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Perspectivas sobre
el Descrecimiento
«Lo sviluppo - ha scritto Gilbert Rist - è simile a una stella morta, di cui ancora si
vede la luce anche se si è spenta da tempo, e per sempre» 1. L’idea di sviluppo che a
noi sembra qualcosa di ovvio e scontato è in realtà un’invenzione tutto sommato
recente e culturalmente relativa. Che non sia un concetto universalmente
condiviso emerge per esempio dal fatto che in molte lingue non occidentali non esiste
nemmeno una parola corrispondente. Da un punto di vista storico, inoltre, come ha
notato lo storico Heinz W. Arndt,
«In quarto luogo dobbiamo lanciare un nuovo programma che sia audace e
che metta i vantaggi del nostro progresso scientifico e industriale al servizio del
miglioramento e della crescita delle regioni sottosviluppate. Più della metà
delle persone di questo mondo vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro
nutrimento è insoddisfacente. Sono vittime di malattie. La loro vita economica
è primitiva e stazionaria. La loro povertà costituisce un handicap e una
minaccia tanto per loro quanto per le regioni più prospere. Per la prima volta
nella storia l'umanità è in possesso delle conoscenze tecniche e pratiche in grado
1
Gilbert Rist, Sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
2
H. W. Arndt, Lo sviluppo economico. Storia di un'idea, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 9.
di alleviare la sofferenza di queste persone. Gli Stati Uniti occupano tra le
nazioni un posto preminente per quel che riguarda lo sviluppo delle tecniche
industriali e scientifiche. […] Io credo che noi dovremmo mettere a disposizione
dei popoli pacifici i vantaggi della nostra riserva di conoscenze tecniche al fine di
aiutarli a realizzare la vita migliore alla quale essi aspirano. E in
collaborazione con altre nazioni, noi dovremmo incoraggiare l'investimento di
capitali nelle regioni dove lo sviluppo manca.
Il nostro scopo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a
produrre, con i loro sforzi, più cibo, più vestiario, più materiali da
costruzione, più energia meccanica al fine di alleggerire il loro fardello. […] Il
vecchio imperialismo - lo sfruttamento al servizio del profitto straniero - non ha
niente a che vedere con le nostre intenzioni. Quel che prevediamo è un
programma di sviluppo basato sui concetti di un negoziato equo e democratico.
Tutti i paesi, compreso il nostro, profitteranno largamente di un programma
costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse umane e naturali
del mondo […]».
3
Su questo tema si veda il classico studio antropologico di Johannes Fabian (2000).
Con molte ragioni dunque uno studioso francese, Serge Latouche, nei suoi libri ha
cercato di mostrare come lo sviluppo sia stato fondamentalmente un tentativo di
occidentalizzazione del mondo.
«Mi sembra che ora siamo nel bel mezzo di un “movimento culturale”
mondiale di questo tipo: nelle Figi e nel Tibet, in Amazzonia e nell’entroterra
australiano, nel Kashmir e nel Wisconsin settentrionale, in tutto il mondo, gli
indigeni stanno diventando consapevoli di quella che chiamano la loro “cultura” e
la difendono. La parola stessa si è diffusa in tutto il pianeta: una prise de
conscience che è sicuramente tra i più notevoli fenomeni della storia mondiale
del tardo XX secolo. I popoli hanno scoperto la loro “cultura”; prima si limitavano
a viverla. Ora la loro “cultura” è un valore conscio e articolato, qualcosa da
difendere e, se necessario, reinventare» (Sahlins, 1992, p. 200).
Questa storia può apparirvi strana, ma in realtà descrive molto bene, con molta
efficacia quello che è stato l’atteggiamento occidentale verso le altre culture e gli altri
popoli.
Per secoli noi occidentali abbiamo detto e continuato ad affermare che in
quei paesi, in quelle culture non c’era civiltà, non c’era sviluppo, non c’era
benessere. E abbiamo imposto la nostra visione dell’accumulazione, della ricchezza,
del benessere, della crescita, dello sviluppo.
Poi ad un certo punto ci siamo accorti che qualcosa non tornava. Non solo molti di
questi paesi non si sviluppavano. Non solo che le disuguaglianze tra nord e sud del
mondo aumentavano, ma addirittura che in molti casi la povertà stava aumentando
drasticamente, sia in termini quantitativi assoluti - il numero dei poveri -, sia in
termini relativi - la percentuale di poveri nei diversi paesi – sia ancora in termini
qualitativi, ovvero la povertà si faceva più drammatica a causa della disgregazione
delle reti di scambio sociale non monetario, l’impoverimento e il degrado delle risorse
ambientali, la diminuzione dei diritti di accesso.
