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Nacque a Cinocefale, presso Tebe, tra il 522 e il 518 a.C.

, discendente della nobilissima famiglia


dorica degli Egidi (Αἰγεῖδαι) originari di Sparta e fondatori del culto gentilizio di Apollo Carneo,
originaria della Beozia. Sarebbe stato un cantore dell'aristocrazia dell'epoca, allievo della poetessa
Corinna e rivale di Mirtide[1]: poeta itinerante, viaggiò a lungo e visse presso sovrani e famiglie
importanti, per le quali scrisse.

I componimenti di Pindaro sono organizzati in linea generale secondo lo schema seguente:


l'occasione della vittoria e la celebrazione del vincitore; il racconto di un mito, variamente connesso
con la stirpe dell'atleta vincitore o con il suo paese di origine; infine la riflessione etica (gnóme), che
inquadra l'evento contingente in una meditazione più vasta intorno al destino dell'uomo.

Conformemente alla sua adesione all'etica aristocratica, Pindaro ritiene che l'areté (ossia il valore)
sia innato nell'uomo, retaggio di sangue e di stirpe, non acquisibile con la disciplina o l'esercizio:
del valore è espressione l'eroe del mito e, sul piano umano, l'atleta vincitore. Nel significato anche
religioso che assume nella Grecia classica l'evento sportivo, la realtà umana si proietta sullo sfondo
luminoso del divino, che il poeta intende liberare da ogni possibile contraddizione e contaminazione
del male. Il mondo concettuale di Pindaro non si esprime in una tessitura di passaggi logici, ma si
rivela in una serie di immagini concentrate e possenti, di impervia sublimità. Esse sono allineate
talora senza precisi raccordi, secondo un gusto di trapassi repentini (di qui la qualifica, poi divenuta
espressione comune e generica, di voli pindarici).

La lingua di Pindaro è, come in tutta la lirica corale, il dialetto dorico, intessuto di reminiscenze
epiche e di forme eoliche.

L'imitazione di Pindaro nelle letterature moderne, sganciate dalla tradizione medievale,viene


innescata dalla pubblicazione delle Odi, stampate nel 1511. Esse furono subito imitate in lingua
italiana da Trissino, dall'Alamanni e da A. Minturno; in latino da Benedetto Lampridio - tutti autori
accomunati dalla ricerca umanistica oltreché dalla traduzione e dall'interesse editoriale di testi
classici.

Da Lampridio procedono le odi latine di J. Dorat, che fu maestro a Ronsard; le poesie


dell'Alamanni, passato alla corte di Francesco I, furono pubblicate in Francia; di qui l'interesse
rinnovato per le innovative modalità liriche e metriche giunse alla Pléiade e alle odi pindariche di
Ronsard (1550-52). Da questo, più che dai precursori italiani, mosse G. Chiabrera; e la lirica grave e
solenne di A. Guidi, di V. da Filicaia, di B. Menzini tentò più volte i modi pindarici.

Ricordiamo poi i 'metafisici' inglesi J. Dryden, J. Oldham e l'antesignano A. Cowley,. La Germania,


che aveva avuto ben presto dalla scuola di Melantone la traduzione latina, contò pure numerosi
imitatori, a cominciare da M. Opitz, fino a J. C. Gottsched e a K. W. Ramler.

Il pindarismo francese vanta nel sec. 18° il nome di P.-D. Écouchard-Lebrun, che fu detto Lebrun-
Pindare; nella poesia spagnola, meritano ricordo le odi di W. Fernández de Moratín. All'imitazione,
che troppe volte si riduce a uno studio di congegni metrici e formali, attraverso cui la finzione
retorica dà l'illusione di sentimenti eroici, si viene ad aggiungere un pindarismo in senso più vago e
più lato, che venne di volta in volta riconosciuto nelle espressioni più elevate della lirica moderna,
da Goethe a Wordsworth, da Foscolo a Leopardi. Più diretta impronta delle odi di Pindaro si
osserva, fra i poeti tedeschi, in Hölderlin e Von Platen; fra gli inglesi, in C. Patmore.

Pindaro trascorse, in effetti, diversi anni in Sicilia, in particolare a Siracusa ed Agrigento, presso i
tiranni Gerone e Terone. Fu appunto in Sicilia che incontrò altri due celebri poeti greci Simonide di
Ceo e Bacchilide, suoi rivali nella composizione[2]. In forma maggiore rispetto a questi, Pindaro - di
spirito religioso e profondamente devoto alle tradizioni aristocratiche - infuse nella sua opera quella
concezione religiosa e morale della vita che gli permise - è il parere di molti critici - di mettersi alla
pari, nei versi che scriveva, con l'eroe celebrato, anche nel caso si trattasse di un potente tiranno: il
senso di questa operazione era che, mettendo in luce - immortalandola, appunto - l'impresa
dell'eroe, il poeta poteva educare le nuove generazioni perpetuando gli antichi valori grazie alla
forza della conoscenza data dagli scritti (in greco γνώμη).

Secondo le fonti, Pindaro, anche se, su commissione, accettò di dedicare ad Atene un carme[3];
tornato, infine, a Tebe, vi morì nel 438 a.C., reclinando il capo sulla spalla dell'amato Teosseno[4].

La grandezza di Pindaro è testimoniata anche da un aneddoto di età ellenistica: si narra che, quando
nel 335 a.C. Tebe fu rasa al suolo, Alessandro Magno ordinò che venisse salvata soltanto la casa in
cui si diceva fosse vissuto il poeta in onore al significato che i versi di Pindaro avevano per il
popolo greco e che ai suoi discendenti fosse risparmiata la riduzione in schiavitù, destino che toccò
invece alla stragrande maggioranza dei Tebani sconfitti[5].

Poi le conseguenze della politica familiare degli Egidi (Αἰγεῖδαι), sostenitrice del potere spartano
assieme agli Alcmeonidi, gli rese difficile la permanenza in Grecia: molte comunità greche non
parteciparono alle guerre contro la Persia iniziate nel 490 a.C.e tra di loro i Greci di Delfi e di Tebe
(in Beozia, la terra natale di Pindaro). È un periodo di grandi epurazioni politiche; si succedono fatti
come la prigionia e morte di Milziade e l'esilio, non definitivo, di Aristide da Atene dopo la
sconfitta di Maratona. La neutralità della Beozia nocque all'immagine di Pindaro, e il poeta se ne
avvide dopo l'infuocato 480 a.C., anno di decisivi scontri armati per terra e per mare, dalle
Termopili a Imera in Sicilia, per diverse cause. La vittoriosa Atene non trova facile conforto alle
distruzioni subite; il canto sublime di Pindaro che celebra la alleanza (che si rivelerà vincente tra
Atene e Sparta) frutta comunque al poeta la stima e la protezione dei governanti ma non la serenità
necessaria per decidere di rimanere coi vincenti. Pindaro decise di lasciare Atene (città in pieno
riarmo navale con Temistocle) nel 476, quarantenne, nel pieno della sua maturità poetica, della
quale con raffinata abitudine godette Terone, a capo della città di Agrigento, ascoltando epinici e
treni a lui dedicati dal poeta. Altri epinici vennero composti per Gerone, a Siracusa, e per Senocrate
di Agrigento.

Vi fu una lotta a suon di versi per dividere i favori delle corti cogli altri grandi lirici Bacchilide e
Simonide di Ceo. Si confronti il componimento di Pindaro per Gerone con quello composto da
Bacchilide: a Gerone per i cavalli d'Olimpia

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