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Università degli Studi di Milano – Facoltà di Filosofia

Cosa e come si
insegna quando si
insegna Filosofia
Didattica della Filosofia – Prof. Paolo Valore

Francesco Marsigli
Anno Accademico 2018/19 – I Semestre
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Sommario
Introduzione al corso ........................................................................................................................... 3
La Filosofia come argomentazione ...................................................................................................... 4
La Filosofia come analisi concettuale .................................................................................................. 8
La Filosofia come sapere storico ........................................................................................................ 11
Strumenti per la didattica filosofica ................................................................................................... 15
Insegnare filosofia alle scuole superiori............................................................................................. 18
CLIL applied to Philosophy: the reborn of Metaphysic ...................................................................... 20
Il pensiero e la storia. L’insegnamento della filosofia in Italia ........................................................... 26
Insegnare Filosofia – Modelli di pensiero e pratiche didattiche........................................................ 35

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Introduzione al corso
In università noi facciamo filosofia e studiamo filosofia forse con la speranza un giorno di poterla
insegnare. Ma cosa vuol dire insegnare filosofia? È un sinonimo di “fare filosofia”? Si può “insegnare
a fare filosofia”? Ma soprattutto, quale è il modo migliore per insegnare la filosofia, sempre che ne
esista uno o più di uno? Questo corso cercherà di trovare delle risposte a queste domande, in parte
seguendo le indicazioni ministeriali sulle modalità di insegnamento ma anche cercando di
trasformare le lezioni in lezioni di meta-filosofia, di filosofia della filosofia.

Il primo modulo sarà dedicato ai molteplici modelli filosofici: per capire come si possa insegnare
filosofia sembra infatti necessario capire cosa sia la filosofia, o almeno come essa viene concepita,
poiché questo incide sul modo in cui la si insegnerà. Dunque, bisognerà chiedersi quali siano le parti
che compongono la filosofia (posto che sia divisibile in parti), se una di queste sia più importante
delle altre e cosa mettano in risalto. Il primo modello di filosofia è quello che tende a concepire la
materia nella forma di “teoria dell’argomentazione” e quindi porta la filosofia ad essere un utile
strumento di supporto per altre materie, oltre che di analisi di una delle attività maggiormente
svolte dall’uomo, ovvero discutere. La seconda concezione è quella che ritiene la filosofia uno
strumento di analisi concettuale: secondo questo modello la filosofia permetterebbe di esibire le
componenti e le conseguenze di alcuni concetti che sono solitamente nascoste al senso comune e
dunque di fornire analisi più sottili. Il terzo modello di filosofia è quello sicuramente maggioritario,
che concepisce la filosofia nella forma di storia del pensiero, della cultura e quindi della filosofia
stessa. È una concezione che si deve allo studio di Giovanni Gentile, che assegna al filosofo il compito
di rimettere in moto il pensiero cristallizzato di altri filosofi passati: questo giustifica il fatto che, per
insegnare e fare filosofia, sia necessario insegnare e studiare la storia della filosofia. Questo non
avviene per le altre discipline: nessuno fa matematica studiando la storia della matematica.

Il secondo modulo del corso invece sarà dedicato agli strumenti da utilizzare per insegnare (e per
fare) filosofia. Buona parte di questo modulo sarà già accennata parlando di filosofia come
argomentazione, dato che l’argomentazione e i suoi strumenti sono innegabilmente utili a insegnare
filosofia. Inoltre, tratteremo anche dell’utilizzo di supporti grafici per chiarire e spiegare concetti
complessi e della possibilità di disegnare le idee o di utilizzare diagrammi di flusso, che mettano in
chiaro le questioni. Fare e insegnare filosofia non è infatti una azione relegata alla scrittura e lettura
di testi ma necessita anche di ulteriori strumenti. Tra questi strumenti, i più utilizzati sono
probabilmente gli esperimenti mentali, i quali però devono essere usati e trattati con competenza.

Il terzo e ultimo modulo sarà dedicato al programma CLIL, ovvero all’insegnamento di una materia
in una lingua straniera per permettere l’apprendimento di entrambe. Il modulo sarà quindi
composto da lezioni di metafisica e ontologia contemporanea in inglese.

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La Filosofia come argomentazione
Spesso quando un filosofo viene interrogato da un non-filosofo su ciò che effettivamente faccia e
su quale sia l’utilità della sua attività, una delle risposte più comuni chiama in causa
l’argomentazione. Fare filosofia significa saper argomentare correttamente il proprio supporto ad
una teoria, difenderla dagli attacchi altrui e confutare le teorie avversarie. Per fare questo bisogna
evidenziare quali siano i criteri che rendano apprezzabile una tesi: generalmente sono più
apprezzabili le tesi coerenti, compatte, unitarie, plausibili e poco onerose. Nel concreto la filosofia
deve allora offrire alcuni strumenti per controllare che le teorie proposte rispettino questi criteri.

Il primo degli strumenti è il controllo della coerenza: è necessario sempre verificare che i vari
elementi che compongono la nostra tesi siano in accordo tra loro, senza contraddirsi a vicenda. Per
fare ciò risulta utile evidenziare quali siano gli elementi della teoria e porli nella forma di singoli
enunciati, in modo da poter controllare i nessi logici tra di essi. Dato che per argomentazione non si
intende mai una argomentazione rigorosa, di tipo deduttivo-matematica, è difficile che le
contraddizioni si presentino nella forma classica 𝑃 & ¬𝑃 e spesso bisogna portare alla luce delle
premesse non evidenti contenute nei concetti che stiamo utilizzando. Dire, ad esempio, “Luisa è
sposata con Paolo e Paolo è scapolo” non è una contraddizione nella forma classica poiché si
presenterebbe nella forma 𝑃 & 𝑄; bisognerebbe mostrare infatti che 𝑄 → ¬𝑃 e che dunque la
teoria di partenza è una contraddizione. Il controllo di coerenza può essere utile in negativo, per
mostrare le contraddizioni nella teoria dell’avversario, o in positivo, per mettere in chiaro le nostre
teorie, capire dove si sta sbagliando e quindi elaborare una teoria consistente.

Le teorie non devono essere necessariamente vere e fondate su fatti empirici ma possono anche
fondarsi su congetture o ipotesi le quali, se verificate o falsificate, rendono rispettivamente vera o
falsa l’intera teoria. Una teoria consiste infatti nel ricondurre ad un principio unitario diversi fatti
particolari: molteplici fatti possono essere ricondotti ad una ipotesi di fondo che li spieghi, quindi si
suppone, si controllano le conseguenze dell’ipotesi se siano consistenti e auspicabili. Se questo
avviene, si è trovato un buon terreno di fondo per la costruzione di un sistema teorico. Il ricondurre
più fenomeni alla stessa ipotesi è uno strumento che rende le tesi economicamente vantaggiose e
quindi maggiormente apprezzabili e anche più facilmente verificabili: basta infatti confermare
l’ipotesi per confermare la teoria.

Il tema delle ipotesi chiama in causa un altro criterio oltre alla parsimonia e alla coerenza, ovvero la
plausibilità: noi possiamo infatti fare n ipotesi coerenti per unificare più fenomeni ma non tutte sono
plausibili. Una teoria si dice infatti plausibile se non ci costringe, con le sue assunzioni, ipotesi e
conseguenze, a rivalutare le nostre credenze in altri campi. Spesso infatti le nostre ipotesi, pur
avendo una altissima potenza esplicativa, possono risultare ad hoc, ovvero troppo precise e non in
grado di unificare altri fenomeni simili, oppure possono richiedere di pagare un prezzo troppo alto.
Quando infatti si valuta una teoria viene messo in atto un calcolo costi-benefici su ciò che comporta
accettare per vera una teoria: ogni teorie ha infatti delle ipotesi che possono essere più o meno
plausibili (l’implausibilità aumenta il costo della teoria) oppure che riteniamo scorretto accettare.
Lo stesso numero di ipotesi su cui si fonda una teoria incide sul suo prezzo, poiché un maggior

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numero di ipotesi corrisponde ad un maggior lavoro per convalidare la teoria ed una maggiore
facilità per chi volesse criticare la teoria. Il rapporto costi-benefici di una teoria non è mai fisso ed è
sempre in discussione: si potrebbe dire che la “convenienza” di una teoria è l’oggetto della ricerca
filosofica. Per fare un esempio, le geometrie non-euclidee erano teorie molto costose, perché
costringevano a rivedere il nostro concetto di spazio a priori e tutto il sistema aritmetico e
geometrico fondato su di esse, e non compravano nulla di più di un divertissment. Con lo sviluppo
della fisica teorica del ‘900 però, le geometrie non-euclidee sono diventate molto più convenienti,
poiché il loro costo si era abbassato.

Per quanto riguarda le strategie in negativo, lo strumento più utilizzato è sicuramente il


controesempio, che permette di falsificare proposizioni universali e necessarie (di cui spesso le
teorie sono ricolme) con il minimo sforzo. Per falsificare un enunciato del tipo “tutti gli x sono A”
non serve infatti prendere uno per uno tutti gli individui x e dimostrare che invece non sono A ma
B, ma è sufficiente dimostrare che esiste almeno un individuo x che non è A. In questo modo
l’enunciato è falsificato. L’esempio classico è quello dei cigni: la proposizione universale “tutti i cigni
sono bianchi” è falsa nel momento in cui è dimostrata l’esistenza di un cigno non bianco. Dato che
spesso però in filosofia non si esaminano casi empirici ma fortemente astratti, può essere difficile
trovare dei controesempi: a questo proposito si usano gli esperimenti mentali. Gli esperimenti
mentali sono dei particolari controesempi dove si costruisce a tavolino il caso particolare che
falsifica la proposizione universale. Quando si costruisce un esperimento mentale e quando lo si
affronta, non si deve tenere conto della plausibilità della storia ma della sua coerenza: le premesse
e le condizioni in cui si svolge l’esperimento vanno esplicitate e bisogna controllare che le
conseguenze non le contraddicano. Il vantaggio di un esperimento mentale non consiste soltanto
nel fatto di poter affrontare casi molto astratti ma anche nella possibilità di porre al centro della
questione dei piani teorici in più.

Per fare un esempio di esperimento mentale e di come vada trattato, prendiamo Terra Gemella di
Hillary Putnam. Se consideriamo le teorie classiche del linguaggio, ogni termine è diviso in
significante e significato: il significante è la parola pronunciata o scritta, il mezzo attraverso cui si
veicola il significato, il quale va diviso a sua volta in senso e riferimento. Il senso è la definizione vera
e propria, quello che normalmente si intende per significato, mentre il riferimento è l’oggetto che è
colto da questa definizione. Secondo le teorie classiche, la relazione tra senso e riferimento è ben
definita:
• sensi uguali determinano riferimenti uguali: “professore di didattica della filosofia” indica
sempre Paolo Valore;
• sensi diversi determinano riferimenti diversi: “professore di didattica della filosofia” e “gatto
grigio di mia zia” sono due sensi diversi che si riferiscono a Paolo Valore e a Tato;
• sensi diversi possono determinare riferimenti uguali: “professore di didattica della filosofia”
e “titolare dello studio di metafisica contemporanea” sono due sensi diversi che indicano
sempre Paolo Valore.

Cosa possiamo dire però dell’ultimo caso, ovvero quale è la relazione tra sensi uguali e riferimenti
diversi? Secondo la teoria classica si tratterebbe di un caso impossibile, ma Putnam propone il suo
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esperimento mentale proprio per dimostrare l’esistenza di almeno un caso particolare in cui questo
avviene. Supponiamo che esista una Terra Gemella identica in tutto e per tutto alla Terra originale
tranne per un fatto: la sostanza “acqua”, riconosciuta dai parlanti competenti di T2 allo stesso modo
di quelli di T1, sulla Terra Originale ha come riferimento la struttura chimica H2O, mentre su Terra
Gemella ha come riferimento una struttura chimica XYZ diversa da H2O. Abbiamo quindi un caso
dove sensi uguali (il significato che la parola “acqua” ha su T1 è identico a quello che ha su T2)
indicano riferimenti diversi, ovvero H2O e XYZ. Si potrebbe obiettare a Putnam che non si tratta di
un caso efficace perché potrebbe essere un caso di equivocità, molto comune nel linguaggio
ordinario, dove la stessa parola viene usata per due riferimenti diversi ma assume una sfumatura di
senso differente, non andando a dimostrare il caso di Putnam. La risposta di Putnam è però di
considerare la situazione proposta in un periodo antecedente la scoperta della chimica e quindi della
struttura molecolare dell’acqua: in questa situazione i sensi sono necessariamente uguali, perché
non esiste ancora il discrimine H2O/XYZ, ma indicano due riferimenti diversi, perché noi sappiamo
che su T1 l’acqua è H2O, mentre su T2 l’acqua è XYZ.

Possiamo vedere come la plausibilità di questo scenario sia irrilevante ai fini dell’argomento di
Putnam, mentre sia necessario verificare la coerenza della storia prima di convalidare le conclusioni
e soprattutto controllare che l’esperimento mentale non contenga dei costi nascosti. Per quanto
riguarda la coerenza, si può obiettare a Putnam che il pubblico a cui è proposto l’esperimento si
troverà sempre in una condizione epistemologica superiore agli abitanti di T1 e T2 poiché è
conoscenza della differenza tra H2O e XYZ quando questi non ne sanno ancora niente. L’esperimento
però rivela questa informazione e, per dimostrare il proprio punto, chiede di far finta di non esserne
a conoscenza. Questo però mina la coerenza dell’esperimento mentale.

