Sei sulla pagina 1di 13

Instituto de Investigación en Ciencias Sociales y Humanidades

BENEMÉRITA UNIVERSIDAD AUTÓNOMA DE PUEBLA (BUAP)

Puebla 3 dicembre 2012

Perspectivas sobre
el Descrecimiento

La discussione sulla decrescita rappresenta una sintesi di numerosi filoni di critica


del modello dello sviluppo e della crescita emersi a partire soprattutto dagli anni 70:
dalla riflessione sulla convivialità a quella sul dopo sviluppo, dalla critica ecologica a
quella postcoloniale, dalla tradizione nonviolenta a quella femminista, dall’antropologia
economica all’economia ecologica.

1.GUARIRE DALL’ARROGANZA: LA CRITICA ANTROPOLOGICA

«Lo sviluppo - ha scritto Gilbert Rist - è simile a una stella morta, di cui ancora si
vede la luce anche se si è spenta da tempo, e per sempre» 1. L’idea di sviluppo che a
noi sembra qualcosa di ovvio e scontato è in realtà un’invenzione tutto sommato
recente e culturalmente relativa. Che non sia un concetto universalmente
condiviso emerge per esempio dal fatto che in molte lingue non occidentali non esiste
nemmeno una parola corrispondente. Da un punto di vista storico, inoltre, come ha
notato lo storico Heinz W. Arndt,

«Il termine "sviluppo economico", in quanto indicativo di un processo


intrapreso da parte di una società, era usato molto di rado prima della Seconda
Guerra Mondiale, sebbene l'utilizzo del termine nel senso di un'attività applicata,
dalle autorità di governo, in particolare per lo sfruttamento delle risorse naturali
e della terra era comune da almeno un secolo Il termine comunemente usato per
tale processo era quello di "progresso materiale"»2.

Se si vuole trovare un momento simbolico in cui il termine "sviluppo economico",


nel senso con cui lo intendiamo oggi, entra a far parte del linguaggio politico ed
economico dobbiamo andare al gennaio 1949. In quel giorno, Henry Truman
pronuncia il Discorso sullo stato dell’Unione. Il discorso si compone di quattro punti:
ONU, Piano Marshall, NATO, Aiuto allo sviluppo. Con quel discorso si inaugura l’era
dello sviluppo e del sottosviluppo.

«In quarto luogo dobbiamo lanciare un nuovo programma che sia audace e
che metta i vantaggi del nostro progresso scientifico e industriale al servizio del
miglioramento e della crescita delle regioni sottosviluppate. Più della metà
delle persone di questo mondo vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro
nutrimento è insoddisfacente. Sono vittime di malattie. La loro vita economica
è primitiva e stazionaria. La loro povertà costituisce un handicap e una
minaccia tanto per loro quanto per le regioni più prospere. Per la prima volta
nella storia l'umanità è in possesso delle conoscenze tecniche e pratiche in grado
1
Gilbert Rist, Sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
2
H. W. Arndt, Lo sviluppo economico. Storia di un'idea, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 9.
di alleviare la sofferenza di queste persone. Gli Stati Uniti occupano tra le
nazioni un posto preminente per quel che riguarda lo sviluppo delle tecniche
industriali e scientifiche. […] Io credo che noi dovremmo mettere a disposizione
dei popoli pacifici i vantaggi della nostra riserva di conoscenze tecniche al fine di
aiutarli a realizzare la vita migliore alla quale essi aspirano. E in
collaborazione con altre nazioni, noi dovremmo incoraggiare l'investimento di
capitali nelle regioni dove lo sviluppo manca.
Il nostro scopo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a
produrre, con i loro sforzi, più cibo, più vestiario, più materiali da
costruzione, più energia meccanica al fine di alleggerire il loro fardello. […] Il
vecchio imperialismo - lo sfruttamento al servizio del profitto straniero - non ha
niente a che vedere con le nostre intenzioni. Quel che prevediamo è un
programma di sviluppo basato sui concetti di un negoziato equo e democratico.
Tutti i paesi, compreso il nostro, profitteranno largamente di un programma
costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse umane e naturali
del mondo […]».

Come diversi autori hanno sottolineato, questa concezione universalistica e


unilineare che ha impregnato la mentalità occidentale ha significato nel rapporto con
le proprie alterità nient’altro che il disconoscimento di tutte le diversità culturali
e delle complesse visioni del mondo. Tali diversità, espressione di forme diverse di
civiltà, sono infatti sottratte ad una dimensione di coevità rispetto alla civiltà
occidentale e collocate in un “altro tempo”. È quel dispositivo semantico di
negazione della coevità e di allontanamento temporale che gli antropologi –in
particolare Johannes Fabian - hanno chiamato “allocronismo”.3 Le diversità sono
allontanate e ricollocate nello schema di un'unica storia universale orientata in una
stessa direzione, quella appunto del progresso e del moderno sviluppo capitalistico
occidentale. Dunque le altre culture, le altre forme di vita, le altre forme di
organizzazione sociale ed economica non vengono considerate nella loro compiutezza,
diversità, ricchezza ma sono ricondotte a posizioni arretrate (primitive,
sottosviluppate, ritardatarie) in una scala temporale evolutiva tracciata nel suo
percorso della modernità occidentale che si auto-rappresenta quindi come l'apice della
storia. Gli altri popoli e le loro culture divengono in questa prospettiva “arretrati” e
“bisognosi di aiuto” per definizione.
Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto alle nostre alterità e la mentalità
che ci porta a guardare noi stessi come rappresentanti di una civiltà più evoluta ci
spinge a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e
accedere al nostro mondo di benessere. In questa prospettiva diventava necessario
aiutare qui paesi che erano “rimasti indietro” con l'aiuto allo sviluppo e con
l'imposizione di politiche di sviluppo. La forma dell’aiuto, del dono, dunque non è
stato altro che lo strumento attraverso cui gli esperti occidentali hanno creduto di
colmare questo gap “temporale” tra “gli occidentali” e “gli altri”. In altre
parole attraverso il dono si è cercato e si cerca di rendere gli altri simili agli
occidentali. Gli aiuti non sono semplicemente oggetti o beni, ma sono segni, simboli,
strumenti performativi, agenti attivi di colonizzazione culturale. I cooperanti, gli agenti
di sviluppo si sono presentati in questo mezzo secolo come guide verso una
liberazione dall’indigenza e verso la meta ultima dello sviluppo che avrebbe finalmente
dato accesso alla modernità a questi paesi poveri e arretrati. Forti di questa
autoinvestitura le élites di espatriati si sono sentite autorizzate a impiantare in questi
paesi mentalità, linguaggi, valori, progetti presentati come neutri e universali, in
realtà profondamente ambigui e spesso destrutturanti.

