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Filippo Tuena

Tre pezzi in prosa su mia madre

Edizione pdf maggio 2020

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Like a Rolling Stone
(da Nazione Indiana)

Credo che sia stato Roddy Doyle a chiedersi che impatto


poteva avere su un teen-ager il primo ascolto di Like a
Rolling Stone. Poiché sono stato teen-ager, o meglio
adolescente allora posso rispondere. Nato il 24 luglio del
1953, avevo dodici anni quando il disco uscì: l’età in cui si
passa dalla fanciullezza all’adolescenza. Perché il disco uscì
proprio il 20 luglio del 1965 negli States. In Italia, al solito,
diverse settimane dopo, certamente nell’autunno di
quell’anno. E io credo di averlo comprato – al prezzo di
cinquecento lire, più o meno – durante quell’inverno.

Like a Rolling Stone è la pietra filosofale della mia


generazione. Per anni, ormai quarantotto, ho provato ad
ascoltare il disco dall’inizio alla fine, cercando di mantenere
alta l’attenzione, provando a cogliere le infinite sfumature
che una canzone come quella può produrre. A mia
esperienza, non credo di aver mai raggiunto la terza strofa
senza perdermi nei meandri che la musica o il testo
suscitano. A volte mi distrae la Fender di Mike Bloomfield,

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o l’organo di Al Kooper, o i sonagli del tamburello in
battere. Più spesso sono i versi cantati da Dylan a
trascinarmi altrove. Dunque è davvero così? Mi dico ogni
volta, questo disco parla di me, del mio passato, del mio
futuro. Come non è possibile trattenere il pensiero al
concetto della morte per più di un brevissimo istante –
poiché il corpo e persino la ragione si rifiutano di
considerarlo un evento possibile, nonostante ogni evidenza
– così Like a Rolling Stone rifiuta l’ascolto passivo. Esige un
viaggio, suscita percorsi, mostra sentieri, indica mete
sempre mutevoli, a volte insediate nel passato, spesso nel
futuro. Paradossalmente ignora il presente perché la nostra
percezione non lo coglie se non come maschera, situazione
contingente, occasionale. E quella musica, al contrario, ha
altre architetture, forma in me campate abissali attraverso la
memoria delle centinaia e centinaia di volte che l’ho
ascoltata in questi esatti 48 anni. Il testo della canzone è
tratto da un fluviale poema di Dylan, ridotto, scarnificato a
una serie di astiose rivendicazioni di quello che
sembrerebbe un amante deluso. Il dodicenne che ero allora
ignorava tutto questo e, a quei tempi, non era neppure
facile venire in possesso del testo cantato. Il sistema per
recuperarlo, almeno in parte, era farraginoso e semplice a
un tempo stesso. S’infilava il 45 giri nel mangiadischi e
poco alla volta, al costo d’infinite esecuzioni, si cercava di
trascriverlo. Ma di quella canzone – complice la pronuncia
stretta di Dylan e la velocità del canto – rimanevano poche
frasi a chi come me, conosceva soltanto l’inglese scolastico
delle medie.
Il primo verso, innanzitutto: ‘Once upon a time you dressed so
fine’. Dunque si parla di una favola, di qualcosa di passato,
trascorso e rivissuto nel mito. Il verso seguente ‘Didn’t you?’
spiega che ci si sta rivolgendo a una donna, probabilmente,
caduta in disgrazia. Poi segue una serie di recriminazioni