Ricordiamo inoltre che, al netto delle discussioni filosofiche, gli esperimenti mentali sono usati in
moltissimi altri campi del sapere per argomentare le proprie posizioni: possiamo infatti farne uso in
fisica (esperimento mentale del treno per la relatività generale), in storia (“immaginiamo che la
Germania avesse vinto la II guerra mondiale”), in politica (“immaginiamo di essere noi i migranti”) o
in qualsiasi altro ambito di discussione (“immaginiamo che il rigore a Ronaldo per il fallo di Iuliano
sia stato dato”). Anche in questi casi, ciò che conta non è la plausibilità della supposizione ma la
coerenza della narrazione e quindi il fatto che dalle premesse immaginate derivino le giuste
conseguenze.

Controfattuale

Quando abbiamo delle implicazioni x -> y, possiamo trovarci di fronte a quattro casi diversi, a
seconda dei valori di verità delle due proposizioni dell’implicazione:

• 1 -> 1 è una implicazione vera


• 1 -> 0 è una implicazione falsa
• 0 -> 1 è una implicazione vera
• 0 -> 0 è una implicazione vera

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Può sembrare strano affermare che qualunque implicazione che parta da un antecedente falso sia
vera, senza considerare il conseguente. Questa proprietà dell’implicazione (detta ex falso quodlibet)
permette di conservare le regole di falsificazione e verificazione delle implicazioni. La frase (1) “Tutti
gli italiani sono ladri” si può leggere come una implicazione (2) “Se qualcuno è italiano, allora ruba”
ed è falsificabile solamente trovando un caso che sia vero all’antecedente (essere italiano) e falso al
conseguente (rubare). Una qualsiasi implicazione che non concordi con (2) all’antecedente non può
essere usata per falsificare (2): non posso portare un caso con un tedesco che non ruba per
falsificare (2). Per falsificare una implicazione devo trovare un controesempio in cui la premessa sia
vera e la conseguenza falsa: per questo motivo le implicazioni che partono da una frase falsa sono
indifferenti, dunque infalsificabili, dunque sempre vere.

Quadrato aristotelico

Un utile sistema per verificare le relazioni tra le diverse forme di proposizioni è il quadrato delle
opposizioni aristotelico, elaborato sotto la filosofia scolastica per schematizzare la logica
aristotelica.

Si compone di quattro forme generali di proposizioni:

• A: universale affermativa
• E: universale negativa
• I: particolare affermativa
• O: particolare negativa

Tra queste quattro forme di proposizione si sviluppano


delle diverse forme di relazione, in base ai loro valori
di verità:

• A e E sono contrarie: non possono essere


entrambe vere, ma possono essere entrambe
false oppure avere due valori di verità
differenti.
• I e O sono sub-contrarie: non possono essere
entrambe false.
• A e I sono sub-alterne (così come E e O): la verità dell’universale implica la verità della
particolare, ma questo non avviene per la falsità dell’universale. Non possono essere
contemporaneamente false.
• Le diagonali del quadrato sono le relazioni di contradditorietà, dove il valore di verità di una
implica il valore opposto dell’altra.

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La Filosofia come analisi concettuale
Se prendiamo ad esempio un qualsiasi dialogo platonico, in esso notiamo immediatamente la tesi
secondo cui la filosofia è argomentazione, come dimostra Socrate discutendo abilmente con tutti,
confutando le tesi avversarie e proponendo le proprie. A fianco di questa concezione però se ne
trova un’altra, ugualmente forte: la filosofia è analisi concettuale e serve a comprendere meglio
cosa comportino i concetti che si usano nelle discussioni.

Per fare un esempio di cosa voglia dire “filosofia come analisi concettuale” proviamo ad analizzare
il concetto di “esistenza”. Nella riflessione classica, che inizia con Parmenide, esistere è sinonimo di
essere e costituisce una dimensione contrapposta al non-essere: il non-essere non si può né dire né
pensare, in quanto è pura assenza. Ma allora come si spiegano enunciati del genere “x non esiste”?
La tesi parmenidea è molto onerosa, poiché cancella la possibilità di pensare o nominare qualsiasi
cosa che non sia in presenza. Platone è il primo a proporre una strategia per spiegare l’esistenza di
enunciati che chiamano in causa il non-essere: ogni definizione passa infatti attraverso il metodo
diairetico, che consiste nello sviscerare i concetti generali dividendoli in classi di concetti meno
generali, fino ad arrivare agli individui. Quando allora si dice qualcosa come “non esistono i cavalli
alati”, si sta mettendo in evidenza il fatto che il genere “cavallo” non si trova sullo stesso ramo del
genere “alato”, quindi si sta sottolineando l’alterità tra i due termini. Si tratta di due generi o specie
mutualmente esclusive e dunque il non-essere si troverebbe in questa impossibilità reciproca
esclusione. Il problema della tesi platonica è che funziona soltanto con dei concetti generali ma non
ci dice niente della non-esistenza di individui specifici, come ad esempio “Pegaso” o “Sherlock
Holmes”: gli individui sono infatti termini esclusivi rispetto a tutti gli altri individui, dunque non
dovrebbero esistere mai.

Capire e comprendere cosa sia l’esistenza passa necessariamente per il concetto di non-esistenza,
che deve avere un senso proprio: se infatti l’enunciato “x non esiste” è un enunciato incomprensibile
ed è privo di un valore di verità, allora anche il suo contrario sarà privo di valore di verità. Prendiamo
allora l’esempio che fa Quine nel suo saggio On What There is, ovvero di due filosofi, uno realista e
uno antirealista, che discutono dell’esistenza di Pegaso. Il filosofo R afferma che Pegaso esiste,
mentre il filosofo AR afferma il contrario: AR si trova però in una posizione di netto svantaggio,
perché non può neanche dire qualcosa sul motivo del contendere, poiché sarebbe una ammissione
dell’esistenza di Pegaso e un successivo misconoscimento. Di che cosa sta parlando AR quando dice
“Pegaso non esiste” se davvero Pegaso non esiste?

Facciamo un passo indietro: la predicazione consiste nell’attribuzione di proprietà a delle sostanze,


ma stiamo facendo la stessa cosa quando parliamo dell’esistenza e della non-esistenza? Poniamo
per ipotesi di sì: a questo punto la posizione di R diventa “𝑃𝑎” (dove a=Pegaso e P=proprietà
“esistenza”), mentre la posizione di AR diventa “¬𝑃𝑎”. Perché la discussione abbia senso tanto “𝑃𝑎”
quanto “¬𝑃𝑎” devono essere tematizzate coerentemente: la posizione di AR sembra molto più
debole poiché sembra affermare che l’individuo a non si trovi nell’insieme di individui che la
proprietà P individua. Quindi si dovrebbe trovare nell’insieme individuato da ¬𝑃, ma questo
equivarrebbe a dare ad a una forma di esistenza. Pensiamo non alla proprietà “esistere” ma alla

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proprietà “brucare”: dire che Pegaso non esiste, vuol dire che Pegaso non si deve trovare né
nell’insieme delle cose che non brucano né nell’insieme delle cose che brucano e che quindi
dovrebbe essere al di fuori di qualsiasi insieme. Questo modo di interpretare la faccenda riprende
in parte il metodo diairetico platonico e ci fa capire che il problema del non-essere non può essere
risolto con un sistema articolato in insiemi reciprocamente escludenti.

Facciamo delle ipotesi su cosa si intende dire con l’enunciato “𝑃𝑎” e in particolare su cosa sia il
soggetto dell’enunciato, ovvero cosa sia a.

• Ipotesi 1: a è una idea. AR sta quindi dicendo che Pegaso è una idea che non corrisponde ad
alcun oggetto nel mondo reale. Sembra un’ipotesi plausibile ma in realtà è filosoficamente
scadente: AR e R stanno allora parlando di cose diverse, se uno sta dicendo che Pegaso esiste
come idea e l’altro sta dicendo che non esiste come oggetto reale. Questa ipotesi sposta il
problema dal tema dell’essere e non-essere alla questione sulle relazioni che intercorrono
tra idee e cose. Chiamare in causa l’idea di Pegaso per contrapporla all’oggetto Pegaso non
serve a niente, perché quando diciamo “¬𝑃𝑎” o “𝑃𝑎” stiamo parlando di un altro oggetto
“Pegaso” (a meno di non rinunciare alla distinzione tra cosa e idea di quella cosa).
• Ipotesi 2: a è un oggetto possibile. Sono oggetti possibili tutti quegli oggetti la cui
combinazione di proprietà non risulta contraddittoria, dunque Pegaso, che è un “cavallo con
le ali catturato da Bellerofonte” risponde a questa definizione. Quando si parla di Pegaso
allora non si sta parlando di niente, che renderebbe quindi impossibile parlarne: dire che
Pegaso non esiste vuol dire che Pegaso è una cosa che non c’è. Questa ipotesi viene
ricondotta ad Alexius Meinong, proto-fenomenologo, che affronta il problema dell’essere
dividendo il concetto in due rami: “essere”, Sein, ed “esserci”, Dasein, ovvero essere ed
esistere. Secondo questa ipotesi affermare “Esistono(1) cose che non esistono(2)” non è
contradditorio, perché (1) si riferisce al ramo dell’essere, ovvero dell’essere un oggetto
possibile, non realizzato e in potenza, mentre (2) si riferisce al ramo dell’esistere, ovvero
dell’essere un oggetto reale, realizzato ed attuale. Il concetto generico di esistenza va quindi
diviso in “cosa è” e “cosa c’è”: tutto è possibile, quindi tutto è, ma non tutto c’è.

L’Ipotesi 2 ci spinge a considerare l’idea che l’esistenza sia una proprietà, un qualcosa che si aggiunge
al soggetto della proposizione e che lo sposta dalla potenza all’atto. La tendenza generale consiste
nel concedere che l’esistenza sia una proprietà ma bisogna fare attenzione alle implicazioni di
¬questa cosa. Facciamo l’esempio della prova ontologica di Anselmo d’Aosta, dove l’esistenza è
considerata una proprietà: l’ateo che afferma “Dio non esiste” e il fedele che afferma “Dio esiste” si
trovano nella stessa condizione di chi discute dell’esistenza di Pegaso. Il primo problema è accordarsi
su cosa sia l’oggetto del contendere, posto che non debba essere né l’oggetto-idea né l’oggetto-
reale: Dio deve essere un oggetto neutrale su cui entrambi siano d’accordo, nella cui definizione
non sia contenuta la proprietà “esistenza”.

1. Si pone la definizione di Dio come “ciò di cui non posso pensare nulla di più grande”.
2. La posizione dell’ateo diventa “Ciò di cui non posso pensare nulla di più grande non esiste
nella realtà”.

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3. Postulato: di tutto ciò che esiste nell’intelletto posso sempre pensare qualcosa di maggiore
(i.e. qualcosa con una proprietà in più, ovvero l’esistenza nella realtà).
4. Dunque, posso sempre pensare una cosa maggiore di ciò che esiste nell’intelletto.
5. Di ciò che non pensare nulla di più grande (Dio nell’intelletto) posso sempre pensare una
cosa più grande (Dio nella realtà) -> P e ¬P, la posizione dell’ateo è contradditoria.

Pensare all’esistenza come ad una proprietà ha una portata immensa, poiché permette di estrarre
l’esistenza reale da parole e pensieri, ma questo non sembra plausibile.

La distinzione essere/esistere allora si potrebbe basare su di un fraintendimento, dove “essere” è


considerato qualcosa di più generale, legato agli oggetti astratti, mentre “esistere” è legato alla
presenza nello spazio-tempo come oggetto concreto. L’esistenza si trova prima di questa
distinzione: tutto esiste, ma non tutto esiste allo stesso modo. Essere ed esistere sono la stessa cosa
e il problema del non-essere è secondario, poiché è un’esistenza in un modo particolare.

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La Filosofia come sapere storico
Il dibattito tra Giovanni Gentile ed Eugenio Garin – Davide Bondì

Gentile fu uno dei più grandi filosofi italiani e fu contraddistinto da un forte impegno civile e politico,
che ne assorbì interamente la figura e che si tradusse in una problematica collaborazione con il
regime fascista. Sua infatti fu la grande riforma del sistema scolastico italiano attuata nel 1922 dal
regime, nella quale la filosofia otteneva un ruolo fondamentale nella formazione del ceto dirigente
della nuova Italia. Tra il ’22 e il ’29 fu considerato l’intellettuale di spicco del fascismo, nonostante
la sua influenza sulla politica culturale del regime cominciò ad indebolirsi già dal 1925. Per la sua
collaborazione con il fascismo fu fucilato da un GAP nel 1944. Eugenio Garin, di una generazione più
giovane di Gentile, invece non si impegnò a fondo nella politica: si formò sotto il fascismo ma si
avvicinò poi alle posizioni del PCI.

La prima tappa del dibattito non coinvolge Garin bensì Gentile e Benedetto Croce, altro gigante della
filosofia italiana. Croce iniziò il suo percorso come storico ma a partire dal 1892 si concentrò sulla
stesura di opere teoriche sul concetto di storia e sulle possibili concezioni della storiografia. I suoi
interessi si concentrano sulla storiografia italiana e sulle grandi figure internazionali; ammira molto
la scuola hegeliana e in particolare Marx, che ritiene il risolutore dei problemi della storicità. Si
laureò nel 1898 alla Scuola Normale di Pisa con una tesi su Rosmini e Gioberti, denotando un forte
interesse per la storia della filosofia italiana, con particolare riferimento alle figure minori (Bruno,
Machiavelli o Vico). Croce aveva letto la tesi di Gentile e l’aveva trovata eccellente, apprezzandone
le finezze del metodo storico ma nutrendo dei dubbi sul rapporto tra filosofia e scienza delineato da
Gentile. Secondo Gentile infatti, le forme di conoscenza o sono scienza o sono storia: la Filosofia
non è scienza, dunque è storia, storia della filosofia. Croce invece non crede che la filosofia, per
quanto aliena dalla scienza, debba coincidere con la storia della filosofia: la filosofia è la base di ogni
attività razionale umana e coincide con la coscienza del pensiero, piuttosto che con il pensiero stesso
già formatosi come scienza o come storia. La filosofia è riflessione su di sé (come vuole la tradizione
romantica), ma quel sé è da intendersi come origine e presupposto dei concetti usati nelle attività
razionali (tradizione erbartriana). Queste preoccupazioni vengono esposte in una lettera a Gentile il
15/10/1898.