3
Su questo tema si veda il classico studio antropologico di Johannes Fabian (2000).
Con molte ragioni dunque uno studioso francese, Serge Latouche, nei suoi libri ha
cercato di mostrare come lo sviluppo sia stato fondamentalmente un tentativo di
occidentalizzazione del mondo.

[LA PARTE SEGUENTE IN VIOLA LA SALTEREI]


D’altra parte diversi studiosi hanno sottolineato che in molti paesi del sud del
mondo, le politiche di sviluppo sono coincise in gran parte con un processo di
interiorizzazione del giudizio dell’altro. Come ha scritto l’antopologo Marshall
Sahlins:

«Per “modernizzarsi”, il popolo deve prima imparare a deplorare ciò che


possiede, ciò che ha sempre considerato il suo benessere; inoltre deve disprezzare
se stesso, deve biasimare la propria esistenza e conseguentemente desiderare di
essere diverso. […]
L’umiliazione è una fase importante dello sviluppo economico, una condizione
necessaria al “decollo”; il ruolo della vergogna è cruciale, in quanto, per desiderare
i benefici del “progresso”, le sue meraviglie materiali e le sue comodità, tutto
quanto gli indigeni ritengono positivo – il senso della dignità personale e del valore
dei propri oggetti- deve essere screditato» (Sahlins, 1992, pp. 199-200).

Dietro all’adesione alla religione dello sviluppo si cela dunque l’interiorizzazione da


parte del colonizzato dello sguardo del colonizzatore, l’assunzione delle sue idee di
bene e di male, di utile e di inutile, di ricchezza e di povertà.
Come spiega a sua volta Aminata Traoré:

«La potenza colonizzatrice frustra la nostra capacità di resistere facendo leva


sull’immagine che abbiamo di noi stessi. Essa è piena di disamore. La nostra è
una situazione in cui l’Altro non ci ama per quello che siamo, e ce lo dimostra.
Avendo interiorizzato il suo sguardo, noi stessi non ci amiamo. Ed è a questo
punto che progressivamente si aspira a essere e a vivere come lui. Ogni
elemento costitutivo della sua immagine e della sua identità diventa un modello
da imitare: comportamento sociale, abbigliamento, abitazione, cibo, linguaggio,
piaceri, eccetera. I molteplici aspetti della tragedia africana possono e devono
essere esaminati alla luce di questo processo di spersonalizzazione, osservabile a
livello individuale e statale» (Aminata Traoré, L’immaginario violato, Ponte alle
grazie, Milano, 2002, pp. 144-145)

Tuttavia, afferma, Marshall Sahlins, l’esperienza umiliante e punitiva della


modernizzazione ha prodotto anche una controreazione e una nuova coscienza di
sé da parte delle culture indigene.

«Mi sembra che ora siamo nel bel mezzo di un “movimento culturale”
mondiale di questo tipo: nelle Figi e nel Tibet, in Amazzonia e nell’entroterra
australiano, nel Kashmir e nel Wisconsin settentrionale, in tutto il mondo, gli
indigeni stanno diventando consapevoli di quella che chiamano la loro “cultura” e
la difendono. La parola stessa si è diffusa in tutto il pianeta: una prise de
conscience che è sicuramente tra i più notevoli fenomeni della storia mondiale
del tardo XX secolo. I popoli hanno scoperto la loro “cultura”; prima si limitavano
a viverla. Ora la loro “cultura” è un valore conscio e articolato, qualcosa da
difendere e, se necessario, reinventare» (Sahlins, 1992, p. 200).

La diversità culturale non solo non è morta ma continua a riprodursi. A


questo punto è il nostro sguardo, la nostra immagine dell’alterità che è in
discussione. E oggi iniziamo a riconoscere che il nostro rapporto con le alterità
racconta di una cecità e di una rieducazione dello sguardo.
A questo proposito c’è un’antica storia indiana che fa al caso nostro. Conoscete
la storia di Sakuntala? Più o meno dice così:

Un uomo si avventurò una volta nella foresta. Ad un certo punto mentre


camminava, gli si parò dinanzi ai suoi occhi un grosso elefante. Ma l'uomo senza
battere ciglio esclamò:
- Qui non c'è nessun elefante.
Mentre l'elefante si allontanava nell'uomo incominciava a farsi spazio qualche
dubbio. Ma solamente dopo aver notato i rami spezzati e le orme sulla terra,
quest'uomo giunse a una diversa conclusione:
- In questo posto c'è stato un elefante.
(Racconto tratto da Il riconoscimento di Sakuntala, 31, rielaborato)

