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Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE


“Alberto Marvelli”

VIOLENZA E MONOTEISMO

CATEGORIE SEMANTICHE E SIMBOLISMI SEMIOTICI

COSTITUTIVI DELL’AGIRE SOCIALE VIOLENTO

NELLE SACRE SCRITTURE

Tesi per la Laurea Magistrale in Scienze Religiose


indirizzo Pedagogico-Didattico
(Licenza in Scienze Religiose)

Candidato Docente
DERNI Loris Prof. TIBALDI Marco
matricola n. 0100

Anno Accademico 2014-2015


INTRODUZIONE

Per quale ragione i testi biblici descrivono la costituzione e la successiva


affermazione della religione monoteista con immagini tanto brutali? Perché si
narrano simili storie? Che cosa significavano per i popoli di allora? Che cosa
significano per noi oggi? Sul monoteismo, grava forse qualcosa di violento?
L'attualità della questione è evidente: il ritorno della religione come la stiamo
sperimentando da alcuni decenni è legata in modo inquietante alla violenza, a
sensazioni di odio e di minaccia, alla paura e alla creazione di immagini del nemico,
e questo non ci consente di sfuggire alla questione del rapporto tra monoteismo e
violenza.
Il linguaggio della violenza nelle Sacre Scritture, è un avvenimento che va inteso in
primo luogo al di là di ogni critica e controversia, principalmente prendendo atto che
il mondo in cui viviamo è funestato da una violenza di dimensioni finora sconosciute
e del tutto impreviste. In questo lavoro, analizzeremo, nella prima parte, il contesto
in cui queste civiltà monoteiste si sono costituite, le loro origini culturali e politiche,
le matrici ideologiche, giuridiche e religiose, attraverso quelle “categorie
semantiche” adottate, cioè ai significati del linguaggio, ed ai “simbolismi semiotici”,
utilizzati dalla produzione, dalla trasmissione e dall’interpretazione dei simboli
religiosi. Analizzeremo dettagliatamente nella seconda parte, i modi in cui si sono
comunicati e trasmessi i vari simboli e messaggi religiosi, che erano e sarebbero
tuttora alla base della formazione dell’agire sociale violento delle popolazioni legate
alle religioni monoteiste: il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo. Il problema,
come emergerà evidente, non è la violenza, ma appunto il linguaggio della violenza,
le scene di massacri, i bagni di sangue, le azioni punitive,le persecuzioni e così via,
con le quali il monoteismo delinea, in particolar modo nella Bibbia, la storia del suo
inizio e della sua conseguente affermazione. Vedremo infatti, che sarà con l'emergere
delle responsabilità dei governanti, che cominciarono a svilupparsi autonomamente
delle leggi divine, come si evidenzierà in seguito, che diventeranno poi costitutive
dell’agire sociale violento, distinte dalle tradizionali norme della legge
consuetudinaria.

2
Sarà dunque in questa direzione che ci muoveremo per avvalorare la nostra tesi che
la violenza nelle religioni monoteiste ed i relativi fondamentalismi, avrebbero come
matrice proprio questi riferimenti normativi prodotti da alcune “élite culturali”, con
le rispettive categorie semantiche ed i simbolismi semiotici adottati, nati nel periodo
delle cosiddette “civiltà assiali”, che distinguendo per prime tra i due ordini
“trascendente” e “mondano”, avrebbero rivoluzionato per sempre il corso della
storia.
Nella rappresentazione biblica, la nascita del monoteismo, come andremo a vedere,
verrebbe persino descritta, nella maniera più radicale possibile, come un vero e
proprio salto ed uno squarcio rivoluzionari.
In questo lavoro non sosterremmo affatto, che il monoteismo abbia introdotto la
violenza, l'odio e il concetto di peccato in un mondo fino a quel momento pacifico:
è ovvio che la violenza, l’odio e la colpa esistevano già prima della nascita del
monoteismo.
La nostra analisi sulle origini della violenza religiosa, ci condurrà dunque alla sfera
politica della violenza, cioè alla violenza dello stato e alla violenza giuridica degli
uomini, non tanto alla violenza di Dio.
In sostanza, quello che emerge evidente, è che non esisterebbe un linguaggio
violento nelle sacre scritture fine a se stesso e dove è presente, esso è sempre
caratterizzato come giusto, equo ed imparziale.
Sarebbero tutt’al più alcuni movimenti “elitari” che avrebbero adottato la violenza,
per perseguire dei fini prettamente politici.
Il linguaggio della violenza nel monoteismo e la forza dei movimenti
fondamentalisti, così come il loro forte impatto sulle rispettive società, sarebbe
dipeso quindi più da un sentimento di estromissione vero o presunto dai rispettivi
centri della società, da parte di certe élite sacerdotali prima ed intelletttuali poi come
ben evidenziato dall’analisi delle categorie semantiche adottate per influenzare
l’agire sociale del popolo ebraico, ma anche come quello dei vari fondamentalismi
che si ispirano proprio alle Sacre Scritture.

3
Comprenderemo dunque meglio le matrici ideologiche, giuridiche e religiose che
starebbero alla base della formazione dell’agire sociale violento delle popolazioni
legate alle religioni monoteiste, del cristianesimo, dell’islamismo ed in particolare
dell’ebraismo, nate in seguito di questa nuova visione del mondo: concetti innovativi
tra ordine mondano e ordine trascendentale, che grazie a queste élite, alle potenti
categorie semantiche e ai suggestivi simbolismi semiotici ed alle autorevoli strategie
interpretative dei testi sacri da essi adottati, aquisirono una stabile veste giuridico-
istituzionale, adottata ed ampiamente utilizzata fino ai giorni nostri.

4
PRIMA PARTE

1.1 LA NASCITA DELL’AGIRE SOCIALE VIOLENTO


NEL LINGUAGGIO RELIGIOSO

Il fondamentalismo religioso con la violenza insita in esso, viene spesso visto come
un fenomeno retrogrado, che nulla abbia a che fare con la modernità.
Tuttavia, quello che emerge evidente nei movimenti fondamentalisti che adottano la
violenza come modus operandi, è il fatto che essi sono spesso caratterizzati da una
costruzione politica e ideologica estremamente elaborata che fa parte in tutto e per
tutto della agenda politica del tempo, anche se le loro matrici ed i loro orientamenti
ideologici di base, i simboli e gli archetipi adottati, avrebbero una medesima matrice
arcaica bene definibile, come andremo a verificare.
Per comprendere meglio come il linguaggio della violenza all’interno del
monoteismo sia nato e sia stato foriero anche della nascita dei vari fondamentalismi,
utilizzeremo dunque in questa parte introduttiva, l’interessantissima intuizione di
Karl Jaspers1, secondo cui proprio alcune civiltà formatesi nel periodo tra il 500
a.C.ed il primo secolo dopo Cristo, che lui definisce “civiltà assiali”, sarebbero state
apportatrici di nuove visioni ontologiche che avrebbero poi marcatamente
influenzato l’agire sociale nei secoli a venire, in particolar modo proprio delle
religioni monoteiste fino ai nostri tempi.
Così, anche gli attuali fondamentalismi, potrebbero essere visti come la formulazione
in termini moderni di certi tipi di eterodossie utopiche, emerse in queste civiltà
formatesi appunto in quel preciso momento storico.
Analizzeremo dunque, sia il contesto di queste civiltà, come anche il programma
culturale e politico. Ma soprattutto cercheremo di capire la matrice ideologica,
giuridica e religiosa, attraverso lo studio dell’utilizzo delle categorie semantiche
adottate, cioè di quei significati profondi del linguaggio, impiegate non solo da un
punto di vista fonetico e morfologico.

1
Cfr. S.N. EISENSTADT, The Axial Age, The Emergence of Transcendental Visions and Rise of
Clerics, “European Journal of Sociology”, 23, 2, 1982, pp. 294-314.

5
Esamineremo inoltre, i simbolismi semiotici propri della produzione, trasmissione e
interpretazione dei simboli religiosi, nonchè dei modi in cui si sono comunicati e
trasmessi, che sarebbero alla base della formazione inconscia dell’agire sociale
violento delle popolazioni legate alle religioni monoteiste, dunque del cristianesimo,
dell’islamismo ed in particolare dell’ebraismo: argomento principale di questo
lavoro.
In questo periodo storico, sempre secondo Jasper, emersero infatti prepotentemente
nuove visioni sull’uomo e su Dio, concetti innovativi tra ordine mondano e ordine
trascendentale, che aquisirono una stabile veste giuridico-istituzionale in molte parti
del mondo allora conosciuto: nasceva dunque l’esigenza a seguito di questa nuova
visione del mondo, di stabilire delle regole di convivenza tra la nuova
consapevolezza emersa tra il cosiddetto “ordine celeste” e “l’ordine mondano”.
Si formò dunque questa idea dei due ordini: quello celeste e quello mondano, che
dovevano convivere con delle regole ben precise, nell'antico Israele prima, nel
giudaismo poi e successivamente nel cristianesimo; ma anche nell'antica Grecia e
nell'Iran zoroastriano; nella Cina del primo Impero; nell'induismo e nel buddismo e
al di là di questo periodo storico compreso nel periodo tra il 500 a.C.ed il primo
secolo dopo Cristo, anche nell'Islam.
La cristallizzazione dei concetti suesposti in queste civiltà, può essere considerata
dunque, non a torto, come l'insieme di alcune fra le maggiori fratture nella storia
dell'umanità: rotture così innovative da rivoluzionare per sempre il corso della
storia.2
L'aspetto centrale di questa vera e propria rivoluzione ideologica, fu la comparsa e
l'istituzionalizzazione delle nuove concezioni ontologiche sull’agire umano e divino,
cui abbiamo appena accennato, utili a meglio comprendere l’agire umano di queste
civiltà, in particolar modo dell’ebraismo, nei suoi aspetti costitutivi e fondanti.
In un primo momento, secondo l’interessante analisi di Eisenstadt, queste nuove idee
si svilupparono tra piccoli gruppi di “intellettuali” autonomi, relativamente
indipendenti e nuovi soggetti sociali in quell'epoca.

2
S. N. EISENSTADT, Fondamentalismo e modernità, Laterza, Bari 1994, pp. 5 e seg.
6
Successivamente furono trasformate nelle premesse “egemoniche” di base delle
rispettive civiltà, che ben conosciamo.
In questo processo di istituzionalizzazione, le nuove ontologie e dunque le nuove
norme comportamentali tra l’agire umano e quello divino, divennero l'orientamento
prevalente tanto dei gruppi dominanti quanto di molte élite secondarie, incorporatesi
poi a pieno titolo nelle rispettive società.
Lo sviluppo e l'istituzionalizzazione di tali concezioni diede origine in tutte queste
civiltà a tentativi di ricostruire la personalità terrena dell'uomo e l'ordine socio-
politico ed economico, secondo la nuova visione trascendente, conforme ai principi
del superiore ordine ontologico o etico.
In queste civiltà, l'ordine mondano esistente veniva percepito come incompleto,
inferiore, e così malvagio o corrotto da aver bisogno di una riformulazione radicale.
Di conseguenza, il concretizzarsi di tali concezioni, si collegava strettamente ai
tentativi di ricostruzione dei principali profili istituzionali di queste civiltà.
In questi contesti, dunque, iniziò ben presto a svilupparsi una forte tendenza ad
utilizzare gli scenari di “salvezza” più appropriati a risolvere queste tensioni tra
questi due ordini.
Iniziarono allora così a formarsi nuovi tipi di gruppi sociali e vennero a costituirsi
gruppi “culturali” o “religiosi” inizialmente distinti da quelli “etnici” o “politici”.
Qui le diverse modalità riflessive iniziarono a convergere tutte intorno a un unico
concetto: i rapporti tra i due ordini trascendente e mondano. Anche la dimensione
politica di tale riflessività, iniziò a trarre origine dal mutato concetto di scenario
politico e di responsabilità dei governanti3.
L'agire sociale e politico, cominciò ad essere considerato sempre più come centrale, e
anche l'ordine mondano che veniva solitamente considerato inferiore a quello
trascendente, doveva necessariamente essere ristrutturato secondo i precetti di
quest'ultimo.

3
S.N. EISENSTADT (a cura di), The Origins and Diversity of Axial Age Civilizations, State
University of New York, New York 1986; ID., Kulturen der Achsenzeit, 3 vol. Suhrkamp, Frankfurt
1992; ID., Civiltà comparate. Le radici storiche della modernizzazione, Liguori, Napoli 1991.
7
Il “nuovo ordine” sociale e politico, andava dunque ricostruito secondo modalità più
adeguate di conseguire la “salvezza”, superando la tensione fra l'ordine trascendente
e l'ordine mondano. In base a tali dettami, erano i governanti ad essere ritenuti
responsabili di una soddisfacente organizzazione dell'ordine politico nel mondo.
Contemporaneamente, anche la natura dei governanti subì grandi trasformazioni.
Il Re-Dio, incarnazione dell'ordine cosmico e terreno a un tempo, scomparve e fece
la sua comparsa un sovrano secolare, in linea di principio responsabile nei confronti
di un qualche ordine superiore.
Emerse così il concetto di responsabilità dei governanti e della comunità nei
confronti di un'autorità superiore: Dio, Legge divina e simili4.
Si presentò così anche la possibilità, per la prima volta, di chiamare a giudizio un
governante e troviamo un esempio clamoroso di questa idea nei solenni pro-
nunciamenti dei profeti e dei sacerdoti, proprio nell'antico Israele.
Simultaneamente con l'emergere delle concezioni di responsabilità dei governanti,
cominciarono anche a svilupparsi autonome delle leggi divine, come vedremo in
seguito, costitutive dell’agire sociale, distinte dalle consuete norme della legge con-
suetudinaria ed è in questa direzione che ci muoveremo per avvalorare la nostra tesi
che la violenza nelle religioni monoteiste ed i relativi fondamentalismi, avrebbero
come matrice proprio questi riferimenti normativi con le rispettive categorie
semantiche ed i simbolismi semiotici adottati, nati appunto nel periodo delle
cosiddette “civiltà assiali”, che distinguendo per prime tra i due ordini trascendente e
mondano, avrebbero rivoluzionato per sempre il corso della storia5.
Simili sviluppi innovativi, dovevano implicare i primi elementi di una concezione dei
diritti. La portata di queste sfere della legge e dei diritti variava grandemente da
società a società ma tutte furono stabilite secondo criteri distinti e autonomi.
L'istituzionalizzazione di queste concezioni generò i presupposti basilari per una
responsabilizzazione delle regole nei confronti di una qualche legge superiore o
legge divina.

4
S. N. EISENSTADT, Fondamentalismo e modernità, cit..
5
Ibidem.
8
Contemporaneamente si assisté anche alla nascita di nuovi ruoli e gruppi distinti che
si consideravano i rappresentanti e i promulgatori di tale legge: depositari, in quanto
tali, del diritto di chiamare i governanti alla responsabilità.
Tali gruppi, come già anticipato, si svilupparono in stretto collegamento con la
costruzione e l'istituzionalizzazione delle cosiddette “civiltà assiali”6 e dell’ebraismo
in particolare.
Queste civiltà svilupparono e istituzionalizzarono ben presto la percezione di una
tensione fondamentale fra ordine mondano e ordine trascendente e furono
strettamente legati all'emergere di un nuovo elemento sociale, di un nuovo tipo di
élite.
Questa nuova élite, era costituita in particolare da messaggeri di modelli di ordine
sociale e culturale, da intellettuali, come i profeti e i sacerdoti dell'antico Israele ed in
seguito dai saggi ebrei come vedremo, ma anche dai filosofi e dei sofisti greci, dei
letterati cinesi, dei bramini indù, i sangha buddisti e gli ulema islamici che tuttavia
non verranno trattati in quest’opera.
Inizialmente, furono proprio queste élite intellettuali e culturali, dunque furono
proprio questi nuclei ristretti a sviluppare le nuove ontologie, e quindi le nuove
visioni ed i nuovi concetti trascendentali.
Una volta istituzionalizzate, queste nuove concezioni ontologiche tese a sottolineare
con forza il divario fra ordine trascendente e ordine mondano, trasformarono questi
nuovi gruppi culturali in partners relativamente autonomi nelle principali coalizioni
di governo e soprattutto fomentando i vari movimenti di protesta, oggi come allora.
Le élite di nuovo tipo che ne scaturirono, erano di natura completamente differente
dalle élite formate dagli specialisti del rito, della magia e del sacro nelle civiltà pre-
assiali.7 Queste nuove élite, acquisirono infatti una propria consapevolezza di status
potenzialmente nazionale. Esse tendevano inoltre a distinguersi da altre categorie di
élite, gruppi sociali e settori, con cui erano contemporaneamente in forte competi-
zione, soprattutto in riferimento alla produzione e al controllo dei simboli e dei mezzi
di comunicazione.

