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Il diabete: un "incidente" nel cammino

dell'evoluzione?
Marco Songini

Il diabete mellito rappresenta attualmente uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo.
La sua incidenza e prevalenza sono in costante aumento, soprattutto nei paesi in via di sviluppo e
nelle nazioni di recente industrializzazione. Nel 1990, i diabetici erano circa 80 milioni e si prevede
che entro il 2000 tale cifra raddoppierà, assumendo così la malattia le caratteristiche di una vera e
propria epidemia mondiale. L'incremento maggiore lo si osservava nei paesi di recente sviluppo.
La malattia rappresenta una delle cause principali di mortalità prematura ed ha un grosso impatto di
tipo socio economico nella maggior parte dei paesi. Negli Usa si è stimato che l'insieme dei costi
diretti e indiretti del diabete abbia raggiunto una cifra annuale di oltre 20 miliardi di dollari.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) riconosce due principali forme cliniche: il diabete
mellito insulinodipendente (Iddm, tipo 1) e il diabete mellito noninsulinodipendente (Niddm, tipo
2). Il primo tipo, caratterizzato dalla distruzione autoimmune delle betacellule pancreatiche
produttrici di insulina, colpisce soprattutto bambini e giovani delle popolazioni europee od
extraeuropee bianche di origine caucasica e rappresenta circa il 10% di tutti i casi di diabete; il
secondo tipo, dell'adulto, si associa ad obesità e alterazioni complesse dell'azione e secrezione
insulinica rappresentando circa il 90% di tutti i casi di diabete. Nei paesi in via di sviluppo quasi
tutti i casi di diabete rientrano in questa categoria.
Uno dei più importanti risultati della monitorizzazione epidemiologica, sempre più estesa e globale
condotta dall'Oms e da altri organismi nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, è stato
quello riportato nel campo delle malattie non infettive, quali per esempio, aterosclerosi e diabete,
per le quali, a differenza delle malattie trasmissibili che andavano registrando un costante calo
associato alle innovazioni in campo diagnostico e terapeutico (eccezion fatta per il recente
drammatico ingresso in scena dell'Aids) si registrava un costante incremento che recentemente ha
assunto i connotati di una vera e propria "epidemia".
Il fenomeno del brusco incremento della frequenza del diabete, inizialmente descritto soprattutto nei
confronti del diabete noninsulinodipendente tipo 2, recentemente ha coinvolto anche la meno
frequente forma di diabete insulinodipendente tipo 1. in particolare la Sardegna è balzata alla
"ribalta" epidemiologica mondiale per l'altissima incidenza di diabete tipo 1 a partire dagli anni '60.
Vi sono tutte le ragioni per ritenere che l'epidemia di diabete di entrambi i tipi possa aumentare nel
prossimo decennio e che il diabete e le sue complicanze possano costituire una delle principali
minacce per la salute mondiale.
Esiste certamente una componente genetica nel determinismo di entrambe le forme di diabete,
maggiore per il tipo 2 rispetto al tipo 1, testimoniata dalla storia familiare (positiva soprattutto nel
diabete tipo 2) e dalla concordanza per la malattia nei gemelli omozigoti (90% di concordanza per il
diabete noninsulinodipendente), che interagisce con l'ambiente nel far comparire la malattia clinica.
Purtuttavia, dal punto di vista evoluzionistico, il diabete mellito ha sempre rappresentato un
"rompicapo" o meglio, un "incubo" in quanto la sua relativa frequenza in determinate popolazioni
poneva quesiti di difficile risposta.
Infatti, in accordo con le teorie darwiniane, la permanenza nel corso dell'evoluzione dei geni (o del
gene) che predispongono alla malattia avrebbe dovuto pur favorire un qualche vantaggio selettivo a
fronte degli svantaggi (vedi a questo proposito come in Sardegna il favismo abbia rappresentato un
vantaggio nei confronti della malaria). Svantaggi che, oltre a quelli evidenziati dello stato di
malattie e delle altre condizioni morbose ad esso associate (aterosclerosi, obesità, ipertensione
arteriosa), consistono anche in negative interferenze con la riproduzione della specie umana.
Ebbene, i fattori genetici e culturali che predispongono a tale condizione, sostanzialmente dannosa
per la salute umana, sono stati non solo conservati ma anche, come vedremo più avanti,
accuratamente selezionati dall'evoluzione.

