raccontare la
vita dei personaggi ancora prima che essi entrino in scena. Dunque caratteristica forte delle sue opere è
l’ambientazione che rispecchia perfettamente il dramma borghese.
“Una casa di bambola” si apre proprio con minuziose descrizioni degli interni in cui si svolge la vicenda,
come se l’ambientazione volesse già anticiparci la storia e le vicende familiari dei protagonisti. E’ una
pungente critica sui tradizionali ruoli dell’uomo e della donna nell’ambito del matrimonio durante l’epoca
vittoriana. Narra di una donna, inizialmente capricciosa, che attende impaziente che il marito riceva un
buon posto di lavoro, finché capisce il suo ruolo in quel matrimonio durato 8 anni, è stato quello di una
semplice e bella marionetta costretta a vivere in una casa di bambola. Ibsen, nelle sue descrizioni, aggiunge
particolari come tende, tappeti, che attutiscono i rumori ed attenuano le luci, definendo la casa intima,
riservata, tipica dell’agiato borghese; ma paradossalmente questo sollecita anche origliamenti, gli spionaggi
(ad es. le porte garantiscono intimità ma si aprono anche ad orecchie indiscrete), facendo capire che ciò che
va celato può essere anche spiato. Sono temi molto battuti nel teatro di Ibsen, soprattutto gli origliamenti
tra padroni, spesso solo accennati e non del tutto esplicitati.
In “Spettri”, l’apparente vittimismo del giovane protagonista a causa delle colpe paterne può essere
rovesciato guardando il protagonista da un punto di vista sinistro; egli è infatti colto ad origliare il dialogo
perturbante tra la madre e un amico di famiglia.
Dunque con Ibsen quello che doveva essere uno specchio, leggero e con venature comiche, della borghesia
divenne critica ma soprattutto discussione di questioni importanti come la famiglia e il lavoro. L'autore basa
quindi i suoi lavori sul dibattito, sulla “tecnica analitica”, come se volesse ispezionare a fondo l’animo della
società contemporanea.
Quindi non abbiamo solo i soliti temi di intrecci familiari, relazioni sentimentali, soldi e carriera, ma anche la
messa a nudo della coscienza borghese in una vera e propria introspezione psicanalitica.
Ibsen, per questo suo modo di scrivere, è stato considerato da molti come una sorta di Freud del teatro,
basti pensare alla protagonista di “Hedda Gabler”, ossessionata dal ricordo del defunto padre, che si suicida
a seguito di un percorso psicologico turbato e tormentato; o a “Il costruttore Solness”, dominato da pulsioni
inconsce incontrollabili.
- Da non dimenticare è anche August Strindberg, autore svedese, che gioca soprattutto sul tema dello
scontro dei sessi. Lo si nota infatti in alcune delle sue principali opere:
“Il padre”, dove protagonisti sono due genitori che litigano per il tipo di educazione da dare alla figlia, e la
moglie – pur di avere il sopravvento – insinua nel coniuge il dubbio che non sia lui il padre carnale della
ragazza, cosa che lo porta verso la follia.
Ne “La signorina Julie”, troviamo invece l'intreccio della lotta dei sessi con la lotta di classe tra la contessina
Julie e il suo servitore. Julie, reduce da un fidanzamento fallito, si unisce al ballo festoso della servitù nella
notte di San Giovanni e cerca di irretire Jean, un affascinante ma equivoco cameriere. Per Jean seguire i
desideri di lei può rappresentare l’accesso ad un mondo di ricchezza cui ha sempre aspirato, nonostante ciò
inizialmente non riesce a rompere quella barriera rappresentata dalla distinzione sociale (si evince dal
dialogo che alterna il “tu” e il “lei”). Timorosi di venire scoperti decidono di fuggire insieme, ma alle prime
luci dell’alba Jean, con freddo impulso, uccide il canarino che Julie voleva portare con sé, episodio che da il
via ad un violento litigio tra i due amanti, ove Julie desidererebbe uccidere Jean. L’improvviso ritorno del
padre della ragazza riporta Jean ai propri doveri di servo e Julie, provata da questo impossibile rapporto,
come in trance ipnotica, prega l’amante di darle l’ordine di uccidersi. E Jean, con cinismo, esegue,
mettendole un rasoio in mano. In Strindberg il tema dell’eros è anche violenza, qui in particolar modo viene
vista come violenza psicologica (ribaltamento della condizione sociale). Il tema del sangue è ricorrente in
tutta la vicenda, dall’accenno alla decapitazione di Giovanni Battista, alla decapitazione del canarino, al
desiderio di Julie, in un momento di rabbia, di evirare Jean.
- Il terzo grande rappresentante della drammaturgia europea è il russo Anton Cechov. Egli trasformò il
dramma di fine ottocento sottoponendo a tensioni inaspettate il tipico salotto borghese per bene e di classe
che esalta la quiete e la conversazione.
Nella sua opera chiamata il “Gabbiano” possiamo trovare, in alcune scene, un letto in salotto o scene di colazione.
La materialità dei bisogni fisiologici invade lo spazio più “chic” della casa in cui la borghesia era solita rappresentarsi
e autocelebrarsi nelle sue attitudini più nobili.
Non solo, il salotto di Cechov perde sempre più la sua funzione privata per sporgersi verso l’esterno,
troviamo ad esempio salotti adibiti ad uffici che sembrano luoghi pubblici dove la gente può circolare
liberamente. Cechov sembra infatti attratto dall’abbattimento della barriera interno/esterno che caratterizza
il dramma borghese, infatti nel “Gabbiano” alcune scene sono ambientate in esterni, così come in opere
come “Zio Vanja” e “Il giardino dei ciliegi”.
Alla dilatazione dello spazio, Cechov fa corrispondere un’altrettanta dilatazione dei personaggi, dove non c’è
una vera e propria centralità ma tutti costituiscono il centro, è infatti sempre emblematico individuare
l’attore principale nelle opere di Cechov (a differenza di Ibsen). Di conseguenza, ai monologhi e ai dialoghi,
sono preferiti i concertati corali.
Anche in Cechov troviamo la stessa caratteristica psicanalitica di Ibsen. A tal proposito ricordiamo:
“Tre sorelle” dove viene rappresentata l’esistenza delle tre figlie di un generale, Olga, Mascia e Irina, che
vivono insieme con il fratello e il marito di Mascia in una casa della campagna russa. Un solo sogno agita le
tre sorelle: andare a Mosca, dove hanno abitato durante la loro infanzia spensierata. La loro vita monotona
ha però una scossa improvvisa quando nella vicina cittadina si stabilisce una guarnigione: le visite degli
ufficiali portano un vento nuovo nella casa di quella famiglia colpita dal male di vivere. Olga, la sorella
maggiore, che sembrava non volersi mai sposare, pensa di sistemarsi lasciando l’insegnamento; Mascia,
sposata a un meschino professore, s’innamora di un tenente colonnello; la più giovane Irina è richiesta in
sposa e accetta l’offerta di matrimonio di un tenente, pur non amandolo. Nessuna delle loro speranze è
però destinata a realizzarsi: il reggimento viene trasferito, il tenente resta ucciso in duello e le tre sorelle
tornano alla loro condizione abituale.
L’opera sembra accostarsi al Simbolismo (sotto la realtà apparente, quella percepibile con i sensi, si
nasconde una realtà più profonda e misteriosa); non vi è azione: tutto s’incentra sulla rappresentazione di
personaggi che vedono trascorrere la vita con l’angoscia di non aver costruito nulla. Il tempo delle
protagoniste passa tra conversazioni ora senza senso e ora aperte ai temi della filosofia dell’esistenza, tra
matrimoni non realizzati e vani trasporti amorosi. Troviamo inoltre lo stesso culto del padre di “Hedda
Gabler” di Ibsen, ed è forse per questo complesso edipico che le donne non riescono ad avere una
soddisfacente vita sentimentale, stesso motivo per cui forse si innamorano di tre appartenenti alle forze
armate (il padre era generale).