Questa storia può apparirvi strana, ma in realtà descrive molto bene, con molta
efficacia quello che è stato l’atteggiamento occidentale verso le altre culture e gli altri
popoli.
Per secoli noi occidentali abbiamo detto e continuato ad affermare che in
quei paesi, in quelle culture non c’era civiltà, non c’era sviluppo, non c’era
benessere. E abbiamo imposto la nostra visione dell’accumulazione, della ricchezza,
del benessere, della crescita, dello sviluppo.
Poi ad un certo punto ci siamo accorti che qualcosa non tornava. Non solo molti di
questi paesi non si sviluppavano. Non solo che le disuguaglianze tra nord e sud del
mondo aumentavano, ma addirittura che in molti casi la povertà stava aumentando
drasticamente, sia in termini quantitativi assoluti - il numero dei poveri -, sia in
termini relativi - la percentuale di poveri nei diversi paesi – sia ancora in termini
qualitativi, ovvero la povertà si faceva più drammatica a causa della disgregazione
delle reti di scambio sociale non monetario, l’impoverimento e il degrado delle risorse
ambientali, la diminuzione dei diritti di accesso.
Qualche tempo fa Vandana Shiva ha risposto all’eonomista america Jeffrey
Sachs criticando il suo famoso libro “ La fine della povertà ” (Sachs J., 2005) e le sue
ricette per sconfiggere la povertà. Val la pena leggerne insieme alcuni stralci…

«Due dei grandi miti economici del nostro tempo permettono alle persone
di negare questo stretto collegamento e di diffondere interpretazioni scorrette di
cosa sia la povertà.
In primo luogo, per la distruzione della natura e della capacità delle
persone di aver cura di se stesse il biasimo non cade sulla crescita
industriale e sul colonialismo economico, ma sugli stessi poveri. La
malattia viene offerta come cura: più crescita economica, in modo da risolvere gli
stessi problemi di povertà e di declino ecologico a cui essa stessa ha dato inizio.
Questo è il messaggio che sta al cuore dell’analisi di Sachs.
Il secondo mito è l’assunto per cui se tu consumi ciò che produci, non
stai veramente producendo, almeno non economicamente parlando. Se io
mi coltivo il cibo che mangio, e non lo vendo, allora esso non contribuisce al PIL
e perciò non contribuisce ad andare verso la "crescita". Le persone vengono
percepite come "povere" se mangiano il cibo che hanno coltivato anziché il cibo
malsano distribuito dall’agribusiness globale. Sono visti come poveri se vivono in
case che si sono costruiti da soli, con materiali ben adattati ecologicamente come
il bambù ed il fango anziché in blocchi di cemento. Sono visti come poveri se
indossano abiti prodotti con fibre naturali anziché sintetiche.
Queste esistenze "sostenibili", che il ricco Occidente percepisce come
povertà, non si accoppiano necessariamente ad una bassa qualità della
vita. Al contrario, per la loro stessa natura di economie basate sul
sostentamento assicurano un’alta qualità della vita, se questa viene misurata in
termini di accesso a cibo sano ed acqua, identità sociale e culturale robusta e
percezione di un senso nell’essere vivi. Poiché questi poveri non condividono i
cosiddetti benefici della crescita economica, vengono rappresentati come "lasciati
indietro".
La falsa distinzione tra i fattori che creano l’accumulo e quelli che creano
povertà è al centro dell’analisi di Sachs. E per questo motivo, le sue prescrizioni
aggraveranno e renderanno peggiore la povertà, invece di porvi fine. I moderni
concetti di sviluppo economico, che Sachs vede come la "cura" per la
povertà, sono stati presenti solo in un’esigua porzione della storia
umana. Per secoli, i principi del sostentamento hanno permesso alle
società, sull’intero pianeta, di sopravvivere ed anche di prosperare. In
queste società i limiti presenti in natura venivano rispettati, e guidavano
i limiti del consumo umano. Quando la relazione della società con la natura è
basata sul sostentamento, la natura esiste come forma di bene comune. Viene
ridefinita come "risorsa" solo quando il profitto diviene il principio organizzativo
della società e produce l’imperativo finanziario allo sviluppo ed alla distruzione di
queste risorse per il mercato.
Sebbene in molti scegliamo di dimenticarlo o di negarlo, tutti i popoli in
tutte le società dipendono ancora dalla natura. Senza acqua pulita, suoli
fertili e diversità genetica, la sopravvivenza umana non è possibile. Oggi
lo sviluppo economico sta distruggendo questi che un tempo erano beni
comuni, dando come risultato una contraddizione: lo sviluppo depriva le
stesse persone che professa di aiutare della loro terra e dei loro
tradizionali sistemi di sostentamento, forzandole a sopravvivere in un
mondo naturale sempre più impoverito.
Un sistema quale è il modello di crescita economica che conosciamo
oggi, crea miliardi di miliardi di dollari di profitti per le corporazioni, nel
mentre condanna milioni di persone alla povertà. La povertà non è, come
Sachs suggerisce, uno stato iniziale del progresso umano da cui
dobbiamo fuggire. E’ lo stato finale in cui le persone cadono quando uno
sviluppo unilaterale distrugge i sistemi ecologici e sociali che hanno
mantenuto la vita, la salute ed il nutrimento dei popoli e del pianeta per
ere.
La realtà è che le persone non muoiono per mancanza di soldi.
Muoiono per mancanza di accesso alla ricchezza dei beni comuni. Qui, di
nuovo, Sachs si sbaglia quando dice: "In un mondo di abbondanza, un miliardo di
persone sono così povere che le loro vite sono in pericolo". I popoli indigeni
dell’Amazzonia, le comunità montane dell’Himalaya, i contadini ovunque le loro
terre non siano state espropriate e la cui acqua e biodiversità non sia stata
distrutta dall’industria agricola creatrice di debito, sono ecologicamente ricchi,
sebbene guadagnino meno di un dollaro al giorno» (Shiva, 2005a).