L'handicap di un gene che favoriva l'obesità


Tra le forme di diabete, quello di tipo 2 è particolarmente frequente tra le popolazioni delle nazioni
in via di sviluppo e di recente industrializzazione, che hanno cioè subito una rapida
occidentalizzazione delle loro condizioni socioeconomiche. Un mutamento caratterizzato da
riduzione dell'attività fisica, modificazioni qualitative (più grassi e proteine, meno carboidrati e
fibre) e quantitative (più calorie) della loro dieta, obesità. Il diabete di tipo 2 è egualmente assai
diffuso tra le minoranze ed i gruppi che vivono in condizioni svantaggiate nei paesi sviluppati: è il
caso dei melanesiani della Papua Nuova Guinea, dei micronesiani di Nauru e degli indiani
nordamericani Pima (fino al 40-50 per cento di queste popolazioni soffre di diabete 2). Il diabete sta
rapidamente emergendo tra gli immigrati indiani asiatici e cinesi, i messico-americani, i
sudamericani, gli aborigeni australiani ed i neri Usa. È invece bassa la sua frequenza (meno del 2
percento) nelle popolazioni che hanno conservato le abitudini rurali di alimentazione e vivono in
condizioni "spartane" di vita. È relativamente poco diffuso inoltre nelle popolazioni bianche
caucasiche (circa 2-3 percento).
Il diabete tipo 2 è caratterizzato da un'alterata secrezione ed azione dell'insulina che in presenza di
un alimentazione eccessiva, favorisce l'obesità, l'ipertensione arteriosa e le malattie cardiovascolari.
Dobbiamo ricordare che, durante tutta la storia dell'umanità (di cui l'epoca florida attuale
rappresenta un brevissimo periodo), la tendenza ad accumulare grasso (e che presenta le stesse
stigmate metaboliche del diabete tipo 2) ha rappresentato un notevole vantaggio nell'adattamento
all'ambiente. Al contrario, le condizioni che sullo stesso terreno genetico e culturale avrebbero
potuto sfociare nel diabete 2 e nell'obesità non hanno mai avuto modo di manifestarsi, se non in
sporadici periodi storici e per gruppi di persone molto ristretti: mai infatti si è avuta in passato una
così ampia disponibilità di cibo, per larghe fasce della popolazione, simile a quella che oggi si
riscontra nei Paesi industrializzati.
È con la fame, piuttosto, che l'umanità sempre dovuto fare i conti e non, come comunemente si
pensa, perché l'alimentazione dei nostri antenati fosse inadeguata, anzi. per millenni, l'uomo non ha
prodotto il suo cibo ma l'ha procurato cacciando e raccogliendo i frutti che la natura gli offriva:
questo sistema gli ha offerto un'alimentazione sotto certi aspetti più equilibrata rispetto a quella
moderna occidentale. Infatti, l'apporto di grassi, carboidrati e fibre rientrava nei limiti oggi
raccomandati e l'assunzione di proteine era addirittura doppia. Ancora oggi, popolazioni come i
Kung San del Botswana, che conducono una vita simile a quella dei cacciatori preistorici, strutturati
in piccole tribù seminomadi, sono più sani e meglio nutriti della maggior parte degli abitanti del
Terzo Mondo dediti all'agricoltura. Con questo non vogliamo idealizzare queste civiltà dove si
registrano una mortalità infantile del 50 per cento e una bassa aspettativa di vita rispetto alle nazioni
occidentali.
L'alimentazione poi, se nel complesso può ritenersi soddisfacente è caratterizzata da una notevole
variabilità nel tempo, perché dipende dagli esiti più o meno felici della caccia ed in questo dalla
disponibilità di selvaggina che ha conosciuto periodi alterni.
In questo, la situazione dei nostri progenitori non si discosta troppo da quella delle popolazioni
preindustriali dedite all'agricoltura, in cui le oscillazioni di peso durante l'anno seguono il ritmo
delle stagioni e dei raccolti in coincidenza con periodi di "vacche grasse e magre". La fame ha
quindi sempre condizionato la nostra sopravvivenza: tutte le civiltà sono prima o poi andate
incontro a periodi in cui il cibo scarseggiava. Cambiano solo la frequenza con cui queste fasi si
ripresentano e si ripresenteranno e, soprattutto, l'entità della carenza alimentare. Infatti, carenze
alimentari sempre più gravi e prolungate possono esaurire le scorte di cibo e far perdere una
notevole quantità di peso fino a configurare vere e proprie carestie con morti per fame. Inoltre, la
denutrizione cronica favorisce le malattie infettive, ostacola la crescita dei bambini e determina la
nascita di neonati di basso peso con la conseguenza di una maggiore mortalità infantile.