Rappresentanti italiani.
Rispetto ai tre grandi rappresentanti europei, la drammaturgia italiana era minore, spesso gli autori
scrivevano pochi testi, se non addirittura uno, mancando comunque di vena creativa ed inventiva.
Ricordiamo:
- Achille Torelli con i “I mariti”
- Marco Praga con “La moglie ideale”
Giuseppe Giacosa è invece, in quel periodo, l’autore italiano di maggior rilievo. In Giacosa troviamo i temi di
Ibsen, quindi: questioni familiari, rapporti uomo-donna, ascesa sociale, lavoro.
Tra le sue opere:
- “Tristi amori”, racconta il tipico triangolo amoroso. Il denaro rende la vita tra i coniugi Scarli molto sterile
a livello affettivo; il marito, l’avvocato Giulio, passa molto tempo in studio per poter guadagnare. Scarli è il
classico borghese che si è costruito da solo la sua posizione. Il suo posto è lo studio, la sua vita sentimentale
è alquanto scarsa, e le piccole affettuosità sono rivolte solo alla figlia. Emma Scarli, a causa della noiosa e
avvilente vita domestica, si è trovata un amante, il praticante avvocato che lavora presso lo studio del
marito: il conte decaduto Fabrizio Arcieri, che incarna quel romanticismo e quel trasporto di cui Emma ha
bisogno per poter continuare a vivere. Il nome che Giacosa sceglie per la sua protagonista richiama alla
memoria quello di un’altra celebre adulterina della letteratura dell’800: Emma Bovary, dal romanzo di
Flaubert.
L’opera è un prototipo di dramma ibseniano, con pochi personaggi.
- “Come le foglie” racconta invece la storia di una famiglia borghese costretta, a seguito di gravi dissesti
finanziari, ad abbandonare la vita agiata per adattarsi a un tenore di vita molto più modesto. Tuttavia
incapaci di rassegnarsi alla situazione, i componenti della famiglia finiscono per perdersi in intrighi e tresche
meschine, rivelandosi individui deboli, viziati e irresponsabili.
L’opera è un prototipo di dramma corale, con molti personaggi protagonisti, frequenti sbalzi nei dialoghi,
lunghi silenzi, pianti improvvisi.
Giacosa ha dipinto, nei suoi capolavori, un tessuto sociale che sta cambiando profondamente, in cui all’alta
società superficiale e dissipatrice si contrappone con sempre maggior forza una borghesia operosa,
responsabile e animata da saldi principi morali, seppur con le sue tentazioni ed aspetti corrotti.
Esaminando le compagnie teatrali italiane dell’800 notiamo che esse erano basate su un organico di ruoli, al
di sotto dei quali stavano i generici, utilizzati appunto in parti generiche, ossia appena abbozzate.
- Prima attrice, ruolo più importante insieme a quello del primo attore, ed era altrettanto rappresentata da una bella
donna, figura importante; una delle massime rappresentanti del tempo fu Adelaide Ristori, cui seguì Eleonora
Duse.
- il Brillante, aveva un ruolo più leggero nei testi seri ed era invece colonna portante nei testi comici, spesso
andando ad investire anche il ruolo di primo attore. Nel primo ‘900 questa figura si evolse sempre più fino a
ricoprire il ruolo di raisonneur, ironico portavoce del primo attore. Un esempio è il Laudisi di “Così è (se vi pare)” di
Pirandello.
- Caratterista, legato ai personaggi caratteristici della drammaturgia molièrana e goldoniana. Solitamente di
corporatura un po’ obesa e volto paffuto per sottolineare gli elementi caricaturali del personaggio che
incarna. Un esempio è il Marchese di Forlipopoli della “Locandiera” di Goldoni.
Varianti del caratterista sono:
- Padre o madre nobile, uomo o donna di mezza età che interpretano personaggi maturi e vecchi
- Tiranno di prestanza fisica e voce potente.
- Attor giovane e attrice giovane, parti importanti di protagonisti giovani, spesso interpretavano gli innamorati.
- Seconda donna, rivale della prima e spesso personaggio della vedova o dell’amante.
- Promiscuo, ruolo capace di consentire il passaggio da personaggi patetici a comici. Un esempio più odierno è
Eduardo de Filippo.
I ruoli non erano comunque fissi; ad esempio gli attori giovani, crescendo, potevano diventare primi attori, e
questi ultimi, invecchiando, potevano divenire caratteristi. Molto probabilmente la nascita del sistema dei
ruoli risale alla Commedia dell’Arte. Sicuro è che la specializzazione consentiva, logicamente, un risultato
migliore e più professionale in quanto ci si perfezionava in un solo ruolo. Il più delle volte, gli attori erano
orientati verso il personaggio per cui avevano maggiori caratteristiche fisiche. Tra ‘700 e ‘800, dopo
l’abbandono della Commedia dell’Arte, e dunque delle tipiche maschere, e con il progressivo avvicinarsi al
genere del dramma, con protagonisti come giovani, innamorati, padri, eroi, tiranni, occorreva una sempre
più specifica e precisa caratterizzazione dei personaggi.
La compagnia ottocentesca era di proprietà del capocomico che stipulava contratti (annuali o triennali) con
gli attori, sosteneva le varie spese e coordinava il lavoro di tutti: distribuendo ruoli, dirigendo le prove,
stabilendo il repertorio. Solitamente, bastava una settimana per studiare parti nuove. A causa di un pubblico
habitué, raramente le compagnie replicavano i loro spettacoli; avevano dunque una produzione immensa.
Ogni attore aveva in mano solo il proprio copione, su cui doveva lavorare. Il capocomico, inoltre, curava la
scenografia, fatta essenzialmente di carta dipinta (sistema vitale per le compagnie girovaghe). Solo nei primi
del ‘900 si cominciò ad usare la stoffa e, a metà secolo, i compensati. I fondali avevano dipinte varie
ambientazioni: giardini, salotti, boschi, stanze varie. Gli arredamenti per la scena, spesso rozzi e non
armoniosi con il fondale, venivano fittati, o dai magazzini dei teatri dove recitavano o da alcune aziende, e
venivano sistemati dal direttore di scena (solitamente un attore fallito). Gli abiti, fatta eccezione per quelli di
carattere e stranieri, erano acquistati privatamente dagli attori, risultando spesso disomogenei al tutto e
dozzinali.
L’illuminazione prevedeva le luci in basso, poste sulla ribalta, e una fila di lampadine in alto, senza troppe
pretese né funzioni particolari se non quella di illuminare la scena (le altre funzioni delle luci, come quella di
creare particolari effetti ottici, giunsero più tardi, nel ‘900). Con queste luci dunque, l’espressività dell’attore,
con il volto sempre illuminato, era essenziale. Del resto, ciò che contava era proprio la presenza dell’attore
più che altri tipi di effetti.
L’anno teatrale, per la prosa, durava dalla prima domenica di Quaresima fino al successivo Carnevale. Alla
fine dell’800 gli attori riuscirono ad ottenere delle modifiche alla loro pesante condizione, come ad esempio
il continuo viaggiare a proprie spese, che nel 1906 vennero poi assunte dal capocomico. D’altro canto però,
a metà ‘900 furono eliminate anche le serate d’onore, serate cioè dedicate ad un’artista in particolare, il cui
incasso veniva quasi totalmente devoluto all’artista un questione, ricevendo anche spesso omaggi dagli
ammiratori.