Qualche tempo fa Vandana Shiva ha risposto all’eonomista america Jeffrey
Sachs criticando il suo famoso libro “ La fine della povertà ” (Sachs J., 2005) e le sue
ricette per sconfiggere la povertà. Val la pena leggerne insieme alcuni stralci…
«Due dei grandi miti economici del nostro tempo permettono alle persone
di negare questo stretto collegamento e di diffondere interpretazioni scorrette di
cosa sia la povertà.
In primo luogo, per la distruzione della natura e della capacità delle
persone di aver cura di se stesse il biasimo non cade sulla crescita
industriale e sul colonialismo economico, ma sugli stessi poveri. La
malattia viene offerta come cura: più crescita economica, in modo da risolvere gli
stessi problemi di povertà e di declino ecologico a cui essa stessa ha dato inizio.
Questo è il messaggio che sta al cuore dell’analisi di Sachs.
Il secondo mito è l’assunto per cui se tu consumi ciò che produci, non
stai veramente producendo, almeno non economicamente parlando. Se io
mi coltivo il cibo che mangio, e non lo vendo, allora esso non contribuisce al PIL
e perciò non contribuisce ad andare verso la "crescita". Le persone vengono
percepite come "povere" se mangiano il cibo che hanno coltivato anziché il cibo
malsano distribuito dall’agribusiness globale. Sono visti come poveri se vivono in
case che si sono costruiti da soli, con materiali ben adattati ecologicamente come
il bambù ed il fango anziché in blocchi di cemento. Sono visti come poveri se
indossano abiti prodotti con fibre naturali anziché sintetiche.
Queste esistenze "sostenibili", che il ricco Occidente percepisce come
povertà, non si accoppiano necessariamente ad una bassa qualità della
vita. Al contrario, per la loro stessa natura di economie basate sul
sostentamento assicurano un’alta qualità della vita, se questa viene misurata in
termini di accesso a cibo sano ed acqua, identità sociale e culturale robusta e
percezione di un senso nell’essere vivi. Poiché questi poveri non condividono i
cosiddetti benefici della crescita economica, vengono rappresentati come "lasciati
indietro".
La falsa distinzione tra i fattori che creano l’accumulo e quelli che creano
povertà è al centro dell’analisi di Sachs. E per questo motivo, le sue prescrizioni
aggraveranno e renderanno peggiore la povertà, invece di porvi fine. I moderni
concetti di sviluppo economico, che Sachs vede come la "cura" per la
povertà, sono stati presenti solo in un’esigua porzione della storia
umana. Per secoli, i principi del sostentamento hanno permesso alle
società, sull’intero pianeta, di sopravvivere ed anche di prosperare. In
queste società i limiti presenti in natura venivano rispettati, e guidavano
i limiti del consumo umano. Quando la relazione della società con la natura è
basata sul sostentamento, la natura esiste come forma di bene comune. Viene
ridefinita come "risorsa" solo quando il profitto diviene il principio organizzativo
della società e produce l’imperativo finanziario allo sviluppo ed alla distruzione di
queste risorse per il mercato.
Sebbene in molti scegliamo di dimenticarlo o di negarlo, tutti i popoli in
tutte le società dipendono ancora dalla natura. Senza acqua pulita, suoli
fertili e diversità genetica, la sopravvivenza umana non è possibile. Oggi
lo sviluppo economico sta distruggendo questi che un tempo erano beni
comuni, dando come risultato una contraddizione: lo sviluppo depriva le
stesse persone che professa di aiutare della loro terra e dei loro
tradizionali sistemi di sostentamento, forzandole a sopravvivere in un
mondo naturale sempre più impoverito.
Un sistema quale è il modello di crescita economica che conosciamo
oggi, crea miliardi di miliardi di dollari di profitti per le corporazioni, nel
mentre condanna milioni di persone alla povertà. La povertà non è, come
Sachs suggerisce, uno stato iniziale del progresso umano da cui
dobbiamo fuggire. E’ lo stato finale in cui le persone cadono quando uno
sviluppo unilaterale distrugge i sistemi ecologici e sociali che hanno
mantenuto la vita, la salute ed il nutrimento dei popoli e del pianeta per
ere.
La realtà è che le persone non muoiono per mancanza di soldi.
Muoiono per mancanza di accesso alla ricchezza dei beni comuni. Qui, di
nuovo, Sachs si sbaglia quando dice: "In un mondo di abbondanza, un miliardo di
persone sono così povere che le loro vite sono in pericolo". I popoli indigeni
dell’Amazzonia, le comunità montane dell’Himalaya, i contadini ovunque le loro
terre non siano state espropriate e la cui acqua e biodiversità non sia stata
distrutta dall’industria agricola creatrice di debito, sono ecologicamente ricchi,
sebbene guadagnino meno di un dollaro al giorno» (Shiva, 2005a).