Sulla stessa linea della Shiva vanno anche le riflessioni di un importante studioso
iraniano che vive in francia, Majid Rahnema. A suo modo di vedere lo sviluppo ha
rappresentato non l’uscita da uno stato di povertà, ma piuttosto una
modernizzazione della povertà (Rahnema, 2005, p. 220), ovvero la trasformazione
della povertà in una condizione di miseria ben più drammatica. La mancanza di soldi
in una società nella quale il denaro rappresenta la principale quando non l’unica forma
di accesso a beni e servizi o addirittura alla possibilità stessa di lavorare, determina
una condizione di emarginazione e privazione ben più radicale di una condizione di
povertà in una società tradizionale.

Può sembrare assurdo ma abbiamo iniziato ad avere i primi dubbi sulle


nostre ricette salvifiche quando abbiamo visto la povertà, ovvero uno stile di
vita sobrio e non orientato all’accumulazione, trasformarsi in miseria. Quando
abbiamo visto attorno alle città nascere immense bidonville e le persone perdere la
loro ricchezza ecologica e sociale per dipendere sempre più da un reddito monetario
per tutti ciò di cui avevano bisogno, compresi i servizi, la cura, i beni di base.
Da questo punto di vista è successo – da un punto di vista simbolico – qualcosa di
equivalente alla storia di Sakuntala. All’inizio l’Elefante gli stava di fronte ma lui non
riusciva a vederlo. Si è reso consapevole della sua presenza solamente quando si è
accorto che non c’era più un… elefante.
Allo stesso modo, noi solamente oggi e con grandi resistenze incominciamo a
pensare che le nostre visioni del mondo siano molto parziali, che le nostre conoscenze
siano molto parziali, che le nostre ricette economiche siano oltremodo discutibili.
Che forse – nonostante la retorica degli obiettivi del millennio - non sappiamo bene
come sconfiggere la povertà perché perfino la nostra idea di povertà è
ampiamente distorta dalla nostra ideologia economica.
Da ultimo – a partire da problematiche enormi quale l’esaurimento delle risorse, la
crisi energetica, il riscaldamento climatico, i conflitti ambientali e non ultima la crisi
economica che ci ha investito e che ci catapulterà in un periodo di recessione forzata -
ci stiamo sempre più rendendo conto che la nostra stessa idea di ricchezza – non
solo quella finanziaria – mostra sempre di più le fattezze di un grande fuoco
di artificio. Bello, impressionante, colorato, entusiasmante, ma destinato a spegnersi
o quantomeno a tornare a un livello di sobrietà che fatichiamo ad immaginare.
Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione copernicana dal punto di vista culturale e
sociale.
«È finita –dichiarò pochi anni fa lo scrittore egiziano Mohammed Sid Ahmed – il
dialogo Nord-Sud è morto come il conflitto Est-Ovest. È morta l’idea dello sviluppo.
Non c’è più nessuno linguaggio comune, si è esaurito perfino il patrimonio lessicale
necessario per esprimere questi problemi. Sud, Nord, Terzo Mondo, liberazione,
progresso, tutte queste parole non hanno più nessun senso». 4

2. LA PRIMA CRISI DEL CAPITALISMO E LA BOLLA ECOLOGICA

Qualcuno giustamente ha definito la crisi che stiamo attraversando la prima


grande crisi socio-ecologica del capitalismo (Alain Lipietz). Dietro la crisi
economica-finanziaria si nasconde una profonda crisi ecologica.
Non solo queste due crisi sono chiaramente intrecciate tra loro, ma manifestano
anche molti aspetti in comune. La società di crescita in cui viviamo non funziona
solamente soddisfacendo i nostri bisogni ma creandone di sempre nuovi. I nostri
consumi crescono continuamente. Secondo l’ultimo rapporto del Worldwatch
Institute, i nostri consumi sono cresciuti del 28% dal 1996 ad oggi.
Questo ha conseguenze sia sociali – la spinta al consumo e all’indebitamento – ma
anche ecologiche, la pressione sulle risorse e la creazione di conflitti ambientali.
Questo aumento dei consumi si sostiene nei fatti su una crescente domanda di
risorse:5 ciò significa che negli ultimi anni per stare al passo della richiesta dei

4
Citato in Martin, Schumann, 1997, p. 30.
5
Tutto il nostro sistema produttivo si basa su un prelievo continuo, e indiscriminato di materie prime in
tutto il mondo. Risorse basilari per i processi vitali e produttivi come l’acqua, il suolo fertile, le foreste;
Risorse energetiche quali il petrolio, il carbone, il gas naturale; Risorse minerarie sia minerali
produttori e dei consumatori è stato estratto più petrolio, più gas, più minerali, si sono
pescati più pesci, si sono tagliati più alberi ecc.
Tutta l’ideologia della crescita moderna si è basata paradossalmente sull’idea di
una natura come qualcosa di totalmente e infinitamente a disposizione e
dall’altra come qualcosa di cui si sarebbe potuto, grazie alle innovazioni tecnologiche,
in prospettiva fare a meno.
In realtà non è andata così. Non solo le tecnologie non ci hanno reso più autonomi
dalla natura, ma al contrario, oggi lo sfruttamento dei beni naturali è diventato
diffuso e generalizzato come mai prima in tutta la storia dell’umanità. Nei fatti
dunque le nostre società, il nostro benessere è divenuto sempre più dipendente da un
ampio sfruttamento di questi risorse
Negli ultimi 45 anni la domanda di risorse è più che raddoppiata. Per esempio
tra il 1950 e il 2005 la produzione di metalli è cresciuta di sei volte, il consumo di
petrolio di otto volte, il consumo di gas naturale addirittura di 14 volte. Ogni anno
si estraggono circa 60 miliardi di tonnellate di risorse. Questo prelievo
scriteriato ha naturalmente un enorme prezzo ecologico.
Attualmente consumiamo circa il 40% in più delle risorse che la terra è in
grado di rigenerare. Si può dire che ci siamo comportati come se lo stock di risorse
naturali fosse più o meno illimitato senza preoccuparci della loro possibilità di
ricostituzione o del loro esaurimento (nel caso di beni non rinnovabili).
Così ci troviamo a confrontarci con la prospettiva del declino del petrolio ma anche
di alcuni minerali6 nonché con il crollo della biodiversità.
Stiamo dunque sfruttando, e mettendo a rischio nel giro di pochi decenni un
patrimonio di beni naturali che sono sulla terra da centinaia di migliaia di anni o
addirittura milioni di anni.7
Che cosa significa tutto questo?
Significa che noi stiamo accumulando un enorme debito ecologico a fianco del debito
economico. O se volete, che dietro la bolla crisi economica noi stiamo producendo una
grande bolla speculativa ecologica, la cui esplosione minaccia di produrre conseguenze
ancora più vaste e più profonde della crisi che stiamo vivendo.
Quello che colpisce – ha notato in proposito Wolfgang Sachs