La performance si basava soprattutto sulle risorse individuali dell’artista. Tra i grandi attori ricordiamo:
- Tommaso Salvini , memorabile la sua interpretazione, in Russia, di “Otello”; egli non era tanto adatto
fisicamente al ruolo, così come non era adatto il costume di scena, ma la sua voce potente, la sua gestualità
e l’intensa mimica, riuscivano a catalizzare l’attenzione degli spettatori, anche quelli stranieri.
- Adelaide Ristori , divenne una celebrità rappresentando, a Parigi, la “Mirra” di Alfieri. Riuscì ad imporsi al
pubblico per la sensualità e la gestualità del suo corpo.
- Ermete Zacconi , divenne celebre con l’interpretazione del protagonista in “Spettri” di Ibsen.
- Eleonora Duse , anche lei grande interprete della madre del protagonista in “Spettri”.
I personaggi di Shakespeare, così completi e profondi, erano i preferiti degli attori ottocenteschi, così come
delle attrici, sebbene Shakespeare non avesse un ampio repertorio di personaggi femminili. La Ristori
pretese che le fosse adattato il copione di “Macbeth”. Per la Duse, Boito rivisitò “Antonio e Cleopatra”
mettendo in luce la figura della protagonista.
Gli attori alternavano i testi elevati, di ampio respiro culturale, a quelli più modesti di scrittori italiani, perché
in fondo, ciò che rendeva elevato un copione era il lavoro dell’attore, e il pubblico si recava a teatro
espressamente per ammirare la bravura degli interpreti che riuscivano a dar valore anche al più modesto
testo teatrale.
Rappresentanti stranieri.
Il teatro del grande attore avvolse l’intero panorama europeo tra fine ‘800 e inizi ‘900.
- Henry Irving attore inglese, interprete shakespeariano.
- Sarah Bernhardt attrice francese, protagonista de “La signora delle camelie” e tanti altri drammi scritti a
posta per lei.
Così come in Italia, anche in Francia e in Inghilterra nacque questa sorta di divismo attoriale, con attori che
condussero inevitabilmente all’esplosione dell’industria dello spettacolo. La Rivoluzione francese svincolò
l’attore dalla sua condizione di emarginato sociale, criticato dalla Chiesa, ribaltando la situazione, tant’è che
la folla acclamava questi nuovi divi e le autorità politiche elargivano loro premi e onoreficenze.
Tra fine ‘800 e inizio ‘900 convivevano “teatro del grande attore e teatro del regista”. Quest’ultimo
rappresenta una sorta di reazione, poiché fino ad allora si faceva teatro concentrandosi solo sull'attore.
Il primo impulso alla regia proviene dal piccolo ducato tedesco di Sassonia-Meiningen grazie al duca Giorgio
II che, appassionato di teatro, insieme al regista Ludwig Chronegk, fondò negli anni sessanta dell’800, la
compagnia chiamata “i Meininger”, attiva in Europa e in America fino a fine secolo.
Per la compagnia erano fondamentali il rispetto del testo, molte prove, la verosimilità dei costumi e delle
scene, l’adozione di tecniche avanzate di illuminazione, la cura delle scene di massa. La compagnia, a
differenza di quelle tipiche ottocentesche, composte da non più di una dozzina di persone, contava qui una
settantina di artisti, dove le parti principali ruotavano tra i vari attori, mentre tutti gli altri erano impegnati in
ruoli secondari e comparsate. Caratteristica essenziale dei Meininger era la disciplina e il controllo
sull’attore.
Nell’estate del 1888 l’attore e regista francese Andrè Antoine, fondatore del Théatre Libre (1887), è a
Bruxelles per seguire delle rappresentazioni dei Meininger; in quest'occasione si impose degli obiettivi per
la riforma del teatro. Primo tra tutti, l’impianto scenografico: in un teatro collettivo, ove anche i protagonisti
principali erano parte di una grande macchina complessiva ed unitaria, occorreva porre particolare
attenzione allo spazio e alla scenografia. Antoine, a tal proposito, fece riferimento ad alcune considerazioni
sul teatro di Zola. Gli attori dovevano essere collocati in uno spazio reale, credibile, per cui pensò bene di
costruire la scenografia anziché dipingerla, in modo tale che l’attore potesse non più solo rivolgersi verso il
pubblico, di fronte ad esso, e tenersi ben distante dallo sfondo, ma bensì potesse addentrarsi nella
scenografia, camminarvi all’interno, spostarsi, rendendo un effetto molto più realistico e d’insieme. In tal
modo, i gesti, le espressioni dell’attore, risultavano anche molto più naturali; l’attore non era più obbligato a
recitare protendendosi verso il pubblico, mostrando ad esso il suo volto, poteva anche girarsi di spalle,
muoversi, rendendo quindi la finzione più verosimile possibile.
Stanislavskij (fine ‘800) autore russo, è considerato il padre della regia moderna. E’ il fondatore, nel 1897,
del Teatro d’Arte di Mosca in cui confluirono i suoi allievi e molti bravi artisti. Stanislavskij eliminò tutto i vizi
dell’attore (ritardi, pigrizia, non perfetta conoscenza della parte) e rifiutò la gerarchia delle parti, quindi gli
attori potevano avere sia ruoli principali che comparsate. Erano preferiti gli attori emergenti, con grande
voglia di apprendere e perfezionarsi. A livello scenografico, vennero adottate le stesse scelte del Théatre
Libre. Venivano inscenate, nei primi anni, perlopiù rappresentazioni di carattere storico o di costume. Ciò
che colpisce di quegli anni è proprio l’insieme delle invenzioni registiche: coordinamento di scenari,
costumi, arredi, acustica, illuminazione e soprattutto poca esperienza degli attori. In prima istanza la
direzione registica di Stanislavskij si basava su un rapporto di sovrapposizione all’attore, e proponeva un
approccio al lavoro dall’esterno. Solo grazie all’incontro con la drammaturgia di Cechov, Stanislavskij fu
spinto verso una sorta di realismo interiore, eliminando lo stile enfatico e melodrammatico degli attori del
tempo e avvicinandosi ad un’atmosfera più intima e statica, così come quella delle scene di Cechov, con una
recitazione fatta di pause, silenzi, sussurri. Stanislavskij scoprì così l’assoluta centralità dell’attore su cui
andava costruito il testo, che passò in secondo piano rispetto all’attore stesso. Il rapporto di sovrapposizione
regista-attore divenne piuttosto di “accompagnamento”, il regista aiutava l’attore ad esprimersi, a tirar fuori
le sue potenzialità, collaborando con lui e non comandandolo.
Accanto al Teatro d’Arte, monumento del Naturalismo, Stanislavskij diede il via, nel 1913, ad una serie di
studi e riflessioni sull’arte attorica, delineando il “sistema”, ossia un codice recitativo espresso nei libri “Il
lavoro dell’attore su sé stesso” e “Il lavoro dell’attore sul personaggio”. In particolare Stanislavskij si
poneva il problema di evitare che l’attore, replicando la propria parte infinite volte, potesse cadere in cliché
meccanici. Secondo Stanislavskij (a differenza di Diderot che per la perfezione attoriale elogiava l’attore con
nessuna sensibilità emotiva), l’attore doveva essere coinvolto emotivamente, quasi commosso, per essere
ispirato; doveva calarsi totalmente nel personaggio ed immedesimarsi in esso, non solo recitarlo. Il
cosiddetto “metodo Stanislavskij” si basa proprio sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulla
ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore, sull’esternazione delle emozioni
interiori attraverso la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo.