6
Ibidem.
7
Ibidem.
9
In queste civiltà, la rivalità divenne molto vigorosa, perché una trasformazione ana-
loga aveva avuto luogo nella struttura di altre élite e nella costruzione di ruoli
autonomi e differenziati, in vasti settori della società.
Tutte le élite, tendevano a reclamare un proprio spazio nella costruzione dell'ordine
sociale e culturale. Esse si consideravano interpreti di specifiche attività come la
scrittura e l'iniziazione, ma anche portatrici di un distinto ordine sociale e culturale,
correlato alla visione trascendente prevalente nelle rispettive società.
Sia l'élite culturale politica che quella non politica, consideravano di propria
competenza l'autonoma articolazione del nuovo ordine, e tendevano ad attribuirsi
reciprocamente un ruolo di presunta superiorità e di subordinata
responsabilizzazione, portatrice di quetsa differente rappresentazione dell'ordine
sociale e culturale. Furono dunque queste le élite più attive nella ristrutturazione del
mondo e nella creatività istituzionale.
Ma, e ciò è fondamentale per la nostra analisi, queste diverse élite, rappresentarono i
fautori più attivi delle varie concezioni alternative del nuovo ordine sociale e
culturale, che non erano confinate alla sfera puramente intellettuale.
Esse comprendevano anche, come già precedentemente accettato, conseguenze sul
piano sociale ed istituzionale di enorme portata, riconducibili a due elementi stret-
tamente interconnessi. In primo luogo, queste concezioni erano di solito fortemente
orientate alla costruzione del mondo terreno.
In secondo luogo, esse si intrecciarono strettamente con la lotta fra diverse élite che
in questo modo si trasformarono, per seguire la definizione weberiana degli antichi
profeti di Israele, in élite di “demagoghi politici”.
Sarebbe stato dunque il combinarsi di una concezione di possibili vie alternative alla
salvezza, di ordini sociali e culturali alternativi, e di una strutturazione delle
dimensioni temporali, a favorire l'emergere di visioni utopiche di un ordine sociale e
culturale alternativo al di là di ogni luogo o tempo dati8.

8
A. SELIGMAN, The Comparative Studies of Utopias, Christian Utopias and Christian Salvation: A
General Introduction, e The Eucharist Sacrifice and the Changing Utopian Moment in Post
Reformation Christianity, in ID. (a cura di), Order and Transcendence, Brili, Leiden 1989, pp. 1-44;
S.N. EISENSTADT, Comparative Liminality: Liminality and Dynamics of Civilization, “Religion”,
15, 1985, pp. 315-338.
10
Talune di queste innovative concezioni, spesso negavano la legittimità delle
medesime enunciazioni di realtà ontologica precedentemente sostenute dalle
rispettive civiltà. Buona parte di queste concezioni, infatti, erano volte a confutare la
corrispondenza tra simili definizioni e le premesse istituzionali, intese come norme
regolatrici della vita sociale nei suoi diversi scenari. Affermazioni dunque volte
proprrio a destrutturare il carattere “ufficiale” di precedenti definizioni fornite dalle
sfere istituzionali. Questi concetti erano normalmente sostenuti da attori sociali che
si proponevano come portavoce degli autentici valori civilizzanti e/o religiosi di
queste culture. Ne sono un esempio i profeti dell'antico Israele, ma anche gli asceti
indiani o buddisti, i monaci cristiani e simili: cioè uomini compiutamente consacrati
alla religione, spesso in rapporto dialettico con le forme istituzionalizzate del potere
costituito9.
Era ed è tuttora frequente anche nel moderno fondamentalismo, infatti, il tentativo da
parte di alcuni di questi leaders religiosi, di amalgamare le loro visioni, con più ampi
movimenti di protesta o viceversa.
Pur essendo concezioni abbastanza comuni a tutte queste civiltà, sarebbero invece
evidenti le differenze relative alle norme, ai principi ed alle leggi adottate dai
medesimi governanti, riguardo alla determinazione dei rispettivi processi sociali ed
istituzionali, per l'esercizio di tale responsabilità nei confronti del popolo.
Generalmente, la maggior parte di queste civiltà da un lato dava risalto con enfasi
all'esistenza di una profonda difformità tra l'ordine ideale, così come era prescritto o
immaginato dalle visioni trascendentali, dai comandamenti di Dio, dagli ideali di
armonia cosmica e l'ordine mondano costituito dalle esigenze della politica e
dell’agire sociale, nonchè dai limiti e dai capricci imposti dell'umana natura,
purtroppo spesso se non sempre, guidati da comportamenti puramente utilitaristici o
da meri calcoli di potere. La collocazione attribuibile alla politica in questa relazione
tra armonia cosmica e ordine mondano, fu elaborata nelle varie visioni escatologiche
e utopiche che costituivano una elemento costitutivo delle concezioni e delle
premesse dell’agire sociale di queste civiltà, in particolar modo di quella ebraica.

9
Per taluni esempi di de-assializzazione cfr. E. COHEN, Christianity and Buddhism in Thailand: The
Battle of the Axes and the Contest of Power, “Social Compass”, 38, 2, 1991, pp. 115-140.
11
In alcune di queste “civiltà assiali” come l'induista e la buddista, infatti, si sviluppò
un evidente scetticismo rispetto alla possibilità di raggiungere determinati obiettivi
politici, sebbene anche in queste civiltà nascessero sette utopiche millenariste a volte
estremiste, tese a creare il “regno del Cielo” sulla terra. In altre civiltà, come ad
esempio l'antica Grecia e la Cina, si riscontra invece, oltre che ad un forte interesse
per il mondo terreno, una particolare enfasi, soprattutto nel mondo greco, sull'attività
e l'arena politica come perno di concretizzazione di tali tendenze.
Così, ad esempio, nella tradizione greca, data l'estrema importanza attribuita alla
ragione o “logos” quale principio che regge l'universo, la discrepanza tra ordine
trascendente e ordine mondano non presenterebbe la marcata accentuazione che
caratterizzerebbe invece le civiltà monoteiste e dunque in particolar modo proprio il
cristianesimo, l’islamismo e l’ebraismo.
La visione platonica, infatti, sostenendo pienamente l’esistenza di questo divario e il
tentativo di costituire concretamente dei modelli sociali e politici, costituì una larga
parte dell'indagine sociale e politica sviluppata sia dai Greci che dai Romani.
Questi tentativi trovano la loro massima sintesi nell'opera di Aristotele, che diventerà
successivamente uno delle colonne portanti della tradizione occidentale, sia
medievale che moderna, di ricerca politico-sociale. In Cina invece il tentativo di
armonizzare la natura umana con l'ordine cosmico, aveva una considerazione
decisamente più pessimistica di quella greca, ponendo l’accento, ad esempio, sulla
necessità di un governo assoluto ed incondizionato, che controllasse il comporta-
mento della popolazione da parte dei governanti. Contemporaneamente, le scuole
confuciane, tentarono di elaborare una visione più ottimististica della natura umana e
del cosmo in generale, evidenziando l'importanza di coltivare le qualità morali dei
governanti e dei sudditi, tentando di armonizzare per quanto possibile, l’ordine
morale ideale della visione cosmica trascendente e il contraltare della realtà spesso
spietata, dell'ordine politico e sociale esistente. Nelle civiltà e nelle religioni
monoteiste, troviamo invece rappresentazioni mondane ed escatologiche della
salvezza, rispettivamente del singolo individuo oppure del popolo eletto.

12
Tale ricerca della salvezza, adottando specifici significati del linguaggio e potenti
simbologie semiotiche atte a produrre, trasmettere e interpretare i simboli religiosi, fu
esaurientemente articolata, incoraggiata e sostenuta da alcuni movimenti ed
eterodossie settarie e da diversi movimenti messianici emersi in queste società,
spesso in diretta contrapposizione con le ortodossie esistenti. Nella maggior parte di
queste civiltà, la tensione fra comportamento e comandamenti religiosi, in particolar
modo nei contesti monoteisti, fu una componente importantissima. Così, la tendenza
allo sviluppo di movimenti fondamentalisti e della relativa violenza, diventa più
marcata in quelle situazioni in cui l'impatto del cambiamento o dell'influenza sembra
mettere in pericolo le premesse religiose ultime e la loro supremazia.
Iniziamo dunque a comprendere meglio, come i vari gruppi e le categorie sociali che
promulgano oggi come allora le varie visioni fondamentaliste ed utilizzano un
linguaggio violento, pur variando molto nelle diverse civiltà, sembrerebbero in realtà
avere molte caratteristiche in comune: la relativa marginalità rispetto ai settori eco-
nomicamente e culturalmente più rilevanti ed ai centri socio-politici; le minacce
interne di un establishment religioso percepito come corrotto; la minaccia esterna di
altre civiltà, e non per ultima la perdita di corrispondenza tra sfera trascendente e
sfera mondana. Da un punto di vista prettamente sociologico, sarebbe dunque da
ricercarsi nell'esclusione dai centri politici e culturali, emarginazione che avrebbe
favorito l’agire sociale violento ed i vari fondamentalismi nel tempo.
Ad un’analisi più accorta, infatti, la violenza insita nel monoteismo, sarebbe appunto
fomentata da vecchi e nuovi gruppi intellettuali e professionali, che, sentendosi
espropriati o esclusi dall'accesso al potere, o semplicemente pensando di esserlo,
avrebbero adottato ed adotterebbero le efficaci categorie semantiche ed i potentissimi
simbolismi semiotici presenti nelle Sacre Scritture, spesso in chiave millenarista,
apocalittica o catastrofista.
Rispetto al passato, in cui i principali portatori della visione fondamentalista
provenivano generalemnte dalla leadership religiosa, nei moderni movimenti
fondamentalisti, un ruolo assai più centrale è svolto da altri gruppi: professionisti,
laureati ecc. che si troverebbero deprivati dell'accesso ai centri delle rispettive
società.

13
1.2 ORIGINE DEL LINGUAGGIO VIOLENTO
NELLE SACRE SCRITTURE

Nella rappresentazione biblica, la nascita del monoteismo, verrebbe descritta, nella


maniera più radicale possibile, come un salto e uno squarcio rivoluzionari.
I quattrocentotrenta anni trascorsi da Israele in Egitto interromperebbero ogni
continuità con l'età patriarcale precedente; la fuga dall'Egitto si configurerebbe infatti
come un taglio netto con tutte le tradizioni egizie adottate fino a quel momento e la
rivelazione della legge sul Sinai come un inizio completamente nuovo, il contrario
cioè di uno sviluppo lento e tranquillo: un intervento di Dio nella storia, magnifico e
straordinario sotto tutti gli aspetti, che ponendosi di traverso rispetto al lento corso
del tempo e intersecando lo sviluppo naturale, crea nuove epoche.
In questa autorappresentazione narrativa si trova forse anche la chiave del problema
che ci appassiona: il monoteismo e il linguaggio della violenza. Per quale motivo i
testi biblici descrivono la fondazione e l'affermazione della religione monoteista con
immagini tanto brutali?
Sull'idea monoteista, che dovrebbe essere esclusivamente adorazione di un unico Dio
anziché di una pluralità di dèi, o sulla distinzione tra vera e falsa religione, tra vero e
falso Dio, grava forse qualcosa di violento? L'attualità della questione è evidente: il
ritorno della religione come lo stiamo sperimentando da alcuni decenni è legato in
modo inquietante alla violenza, a sensazioni di minaccia, odio e paura, alla creazione
di immagini del nemico, e questo non ci permette di eludere la questione del rapporto
tra monoteismo e violenza.
Il linguaggio della violenza nelle Sacre Scritture degli Ebrei, dei Cristiani, dei
Musulmani e di molte altre religioni fondate su un concetto esclusivo di verità è un
fenomeno che va compreso in primo luogo al di là di ogni critica e polemica, e
soprattutto considerando che il mondo in cui viviamo è funestato da una violenza di
dimensioni finora sconosciute e del tutto impreviste.

14
Di fatto già Sigmund Freud, nel suo ultimo libro 10, fece per così dire stendere il
monoteismo sul lettino dello psicanalista, sottoponendolo a un lavoro di elaborazione
analitico-archeologica dei propri ricordi. Allacciandomi a quel testo, vorrei
sottoporre il linguaggio biblico della violenza, con tutto il rispetto e le dovute
cautele, a una riflessione non certo teologica quanto piuttosto sociologica.
Il problema non è la violenza, ma è il linguaggio della violenza, le scene di massacri,
azioni punitive, bagni di sangue, persecuzioni, separazioni forzate all'interno di
matrimoni misti e così via, con le quali il monoteismo traccia, nella Bibbia ebraica, la
storia della sua nascita e della sua affermazione.
La fuga dall'Egitto, indotta con la violenza delle piaghe inviate da Dio; ma ancor più
la conquista della terra di Canaan ottenuta attraverso un conflitto sanguinoso; persino
la rivelazione sul Sinai, atto fondatore della religione monoteista, di cui sono parte
inscindibile la storia del vitello d'oro e le sue feroci conseguenze; e ancora il racconto
della sfida del profeta Elia ai sacerdoti di Baal, che si conclude con un massacro nel
quale questi vengono sgozzati (1 Re 18); il bagno di sangue che Ieu, nel suo “zelo
per il Signore” (2 Re 10, 16) predispone per la famiglia reale, i dignitari di Acab e i
fratelli di Acazia come pure i sacerdoti di Baal (2 Re 10); i massacri legati alla
riforma di Giosia: questi e altri episodi simili nella rappresentazione biblica
circondano l'etnogenesi israelita e l'introduzione del monoteismo - di fatto un unico
processo - di tutti i segni possibili di violenza.
La questione del loro significato si pone poi in maniera ancora più pressante se questi
episodi non vengono ritenuti storici ma simbolici, e quindi considerati saghe e
leggende con le quali una società si costruisce o ricostruisce un passato in grado di
dare senso e prospettiva alle finalità e ai problemi attuali. Mi vorrei interrogare
dunque, da un punto di vista sociologico, sul significato di queste immagini. Perché
si raccontano simili storie? Che cosa significavano per l'autorappresentazione del
gruppo che allora conviveva con esse e in mezzo ad esse?

10
S. FREUD, L’Uomo Mosè e la religione monoteista e altri scritti 1930-1938 (1939), in Opere,
Bollati Boringhieri, Torino 1967-1980, vol XI.
15
Che cosa possono significare per noi oggi? Io non sosterrò affatto, che il monoteismo
abbia introdotto la violenza, l'odio e il concetto di peccato in un mondo fino a quel
momento pacifico, ma tenterò di dimostrare che per comprendere meglio il
linguaggio della violenza all’interno del monoteismo, sia necessario partire dallo
studio semantico del linguaggio adottato negli scritti sacri delle religioni monoteiste,
in quelle civiltà formatesi nel periodo tra il 500 a.C.ed il primo secolo dopo Cristo,
che apportatrici di nuove visioni ontologiche, avrebbero poi marcatamente
influenzato l’agire sociale nei secoli a venire, in particolar modo proprio delle
religioni monoteiste fino ai nostri tempi. E’ ovvio che la violenza, l’odio e la colpa
esistevano già prima della nascita del monoteismo. In questa esercitazione, pur
limitandomi ad analizzare la semantica della sola Bibbia Ebraica, vorrei quantomeno
cercare di dimostrare che nei testi canonici delle religioni monoteiste, i temi della
violenza, dell’odio e del peccato hanno un ruolo preponderante in quanto assumono
un significato specificamente religioso, diverso da quello delle religioni pagane di
tipo tradizionale, dove la violenza è presente in relazione al principio politico della
sovranità, non in rapporto alla questione divina e dove essa è una questione di potere,
non di verità11.

11
J. ASSMANN, Non avrai altro Dio, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 28-29.
16
1.3 ORIGINE POLITICA DELLA VIOLENZA NEL MONOTEISMO

Ogni forma di violenza politica, trova la propria legittimazione nella differenza così
fondata tra amico e nemico. E’ quanto succede nell'Esodo (20, 5-6) e nel
Deuteronomio (5, 9-10), dove si tratta proprio della violenza politica. La gelosia e
l'ira del “Dio geloso” (Ei qanna') sono per J. Assmann, sentimenti intrinsecamente
politici, che trovano la loro origine storica nei Grandi Regni sotto il cui peso ege-
monico Israele visse e soffrì.
Ovviamente qui non abbiamo a che fare con sentimenti divini, bensì con affetti
umani che gli uomini proiettarono nella loro immagine di Dio per poi tornare a
rappresentarli, in una sorta di “pia imitatio Dei”; questo sarebbe il punto decisivo, un
mero “meccanismo proiettivo” che l’umanità utilizzerebbe nei confronti di Dio, tanto
nella loro sensibilità quanto nel loro agire, da secoli.
Non si tratta nemmeno di sentimenti propri degli uomini comuni, quanto piuttosto di
affetti di uomini di potere. Un re sa benissimo che esistono altri stati oltre al suo, ma
pretende dai propri sudditi la fedeltà assoluta e cade preda dell'ira se i suoi vassalli
passano a un altro sovrano. Per i re assiri l'esistenza di altri stati indipendenti co-
stituiva un problema, tanto che fecero il possibile per includerli, tramite il
vassallaggio, sotto la propria sfera di influenza. Si venne così a costituire
un'ideologia, o semantica politica, di cui il monoteismo finì con l'ereditare alcuni
tratti importanti.
Per ritornare alla Bibbia, vediamo che il tema della gelosia e dell'ira divina, i due
sentimenti sono correlati giacché l'ira divampa a causa della gelosia, viene affrontato
per la prima volta dopo la stipulazione dell'alleanza sul Sinai.
La maledizione del serpente, la cacciata dal paradiso, la maledizione di Caino, il
diluvio, la babele linguistica, la distruzione di Sodoma e Gomorra, l'assassinio di
Onan, tutte queste azioni punitive di Dio raccontate nel libro della Genesi accadono
in maniera assolutamente priva di emozioni. Mancherebbe a questi eventi, la
dimensione semantica costitutiva dell’agire sociale oggetto del nostro lavoro.
E’ solo con l'esodo e con il patto di alleanza che nasce, per dirla con J. Assmann, il
motivo della gelosia, espresso anche con la metafora del matrimonio.