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fino a quel ‘How does it feel?’ beffardo e feroce. ‘Like a
complete unkonwn, like a rolling stone?’. E qui finisce la prima
strofa. Con l’idea che sia la storia che conosciamo: la
rivincita di un perdente. Ce n’è abbastanza per
immedesimarsi. Ma con quale esperienza? A dodici anni
tutto questo è di là da venire. Verrà certamente, ma non
potevo immaginare allora come e con quale intensità.
Dunque recitavo una parte futura, immaginavo, mi lasciavo
sedurre dall’incerto. Questo per dare una prima risposta a
Roddy Doyle: l’adolescente che ascoltava la prima volta
Like a Rolling Stone ipotecava il suo futuro affettivo. Dopo
la risoluzione dell’arpeggio dell’organo di Kooper e della
chitarra di Bloomfield, nella seconda strofa, compariva una
giaculatoria incomprensibile, almeno per me, dove
catturavo la parola ‘compromise’ e poche altre: vacue of his eyes,
per esempio. Era una storia che appariva a brandelli e quel
che rimaneva nascosto lo si intuiva nella semplicità del giro
armonico, nell’esplosività dell’esecuzione, nella spaventosa
novità del tutto. La terza strofa non migliorava di molto la
mia comprensione e la quarta, forse la peggiorava perché
appariva una Princess in steeple e soprattutto un Napoleon in
rags che confondevano le acque. L’ultimo verso ancora mi
lascia perplesso. Da dove veniva questo Napoleone? Era
un matto che si credeva Imperatore dei Francesi? Ma il
senso l’avevo afferrato. Era una storia di uomini e donne
feroci. E io ero ancora un adolescente incerto. Dunque che
cosa potevo capire? Immaginare sì. Ma capire? Ora il
documentario di Martin Scorsese e il libro, mitico di Greil
Marcus, hanno svelato i misteri della canzone,
l’improvvisazione, l’occasionalità del tutto, e la sua magia.
Basta ascoltare i frammenti di takes che precedono quello
poi utilizzato per l’incisione – l’unico tra l’altro che arrivi
alla fine del pezzo e che lo ferma in una perfezione
imbarazzante. A dodici anni non sapevo tutto questo,

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ignoravo il fatto che Al Kooper fosse capitato lì per
suonare la chitarra e che l’apparizione del mitico Mike
Bloomfield l’avesse messo da parte e che, allontanandosi
un attimo Dylan dallo studio, Al sgattaiolò dentro e si mise
a strimpellare con l’organo offrendo, quasi per caso, il
colore dell’intero pezzo. Ignoravo tutto questo, ma era
lampante che quell’organo sgorgava come un dono
improvviso, geniale e semplice. Qualcosa che nella sua
elementarità poteva suonare chiunque ma che nessuno
aveva pensato di suonare. E poi c’era il colpo di rullante di
Bobby Gregg che dal silenzio, improvvisamente, abbatteva
la mannaia e faceva capire che quei sei minuti erano (e
sono tutt’ora e per sempre) fuori dal tempo. E poi la voce
di Dylan, la sua imprevedibilità e il suo camaleontismo.
Fino ad allora s’era accompagnato con la chitarra acustica e
scriveva pezzi di rivolta e adesso, scandalizzando
beffardamente i suoi fan, utilizzava musicisti rock per
raccontare una storia d’amore e odio. C’era lo sgomento
dei puristi folk (ma chi poteva soltanto paragonare i pezzi
di Peter, Paul e Mary alla vitalità che sprigionava da Like a
Rolling Stone?). Nelle riviste musicali dell’epoca (Ciao
Amici e Big) arrivavano smorzate le polemiche suscitate
dalla tournée inglese di Dylan con la nuova band elettrica
(sì, proprio la Band, quella di The Last Waltz), i fischi, i
concerti interrotti, le accuse di tradimento. La canzone con
i suoi sei minuti suggeriva tutto questo, sembrava
pretendere un palcoscenico immenso per esprimere tutto il
suo potenziale e lo esprimeva a un adolescente. Fu un
impatto spaventoso, caro Roddy, qualcosa che né i Beatles
e né gli Stones avevano prodotto. E dire che nell’estate di
quell’anno erano usciti sia Satisfaction che Help. Ora potevi
essere per i Beatles, potevi essere per gli Stones, ma dovevi
certamente essere per Like a Rolling Stone di Bob Dylan. Lui
metteva tutti d’accordo.