Sulla stessa linea della Shiva vanno anche le riflessioni di un importante studioso
iraniano che vive in francia, Majid Rahnema. A suo modo di vedere lo sviluppo ha
rappresentato non l’uscita da uno stato di povertà, ma piuttosto una
modernizzazione della povertà (Rahnema, 2005, p. 220), ovvero la trasformazione
della povertà in una condizione di miseria ben più drammatica. La mancanza di soldi
in una società nella quale il denaro rappresenta la principale quando non l’unica forma
di accesso a beni e servizi o addirittura alla possibilità stessa di lavorare, determina
una condizione di emarginazione e privazione ben più radicale di una condizione di
povertà in una società tradizionale.
4
Citato in Martin, Schumann, 1997, p. 30.
5
Tutto il nostro sistema produttivo si basa su un prelievo continuo, e indiscriminato di materie prime in
tutto il mondo. Risorse basilari per i processi vitali e produttivi come l’acqua, il suolo fertile, le foreste;
Risorse energetiche quali il petrolio, il carbone, il gas naturale; Risorse minerarie sia minerali
produttori e dei consumatori è stato estratto più petrolio, più gas, più minerali, si sono
pescati più pesci, si sono tagliati più alberi ecc.
Tutta l’ideologia della crescita moderna si è basata paradossalmente sull’idea di
una natura come qualcosa di totalmente e infinitamente a disposizione e
dall’altra come qualcosa di cui si sarebbe potuto, grazie alle innovazioni tecnologiche,
in prospettiva fare a meno.
In realtà non è andata così. Non solo le tecnologie non ci hanno reso più autonomi
dalla natura, ma al contrario, oggi lo sfruttamento dei beni naturali è diventato
diffuso e generalizzato come mai prima in tutta la storia dell’umanità. Nei fatti
dunque le nostre società, il nostro benessere è divenuto sempre più dipendente da un
ampio sfruttamento di questi risorse
Negli ultimi 45 anni la domanda di risorse è più che raddoppiata. Per esempio
tra il 1950 e il 2005 la produzione di metalli è cresciuta di sei volte, il consumo di
petrolio di otto volte, il consumo di gas naturale addirittura di 14 volte. Ogni anno
si estraggono circa 60 miliardi di tonnellate di risorse. Questo prelievo
scriteriato ha naturalmente un enorme prezzo ecologico.
Attualmente consumiamo circa il 40% in più delle risorse che la terra è in
grado di rigenerare. Si può dire che ci siamo comportati come se lo stock di risorse
naturali fosse più o meno illimitato senza preoccuparci della loro possibilità di
ricostituzione o del loro esaurimento (nel caso di beni non rinnovabili).
Così ci troviamo a confrontarci con la prospettiva del declino del petrolio ma anche
di alcuni minerali6 nonché con il crollo della biodiversità.
Stiamo dunque sfruttando, e mettendo a rischio nel giro di pochi decenni un
patrimonio di beni naturali che sono sulla terra da centinaia di migliaia di anni o
addirittura milioni di anni.7
Che cosa significa tutto questo?
Significa che noi stiamo accumulando un enorme debito ecologico a fianco del debito
economico. O se volete, che dietro la bolla crisi economica noi stiamo producendo una
grande bolla speculativa ecologica, la cui esplosione minaccia di produrre conseguenze
ancora più vaste e più profonde della crisi che stiamo vivendo.
Quello che colpisce – ha notato in proposito Wolfgang Sachs
«noi viviamo ogni giorno di crediti non pagati, di crediti morbosi che prendiamo
dalla natura. Crediti che non vengono mai ripagati. E anche queste sono in
fondo scommesse sul futuro. Scommesse che probabilmente un giorno le
generazioni di domani dovranno pagare o sopportare. In altri termini noi ogni
giorno viviamo in una grande bolla speculativa ecologica» (Sachs in A. Bosi, M.
Deriu, V. Pellegrino, Il dolce avvenire, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, p. 119).
Questo non è un fatto nuovo. Pensiamo all’Overshoot day. Con questo nome si
indica il giorno in cui l’umanità comincia a vivere oltre la disponibilità dei suo mezzi
ecologici, ovvero il momento in cui si è utilizzato più delle risorse che la terra è in
grado di rigenerare (ovvero di produrre e riciclare) in un anno. Questo limite è stato
superato per la prima volta nel 1986 e da allora la tendenza è quella di anticipare ogni
anno il giorno in cui si sono impiegate le riserve annue. La crisi ha fermato
temporaneamente questa tendenza. Nel 2012 l’Overshoot day è caduto il 22
metallici sia minerali non metallici; Risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari,
ma anche l’universo delle droghe; Risorse animali per alimentazione (caccia, pesca, allevamento) per
vestiti e suppellettili (pellicce, scarpe, cinture) per uso scientifico ecc.