17
L'idea di El qanna', di un Dio geloso, si radica nell'idea della liberazione e
dell'elezione (Esodo) nonché in quella del patto, e appartiene dunque allo spazio del
politico.
Lo vide molto bene Lattanzio nel suo scritto De ira Dei: l'ira di Dio non appartiene
alla sua essenza (natura) bensì alla sua potenza (imperium), appartiene cioè al ruolo
di sovrano, che Dio riprende nel quadro dell'alleanza con Israele. E’ un modo, e
precisamente un modo politico tipico di queste nuove visioni sull’uomo e su Dio: a
questi concetti innovativi tra ordine mondano e ordine trascendentale, che iniziarono,
proprio a seguito del patto tra Dio ed il popolo eletto, di rivestire una stabile forma
giuridico-istituzionale.
Da qui, l’esigenza di stabilire delle regole di convivenza tra la nuova consapevolezza
prepotentemente emersa tra il cosiddetto Dio reggente del “mondo celeste”ed il
popolo eletto scelto da Dio per regnare sul “mondo terrestre” ed avvicinare il primo a
quest’ultimo e dunque preparare una dimora di Dio tra gli uomini.
Una volta riconosciuto che si ha a che fare con la violenza politica nata dall'idea del
popolo eletto e del patto con Israele inteso come alleanza politica e non religiosa,
come ben esplicitato nel corso del presente lavoro, diventerà chiaro che tale violenza
è indissolubilmente legata al concetto di legge, dato che essa ha bisogno del diritto
per diventare effettiva, per “entrare in vigore”.
Il Dio geloso, violento e punitivo, è il Dio che legifera, giudica e castiga, quindi un
Dio con potere legislatore, giudiziario ed esecutivo. Che senso avrebbe altrimenti la
legge se non avesse la forza di imporsi e di farsi rispettare?
E d'altra parte, che senso avrebbe la violenza se non potesse richiamarsi alla legge?
La violenza e la brutalità di Dio, da intendersi sempre nel senso dell'immagine di Dio
offerta dalla Bibbia, derivano dal fatto che la religione si appropria dell'etica e del
diritto, dal passo rivoluzionario del Dio che pretende di fare proprie le istanze della
giustizia per porle al centro delle richieste che egli rivolge al suo popolo, soprattutto
se lette in chiave escatologica.
I profeti non parlano dei pagani, cioè delle altre religioni o delle religioni degli altri:
parlano della propria religione. Essi non contrappongono politeismo e monoteismo,
ma la prassi cultuale tradizionale della propria religione israelitica e la nuova
richiesta, di ben altra natura, che Dio rivolge al suo popolo.
18
Se colleghiamo queste considerazioni alla nostra tipologia della violenza, quella che
incontriamo nell'Antico Testamento e che è legata all'immagine di Dio, ci ritroviamo
di fronte a una violenza giuridica, una violenza indissolubilmente connessa al
concetto di legge trasmutata forse da diritti di vassallaggio di altri paesi vicini.
E’ possibile allora cominciare a provare con certezza la provenienza di questo
linguaggio della violenza nella Bibbia, adottato poi dal popolo ebraico nella
esclusività del proprio rapporto unico con Jahvè: dal diritto reale assiro che richiede
ai vassalli lealtà assoluta12.
Il teologo Othmar Keel ne ha fornito una descrizione molto convincente. Egli si
chiede infatti, proprio nella nostra direzione: «Ma come fa Dio a usare un simile
linguaggio? Come è possibile che gli uomini arrivino a raffigurarsi un tale Dio, come
possono immaginare che Dio voglia che si denunci il proprio amico e lo si porti a
morte? Come possono arrivare a pensarlo?». E aggiunge: «La ricerca degli ultimi
tempi ha mostrato sempre più chiaramente che questo testo così inquietante
riproduce, talvolta alla lettera, testi assiri, non religiosi ma appunto politici. Il regno
assiro dalle caratteristiche fortemente espansive, collocato nell'Iraq settentrionale,
obbligò con un giuramento i sovrani a esso sottomessi a servire esclusivamente il
grande re assiro e a denunciare chiunque, maschio o femmina, volesse convincerli a
rinnegare il grande re di Assur. Anche i re giudei di Gerusalemme dovettero
assumere per un certo periodo tali obblighi» 13 . Dalla stessa fonte provengono le
minacce punitive di Dio, nel caso in cui la legge venga violata, che formano l'intero
capitolo 28 del Deuteronomio e parlano un linguaggio della violenza quasi più
esplicito14.

12
E.OTTO, Das Deuteronomium. Politische Theologie und rechtsreformer in Juda und Assyrien,
Berlin – New York, De Grunyter, 1999, potè dimostrare che diverse formulazioni del Deuteronomio
rappresentano proprio traduzioni di un originale assiro che imponeva a tutti i sudditi di Assarhaddon
il dovere di giuramento di fedeltà all’erede al trono Assurbanipal. In questo contesto Otto parla di
“teologia politica sovversiva”.
13
O.KEEL, Monotheismus. Ein gottlicher Makel? Uber eine allzu bequeme Anklage, in “Neue
Zurcher Zeitung”, 30-31 ottobre 2004, p. 68.
14
Cfr. J.ASSMANN, Inscriptional violence and the Art of Cursing. A study of Performative. Writing,
in Stanford Literature review, primavera 1992, pp. 43.46. Per un’antologia delle maledizioni
mesopotamiche vedi F.Pomponio, Formule di maledizione della Mesopotamia preclassica, Paideia,
Brescia 1990.
19
Queste impressionanti descrizioni di eliminazione, distruzione e sterminio del popolo
divenuto infedele, suonano come una premonizione di Auschwitz, e proprio in questo
senso vengono per esempio citate anche da Primo Levi15.
Anziché elencare singolarmente le quarantatré formule di maledizione, preferisco
citare soltanto le parole che il Signore rivolge a Salomone nel primo libro dei Re (9,
6-7), le quali riassumono in due frasi questo tema: «Se voi e i vostri figli vi
allontanerete da me, se non osserverete i comandi e i decreti che io vi ho dati, se
andrete a servire altri dèi e a prostrarvi davanti a essi, eliminerò Israele dal paese che
ho dato loro, rigetterò da me il tempio che ho consacrato al mio nome; Israele di-
venterà la favola e lo zimbello di tutti i popoli». Simili formule di minaccia
apparterrebbero dunque al repertorio dei contratti politici. Il Deuteronomio si colloca
anche in questo caso nella tradizione degli Assiri che concludevano i loro contratti di
vassallaggio con maledizioni di questo tipo in caso di inadempienza16.
Il Deuteronomio ricorre a tale tradizione e riesce persino a superarla.
Nell'antico mondo orientale il linguaggio della violenza ricorre frequentemente negli
scritti regali, dove adempie una funzione chiaramente definibile, che emerge dal
principio della violenza giuridica; esso consiste, nelle parole di Nildas Luhmann, nel
fatto che «la politica e il diritto sono possibili solo se, per la loro affermazione,
possono ricorrere alla forza fisica ed escludere in modo efficace una forza che vi si
opponga»17.
I grandi regni dell'antico Oriente poggiano in modo naturale su una semantica
culturale tesa a mantenere grandi masse di sudditi e vassalli sotto un unico sistema
sovrano. Da questo punto di vista, gli Assiri si spinsero più avanti di chiunque altro,
pretendendo dai loro vassalli fedeltà assoluta e punendo ogni defezione con estrema
crudeltà, ma comunque in modo conforme alla propria autorappresentazione e
memoria.

15
P. LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958. Cfr. H. WEINRICH LETE, Arte e critica
dell’oblio, Il Mulino, Bologna 1999, p.265.
16
K. BALTZER, Das Bundesformular, II ed., Neukirchen, Neukirkener Verlag, 1964, e Steymans,
Deuteronomio 28, cit.as.
17
N. LUHMANN, Coercizione giuridica e potere politico, in ID., La differenza del diritto, Il Mulino,
Bologna 1990, p.147.
20
Anche in questo caso è richiesta un'obbedienza disposta a disconoscere i legami di
parentela più stretti. Ma questo sistema di potere così repressivo, con le sue pretese
di sovranità totale, è proprio ciò che la Bibbia simboleggia con la casa delle servitù
nell'Egitto faraonico, e dalla quale il monoteismo vorrebbe liberare gli uomini.
Israele invece si allontana dall'Egitto e dal suo sistema violento e repressivo.
Ma allora perché riprende il motivo della violenza politica nella sua semantica
culturale di base? Leggiamo ancora una volta a questo proposito le parole di Othmar
Keel: «Alla fine del VII secolo a.C. si assistette al crollo del regno assiro. Si aprì
allora un vuoto di potere. Alcuni teologi ebrei ebbero l'originale idea di riempire
questo vuoto facendo partire dal Dio di Israele, Yahvè, le richieste poste di solito dal
grande re assiro. In questo modo colmarono sì il vuoto rendendo Israele indipendente
all'interno da tutti i despoti, ma allo stesso tempo attribuirono al Dio d'Israele le
caratteristiche di un despota dei peggiori.
Si potrebbe citare il testo precedente come dimostrazione dell'intolleranza,
dell'aggressività e della brutalità del monoteismo, ma in questo modo sfuggirebbe il
fatto che non si tratta di un testo monoteista. Esso tiene infatti conto anche di altri dèi
che potrebbero mettere in pericolo il legame esclusivo con il proprio Dio. Invece il
vero monoteismo parte dal presupposto che c'è un Dio solo, escludendo il
fondamento per la gelosia»18.
La trasposizione del dispotismo assiro su Dio, con la nuova forma di legame
esclusivo con il Signore a esso collegata, fu un atto di liberazione che rese Israele
19
indipendente da tiranni esterni. In questa “traslazione” si articola secondo
Assmann, una resistenza spirituale che in seguito si sarebbe dimostrata estremamente
efficace, permettendo agli Ebrei di resistere alla distruzione di Gerusalemme e a
decenni di deportazione, nonché di edificare, dopo il ritorno definitivo, una nuova
comunità.

18
O. KEEL, Monotheismus. Ein gottlicher Makel,cit..
19
Per questo concetto cfr. J. ASSMANN in Herrschaft und Heil. Politische Theologie in Altagypten,
Israel und Europa, Beck, Munchen 2000.
21
1.4 PRIME CONCLUSIONI

Ciò che è nuovo e rivoluzionario del monoteismo esclusivo, non riguarda solo il
culto e più in generale i rapporti con il mondo esterno. Il monoteismo vuole regolare
la vita intera delle persone, i giorni lavorativi e i giorni di festa, fin nei minimi
dettagli.
Ma per compiere tale passo era indispensabile mobilitare una massa di energia
antagonistica fino a quel momento sconosciuta, come quella che si manifestò nella
Bibbia nella forma del linguaggio della violenza. Oggi, più di duemila anni dopo, è
importante mettere in chiaro che la violenza del monoteismo non ne fu la
conseguenza necessaria. Il linguaggio della violenza trarrebbe dunque origine, come
dimostreremo, dalla pressione politica dalla quale il monoteismo voleva in quel
momento liberare gli uomini, emersi a seguito dei concetti innovativi di convivenza
tra “ordine mondano” e “ordine trascendentale”, che facendo emergere nuove visioni
sull’uomo e su Dio, necessitavano di assicurare una stabile veste giuridico-
istituzionale, stabilendo delle regole di convivenza tra la nuova consapevolezza
prepotentemente emersa in quel periodo.
Il linguaggio violento nel monoteismo, farebbe dunque parte della retorica rivolu-
zionaria della conversione, della svolta e del distacco radicali, del salto culturale dal
vecchio al nuovo. Ma questa soglia l'abbiamo già varcata da tempo e non abbiamo
più bisogno di forti imposizioni.
Non sarebbe dunque nelle mani dei credenti che prende fuoco la miccia della
dinamite semantica contenuta nei testi sacri delle religioni monoteiste, ma in quelle
dei fondamentalisti che ambiscono al potere politico e che si servono di argomenti
religiosi per trascinare con sé le masse, come abbiamo già anticipato e come
approfondiremo in seguito.
Del linguaggio della violenza si sarebbe dunque abusato e si abuserebbe tuttora,
quando lo si impiega nella lotta politica per il potere, come risorsa per costruire
nemici fittizi, oppure per fomentare sentimenti di paura e di minaccia.
Per questo è importante storicizzare questi temi riconducendoli ai contesti di
partenza. Occorre metterne in luce la genesi per limitarne l'effetto, come tenteremo
di fare nel proseguio di questo lavoro.
22
La nostra analisi sulle origini della violenza religiosa, ci ha ricondotti nuovamente
alla sfera politica della violenza, cioè la violenza dello stato e la violenza giuridica.
La violenza religiosa non è un sentimento originario, non è qualcosa di insito nella
natura delle cose. Per questo motivo è arrivato il momento di tracciare finalmente
una chiara linea divisoria tra il concetto di “religione” e il concetto di “violenza”.
La violenza appartiene all'ambito della politica, non a quello della religione o di Dio,
e una religione che si rifà alla violenza rimane bloccata nel campo della politica,
mancando al suo specifico compito in questo mondo.
Bisognerebbe fare in modo che le religioni monoteiste, nate dallo spirito della po-
litica e della legislazione, fossero radicalmente depoliticizzate, così che all'ordine del
politico, inconcepibile senza la violenza, si possa contrapporre un altro ordine, il cui
potere si fondi sulla non violenza.
Solo allora si realizzerà l'impulso iniziale del monoteismo: quello di liberare l'uomo
dall'onnipotenza del cosmo, dello stato, della società o di qualsiasi altro sistema
avanzasse su di noi pretese totalizzanti.

23
SECONDA PARTE

2.1 IL LINGUAGGIO VIOLENTO DI DIO


COME CATEGORIA SEMANTICA DEL PATTO DI ALLEANZA

Un vero proprio raggruppamento di categorie emotive, viscerali, passionali e


fortemente connotate da valenze simboliche, comparirebbe nella bibbia ebraica per
indicare: la collera, il furore, lo sdegno, la vendetta di Dio, così come frequente
sarebbe il rimando all'immagine del fuoco ardente, ma anche alla formula “giorno di
Jahvè”, oppure al tema della gelosia divina.
Anche le diverse espressioni del principio di retribuzione, per cui Dio renderà rovina
a chi avrà compiuto il male, va nella medesima direzione.
Analizzeremo a fondo questi aspetti semantici ben evidenti nell’Antico Testamento,
evidenziando l'enorme potenziale di violenza divina che include ed esprime
nell’agire sociale di quanti vi si identificano.
Cominceremo in questa analisi, proprio dal racconto del diluvio, in cui entrambe le
tradizioni storiche jahvistica e sacerdotale, sottolineano l'intervento divino per
affogare nelle acque caotiche l'umanità corrotta e violenta (Gen 6-8), fatta eccezione
del giusto Noè (cf. 6,9; 7,1).
Il concetto è espresso linguisticamente con i verbi “shaphat” e “dtn” e il sostantivo
“mishpat” in ebraico, e “krinein/krima/krisis” in greco, ma anche con espressioni più
generali di condanna, come in Amos che seppure non ricorre alla categoria
giudiziaria, mette al centro della sua profezia l'annuncio del giudizio terribile di Dio,
che porrà fine al regno del nord e procurerà sconfitte memorabili ai popoli vicini
colpevoli di crudeltà.
Si tratta, come possiamo ben notare, di un'espressione caratteristica della religiosità
biblica ebraica, che ha amato esprimere il rapporto con Dio, mediante categorie
giuridiche. E non senza motivo, perché il rapporto religioso, soprattutto nella bibbia
ebraica, appare inteso con il simbolo del patto o alleanza, stipulato liberamente tra
Jahvè e Israele, per il quale il primo diventa il Dio d'Israele e il secondo il popolo di
Jahvè, secondo la formula stereotipa: “Io il tuo Dio, tu il mio popolo”.

24
Ma ciò comporterebbe, per l’appunto, precise obbligazioni giuridiche per i contraenti
il patto: la possibilità di venir meno, la previsione di pesanti sanzioni o di severe
pene a difesa del contratto pattuito, capaci di colpire il fedifrago.
D'altra parte, essendo qui i contraenti disuguali, si spiega che sia Dio stesso che
stabilisce le condizioni o le clausole del patto e costituisce l'istanza giudicatrice
dell'eventuale infedeltà.
Inoltre questa sarà possibile soltanto nel popolo, presentandosi Jahvè quale partner
fedele all'alleanza.
Così nella credenza biblica fa presto la sua comparsa l'immagine di Dio giudice: un
giudice che, in forza del legame pattuale con il popolo ebraico, interviene a salvarlo
dagli attacchi esterni o anche a difendere e vendicare la giusta causa di singoli
membri deboli contro gli oppressori e gli sfruttatori, essendo questo il suo impegno
fondamentale nell'alleanza; ma anche un giudice che chiede conto al partner umano
del comportamento tenuto in rapporto alle clausole del patto, pronto a condannarne
l'infedeltà. Ora nel primo caso il giudizio divino ha una connotazione positiva,
esattamente una valenza salvifica e liberatrice, per Israele che vi si appella con
speranza e lo invoca supplicante.
L'altra faccia di Jahvè giudice, invece, incute timore e terrore e fa nascere l'esigenza
di porre in atto mezzi adeguati per scamparne.20
Naturalmente a noi interessa qui la seconda accezione, oltrettutto predominante nei
testi biblici che, nell'ambito della semantica tipica, categorie giuridiche qui espresse
sono necessarie per meglio capire l’agire sociale violento, esprimendo di preferenza
l'intervento salvifico o liberatore con il vocabolo “giustizia”, in ebraico sedaqa e
anche “far vendetta”, in ebraico naqam.