La risposta di Gentile fu molto elaborata e richiese quasi un mese di riflessione. In essa, Gentile
condivide l’idea che la filosofia sia diversa dalla conoscenza e che coincida con la coscienza ma
ritiene che sia il grado supremo dello spirito umano. L’oggetto della filosofia è infatti lo Spirito,
inteso come principio formale e trascendentale, secondo la scuola hegeliana, e lo Spirito è Storia.
Dunque, l’oggetto della filosofia è la storia stessa. La discussione viene ripresa a otto mesi di
distanza, quando Croce esprime i propri dubbi in merito alla tesi della circolarità tra filosofia e storia
della filosofia. Per Gentile, lo Spirito si forma progressivamente nel tempo e la filosofia deve essere
coscienza di sé nella storia e contenere tutte le sue forme passate. Analizzando un concetto, il
filosofo deve rendersi conto del fatto che esso ha una storia e che il suo contenuto cambia,
riassumendo in sé tutti i contenuti precedenti. Il problema della filosofia gentiliana, di diretta
derivazione idealistica, diventa dunque cosa sia la Storia? Se infatti la storia è solamente sviluppo

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ed evoluzione dei concetti, allora la coincidenza di filosofia e storia della filosofia diventa una tesi
veritiera. Questo però porta necessariamente a restringere la storia allo sviluppo delle idee e quindi
ad una concezione della storia esclusivamente teorica.

Eugenio Garin si laurea a Firenze, dove si intrecciano il positivismo del nord-Italia, ormai arrancante,
e la tradizione idealistica napoletana, che Gentile porta avanti. Oltre a queste tradizioni, Garin si
interessa anche all’esistenzialismo francese, non nella sua versione fenomenologica ma nelle sue
forme più religiose. Le sue prime opere rispecchiano questa moltitudine di interessi: studi
storiografici su autori positivisti o illuministi, con particolare attenzione all’ambito morale ed
esistenziale. Sin dal 1932 l’interesse storiografico di Garin colpisce Gentile, che nel 1941 lo incarica
di completare La storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, che verrà pubblicata nel 1947 con
il titolo La filosofia. Dal Medioevo all’Umanesimo. L’edizione finale contiene molte note critiche al
lavoro di Gentile, del quale molti giudizi vengono riconsiderati. In particolare, Garin critica la grande
quantità di giudizi negativi scarsamente argomentati. Questi derivano da una concezione molto
problematica che Gentile ha della storia: una volta assunta la circolarità della storia e della filosofia,
si rende necessaria la presenza di un criterio di giudizio da usare sulle varie fasi storiche della
filosofia. Per Gentile, questo criterio si identifica con il contenuto del concetto attuale: analizzando
il problema della conoscenza, il punto di arrivo è il concetto di sintesi a priori e questo viene
utilizzato per valutare tutte le filosofie precedenti. Quelle tradizioni, come la Scolastica, che non
contengono il concetto di sintesi a priori anzi vi si pongono in contraddizione, sono da valutare
negativamente.

Punto di arrivo del dibattito sulla storia della filosofia è il convegno della Società Filosofica Italiana
di Firenze del 1956, dove Garin deve rendere conto di una teoria alternativa allo storicismo
idealistico di Gentile. Qui Garin sostiene che la filosofia come sapere storico debba essere neutrale
rispetto alle diverse posizioni filosofiche. Garin non vuole proporre come alternativa a Gentile una
tesi della discontinuità, poiché equivarrebbe a porre una forma storica a priori come fa Gentile e
poiché sarebbe una tesi difficile da sostenere. Piuttosto ritiene necessario tenere in considerazione
i contesti specifici in cui nascono le idee: esse non piovono dal cielo ma nascono dalle idee che le
precedono, in quanto vengono costantemente ridiscusse da persone diverse in luoghi e tempi
diversi. Il dato materiale e contestuale, che Gentile aveva eliminato, deve essere ricompreso nelle
idee e la storia della filosofia deve occuparsi di ricostruire la genesi delle idee nel vissuto, senza
limitarsi al solo contenuto logico. Garin critica l’unitarietà del concetto “filosofia” sostenuta da
Gentile e sostiene la necessità di non porre a priori una forma di identità, dato che lo studio storico
deve essere neutrale e confrontarsi con la complessità del suo contenuto.

Questa posizione dà il via ad un lungo dibattito con Enzo Paci, che ritiene impossibile raggiungere
quella neutralità che Garin auspica: secondo Paci, Garin ha già fallito, perché elabora la sua
concezione di storia a partire dal materialismo storico gramsciano e quindi non è una prospettiva
neutra. Garin risponde allora che ogni storico ha una posizione teorica di partenza ma che questa
posizione non è da considerarsi una filosofia fatta e finita ma una prospettiva modificabile durante
lo studio e costantemente da verificare. In questa ottica, bisogna operare una netta distinzione tra
lo storico della filosofia e il filosofo-teoreta.

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Il dibattito Gentile-Enriques sulla riforma scolastica – Renato Pettoello

Nel secondo-terzo decennio del Novecento, con lo sviluppo di una scuola di massa, si aprono i
dibattiti sull’insegnamento della filosofia nelle scuole. Particolarmente interessante è il dibattito
sulla riforma Gentile tra Federico Enriques e lo stesso Giovanni Gentile: la riforma del 1922 presenta
infatti molti aspetti innovativi per l’epoca e, nel bene o nel male, ha influenzato pesantemente la
società italiana fino ad oggi.

Federico Enriques era un geometra e ingegnere con fortissimi interessi filosofici, una sorta di
Poincaré italiano, uno scienziato che si occupò anche di epistemologia, teorie della conoscenza e di
storia della filosofia. Per le sue posizioni entrò in forte contrasto con l’idealismo italiano ma non fu
Gentile il suo principale avversario: Gentile, pur convinto del ruolo superiore della filosofia nei
confronti di tutte le altre conoscenze, non era ostile alle scienze matematiche ed ebbe dei rapporti
umani molto importanti con Enriques, facendolo collaborare sotto falso nome alla Enciclopedia
Treccani nonostante la sua origine ebraica. Il vero avversario di Enriques fu Croce, che si dimostrò
più volte scandalizzato dal fatto che uno scienziato organizzasse dei convegni di filosofia, invitando
molti altri scienziati. Enriques ne organizzò infatti due di portata nazionale: il primo nel 1911 e il
secondo nel 1923, chiuso immediatamente dal regime fascista.

La storia dell’istruzione pubblica in Italia è una storia molto confusa e complicata, dove le riforme si
sono stratificate, cancellando o contraddicendo quelle precedenti.

• Legge Casati (1859): elaborata per il regno di Sardegna, fu estesa all’intera Italia dopo l’unità.
Prevede l’obbligo di istruzione fino alle II elementare e presentava il difetto di sacrificare
l’insegnamento della matematica alle scuole superiori. L’estensione della legge Casati
all’intero regno fu parte di una sorta di colonialismo culturale nei confronti del sud Italia:
dopo la statalizzazione delle scuole, moltissimi neolaureati veniva inviati dal nord ad
insegnare al sud, in modo da creare una scuola unitaria e omologare la società.
• Legge Coppino (1877): estende l’obbligo alla V elementare.
• Legge Orlando (1904): equipara insegnanti maschili e femminili alle elementari.
• Legge Credaro (1911): stabilisce che lo stipendio degli insegnanti sia di competenza statale
e non comunale; inserisce nelle scuole superiori la tradizione erbartriana, maggiormente
connessa alla psicologia.

Nei primi anni del Novecento, la tradizione positivista del nord-Italia si era mossa a gran voce verso
un maggiore focus scientifico da parte della scuola italiana ed avevano ottenuto l’istituzione dei
“licei moderni”, incentrati sulla matematica e le scienze, che venivano equiparati al liceo classico, in
quanto permettevano l’accesso a tutte le facoltà universitarie. Nel 1922 la riforma Gentile
interrompe questa tendenza alla positivizzazione della scuola italiana ed istituisce una formazione
di ispirazione idealistica che pone il liceo classico e la filosofia come culmine dell’istruzione superiore
italiana. La riforma Gentile subì ovviamente le critiche dei matematici e degli scienziati, ma anche di
molti politici:

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• I matematici e gli scienziati criticavano fortemente l’esplicito dominio della filosofia sulle
altre conoscenze, in quanto ritenevano che questo rischiasse di riportare la cultura italiana
alla chiusura mentale che aveva portato alla condanna di Galileo.
• I politici, anche interni al PNF, criticavano fortemente l’elitarietà della riforma, incentrata
appunto sul liceo classico e sulle materie umanistiche, che escludevano le classi popolari
dall’ottenere una cultura superiore.
• I militari costituirono un’altra formazione critica nei confronti di Gentile, in quanto avevano
notato come gli artiglieri e i genieri, tanto essenziali nella I guerra mondiale, veniva tutti da
istituti tecnici o licei moderni.

Federico Enriques si trovava in una posizione mediana tra Gentile e i suoi critici, tanto da non essere
totalmente ostile alla riforma: innanzitutto era ostile al positivismo dogmatico dei suoi colleghi
scienziati, che ritenevano la filosofia un inutile artifizio retorico, atto a gettare fumo negli occhi e a
ritardare lo sviluppo della scienza e della tecnologia, strumenti utili a tutti. La riforma aveva però
due limiti: il primo e più grave era il modesto spazio lasciato alle scienze; il secondo era invece il
fatto che la filosofia veniva inserita nel campo delle “materie umanistiche”, contrapposto a quello
delle “scienze”. Per Enriques, la filosofia non era assolutamente avulsa dalle scienze e anzi era
necessario rimarcare il profondo rapporto tra le due, inserendo esami di storia e filosofia della
scienza in tutti i corsi universitari scientifici. Le scienze pongono infatti grossi problemi filosofici e
per questo motivo la filosofia andava legata ad esse, piuttosto che intrattenere un rapporto
esclusivo con le materie umanistiche. Secondo Enriques, le scienze, come tutti i saperi, contengono
problemi filosofici e dunque contengono la stessa filosofia, che non ha un oggetto proprio. Sugli altri
punti della riforma Enriques era invece d’accordissimo: riteneva che la scuola doveva essere di
altissimo livello e dunque riservata solo ai migliori; inoltre riteneva giusto il predominio della
“conoscenza” sulla “competenza”, andando così a costruire una scuola per nulla
professionalizzante.

Altri punti importanti della riforma erano la sinteticità dell’insegnamento e l’importanza della storia.
Tutte le materie, anche quelle scientifiche, venivano integrate da lezioni di storia sulla disciplina in
questione, rimarcando così l’anima fortemente idealistica della riforma. L’insegnamento inoltre non
puntava sui dettagli o sugli aspetti specifici, ma mirava ad una prospettiva organica. Tutti gli aspetti
tecnici e specifici avevano un ruolo strumentale che contribuiva a costruire una formazione organica
in cui venissero integrate tutte le materie.

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Strumenti per la didattica filosofica
Quantificazione e modalità

Abbiamo già parlato del quadrato aristotelico delle opposizioni e lo riprendiamo per parlare della
quantificazione, ovvero di uno dei più utili strumenti di analisi delle proposizioni che possiamo
sfruttare. Con il quadrato si possono mostrare le relazioni tra i giudizi che incrociano la quantità
(universali e particolari) con la qualità (affermativi e negativi); i rapporti evidenziati dal quadrato
sono indipendenti dal valore di verità dei giudizi e dal loro contenuto, in quanto si tratta di rapporti
tra le forme.

• UA e UN sono contrarie: non possono essere entrambe vere ma


possono essere entrambe false.
• PA e PN sono sub-contrarie: possono essere entrambe vere ma
non possono essere entrambe false.
• UA e PN (come UN e PA) sono contradditorie: se una è falsa, l’altra
è vera e viceversa.
• UA e PA (come UN e PN) sono sub-alterne: la verità dell’universale implica la verità della
particolare, ma non il contrario.

Questo schema semplice ed intuitivo funziona molto vene finché si assume l’esistenza di un
parallelismo naturale tra il linguaggio che usiamo e il mondo reale. Provando a cambiare il linguaggio
utilizzato, le cose si complicano: ad esempio utilizziamo la logica del primo ordine per tradurre le
nostre proposizioni.

• ∀𝑥(𝑈𝑥 → 𝑀𝑥): “Per ogni x che è Uomo, allora x è Mortale” = UA: “Tutti gli uomini sono
mortali”.
• ∃𝑥(𝑈𝑥 & 𝑀𝑥): “Esiste almeno un x che è Uomo e Mortale” = PA: “Qualche uomo è mortale”.
• ∀𝑥(𝑈𝑥 → ¬𝑀𝑥): “Per ogni x che è Uomo, allora nessun x è Mortale” = UN: “Nessun uomo
è mortale”.
• ∃𝑥(𝑈𝑥 & ¬𝑀𝑥): “Esiste almeno un x che è Uomo e non è Mortale” = PN: “Qualche uomo
non è mortale”.