«noi viviamo ogni giorno di crediti non pagati, di crediti morbosi che prendiamo
dalla natura. Crediti che non vengono mai ripagati. E anche queste sono in
fondo scommesse sul futuro. Scommesse che probabilmente un giorno le
generazioni di domani dovranno pagare o sopportare. In altri termini noi ogni
giorno viviamo in una grande bolla speculativa ecologica» (Sachs in A. Bosi, M.
Deriu, V. Pellegrino, Il dolce avvenire, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, p. 119).

Questo non è un fatto nuovo. Pensiamo all’Overshoot day. Con questo nome si
indica il giorno in cui l’umanità comincia a vivere oltre la disponibilità dei suo mezzi
ecologici, ovvero il momento in cui si è utilizzato più delle risorse che la terra è in
grado di rigenerare (ovvero di produrre e riciclare) in un anno. Questo limite è stato
superato per la prima volta nel 1986 e da allora la tendenza è quella di anticipare ogni
anno il giorno in cui si sono impiegate le riserve annue. La crisi ha fermato
temporaneamente questa tendenza. Nel 2012 l’Overshoot day è caduto il 22
metallici sia minerali non metallici; Risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari,
ma anche l’universo delle droghe; Risorse animali per alimentazione (caccia, pesca, allevamento) per
vestiti e suppellettili (pellicce, scarpe, cinture) per uso scientifico ecc.
6
Due studiosi italiani Ugo Bardi e Marco Pagani hanno identificato undici minerali che hanno già
superato il picco di produzione: mercurio, tellurio, piombo, cadmio, potassio, rocce fosfatiche, tallio,
selenio, zirconio, renio, gallio.
7
Il consumo annuo di carbone e petrolio equivale a una biomassa accumulata nel corso di 100.000
anni.
agosto. Dunque consumiamo in 8 mesi quello che il pianeta rigenera in un
anno. O detta in altre parole la Terra ha bisogno di un anno e quattro mesi per
rigenerare quello che usiamo in un anno.

È lo sviluppo industriale e la crescita economica delle nostre società che ci spingono


ad uno sfruttamento continuo delle risorse naturali senza preoccuparci del loro
esaurimento.
A questo si aggiunge un altro aspetto. L’aumento dei consumi nelle società
industrializzate non solo ha prodotto debito e pressione sulle risorse ma ha prodotto
anche una crescita dell’inquinamento, dei rifiuti, della distruzione dell’ambiente
generando rischi e conseguenze enormi per le popolazioni locali che vivono nei
territori dove andiamo a sfruttare queste risorse.
Almeno per quanto riguarda i paesi più industrializzati ci siamo comportati come se
lo stock di risorse naturali fosse più o meno illimitato senza preoccuparci del loro
esaurimento o come se la crescita della produzione e del consumo di beni non
producesse anche una crescita dei rifiuti e dell’inquinamento.
Di fatto abbiamo goduto di questi beni scaricando i costi lontano nel tempo o
nello spazio. Ovvero sottraendo beni per un verso alle le generazioni future per un
altro agli altri popoli. Perché è chiaro che questo sfruttamento e questo consumo non
è omogeneo. Abbiamo un debito ecologico anche verso le altre popolazioni,
dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia. I consumatori globali, che vivono in gran
parte nei paesi più industrializzati si arrogano di fatto il diritto di andare a prendere le
materie prime la dove si trovano anche contro il parere delle popolazioni locali.
Stiamo consumando le risorse di altre terre e altri popoli per nutrire il nostro
sviluppo. Noi consumatori occidentali spesso non ce ne rendiamo conto. Ma gli
oggetti che utilizziamo ogni giorno, dal cellulare, al computer, alla macchina, ai
prodotti di plastica o ai beni alimentari come la carne sono disponibili per noi perché
possiamo contare su uno sfruttamento di territori e popoli lontani da noi.
Il nostro modello di benessere si basa su un flusso continuo di risorse che
preleviamo in territori lontani e nascosti agli occhi dei consumatori: petrolio, legno,
minerali e i metalli, terra, cibo e perfino la forza lavoro se pensiamo ai tanti immigrati
impiegati nelle nostre fabbriche o nelle nostre case.
Andrè Gorz, poco prima di morire, nel 2007 ha scritto un testo intitolato
significativamente “L’uscita dal capitalismo è già cominciata ” in cui si può leggere una
riflessione di grande lucidità:

«Si ha buon gioco ad accusare la speculazione, i paradisi fiscali, l’opacità e la


mancanza di controllo sull’industria finanziaria – in particolare degli hedge funds
-, la minaccia di depressione, addirittura di crollo, che pesa sull’economia
mondiale, non è dovuta alla mancanza di controllo; essa è dovuta
all’incapacità del capitalismo di riprodursi. Esso non si perpetua e non
funziona se non su basi fittizie sempre più precarie».8

Quello che Gorz mette in luce è che la dinamica del capitalismo è stata possibile grazie
ad una ba se materiale e naturale, apparentemente infinitamente disponibile, che si
dava per scontata.