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Mia madre, allora quarantenne, mi chiedeva di farle
ascoltare i dischi che amavo. Era un modo per dimostrare
affetto, attenzione e forse anche un modo per darmi
importanza. Il Dylan elettrico le piaceva, molto. Il 45 giri
che avevo acquistato aveva come lato B Positively 4th Street
(dio mio com’era possibile che le due facciate di un 45 giri
contenessero tanta meraviglia!!). Era evidente che lei
preferisse quest’ultima canzone più spensierata, meno
rivoluzionaria e dunque, quando si stava insieme in salotto
o nel giardino della casa di Roma, per compiacerla, infilavo
nel mangiadischi il lato B. Aspettavo che il pezzo finisse e,
senza porre tempo in mezzo, estraevo il disco, lo rigiravo, e
lo spingevo di nuovo dentro la fessura. Sentivo il
gracchiare d’attesa dei solchi iniziali, e poi partiva quel
colpo di rullante e la canzone entrava in orbita. Aspettavo
le reazioni di mia madre, la spiavo, sperando che
canticchiasse la melodia, che battesse il tempo. Sapevo che
una volta o l’altra avrebbe compreso la meraviglia di quella
musica. Dovevo farglielo capire. Non poteva tradire le mie
aspettative. Il problema era che mi sentivo grande e
pensavo che riconoscere l’eccellenza dei miei gusti musicali
fosse una prova del mio crescere, del mio maturare. Mi
dispiaceva che mia madre non sapesse apprezzare quel che
apprezzavo io. Fu così che per tutto l’inverno e la
primavera seguente la lavorai ai fianchi con l’ostinazione
che solo gli adolescenti possiedono. Il mio mangiadischi
suonò ininterrottamente e preparavo scalette da esperto
disc-jokey perché al culmine apparisse in tutta la sua gloria
Like a Rolling Stone. Ma sempre mia madre mi diceva: “Mi
fai sentire quell’altra?”

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L’ostinazione alla fine ebbe la meglio. Accadde una sera
d’estate, l’anno successivo, nella casa di villeggiatura, sulla
terrazza di fronte al mare poco dopo cena. Eravamo lei,
mia sorella e io perché papà rimaneva gran parte dell’estate
a Roma e veniva solo nei fine settimana. Mia madre era
seduta suò dondolo azzurro, piuttosto assorta e solitaria,
forse annoiata o preoccupata per quelle lunghe assenze del
marito. Mia sorella era intenta a un solitario con le carte,
che disponeva con attenzione sul tavolo appena
sparecchiato. Io guardavo il mare e osservavo il traghetto
da Ponza, che tornava lentamente in quella notte di luna,
una notte luminosa e splendente, con una luna che si
rifletteva sul mare. Seguivo le luci del porto, che
costeggiavano il lungomare fino alla rotonda del Tirrenia e
poi più vicino a noi, fino alla curva dove la strada si
biforcava, e una parte s’impennava verso l’interno mentre
l’altra proseguiva sino a scorrere sotto il nostro terrazzo
separandoci dalla spiaggia. Potevo sentire la risacca del
mare sulla sabbia bagnata, proprio lì, a non più di venti
metri e voci di ragazzi che organizzavano la serata. Fu
allora che mia madre, con un’intonazione che non

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dimenticherò mai, disse: “Sentiamo un po’ di
musica?” Corsi a prendere il mangiadischi e la pila dei 45
giri e li portai sul parapetto del terrazzo. Cominciai a sfilare
i dischi, uno dopo l’altro, per cercare quello più adatto
all’occasione. Chiesi: “Che cosa vuoi sentire? Beatles?
Stones? Animals? Beach Boys?” “Bob Dylan.” “Positively
4th Street?” “No”, rispose lei. “Metti Like a Rolling Stone.” Si
accese una sigaretta e guardò verso la notte. Rimasi ad
ammirarla stupito, quasi incredulo mentre infilavo il disco
nel mangiadischi. Poi quel colpo di rullante diede
veramente inizio alla mia adolescenza.