Visti da questo punto di vista, si può notare come le proposizioni universali propongano una
implicazione tra due concetti, ovvero tra due sottoinsiemi, mentre le proposizioni particolari
indicano l’intersezione tra due insiemi. In questo caso gli insiemi sono “Uomo” e “Mortale”. La
proposizione universale tratta i due concetti senza affermare o negare l’esistenza reale di individui
con quelle proprietà, mentre la proposizione particolare afferma l’esistenza di un individuo con
entrambe le proprietà. Sembrerebbe quindi che dalla proposizione particolare si possa dedurre
l’esistenza. Il rapporto tra sottoinsiemi evidenziato dalla UA non richiede la presenza di individui
negli insiemi, poiché propone una relazione tra concetti di generalità differenti e non tra individui.
Al contrario la PA dipende dall’esistenza di individui nella intersezione che evidenzia: se questi
individui esistono, la PA è vera, mentre se l’intersezione “U∩M” è vuota, la PA è falsa.

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Il rapporto di implicazione tra UA e PA allora vacilla, poiché la verità della UA non implica
necessariamente la verità di PA, in quanto quest’ultima dipende dall’esistenza o meno di individui
con quelle proprietà. Inoltre, vacilla anche la contrarietà tra UA e UN se si usano insiemi vuoti: dire
“tutti i cavalli alati sono gialli” è sempre vero, perché non si può esibire un controesempio; ma allo
stesso modo “nessun cavallo alato è giallo” è sempre vera. Se infatti si traducono le due frasi in
logica del primo ordine, si noterà come “essere cavallo alato” è l’antecedente di una implicazione:
essendo un antecedente falso, la situazione è quella di una controfattuale infalsificabile e dunque
sempre vera.

Esperimenti mentali per la didattica

Prendiamo ad esempio, l’esperimento mentale della nave di Teseo e mostriamo come tramite esso
sia possibile non soltanto argomentare contro una tesi di principio ma anche esemplificare e
valutare le possibili soluzioni ad un problema che abbiamo sul piatto. La nave di Teseo è un
esperimento mentale che ci permette di analizzare il problema dell’identità diacronica, ovvero nel
tempo.

La nave di Teseo, viaggiando, si rovina e devono essere sostituiti dei pezzi, smontando le vecchie
assi e sostituendole con assi in alluminio. Al momento T2 tutte le assi di legno sono state sostituite
e stoccate in un magazzino: la nave di Teseo è ora in metallo e continua a viaggiare. Ad un certo
momento T3 un archeologo trova il magazzino e ricostruisce la nave di Teseo, usando i pezzi originali
e quindi ricostruendo la nave esattamente come era a T1. Al momento T4 allora avremo due navi di
Teseo, quella in alluminio che ha continuato a viaggiare e quella di legno che è stata ricostruita a
partire dai suoi pezzi. Ma quale è la vera nave di Teseo? Quella ottenuta per sostituzione o quella
ottenuta per ricostruzione? È la nave in legno o la nave in alluminio ad essere identica alla nave in
T1?

Il problema è quello di come concepiamo nel tempo l’identità degli oggetti concreti, ovvero di quegli
oggetti che nello stesso tempo sono collocati nello stesso unico spazio. La collocazione spaziale e
temporale è valida solamente come criterio per identificare gli oggetti di cui si parla e non incide
sull’applicazione dell’identità, poiché altrimenti non avremmo mai alcuna identità. Guardiamo allora
i diversi tipi di identità che abbiamo in mente e che vengono fatti confliggere dall’esperimento
mentale.

• Identità tipologica: è fondata sull’intuizione per cui una cosa rimane tale anche se variano
alcune sue proprietà. Questa idea è sostenuta dalla distinzione aristotelica tra sostanza e
attributi: perché qualcosa rimanga sé stessa anche attraversando delle modifiche, è
necessario che ci sia qualcosa, ovvero una sostanza, che permane nel tempo e degli accidenti
che invece cambino. Le entità concrete rimangono le stesse se variano le loro proprietà
accidentali poiché mantengono la stessa appartenenza di tipo, sostanziale.
Secondo questa prospettiva la vera nave di Teseo è quella in alluminio, poiché non è mai
venuta meno la sua identità di tipo (= è sempre stata la nave di Teseo); la nave in legno

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invece ha perso la sua identità di tipo diventando “mucchio d’assi in magazzino”, dunque
non è più la vera nave.
• Identità mereologica: è fondata sull’intuizione per cui la somma dell’intero è uguale alle
parti che lo compongono. Secondo questa prospettiva sono le parti di un oggetto concreto
ciò che non deve essere modificato, poiché la modifica a queste infrange l’identità: dopo la
modifica, l’intero non è più uguale alle parti che lo compongono, poiché alcune delle parti
sono state modificate. Pensiamo ad una persona che venda un campo in piccoli lotti e, dopo
averlo venduto per intero, sostenga di essere ancora proprietario di tutto il campo, in quanto
non ha mai venduto “il campo intero”.
Secondo questa prospettiva, la vera nave di Teseo è allora quella in legno, ricostruita dalle
parti originali e quindi identica alla nave in T1.
• Identità logica: perché ci sia una relazione di identità logica, due oggetti concreti devono
essere indiscernibili, ovvero radicalmente identici, senza che ci sia alcuna variazione di
proprietà. Dunque, Navelegno e Navealluminio presenti in T4 sono entrambe due navi differenti
dalla Nave di Teseo in T1.

L’esperimento mentale ci consente quindi di mettere sul piatto i vari concetti in conflitto per poi
valutarne costi e benefici ed eventualmente cercare una soluzione alternativa. Al problema
dell’identità, si può ad esempio proporre la soluzione del quadri-dimensionalismo, che incorpora
negli oggetti anche la dimensione temporale. Secondo questa prospettiva, tutti gli oggetti sono in
realtà eventi, che non possono essere frammentati per confrontare le singole parti: dunque non ci
si può chiedere se la nave in T4 sia identica alla nave in T1, poiché si tratta di due fasi temporali dello
stesso evento. La prospettiva quadri-dimensionalista non ha la necessità di postulare entità come
essenze o sostanza e ridefinisce il concetto di parti utilizzato dall’identità mereologica. Vi è però un
problema ulteriore che si apre con questa prospettiva, ovvero i confini dell’evento-oggetto che si
analizza: farlo con “nave di Teseo” è abbastanza semplice, farlo con “persona” invece non lo è
affatto.

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Insegnare filosofia alle scuole superiori
L’evoluzione dell’insegnamento della filosofia nelle scuole pubbliche italiane è contraddistinta da
un mantenimento dell’impostazione generale gentiliana, nonostante sia stati fatti molti
accorgimenti, massicci negli ultimi anni. In particolare, l’insegnamento della filosofia come delle
altre materie deve virare verso una didattica delle competenze piuttosto che delle conoscenze.
Questo fatto ha inciso nettamente sulle modalità di insegnamento e sulle indicazioni fornite ai
docenti a partire dai primi anni ’00.

L’insegnamento deve essere libero, dunque privo di programmi prescrittivi da rispettare


rigidamente, ma finalizzato all’apprendimento degli studenti: l’insegnante è quindi libero di
modulare le proprie lezioni come più preferisce, tenendo conto però degli obiettivi generali della
materia, delle competenze specifiche da sviluppare e delle finalità formative generali dell’istituto.
Gli obiettivi generali consistono nella consapevolezza da parte degli studenti del significato della
riflessione filosofica come modalità della ragione umana che propone costantemente la domanda
sulla conoscenza, sull’essere e sull’esistere. Inoltre, bisogna acquisire una conoscenza organica dei
punti nodali dello sviluppo storico del pensiero occidentale, ponendoli sia nel contesto storico-
culturale corretto sia analizzandoli attraverso una prospettiva universalistica. Per raggiungere questi
obiettivi generali è necessario rifarsi ad alcuni problemi fondamentali, che fungono da punti cardine
per lo studio: l’ontologia, l’etica, il rapporto tra filosofia e religione, il rapporto tra filosofia e altre
forme di sapere, la politica, il problema della conoscenza, il senso della bellezza, il tema del potere
e della libertà. È importante sottolineare come si parli di apprendimento, invece che di conoscenze:
questo avviene perché gli obiettivi generali comprendono lo sviluppo di specifiche competenze che
lo studio della filosofia può e deve innescare. In particolare, lo studente deve sviluppare la riflessione
personale, il giudizio critico, l’attitudine all’approfondimento e alla discussione razionale, la capacità
di argomentare una tesi, tanto oralmente quanto per iscritto.

A questo scopo viene fornito un canovaccio di programma, fondato sulla distinzione tra autori e
scuole filosofiche “imprescindibili” e quelli “contingenti” e sulla partizione in periodi storici: filosofia
antica, filosofia tardoantica e medioevale, filosofia moderna, filosofia contemporanea. I primi tre
gruppi sono da completare entro il II biennio di scuola superiore, mentre la filosofia contemporanea
è lasciata per il V anno.

Imprescindibili Contingenti utili


• Presocratici
Antica • Socrate
• Sofisti
• Platone
• Scuole ellenistiche
• Aristotele
• Neo-platonismo
• Scolastica
Tardoantica/medioevale • Agostino
• Tommaso
• Bacone
Moderna • Galilei e la rivoluzione scientifica
• Leibniz
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• Cartesio • Pascal
• Hume • Vico
• Kant • Diderot
• Uno a scelta tra: • Spinoza
o Hobbes
o Locke
o Rousseau
• Hegel
• Positivismo
Contemporanea • Schopenhauer
• Statuti filosofici
• Kierkegaard
moderni
• Marx
• Filosofia della
• Nietzsche
scienza
• Quattro a scelta tra:
o Husserl
o Freud
o Heidegger
o Neoidealismo
o Wittgenstein
o Pragmatismo
o Nuova teologia
o Marxismo italiano
o Ermeneutica
o Filosofia politica
o Epistemologia
o Filosofia del linguaggio

La scuola italiana si sta inoltre sviluppando sotto la guida di tre parole d’ordine, ovvero
individualizzazione, personalizzazione e inclusione: bisogna cercare di raggiungere i medesimi
obiettivi con percorsi modulati; bisogna proporre percorsi specifici per sviluppare le capacità e i
talenti propri di ogni singolo studente; bisogna mirare a costituire una comunità di equi. A fronte di
ciò sono state ridefinite le condizioni per individuare gli studenti con Bisogni Educativi Speciali,
cancellando quello che poteva essere un confine netto tra studenti “normali” e “speciali”.

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CLIL applied to Philosophy: the reborn of Metaphysic
Empiricism, Semantics, and Ontology by Rudolf Carnap

Carnap was a member of the Vienna Circle, which gathered around Ludwig Wittgenstein. After the
Anschluss, the Circle fell apart and divided in two groups: one fled to the UK, the other
(comprehending Carnap) to the USA.

Empiricists are rather sceptical with respect to abstract entities, such as properties, classes,
numbers, relations, propositions, etc. Usually empiricists avoid using these entities and reject the
fact that they truly exist, but sometimes it’s difficult: it’s difficult to do mathematics or physics
without using them. The purpose of this article is to clarify the use of abstract entities in semantics,
to show that using them doesn’t lead to a platonic ontology.

According to Carnap, there is a fundamental distinction between two kinds of questions concerning
the existence of entities. Anytime someone wishes to speak about a new kind of entities, he must
introduce a new set of rules of language that regulates the use of these words. This new set of rules
is called “framework”. There are two kinds of questions of existence: the internal question,
concerning the existence of the entities inside the framework, and the external question,
concerning the existence of the framework itself.

Carnap also defines two other kinds of questions: there are theoretical questions and practical
questions. The first ones are the ones whose answers increase our knowledge, the latter ones are
the questions about how something is properly used. Answers to any question must be either logical
or empirical, since these are the only two ways to verify a statement (aka answering the question).

Metaphysicians want to answer to external questions and state that are questions to be asked
before introducing the framework. According to metaphysicians, we shouldn’t introduce a
framework if we’re not positive about its existence. Carnap states that the external questions aren’t
theoretical questions, because they have no cognitive content and so do their answers. External
questions can be: i) pseudo-questions; ii) practical questions about the usefulness of introducing
new frameworks; iii) theoretical questions about a factual empirical nature.

According to Carnap, accepting the use of a new framework doesn’t imply accepting a belief about
the ontological reality of the framework itself. The rules of the framework are sufficient for its
introduction and we do not need any further explanation or definition about the elements in the
framework or about the framework itself. Thus, accepting a new framework is a question of a
practical matter and we do not need any theoretical justification for doing so. This means that we
do not need to believe in abstract entities even if we use them in our language. From Carnap’s point
of view, no discussion about ontology will ever have meaning: every ontological theory will always
be a pseudo-theory.

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On what there is, by Willard V. Quine

The ontological problem is a very simple problem: its question is “What is there?” and its answers
is “Everything”. Still there is room for disagreement, for examples when it comes to the problem of
non-existent beings.

Q states the Pegasus doesn’t exist while McX states Pegasus does. Q is in a difficult position, since
he can’t even describe what their disagreement is about: Q can’t say “there is something (Pegasus)
which doesn’t exist” for it would be contradictory. There must be some sense in which Pegasus
exists, otherwise we couldn’t speak about it, but what is that?

McX says that “Pegasus”, the subject of the propositions “P exists” and “P doesn’t exist”, is an idea.
This is not what the quarrel is about though, because it is not to the mental entity that Q is denying
existence. The notion the Pegasus must be, because otherwise it would be nonsense to say that
Pegasus is not, led McX into confusion.

The next philosopher is Wyman, who also states that Pegasus is but in a different way: Pegasus is
an unactualized possible. Unactualized objects are objects with every combination of properties
except the property of “existence” or “actuality”. However, Wyman’s universe is not a pleasant one
for it is overpopulated and presents many issues. The first one is about identity: in a universe
populated by unactualized possible there isn’t a clear concept of identity, because even the slightest
change of properties determines a different object.