Per ottenere la credibilità scenica il maestro Stanislavskij creò esercizi che stimolassero le emozioni da
provare sulla scena, dopo aver analizzato in modo profondo gli atteggiamenti non verbali e il sottotesto del
messaggio da trasmettere. Processo essenziale per l’interpretazione era la riviviscenza: ossia rievocazione,
da parte dell’attore, di un’esperienza analoga o simile al personaggio. Negli anni 30 però, a causa di alcune
polemiche e fraintendimenti del metodo, Stanislavskij rovesciò il suo metodo spostando la concentrazione
sulle azioni fisiche. Resosi conto che fissare i sentimenti era un’operazione complessa, il maestro pensò
bene di fissare le azioni fisiche; all'inizio delle prove non occorreva che gli attori conoscessero bene la loro
parte, bastava la conoscenza dell’intreccio e, scena per scena, avrebbero dovuto improvvisare su una serie
di azioni fisiche e, una volta studiate queste, si procedeva allo studio delle battute sulla base delle azioni
corporee studiate. Stavolta è la dimensione fisica a stimolare quella spirituale. Il teatro della parola si
trasformava quindi in teatro dell’azione fisica, del gesto, dell’emozione interpretativa dell’attore.
Inizialmente la figura del regista era quella di un operatore che dirigeva gli attori ma che lavorava per
l’autore, rispettando totalmente i testi. Solo in pieno ‘900, con l’apice dello sviluppo della figura del regista,
egli poté acquisire maggior libertà modificando e tagliando i testi a proprio piacimento.
In Italia la figura del regista si affermò con una settantina di anni di ritardo, ovvero verso i ‘40 del ‘900. Il
teatro del regista esigeva inoltre copioni nuovi non più ampio spazio al grande attore solista, né
l’artificiosa pièce ben faite della tradizione francese, fatta di intrighi e colpi di scena, bensì una struttura
d’insieme, con l’interazione di tutti i personaggi con tanto di approfondimento psicologico e, se necessario,
riduzione dell’azione. Era di conseguenza un teatro per un pubblico più maturo e colto, in comunione con la
nascita, negli stessi anni, della grande drammaturgia europea, in cui del resto autori come Ibsen, Strindberg,
Cechov si avvicinarono essi stessi alla regia, passando per direttori di teatro e gruppi sperimentali di attori o
compagnie di dilettanti.
Per molti critici, oltre ai registi, tra i padri fondatori della regia bisogna annoverare alcuni teorici. Tra questi,
alcuni consideravano la regia come evento puramente novecentesco:
- Adolphe Appia svizzero, noto soprattutto per le riflessioni sulla “Messinscena del dramma
wagneriano”, con proposte che puntano soprattutto sulla luce come elemento essenziale per lo spettacolo.
- Edward Gordon Craig inglese, insiste sulla centralità del regista e sul suo assoluto controllo sugli attori,
che sono dunque come marionette.
Entrambi furono anche registi, seppur di poco successo, ma diedero comunque un enorme contributo per
definire la realtà estetica dello spettacolo.
Altri studiosi consideravano invece la regia un evento di passaggio tra ottocento e novecento; essi associano
la sua nascita al francese Montigny che, a metà ‘800, diresse il Gymnase Dramatique di Parigi. Volendo però
si potrebbe associare la nascita della regia anche a testi pre-registici di autori come Vigny, Hugo e Dumas
padre. Di fatti intorno al 1830 questi autori cominciarono ad essere naturalmente portati verso le funzioni
registiche.
Legate ai primi anni del ‘900 furono alcune tendenze letterarie accomunate dal rifiuto della tradizione,
chiamate “Avanguardie storiche”. Tra esse ricordiamo il Futurismo, l’unico movimento di avanguardia
italiano fondato nei primi anni novecento dal poeta e scrittore Filippo Marinetti. Per la fondazione del
movimento Marinetti scrisse il “Manifesto del Futurismo”, contenente tutti i suoi principi. Caratteristica
principale di tale movimento fu la volontà di rottura con tutto ciò che appariva vecchio, obsoleto, romantico
e conformista. In esso si proclamava la fede nel futuro e nella civiltà delle macchine, si affermavano gli ideali
della forza, del movimento e della vitalità; si spronavano i letterati a comporre opere nuove, ispirate
all’ottimismo e ad una gioia di vivere aggressiva e prepotente. La loro necessità di liberarsi del passato e il
loro desiderio di incendiare musei e biblioteche vennero proclamate con enfasi e violenza: dall’esaltazione
del movimento si passò all’esaltazione della guerra, vista come espressione ammirabile di uomini forti e
virili. I futuristi sostennero la necessità dell’intervento nella prima guerra mondiale, aderirono all’impresa di
Fiume e ai primi sviluppi del fascismo. Per diffondere questo ideale i futuristi svolgevano particolari serate
durante le quali c’erano convegni teatrali a metà tra la rappresentazione e il comizio. Sempre Marinetti
scrisse infatti il “Manifesto dei drammaturghi futuristi” e “Il Teatro di Varietà”, quest'ultimo improntato
sull’esortazione di un teatro più versatile che includesse danza, cinema, giochi, e che coinvolgesse il
pubblico, il quale spesso reagiva anche in malo modo alle provocazioni degli artisti.
Qualche contatto con i futuristi (che non crearono comunque importanti modelli teatrali) lo ebbe Ettore
Petrolini, autore perlopiù di varietà e filastrocche derisorie sul sentimentalismo e l’idiozia umana.
Altro movimento fu il Dadaismo, fondato a Zurigo nel 1916 dal poeta Tristan Tzara originario della Romania;
il movimento si basava soprattutto sul rifiuto della guerra e delle assurdità della società fondata sulle regole
capitalistiche del profitto e del guadagno. Se l’Espressionismo era la denuncia sofferente della disumanità
del mondo e della guerra, il Dadaismo si caratterizza per un’opposizione più radicale e distruttiva, che non
risparmia nulla, nemmeno il concetto stesso di arte. Difatti il manifesto di Tzara dichiara a chiare lettere che
“l'arte non è una cosa seria”, non ha funzione positiva sulla vita quotidiana, come invece si pensava.
Un significativo testo dadaista è “Per favore” di Breton e Soupault, composto da tre atti unici in successione,
ove si alternano discorsi razionali a momenti di incomprensibilità e colpi di scena, e un quarto atto in cui si
assiste ad un intervento aggressivo del pubblico, interpretato dagli artisti stessi, sullo spettacolo. Questi
sono collocati negli spazi destinati al vero pubblico, spettacolarizzando dunque gli scontri pubblico-artista
tipici del periodo.
Inoltre, in occasione di alcune contese tra Tzara e Andrè Breton, nacque da quest’ultimo il Surrealismo,
movimento che cercava di dare corpo a tutti gli stati psichici che creano nell’immaginazione dell’uomo zone
di smarrimento o di “spaesamento”, come i temi forniti dal sogno, dal subconscio, dal caso, dalla follia.
Anche in Russia presero piede le Avanguardie, che tendevano a valorizzare al massimo l’intervento del
pubblico, a coinvolgere anche coloro che non erano attori, tentando di abbattere la barriera attore-pubblico.
Ad esempio, nel terzo atto de “Il bagno” di Vladimir Majakovskij, viene introdotto il meta teatro (teatro nel
teatro); si assiste ad una sorta di prolungamento della platea quando un burocrate, che nega finanziamenti
ad uno scienziato, deriso nei primi due atti, si riconosce nella vicenda a cui ha assistito, così irrompe sul
palco e discute con il regista (tutto questo fa parte dello spettacolo stesso). Ancora una volta quindi vi è il
tentativo del teatro di coinvolgere direttamente il pubblico e di irrompere nella vita di tutti i giorni.