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Il Martini più allegro
(una questione di sincerità)

(da Quanto lunghi i tuoi secoli, PGI 2014)

Ecco, questa è una foto di gente che ride, ho detto una


volta, riguardandola mentre m’è apparsa durante uno dei
miei infiniti traslochi, quasi vent’anni fa e almeno a
vent’anni di distanza dal momento che raffigura con tanta
giocosità. Amo questa immagine, e ho sempre pensato che
andasse raccontata la storia del perché la mia famiglia e la
famiglia del medico che aveva in cura mia madre si
trovassero a quel tavolo di un teatro di Las Vegas
nell’estate del 1977. Perché fu un’estate particolarmente
serena, da quel che appare nell’istantanea e da quel che è il
mio ricordo di quell’estate, trascorso ormai quasi il tempo
di una vita.
*

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Ora, quando s’è parlato di scrivere un racconto sul Martini,
forse per ritrosia, forse per pigrizia o perché non volevo in
alcun modo approfondire l’immersione nel passato, ho
pensato di spedire un racconto che già avevo nel cassetto,
un dialogo che tu ricorderai scrissi nel 1996, in occasione di
una messa in scena di analoghi dialoghi di coppia. Avvenne
a Roma in un teatro tra l’altro gestito da uno dei
collaboratori di questo libretto sul Martini. E dunque mi
piaceva la coincidenza e, a pensarci bene, quel dialogo ha
una sua dignità martinesca, un senso d’irrealtà, lieve
confusione, di sana follia. Quando l’ho proposto alla
curatrice del libro ho atteso senza troppa ansia il suo
riscontro. Sapevo che era ben scritto, discreto, persino
ironico e, tu sai, raramente faccio uso dell’ironia, ma quan-
do l’adopero, proprio perché non ne abuso, risulta
particolarmente efficace. In effetti le è piaciuto. Non ha
avuto nulla da obiettare e penso non ci sia nulla da
obiettare su uno scritto ben equilibrato e nitido come è
quello e com’è il cocktail che dovrebbe celebrare.
Ma l’altro giorno, mentre stavo parlando di libri a un pic-
colo festival di letteratura – e l’argomento era il rischio in
letteratura – ho dovuto ragionare sul senso di
quell’enunciato: il rischio in letteratura. Che vuol dire?
Cos’è? Un gioco o una cosa seria? E come si pratica il
rischio in letteratura?
Scegliere la strada più ardua, frequentare l’abisso, non ave-
re paura di sporgersi per osservarlo in profondità. Son
queste le cose che fanno della letteratura un rischio. E poi,
cercare di rendere il più possibile nitida la ricostruzione
della realtà quale ci appare per come sappiamo riprodurla.
Al meglio di come sappiamo riprodurla e anche si tratta di
percorrere il limen orientale, quello minacciato dagli
invasori più pericolosi e spietati.