20
Il concetto “contrattuale” del patto di alleanza, viene evidenziato principalmente nella corrente
deuteronomistica. Ma anche nella corrente sacerdotale dove si mette in luce l'unilaterale e
incondizionato legame di Dio con il popolo (cf. per es. Gen 17).

25
2.2 IL GIUSTO GIUDIZO DI DIO
E LA CREAZIONE DEI FONDAMENTALISMI RELIGIOSI

Per il popolo di Israele, Sodoma rimane come esempio di corruzione umana e di


punizione divina (Gen 18,26). Emergerebbe dunque fin da subito, la rettitudine di
Jahvè giudice, che non sopprime il giusto insieme con il peccatore e che farebbe
dunque propendere ogni atteggiamento violento dell’agire sociale violento
all’umanità, piuttosto che a Jahvè: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio? Forse
vi sono cinquanta giusti nella città; davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a
quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da te il far morire
il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lungi da te! Forse il
giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (Gen. 23-25).
Jahvè si dice pronto a risparmiare Sodoma se vi si trovano anche solo cinquanta
giusti; anzi, dietro richiesta di Abramo, Jahvè afferma che non distruggerà Sodoma
se in essa si trovano dieci giusti. Emerge dunque un Jahvè che giudica con giustizia:
il suo castigo colpisce i malvagi e risparmia i giusti, e se per punire i colpevoli
dovessero andare di mezzo degli innocenti, allora piuttosto rinuncia ad eseguire la
condanna.
In altre parole, le esecuzioni sommarie, la violenza gratuita, gli ingiusti soprusi non
rientrerebbero nell'agire di Jahvè e neppure, com'è chiaramente sottinteso,
dovrebbero essere praticate dagli uomini. Emergerebbe dunque, un Jahvè come
giudice esemplare, capace di discriminare tra colpevoli e innocenti, per condannare
gli uni ed assolvere gli altri.
Il giusto giudizio di Dio, verrà inoltre ampiamente sottolinato dai profeti, contro quei
popoli “pagani” dell'Egitto, di Assur, Babilonia, Edom, Moab, Ammon, Damasco,
Tiro e Sidone, della Filistea, ecc. (cf.Am 1-2; Is 13-23; Ger 46-51; Ez 25-32).
Emergerebbe dunque l’immagine di un Dio, che non tollererebbe “i signori di questo
mondo che si autoinnalzano, a dare la scalata al cielo”. La risposta di Jahvè, si
collocherebbe, come ha analizzato R. Girard, come un giusto giudice divino, pronto a
punire qualsiasi tentativo autodeificante degli uomini.

26
Concetto, quest’ultimo, ben evidenziato anche da Isaia: «Ah, come è finito
l'aguzzino, è finita l'arroganza! Il Signore ha spezzato la verga degli iniqui, il bastone
dei dominatori, di colui che percuoteva i popoli nel suo furore, con colpi senza fine,
che dominava con furia le genti, con una tirannia senza fine... Gli inferi di sotto si
agitano per te, per venirti incontro al tuo arrivo; per te essi svegliano le ombre, tutti i
dominatori della terra, e fanno sorgere dai loro troni tutti i re delle nazioni. Tutti
prendono la parola per dirti: Anche tu sei stato abbattuto come noi, sei diventato
uguale a noi. Negli inferi è precipitato il tuo fasto, la musica delle tue arpe; sotto di te
v'è uno strato di marciume, tua coltre sono i vermi. Come mai sei caduto dal cielo,
Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore di popoli?
Eppure tu pensavi: Salirà in cielo, sulle stelle di Dio innalzerà il trono, dimorerò sul
monte dell'assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirà sulle regioni
superiori delle nubi, mi farò uguale all'Altissimo» (Is 14,4-14).
Anche Ezechiele, si muove in questa direzione, descrivendo così il re di Tiro: «Tu eri
un modello di perfezione, pieno di sapienza, perfetto in bellezza; in Eden, giardino di
Dio, tu eri coperto d'ogni pietra preziosa: rubini, topazi, diamanti, crisoliti, onici e
diaspri, zaffiri, carbonchi e smeraldi e d'oro era il lavoro dei tuoi castoni e delle tue
legature. Eri come un cherubino ad ali spiegate a difesa; io ti posi sul monte santo di
Dio e camminavi in mezzo a pietre di fuoco. Perfetto tu eri nella tua condotta, da
quando sei stato creato, finché fu trovata in te l'iniquità. Crescendo i tuoi commerci ti
sei riempito di violenza e di peccati; io ti ho scacciato dal monte di Dio e ti ho fatto
perire, cherubino protettore, in mezzo alle pietre di fuoco. Il tuo cuore si era
inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo
splendore: ti ho gettato a terra e ti ho posto davanti ai re che ti vedano» (Ez 28,12-
17).
Ma anche il popolo di Israele, che pensava in virtù della sua alleanza di essere al
riparo dal giudizio divino, riservato solo agli altri popoli, con l'entrata in scena del
cosiddetto “profetismo classico” smentisce questa sua convinzione.
Amos infatti, sarà tra i primi profeti che non esiteranno ad affermare che Dio
interverrà da impietoso giudice contro il suo popolo infedele alle condizioni del patto
di alleanza.

27
Questa novità, sconvolge la fede tradizionale, non è più il “Dio con noi” del passato,
ma il “Dio contro di noi”, è il Dio-contro dei profeti; e il popolo di Israele per la
prima volta, deve fare i conti con una minaccia mortale che non proviene più
dall'esterno, ma gli è portata da Jahvè stesso e mette in discussione il suo futuro di
popolo eletto.
Il profeta Amos, usa per il popolo di Israele, toni addirittura dissacratori: «Non siete
voi per me come gli Etiopi, o Israeliti? Parola del Signore. Non io ho fatto uscire
Israele dal paese d'Egitto, i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir? Ecco, lo sguardo
del Signore Dio è rivolto contro il regno peccatore: io lo sterminerò dalla terra» (Am
9,7-8). Anche il profeta Geremia non rinuncia a tali toni: «Dal settentrione si
rovescerà la sventura su tutti gli abitanti del paese. Poiché, ecco, io sto per chiamare
tutti i regni del settentrione. Oracolo del Signore. Essi verranno e ognuno porrà il
trono davanti alle porte di Gerusalemme, contro tutte le sue mura e contro tutte le
città di Giuda. Allora pronunzierò i miei giudizi contro di loro, per tutto il male che
hanno commesso abbandonandomi, per sacrificare ad altri dèi e prostrarsi davanti al
lavoro delle proprie mani» (Ger 1,14-16).
Anche il profeta Ezechiele sottolinea con particolare forza che il popolo di Giuda si è
meritato il castigo della distruzione di Gerusalemme e dell'esilio: «Ora, tra breve,
rovescerò il mio furore su di te e su di te darò sfogo alla mia ira. Ti giudicherò
secondo le tue opere e ti domanderò conto di tutte le tue nefandezze... Saprete allora
che sono io, il Signore, colui che colpisce» (Ez 7,8-9; cf. anche 11,9-12; 24,14;
36,19; 39,21-22).
Israele non potrà ribattere che Jahvè agisce in modo ingiusto: «Voi andate dicendo:
non è retto il modo di agire del Signore. Giudicherò ciascuno di voi secondo il suo
modo di agire, o israeliti» (33,20).
«Eppure gli Israeliti van dicendo: “non è retta la via del Signore. O popolo d'Israele,
non sono rette le mie vie o piuttosto non sono rette le vostre? Perciò, o Israeliti, io
giudicherò ognuno secondo la sua condotta”» (18,29-30).
Sempre utilizzando categorie giuridiche, i profeti elaborano con dovizia di
particolari, il motivo del processo o della lite giudiziaria (rib in ebraico), intentata da
Jahvè al suo popolo riconosciuto colpevole.

28
Ci basti citare, ad esempio, Osea: «Il Signore è in lite con Giuda e tratterà Giacobbe
secondo la sua condotta, lo ripagherà secondo le sue azioni» (Os 12,3).
Anche Isaia non è da meno: «Il Signore appare per muovere causa, egli si presenta
per giudicare il suo popolo. Il Signore inizia il giudizio con gli anziani e i capi del
suo popolo: Voi avete devastato la vigna; le cose tolte ai poveri sono nelle vostre
case. Qual diritto avete di opprimere il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?» (Is
3,13-15).
Addirittura “i monti e le profondità della terra” sono chiamati come testimoni nel
processo contro Israele, si legge infatti nel libro di Michea: «Ascoltate, o monti, il
Processo del Signore e porgete l'orecchio, o perenni fondamenta della terra, perché il
Signore è in lite con il suo popolo, intenta causa con Israele» (6,1-2).
Ed è un giusto processo, quello intentato da Jahvè nei confronti del suo popolo, che
si conclude con una plausibile condanna.
Dopo l’esilio, si è venuta inoltre sempre più affermando nel popolo di Israele,
un’aspettativa che contrappone al mondo attuale (ha 'olam hazze), dominato dalle
forze della morte e del male, al mondo futuro (ha 'olam habba) in cui Jahvè avrebbe
instaurato il suo regno di giustizia e pace, dopo aver distrutto ogni negatività della
storia. Come cita Isaia (Is 65,17; 66,22), il passaggio alla creazione dei cieli nuovi e
della terra nuova, si compie appunto per mezzo del giudizio universale di Jahvè.
Ma già prima i profeti, cominciando da Geremia21, avevano proiettato il giudizio su
scala escatologica.
Stesso concetto ribadito dal profeta Gioele: «Si affrettino e salgano le genti alla valle
di Giosafat perché lì siederò per giudicare tutte le genti all'intorno. Date mano alla
falce, perché la messe è matura; venite, pigiate, perché il torchio è pieno e i tini
traboccano... Tanto grande è la loro malizia. Folle e folle nella valle della Decisione,
poiché il giorno del Signore è vicino nella valle della Decisione. Il sole e la luna si
oscurano e le stelle perdono lo splendore. Il Signore ruggisce da Sion e da
Gerusalemme fa sentire la sua voce; tremano i cieli e la terra».
Ma il Signore è un rifugio al suo popolo, una fortezza per gli israeliti (4,12-16).

21
Cfr. la monografia di D.L. CHRISTENSEN, Trasformations of the War Oracle in Old Testament
Prophecy, pp.183 ss, che si riferisce soprattutto a Ger 50-51.

29
Nel profeta Isaia, invece, il giudizio di Dio è descritto con l'immagine del fuoco:
«Con il fuoco infatti il Signore entra in giudizio con tutta la terra e con la spada
contro ogni uomo» (Is 66,16).
Nella visione del profeta Daniele invece, l’immagine si caratterizza nel figlio
dell'uomo che riceve direttamente il regno dalle mani di Dio, dopo la condanna
giudiziaria e la sconfitta dell'ultimo rappresentante dei regni della terra, raffigurati in
quattro bestie: «Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi
del cielo uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al Vegliardo e fu presentato a
lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il
suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non
sarà mai distrutto» (Dn 7,13-14.26.27).
Per concludere questa riflessione sul “giudizio di Dio” dal punto di vista sociologico,
che avrebbe fortemente influenzato l’agire sociale dei fondamentalismi religiosi, è
forse bene evidenziare che anche quest’ultima non è proprio una credenza originale
dell’antico Israele. L’idea di un Dio giudice delle azioni degli uomini era già
familiare nell’area culturale mesopotamica, che dunque venne fatta propria ed
enfatizzata dal popolo ebraico per meglio evidenziare le categorie giuriche e
semantiche del giusto giudizio di Dio, ed adottato spesso dai gruppi fondamentalisti e
violenti, per giustificare il loro agire sociale violento. Il giudizio divino dopo la
morte, invece, aveva un posto di rilievo soltanto nella religione egiziana, che
probabilmente influì in proposito sugli apocalittici del popolo giudaico.

30
2.3 LA COLLERA DI JAHVÈ COME CONSEGUENZA
DELL’AGIRE SOCIALE DEL POPOLO EBRAICO

Elemento congiunto a quello del giudizio di condanna, e più presente nella cultura
ebraica, è la collera di Jahvè, espressa in ebraico con diversi vocaboli, soprattutto con
il sostantivo “aph” e il verbo corrispondente “anaph”22.
Anche in questo caso, si tratta di un linguaggio espressivo di sentimenti e reazioni
d'animo, più esattamente di un “affetto” proiettando dunque i lettori nell'ambito delle
“passioni”.
Nel mondo classico dei filosofi e dei pensatori, si tentava quantomeno di
estromettere il più possibile, la passione dagli dèi, essi erano infatti immuni da ogni
pathos. Per tutti valga l'affermazione di Cicerone: “Ma in realtà ciò è comune di tutti
i filosofi…che mai Dio né si adira né nuoce”23.
La Bibbia invece non ha di queste riserve mentali sul suo Dio, che reagisce con
passionalità estrema al tradimento del popolo e con autentica furia distruggitrice.
Infatti, nella maggior parte delle ricorrenze all'ira nella Bibbia che si riferiscono a
Jahvè, parlano espressamente di “collera divina”24.
Proprio come se si trattasse di una reazione nata all'interno di stretti rapporti
personali ed emergerebbe proprio nelle persone il cui amore è stato rinnegato e
trascurato.
Marcatamente “affettiva” è infatti la rappresentazione della gelosia divina, in ebraico
espresso soprattutto con il sostantivo qin 'a e il verbo qana', spesso collegato con le
ragioni del giudizio e dell'ira. Ciò esprime chiaramente la richiesta di esclusività
richiesta da Jahvè nei confronti del popolo eletto, di cui, in forza del patto, è l'unico
Dio: di conseguenza manifesterebbe l’intolleranza nei confronti del culto delle altre
divinità.

22
Cfr. in proposito M. DELCOR, Le Dieu des Apocalypticiens, in J. Coppens (a cura), La notion
biblique de Dieu, Gembloux 1976, pp.211-228.
23
Cfr. lo studio di M. GIRARD, La violence de Dieu dans la Bible juive: Approche symbolique et
interprétation théologique, in “Science et Esprit” 39(1987) pp.145-170; ma anche la voce orghé in
“Grande Lessico del Nuovo Testamento”, VIII, Paideia, Brescia 1972, pp.1073-1254.
24
In una delle note, alla voce orghé, il “Grande Lessico del Nuovo Testamento”, VIII, 1113 riporta:
“I termini indicanti l'ira sono usati circa 375 volte per la collera divina e circa 80 per quella umana”.
31
Come Dio geloso, Jahvè reagisce all'infedeltà del suo popolo, castigandolo e
minacciandolo di annientamento. L'ira e la gelosia esprimono parimenti l'aggressiva
distruttività della persona tradita che si orienta all'oggetto del suo amore
misconosciuto in maniera vendicativa. Per lo stesso motivo Jahvè colpisce duramente
chi tenta di sottrargli il popolo, punendo i nemici d'Israele e liberando quest'ultimo
che non può diventare possesso di altri, essendo il suo popolo25.
Una piccola differenza però appare tra ira e gelosia: la prima esprime la reazione di
Jahvè ad ogni tipo d'infedeltà del popolo e dei singoli israeliti in materia di clausole
del patto, la seconda indica specificamente la reazione divina all'idolatria, in pratica
alle trasgressioni del primo comandamento del decalogo: «Io sono il Signore Dio
tuo... Non avere altri dèi di fronte a me» (Dt 5,6-7; cf. Es 20, 2-3).
Il Dio biblico sarebbe dunque tutto, tranne che indifferente all'uomo ed in particolare
al suo popolo.
A questa affermazione, se ne può aggiungere una seconda sulla grande vitalità di
Dio: tale estrema reattività di Jahvè si attua infatti sotto il segno della violenza
distruttiva.
La sua reazione al tradimento, sfocia molto spesso in un agire irato e colmo di gelo-
sia che colpisce duramente quanti ne sono la causa. A tale scopo l'esegeta Fichtner
arriva a dichiarare: «Nella sua azione radicale l'ira di Jahvè tende all'annientamento,
alla distruzione completa».
La stessa cosa possiamo dire della gelosia. Inoltre, se vogliamo collegare, come
fanno spesso in testi biblici, il motivo dell'ira e della gelosia a quello del giudizio,
possiamo aggiungere che il giudice divino giudica ardente di collera, dunque con
metafore inerenti un fuoco che da dentro erompe all'esterno a distruggere e
annientare.
Il legame tra ira e fuoco, infatti, è assai frequente nella Bibbia. Ciò però, come
andremo a scoprire, non finisce per intaccare l'imparzialità di un Dio giudice ma
giusto, che di regola si adira e condanna duramente in base alla condotta riprovevole
dei colpiti.