6
Due studiosi italiani Ugo Bardi e Marco Pagani hanno identificato undici minerali che hanno già
superato il picco di produzione: mercurio, tellurio, piombo, cadmio, potassio, rocce fosfatiche, tallio,
selenio, zirconio, renio, gallio.
7
Il consumo annuo di carbone e petrolio equivale a una biomassa accumulata nel corso di 100.000
anni.
agosto. Dunque consumiamo in 8 mesi quello che il pianeta rigenera in un
anno. O detta in altre parole la Terra ha bisogno di un anno e quattro mesi per
rigenerare quello che usiamo in un anno.
Quello che Gorz mette in luce è che la dinamica del capitalismo è stata possibile grazie
ad una ba se materiale e naturale, apparentemente infinitamente disponibile, che si
dava per scontata.
8
André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009, p. 32.
Il movimento della Decrescita ha preso a prestito un sacco di cose dal movimento
delle donne e dalla rivoluzione culturale prodotta dal femminismo, sia da un punto di
vista della metodologia che da un punto di vista dei contenuti. Ma questo debito non è
sempre riconosciuto. In parte perché molte delle idee e delle pratiche femministe sono
entrate nel senso comune e chi non ha una conoscenza e una sensibilità storica fatica
a riconoscerlo, in parte perché molti uomini faticano a tenere insieme la critica macro-
economica o sociologica con uno sguardo riflessivo su di sé, la propria vita, le proprie
contraddizioni.
La divisione sessuale del lavoro non è una invenzione del capitalismo. Tuttavia, il
capitalismo è stato in grado di sfruttare per i propri scopi questa divisione tradizionale
in modi diversi. In primo luogo con la “naturalizzazione” del lavoro di cura delle
donne è progressivamente diminuita l'attenzione sulle condizioni di vita e la necessità
di rigenerazione delle persone e delle famiglie.
La società della crescita ha messo al centro dell'immaginario sociale la capacità di
produzione di beni commerciabili, di oggetti, servizi e prestazioni economiche e
finanziarie misurate con la contabilità, per aumentare i profitti, mentre ha oscurato
la necessità per la riproduzione e il mantenimento della vita e l'importanza, per
la qualità della vita, delle dimensioni relazionali di ricchezza, di condivisione e
reciprocità, nonché l’importanza della creazione di beni e servizi non-mercato. In
questo modo il lavoro produttivo è stato tradizionalmente assegnato agli
uomini ed è stato simbolicamente ed economicamente valorizzato e
riconosciuto, mentre il lavoro di cura e relazionale riservato alle donne è stato
svalutato e sostanzialmente depredato della sua centralità nella vita di una
società.
Concretamente, ciò significa che la creazione e l'accumulo di ricchezza su cui si
basa la crescita capitalista si sostiene solo grazie a un’enorme massa di lavoro di
cura e di ri-produzione che non è pagato e non viene preso in considerazione nella
contabilità nazionale.
Inoltre, il capitalismo è stato in grado di sfruttare il lavoro produttivo anche delle
donne, ma senza di fornirgli contemporaneamente diritti, garanzie e compensazioni. Il
lavoro delle donne è rimasto in uno stato di insicurezza e di subordinazione
in relazione a quello degli uomini, anche quando il lavoro concreto è in realtà
identico. Vi è a questo proposito una vasta letteratura femminista sul lavoro di cura
non retribuito delle donne.
Ma ora vorrei dire qualcosa sulla condizione dell'uomo, quella che io chiamo la
gabbia dell’homo economicus.
Occorre dunque andare alle radici del problema. Come promotori dell’idea di
decrescita siamo ovviamente anticapitalisti, ma occorre notare che l’ideale della
crescita, dello sviluppo rappresenta un modello civilizzatorio più ampio ed esteso che
non è riconducibile solamente ai sistemi capitalistici. Questo modello si è incarnato fin
da subito anche nell’Unione Sovietica, in Cina, in molti paesi dell’est, dell’Africa,
dell’America Latina e dell’estremo oriente, connettendo diverse ideologie e tradizioni
filosofiche e politiche.
Alcuni degli assunti delle concezioni della crescita e dello sviluppo –
l’antropocentrismo e il dominio sulla natura, l’etnocentrismo e il
colonialismo, l’idea di progresso e la visione unilineare della storia, il
patriarcato e la divisione sessuale del lavoro - hanno delle radici molto più
antiche e facciamo più fatica a riconoscere, a criticare e a mettere in discussione
questi aspetti profondi che non a criticare la finanziarizzazione, il capitalismo
predatorio, o lo stesso neoliberismo.
Facciamo più fatica perché fanno parte di un ideale civilizzatorio che ha
costituito la spina dorsale della nostra storia.
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