Di fede inizialmente surrealista è invece Antonin Artaud; attore, regista e drammaturgo, nonché visionario
del teatro. E’ l’autore del libro “Il teatro e il suo doppio”, incentrato sulla natura del teatro. Artaud insisteva
sulla globalità della realtà dello spettatore (corpo e spirito), per cui la sua esigenza era di un teatro globale,
capace di far parlare i gesti, gli oggetti, i suoni, lo spazio, che potesse agire sui nostri nervi e sulla nostra
pelle. Un teatro totale, da lui definito teatro della crudeltà.
LUIGI PIRANDELLO
Nei decenni delle avanguardie storiche, massimo drammaturgo del novecento fu lo scrittore Luigi
Pirandello. Del 1921 è il suo grande capolavoro “Sei personaggi in cerca d’autore”, appartenente alla fase
di produzione del teatro nel teatro: per Pirandello infatti il teatro deve parlare anche agli occhi non solo alle
orecchie. A tale scopo ripristinerà la tecnica Shakespeariana del palcoscenico multiplo, in cui possiamo
assistere a più scene contemporaneamente (come se il palco fosse diviso in più stanze). Inoltre Pirandello
abolisce anche il concetto della quarta parete, ossia quella parete trasparente che sta tra gli attori e il
pubblico: in questa fase infatti Pirandello tende a coinvolgere il pubblico che non è più passivo ma che
riconosce la propria vita in quella degli attori sulla scena.
Con questo capolavoro Pirandello ricevette numerose critiche per la sua completa distruzione del “teatro
del salotto borghese”. Difatti entrando nel teatro, gli spettatori trovano il palcoscenico non coperto dal
sipario, al buio e vuoto, quasi in via di allestimento. La rappresentazione inizia con l’entrata del direttore-
capocomico, seguito dagli attori, che entrano alla spicciolata. Era in programma, infatti, la prova de “Il
giuoco delle parti”, altro dramma di Pirandello. Dopo l’inizio della prova, vengono annunciati i sei
personaggi (Padre, Madre, Figliastra, Bambina, Giovinetto, Figlio) che chiedono che venga rappresentata
sulla scena la loro situazione. Egli spiega al capocomico come, dopo essere stati creati da un autore, siano
stati rifiutati ed abbandonati da questo nonostante i numerosi tentativi di convincerlo a terminare il
dramma. Essi, quindi, sono in cerca di un autore che possa rappresentare sulla scena la loro storia.
Della fase metateatrale fa parte anche “Ciascuno a suo modo”, storia simile a “Il bagno” di Majakovskij,
dove i finti spettatori, ritrovandosi nelle vicende dei personaggi, salgono sul palco a protestare. Con la
differenza che, per Majakovskij la vita irrompe nel teatro per tentare di cambiare sé stessa, in Pirandello la
vita irrompe nel teatro solo per riconoscere la superiorità di quest’ultimo. Per lo scrittore l’arte aveva la
capacità di intuire l’inconscio dell’uomo, funzionando come una sorta di psicanalisi. Pirandello infatti,
mantenendosi sulla linea della tradizione rispetto alla rottura delle avanguardie, che miravano a spezzare
l’involucro dell’arte per far emergere la realtà, fino agli anni ’30 si teneva saldamente ancorato
all’autosufficienza e al valore dell’arte. Le cose cambiarono con la direzione romana del Teatro dell’Arte. Qui,
riscrivendo alcuni suoi testi, tra cui i Sei personaggi e Ciascuno a suo modo, si aprì alle avanguardie,
innescando il meccanismo di interazione e mescolamento attori-platea. La stessa cosa avvenne per l’ultima
opera della trilogia del metateatro, ovvero “Questa sera si recita a soggetto”, scritta a Berlino dove
Pirandello lavorò come sceneggiatore e dove cercò di imparare i segreti del mestiere di regista.
Pirandello scrisse anche una serie di drammi borghesi, sul filone dei drammi di Giacosa, che analizzavano
l’inconscio dei suoi personaggi.
Molti dei suoi copioni erano scritti “su misura” per l’attore Ruggero Ruggeri, per cui scrisse opere come “Il
giuoco delle parti” e “Enrico IV”, ritratti di un uomo solo, colto, ostile alla massa di meschini e rozzi, pronto
a contendersi una donna che gli sfugge.
Per quanto riguarda la figura della donna, Pirandello rievoca la figura di due donne estreme: la madre santa,
secondo gli archetipi siciliani, e la donna frivola. Verso gli anni trenta, grazie alla sua musa, l’attrice Marta
Abba di cui era anche innamorato, mise a punto un teatro al femminile che riunisse anche i due poli della
donna pirandelliana: la figura della Abba è al centro dell’attenzione, e incarna in sé da un lato la donna
sensuale ed ammaliatrice, dall’altro la donna dotata di grandi virtù. Viene però rievocato, indirettamente, il
tabù dell’amore impossibile, di un uomo sessantenne (appunto Pirandello) verso una fanciulla (la
venticinquenne Abba), dando anche l’idea di amore incestuoso (rievocato poi anche nei sei personaggi) di
una figura paterna verso una fanciulla che potrebbe essere sua figlia.
GABRIELE D’ANNUNZIO
In quel periodo, un tentativo di teatro di poesia fu messo a punto da Gabriele D’Annunzio, ma con poco successo,
nonostante avesse come musa ispiratrice l’attrice, nonché sua compagna per alcuni anni, Eleonora Duse.
Un’eccezione è il sua capolavoro “La figlia di Iorio”, crudo documento della società patriarcale. Suggestiva è
anche la “Fedra”, rivisitazione del personaggio greco
SECONDO NOVECENTO ITALIANO: L’AVVENTO TARDIVO DELLA REGIA E TARDI EPIGONI DEL GRANDE
ATTORE
In Italia la regia giunse in ritardo, nel 1932 quando il giornalista teatrale e funzionario ministeriale Silvio D’Amico
introdusse la parola “regista”. Fino a quel momento si coniava il termine francese “metteur en scène”, e
comunque mancava la vera e propria professione del regista. Il ritardo fu dovuto al fatto che, dato che l’iniziale
regia presupponeva la subordinazione dell’attore, in Italia, paese del Grande Attore e della Commedia dell’Arte,
aveva alle spalle una grande storia di protagonismo attorico e non ne accettava la subordinazione. Del resto, il
teatro italiano proseguiva soprattutto per generazione (figli d’arte) quindi difficilmente si era sottoposti ad altri.
Inoltre, la regia poggiava molto sulla grande drammaturgia di fine ‘800, che in Italia era scarsa. Il teatro della regia
in Italia, nel secondo dopoguerra, era guidato dal realismo, dall’attenzione allo spessore sociologico dei testi che
vengono messi in scena. A tal proposito, Goldoni divenne emblema della regia italiana.
Principali esponenti
Silvio D’Amico, fondò nel 1935 e con l’aiuto del regime fascista, l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica,
proprio perché comprese che l’Italia avrebbe potuto eguagliare il resto d’Europa solo abbandonando il teatro del
Grande Attore e promuovendo la regia, ma comprese anche che il regista, per affermarsi, aveva bisogno di attori
volenterosi, disciplinati e sottomessi, che la scuola poteva forgiare.
Luchino Visconti, si qualificò subito per una nuova disciplina del lavoro attorico.
Eliminò il suggeritore, impose lunghe prove a tavolino. Nel 1945 diresse la compagnia di Rina Morelli e Paolo
Stoppa, in cui si forgiarono le punte di diamante della Compagnia dei Giovani del 1954.