3. LA GABBIA DELL’HOMO ECONOMICUS: LA CRITICA DI GENERE

Personalmente ritengo molto importante riflettere sulle connessioni tra la critica


all’ideologia della crescita e la critica al sistema patriarcale.

8
André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009, p. 32.
Il movimento della Decrescita ha preso a prestito un sacco di cose dal movimento
delle donne e dalla rivoluzione culturale prodotta dal femminismo, sia da un punto di
vista della metodologia che da un punto di vista dei contenuti. Ma questo debito non è
sempre riconosciuto. In parte perché molte delle idee e delle pratiche femministe sono
entrate nel senso comune e chi non ha una conoscenza e una sensibilità storica fatica
a riconoscerlo, in parte perché molti uomini faticano a tenere insieme la critica macro-
economica o sociologica con uno sguardo riflessivo su di sé, la propria vita, le proprie
contraddizioni.

Il fatto è che il modello e l’ideologia della crescita si basa storicamente su


presupposti culturali e antropologici che riguardano anche la definizione di
modelli maschili e femminili, l’attribuzione di compiti, la divisione pubblico-
privato, la regolamentazione dei rapporti sociali tra i sessi.
Al fine di consentire un altro tipo di lavoro, più umano e rispettoso, un'altra forma
di produzione, più responsabile e sostenibile, un'altra idea del territorio, delle sue
risorse e beni pubblici nella nostra vita quotidiana, abbiamo bisogno di reinventare
un nuovo modo di essere uomini e donne, padri e madri, un modo diverso per
stabilire rapporti familiari e progetti. È necessario ripensare, anche
simbolicamente, la connessione tra la dimensione quotidiana e domestica delle nostre
relazioni e la "invenzione politica" di un altro modello di benessere, e di un altro
rapporto tra i sessi.
Mi permetto di suggerire alcuni spunti di riflessione.

1) L'esaltazione della produzione e la svalutazione della riproduzione e il


mantenimento della vita

La divisione sessuale del lavoro non è una invenzione del capitalismo. Tuttavia, il
capitalismo è stato in grado di sfruttare per i propri scopi questa divisione tradizionale
in modi diversi. In primo luogo con la “naturalizzazione” del lavoro di cura delle
donne è progressivamente diminuita l'attenzione sulle condizioni di vita e la necessità
di rigenerazione delle persone e delle famiglie.
La società della crescita ha messo al centro dell'immaginario sociale la capacità di
produzione di beni commerciabili, di oggetti, servizi e prestazioni economiche e
finanziarie misurate con la contabilità, per aumentare i profitti, mentre ha oscurato
la necessità per la riproduzione e il mantenimento della vita e l'importanza, per
la qualità della vita, delle dimensioni relazionali di ricchezza, di condivisione e
reciprocità, nonché l’importanza della creazione di beni e servizi non-mercato. In
questo modo il lavoro produttivo è stato tradizionalmente assegnato agli
uomini ed è stato simbolicamente ed economicamente valorizzato e
riconosciuto, mentre il lavoro di cura e relazionale riservato alle donne è stato
svalutato e sostanzialmente depredato della sua centralità nella vita di una
società.
Concretamente, ciò significa che la creazione e l'accumulo di ricchezza su cui si
basa la crescita capitalista si sostiene solo grazie a un’enorme massa di lavoro di
cura e di ri-produzione che non è pagato e non viene preso in considerazione nella
contabilità nazionale.
Inoltre, il capitalismo è stato in grado di sfruttare il lavoro produttivo anche delle
donne, ma senza di fornirgli contemporaneamente diritti, garanzie e compensazioni. Il
lavoro delle donne è rimasto in uno stato di insicurezza e di subordinazione
in relazione a quello degli uomini, anche quando il lavoro concreto è in realtà
identico. Vi è a questo proposito una vasta letteratura femminista sul lavoro di cura
non retribuito delle donne.
Ma ora vorrei dire qualcosa sulla condizione dell'uomo, quella che io chiamo la
gabbia dell’homo economicus.