Dal punto di vista biologico, si sarebbe quindi selezionato un gene (o un complesso di geni) che
avrebbe favorito l'accumulo di grasso nei periodi di "vacche grasse" per poi smobilitare nei periodi
di "vacche magre". Tale predisposizione era tanto più essenziale per le donne, alle quali durante la
gravidanza e l'allattamento (condizioni che peraltro nelle società preindustriali coincidono con la
maggior parte della vita femminile dopo la pubertà) occorre un apporto calorico superiore alla
norma. In ultima analisi, risultavano avvantaggiati dall'ambiente quegli individui che tendevano ad
accumulare scorte di adipe e pertanto a poter conciliare meglio degli altri le necessità di
sopravvivenza loro e della loro progenie. Probabilmente dipende da tale selezione naturale se, una
volta resosi disponibile costantemente il cibo nelle società moderne, il diabete 2 e l'obesità sono più
frequenti nelle donne che non negli uomini.
Recenti ricerche condotte negli animali ed anche su popolazioni umane avrebbero confermato i
presupposti su esposti alla base del genotipo "thrifty" o di sopravvivenza. In alcuni ceppi di roditori
del deserto suscettibili all'obesità e al diabete sono state descritte una bassa termogenesi ed una
esaltata capacità di immagazzinare calorie sotto forma di adipe così meglio sopravvivendo ad un
ambiente ostile quale il deserto. Studi prospettici condotti nei Pima, Aborigeni, Nauru ed altre
popolazioni, avrebbero confermato la predittività per obesità e diabete in condizioni metaboliche
"risparmiatrici" caratterizzate da ridotto consumo energetico basale, insulinoresistenza muscolare ed
epatica (con minor consumo e maggior produzione di glucosio nei periodi di carenza per preservare
la funzione vitale cerebrale glucosiodipendente), ed ultimamente anche implicazioni della
insulinoresistenza su una riduzione della funzione ovarica che avrebbe così rappresentato un
controllo automatico della fertilità vantaggioso dal punto di vista evoluzionistico (minore fertilità in
carenza di cibo).
Il rapido sopraggiungere della modernità e della dieta ipercalorica avrebbe condotto tali popolazioni
ad un circolo vizioso di obesità crescente, iperinsulinemia reattiva e, per ultimo, scompenso
funzionale della riserva secretoria insulina pancreatica con conseguente comparsa del diabete
mellito.
Recenti ricerche retrospettive per la ricerca di fattori predittivi del diabete 2 avrebbero inoltre
segnalato come la malnutrizione calorico-proteica materna durante la gestazione condizionerebbe
non solo un basso peso alla nascita ma, soprattutto, un ridotto sviluppo dell'apparato
insulinoprotettore del pancreas che durante la vita adulta, se sottoposto a prolungati periodi di
esagerata stimolazione (come nelle condizioni sopraesposte) si esaurirebbe precocemente
conducendo alla comparsa del diabete.
A questo punto, considerando che il diabete 2 colpisce tante popolazioni, rimane da spiegare come
mai la sua prevalenza risulti invece così bassa nei bianchi che vivono nei Paesi industrializzati. I
risultati degli ultimi studi epidemiologici porterebbe alla spiegazione che a differenza dei paesi del
Terzo e Quarto Mondo che hanno visto o stanno vedendo solo recentemente cambiare rapidamente
le loro condizioni ambientali in presenza di una medicina moderna (in grado cioè di curare per
quanto grossolanamente le malattie del "benessere" quali il diabete), in Europa e negli altri paesi
ricchi industrializzati tale modifica delle condizioni di vita si sarebbe verificata progressivamente,
meno bruscamente e prima dell'avvento della medicina moderna. Ciò avrebbe comportato una
progressiva eliminazione dei soggetti geneticamente suscettibili ed uno spostamento dell'età di
comparsa del diabete in fase postriproduttiva (dopo cioè i 50 anni come è dato di osservare nei
diabetici europei) il che avrebbe portato la prevalenza della malattia agli attuali bassi livelli.