Visconti scoprì il talento di grandi attori italiani, come Vittorio Gassman, interprete, tra le altre rappresentazioni,
di “Oreste” di Alfieri, del 1949, provocatoriamente barocco e pieno di adornamenti. Inoltre valorizzò compagnie
private con cui realizzò molte rappresentazioni. Oreste, così come la rappresentazione della “Locandiera”
goldoniana diretta da Visconti, furono criticare da D’Amico, specie per quanto riguarda la seconda, che accusa
erroneamente di poco realismo. In realtà il realismo goldoniano si sviluppa proprio a partire dalla Locandiera, che
Visconti diresse magistralmente, rendendola più veritiera possibile soprattutto attraverso la scenografia, ricca di
dettagli e perfetta nella cura dei particolari, che rispecchiava temi di pulizia, ordine, efficienza gestionale,
rispecchiati a loro volta nella figura di Mirandolina.
Giorgio Strehler ,fondatore nel 1947, del Piccolo Teatro di Milano. Cominciò la sua carriera con uno
spettacolo goldoniano, “Arlecchino servitor di due padroni”, che esaltava perlopiù la Commedia dell’Arte.
Nell’anno di fondazione del Teatro, Strehler sentì il bisogno di valorizzare le radici del teatro italiano, e lo fece
rappresentando la goldoniana “Trilogia della villeggiatura”, ricostruzione del ceto borghese al tramonto in crisi
politica e morale. I personaggi goldoniani appartengono al periodo che precede la Rivoluzione francese, sono
caricatura del ceto mercantile veneziano divenuto ozioso e desideroso di imitare le mode aristocratiche.
Altra rappresentazione significativa di Strehler è “Il giardino dei ciliegi”. Strehler, oltre che per il suo impegno
politico e morale, è ricordato anche per la vena lirico-sentimentale e per la capacità di illustrare atmosfere e
paesaggi. Ad esempio, la “Trilogia della villeggiatura” è anche una storia d’amore infelice di Giacinta promessa ad
uomo mentre ne ama un altro. Anzi, Strehler rafforza ulteriormente la dimensione sentimentale della vicenda,
sottolineandone alcuni passaggi ed enfatizzandone il linguaggio, che assume un tono melodrammatico ed
introduce l’idea di vero amore che manca nel razionalista Goldoni, e che in scena è evidente anche attraverso
alcuni piccoli gesti. Tuttavia, in scena è sempre presente la discrezione dei personaggi che, nonostante l’enfasi,
controllano perfettamente le passioni, sottomesse alla ragione.
Mario Missiroli (vivente) regista discontinuo, direttore del Teatro Stabile di Torino (1977-1985). Anche lui
direttore della “Trilogia” goldoniana. E’ un grande innovatore della scenografia.
Non ci sono ambientazioni realistiche, come previsto da Goldoni, ma un palcoscenico circolare, vuoto e inclinato
verso il pubblico. Inoltre, la sua “Trilogia” è ben diversa dalla compostezza di Strehler, qui vengono immessi molti
riferimenti all’amore carnale, passionale, quasi violento, attraverso la soppressione di monologhi e dialoghi più
sentimentali e l’enfasi di alcune scene, come quando la protagonista viene sbattuta contro il cancello (in questo
caso unico elemento scenografico) dall’amato mentre il promesso si trova ad assistere alla scena del tradimento,
o il bacio quasi violento che il promesso sposo da sul collo a Giacinta.
Massimo Castri , dirige una “Trilogia” distinta in tre serate, a differenza di Strehler e Missiroli ,la sua
scenografia è più piena rispetto a quella di Missiroli, ma è enfatizzata in alcuni tratti, dilatata, secondo il gusto
espressionista (che deforma le scenografie per cogliere la realtà con l’occhio interiore, così come la percepisce
l’artista) come per sottolineare alcune allusioni sociali e culturali dei protagonisti (es. le mura della casa sono
altissime, come per indicare i borghesi villeggianti prigionieri delle loro manie).
In Castri la dimensione dell’origliamento è fondamentale, soprattutto quando mette in scena Ibsen e Pirandello,
ma viene qui applicata anche a Goldoni, attraverso differenti espedienti (es. c’è una scena in cui due ragazzini
spiano, da dietro un lenzuolo, gli amanti protagonisti mentre amoreggiano, o il promesso che qui spia la scena del
tradimento). I personaggi di Castri sono più discreti di quelli di Missiroli, ma sicuramente meno composti di
Strehler, che si mantiene più vicino al testo originale, mentre in Castri e Missiroli vi sono alcune modifiche: ad
esempio, in entrambi, il promesso scopre il tradimento, anche se in modi diversi; ma mentre in Missiroli il
promesso è furibondo, in Castri deve accettare amaramente il tradimento poiché, essendo economicamente
rovinato, deve riuscire a farsi sposare da Giacinta.
La dimensione sociologica e psicologica dei personaggi è essenziale in Castri.
Luca Ronconi (vivente) sembra estraneo ai coinvolgimenti storici, si immedesima nel genio teatrale a cui tutto
è concesso e si dedica a continui sperimentalismi, soprattutto per quanto concerne la dimensione spaziale-
comunicativa. Un emblema è l’ “Orlando furioso”, adattato insieme al poeta Edoardo Sanguineti nel 1969 dove le
azioni erano organizzate in simultanea su più palcoscenici e pubblico era libero di spostarsi.
O ancora “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Kraus, con utilizzo di treni e macchine belliche.
Ronconi rispetta il testo, ma lo organizza secondo un suo spazio personale, inedito, imprevisto.
Ronconi ha diretto, nel 2007, anche un’opera minore di Goldoni, “Il ventaglio”, che fu anche bersaglio di critica,
ove si narra di Candida che fa cadere il suo ventaglio, rompendolo, cosicché il borghese Evaristo, innamorato di
lei, gliene compra un altro e chiede ad una contadina di portarlo alla donna, che però da lontano vede la scena e
immagina che tra i due vi sia una storia. Da qui una serie di equivoci fino al lieto fine. Ronconi però carica tutte le
scene di incontro tra Evaristo e la contadina, enfatizzandone l’aspetto dell’eros, che tra l’altro il ventaglio
simboleggia (strumento per ventilare i bollori, che Candida fa cadere probabilmente perché il suo Evaristo non era
attratto dal contatto, era un corteggiatore molto spirituale e molto dedito alla caccia per cui trascurava anche le
donne, anche se sembrava poi essere attratto dalla condatina, di questa situazione approfitta un barone, anch’egli
innamorato di Candida).
Sviluppi
Il teatro di regia si accompagnava alla fondazione dei teatri pubblici, detti anche teatri stabili, in opposizione alle
compagnie itineranti. Anche in Italia si riconosceva il valore culturale dello spettacolo, che doveva essere
incoraggiato e sostenuto dal denaro pubblico, tant’è vero che proprio gli stati totalitari (Germania nazista, Italia
fascista, Russia comunista), furono i primi ad investire nella cultura, dato che il teatro si rivelò valido strumento di
propaganda.
Invece gli stati democratici e liberali restavano neutrali di fronte all’iniziativa privata, dal momento in cui il teatro
era considerato un’attività commerciale come un’altra. Tuttavia, nel corso del ‘900, soprattutto a causa della crisi
economica del 1929, anche l’Occidente capitalista cominciò a pensare che l’intervento statale potesse essere utile
per limitare i danni delle crisi. Pertanto si affermò il teatro come servizio pubblico, sostenuto economicamente.