2) La gabbia dell’homo economicus

Un secondo aspetto è l’immaginario della crescita presuppone e produce


l'homo economicus come modello antropologico fondamentale: un soggetto
"razionale" che si propone di realizzare la massima utilità, il massimo vantaggio per sé
o per il loro gruppo, attraverso un approccio strumentale alla vita e alle relazioni e
attraverso un calcolo strategico delle risorse disponibili e delle opportunità. Tali
istanze economicistiche - che aumentano i valori come la produttività, l’utilità, la
strumentalità e il consumismo - sono da tempo andate al di là della sfera economica
per invadere tutti i settori delle relazioni sociali.
L'economia materiale e psichica della maggior parte degli uomini nelle società
sviluppate ha anche prodotto un impoverimento e una mercificazione dei
rapporti umani, dalla cura alla sessualità, fino a corrompere e corrodere il
campo degli affetti e della vita intima.
L'adesione ad un tale modello sessista dell’identità e relazioni ha reso gli uomini
schiavi del lavoro e dell’ossessione della produttività mentre li ha tenuti lontani dalla
presenza e dal coinvolgimento nel lavoro di cura e di relazione quotidiano. Nella quasi
totalità dei casi i maschi sono meno presenti delle donne in tutte le attività di
cura: far da mangiare, pulire, lavare e accudire i bambini, curarli in caso di malattie,
farli giocare o studiare. Nonostante un sempre maggiore coinvolgimento delle donne
nel lavoro produttivo, gli uomini resistono ancora a condividere il lavoro di cura e
fungono al massimo da rinforzo al lavoro femminile. Non ho il tempo per approfondire,
ma questa assenza maschile dal lavoro relazionale e di cura, si traduce a mio avviso in
una povertà psicologica, emotiva e talvolta corporea.
A fronte di un crescente impegno delle donne nel lavoro produttivo e di una
debolissima presenza e coinvolgimento maschile in questo campo, sempre di più nelle
società sviluppate, il lavoro di cura e assistenza dei bambini e degli anziani è
delegato a donne immigrate che sono a loro volta sfruttate e svalorizzate nel
loro lavoro che supplisce in verità alle necessità fondamentali di cura dei nostri corpi
e delle nostre esistenze e in generale di manutenzione della vita. In questi rapporti
economici si cela spesso una doppia subordinazione sessuale e razziale.
Infine la logica del profitto ha sempre più incorniciato una parte significativa delle
esperienze sessuali maschili in molteplici forme di mercificazione, a volte
particolarmente violente. Mi riferisco in primo luogo al fenomeno della
prostituzione, della tratta e del traffico di donne per il mercato sessuale.
Milioni di uomini sono quotidianamente implicati in forme di prostituzione e
sfruttamento sessuale. Anche in questo caso sebbene lo scambio sessuo-economico
abbia origini antiche, l’economia capitalistica ha saputo espandere a dismisura il
mercato sessuale e la produzione di profitti. Questo apre fra l’altro un’enorme
questione sulla miseria psichica e relazionale della sessualità maschile, incapace di
costruire piacere e gratificazione in uno scambio libero e reciproco.

3) La decrescita e la trasformazione della vita quotidiana del maschio

Così, quando si parla della decolonizzazione del nostro immaginario economico


occorre principalmente pensare alla cultura maschile. La decolonizzazione
dell'immaginario economico per gli uomini inizia anche da un ripensamento della
cultura maschile, dei modelli sessuali dominanti, dei loro limiti e della
miseria. Nella vita quotidiana e di relazione c’è spesso un forte scompenso
nell’equilibrio tra vita e lavoro.
Oggi una piccola parte di uomini e padri sono disposti a scoprire ed esplorare lo
spazio delle relazioni libere con gli altri uomini e le altre donne, in riconoscimento di
autonomia, delle differenze, dei desideri e delle aspettative. Sono disposti ad
esplorare la ricchezza e la complessità anche del lavoro di cura e di riproduzione
attraverso una maggiore - quantitativa e qualitativa - presenza nei rapporti con i
loro figli, o parenti, e attraverso una maggiore apertura verso le competenze
e professioni tradizionalmente delegati alle donne.
In passato, gli uomini costruivano principalmente loro identità se non
esclusivamente nello spazio pubblico, in termini di impegno e realizzazione
professionale o politica. Oggi dobbiamo trovare un migliore equilibrio tra la
presenza e la cura degli spazi di vita e le relazioni e la costruzione di un
cambiamento nella vita economica, sociale e politica.
Penso che ci sia un rapporto tra il disconoscimento delle relazioni e
interdipendenze che sono essenziali per la vita e l'ideologia di una cultura
della competitività e della crescita illimitata che non riconosce alcun limite e che
passa sopra i bisogni e le necessità delle persone.
Quello che intendo suggerire è che abbiamo bisogno di riflettere sulla
trasformazione non solo del mondo esterno, ma nelle nostre relazioni con il mondo.
Un viaggio di autoconsapevolezza e di trasformazione a partire dal riconoscimento
della propria parzialità sessuale e della ricchezza delle differenze diventa un momento
chiave di una transizione da una società basata sulla crescita a una società fondata
sulla decrescita e sulla rigenerazione, poiché questo può tenere insieme prospettive
macro e micro e conciliare, personale e collettivo, pubblico e privato, aspetti intimi e
sociali.

CONCLUSIONI: CHE COSA È NECESSARIO?

Occorre dunque andare alle radici del problema. Come promotori dell’idea di
decrescita siamo ovviamente anticapitalisti, ma occorre notare che l’ideale della
crescita, dello sviluppo rappresenta un modello civilizzatorio più ampio ed esteso che
non è riconducibile solamente ai sistemi capitalistici. Questo modello si è incarnato fin
da subito anche nell’Unione Sovietica, in Cina, in molti paesi dell’est, dell’Africa,
dell’America Latina e dell’estremo oriente, connettendo diverse ideologie e tradizioni
filosofiche e politiche.
Alcuni degli assunti delle concezioni della crescita e dello sviluppo –
l’antropocentrismo e il dominio sulla natura, l’etnocentrismo e il
colonialismo, l’idea di progresso e la visione unilineare della storia, il
patriarcato e la divisione sessuale del lavoro - hanno delle radici molto più
antiche e facciamo più fatica a riconoscere, a criticare e a mettere in discussione
questi aspetti profondi che non a criticare la finanziarizzazione, il capitalismo
predatorio, o lo stesso neoliberismo.
Facciamo più fatica perché fanno parte di un ideale civilizzatorio che ha
costituito la spina dorsale della nostra storia.