Furthermore, to verify a proposition we always need a referent, named by the subject of the
proposition. We can search for the referent in many different domains, such as the one of possible
objects. Take the statement (1) “the round square cupola is such and such”: we will need a referent
for “round-square cupola” but where can we find it? It is possible to find it? It is possible to verify a
statement like (1)? If Wyman says yes, then it means he admits also impossible objects: his ontology
would then be useless because it would admit i) things that exist; ii) things that do not exist but
could; iii) things that do not exist and couldn’t. If Wyman says that (1) is not verifiable, he is
embracing the doctrine of the meaninglessness of contradiction invalidating the reduction ad
absurdum, and having severe drawback on other discipline, like mathematics or logic.

To resolve this riddle, Quine turns to Russel’s theory of singular description: names can be used
meaningfully and still not imply that the named entities exist. In order to do so, we have to translate
the names into singular description: with this translation, the object to which the name/description
is referring, becomes a bound variable, i.e. “something”, “everything” or “nothing”. For example,
“the author of Waverly was a poet” becomes “something wrote Waverly and was a poet, and
nothing else wrote Waverly”. This kind of sentences can easily be translated into first order logic
statements.

When we are talking about Pegasus, we should translate the name into a singular description like
“the winged horse captured by Bellerophon” or “the thing-that-pegasizes” and use that description.
When denying the existence of Pegasus, we aren’t saying ∃𝑥(𝑃𝑥 & 𝑄𝑥): “There is an x which has

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the property P (to pegazise) and the property Q (not to exist)”. Instead, we say ¬∃𝑥(𝑃𝑥): “It doesn’t
exist an x that has the property P”.

In this way we commit ourselves into affirming the ontological existence of the named entities only
in some cases. The problem with McX and Wyman’s perspective was their confusion between
naming and meaning: having a meaning is different from having a reference. The phrase “Evening
Star” has a different meaning from “Morning Star” but they both refer to same object in the world,
which is the planet Venus.

This is also a critique to existence of universals: even if we use things such as predicates or attributes,
it doesn’t mean that there must be objects to which these names are referring, for having a
reference is different from being meaningful. We are not forced to an ontological commitment
about thing as meanings and nor properties nor names commit us to ontological assumptions. Every
predicate offers a partition of the universe (P/¬P) but doesn’t add any object to the universe.
Therefore, there is no need for universals in our ontology.

Our ontology should have just the entities that are needed to render the true affirmations true. The
metaphysician should not pose an ontology and then verify the propositions according to what he
thinks there is. He should take statements which are true according to the experts of that area and
add the entities over which the bound variable nominated in the statement range in order to render
the sentence true.

Two dogmas of Empiricism, by Willard V. Quine

Modern empiricism is founded on two dogmas: the first one is the belief in a fundamental cleavage
between analytic truths and synthetic truths. The second one is reductionism, the belief that each
meaningful statement is equivalent to some logical construct upon terms which refer to immediate
experience. Both dogmas are ill founded and abandoning them will result in a blurring of the
boundary between metaphysics and science and in a shift towards pragmatism.
The distinction made by Kant was foreshadowed by Leibniz and Hume: synthetic truths are the ones
grounded in facts and gained by experience, while analytic truths are the ones true independently
of the facts and by virtue of meaning. But what is “meaning”? We shouldn’t confuse the meaning of
a singular name with the object it refers to: two singular names with different meanings could refer
to the same object. Neither we should confuse the meaning of a general term with its extension:
we can have general terms with the same extension (referring to the same objects) but with a
different meaning. The Aristotelian notion of essence was the forerunner of the modern notion of
meaning: facing an object we expect it to have a quality it cannot lack, or an “essence”. Meaning is
that essence becomes when divorced from an object and wedded to a word. We should abandon
the use of meaning and turn to the notion of synonymy, which is crucial for the definition of analytic.
There are two kinds of statements which are considered analytic: the ones that are logically true
and the ones that can be reduced to logically true statements by using synonyms. The first class is
made of statement as “no unmarried mas is married” which rare based on the identity principle: no

22
not-M is M -> ¬ ¬M is M -> M is M. The second-class statements are “no bachelor is married”. So,
we need to better understand synonymy in order to understand analyticity.
The first option to consider, is that the analytic statement of the second class reduce to those of the
first class by definition: “bachelor” is defined by “unmarried man”. But, how do we find out this
definition? Looking for it in a dictionary doesn’t help because the lexicographer was only reporting
a general or preferred use of the two words. His work rest on a pre-existent synonymy and doesn’t
explain it. The same thing happens if we think of definition in the terms of explication: using
“unmarried man” to explain “bachelor” works only because there is a pre-existent synonymy
between the two.
The second option to consider is interchangeability salva veritate: two words are synonymous if
the can be interchanged and the truth value of the new sentences doesn’t change. This happens
only if we are searching for cognitive synonymy: it doesn’t work for sentences like “bachelor has
eight letters”, where we are talking about the word. In this case, we have two classes (A= unmarried
men; B= bachelors) that overlaps perfectly: we can interchange B with A in every single case. But,
since we are researching analyticity, we want to say that this interchangeability is not accidental.
We must say that every A is B necessarily, but this is to say analytically, so we didn’t explained
analyticity.
Maybe the difficulty of separating analytic statements from synthetic ones is caused by the use of
ordinary language, so we shall turn to artificial ones. Every language has a set of semantical rules to
define its parts, but in an artificial language these rules are not grounded in experience. The first
rule we should try has the form “a statement S in analytic for L if and only if…”: analyticity in this
sense is not explained because it is not told what “analytic” means but only what “analytic-for-L”
means. This would be relative to L and would not be the same of “analytic for L 1”. The second
semantical rule we’ll try to define analyticity is “such and such statements are included among the
truths”. But, since we want to find what analytically true means, we have to rephrase: “a statement
is analytic if it is true according to the semantical rule”. The semantical rule we would use to define
analyticity in an artificial language however, will always be grounded in a previous understanding or
usage of the notion.
The fourth options we have to try is the verification theory, a stronghold of empiricism. It tells us
that the meaning of a statement is the method of empirically confirming or infirming it; every
statement that has a meaning must have a referent in experience. Turning immediately to the
sameness of meaning, or synonymy, two statements are synonymous iff they are alike in point of
method of empirical confirmation. What is the exact relation between a statement and an
experience? The most naïve view is that it is a relationship of direct report, but this is radical
reductionism: every idea is originated in experience, so there are no general terms (Hume, Locke,
Tooke). This is difficult to accept because every term has meaning only if it is within a context. We
could try to take statements as basic significant units (as Carnap does in Der Logische Aufbau der
Welt) but this is also difficult. According to Quine, we can’t isolate the statements and pretend they
still have a meaning, but we must consider them altogether as part of a theory.
We now turn to the holistic conception of knowledge that Quine has: the totality of our knowledge
must be conceived as a whole, as a field force whose boundary conditions are experiences. In this
conception there can’t be a difference between analytic and synthetic statements. We can imagine
23
knowledge as a circle: in the centre there are the fundamental theories we don’t want to lose, while
receding from the centre we find the statements that we can let go and those who are close to
experience. The peripherical statements can be expelled from K and sacrificed if it is convenient.
Theories and statements can be moved inside (or outside) K in order to have a different picture of
K or to change the fundamentals. In some cases, it may be useful to change K in order to include in
it new things, in other cases it would be dangerous or futile. Philosophers are those who evaluate
the changes in the field force and discuss about what is knowledge. From this they can commit to
an ontology.
The criteria we use to decide which K-picture is better are aesthetics and pragmatism: science, as
every component of K, is nothing but a tool to predict and control future events. A tool needs to be
useful, not true, but in order to correctly use it we must believe in some myths it needs: to use
science, we must believe in physical objects and so commit to their ontological existence.
In response to Carnap saying that metaphysics is no theoretical question but rather a practical one,
Quine say that every theoretical question is also a practical one and vice versa. Every strategy to
rearrange K is obviously a practical matter but also a theoretical question, since it is part of the
whole K.

On what grounds what, by Jonathan Schaffer

On the dominant Quinean view, or “standard view”, metaphysics is about what there is, but Schaffer
argues for a more Aristotelian view, where metaphysics is about what grounds what. The question
of ontology is not whether number, properties or meanings exist but whether or not they are
fundamental. The Quine-Carnap debate ended with Quine’s victory and a revival of metaphysics
although focused on existence question. This conception is very different from the traditional
Aristotelian view which doesn’t bother with whether object exist, but how they do.

It will be useful to distinguish the task and the method of Quine’s meta-ontological view: the task is
to say what exists, listing the beings; the method is to extract existence commitment from our best
theory. Quine starts from the best theory we have and take the true statements (according to the
theory), then he chooses the canonical logic (first-order logic) and translate the true statements into
logical form. Last, he commits himself to accept the existence of those object designated by the
bound variable, thus building an ontology. The Quinean view should be praised for giving an
integrated conception of ontology (both a task and a method to accomplish it); for conceiving
ontology as a progressive discipline and for reviving it. Quine’s victory over Carnap is not however a
victory for metaphysics, because still ontology questions are about choosing and not about
discovering facts. Ontology in the standard view is about listing beings and its main question is “how
many entities are there?”.

The Aristotelian view has both a different method and a different task: it says what grounds what
by deploying diagnostic for what is fundamental. Aristotelian ontology can be asked about the
existence of certain items as numbers, properties of meaning, but the answer will always be “of
course they do”, the real question is whether they are fundamental or derivative. An existent can

24
be a ground, a grounding relation or a grounded entity, but without any doubt it truly exists. Quine
and Aristotle offer different views of metaphysical structure: the Quinean structure is flat, while the
Aristotelian is ordered.

In Schaffer’s opinion, the ordered structure proves best over the flat one: the Quinean question
about existence are trivial, while the questions about fundamentality are interesting. The entities in
Quinean questions obviously exists and it is trivial to ask if they do: this might be called permissivism
but it is not a problem for Schaffer. Permissivism only concern the shallow problem of what exists
and not what is fundamental: we are not saying that everything that exists is a fundamental, because
otherwise we would picture a flat structure. What is fundamental is very little and limiting this
ensemble is just what it’s needed to respect Occam’s Razor. There is no problem at all with
permissivism.

Moreover, as Schaffer states, most of the debates in contemporary metaphysics are about what is
fundamental, not about what there is. Take metaphysical realism vs idealism for example: it is about
whether objects are grounded in ideas or independent of them; the mind-body problem is a
question about which one is a ground for the other. Grounding is a primitive structuring conception
of metaphysics and cannot be escape. The Quinean Method presuppose Aristotelian structure in
every single stage: the best theory from which we extract true statements is always a theory of
fundamentals.
Let’s take a look to the key notions for a neo-Aristotelian framework:

• Fundamental: x is fundamental =df nothing grounds x.


• Derivative: x is derivative =df something grounds x.
• Existent: x is an existent iff x is a fundamental or a derivative
• Integrated whole: x is an integrated whole =df x grounds each of its proper parts
• Mere aggregate: x is a mere aggregate =df each of x’s proper parts ground x
• Interdependence: x and y are interdepent =df there is an integrated whole of which x and
y are both proper parts.

25
Il pensiero e la storia. L’insegnamento della filosofia in Italia
Dall’unità al fascismo

Il punto di partenza è la riforma Casati del 1859 nel Regno di Sardegna, poi estesa a tutto il Regno
d’Italia. È la prima riforma unitaria della scuola superiore, per sottrarla agli istituti religiosi che
dominano questo campo. La legge Casati prevede un indirizzo tecnico fine a sé stesso e un indirizzo
liceale, che garantisce l’accesso all’università, per educare la futura classe dirigente. L’indirizzo
liceale è fortemente indirizzato verso l’area umanistica, concepita come unica vera cultura. Lo
squilibrio verso l’area umanistica è eredità dei collegi gesuiti, che avevano quasi monopolizzato
l’istruzione superiore nell’Europa cattolica a partire dal ‘600.

Manca un programma e un metodo ufficiale e stabilito per la filosofia fino al 1863 quando si opta
per l’insegnamento sistematico (composto in tre parti, logica, metafisica ed etica) e non per quello
storico. Nel 1867 la legge Coppino istituisce delle Istruzioni per l’insegnamento della filosofia:

• Filosofia commisurata agli interessi dei giovani, senza perdersi in questioni specialistiche.
• Deve insegnare a ragionare partendo da basi solide.
• Bisogna evitare lo scetticismo degli studenti e dunque far riferimento alle loro esperienze.
• La dimensione pratica del fare filosofia deve prevalere sulla dimensione teoretica.
Lo schema logica-metafisica-etica diventa psicologica-logica-morale e vengono introdotte delle
esercitazioni. Questo apre un dibattito sulla distinzione tra “filosofia elementare” e “filosofia
superiore” e sulla possibilità di eliminarla dalle scuole superiori.

Nel 1884 Coppino definisce il programma della filosofia in tre anni, inserendo anche “disegno storico
della filosofia” al terzo, pur mantenendolo in un contesto positivista ed empirista. Quattro anni dopo
viene eliminato l’insegnamento storico e si torna al programma tripartito di psicologia, logica ed
etica.

Sullo sfondo di queste riforme vi è il dibattito tra i positivisti, critici verso la cultura umanistica,
desiderosi di una maggiore diffusione della cultura scientifica ed ostili all’elitarismo della scuola
italiana, e la ripresa degli hegeliani e delle tendenze spiritualistiche e neotomistiche. Il positivismo
italiano non riuscì a dare una impronta significativa all’insegnamento della filosofia a scuola, se non
quello di mantenere la filosofia in una posizione media tra discipline scientifiche e umanistiche,
almeno fino all’inizio del ‘900, quando la filosofia cambia di campo e rientra nell’area umanistica.