Nel 1968 altro evento importante fu la nascita del teatro d’animazione, teatro essenzialmente per bambini, che
aveva scopo riformistico.
Questo avvenne soprattutto nelle scuole del Centro-Nord, ove i docenti utilizzavano il linguaggio non verbale del
teatro per sviluppare le potenzialità creative degli studenti.
Tuttavia, la novità della regia, non eliminò la tradizione del grande attore ottocentesco. Un esempio è Vittorio
Gassman, esponente dell’Accademia d’Arte Drammatica e interprete di Visconti, dal corpo e voce possenti, presto
però si dedicò al cinema.
Eduardo De Filippo ,grande autore ed attore appartenente alla tradizione, figlio naturale dell’attore ed autore
Eduardo Scarpetta. Inizialmente autore, recitava improvvisando, basandosi perlopiù su canovacci. Eduardo mette
in scena il sentimentalismo buonista, la vita materiale dei popolani e dei piccoli borghesi napoletani, tra piccole e
modestissime camere da letto o miseri bassi, caratteristiche case napoletane.
Dario Fo (vivente) attore ed autore influente nei ’60, con commedie di satira politico-sociale dal punto di vista
dell’appartenenza alla sinistra del Partito Comunista, compromesso dal sistema capitalistico. Spesso, la grandezza
scenica di Fo prevale sulla qualità della scrittura. Se Eduardo lavorava con la maschera facciale, espressione della
sua umanità sofferente, Fo lavora teatralmente con tutto il corpo, è un eccezionale mimo che non ha bisogno di
co-protagonisti. Ad esempio, il “Mistero buffo” del 1969 è emblema del one-man show. Nel 1999 ha ricevuto il
Nobel per la letteratura.
Carmelo Bene, massimo esponente della neoavanguardia italiana dei ’60 e ’70 (teatro di ricerca o di
sperimentazione) con una grande distinzione da essa. La neoavanguardia di quel periodo puntava sul linguaggio
non verbale, valorizzava cioè il linguaggio del corpo, dei gesti, dei suoni, dei colori, della scenografia. Bene invece
puntava molto sulla potenza di voce, sulla ricchezza timbrica, che del resto possedeva, e portava avanti la
sperimentazione sulla voce anche attraverso l’uso di impianti di amplificazione fonica. Per quanto riguarda il
testo, Bene prestava attenzione ad esso ma lo riadattava, come per molti testi di Shakespeare da lui messi in
scena, tra cui “Amleto”, “Otello”, “Romeo e Giulietta”, “Macbeth”. E’ stato considerato l’ultimo grande
rappresentante della tradizione del grande attore.
In opposizione all’industria dello spettacolo, processo di mercificazione del teatro, visto come prodotto da usare
per di svago e mondanità, si oppose ben presto una vena teatrale che tentava di recuperare un rapporto reale di
partecipazione fra artisti e pubblico, riproponendo la funzione rituale dello spettacolo, l’abbattimento della
barriera attore-spettatore. La prima espressione di questo rinnovamento si ebbe negli Stati Uniti. Nel 1959 nacque
l’happening (avvenimento) un tipo di spettacolo che rifiuta l’idea di palcoscenico quanto l’idea che tutti gli
spettatori vedano la stessa cosa. Infatti, nell’happening, ciò che vedono alcuni è diverso da ciò che vedono altri;
qualsiasi spazio è adatto per questo spettacolo, che inoltre si presenta come improvvisato e che eclissa il dialogo a
favore dei gesti, dei suoni e dei movimenti. A livello di spazio, non si usava il classico contenitore a priori (come la
scena all’italiana), lo spazio diveniva componente dello spettacolo, ed ognuno aveva il suo spazio, sempre diverso.
Potevano essere garage, chiese, aule scolastiche, cantine, abitazioni private ecc. altro fattore importante, fu la
rottura, stavolta concreta, della barriera, permettendo così al pubblico di interagire. L’affermazione
dell’happening si ebbe a New York con “The Connection” di Gelber, primo importante successo del Living Theatre,
fondato nel 1947 dall’attrice e regista Judith Malina (vivente) e dall’attore Julian Beck.
I due artisti presero ampio spunto dal teatro della crudeltà (che vuol dire anche rigore, applicazione,
determinazione) di Artaud e dal suo testo “Il teatro e il suo doppio”. Nacque un’immagine di vita diversa, un
gruppo di persone si riuniva e si spostava di paese in paese per fare teatro, e insieme faceva anche varie
esperienze esistenziali.
Principali esponenti
Peter Brook (vivente) regista inglese, altro grande sciamano della scena contemporanea. Inizialmente
lavorò sia nel teatro commerciale che presso le istituzioni culturali della Gran Bretagna, mettendo in scena
soprattutto Shakespeare ed accostandosi ad Artaud. Negli anni ’60 ci fu la svolta. Brook si trasferì a Parigi e lì
fondò il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale. Cominciò ad allontanarsi dalle istituzioni teatrali e ad incentrare
i suoi studi sulle radici del teatro e sull’arte attoriale. Interessandosi principalmente al rapporto con il pubblico,
Brook cominciò a lavorare con una troupe di attori di varia nazionalità, razza, lingua, girando nei posti più
impensabili e disparati. Nei ’70 si insediò in un vecchio teatro abbandonato di Parigi, ove si dedicò alla
rappresentazione di opere incentrate soprattutto sulla centralità attorica, come “Mahabharata”.
Jerzy Grotowski regista polacco e fondatore del Teatro Laboratorio nel 1959, nonché maggior
rappresentante di questo movimento innovatore. Grotowski partì da una riflessione sulla progressiva perdita di
identità del teatro, nel ‘900, oscurato da cinema e televisione. Secondo l’autore, il teatro doveva effettivamente
ammettere la sua inferiorità tecnologica rispetto ai due concorrenti, ed accettarsi come teatro povero per poter
ritrovare la propria specificità rispetto a cinema e tv, che costituisce innanzitutto per la presenza viva dell’attore.
Tramite questa riflessione, Grotowski giunse alla conclusione che il teatro poteva esistere senza apparato
tecnologico e senza testo. L’apice di questa riflessione la si ritrova nel suo ultimo spettacolo, “Apokalypsis cum
figuris”, privo di struttura drammaturgica. In Grotowski il testo è costituito anche dalle azioni fisiche dell’attore, lo
spettacolo si costruisce infatti a partire dal rapporto con l’attore e non a partire dal testo. La regia nasceva al
servizio del testo, ma per questi “sciamani” ciò che contava era l’incontro (regista-attore e attore-spettatore), che
poteva scattare anche senza testo. Ed era questo concetto su cui Grotowski costituì il suo concetto di spazio: nel
suo testo “Per un teatro povero”, Grotowski afferma la diversità del teatro, che consiste proprio nella presenza
viva dell’attore, che non deve stare su un palco ma molto vicino allo spettatore, affinché questi possa percepirne
tutta la sua presenza; da qui la necessità di un teatro da camera. Alle rappresentazioni del Teatro Laboratorio gli
spettatori non superavano la cinquantina, l’incontro mirava alla concezione di teatro come esperienza di vita e di
lavoro su sé stessi, attraverso l’arricchimento spirituale, come una sorta di percorso gnostico.
Il capolavoro di Grotowski è “Il principe costante”, del 1965, adattamento di un testo di Calderòn de La Barca.