25
Cfr. Io studio di W. BERG, Die Efersucht Gottes - ein problematischer Zug des alitestamentlichen
Gottesbildes, in “Biblische Zeitschrift” 23 (1979) pp.197-211.
32
La sua reazione violenta, come esploreremo, è commisurata all’azione di quanti egli
condanna: una simmetria che fa parte della cosiddetta razionalità della pena, che
viene superata dal perdono divino o anche, come dice spesso il testo biblico, dal fatto
che a volte Dio trattiene la sua ira e non le dà sfogo.
Così per esempio Mosè supplica Dio di desistere dall’ardore della sua ira come in Es
32,12, ed è ascoltato come in Es 32,14. In Os 11,9 leggiamo questa promessa divina:
«Non darò sfogo all’ardore della mia ira». Dunque per la Bibbia, non vi è una
connessione necessaria nè un legame indissolubile tra azione colpevole dell’uomo e
reazione punitiva e violenta di Dio, anzi quest’ultimo spesso risponderebbe secondo
altra logica, che non sia la violenza gratuita ed indiscriminata.
Dunque, ancora una volta emergerebbe chiaro ed evidente l’uso strumentale fatto da
parte di alcuni gruppi elitari nello strumentalizzare, di volta in volta per fini
prettamente politici, la presunta collera di Jahvè.
Ma ritorniamo alla lettura dei testi biblici e anticipiamo subito, che l'ira di Dio appare
più un ritornello nei racconti della storia di Israele, vista principalmente nelle sue fasi
miliari, come ad esempio: la permanenza nel deserto, l’insediamento nella terra
promessa, il consolidamento del possesso durante il periodo dei Giudici, i non pochi
secoli della monarchia fino all'esilio mesopotamico.
Le grandi tradizioni storico-narrative jehovistica, deuteronomistica e sacerdotale vi
fanno infatti frequente riferimento all’ira di Dio, ma vediamo meglio in quali
contesti: la collera caratterizza la reazione di Jahvè di fronte all'adorazione del vitello
d'oro (Es 32,10; Dt 9,19-20); oppure quando il popolo dei riscattati dalla oppressione
egiziana nel deserto “orrido e tremendo” perde la fiducia in lui (Num 11, lss, spec. i
vv. 1.10. 33); a causa delle lamentele di Miriam e di Aronne contro il fratello Mosè
(Num 12,9); per il rifiuto del popolo di mettersi in viaggio verso la terra
preventivamente esplorata (Num 14,18; Dt 32,10-15; Dt 1,34ss); per la rivolta di
Core, Datan e Abiram (Lev 10,6; Num 17,11 e 18,5); infine a Peor dove gli Israeliti
cedettero alla tentazione idolatrica (Num 25,3-4.11).
L'ira di Dio si scatena contro i nemici ma anche contro il suo stesso popolo, dunque,
a causa della violazione dell'anatema o dello sterminio in guerra (Gs 7,1 e 22,20), ma
soprattutto per essere incorsi nell'idolatria (cf. Gdc 2,14; 3,8; 10,7; 1 Re 14,15; 16,33;
2 Re 17,17; 21,6; 22,17 ecc.).
33
A sua volta la corrente deuteronomistica, nella parte parenetica in cui esorta alla
fedeltà verso la legge del Sinai, pedagogicamente ricorre spesso al motivo dell'ira di
Dio come minaccia capace di trattenere dalla disobbedienza e spingere alla docilità.
Un procedimento che somiglia da vicino ai metodi più terroristici per ottenere
consenso, ma si deve riconoscere che non sarebbe l'unica ragione adottata dal
predicatore deuteronomistico.
Ecco alcuni testi significativi: «Non seguite altri dèi..., l'ira del Signore tuo Dio si
accenderebbe contro di te e ti distruggerebbe dalla terra» (Dt 6,14-15).
Nessun contatto è inoltre permesso con la popolazione cananaica, per timore di
contaminazione idolatrica, perché altrimenti «l'ira del Signore si accenderebbe contro
di voi e ben presto vi distruggerebbe» (7,4).
E ancora: «State in guardia, perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi
allontaniate, servendo dèi stranieri o prostrandovi davanti a loro. Allora si accende-
rebbe contro di voi l'ira del Signore... e voi perireste ben presto, scomparendo dalla
fertile terra che il Signore sta per darvi» (11,16-17).
La minaccia vale anche per il singolo israelita che cadesse nell'idolatria: «... la
collera del Signore e la sua gelosia si accenderanno contro quell'uomo» (29,19).
Infine come estremo motivo minaccioso si prospetta l'esilio, effetto della collera
divina (cf. 29,26-27).
Tra i profeti sono soprattutto Ezechiele e Geremia, che annunciano lo scatenarsi della
collera di Dio, contro un popolo che fa affidamento sull'alleanza con Dio, ma
trascura di vivere fedele al patto e si lascia andare a servire altre divinità.
Il profeta di Anatot non risparmia toni minacciosi: gli abitanti di Giuda si
circoncidano il cuore, altrimenti l'ira di Jahvè divamperà come fuoco e brucerà senza
che alcuno la possa spegnere “a causa delle vostre azioni perverse” (4,4).
Soltanto con una sincera conversione si può far cessare l'ira ardente di Dio (4,8), che
ha ridotto il paese a un deserto (4,26). Non ci sarà scampo per Gerusalemme che ha
abbandonato Jahvè per adorare gli dèi stranieri: «Ecco il mio furore, la mia ira si
riversa su questo luogo, sugli uomini e sul bestiame, sugli alberi dei campi e sui frutti
della terra e brucerà senza estinguersi» (7,20).

34
L'immagine del fuoco devastatore appare anche in 17,4: «Ti farò schiavo dei tuoi
nemici in un paese che non conosci, perché avete acceso il fuoco della mia ira, che
arderà per sempre». Se i gerosolimitani hanno rifiutato Jahvé, parimenti Jahvè
rifiuterà Gerusalemme: «Poiché causa della mia ira e del mio sdegno è stata questa
città da quando la edificarono fino ad oggi, così io la farò scomparire dalla mia
presenza» (32,31).
Ancora più terribili sono le minacce di Ezechiele: «Allora darò sfogo alla mia ira,
sazierò su di loro il mio furore e mi vendicherò; allora sapranno che io, il Signore,
avevo parlato con sdegno, quando sfogherò su di loro il mio furore» (5,13; cf. 6,12;
14,19; 20,8, tutti testi in cui ricorre il tema dell'ira divina).
Collera e giudizio vanno di pari passo: «Ora, fra breve, rovescerò il mio furore su di
te e su di te darò sfogo alla mia ira. Ti giudicherò secondo le tue opere e ti
domanderò conto di tutte le tue nefandezze» (7,8). Nessuna supplica o intercessione
varrà ad arrestare l'azione divina: «Ebbene anch'io agirò con furore. Il mio occhio
non s'impietosirà; non avrò compassione: manderanno alte grida ai miei orecchi, ma
non li ascolterò» (8,18). Jahvè si comporterà come uno sposo tradito: «Ti infliggerò
la condanna delle adultere e delle sanguinarie e riverserò su di te furore e gelosia»
(16,38)26.
I profeti esilici e post-esilici considerano l'esilio come effetto indotto dell'ira divina
(cf. Is 42,25; 47,6; Zac 1,2), cui contrappongono la presente benevolenza di Jahvè,
pronto a capovolgere la situazione degli esuli: «Svegliati, svegliati, alzati,
Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira» (Is
51,7); «In un impeto di collera ti ho nascosto per poco il mio volto; ma con affetto
perenne ho avuto pietà di te» (Is 54,8); «... nella mia ira ti ho colpito, ma nella mia
benevolenza ho avuto pietà di te» (Is 60,10). A maggior ragione l'ira di Jahvè ha di
mira i popoli pagani. In proposito si vedano le raccolte di oracoli contro le nazioni
che costituiscono intere sezioni di alcuni libri profetici, le stesse indicate sopra a
proposito del giudizio (cf. soprattutto Is 13-23; Ger 25 e 46-51; Ez 25-32).

26
Come fa rilevare BERGER, questo è l'unico testo della bibbia in cui la gelosia di Dio, è nel contesto
dell'immagine sponsale.

35
Per esempio, in Is 13,9 possiamo leggere: «Ecco, il giorno del Signore arriva
implacabile, con sdegno, ira e furore, per fare della terra un deserto, per sterminare i
peccatori» (cf. anche 13,13). Geremia è portatore di questo oracolo divino: «Incuterò
terrore negli Elamiti davanti ai loro nemici e davanti a coloro che vogliono la loro
vita, manderò su di essi la sventura, la mia ira ardente» (49,7). La devastazione irre-
parabile di Babilonia sarà il risultato della collera di Jahvè: «A causa dell'ira del
Signore non sarà più abitata, sarà tutta una desolazione» (50,13; cf. 51,45). Da
Ezechiele possiamo citare il seguente oracolo: «Scatenerò l'ira su Sin, la roccaforte
d'Egitto, sterminerò la moltitudine di Tebe» (30,15). Ma di tutte le voci profetiche la
più impressionante è qui senz'altro Naum, in cui risuonano accenti chiari di sete di
vendetta, saziata dalla rovina attesa e invocata dell'odiata Ninive: «Un Dio geloso e
vendicatore è il Signore, vendicatore è il Signore, pieno di sdegno. Il Signore si ven-
dica degli avversari e serba rancore verso i nemici. Il Signore è lento all'ira, ma
grande in potenza e nulla lascia impunito... Davanti al suo sdegno chi può resistere e
affrontare il furore della sua ira? La sua collera si spande come il fuoco e alla sua
presenza le rupi si spezzano» (1,2-3.6). Infine, se è vero che nella bibbia ebraica la
collera divina appare soprattutto quale manifestazione storica, non mancano però
passi caratterizzati da una precisa prospettiva finale o escatologica. Così, ad esempio,
Sofonia unisce intrinsecamente i due temi del giorno di Jahvè e della sua ira, nonché
della sua gelosia, entrambi riferiti alla fine: «Vicino il gran giorno del Signore, è
vicino e avanza a grandi passi. Una voce: Amaro è il giorno del Signore! Anche un
prode lo grida. Giorno d'ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di
rovina e di sterminio, giorno di tenebra e di caligine, giorno di nubi e di oscurità...
Nel giorno dell'ira del Signore e al fuoco della sua gelosia tutta la terra sarà
consumata, poiché sarà improvvisa distruzione di tutti gli abitanti della terra» (1,14-
15.18). La formula pregnante “giorno d'ira” (dies irae) ritorna poco oltre nello stesso
scritto profetico: «Cercate il Signore voi tutti, umili della terra, che eseguite i suoi
ordini; cercate la giustizia, cercate l'umiltà, per trovarvi al riparo nel giorno dell'ira
del Signore» (2,3). Si veda anche il libro apocalittico di Daniele, dove, in bocca al-
l'angelo Gabriele disvelatore del mistero escatologico, la fine della storia è
caratterizzata dalla collera divina: «Ecco io ti rivelo ciò che avverrà al termine
dell'ira, perché la visione riguarda il tempo della fine» (8,19).
36
2.4 JAHVÈ E L'ASSIOMA GIURIDICO
DEL RIPAGARE IL MALE CON IL MALE

Sempre sulla direttrice della risposta violenta di Dio all'agire negativo dell'uomo,
s'impone l'esigenza di discutere se e in che misura vi rientra l'assioma semantico
suddetto, capace di influenzare l’agire sociale, che potremmo così presentare nei suoi
termini essenziali e impersonali o astratti: chi agisce male avrà in sorte il male, il
bene invece spetterà a chi agisce bene.
Dunque una precisa simmetria definisce il rapporto tra qualità dell'azione e natura del
risultato a cui porta. Visto in prospettiva escatologica o finale, esso può essere
espresso in questi termini: l'uomo retto e giusto avrà alla fine vita e salvezza, mentre
morte e rovina sarà il destino dell'iniquo e del malvagio.
In termini commerciali si parla del cattivo ripagato con la sua stessa moneta e del
buono retribuito con la meritata mercede. Vi si esprime la ferma convinzione che nel
mondo umano tra agire e destino esiste non solo un rapporto di perfetta specularità,
per cui ad un agire buono corrisponde un destino buono e viceversa, ma anche un
nesso di causalità che vede l'agire retto produrre un destino felice e l'agire malvagio
un destino rovinoso.
Si tratta di una concezione illuministica che guarda al mondo umano governato da un
ordine di giustizia e di sapienza, non più solo appartenente al piano celeste, da una
razionalità esemplarmente manifestata nella natura in cui la qualità del frutto
corrisponde alla specie dell'albero. Detto in termini antropologici, si suppone che
l'uomo sia artefice del suo destino, della sua salvezza oppure della sua dannazione,
appunto attraverso il proprio agire.
Tutto questo sta alla base dell'insegnamento sapienziale o filosofico-esperienziale
delle scuole dei saggi in Israele, a cui risalgono i libri dei Proverbi, del Siracide e
della Sapienza. Per completezza però si deve aggiungere che anche in altri scritti
della Bibbia ebraica esistono brani e detti sapienziali.
Inoltre sempre nell'ambito della riflessione sapienziale rientrano i libri di Giobbe e
del Qoèlet, che però contestano l'ottimismo della “filosofia” tradizionale dei saggi di
cui negano l'evidenza del principio della corrispondenza tra destino di rovina e
cattivo agire.
37
La credenza religiosa aggiunge che di questo mondo ordinato e razionale, in cui
regna armonia, Dio è il creatore; a lui dunque risale in ultima istanza la legge che lo
regge e lo governa27.
Possiamo citare qualche passo. Nella raccolta antica di Prov 25-29 si legge: «Chi fa
traviare gli uomini retti per una cattiva strada, cadrà egli stesso nella fossa, mentre gli
integri possederanno fortune» (28,10); «Chi indurisce il cuore cadrà nel male»
(28,14); «Chi procede con rettitudine sarà salvato, chi va per vie tortuose cadrà ad un
tratto» (28,18).
Dunque, una lunga serie di affermazioni, sostiene a chiare lettere, che Dio retribuisce
il retto con il bene e il malvagio con il male, come vedremo subito. Dunque abbiamo
due concezioni distinte nella Bibbia e non si può ridurre tutto al principio astratto del
nesso tra azione e destino. Inoltre si è anche fatto notare che la concezione religiosa
degli uomini biblici non conosce una legge presente nel mondo che non sia
emanazione del volere esplicito di Dio creatore.
Ecco ora alcune testimonianze scelte tra le molte. In Gdc 1,7 il re cananaico di
Gerusalemme, sconfitto e condannato a morte dalla tribù di Giuda, riconosce la sua
colpa e il giusto castigo divino: «Quello che io ho fatto, Dio me lo ripaga». In 2 Sam
3,39 Davide demanda a Dio il compito di ripagare i suoi avversari: «Provveda il
Signore a trattare il malvagio secondo la sua malvagità». 2 Sam 16,7 offre questa
chiave interpretativa delle disgrazie capitate a Davide, in particolare della ribellione
del figlio Assalonne: «Il Signore ha fatto ricadere sul tuo capo tutto il sangue della
casa di Saul... ed eccoti nella sventura che hai meritato, perché sei un sanguinario»28.
Anche la voce dei profeti è presente nel coro delle testimonianze bibliche. Nel libro
di Osea citiamo i seguenti passi: «Io farò pagare alla casa di Ieu il sangue di Izreel»
(1,4); «Il popolo e il sacerdote avranno la stessa sorte; li ripagherò della loro condotta
e li retribuirò dei loro misfatti» (4,9); «... il Signore si ricorderà delle loro iniquità e
farà il conto dei loro peccati» (8,13); «Sono venuti i giorni del castigo, sono giunti i
giorni del rendiconto» (7,7).

27
Cfr. H. DUESBERG-I. FRANSEN, Les scribes inspirés, Editions de Maredsous 1966; G. VON
RAD, Teologia dell'Antico Testamento, cit. I, pp.495ss.
28
È presente anche la formula “Ricada il tuo sangue sul tuo capo” (cf. per esempio 2 Sam 1,16; 1 Re
3,33.37), K. KOCH, Der Spruch Sein Biul bleibe auf seinem Haupt und Die israelitische Auffassung
vom vergossenen Blut, in K. KOCH (a cura), Um das Prinzip der Vergellung.
38
Anche la Bibbia ebraica, considera che Dio “paga” la prestazione umana ed i LXX
hanno colto ottimamente il senso della lingua ebraica, ma concede a K. Koch che
esiste anche la concezione dell'agire umano produttivo di destino, riconoscendogli il
merito di averla evidenziata. Infine H.G. Reventlow fa notare come Dio, che
all'azione buona fa seguire sempre una sua reazione benefica, all'azione cattiva
liberamente reagisce anche con il perdono; questo suo sottrarsi alla ferrea necessità
della reazione uguale e contraria mette in discussione l'assioma che l'azione produce
il destino (pp. 412-431).
Geremia ci offre utile materiale, anzitutto un oracolo contro le nazioni e un altro
contro Babilonia: «... e così li ripagherò secondo le loro azioni, secondo le opere
delle loro mani» (25,14); «Ripagatela secondo le sue opere, fate a lei quanto ha fatto
agli altri, perché è stata arrogante con il Signore, con il Santo d'Israele» (50,29).
Ad Ezechiele in particolare, ma già Geremia lo aveva anticipato (cf. 31,29-30),
dobbiamo la forte affermazione della responsabilità individuale contro la concezione
tradizionale espressa ancora per esempio in Es 20,5: «Perché io, il Signore, sono il
tuo Dio, un Dio geloso, che ripaga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e quarta
generazione» (cf. anche Dt 5,9 e Num 14,18). Si veda infatti Ez 18,20: «Colui che ha
peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre
l'iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata (da Dio) la sua giustizia e al malvagio
la sua malvagità» (cf. tutto il capitolo).
L'insegnamento dei saggi non è assente. «Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli
renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Prov 24,12); «E facile per il Signore nel
giorno della morte rendere all'uomo secondo la sua condotta» (Sir 11,26). Ma anche i
Salmi conoscono il principio teologico della retribuzione: «Perché tu rendi a ciascu-
no/ secondo l'opera sua» (62,13); «Sorgi, o giudice della terra,/ ai potenti da' il giusto
castigo» (94,2); «Ritorce su di loro/ la loro malizia;/ li annienta nella loro perfidia,/ li
annienta Jahvè, nostro Dio» (94,23).
Né vale, in senso contrario, appellarsi, come fa Koch, al fatto che il vocabolario
ebraico non conosce un termine specifico per indicare punizione, castigo, pena.
Infatti non mancano altri modi di dire per significare la realtà in questione, come
abbiamo visto nei testi citati sopra.