Dunque «che cosa è necessario? », si chiedeva tempo fa Cornelius Castoriadis,


«Data la crisi ecologica, l'estrema disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra
paesi ricchi e poveri, la quasi impossibilità del sistema di continuare la sua corsa
attuale, quello che necessario è una nuova creazione immaginaria di proporzioni
sconosciute nel passato, una creazione che metta al centro della vita umana significati
diversi dall’espansione della produzione e del consumo, che ponga obiettivi di vita
diversi, riconoscibili dagli esseri umani come qualcosa per cui val la pena vivere. [...]
Questa è l’immensa difficoltà di fronte a cui ci troviamo. Dovremmo volere una società
nella quale i valori economici hanno cessato di essere centrali (o unici), in cui
l’economia è rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come
fine ultimo, in cui dunque si rinuncia a questa corsa folle verso un consumo sempre
maggiore. Questo è necessario non soltanto per evitare la distruzione definitiva
dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e
morale degli umani contemporanei. Occorrerebbe pertanto che gli esseri umani (parlo
ora dei paesi ricchi) accettino un livello di vita dignitoso, ma frugale, e rinuncino
all'idea che l'obiettivo centrale della loro vita sia che il loro consumo aumenti del 2-3%
per anno. Per accettare questo, occorrerebbe che ci fossero altre cose a dare senso
alla loro vita»9.

BIBLIOGRAFIA

AA.VV., 2005, Disfare lo sviluppo per rifare il mondo, Jaca Book, Milano.
APPADURAI A., 2011, Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, et al./edizioni.
ANDERS G., 2003a, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione«
industriale, Torino, Bollati Boringhieri.
ANDERS G., 2003b, L’uomo è antiquato 2. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione
industriale, Torino, Bollati Boringhieri.
ARENDT H., 1991, Vita Activa, Milano, Bompiani.
BATESON G., 1997, Una sacra unità, Milano, Adelphi.
BATESON G., 2000, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi.
BESSON-GIRARD Jean-Claude, 2007, Decrescendo cantabile. Piccolo manuale per una decrescita
armonica, Jaca Book, Milano.
BEVILACQUA Piero, 2008, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari.
BONAIUTI Mauro, (a cura di), 2005, Obiettivo decrescita, nuova edizione riveduta e ampliata, Emi,
Bologna.
BRANDT Stewart, 2009, Il lungo presente. Tempo e responsabilità, Fidenza, Mattioli 1885.
BROSWIMMER Franz J., 2003, Ecocidio. Come e perché l’uomo sta distruggendo la natura , Carocci,
Roma.
BURY John, 1979, Storia dell’idea di progresso, Feltrinelli, Milano.
CRUTZEN P., 2007, Benvenuti nell’antropocene, Milano, Gruner+Jar/Mondadori.
DEBORD G., 2007, Il pianeta malato, Roma, Nottetempo.
DIAMOND Jared, 2005, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino.
DUCLOS D., 2000, Natura e democrazia delle passioni, Bari, Dedalo.
DUPUY Jean-Pierre, 2006, Piccola metafisica degli tsunami, Donzelli, Roma.
HEINBERG Richard, 2004, La festa è finita. La scomparsa del petrolio, le nuove guerre, il futuro
dell’energia, Fazi Editore, Roma.
HEINBERG Richard, 2008, Senza petrolio. Il protocollo per evitare le guerre, il terrorismo e il collasso
economico, Fazi Editore, Roma.
HIRSCH Fred, 1991, I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano.
HOSLE V., 1992, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino.
JONAS H., 1993, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica , Torino, Einaudi.
JONAS H., 2000, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura , Torino, Einaudi.
KUNSTLER James Howard, 2005, Collasso. Sopravvivere alle attuali guerre e catastrofi in attesa di un
inevitabile ritorno al passato, Nuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena (BO).
LAKOFF George, 2009, Pensiero politico e scienze della mente, Bruno Mondadori, Milano.
LATOUCHE Serge, 1992, L'occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino.
LATOUCHE Serge, 1993, Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo , Bollati Boringhieri, Torino.
LATOUCHE Serge, 2005, Sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino.
LATOUCHE Serge, 2007, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano.

9
Cornelius Castoriadis, La montée de l’insignifiance, Les Carrefours du labyrinthe – 4 , Seuil, 1996, p.
112-113.
LATOUCHE Serge, 2008, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino.
MORIN Edgar, 2001, Il metodo 1. La natura della natura, Milano, Raffaelo Cortina.
MORIN Edgar, 2004, Il metodo 2. La vita della vita, Milano, Raffaelo Cortina.
MOSCOVICI Serge, 2005, Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna.
POLANYI Karl, 1974, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca ,
Torino, Einaudi.
PONTARA Giuliano, 1995, Etica per le generazioni future , Roma-Bari, Laterza.
RAHNEMA Majid, 2005, Quando la povertà diventa miseria, Mondadori, Milano.
RAHNEMA Majid, ROBERT Jean, 2010, La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano.
RIST Gilbert, 1997, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale , Bollati Boringhieri, Torino.
SACHS Wolfgang, (a cura di), 1998, Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
SACHS Wolfgang, 2002, Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione , Editori Riuniti.
SHIVA Vandana, 1990, Sopravvivere allo sviluppo, Torino, Isedi; ristampato col titolo Terra madre.
Sopravvivere allo sviluppo, Utet, Torino, 2004.
SHIVA Vandana, 1995, Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica” ,
Torino, Bollati Boringhieri.
SHIVA Vandana, 2005, Due miti che mantengono povero il mondo , 28 Novembre,
http://isole.ecn.org/reds/donne/cultura/cultura0512VandanaShiva.html
SHIVA Vandana, 2006, Il bene comune della terra, Milano, Feltrinelli.
SWIFT Richard, 2004, La democrazia, Roma, Carocci.
TAINTER Joseph A., 2003, The Collapse of Complex Societies, Cambridge University Press, Cambridge.
WRIGHT Ronald, 2006, Breve storia del progresso, Mondadori, Milano.
ZIZEK Slavoj, 2002, Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi.
ZOJA Luigi, 2003, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo , Bergamo, Moretti e Vitali.

Potrebbero piacerti anche