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Dunque non solo rischio, ma anche attenzione, cura, origi-
nalità. A queste cose ho pensato nelle ultime settimane e
soprattutto negli ultimi giorni dopo aver, da un piccolo
pulpito, ragionato sul rischio che deve affrontare uno
scrittore.
Rimanendo a termini minimi, ma eleganti, il rischio lettera-
rio non è differente dal rischio del bartender: raggiungere
un equilibrio perfetto o quasi tra le varie componenti del
cocktail. Dico componenti e non ingredienti, a ragione. E
tu sai che è così, perché non bastano gli ingredienti nelle
giuste proporzioni per fare un buon cocktail. Occorrono
varie e diversissime componenti. Dalle più semplici – il
bicchiere adatto, la temperatura esterna, l’umidità dell’aria,
la quiete del luogo dove si prende quel cocktail, la
compagnia a quelle più complesse, come lo stato d’animo
di chi lo beve o di chi ti osserva berlo, per esempio. Un
umore variabile o una compagnia scadente possono
rovinare il miglior Martini del mondo.
Ora in quel dialogo, di per sé inappuntabile, io percepisco
una stortura. E non risiede nel dialogo in sé, ma
nell’assenza di rischio. Ci fu, mentre lo scrivevo nel 1996
una certa presenza di rischio che lo rendeva necessario e
che me lo ha fatto amare e che me lo fa amare ancor oggi
ma come potrei ribadire quel rischio e rinvigorire quel
racconto se ripubblicarlo oggi mi sembra quasi un ripiego,
una cosa semplice?
Ecco, rileggendo quel racconto, o solo ripensandoci ho
l’impressione di trovarmi a bere un Martini con un
estraneo, con qualcuno che mantiene un segreto, con
qualcuno che non corrisponde la pulsione affettiva che
cerco di dimostrare. Via, senza farla tanto lunga, quel
racconto corre il rischio di mandarmi per traverso l’intero
libretto, mi son detto quando ho cominciato a scriverti per
chiarirmi le idee.

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Dunque ragiono da tempo su un’alternativa; qualcosa che
racconti di uno o più Martini importanti: il primo o il più
buono, o il più malinconico.
Per quanto vada indietro con la memoria non sono in
grado di rammentare il primo Martini che ho bevuto. A un
certo punto, ogni immersione nelle profondità della
memoria si esaurisce in acque scurissime, mai toccate dai
raggi del sole: nero assoluto. Potrei lavorare di fantasia e
creare un ‘primo Martini’ plausibile ma incorrerei nello
stesso errore del dialogo: inventerei.
Quanto al Martini ‘più buono’ spero sia uno degli innume-
revoli che ho fatto io, a casa, per mia moglie o per una
ristretta cerchia di amici o familiari. Con buona pace dei
barman che hanno sottoposto al mio palato la loro
‘versione dei fatti’ il Martini è bello farselo da soli, variare
un poco la composizione secondo l’umore del momento.
Affettivamente ne ricordo come notevole uno bevuto con
papà e Riccardo al ‘Baretto’ di via Condotti. Il ‘Baretto’
non c’è più e neanche le persone con cui l’ho bevuto.
Dunque io sono l’unico testimone di quell’evento. Una
cosa triste. Non mi va di rammentarlo.
Il più sportivo certamente quello che Sergio portò nel ther-
mos e che ci bevemmo in curva, alla finale di coppa Italia
Inter–Lazio e che poi la Lazio vinse e tornando, Cosimo,
che era bambino, sventolava la bandiera, e i tifosi dell’Inter
lo guardavano con affetto.
Il più malinconico dev’esser senz’altro uno dei tanti che ho
bevuto da solo, ma non so sceglierlo o non voglio
ricordarlo. La solitudine e la malinconia offuscano i ricordi
e annullano le diversità e poi, in fondo, tutti i drink in
solitario si assomigliano.
Quello che ho bevuto in quella sera a Las Vegas, a
giudicare dai sorrisi di noi tutti, è stato forse il più allegro.
E credo che sia l’unico che abbia una documentazione