39
D'altra parte, quando si parla di castigare e punire, non s'intende certo attribuire a Dio
sentimenti sadici o persecutori, ma solo affermare che la sua reazione all'uomo
cattivo è violenta, sia pure di una violenza che persegue la difesa del diritto e fa
fronte alla minaccia di uno scatenamento del disordine.
La finalità è indubbiamente positiva, solo che viene perseguita con mezzi violenti e
per di più infliggendo un male fisico per un male morale, secondo una razionalità
solo apparente, come ha mostrato il saggio di P. Ricoeur citato sopra; in realtà si
tratta in ultima analisi di un'aggressiva e irrazionale risposta alla minaccia portata
contro l'ordine costituito da chi lo infrange.
Anche nell’analisi del linguaggio della violenza adottato in questo capitolo,
emergerebbero le medesime categorie semantiche che da un punto di vista
prettamente sociologico, sarebbero state adottate per la prima volta dalle cosiddette
“civiltà assiali”, cioè da questa nuova concezione della distinzione tra “mondo
celeste” e “mondo terrestre”, proprio di alcune civiltà formatesi nel periodo tra il 500
a.C.ed il primo secolo dopo Cristo, che apportatrici di nuove visioni ontologiche,
avrebbero poi marcatamente influenzato l’agire sociale nei secoli a venire, in
particolar modo proprio dell’ ebraismo, fino ai nostri giorni.
Il problema teologico della violenza, che non riguarda propriamente un Dio assetato
di sangue e voglioso di far del male agli uomini come abbiamo evidenziato, ma
piuttosto riguarderebbe l’agire sociale violento di certi fondamentalismi, proteso a
difendere nel mondo la causa di una supposta giustizia e del bene, ricorrendo a
metodi violenti per meri fini politici di mantenimento o di raggiungimento di status
quo, resta dunque in tutta la sua gravità.

40
TERZA PARTE

3.1 SEMIOTICA DEL SIMBOLISMO RELIGIOSO VIOLENTO


NELLE SACRE SCRITTURE

Il senso esatto del vocabolo ebraico “naqam, neqama”, a cui corrisponde in greco
“ekdikeò/ ekdiksis”, è quello di difesa della giusta causa di oppressi e perseguitati
contro le mire dei loro oppressori e persecutori.
La supposta vendetta di Dio non avrebbe dunque nulla a che fare con comportamenti
e sentimenti di puro sadismo che scaturirebbero invece da animi e menti vogliose di
rivalsa e assetate di spirito vendicativo, che proietterebbero psicologicamnete e
sociologicamente su Dio tali atteggiamenti, come abbiamo già visto.
Ciò premesso, si deve però subito aggiungere che la vendetta implica un'azione
violenta nei confronti dell'ingiusto aggressore; e quando questi è un omicida si fa la
“vendetta del sangue”, come dice la bibbia ebraica per indicare l'uccisione o la
prevista pena di morte.
In questa prospettiva la vendetta, oltre che un diritto, diverrebbe addirittura un
dovere, motivato dalla necessità di fare giustizia ristabilendo l'ordine leso.
Il problema, teologicamente parlando, si pone quando vien detto che Dio stesso
comanda la vendetta, e gli esempi non mancano: in Num 31,1-2 leggiamo: «Il
Signore disse a Mosè: “Compi la vendetta degli israeliti contro i madianiti”».
Inoltre si prenda in considerazione la normativa sulla vendetta che la credenza
ebraica fa risalire proprio a Dio e su come questa possa influire sull’agire sociale
violento: «Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e
gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta» (Es 21,20: codice dell'alleanza).
Anche il codice deuteronomico (Dt 19, lss) e la legge sacerdotale in Num 35,9-34,
distinguono tra “omicidio volontario” e non volontario, e prevedono addirittura “città
di rifugio” allo scopo di sottrarre l'omicida al vendicatore che sarebbe autorizzato a
vendicarsi: ponendo in luce come la vendetta, tragga probabilmente le sue origini alla
cultura tribale e clanica, piuttosto che a Dio.

41
Anche la vendetta compiuta da Dio direttamente o per interposta persona, sarebbe un
tema presente nella bibbia ebraica.
Secondo l'analisi di M. Girard alla vendetta divina si riferiscono circa la metà delle
34 ricorrenze del verbo ebraico e l'80% delle 44 ricorrenze del sostantivo
corrispondente29.
In particolare si parla di “Dio vendicatore” (Na 1,2; Sal 99,8), di “Dio della vendetta”
(Sal 94,1), di “vendetta di Jahvè” (Num 31,3; Ger 11,20; 20,12; 50,15.28; 51,11; Ez
24,14.17), di “vendetta di Dio” (1QM330 4,12).
In molte altre citazioni, Jahvè viene inoltre presentato come soggetto più o meno
esplicito del verbo; per esempio Dt 32,43: «Egli vendicherà il sangue dei suoi servi»;
Is 1,24: «Mi vendicherò dei miei nemici».
A volte ricorre anche la formula: «Farò vendetta dei miei avversari» (Dt 32,41); «La
mia vendetta su Edom la compirò per mezzo del mio popolo, Israele» (Ez 25,14);
«Farò su di loro terribili vendette…quando compirò su di loro la vendetta» (Ez
25,17) 31 . In realtà, a ben guardare, anche i numerosi motivi dell'intervento
vendicatore di Jahvè si riducono alle varie forme di rispetto del diritto non osservato
nelle sue varie forme dai vari soggetti: si tratti di quello del partner divino del patto,
come in Lev 26,25, oppure, più frequentemente, del diritto del popolo o di singoli
membri del popolo.
Esemplare, a tal proposito appare Ger 51,36 quando si riferisce a Gerusalemme:
«Perciò così parla il Signore: “Ecco io difendo la tua causa, compio la tua
vendetta”», oracolo contro Babilonia che ha distrutto la città e il tempio (cf. anche
51,11).
Per questo motivo, osserviamo nei testi biblici uno stretto parallelismo tra vendetta e
liberazione/ salvezza; a quest'ultima infatti mira Dio “vendicatore”, alla salvezza del
suo popolo. Concetto ripreso, ad esempio, anche in Is 35,4 dove leggiamo il seguente
oracolo: «Coraggio! Non temete: ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la
ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».
29
La violence de Dieu dans la Bible juive, Approche symbolique et interprétation théologique, in
“Science et Esprit” 39/2 (1987) p.150.
30
Sigla che indica il libro della Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre scritto dalla
comunità di Qumran.
31
Cf. E. LIPINSKI, naqam, in Theologisches Woertrerbuch zum Alten Testament, V, 1986 pp.610-
611.
42
In particolare la vendetta sui nemici significa vittoria degli Israeliti oppressi e gravati
politicamente (cf. per esempio Gdc 11,36; Is 47,3; Ger 50,15).
Il Vangelo, anche in questo caso come in moltissimi altri, è erede della Bibbia
ebraica.
Il preannuncio della distruzione di Gerusalemme, riferendosi al giudizio divino di
condanna, parla di “giorni di vendetta” (Lc 21,20-22).
Le lettere paoline, attestano il medesimo concetto, inteso in proiezione finale o
escatologica. In 1 Ts 4,6 Paolo rafforza la sua esortazione ai credenti di Tessalonica
di non prevaricare sul fratello con l'assioma seguente: «Il Signore vendica tutte
queste cose».
Le suddette brevi considerazioni, evidenziano quindi che la vendetta di Dio nel suo
senso rigoroso, apparterrebbe dunque ad un linguaggio giuridico, che tutte
ugualmente esprimono la reazione violenta di Dio intento a restaurare il diritto e
ristabilire l'ordine leso: giudizio, vendetta, processo, ira, gelosia, retribuzione.
Inoltre, non ogni male verrebbe per nuocere: l'aver attribuito a Dio l'azione vendi-
cativa e violenta, avrebbe avuto da sempre, come conseguenza, il sottrarla, se non del
tutto almeno in gran parte all'iniziativa umana.
Così ad esempio Davide, che risparmia la vita di Saul rinunciando a farsi giustizia da
sé contro il re persecutore e affidando la sua causa al Signore (cf. 1 Sam 24,lss.,
specialmente vv. 13 e 16), con queste parole: «Oggi il Signore ha concesso al re mio
signore la vendetta contro Saul e la sua discendenza» (2 Sam 4,8).
Anche Giuseppe perdona i suoi fratelli, timorosi, dopo la morte del padre, di essere
trattati come loro avevano trattato lui, dicendo: «Sono io forse al posto di Dio?» (Gen
50,19).
Soprattutto, in quest’ottica, sarebbero i salmisti che affidano a Dio la difesa violenta
della loro causa pregandolo di farsi lui stesso vendicatore contro gli oppressori e i
persecutori, come si vedrà subito.
Ma anche Paolo si trova in sintonia con la bibbia giudaica che espressamente cita (cf.
Dt 32,35): «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira
divina». Sta scritto infatti: «A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il
Signore» (Rom 12,19).

43
3.2 SEMIOTICA DELL’AGIRE SOCIALE VIOLENTO NEL SALTERIO

Le antichissime preghiere del popolo d'Israele ci sono note soprattutto dal Salterio:
una raccolta di 150 canti per uso liturgico nel tempio di Gerusalemme, che ha
psicologicamente e spiritualmente nutrito generazioni di sacerdoti e di fedeli sia ebrei
che cristiani, non solo nei tempi biblici ma anche nei secoli seguenti fino a oggi.
Tra le diverse modalità del salterio, accanto ai canti di lode, di fiducia, di
ringraziamento e di sapienza, di esaltazione del re e di Sion, abbiamo anche salmi di
lamentazioni in cui risuona la voce del singolo o della collettività che espongono a
Dio il loro caso doloroso, invocandone l'intervento risolutore.
Proprio in questi, ma anche in altri generi, come lamenti, ringraziamenti e suppliche,
sparsi nelle bibbia ebraica e nel nuovo testamento cristiano, appare frequente
l'invocazione della vendetta divina contro i nemici e ancora più insistenti sono le
imprecazioni o maledizioni con cui si augura ogni male all'avversario.
Utilizzando un breve confronto con le lamentazioni dell'antica Babilonia, potremo
meglio comprendere la dinamica delle invocazioni e delle imprecazioni del salterio
biblico32. In breve, ciò di cui l'orante babilonese faceva lamento appariva come la
conseguenza “di una nemica coalizione di dèi, uomini e demoni”33.
Nelle lamentazioni individuali bibliche, invece, la malattia non è l'unica causa per cui
si prega, neppure forse la principale: accanto ad essa possiamo elencare la calunnia,
l'essere trascinati in tribunale benché innocenti, l'esilio, la persecuzione e il dileggio
religioso, forme varie di vessazione, l'abbandono e il tradimento di amici e di parenti,
il rimorso per la colpa commessa, molteplici disgrazie e varie situazioni angosciose.
Soprattutto nei canti di Sion sono assenti del tutto i demoni che invece erano al
centro dei canti babilonesi. L'ira di Jahvè poi appare soltanto quando chi prega è
cosciente del suo peccato e ne domanda perdono. I nemici, che apparirebbero in circa
cento dei centocinquanta salmi34, sono sempre ed esclusivamente umani.

32
Cfr. L. RUPPERT, Klagelieder in Israel und Babylonien - verschiedene Deutungen der Gewall, in
N. LOHFINK (a cura di), Gewalt und Gewaltlosigkeit im Alten Testament, Herder, Freiburg-Basel-
Wien 1983, pp.111-158.
33
L. RUPPERT, art. cit., p.128.
34
Cfr. R. SCHWAGER, Brauchen wir einen Suendenbock, p.106.
44
In particolare, nelle lamentazioni pubbliche non c'è dubbio che si tratti di nemici
politici, cioè di stranieri che hanno attaccato Israele.
Più che una sola specie di nemici sembra preferibile ammettere una certa varietà di
caratterizzazioni nella cerchia degli avversari su cui s'invoca la vendetta di Dio: si
tratta di tentatori della fedeltà dei pii, di calunniatori, di traditori dell'amicizia, di
empi, di bestemmiatori di Dio e quindi di suoi nemici oltre che di nemici dell'orante,
di prepotenti oppure di odiosi sfruttatori dei deboli e degli indifesi.
Inoltre, sarebbero spesso presentati con le immagini simboliche di esercito
assediante, di cacciatori e pescatori intenti ad afferrare la preda, di bestie selvatiche e
feroci (cani, lupi, tori) che inseguono per mordere e sbranare.
Quindi, nel salterio, troviamo un linguaggio colorito, espressivo della psicologia
dell'orante e dei suoi sentimenti di timore e persino di terrore di fronte alla minaccia
esterna35. Anche la via d'uscita cercata dall'orante dell'antico popolo ebraico appare
diversa da quella imboccata dal devoto babilonese del primo millennio a.C. Se il
babilonese faceva ricorso di preferenza alle arti magiche, contrapponendo magia a
magia, il popolo ebraico poneva tutta la sua fiducia nell'intervento, invocato a gran
voce e con ripetuta insistenza, del proprio Dio.
Certo, gli avversari del popolo ebraico sono forti e privi di qualsiasi scrupolo, ed egli
al loro confronto è debole e impotente, ma a suo favore gioca la potenza di Jahvè,
vissuto nella fede come difensore efficace dei senza-difesa e temibile annientatore
dei prepotenti. Le invocazioni pressanti perché intervenga, e intervenga presto, sono
supportate da grande fiducia: Jahvè che è giusto giudice farà giustizia a chi lo
supplica, liberandolo e salvandolo dalla presa dei suoi avversari.
Anche secondo Ruppert, nei salmi individuali di lamento del mondo biblico, tutto è
concentrato nel Dio del diritto36.
Prendiamo ad esempio il salmo 22 che è stato più volte citato nella passione di Gesù
ed ha un posto privilegiato nella liturgia cristiana, nella prima parte (vv. 2-22),
troviamo un vero e proprio canto di lamento individuale.

35
Per queste tematiche Cfr. L. RUPPERT, cit.; O. CASTELLINO, Libro dei salmi, Marietti, Torino
1960, pp.254-263; H-J. KRAUS, Theologie der Psalmen, Neukirchen 1979, pp.161-167; H.
RINGGREN, 'ajab, in “Grande Lessico dell'Antico Testamento”, I, Paideia, Brescia 1988, pp.450-
462.
36
Klagelieder in Israel und in Babylonien, p.155.
45
Il protagonista, infatti, si lamenta anzitutto che Dio gli sia assente e sordo: «Dio mio,
Dio mio,/ perché mi hai abbandonato?/ Risuona il mio grido/ lontano da ogni
soccorso./ Mio Dio, ti chiamo di giorno,/ ma non rispondi,/ chiamo di notte, senza
darmi pace» (vv. 2-3).
Descrive poi se stesso spogliato di ogni dignità umana, schernito, beffeggiato come
illuso nella propria fede in Dio: «Ma verme io sono e non uomo,/ insultato dagli
uomini,/ disprezzato dal popolo./ Quanti mi vedono/ ridono di me;/ storcon le labbra,
scuotono la testa:/ S'è rivolto a Jahvè, dunque lo liberi,/ lo salvi, se gli vuol bene»
(vv. 7-9).
Una nuova supplica a Dio perché l'aiuti (v. 12) introduce la menzione dei suoi
spietati persecutori, paragonati a tori, leoni e cani: «Mi circondano tori in gran
numero,/ mi stringono intorno/ bestie possenti di Basan./ Verso di me spalancano la
bocca/ come leone che sbrana e rugge./... Mi attorniano cani,/ mi accerchia un'orda di
malfattori./ Hanno legato/ le mie mani e i miei piedi» (vv. 13-14.17).
Un'accorata e fiduciosa invocazione conclude il lamento: «Libera dalla spada la mia
vita,/ dalle unghie del cane/ l'anima mia desolata./ Salvami dalla bocca del leone,/
dalle corna del toro selvaggio/ salva la misera mia vita» (vv. 21-22).
Se in diversi salmi di lamento ci si ferma qui, in altri, l'invocazione a Dio si estende a
chiedere un'azione violenta contro i nemici: la liberazione del singolo o del popolo
orante appare connessa con l'umiliazione e la disfatta degli avversari.
Jahvè è pregato perché faccia giustizia ricorrendo a interventi violenti. La vendetta
divina diventa oggetto di supplica. Ma così la violenza entrando nell'intimo della
preghiera, definisce sia psicologicamente che spiritualemente violenti i due dialogan-
ti: Jahvè dal quale ci si aspetta un intervento vendicatore e l'orante che anela alla
violenza con tutta la sua anima.
In breve, non solo nei suoi esiti sperati ma anche nella sua dinamica intrinseca più di
una voce orante del Salterio appare un esercizio di violenza. Naturalmente la
dinamica, che spesso è anche la sola, come nel salmo 22 appena citato, è ottenere
giustizia, ma in stretta connessione con l’umiliazione e la rovina del nemico.
Si veda inoltre, a solo titolo esemplificativo, il Sal 94 in cui i due attributi di Jahvè
vendicatore e giudice sono affermati in stretto parallelismo: «Jahvè, Dio vendicatore!

