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La Sardegna popolare
In tutta la Sardegna, gli anziani, seduti nel patio della loro casa o accanto al camino
nelle lunghe serate invernali, si affrettano con giovanile verbosità a narrare ai più giovani le
antiche storie dell’Isola. Leggende popolate di anime vaganti fra il mondo terreno e quello
ultraterreno, di orchi assetati di sangue, folletti maliziosi e Janas (fate) o streghe dalle
dimensioni di una mela.
Le leggende, tramandate di padre in figlio e scaturite da fatti storici realmente accaduti, come
l’arrivo dei vari dominatori provenienti dall’esterno o le guerre e le carestie, si differenziano
molto spesso per la variante linguistica in cui sono espresse e per la parlata che ogni territorio
o paese si porta appresso, come un’eredità linguistica di cui ogni persona viene omaggiata.
Le aperte vocali del sud, il raddoppiamento delle consonanti, caratteristica del Sulcis-
Iglesiente, la pastosa armonia delle vocali del centro dell’Isola, la regolarità ritmica del nord o
il tabarchino dell’isola linguistica di Carloforte e Calasetta, sono state il mezzo quotidiano di
trasmissione delle antiche storie a noi pervenute.
Nel libro “Leggende e tradizioni di Sardegna” di Gino Buttiglioni, pubblicato nel 1922, sono
riportate con dovizia di particolari le storie fantastiche narrate dagli anziani. Alcune di esse
non mancheranno di stupire per l’efferatezza, per il salomonico senso della giustizia o,
semplicemente, per la moderna sensibilità dalla quale sono animate.
A Tempio si narra la storia di un folletto dai sette berretti al quale, un essere umano scaltro e
veloce, sottrasse uno dei berretti nascondendolo dentro una pentola annerita dall’uso sul
fuoco del camino. Il folletto, sprezzante creatura dei boschi e delle soffitte, abituato ad avere
sempre la meglio, dovette invece rinunciare a riavere il suo tesoro poiché alla sua bianca
mano non era permesso di sporcarsi con il nero della fuliggine della pentola. Sempre a
Tempio, una leggenda narra la storia di una donna che, avendo redarguito con male parole
una ragazza vista mentre lavava i pannolini del proprio bambino nelle acque del fiume, portò
per sempre i segni di tale affronto: una grossa macchia nera sul viso. La donna vista al fiume,
infatti, non era altri che l’anima di una ragazza morta durante il parto, destinata, secondo la
tradizione, ad essere seppellita con sapone, aghi, filo e ditale per il cucito.
Ad Aggius, invece, la leggenda narra di una “Stria”, personaggio a metà fra una strega e una
predatrice di bambini, il classico Babau o l’inglese boogeyman, la quale, tormentato un
neonato fino al pianto, vide recisa la sua mano scambiata, dalla madre del bambino, per un
filo penzolante dalla cappa del camino.
È arrivata fino a noi anche la storia del fortunato mortale di Casteldoria che, avendo sbirciato
durante la notte le anime dei morti depositare tre monete d’oro, ottenne così per sé e per i
propri figli un ricco futuro.
Fitta e interessante appare la congerie di fiabe dedicate alle fate (Janas o Gianas) o alle
streghe. Una leggenda, narrata a Gino Buttiglioni da un abitante di Pozzomaggiore, racconta
come le fate, esseri luminosi dotati di ali, avessero depositato un tesoro perché gli uomini più
accorti potessero attingervi ricchezze di inestimabile valore. Le Janas, la cui etimologia si
avvicina molto alle entità soprannaturali preislamiche degli jānn (geni), forse collegate al
verbo aramaico dal significato evocativo di “celarsi o nascondersi”, sono descritte come
esseri minuti e veloci che «quando vedevano una persona che ad esse piaceva, andavano
vicino al letto e la svegliavano chiamandola tre volte».1 A Ghilarza una leggenda narra invece
di alcune Gianas molto belle che «vestivano di rosso con un fazzoletto fiorito».2 Ad Aritzo,
paese della Barbagia di Belvì, le Gianas sono alte non più di venticinque centimetri e si
rifugiano nel bosco mentre a Esterzili, nella Barbagia di Seulo, abitano in grotte sontuose.
Sempre a Esterzili un’antica storia, sorta attorno al tempio megalitico rettangolare de Sa
Domu 'e Urxìa, tenta di informare grandi e piccini sull’esistenza di un tesoro, chiamato “Su
Scusorxu”, nascosto in contenitori e custoditi dalla maga Urxìa.
A Villacidro a spaventare i bambini sono le streghe di San Sisinnio, vecchie brutte con lunghi
capelli e unghie acuminate che succhiavano il sangue e si trasformavano in gatti. A
Monserrato, invece, la mitologia locale narra di una bellissima e sfortunata fanciulla che
rimase vittima di uno smottamento durante una passeggiata nella miniera d’oro di Genniau,
vicino a Sarroch. Chiunque passasse da quelle parti poteva sentire il rumore del telaio che
l’anima della poveretta utilizzava in attesa di essere liberata dalla sua prigione d’oro.
Oltre ogni considerazione di tipo linguistico o etnolinguistico, sembra chiaro come la leggenda
o la fiaba si facciano oggi portatrici di un doppio valore, quello per l’appunto etnografico, e
quello della fantasia tout court, dotata di quella leggerezza che Calvino descrisse come un
velo minuto di umori e sensazioni.
Consulta il volume:
Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna [file. PDF]
1
BOTTIGLIONI, G., Leggende e tradizioni di Sardegna. Testi dialettali in grafia fonetica, a cura di Giovanni Lupinu,
Illisso, Nuoro, 2003, p. 129.
2
BOTTIGLIONI, G , Op. cit. p. 161.