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fotografica. Dunque so che è esistito quel Martini, non è
frutto della mia fantasia. E so che è stato molto allegro.
Non è un Martini seduttivo, anche se al tavolo c’erano due
graziose ragazze, le figlie del tuo medico. Ma c’eravate voi e
c’erano i genitori delle due ragazze, dunque sarebbe stato
impossibile esercitare qualsiasi arte seduttiva, ammesso che
ne possedessi alcuna, in quell’estate, l’estate del mio
ventiquattresimo anno.
Mi fa impressione pensare che papà, il primo da sinistra,
che si volta sornione verso l’apparecchio fotografico avesse
allora cinquantaquattro anni, sei di meno di quanti ne abbia
io adesso, e che in quella foto io abbia la medesima età che
ha mio figlio oggi. È motivo di confusione ritenersi
maggiore d’età di un padre e coetaneo di un figlio. Ma
questo accade sovente quando si osservano con intensità
vecchie fotografie di gruppo.
Ricorderai, qui il gruppo di gente che ride è ritratto al
tavolo di un teatro di varietà del Cesar Palace di Las Vegas.
Siamo appena arrivati in città, abbiamo preso posto nelle
camere dell’albergo, ci siamo cambiati d’abito e siamo scesi
nella hall dove abbiamo visto l’affiche di questo spettacolo
che a qualcuno di noi è apparso degno d’attenzione. Ed
eccoci al tavolo dopo aver ordinato vino della California,
un paio di bevande analcoliche (le due ragazze non
potevano bere alcolici, ricordi?) e due o tre Martini, serviti
in orride coppe da champagne.
Aspettavamo che iniziasse lo spettacolo quando apparve la
fotografa. In realtà non fu una sorpresa: l’avevo notata che
si aggirava tra i tavoli e scattava fotografie. E come potevo
non notarla? Era vestita con un peplo–minigonna bianco,
aveva una spalla nuda, calzava sandali alla schiava e i capelli
erano raccolti in un’acconciatura che sembrava un cono
gelato all’incontrario. Era biondissima, alta un metro e
ottanta e giovanissima. Chiese se volevamo la fotografia e

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ci mettemmo in posa, come ci vedi. Io e papà che lumiamo
la ficona, Francesco che fa finta di non averla notata e le
donne del tavolo che sorridono variamente e in diverse
direzioni.
Poi iniziò lo spettacolo. Sul palcoscenico si alternavano il-
lusionisti che facevano sparire vallette, acrobati bulgari che
eseguivano salti mortali sui trampoli, domatori di leoni,
lanciatori di coltelli con le camicie di lamè, e noiosissimi
clown che parlavano molto velocemente, tenendo per
mano un paio di scimpanzè vestiti da poppanti. Una cosa
tristissima, ma eravamo euforici e il secondo giro di Martini
ci aveva resi disponibili a ridere di ogni sciocchezza.
Più tardi la ficona in peplo riapparve con una stampa della
fotografia. Con una determinazione tutta femminile si
avvicinò a me mostrandomi la foto e lasciandomi un
biglietto. Mi disse indicando alcune scritte a penna:
«That’s the number of the photo. That’s my name. And
that’s the number of my room. If you need». E se ne andò
sculettando.
Per i pruriginosi devo confessare che a lungo, durante le ri-
dicole esibizioni dei saltimbanchi pensai, una volta tornato
in camera, di chiamare la fotografa in peplo e di svoltare
così la notte. La cosa rimase nelle intenzioni, come molte
delle idee che balenano nella mente e che hanno bisogno di
un paio di atti di volontà per realizzarsi: mentre compi il
primo, il secondo, quello decisivo, si volatilizza. Senza
eccessivi rimpianti. Insomma, con qualche rimpianto se
ancora ci penso.
Tornando all’immagine, la fotografa in peplo aveva buon
occhio e certamente si sarà chiesta perché queste due
famiglie allegre fossero sedute attorno a un tavolo di un
teatro di varietà di Las Vegas. Il merito o l’occasione vanno
attribuiti alle due persone che siedono ai margini del lato
destro del tavolo e che siete tu, sul fondo e il tuo medico,