46
Dio vendicatore, risplendi! Sorgi, o giudice della terra,/ ai potenti da' il giusto
castigo» (vv.l-2).
Ancora una volta il pensiero religioso della bibbia ebraica, non escluso il nuovo
testamento cristiano, tradisce la sua anima profonda d'incessante e inesausto anelito
alla giustizia, per ottenere la quale non esita ad accettare a cuor leggero, da parte
dell'uomo e soprattutto di Dio, il ricorso alla violenza.
Questa, da un punto di vista psicologico, non è una mera proiezione in Jahvè, come
un fine da perseguire, che riguarderebbe soltanto la giustizia dell'oppresso, ma come
unico mezzo ritenuto efficace e addirittura necessario.
Di regola, con alcune rare eccezioni che vedremo in seguito, non ci si è immaginata
altra via atta a conseguire la giustizia e non si è pensato a metodi “non violenti”.
Analizziamo ora la presenza del motivo della violenza attraverso un approccio diretto
ai canti biblici. Tra le lamentazioni collettive, ad esempio, il salmo 83 conterrebbe
toni particolarmente disumani.
La comunità israelitica riunita nel tempio rivolge subito al suo Signore un grido
d'aiuto: «O Dio, non stare muto, non tacere,/ non rimanere, o Dio, inerte» (v. 2). La
situazione appare drammatica perché degli avversari si sono coalizzati per sterminare
il popolo.
Si tratta di nemici di Dio, si legge nel testo: un modo chiaro per dire che la causa di
Israele è la causa stessa di Jahvè e che respingere la minaccia contro il popolo,
vorrebbe dire respingere la minaccia contro Dio.
In questo passaggio, si nota chiaramente un processo massimalistico d'identificazione
degli interessi di Israele con quelli di Jahvè.
Ma leggiamo il testo biblico: «Perché ecco agitarsi i tuoi nemici/ e i tuoi avversari
levare la fronte./ Contro il tuo popolo ordiscono trame/ e congiurano contro i tuoi
protetti./ E dicono: Venite, sterminiamoli,/ non siano più nazione,/ non più ricordato/
sia il nome d'Israele./ Decisero insieme,/ contro di te giurarono un patto» (vv. 3-6).
I vv. 7-9 chiamano per nome i popoli stranieri della coalizione nemica: gli edomiti, i
moabiti, gli ammoniti, i filistei, gli assiri ecc. Ma a noi interessa soprattutto la suppli-
ca che segue: Jahvè intervenga contro di loro ripetendo le sue passate gesta liberatrici
più eclatanti per potenza e per ferocia: «Trattali come Madian, come Sisara/ e come
Jabin al torrente Cison./
47
In Endor essi furono annientati,/ divennero letame della terra!/ Tratta i principi loro/
come Oreb e Zeeb,/ e tutti i loro nobili come Zebah e Salmunn» (vv. 10-12).
Il riferimento storico è a due guerre sante del periodo dei giudici, narrate nel libro
omonimo ai capp. 4-5 e 7-8. In una parola, si invoca l'umiliazione e la rovina “per
sempre” dei nemici (v. 18), come vien detto anche con linguaggio metaforico: «Tu
fa' di loro un turbine, Dio mio,/ come paglia al vento/ come fuoco che brucia la
selva,/ come fiamma che arde i monti,/ tu li insegua con la tua tempesta/ e li travolga
con la tua bufera» (vv. 14-16).
Il salmo 58 inoltre, mette in primo piano il problema dell'ingiustizia giudiziaria degli
uomini, avvertita come una questione di fede da parte di innocenti oppressi.
Questi si domandano se possono contare sulla giustizia divina, oppure se devono
rassegnarsi ad essere vittime degli iniqui reggitori della giustizia umana.
Palese è la risposta: «Sì, c'è un Dio che in terra rende giustizia» (v. 12). E nella
certezza che egli non tarderà ad intervenire, lo si sollecita con toni virulenti: «In
bocca loro spezza i denti, o Dio,/ schianta, o Jahvè,/ le zanne dei leoni» (v. 7).
Seguono imprecazioni dello stesso genere: «Si dileguino come le acque fluenti,/
inaridiscano come erba su strada./ Come lumaca che striscia e scompare,/ e aborto di
donna/ che non vide mai il sole./ Prima che le pentole vostre/ si scaldino ai rovi,/ vivi
se li prenda vento di tempesta» (vv. 8-10).
Più numerosi sono gli esempi di lamentazioni private: nel salmo 3 l'orante supplica
la propria liberazione dagli avversari e parallelamente si dice certo dell'intervento
divino rovinoso per loro: «Sorgi, Jahvè, salvami, mio Dio:/ tu rompi le mascelle/ dei
miei nemici,/ frantumi i denti dei malfattori» (v. 8).
L'invocazione dell'orante del salmo 7: un innocente colpito probabilmente da ingiuste
accuse, fa appello alla collera di Dio e alla sua azione di giudice: «Sorgi, Jahvè,
nell'ira tua scagliati/ contro la rabbia dei miei nemici;/ Tu che giudichi, sorgi in mio
favore» (v. 7).
In un canto di ringraziamento individuale viene inoltre esaltata la giustizia
“vendicativa” di Jahvè, di cui il cantore ha fatto felice esperienza: «Sì, li ricorda,/ lui
che vendica il sangue;/ non dimentica il grido degli afflitti/ ... Jahvè s'è manifestato,
ha fatto giustizia,/ l'empio è stretto nel laccio,/ opera delle sue mani» (Sal 9,13.17).
Solo persone empie possono negare che Dio non sia vendicatore degli oppressi:
48
«Nel suo orgoglio l'empio proclama:/ Non farà mai vendetta,/ Dio non esiste./ Questi
sono i suoi disegni» (Sal 10,4; cf. anche v. 14).
Vessato e molestato dai senza-Dio, l'orante mantiene salda la sua fede: «Jahvè, tu
ascolti l'attesa dei miseri,/ tendi l'orecchio/ all'ansia del suo cuore! Rendi giustizia/
all'orfano e all'oppresso». (vv. 17-18).
E da qui scaturisce la sua supplica: «Spezza il braccio dell'empio/ e del malvagio;/
della sua empietà fa' vendetta» (v. 15).
Al giudice divino ricorre il cantore del salmo 17 perché intervenga a suo favore e
contro i persecutori: «Jahvè, ascolta la mia giusta causa,/ intendi il mio grido! ...
Sorgi, Jahvè! Che tu li affronti e abbatti;/ salva con la tua spada/ la mia vita dal
malvagio» (vv. 1.13).
Nel salmo 35 l'agognato e supplicato intervento divino è descritto in termini militari:
«Accusa, o Jahvè, chi mi accusa,/ assali chi mi vuol assalire./ Impugna il piccolo e il
grande scudo,/ lèvati in mio aiuto./ Brandisci la lancia,/ sbarra il passo a chi
m'insegue./ Di' all'anima mia:/ Sono io la tua salvezza./ Confusione e vergogna/ a chi
insidia la mia vita;/ fuga e rossore a chi trama/ la mia sventura» (vv. 1-4). Il cantore
del salmo 54 supplica affinché il male che i suoi avversari tramano contro di lui
ricada su loro stessi: «Gente proterva/ è insorta contro di me,/ dei prepotenti vogliono
la mia vita,/ né pensiero hanno di Dio! ... Ritorci il male sui miei nemici,/ annientali,
Jahvè,/ perché tu sei fedele» (vv. 5.7).
L'invocazione del salmo 59 si prefigge addirittura uno scopo da propaganda fide:
«Fanne sterminio nella tua collera,/ sterminio, e più non vivano./ Si sappia che Dio
domina in Giacobbe/ sino ai confini della terra» (v. 14).
Voglio concludere questa antologia del Salterio con la citazione del salmo 109, in cui
un israelita, accusato e perseguitato ingiustamente da persone che hanno ripagato la
sua benevolenza con il male (vv. 2-5), lancia tremende maledizioni non solo contro
di loro, presentati come un'unica persona, ma anche contro moglie e figli: «In
tribunale sia condannato,/ la sua difesa sveli i suoi delitti./ Brevi siano i suoi giorni,/
un altro prenda il suo lavoro./ Restino orfani i figli/ e vedova sua moglie./ Si
sperdano i suoi figli a mendicare,/ li scaccino lontani/ dalla casa in rovina/. L'usuraio
estorca ogni suo bene,/ gente straniera/ lo depredi d'ogni guadagno./

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Nessuno gli serbi pietà/ o si commuova dei suoi orfani./ Sterminio alla sua
discendenza,/ non viva il suo nome/ più di una generazione./ ... Volle maledizione e a
lui venga,/ negò benedizione e gli stia lontana./ Sia sua veste la maledizione,/gli
penetri dentro come acqua/ e nelle sue ossa come olio./ Gli sia manto che
l'avvolga,/cintura che sempre lo stringa» (vv. 7-13.17-19).
E tutto è atteso dall'azione di Dio: «Questa la paga di Jahvè/ ai miei nemici,/ a chi per
la mia vita trama il male» (v. 20). Mi sembra che questa preghiera raggiunga tale
vertice di violenza da dovervi rilevare la presenza di sentimenti sadici e di distruttiva
rivalsa; in altre parole siamo di fronte a uno dei pochi testi (cf. anche Naum e Sal
137,8-9) in cui la sete vendicativa pare prevalere sul desiderio di ottenere giustizia.
In proposito potremmo anche citare di nuovo il salmo 58: «Gioisce il giusto/ che ha
visto la vendetta,/ lava i suoi piedi nel sangue dell'empio».
Fuori del Salterio è doveroso citare le “confessioni” di Geremia, l'unico profeta
dell'antico Israele di cui conosciamo le reazioni interne e psichiche alla missione
divina37.
In particolare la sua psiche ci svela chiaramente la crisi profonda che lo ha
accompagnato: Geremia risulta essere stato vittima innocente di un contesto cittadino
e familiare ostile, ipocrita e menzognero; profeta di sventura chiamato da Dio ad
annunciare: «Violenza! Oppressione» (20,8) e ostacolato.
Geremia scoppia in un celebre canto di maledizione sulla sua infausta esistenza:
«Maledetto il giorno in cui nacqui... Maledetto l'uomo che portò la notizia a mio
padre, dicendo: “Ti è nato un figlio maschio, colmandolo di gioia”... Perché non mi
fece morire nel grembo materno? Mia madre sarebbe stata la mia tomba... Perché
mai sono uscito dal grembo materno per vedere tormenti e dolore e per finire i miei
giorni nella vergogna?» (20,14-15.17-18). Questa crisi di disperazione, renderebbe
comprensibile che in altri brani delle “confessioni” il profeta, ricorra a invocazioni e
imprecazioni tremende contro i suoi nemici: «Siano confusi i miei avversari, ma non
io, si spaventino essi, ma non io. Manda contro di loro il giorno della sventura,
distruggili, distruggili per sempre» (17,18); «Tu lo sai, Signore, ricordati di me e
aiutami, vendicati per me dei miei persecutori» (15,15).

37
Cfr. O. VON RAD, Teologia dell'Antico Testamento, Il, cit., pp. 238-244.
50
Il profeta Geremia, vive drasticamente il problema della giustizia divina che tarda a
rivelarsi: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te, ma vorrei
solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano?
Perché tutti i traditori sono tranquilli? ... Ma tu, Signore, mi conosci, mi vedi, tu
provi che il mio cuore è con te. Strappali via come pecore per il macello, riservali per
il giorno dell'uccisione» (12,13).
Geremia non può che aspirare al giorno in cui sarà fatta giustizia: «Ora, Signore
degli eserciti, giusto giudice che scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua ven-
detta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa» (11,20).
In linea con la bibbia ebraica, anche le Scritture cristiane del Nuovo Testamento
conoscono l'invocazione a Dio vendicatore.

51
3.3 L’APOCALISSE: UN TIPICO ESEMPIO DELL’INVOCAZIONE
DI VENDETTA DI DIO IN CHIAVE ESCATOLOGICA

L'Apocalisse sarebbe un tipico esempio dell'invocazione della vendetta di Dio e


dell’esaltazione del vendicatore finale dei giusti.
In cielo, i martiri in attesa del giorno ultimo e del rendiconto finale pregherebbero,
infatti: «Fino a quando, Signore, tu santo e verace, non farai giustizia e non
vendicherai (ekdikeis) il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?» (6,10).
Inoltre, alla fine dei tempi, l'immensa folla degli eletti canterà a gloria del salvatore e
vendicatore divino: «Alleluja! Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio, perché
veri e giusti sono i suoi giudizi, egli ha condannato la grande meretrice che
corrompeva la terra con la sua prostituzione, vendicando su di lei il sangue dei suoi
servi» (19,2).
Il cielo risuona, ed è per sempre, del canto di gioia dei beati invitati ad esultare
«perché condannando Babilonia Dio vi ha reso giustizia» (18,20).
Questa sarebbe la conclusione della storia umana, secondo il veggente dell'isola di
Patmos: un Dio vittorioso con i salvati trionfanti ed inneggianti, ma il tutto ottenuto
con un'ultima iniziativa violenta divina, annientatrice dei malvagi e degli oppressori.

52
3.4 LO SVELAMENTO DEL PADRE IN CRISTO E LA CONSEGUENTE
LEGGE DELL’AMORE INSITA NELL’AGIRE SOCIALE DEI CRISTIANI

L’amore dei nemici, giunto a noi nelle due versioni di Matteo 5,43-45 e di Luca
6,27-28.35, si pensa che sia risalente ad una fonte in comune andata perduta e siglata
dai critici come fonte Q: abbreviazione di “Quelle” (fonte)38
La formula del comandamento del primo evangelista: «Avete ascoltato che fu detto
(da Dio): “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: “Amate i
vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”» (5,43-44) sembra un
elemento redazionale di Matteo.
Il comando di “odiare il nemico”, sarebbe inoltre assente nella bibbia ebraica, ma
sarebbe invece presente negli scritti di Qumran39. Matteo, rafforza dunque l'idea a lui
cara della parola autorevole e nuova di Cristo. Più originale si rivela invece Luca, in
cui l'imperativo di Gesù non è contrapposto a nessun altro comandamento: «Ma io
dico a voi che ascoltate: Amate i vostri nemici…» (6,27).
I due evangelisti, Matteo e Luca, si differenzierebbero anche nei contenuti oggettivi
del comandamento, articolato in forma duplice in Matteo: “amore dei nemici” e
“preghiera per i persecutori”, con quattro versi per l’evangelista Luca: «Amate i vo-
stri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono,
pregate per quanti vi maltrattano».
La formulazione in quattro stichi di Luca, retta da numerosi sinonimi che specifica i
nemici con i termini: “quelli che vi odiano”, “coloro che vi maledicono”, “quanti vi
maltrattano”, sarebbe verosimilmente arcaica; ma si potrebbe ipotizzare anche un'e-
spressione fatta proprio da Gesù: “Amate i vostri nemici”.

38
Cfr. D. LUEHRMANN, Liebet eure Feinde (Lc 6,27-3,61 Mt 5, 39-48), in Zeitschrift fuer
Theologie und Kirche 69 (1972) pp.412-438; P. HOFFMANN, Feindesliebe, in P. HOFFMANN-V.
Ed, Jesus von Nazareth und eine christliche Moral, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1975, p.147ss;
L. SCHOTTROFF, Gewaltverzicht und Feindesliebe in der urchristlichen Jesustradition (Mt 5,38-48;
Lc 6,27-36), in Jesus in Historie und Theologie. Cfr.. H. CONZELMANN, Tuebingen 1975, pp.197-
221; U. Luz, Das Evangelium nach Matthaeus (Mt 1-7), Neukirchen 1985, pp.305ss; G.
BARBAGLIO, L'amore dei nemici, in Bozze n. 4 (1985) pp.23-33.
39
Cfr. il seguente passo del Manuale di disciplina: “... per amare tutti i figli della luce, ciascuno
secondo la sorte riservatagli dal pensiero di Dio, e odiare tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la
sua consapevolezza nel giudizio di vendetta di Dio” (1QS 1,9-10), citazione tratta da M. BURROWS,
Prima di Cristo: La scoperta dei rotoli del Mar Morto, Feltrinelli, Milano 1961, p.362. Nessun altro
comandamento: “Ma io dico a voi che ascoltate: Amate i vostri nemici...” (Lc 6,27).

53
In Matteo troviamo invece un linguaggio ed una motivazione più religiosa, che si fa
preferire a quello più dottrinale di Luca: «affinché diventiate figli del Padre vostro
che è nei cieli, perché fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni e fa piovere su giusti e
ingiusti» (5,45).
Nessun “bifrontismo” dunque, Dio non presenta un volto “affascinante” e un altro
“tremendo”, nel Figlio si disvela nella sua natura con una sola faccia, quella benefica
e di condivisione per tutti.
Ma anzi, si potrebbe parlare di un suo rapporto tendenzialmente positivo con gli
uomini, a cui si relaziona non secondo la dinamica della reazione uguale e contraria,
del tipo: “buono con i buoni e cattivo con i cattivi”, ma mediante la donazione del
suo sole e della pioggia sia a chi lo accoglie sia a quanti lo rifiutano40.
Sempre con una categoria mutuata da R. Girard siamo autorizzati ad escludere da
questa immagine religiosa di Cristo ogni forma di mimesis, che spinge a respingere
chi ci respinge e ad accettare solo quelli che ci accettano.
La stessa cosa si potrebbe esprimere dicendo che il Dio vissuto dal Figlio, non appare
reattivo all'uomo, cioè non agisce in sintonia al comportamento ed agli atteggiamenti
umani assunti nei suoi confronti.
Non veste neppure i panni del giudice che discrimina tra innocente e colpevole,
assolvendo il primo e condannando il secondo.
La natura di Dio, svelataci interamente in Cristo, ci manifesta un Padre che è fonte di
vita per tutti. Il Figlio ci fa risultare anche chiara ed evidente la gratuità dell'agire di
questo Dio.
Certo non saranno gli ingiusti a meritare che egli li benefichi, ma neppure ciò vale
dei giusti, perché altrimenti la sua relazione con l'umanità risulterebbe simmetrica e
conseguentemente non indiscriminata, come invece è. Il codice della gratuità e
dell’amore dunque, non quello della legge, ne qualifica l'azione con cui entra in
rapporto con l'umanità.
Ebbene, anche nell'ambiente giudaico del tempo, come testimonia la tradizione
rabbinica, era presente alla coscienza religiosa l’osservazione che: “Dio fa sorgere il
sole e fa piovere su buoni e cattivi”, dimostrando la sua indiscriminata benevolenza.