La riforma Gentile

L’idea cardine di Gentile è che l’insegnamento umanistico sia il vertice dell’istruzione scolastica e
dal 1900 in avanti egli si adopera per l’avanzata delle istanze neo-idealiste su quelle positiviste: è la
cultura umanistica che porta alla consapevolezza del grado di civiltà raggiunto dall’essere umano,
della propria libertà, del proprio posto nella Storia e del proprio dovere morale. La cultura

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umanistica forgia l’essere umano. Per imprimere una svolta radicale all’insegnamento finora
adottato, Gentile indica che l’insegnamento umanistico deve essere storico.

Gli aspetti caratterizzanti della riforma di Gentile:

• La filosofia assume uno status di assoluto privilegio: diventa la direttrice di tutta l’istruzione.
• Introduzione di programmi d’esame ed abolizione della prescrittività dell’insegnamento,
garantendo libertà al docente.
• Respinta l’idea che la filosofia sia da insegnare come “elementi di filosofia”: bisogna cercare
la profondità di pensiero e le questioni essenziali.
• La filosofia coincide con la Storia (ovvero con lo svolgersi dello Spirito).
• Non si deve seguire un manuale ma leggere direttamente le opere dei filosofi.
Per comprendere bene la riforma gentiliana, bisogna conoscere il retroterra da cui si muove Gentile:
prima ancora di definire sistematicamente il suo pensiero, l’interesse per la pedagogia e in
particolare per l’insegnamento della filosofia è prevalente, anche nei suoi dettagli pratici e
burocratici. Le sue pubblicazioni risalgono alla polemica con Chiarini, direttore generale
dell’istruzione durante il ministero Baccelli, il quale aveva proposto e sperimentato prima di ridurre
la filosofia all’ultimo anno di liceo e poi di eliminarla. In questo contesto, nel 1900, viene pubblicato
L’insegnamento della filosofia nei licei, poi ripubblicato nel 1921 in una edizione più corposa e con
il titolo di Difesa della filosofia. “Tutta la cultura scolastica – scrive Gentile – deve essere orientata
in modo da promuovere o almeno consentire la riflessione filosofica”.

La forma in cui va insegnata filosofia alla scuola superiore non è quella degli “elementi di filosofia”,
poiché la filosofia ne viene fuori ridotta ad una serie di conoscenze utili che la snaturano. La filosofia
insegnata fino ad allora come erudizione è nociva: questo non vuol dire però che bisogna eliminarla
ma che bisogna cambiare il modo in cui insegnarla. Bisogna insegnare una “buona filosofia”. La
buona filosofia “non è una o più conoscenze, ma è pensiero, non è contenuto, ma forma del sapere”.
L’uomo prodotto dal liceo classico, volta del sistema scolastico italiano, non è un uomo dalle
conoscenze frammentarie o iperspecializzate ma un uomo capace di avere una visione integrale e
in grado di specializzarsi autonomamente. Questo risultato può essere ottenuto soltanto tramite
una educazione storico-umanistica.

Dopo Gentile: la scuola e la filosofia in età fascista

Punti centrali della riforma sono: la centralità della filosofia, il carattere elitario dell’educazione
nazionale, la laicità della scuola, l’ancoraggio ad un ideale di umanesimo integrale, il riferimento alla
classicità. Questi punti possono apparire disomogenei rispetto all’ideologia del regime fascista, a cui
comunque Gentile diede la propria piena adesione. La politica scolastica e culturale del regime si
discosta progressivamente da quella indicata da Gentile a partire dalla metà degli anni ’20, con dei
piccoli ritocchi.

Nel 1925 Fedele introduce dei vincoli all’insegnamento della filosofia, stabilendo l’obbligo di lettura
di 4 opere scelte tra cinque gruppi di letture ed imponendo l’esigenza di spaziare e toccare punti
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diversi. Questo comporta l’obbligo di riferirsi ad un manuale, o meglio ad un Sommario storico.
Gentile aveva rimosso il manuale solo due anni prima. Il Sommario deve essere solo uno strumento
e non l’oggetto delle lezioni, ma sicuramente si riporta l’insegnamento verso la conoscenza di
elementi di filosofia, in antitesi con lo spirito della riforma gentiliana. Inoltre, Fedele accoglie alcune
delle critiche portate dai cattolici alla riforma gentiliana e inserisce tra gli autori principali Agostino,
Tommaso, Anselmo, Pascal, etc. Questo rovesciamento dei princìpi della riforma Gentile è da
imputarsi alla tendenza generale che i rapporti tra Stato e Chiesa stanno prendendo e che
culmineranno nei Patti Lateranensi del 1929. Dopo questi, la riforma e la politica culturale fascista
subiscono una forte clericalizzazione che ne snatura lo spirito idealistico di Gentile e porta ad una
più rapida fascistizzazione delle masse.

Nel 1929 va in crisi anche il ruolo di primo piano di Gentile sul palcoscenico della cultura italiana: i
gentiliani ricevono infatti moltissime critiche da cattolici e positivisti ed escono sconfitti dal
congresso di filosofia di Roma del maggio 1929. Negli anni Trenta il regime abbraccia posizioni
misticheggianti e legate alle tematiche religiose del sacrificio, della fede e del martirio, sintetizzate
nel motto “credere obbedire combattere”. Della crisi dell’idealismo ne approfittano altre filosofie
che modificano il dibattito filosofico italiano: oltre alla ripresa della filosofia cattolica, si nota
l’ingresso dalla fenomenologia husserliana (Paci, Martinetti), dell’esistenzialismo (Abbagnano,
Pareyson) e neopositivismo (Geymonat, Colorni). In particolare, è da notare che alcuni dei filosofi
gentiliani si spostano nelle file cattoliche, dando vita ad un connubio tra idealismo e cattolicesimo
che si svilupperà soprattutto all’università Cattolica di Milano.

Nel 1930 viene aggiunto al programma di filosofia lo studio della Dottrina del fascismo; nel 1933 la
scuola è ormai fascistizzata e si procede alla omologazione amministrativa: obbligatorietà della
tessera di partito per tutti gli operatori scolastici e sistematica intromissione dei gerarchi
nell’istruzione. Nel 1936 De Vecchi compie la bonifica della scuola: lo scopo della scuola diventa
esplicitamente quello dell’acquisto della cultura fascista. Ne segue una centralizzazione di tutti gli
istituti che vengono posti sotto la diretta sorveglianza dello Stato, diventando in tutto e per tutto
una scuola di regime. Con la riforma De Vecchi viene ribaltata del tutto la prospettiva gentiliana:
l’insegnamento della filosofia ha ora il suo perno sulla storia e non sulle letture, che diventano di
accompagnamento.

Segue la riforma Bottai, che però rimane incompiuta per l’insorgere della guerra: dopo i cinque anni
di elementare si può scegliere se seguire due anni di istruzione senza sbocchi successivi oppure la
scuola media unica, che riunisce i corsi inferiori ginnasiali, tecnici e magistrali, che Gentile aveva
tenuto separati. Seguono le scuole superiori (classico, tecnico, magistrale) oppure il triennio di
avviamento professionale. Gli intenti di Bottai sono di ridurre la selettività della riforma gentiliana e
di avviare un nuovo umanesimo maggiormente incentrato sulla tecnica e la scienza.

Una filosofia per la scuola repubblicana: i programmi del 1944

Nel 1944 gli Alleati si preoccupano di defascistizzare la scuola italiana ed elaborano una propria
riforma scolastica tramite Carleton W. Washburne, allievo di Dewey: sostanzialmente si toglie
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l’obbligo di Dottrina del fascismo e si demanda ai governi italiani l’elaborazione di nuovi programmi,
cosa che non avviene. Vengono mantenuti i programmi stabiliti da De Vecchi: il primo anno, dalla
filosofia greca alla scolastica; il secondo anno, dal rinascimento a Kant; il terzo, dall’idealismo al neo-
idealismo fino al fenomenismo relativistico e al pragmatismo.

Questo scelta avviene soprattutto per la maggioranza dei ministri di estrazione crociana, non lontani
dall’impostazione gentiliana, e per la volontà di non modificare radicalmente la scuola così da
evitare il rischio di una ideologizzazione di sinistra.

La Liberazione e gli anni Cinquanta

L’insegnamento della filosofia nel dopoguerra deve affrontare un doppio problema: ci si vuole
liberare della cultura fascista, identificata con la filosofia di Gentile, e del crocianesimo, in quanto
matrice della cultura conservatrice che aveva prevalso nel fascismo. Nel 1946 un congresso
internazionale di filosofia a Roma tratta le nuove direzioni dell’indagine filosofica, estranee alla
riflessione crociana e gentiliana: esistenzialismo, materialismo storico, analisi della scienza e del
linguaggio. Nel 1952 viene ricostituita la Società Filosofica Italiana, che assume un ruolo di guida nel
dibattito filosofico italiano e che si pone il problema dell’insegnamento della filosofia nella scuola:
quest’ultimo punto rimarrà in sospeso data la discordia tra i membri.

L’instaurarsi della Repubblica pone il problema di trasformare la scuola in una istituzione


democratica e aperta a tutti ma la riforma in questo senso si arena sulla questione più profonda
della laicità di essa. Il problema della laicità della scuola era già presente nei primi del Novecento,
nei dibattiti tra Gentile e Salvemini i quali, pur difendendo entrambi la necessità di una scuola laica,
avevano idee molto differenti sul come realizzarla. Ora gli schieramenti sono i laici contro i cattolici,
dove i cattolici vorrebbero eliminare l’impianto storico dell’insegnamento e limitare la filosofia
contemporanea e moderna alla sola neoscolastica.

All’inizio degli anni ’50 si cerca di trasformare l’insegnamento della filosofia in insegnamento della
“Filosofia di Stato”, ovvero concentrandosi sugli autori italiani, anche minori, piuttosto che su figure
internazionali più importanti. Questa prospettiva si modifica già nel 1953 con la pubblicazione di
una inchiesta UNESCO internazionale sull’insegnamento della filosofia. Questo porta ad un
congresso internazionale a Roma nel 1956 dove si discutono alcuni problemi fondamentali per la
questione dell’insegnamento. Dopo la dissoluzione dell’idealismo, emergono forti quelle tendenze
filosofiche che ne erano state ostacolate, come il positivismo, il neo-illuminismo e soprattutto il
marxismo, visti ora come vie d’uscita interamente filosofiche dall’idealismo. Togliatti scelse per il
PCI una linea di continuità e di accordo tra il marxismo e la filosofia crociana, favorendo la nascita
di una via italiana al socialismo incentrata su autori nazionali (Gramsci, Labriola, Riola, etc.). A questo
scopo risultò estremamente utile la filosofia dei Quaderni dal carcere di Gramsci, che denotano un
marxismo molto umanista.

Intermezzo. Filosofia e storia della filosofia


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La riflessione sulla coscienza storica della filosofia italiana affonda le sue radici nell’epoca
umanistico-rinascimentale ma per il nostro discorso si può limitare l’analisi a partire dagli anni
Cinquanta. L’uscita dell’idealismo lascia sul campo dello storicismo due contendenti, ovvero il neo-
illuminismo e il marxismo: la vicenda ruota intorno alla figura di Eugenio Garin, che dalle posizioni
neo-illuministe abbraccia la concezione della storia marxista e affianca Togliatti nel processo di
ricostruzione della tradizione che da Labriola arriva a Gramsci. Questa posizione a cui Garin arriva
alla metà degli anni Cinquanta è fatale per il fronte del neo-illuminismo, che si sfalda dopo la perdita
di Garin. La cosa più particolare è però che la concezione della storia che si afferma, per quanto sia
di tradizione marxista e abbia delle notevoli differenze, è in continuità con la concezione idealista,
almeno nella forma elaborata da Croce.

Dopo la chiusura della Società Filosofica Italiana negli anni del fascismo, i filosofi italiani del dopo-
guerra premono per una riorganizzazione: nascono nuove riviste, si fondano diversi centri di studi e
si tengono molti congressi. I più importanti sono Torino (giugno 1953), Milano (dicembre 1953) e
Firenze (aprile 1956), tutti promossi da Abbagnano: nel primo congresso di Torino il movimento
neo-illuminista si dà una forma e un documento programmatico; a Milano è posto come tema la
sociologia. A Firenze si pone invece in primo piano la questione della storia, della metodologica
storiografica e dello storicismo. Già in precedenza, la Storia della filosofia di Abbagnano e la “Rivista
di storia della filosofia” di Dal Pra avevano preso le distanze dallo storicismo idealista, ma negli anni
’50 il dibattito su come intendere la storia della filosofia si amplia.

Al congresso di Firenze del 1956 si affidano i tre interventi principali, relativi a unità, superamento
e precorrimento nella storiografia filosofica, rispettivamente a Garin, Dal Pra e Paci. L’intervento di
Garin pone in opposizione l’unità della storia della filosofia con l’unità di pensiero del singolo filosofo
e nega la possibilità di utilizzare entrambe le categorie. Questo darà il via ad un lungo dibattito con
Paci.

Sunto del capitolo: la storiografia filosofica italiana è neo-idealista dall’inizio del Novecento agli anni
Quaranta e marxista dal dopo-guerra alla fine degli anni Settanta. Le due filosofie trovano un punto
in comune nello storicismo, ovvero nell’idea che al centro della propria indagine ci sia la Storia.

Gli anni Sessanta

Negli anni Sessanta assume una grande importanza la discussione pedagogica sul come sia
necessario insegnare filosofia, piuttosto che la discussione su cosa insegnare; con una maggiore
attenzione sullo studente infatti ci si propone di trattare la filosofia con riferimenti ai temi tipici della
adolescenza. In questo periodo la tradizione della filosofia cattolica abbassa le armi e accetta
l’insegnamento della filosofia in forma storica e la lettura dei classici: questo fatto ricalca la rinuncia
da parte dei cattolici ad una egemonia in campo culturale che di fatto spalanca il campo ai marxisti.
Inoltre, si comincia a parlare dell’introduzione dell’insegnamento della filosofia negli istituti tecnici:
se la filosofia educa al pensiero critico ed autonomo, allora tutti i cittadini della repubblica devono
potersene avvalere.