Resta da stabilire se, considerato che l'umanità ha più spesso dovuto patire lunghi periodi di penuria
rispetto alla brevità dei cicli di abbondanza (quello attuale è certamente il più lungo), sia augurabile
che nel patrimonio genetico dell'umanità rimanga presente, nonostante la spinta selettiva negativa
attuale, un corredo genetico quale quello del "risparmiatore" che potremmo rimpiangere in un
futuro che ci auguriamo, da questo punto di vista, lontano.
Un equilibrio sconvolto dalla scoperta dell'insulina
Per quanto riguarda il diabete mellito tipo 1 insulinodipendente, è necessario ricordare come oggi le
teorie patogenetiche più accreditate lo riconducano ad un processo di distruzione autoimmune
(mediato cioè da linfociti ed autoanticorpi prodotti dall'organismo contro propri componenti; nel
caso del diabete 1, la betacellula pancreatica produttrice dell'ormone insulina) nel campo più vasto
delle malattie autoimmuni.
È noto che la suscettibilità genetica per tale entità morbosa risulta associata a particolari geni che
controllano la risposta immune (HLA) e che sono pertanto coinvolti nella risposta alle infezioni
batteriche e virali. Inoltre le popolazioni maggiormente affette risultano essere quelle bianche di
origine caucasica mentre è quasi sconosciuto nelle altre popolazioni dove, invece, è particolarmente
frequente il diabete 2, In Europa, la malattia è in rapido crescente aumento e vede le popolazioni
nordiche (Finlandia in testa) a maggior rischio di diabete insulinodipendente. La Sardegna segue
purtroppo a ruota la Finlandia piazzandosi al secondo posto quanto a rischio di diabete di tipo 1 tra
tutte le popolazioni del globo. Anche nel caso di questa patologia sono state descritte vere e proprie
epidemie (Norvegia e Polonia) così come per il diabete 2.
Quale vantaggio selettivo può pertanto avere rappresentato lo stato di portatore di una suscettibilità
genetica per il diabete tipo 1 tale da giustificare la sua presenza nella popolazione caucasica?
Se è oggi accettato che il diabete tipo 1 rappresenti una delle malattie autoimmuni, bisogna anche
ricordare come l'autoimmunità sia una patologia relativamente recente, in associazione con la
progressiva sradicazione dall'ambiente di agenti infettivi e parassitari.
Si ritiene alla luce degli studi condotti sui fossili umani appartenenti ai nostri progenitori, che la
particolare suscettibilità delle popolazioni caucasiche alle malattie autoimmuni (in questo
includendo anche il diabete tipo 1) sia stata selezionata dal carattere nomade delle prime
popolazioni caucasiche. Queste ultime, muovendosi dal sito originario del Caucaso verso le pianure
del centro Europa, vivendo in condizioni di stretta promisquità pativano un gran numero di
infezioni parassitarie quali sifilide, tubercolosi e parassitosi di vario genere. Inoltre coloro che
migravano verso le regioni fredde del nord Europa incontravano numerosi agenti virali ed un
ambiente freddo che richiedeva una migliore e più efficiente risposta anticorpale e linfocitaria
(immunità) alle infezioni. È interessante osservare, dall'analisi dei reperti fossili, come via via che
tali popolazioni migravano verso il centro Europa, soprattutto quelle che risalivano la Scandinavia
finivano per selezionare quegli aplotipi genetici HLA che noi oggi riscontriamo nei giovani
diabetici.
Le conclusioni possono essere quelle che il biotipo "iperimmune" fosse in grado di resistere meglio
alle infezioni in virtù di una più pronta e aggressiva risposta immune e abbia conferito così un
vantaggio selettivo ambientale: lo scotto di tale condizione poteva consistere in una sporadica
"deviazione" di tale risposta immune diretta contro propri componenti (autoimmunità) come nel
caso delle betacellule pancreatiche nel caso del diabete di tipo 1. Ma allora non esistevano
antibiotici né insulina e pertanto il soggetto "deviato" non poteva raggiungere la fase produttiva. La
scoperta dell'insulina nel 1922 ha sconvolto l'equilibrio evoluzionistico che, incalzato dagli enormi
progressi della medicina moderna, e come ha affermato qualche genetista, ancora oggi alla ricerca
di un nuovo equilibrio.

Marco Songini.

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