40
G. BARBAGLIO, Dio violento? Letture delle scritture ebraiche e cristiane, Cittadella Editrice,
Assisi 1991, p.307.
54
Così rabbi Aqiba (t 135 circa d.C.) si domanda: «Sta scritto: Il sole sorse su di lui"
(Gen 32,32). E che il sole è sorto solo per lui, non è sorto per tutto il mondo?»41
Rabbi Giosuè (350 circa) dice: «Hai visto tu nella tua vita che la pioggia è caduta sul
campo del pio e non è caduta sul campo del malvagio? Oppure il sole sarebbe sorto
sugli israeliti giusti e non sugli empi? Dio fa sorgere il suo sole sugli israeliti e sulle
nazioni; perciò è detto: Buono è Jahvè verso tutti etc.».
A rabbi Abbahu, inoltre, verso il 300 circa, dobbiamo il detto: «E’ più grande il gior-
no della pioggia che non la risurrezione dei morti, perché ecco, la risurrezione dei
morti vale solo per i giusti, gli scrosci di pioggia invece sia per i giusti come anche
per gli empi».
Ma tutto non doveva essere così pacifico, perché sappiamo di interpretazioni e
distinzioni rabbiniche in materia, che sottintendono l'esistenza di un gravissimo
problema teologico sentito acutamente dai “teologi” del tempo: come conciliare il
dato naturale di esperienza con la credenza, assai avvertita allora, in Dio giusto
retributore che premia i giusti e castiga gli ingiusti?
Dunque, la benevolenza di Jahvè, disvelata nel libro della natura, riletto dalla
tradizione ebraica e dallo stesso Gesù sarebbe dunque palesemente disvelato.
A Gesù sono inoltre estranee le discussioni e le problematiche teologiche, ogni
avvertenza per l'apparente contraddizione in Dio tra benevolenza universale e
giustizia retributiva.
Egli riassume con semplicità e coerenza la volontà del creatore: questi è esattamente
come appare nel “far sorgere il suo sole e far piovere su tutti”, dunque un Dio di
benevolenza indiscriminata e di grazia.
Nessuna difficoltà teologica, nessun tentativo concordistico, solo accettazione
dell'identità divina espressa nella natura e nell’amore indiscriminato a tutti,
spiegando la bontà universale e indiscriminta del Signore: «Buono è Jahvè per tutti
ed estende la sua pietà su tutti; poiché così è la sua natura, che egli ha pietà». Ma
ancor più originale appare una realtà da contemplare: l’amore dei nemici,
motivandolo e giustificandolo.

41
Questo e i testi rabbinici seguenti sono citati dalla raccolta di H.L. STRACK - P. BILIERBECK,
Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, I, Muenchen 1974, pp.374ss.
55
Se Dio agirebbe con benevolenza verso tutti, buoni e cattivi, anche i discepoli di
Cristo, destinatari del suo comandamento, «devono agire benevolmente verso tutti,
amici e nemici»42.
Se il comandamento della Bibbia ebraica, espresso in Lev 19,18, parlava di “amore
per il prossimo”, proprio in forza della suddetta immagine divina, Gesù allarga
questo comandamento anche ai nemici.
Non per nulla le due versioni evangeliche concludono il brano con l'esplicita formula
di carattere imitazionistico “come così”: come il Padre celeste, così i discepoli di
Gesù: «Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro” (Lc 6,36);
«Sarete dunque voi perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto» (Mt 5,48).
Nel cristianesimo delle origini l'essere figli di Dio era visto come realtà posseduta per
grazia. «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù» (Gal 3,26); «Dio
mandò il suo figlio…perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,4-5); «A quanti
però l'hanno accolto [il Verbo incarnato], ha dato potere di diventare figli di Dio: a
quelli che credono nel suo nome, i quali…da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).
Per Gesù invece è un traguardo storico da raggiungere attraverso precisi
comportamenti di vita, amando concretamente i nemici.
Perché così facendo, perdonando i nemici, ci si comporta al pari di Dio, cioè
secondo la stessa dinamica operativa di indiscriminata benevolenza per buoni e
cattivi.
Vi emergerebbe, dunque, il principio di somiglianza e di identità tra padre e figlio.
Gesù parrebbe voler dire: “tale il padre, tale il figlio”. Dunque per diventare figli di
Dio i discepoli devono agire secondo lo stesso codice di comportamento divino:
amare tutti indiscriminatamente e addirittura perdonare i nemici.
Per completezza, infine, diciamo che il codice dell'amore dei nemici appare assai
vicino all'imperativo della non-violenza, che in Matteo costituisce un'antitesi a parte,
mentre in Luca e con tutta probabilità già in Q appare strettamente collegato.

42
Cfr. G. LOHFINK, Wie hat Jesus Gemeinde gewolit, Freiburg 1982, pp.47ss. (trad. it. presso le
edizioni. Paoline); Der ekklesiale Sitz Im Leben der Aufforderung Jesu zum Gewaltverzicht (Mt 5,39b-
421 Lc 6,29s), in Theologie und Philosophie 162 (1982) pp.236-253.
56
Ecco la versione di Matteo: «Avete udito che fu detto (da Dio): Occhio per occhio e
dente per dente. Ma io vi dico di non contrastare il cattivo; ma chiunque ti percuote
sulla tua guancia destra, porgigli anche l'altra; e a chi ti vuole intentare causa per
prendere la tua tunica, lasciagli anche il mantello; e chiunque ti angarierà per un
miglio, vai con lui per due; da' a chi ti chiede e non sottrarti a chi vuole prestiti da te»
(5,38-42).
Luca: «A chi ti percuote sulla guancia presenta anche l'altra, e a chi prende il tuo
mantello non rifiutare neppure la tunica; a chiunque ti chiede da', e a chi prende le
tue cose non richiederle» (6,29-30).
Si noti anche che Gesù chiede di fronteggiare i violenti non passivamente, cioè
subendo la violenza, ma con una reazione positiva e attiva: porgere l'altra guancia a
chi ti percuote; lasciare anche l'ultimo indumento a chi per via giudiziaria, secondo
Matteo, o per furto, secondo Luca, ti prende un capo di vestiario.
In particolare, anche l'imperativo di fare “due miglia quando si è richiesti per un
miglio solo” sarebbe finalizzato a far riflettere e soprattutto a far cambiare il
violento: un modo per vincere l'ostilità del prepotente, sollecitato a rinunciare al suo
modo violento di agire e abbracciare il codice della non-violenza.
Gesù in sintesi, nel manifestare pienamente la volontà del Padre, non comanda
“l’occhio per occhio”, né la violenza, non il Martirio, né l'offrirsi vittima
all'aggressore, bensì una strategia non violenta per conquistare il violento.
Su questa linea interpretativa hanno perseverato, tra gli altri, gli stessi L. Schottroff e
Neugebauer. La motivazione religiosa di Dio che è benefico verso tutti e
l'esortazione a comportarsi come lui si comporta per diventare così suoi figli, mette
l'accento proprio sul destinatario della parola di Gesù, cioè il suo discepolo, chiamato
a vincere in se stesso la reattività d'inimicizia di fronte al nemico.
Come il Dio vissuto da Gesù, libero dalla legge della reazione uguale e contraria,
agisce nella natura da benefattore di chi l'accetta e di quanti lo rifiutano, così deve
essere il discepolo di Cristo, amico parimenti degli amici e dei nemici.

57
CONCLUSIONI FINALI

La società puritana e perbenista di un tempo, faceva predominare una cultura


religiosa di tipo meritocratico che discriminava fortemente coloro che non
osservavano la legge mosaica e le numerose tradizioni “dei padri”: i samaritani
venivano, ad esempio, equiparati agli incirconcisi43 e ritenuti “scismatici”; i pagani
venivano chiamati in modo spregiativo “cani”44, per non parlare delle donne.45
Prevaleva a quei tempi, l’immagine di un Dio “di parte”, monopolizzato dalle élite
dei “giusti” come legittimatore della loro presunta superiorità e del conseguente
disprezzo per gli altri gruppi sociali, come emerge anche chiaramente nella parabola
del pubblicano e del fariseo: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri
uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, o anche come questo pubblicano qui; digiuno due
volte la settimana sabatica, pago la decima su tutto ciò che acquisto» (Lc 18,11-12).
Gesù si comportava in maniera indiscutibilmente provocatoria per quel tempo e non
disprezzava affatto la compagnia dei “pubblicani”: «E avvenne che molti pubblicani
e peccatori si sedevano a tavola insieme con Gesù e i suoi discepoli» (Mc 2,15).
Gesù, dunque, non solo accettava l’invito dei pubblicani, ma si autoinvitava, come
accaduto a Gerico, in casa di Zaccheo, capo dei pubblicani (Lc 19,l).
Altro gesto di rottura di Gesù con l'ambiente del tempo, fu l’episodio di Levi: «E
passando vide Levi, figlio di Alfeo, seduto alla gabella, e gli dice: Seguimi. E
alzatosi lo seguì» (Mc 2,14). Ma anche la buona accoglienza da lui riservata a una
prostituta, dimostrerebbe la sua rottura con l’ambinete del tempo (Lc 7,36-50), tant’è
che venne presto bollato dai suoi nemici, come “amico di pubblicani e peccatori”
(Mt 11,19; Le 7,34). Giovanni addirittura, ci fa conoscere un’ulteriore infamante
accusa da parte dei suoi critici: «Non diciamo bene noi che tu sei un samaritano e hai
un demonio dentro di te?» (Gv 8,48).

43
Per un resoconto si guardi H.G. KIPPENBERG, I samaritani, in H.G. KIPPENBERG-G.A.
WEWERS, op. cit., pp.117-141, da cui R.ELIEZER (90 circa): “Chi mangia il pane di un samaritano è
come colui che mangia carne di maiale”. Vedi anche J. JEREMIAS, op. cit., p.461.
44
Questo epiteto infamante appare di riflesso anche in un racconto evangelico, quando Gesù,
rifiutandosi inizialmente di ascoltare la supplica della donna pagana siro-fenicia, risponde che non è
bene prendere il pane dalla tavola, destinato ai figli, e gettarlo ai cani (cf. Mc 7,28).
45
Cf. l'opera citata di J. JEREMIAS (pp. 471ss).

58
Gesù, dunque, ribaltando la prospettiva del tempo che vedeva Dio monopolizzato
dalle élite prevalentemente composte dai potenti di turno, ci propone addirittura
tratti di una tendenza amorosa di Dio proprio per gli esclusi ed i disprezzati.
J. Dupont, tra i tanti autori che hanno sottolineato questo aspetto di Gesù, ha
evidenziato come “l'immagine che Gesù dà di Dio”, “altra da quella del giudaismo
contemporaneo” esprime “un Dio che s'interessa molto meno ai giusti che non ai
peccatori e agli altri marginali della società religiosa”, in breve un “Dio dei
peccatori”46.
Poco più avanti il medesimo autore precisa: «Il Dio di Gesù è un Dio che non si
lascia annettere da una casta o un gruppo chiuso in se stesso. La sua maniera di
essere il Dio di tutti ne fa anzitutto il Dio degli esclusi e di quelli per i quali la buona
società religiosa non ha che disprezzo»47.
La rivelazione divina si manifesterebbe dunque “ai piccoli”: cioè gli ignoranti della
legge mosaica e delle centinaia di prescrizioni, mentre i sapienti e gli intelligenti,
conoscitori e praticanti della Torah, ne sarebbero di fatto esclusi.
A tal proposito, in Luca 10,21 troviamo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai
rivelate ai piccoli». A conferma di ciò, si veda anche la parabola del figliol prodigo
(cf. Mt 21,28ss).
Quindi, un Dio amorevole e misericordioso, svelato pienamente da Gesù, come ben
evidenziato in molteplici altre parabole evangeliche.
Gesù dunque svelandoci la grazia amorevole di Dio, il perdono dei peccatori,
l'accoglienza riservata agli ultimi, di un Dio che fa “sorgere il suo sole sui buoni e sui
cattivi”, avrebbe dunque fondato con appropriate categorie semantiche, il dovere dei
discepoli di Gesù e di quanti lo vogliano seguire, nell’amare non solo gli amici ma
anche i nemici, influenzando anch’esso l’agire sociale dei cristisni nei 2000 anni a
venire.
Gesù stesso, sembra addirittura solidarizzare proprio con “i perduti” non per
confermarli nella loro situazione di perdizione, bensì per il loro riscatto. Non per nul-
la, lui stesso si è definito: “medico impegnato in azione terapeutica” (cf. Mc 2,17).

46
Le Dieu de Jésus, in Nouvelle Revue Théologique 109 (1987) 323 (321-344).
47
23 Art. cit.,p. 329.
59
Infine, il rapporto tra grazia concessa e responsabilizzazione del “graziato”, appare
con chiarezza nel racconto della visita di Gesù nella casa di Zaccheo (cf. Lc 19,lss).
In sostanza, quello che emerge evidente, è che non esisterebbe un linguaggio
violento nelle sacre scritture fine a se stesso e dove è presente, esso è sempre
caratterizzato come giusto, equo ed imparziale. Sarebbero tutt’al più alcuni
movimenti elitari che avrebbero adottato la violenza, per perseguire dei fini
prettamente politici.
La violenza insita nel monoteismo e la nascita dei movimenti fondamentalisti,
sarebbero dunque sì ben radicati nelle tradizioni religiose proprie di queste civiltà,
ma tuttavia sarebbe nato e sarebbe stato utilizzato da determinate élite culturali, che
per evitare l'emarginazione dai centri politici e culturali, avrebbe appunto favorito la
violenza e fomentando spesso i relativi fondamentalismi.
Ad un’analisi accorta, non sfugge infatti che la violenza sarebbe stata sempre
fomentata da vecchi e nuovi gruppi intellettuali e professionali, che espropriati o
esclusi dall'accesso al potere o pensando di esserlo, avrebbero adottato,
strumentalizzato e a volte completamente stravolto le categorie semantiche presenti
nelle sacre Scritture, al fine di manipolare l’agire sociale di intere civiltà.
Il linguaggio della violenza nel monoteismo e la forza dei movimenti
fondamentalisti, così come il loro forte impatto sulle rispettive società, sarebbe
dipeso quindi più da un sentimento di estromissione vero o presunto dai rispettivi
centri della società, da parte di certe élite sacerdotali prima ed intelletttuali poi come
ben evidenziato dall’analisi delle categorie semantiche adottate per influenzare
l’agire sociale del popolo ebraico, ma anche come quello dei vari fondamentalismi
che si ispirano proprio alle Sacre Scritture.
Abbiamo dunque compreso meglio la matrice ideologica, giuridica e religiosa che
starebbe alla base della formazione dell’agire sociale violento delle popolazioni
legate alle religioni monoteiste, del cristianesimo, dell’islamismo ed in particolare
dell’ebraismo, nata in seguito di questa nuova visione del mondo: concetti innovativi
tra ordine mondano e ordine trascendentale, che grazie a queste prime élite ed alle
categorie semantiche da esse adottate, aquisirono una stabile veste giuridico-
istituzionale, continuata fino ai giorni nostri.

60
BIBLIOGRAFIA

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63
INDICE

INTRODUZIONE pag. 2

PRIMA PARTE

1.1 La nascita dell’agire sociale violento nel linguaggio religioso pag. 5


1.2 Origine del linguaggio violento nelle sacre scritture pag. 14
1.3 Origine politica della violenza nel monoteismo pag. 17
1.4 Prime conclusioni pag. 22

SECONDA PARTE

2.1 Il linguaggio violento di Dio


come categoria semantica del patto di alleanza pag. 24
2.2 Il giusto giudizo di Dio
e la creazione dei fondamentalismi religiosi pag. 26
2.3 La collera di Jahvè
come conseguenza dell’agire sociale del popolo ebraico pag. 31
2.4 Jahvè e l'assioma giuridico del ripagare il male con il male pag. 37

TERZA PARTE

3.1 Semiotica del simbolismo religioso violento nelle sacre scritture pag. 41
3.2 Semiotica dell’agire sociale violento nel salterio pag. 44
3.3 L’apocalisse: un tipico esempio
dell’invocazione di vendetta di Dio in chiave escatologica pag. 52
3.4 Lo svelamento del Padre in Cristo e
la conseguente legge dell’amore insita nell’agire sociale dei cristiani pag. 53

CONCLUSIONI FINALI pag. 58


BIBLIOGRAFIA pag. 61

64

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