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All’inizio degli anni Sessanta le tradizioni filosofiche italiane (laica, cattolica e marxista) si aprono al
dialogo su molti temi differenti e ne escono modificate: il marxismo abbandonerà la sua ortodossia
storicista e il filone cattolico vede affievolirsi la sua prospettiva spiritualistica, mentre la scuola laica
invece si perde e cede, non sapendo opporre una identità forte. Del movimento laico neo-illuminista
molti cambiano direzione, cercando nuovi percorsi teorici come la fenomenologia, l’esistenzialismo
o l’analitica, e altri si concentrano sulla storiografia.

L’apertura del marxismo italiano è forzata dal crollo dello stalinismo nel 1956 e porta alla rottura
dello storicismo gramsciano. In particolare, le nuove letture di Marx pongono l’accento sulla sua
scientificità e quindi con la continuità con la tradizione aristotelico-galileiana-kantiana piuttosto che
con l’idealismo. Questa apertura degenererà poi nella apertura alla Scuola di Francoforte e nella
Contestazione del ’68.

Gli anni Settanta

La vicinanza con il ’68 apre negli Settanta molti dibattiti sull’insegnamento della filosofia, che viene
avvicinata all’ambito degli studi sociali: in questo periodo emergono alcune posizioni secondo cui
sarebbe opportuno sostituire l’insegnamento della filosofia con quello di scienze sociali, e di calare
la filosofia nel suo contesto storico in maniera molto radicale. La storia è infatti la scienza che studia
tutte le altre scienze umane dal punto di vista generale e non dovrebbe per questo essere insegnata
insieme alla filosofia, disciplina particolare. I sostenitori delle scienze sociali vanno nella direzione di
una forte affermazione di queste discipline, che dovrebbero sostituire il ruolo portante che la
filosofia aveva avuto fino a quel momento nell’istruzione secondaria.

Le scienze non sono una disciplina che si aggiunge alle altre ma una disciplina che costituisce un
nuovo asso portante della scuola italiana che però, a differenza della filosofia, è accessibile a tutti e
utile a tutti. Le scienze sociali sono un utile mezzo per colmare il distacco tra la cultura scolastica e
quella giovanile. Inoltre, le scienze sociali permettono il riscatto del sapere scientifico, che si può
affrancare dal ruolo subalterno che la scuola italiana gli affidava. Il dibattito sulle scienze sociali non
porta però né ad una riflessione seria sul ruolo della filosofia né ad una revisione dell’insegnamento,
sia per la debolezza del progetto, sia per la resistenza operata dalla Società Filosofica Italiana. Alla
fine degli anni ’70, l’interesse per le scienze sociali scema.

Tra gli eventi più importanti degli anni ’70 vi è la fine dell’unità nazionale della filosofia e il
disciogliersi della tripartizione laici-cattolici-marxisti. In primo luogo, vengono recuperate molte
tradizioni filosofiche straniere e si perde quel carattere italo-centrico che distingueva la filosofia
italiana del Novecento. Di conseguenza si opera una omogeneizzazione dei confini tra le tre
tradizioni dominanti, anche grazie alla crisi del marxismo italiano che si verifica in questi anni. Sono
infatti molti gli autori che, in coincidenza con le vicende del ’68 e del terrorismo, introducono delle
forme di marxismo diverso da quello sovietico cui si ispirava il PCI e delle riletture di Marx attraverso
altri autori.

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In particolare, sono gli autori della crisi quelli che emergono in questo periodo: Nietzsche,
Heidegger, il secondo Wittgenstein diventano degli autori di riferimento imprescindibile e segnano
i nuovi indirizzi della filosofia italiana. Il post-moderno, l’ermeneutica, la filosofia analitica emergono
come aree di maggiore interesse e autonomia; rinasce la filosofia pratica; la metafisica classica perde
il proprio sostrato condiviso e si spezzetta in piccole scuole. Tra gli ambiti filosofici che si affermano
negli anni ’70 c’è anche il femminismo di Carla Lonzi. Si assiste anche ad una professionalizzazione
della storia della filosofia, che richiede una maggiore conoscenza di storia, archeologia e filologia.

Dagli anni Ottanta ai giorni nostri

Gli anni Sessanta e Settanta non segnano particolari variazioni per quanto riguarda i programmi di
insegnamento, anche se sono animati da dibattiti tanto ricchi di interesse quanto poveri di risvolti
effettivi. L’unica differenza che si può riscontrare con l’impostazione idealistica che caratterizza
l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori è una maggiore attenzione ai problemi che
possono maggiormente interessare gli studenti.

Questo fatto è da includersi in un cambiamento più profondo che colpisce la scuola italiana: si
modificano i rapporti gerarchici, si segue la logica della ricerca del consenso da parte dei sottoposti,
si rinuncia a programmi e obiettivi rigidi. In questo periodo la scuola superiore diventa una scuola
di massa e si aprono le discussioni sulla preparazione minima da fornire ai docenti.

Due convegni, uno a Brescia nel 1982 e uno a presso l’Università della Calabria nel 1983, segnano
alcuni punti importanti del dibattito: la necessità della lettura diretta delle opere dei filosofi e
l’attenzione alle modalità di insegnamento. In particolare, si dibatte sulla possibilità e le modalità
con cui insegnare la filosofia a tutti, incentrandosi sulla sua funzione politica e formativa. Comincia
a farsi strada l’idea di una riforma non soltanto della filosofia insegnata a scuola ma di tutta la scuola,
in quanto si ritiene necessario costruire un rapporto tra la filosofia e le altre discipline. Il saggio
Considerazioni sulla didattica della filosofia nella scuola secondaria (Micheli, 1987) coglie queste
istanze e propone due tesi: creare uno spazio che permetta la libertà e l’autonomia degli insegnanti
e il ridimensionamento dell’uso del manuale. L’idea di Micheli è di eliminare quella concezione
manualistica e nozionistica che contraddistingue la filosofia: il rapporto tra i testi e il manuale deve
essere ribaltato e l’insegnante deve interrogare direttamente i testi insieme alla classe. Questo
porta l’insegnante a dover compiere delle scelte tra i contenuti da trattare, in quanto saranno
trattati approfonditamente. Questo porta naturalmente a delle critiche che chiamano in causa
l’omogeneità dei contenuti e il raggiungimento di obiettivi comuni ma Micheli respinge queste
critiche, sottolineando il nuovo ruolo degli insegnanti. Gli insegnanti non devono solo insegnare cose
né imparare come si insegni, ma devono tornare a riflettere su cosa si sta insegnando, sulla propria
filosofia. Le critiche a questo punto si concentrano sul rischio che gli insegnanti non usino
correttamente questo spazio di autonomia piuttosto ampio che si sta loro concedendo.

Nel 1990 Bianco pubblica Insegnamento della filosofia: metodo “storico” o metodo “zetetico”?, in
cui si interroga sulla validità del metodo storico, legato a tradizioni filosofiche (Gentile e prima
ancora Hegel) con presupposti ormai ampiamente in discussione. Bianco recupera, contro lo
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storicismo, l’insegnamento di Kant, per cui non si può insegnare la filosofia ma soltanto insegnare a
fare filosofia. Tra i limiti più evidenti della storia della filosofia c’è il non andare incontro agli interessi
degli studenti e quindi la perdita di interesse nei confronti della disciplina. Secondo Bianco,
l’approccio teorico e l’approccio storico alla filosofia devono convivere, pur con una prevalenza del
primo, ovvero della ricerca.

Nel 1992 vengono pubblicate le proposte della commissione Brocca per la riforma della scuola
italiana, che si fondano su alcuni obiettivi fondamentali: prolungamento dell’obbligo scolastico a
dieci anni; nucleo di insegnamenti comuni nel biennio della scuola superiore; superamento della
tripartizione tra licei, istituti tecnici e istituti professionali. La commissione Brocca si muove
nell’ottica di superare l’orizzonte fissato da Giovanni Gentile, il quale ha resistito come presupposto
di riferimento. La filosofia non è tra il nucleo comune di insegnamenti, in quanto viene spostata al
triennio, e si sottolinea come le finalità di questo insegnamento siano la formazione culturale,
l’apertura interpersonale, la consapevolezza e la riflessione critica. Al centro viene messo il testo
filosofico, che deve essere il principale referente per ogni discussione. La filosofia deve essere
insegnata in tutti gli indirizzi di scuola superiore ma non allo stesso modo ovunque: ogni indirizzo ha
infatti la sua propria filosofia. I licei devono seguire un approccio “storico-tematico”, che consiste
nell’individuazione dei grandi nodi concettuali attorno ai quali si è sviluppata storicamente la
filosofia e tramite cui è possibile individuare i grandi problemi. Sono pochi gli autori ritenuti
imprescindibili: Platone e Aristotele il primo anno; il secondo Kant, Hegel e due autori moderni a
scelta tra Galilei, Descartes, Hobbes, Spinoza, Locke, Leibniz, Vico, Hume e Rousseau; il terzo due
autori tra Comte, Schopenhauer, Marx, Kierkegaard, Mill e Nietzsche più due a scelta tra Bergson,
Croce, Gentile, Husserl, Heidegger, Weber, Wittgenstein e Dewey. Agli istituti tecnologici ed
economici la filosofia deve essere insegnata senza connotazione storica, ma attraverso percorsi
tematici per avvicinare gli studenti ai metodi e ai problemi.

Negli anni Novanta la SFI torna ad avere un ruolo di grande importanza nella direzione del dibattito
filosofico e didattico-filosofico; in particolare si riflette ancora sul modello storico dell’insegnamento
della filosofia in Italia, che non viene mai abbandonato, e si porta all’attenzione dei membri della
Società l’esistenza di simili dibattiti sulla didattica filosofica anche negli altri paesi. Altre grande tema
di confronto è relativo ai manuali: si chiede una maggiore preminenza dei testi originali e una minore
presenza dell’autore del manuale e dei suoi giudizi.

Le proposte della Commissione Brocca non vennero ascoltate e pochi anni dopo il Ministro della
ricerca Luigi Berlinguer istituisce una commissione di “saggi” per formulare una nuova proposta di
scuola: si chiede una scuola che prepari lo studente ad una presa di coscienza del mondo in cui sarà
proiettato e che abbandoni l’enciclopedismo, per configurarsi come una comunità di ricerca. L’idea
è di passare da una scuola delle conoscenze ad una scuola delle competenze. La filosofia in questo
senso deve essere l’anima vivente della cultura e tutti gli studenti devono “averne diritto”. La
Commissione dei Saggi propone quindi di estendere la filosofia anche al biennio: questo costringe
ad abbandonare il metodo storico, che sarebbe deleterio per coloro che non proseguono oltre
l’obbligo di studio. La Commissione pone infine l’attenzione sulla necessità di una migliore
formazione del corpo docenti.

33
Nel 2010 vengono pubblicate le Indicazioni nazionali, che stabiliscono i nuovi criteri per
l’insegnamento della filosofia. Dal documento ministeriale appare l’idea di una filosofia dotata di
irriducibile originalità, da studiare secondo una prospettiva storica che si focalizzi su alcuni punti
nodali. I punti fermi attorno a cui stendere questa prospettiva devono essere gli autori e i loro testi,
che vanno letti direttamente, anche se solo in parte. L’obiettivo finale è quello di proporre un abito
mentale critico, riflessivo e aperto che contenga diverse competenze (in particolare, analisi e
argomentazione), senza fermarsi ad una conoscenza storica pura. Per quanto riguarda i contenuti,
sono indicati alcuni autori e temi imprescindibili e una serie di temi e autori che aiutano la
comprensione degli imprescindibili: la discrezionalità dell’insegnante è molto ampia.

Dopo le Indicazioni nazionali sono state molte le critiche e le proposte alternative: sono
particolarmente interessanti quelle che riportano alla luce un approccio maggiormente sistematico,
che comunque non prescinda dall’impianto storico e dall’utilizzo dei testi; quelle che insistono su di
un approccio linguistico e quelle invece che insistono sull’approccio argomentativo.

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Insegnare Filosofia – Modelli di pensiero e pratiche didattiche
1. Pensare con la propria testa? – Enrico Berti

La prima distinzione consapevole tra filosofia analitica e filosofia continentale fa leva sul fatto che i
filosofi analitici siano coloro che “pensano con la propria testa”, contrapposti a quei filosofi che
pensano con la testa dei filosofi del passato. Il pensare con la propria testa viene dalla dottrina
kantiana sull’insegnamento della filosofia: uno studente non deve imparare i pensieri ma imparare
a pensare. La filosofia per Kant non si può imparare a meno che non la si impari storicamente, tutt’al
più si può imparare a filosofare. L’idea kantiana è di combattere criticamente e con imparzialità
tutte le opinioni, le proprie quanto quelle altrui, per poter sviluppare autonomamente un proprio
pensiero.

Il problema di fondo nel pensare con la propria testa è però che essa difficilmente è interamente
propria, poiché subisce innumerevoli condizionamenti verso cui bisogna operare una
consapevolezza critica. Questo fu visto molto bene da Hegel, che sostiene come il pensare con la
propria testa porti a dire sciocchezze sempre più grosse, senza tenere conto del “fondo comune di
pensieri e di princìpi” che caratterizza il filosofare. Hegel critica fortemente chi vuole imparare a
filosofare senza contenuto, come vorrebbero i pedagogisti, interessati ai metodi più che ai
contenuti. La continua ricerca come fine a sé stessa è una moda derivata da uno scetticismo radicale
e bisogna porvi un freno. La concezione hegeliana è dovuta prevalentemente al suo concepire la
filosofia come una scienza già formata, manifestatasi nella storia e pronta per lo studio. La critica
hegeliana è mossa soprattutto verso l’insegnamento universitario, che si ricolma di parole oscure
comportandosi disonestamente e di una esagerata proliferazione di sistemi filosofici.