Narra di un principe portoghese, Fernando, fatto prigioniero dai Mori, che preferisce la morte piuttosto che l’isola
di Ceuta, patria cristiana, venisse ceduta agli infedeli secondo le condizioni di riscatto dettate da suo fratello. Il
principe è appunto costante nella propria fede, anche se Grotowski elimina il contrasto tra religione cristiana e
musulmana facendo piuttosto trapelare il contesto sociale, intriso di violenza e spirito di sopraffazione, cui si
contrappone la disarmata resistenza passiva di un uomo. Grotowski inscena la rappresentazione in uno spazio
rettangolare, delimitato da una staccionata oltre la quale ci sono gli spettatori, che assistono alla scena dall’alto
verso il basso.
L’essenza dello spettacolo è l’affinamento della ricerca sul corpo dell’attore protagonista. Il più celebre degli attori
grotowskiani è Ryszard Cieslak. Il tema dell’incontro riguarda innanzitutto la coppia regista-attore. Il regista scelse
Cieslak per interpretare “Il principe costante”, e provò da solo con lui per mesi. Per gli attori Grotowsky inventò il
training, allenamento vocale e fisico per controllare maggiormente gesti, movimenti e timbri vocali.
L’influenza di Grotowski sulla scena contemporanea è stata intensissima, seppur breve; infatti il Teatro
Laboratorio durò meno di un decennio, da “La tragica storia del dottor Faust” del 1963 all’ “Apokalypsis” di
Grotowski del 1969. Nel ’70 decise di ritirarsi dalle scene, perché aveva sempre considerato il teatro come
un’avventura, una sperimentazione, nonostante ciò continuò, per 30 anni, ad effettuare molti esperimenti teatrali
e parateatrali, seguendo la scia della passione psichiatrica che aveva da giovane.
Eugenio Barba (vivente) grande allievo italiano di Grotowski emigrato in Scandinavia, ove seguì l’attività di
Grotowski e ad Oslo fondò, nel 1964, l’Odin Teatret (poi la sede fu spostata in una cittadina danese), riunendo
attori rifiutati dalle tradizionali accademie. Era un teatro di outsiders, di autodidatti, che riuscì ad imporsi
partendo da una condizione marginale di inferiorità, soprattutto a livello linguistico. Il primo grande successo del
gruppo, risalente ai ’70, che lo portò ad una lunga tournée, è “Min Fars Hus” (“La casa di mio padre”), incontro tra
la personalità dello scrittore russo Dostoevskij e il gruppo di Odin; gli attori, durante le lunghe prove, prendevano
spunto dalla vita e le opere dello scrittore per improvvisare. Tale opera fu un evento perché non esisteva il testo
scritto. Il contenuto era astratto, non c’erano vere e proprie sequenze narrative, vengono riportate sequenze che
riportano alla biografia dello scrittore o a frammenti delle sue opere.
Ma ciò che conta nell’opera è la fascinazione dei modi di comunicazione teatrale. Barba predispone uno spazio
scenico rettangolare, vi è un continuum sonoro che si apre con l’ingresso di due musici, che risulta qui spezzato da
silenzi, qui alternato a cori e cantilene, e finisce con il suono delle monete scagliate contro uno degli attori.
Singolari anche i giochi di luce e buio, con candele e fiammiferi. All’indomani di quest’opera, Barba attuò la pratica
del baratto culturale, idea nata durante il soggiorno dell’Odin Teatret in alcuni piccolissimi paesi dell’Italia
meridionale, e soprattutto del Salento.
L’Odin offriva i suoi spettacoli e la gente del luogo contraccambiava con canzoni, danze, narrazioni attinenti alla
propria storia locale. In alcune situazioni particolari, come in America Latina, questi interventi avevano anche
grande significato politico, in opposizione alle dure dittature allora dominanti. Fu proprio Barba a lanciare nel
1976 il manifesto del Terzo Teatro (terzo fra industria dello spettacolo da un lato e teatro dell’avanguardia
dall’altro), che seguì molto i giovani e le ribellioni di allora. Il senso ultimo degli spettacoli di Barba è la carica
passionale e lirica di cui sono intrisi; i suoi spettacoli più riusciti sono frammenti poetici, che comunicano
attraverso immagini e suoni, è un teatro molto musicale, giocato sui contrasti tra suoni e melodie, e che ha
reminescenze paesaggistiche del meridione italiano.
Tadeusz Kantor di filone differente dai precedenti, artista polacco, che fu anche pittore e scenografo,
nonché organizzatore di happenings. Il successo arrivò tra ’70 e ’80 con i suoi capolavori “La classe morta” e
“Wielopole-Wielopole”, di impianto comunicativo perlopiù classico, di grande carica emotiva. Non siamo più nella
dimensione dell’evento e del lavoro sull’attore, qui ci si trova di nuovo nella dimensione dello spettacolo.
In particolar modo, “La classe morta” ha una struttura molto semplice: una serie di banchi di scuola attorno a cui
vi sono dei vecchi vestiti di nero che, sulle note di un valzer, danzano e brindano, ma che al cessare della musica
stanchi si bloccano, si spengono. Rappresenta i ricordi e le memorie in cui affiorano immagini di un’antica
scolaresca, tra giovinezza, vigore, passioni. I personaggi appaiono come vecchi impegnati a sorreggere fantocci di
loro stessi, dei fanciulli che furono. In Kantor vi è la concezione della necessaria presenza del manichino in teatro
e la scelta di definire il proprio attore come organismo unitario, sintesi del suo corpo e di un suo prolungamento
materiale, in cui la realtà dell’oggetto limita l’attore, lo priva della sua capacità emotiva. L’attore, condannato a
convivere con una sorta di protesi del suo corpo, la trascina come un fardello e ne assume la rigidità. Altra
peculiarità è l’intervento del regista sul palcoscenico, che assume sempre movenze ed atteggiamenti diversi
rispetto a tutti gli altri attori, lui è più naturale, quasi mai frontale al pubblico. Sembra una sorta di servo di scena,
controlla gli attori, sposta i manichini, corregge i dettagli; ma con movimenti decisi assume anche una sorta di
ruolo di direttore orchestrale e scenico. Alla fine dello spettacolo non tornava sul palco a ricevere gli applausi, le
sue erano come provocazioni, trasgressioni dettate dall’amore di stare sul palco. Ma, attraverso questa tecnica,
Kantor svela la finzione, impedisce all’attore di prendersi troppo sul serio, lasciandosi trascinare dall’emozione.
Kantor è stato considerato come il “padrone di casa” de “La classe morta”, non è né attore né direttore
d’orchestra, eppure è sul palco, come se egli stesso, nel corso dello spettacolo, materializzasse i suoi fantasmi, i
suoi ricordi. Importante, nell’opera, è l’aspetto sonoro, soprattutto la musica, che nasce dal nulla, dal silenzio,
lentamente, quasi a fatica. La musica qui non assume un ruolo secondario, da colonna sonora, al contrario essa è
colonna portante delle immagini, che sono un prolungamento musicale, che concretizzano emozioni profonde.
Riprendendo l’aspetto musicale, tutto “Wielopole-Wielopole” di basa sull’alternanza di 4 motivi, una percussione
di bastoni, il Salmo 110 (pieno di metafore tratte dal mondo della guerra ma che riprende anche la centralità che il
tema della Croce e della Passione hanno nell’opera), una marcia militare e una melodia tratta da uno scherzo di
Chopin.
Per la sua costante presenza sul palcoscenico, Kantor ha ricevuto anche molte critiche, soprattutto è stato
accusato di megalomania. In realtà la sua presenza ha forte valore simbolico, in quanto evidenzia la presenza
preminente del regista nel teatro del ‘900, la sua presa di possesso del palco per sottrarlo agli attori. Il regista qui
non solo dirige gli attori, ma lo fa stando sul palcoscenico, non dietro le quinte. E non mette più in scena testi di
autori, è lui stesso autore.