La soluzione, come spesso accade, è nel mezzo: la filosofia non può presupporre il proprio oggetto
e il proprio metodo, come sostiene Hegel, però non è mai inventata dal nulla o da chiunque, perché
esiste già da tempo e va cercata. La ricerca deve avvenire attraverso le opere dei grandi filosofi e si
deve imparare a filosofare insieme a loro, leggendoli e studiandoli approfonditamente. Si potrebbe
anche parlare della necessità di una distinzione tra l’insegnamento della filosofia nei licei e nelle
università: nelle scuole superiori la filosofia deve essere insegnata a tutti per sviluppare la
razionalità, lo spirito critico, la capacità di pensare con la propria testa e anche perché fa parte della
cultura generale. Null’università invece, dove studia chi vuole diventare filosofo, l’insegnamento è
mirato al filosofare, ma non nel senso di costruire ciascuno un proprio sistema filosofica, bensì
confilosofare insieme ai grandi filosofi.

2. L’approccio teorico-problematico nell’insegnamento della filosofia – Paolo


Parrini

L’impianto tradizionale gentiliano, fondato sulla circolarità tra filosofia e storia della filosofia, è
andato progressivamente in crisi negli anni: le conoscenze storico-filosofiche del secondo dopo-
guerra hanno minato l’idea che il divenire della filosofia fosse in direzione di una progressiva
conquista della verità; negli ultimi decenni è mutata la nostra sensibilità ed è stata operata una forte
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distinzione tra l’impianto storico della filosofia e l’impianto teorico, maggiormente apprezzato tanto
in area continentale quanto in area analitica; la complessità dei rapporti che legano la filosofia alle
altre discipline hanno reso necessario evidenziare l’identità della filosofia rispetto a tutte le altre
discipline.

Di fronte a questa situazione, molti hanno optato per difendere il metodo storico, mentre una
minoranza ha proposto un metodo teorico-problematico. La difesa del metodo storico avviene
perlopiù partendo dall’importanza formativa della filosofia andando poi a sostenere che queste
virtù si ritrovano al meglio nella storia della filosofia. L’importanza dell’insegnamento storico è stata
poi difesa ai fini di una educazione alla dimensione storica, ma non è solo per questo che si insegna
filosofia, dato che ha altre finalità non meno importanti. Inoltre, i paladini del metodo storico
sostengono che la filosofia è una forma di cultura intrinsecamente storica e dunque vada insegnata
in questa veste. Tutti questi argomenti sono basati su di una impostazione preconcetta della filosofia
che non viene argomentata.

L’approccio teorico-problematico non ha niente da spartire con l’approccio sistematico in vigore in


Italia prima di Gentile: nell’approccio sistematico la filosofia viene insegnata secondo le sue
articolazioni interne (logica, metafisica, etica, epistemologia, etc.). Il metodo teorico-problematico
è invece un approccio che dà un posto di rilievo alla lettura commentata dei classici del pensiero e
che ponga l’accento sulle principali questioni trattate dalla disciplina e quindi anche delle principali
risposte date ad esse nel corso della storia della filosofia. Questo permette di far sì che gli studenti
facciano esperienza di cosa significa affrontare un problema filosofico. Questo metodo apporta
diversi vantaggi al metodo storico tradizionale: i) riflette meglio dell’approccio storico il carattere
specifico della filosofia, ovvero la chiarificazione dei problemi, l’argomentazione, l’elaborazione di
proposte teoriche; ii) favorisce l’allenamento alla discussione critico-razionale, facendo così da
ginnastica mentale; iii) favorisce il dialogo tra la filosofia e le altre discipline, rendendo utile
estendere l’insegnamento della filosofia anche nelle altre scuole; iv) è maggiormente utile nel
campo ideologico e politico, dove si rende necessario lo spirito critico della filosofia.

La scelta del metodo storico non è mai filosoficamente neutrale, poiché si fonda su di un
atteggiamento storicistico, umanistico e scetticheggiante scarsamente motivato. Il metodo teorico-
problematico invece non propone nessuna concezione di filosofia assunta a priori. Inoltre, la
pluralità degli approcci dovrebbe agevolare uno scambio di esperienze tra gli studenti, utile in una
società democratica e plurale come quella che si vuole costruire. Altro punto in favore del metodo
teorico-problematico è una maggiore oggettività: è infatti più facile riscontrare oggettivamente
quali siano i grandi problemi filosofici, piuttosto che l’influenza di un pensatore su di un altro.

3. Centralità del testo e approccio interdisciplinare. Dalla teoria alla pratica –


Gregorio Piaia

La centralità del testo è l’elemento che accomuna l’approccio storicistico e quello teorico-
problematico, oltre a fornire degli ottimi punti di collegamento con l’interdisciplinarità richiesta

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dalle Indicazioni nazionali del MIUR. [Piaia offre un esempio pratico di come utilizzare i testi in modo
interdisciplinare, collegando incisioni, testi filosofici, religiosi e poetici]

4. Come si insegna filosofia analitica – Diego Marconi

Prima di discutere del modo migliore di insegnare la filosofia analitica bisognerebbe sapere cosa sia
la filosofia analitica, ma questo non è possibile perché non si tratta né di una scuola né di una
posizione teorica ma di una tradizione. Nel senso comune, i filosofi analitici hanno il culto della
chiarezza ed evitano termini ambigui o parole inutili. Le somiglianze di famiglia andrebbero però
cercate ad un altro livello: i testi analitici sono sempre argomentativi e promuovono una ricerca
collettiva e comunitaria, esplicitando il proprio contesto di pertinenza e facendosi carico dei
precedenti con risposte alle critiche precedenti. Tutto questo è unito poi alla portata limitatissima
delle tesi difese o proposte.

Quali sono i percorsi didattici praticabili per arrivare ad ottenere una formazione di questo genere?
In primo luogo, bisogna notare una netta distinzione su base geografica tra paesi propensi ad una
formazione analitica (USA, UK, Europa Scandinava, Polonia) e paesi lontani da questa tradizione
(Italia, Germania, Francia). Soprattutto in Italia dominano altre tradizioni filosofiche in cui ha un
peso preponderante la storia della filosofia. Questo contesto determina le conoscenze con cui gli
studenti italiani arrivano allo studio della filosofia: privi di grandi conoscenze scientifiche e con
letture di classici lontanissimi dalla tradizione analitica. In secondo luogo, determina le loro abitudini
intellettuali: non amano la matematica o le scienze e ha forti propensioni umanistiche; non ha mai
ricevuto una preparazione specifica per la scrittura o l’argomentazione. Il contesto determina infine
le aspettative degli studenti, i quali identificano la filosofia con Platone, Kant, Hegel, Nietzsche, Marx
e non conoscono i filosofi analitici.

Tutti questi problemi rendono molto difficile l’insegnamento in Italia della filosofia analitica: i punti
fondamentali sono il rendere familiari certi contenuti filosofici tipici della filosofia analitica (in gran
parte elementi della filosofia del linguaggio) e far acquisire certe capacità (argomentare, isolare un
problema, usare sistematicamente i testi). Tutto questo si può fare soprattutto con degli esercizi di
filosofia, di progressiva difficoltà, per familiarizzare gli studenti ed allenarli.

5. Ermeneutica filosofica e insegnamento della filosofia – Ferruccio De Natale

Negli anni ’80, quando appariva saldo il dominio dell’impostazione storicistica, tanto da parlare di
storia della storiografia filosofica, riappare l’ermeneutica: al congresso di Padova dell’ottobre 1981
Lutz Geldsetzer riportava la tesi di Gadamer per cui ogni testo o documento è sempre una
attualizzazione del sapere. Nonostante le forti critiche, dirette soprattutto ad un metodo
interpretativo “immaginifico” e “soggettivo” da parte di Gadamer, vi fu chi, come Enrico Berti, che
accolse favorevolmente l’intervento.

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L’ermeneutica sembra offrire alla didattica filosofica solamente uno strumento in più per
l’interpretazione dei testi: la centralità del testo e il riconoscimento della sua alterità si fondano però
sulla chiarificazione di sé e dei propri pregiudizi. Il testo non è un oggetto da sezionare ma da
interrogare riguardo al senso che ha avuto e che può ancora avere: l’ermeneutica propone il dialogo
tra il testo e l’interprete, dove l’interprete ascolta anche sé stesso. La continua interrogazione
dell’ermeneutica svela qui le sue radici nichiliste, mostrando le debolezze del proprio essere mai
conclusa, mai finita. Questo però porta sicuramente a una contestuale trasformazione e ad un
potenziamento dell’intera persona attraverso una modifica del modo di vedere il mondo, arricchito
non soltanto da nozioni ma anche da modi passati che si fanno nuovamente presenti.

6. Aporie dell’insegnamento filosofico e ininsegnabilità della filosofia: il


contributo del pensiero francese – Ilaria Malaguti

Il problema della didattica della filosofia è, a differenza di altre discipline, un problema interno alla
filosofia stessa, poiché nel processo di insegnamento è fortemente implicato lo statuto stesso della
disciplina. Un momento decisivo del dibattito su questi temi è il dibattito sulla proposta di riforma
del sistema scolastico francese negli anni ’70, dove l’insegnamento della filosofia, già limitato
all’ultimo anno dei licei, sarebbe stato reso facoltativo.

Jean-Luc Nancy sostiene che l’idea della filosofia come “donatrice di senso” ponga il problema
dell’origine del senso e della sua elementarità e fa notare come questo problema non sia affatto
una questione semplice da affrontare. L’impossibilità di ritrovare l’elementarità del senso in
elementi primitivi pone necessariamente il non-elementare come elemento iniziale della filosofia e
del suo insegnamento. Questo vuol dire che la filosofia non ha e non può avere un metodo di
insegnamento propedeutico, che proceda per stadi di progressiva difficoltà.

Derrida insiste che è l’antinomia a fare da matrice per il rapporto tra la filosofia e il suo
insegnamento, un rapporto aporetico. La filosofia e il suo insegnamento stanno infatti in rapporto
contradditorio: vi è una forte discrepanza tra insegnare filosofia e fare filosofia; la filosofia insegnata
nelle istituzioni è contradditoria, poiché è limitata ad una forma univoca che non può esistere.

7. Una vita pensata: la filosofia come forma di vita – Luigi Vero Tarca

Il sapere che è decisivo per la nostra esistenza deve essere appreso tramite una modalità diversa da
quella dell’insegnamento: questo sapere è pratico, poiché non consta di teorie che hanno portata
universale né riguarda l’applicazione di queste teorie alla realtà. Il sapere pratico è caratterizzato
dal fatto che viene costituito di volta in volta attraverso situazioni concrete e dunque ha sempre un
valore contestuale. A differenza del sapere teorico o di quello tecnico, il sapere pratico ha una parte
eccedente che non può essere insegnata ma soltanto imparata tramite esercizi e pratiche. Il sapere
pratico è caratterizzato dal riguardare quella dimensione entro cui si valutano sapere teorico e
tecnico quanto al loro avere valore per l’esistenza umana. È un sapere il cui contenuto e il cui valore
sono decisi soltanto a posteriori.
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La filosofia è un sapere integrale circa l’esistenza in generale e la vita umana in particolare, in tutti i
suoi aspetti e fattori; questa caratteristica rende problematico un insegnamento contenutistico o
tecnico della filosofia. L’oggetto della filosofia è infatti un tutto che non può essere frantumato
senza perderne il senso, poiché ogni singola parte è determinante nei confronti dell’intero.

Questo rende molto problematico l’insegnamento della filosofia tramite un sistema scolastico: lo
studente infatti si reca a scuola in vista di un titolo di studio, che quindi prevede una definizione a
priori degli obiettivi da raggiungere. Si impone un obbligo da raggiungere e si pone un individuo, il
docente, come una alterità superiore al gruppo che deve essere istruito e giudicato. L’obbligo della
lezione è in contrasto con la spontaneità della filosofia, che tratta di problemi sorti vivendo e non
può essere rinchiusa in quel tratto di vita artificiale che è un’aula scolastica. L’alterità del professore
è un altro elemento negativo perché egli ha comunque da imparare dagli studenti: il possesso di un
intero in continua costruzione non è un ideale raggiungibile, dunque il professore non è mai sopra i
suoi alunni ma sul loro stesso livello. La filosofia va appresa come pratica di vita concreta ognuno
attraverso la propria strada.

8. Fare filosofia in classe. Un approccio dialogico ispirato alla teoria dell’attività


– Marina Santi

Una possibile proposta didattica è ispirata alla “teoria dell’attività” elaborata dagli psicologi e
pedagoghi russi Vygotskij e Leont’ev, dove l’attività è l’unità di analisi fondamentale per la
comprensione e lo studio dello sviluppo cognitivo. “Attività” è un qualsiasi comportamento umano
interiorizzato, considerato in termini di azioni dotate di scopo e culturalmente significative. Nuclei
fondamentali della teoria dell’attività sono: i) lo sviluppo è un processo dinamico entro attività
condivise; ii) l’attività umana è diretta da intenzioni, orientata verso fini e alimentata da bisogni e
motivi; iii) il significato e lo scopo sono parte integrande dell’attività, così come le interazioni
interpersonali e il contesto in cui si svolge; iv) l’attività è l’unità di analisi dello sviluppo umano.

La relazione didattica di insegnamento-apprendimento è parte dell’attività costitutiva della


coscienza che è il “fare discorso” e si realizza come un “fare” emergente, significativo, concettuale,
condiviso, artefatto, artefice e personale. Il fare emergente è un fare che opera dinamicamente sulle
potenzialità degli alunni, dove attraverso il linguaggio si interviene nelle zone di sviluppo prossimo,
anticipando lo sviluppo stesso.

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