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in primo piano e che, per una curiosa circostanza, non
guardate l’obiettivo.
È cosa che tu sai perfettamente, ma forse devo raccontarla
qui perché si capisca l’illusione di quell’allegria che
sprigiona dalla fotografia.
*
Era l’estate di cinque anni prima. Nel 1972.
Per me era l’estate del dopo maturità e sarebbe passata alla
memoria come l’estate dello champagne nella casa di
Beatrice e Gaia (e delle loro madri, Paola e Patrizia) – una
torre d’avvistamento arroccata sugli scogli con una scesa a
mare che conduceva a una caletta deliziosa. Eravamo tre o
quattro amici e tutti i giorni ci presentavamo con una
bottiglia di champagne da bere in compagnia delle nostre
ospiti. La spensieratezza delle mattine d’estate e dei tuffi
dalla scogliera. Bei momenti.
Sarebbe stata l’estate dello champagne, così come quella del
1977 sarebbe stata l’estate dei Martini americani, se non
fosse accaduto che durante una breve visita alla casa di
Roma, – ricordo la penombra delle serrande abbassate, i
lenzuoli stesi sui divani, i mobili e i lumi e quel profumo di
cera passata generosamente sul parquet – mia madre eluse
la mia impacciata guardiania – sempre i diciannovenni sono
impacciati quando devono controllare persone divorate
dall’ansia – e si diresse estremamente determinata in
direzione del bagno in fondo al corridoio delle camere da
letto dove, dimenticato o nascosto (nessuno di noi è mai
riuscito a saperlo con precisione) era conservato un certo
numero di pastiglie tranquillanti che lei assumeva da tempo
per combattere quella che allora era conosciuta come
depressione femminile o “esaurimento nervoso”. Ora, io
avevo avuto incarico da mio padre di controllarla
continuamente e avevo cercato di farlo, persino
inseguendola sino alla porta del bagno ma lei ne era uscita

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quasi subito e, sorridendo, mi aveva chiesto: «Che fai? Mi
spii?». Se ripenso il sorriso che incrociai allora era molto
diverso da quello che compare nella fotografia.
Apparentemente rassicurante. In realtà era un sorriso
diabolico, di quelli che ti fottono da quanto sono efficaci,
da quanto sanno ingannare. Tornammo alla casa del mare e
durante il viaggio fu tranquillissima. Mangiammo – lei era a
capotavola e sorrideva da perfetta padrona di casa (c’erano
ospiti un paio di amici di mia sorella) e poche ore dopo lei
giaceva in un letto dell’ospedale di Orbetello, dopo una
lavanda gastrica che l’aveva, come si dice, “presa per i
capelli”.
Fu in quella circostanza che conoscemmo Francesco, il
medico vicino di casa che era accorso ai primi sintomi
dell’avvelenamento e che l’aveva seguita nei giorni
successivi.
L’estate dello champagne finì quella notte e si tramutò
nell’estate della malattia di mamma. Nel settembre fu
ricoverata nella clinica di Francesco. Fu ancora sorpresa
mentre cercava di commettere sciocchi tentativi di suicidio,
come quello d’ingerire funghi che crescevano alla base
degli alberi del giardino della clinica (e che lei sperava
essere velenosi), o annodarsi la cinta della vestaglia di
cotone attorno al collo e provare a tirarla per soffocarsi.
Seguì così l’autunno delle visite in clinica, dei pranzi nella
sala al pianterreno, accanto agli alcolisti che cercavano di
disintossicarsi, ai miei coetanei tossicomani grigi in volto e
silenziosi, al maniaco depressivo che raccoglieva scatoloni
fuori dalla porta della sua camera e su cui scriveva a
pennarello con una bella calligrafia (era un famoso
architetto): «da non buttare. Assolutamente».
Un giorno sentii parlare di elettroshock. E credo, adesso,
che effettivamente fosse l’unica possibilità di curarla. Un

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paio di mesi dopo tornò a casa, stordita, molto impaurita
ma apparentemente in una fase recessiva della malattia.
Ma tra paziente e medico e tra la famiglia della paziente e
quella del medico s’era stabilita un’amicizia sincera. Co-
minciammo forse a bere Martini quando andavamo a casa
di Francesco o forse quando loro venivano da noi. Era una
piccola cerimonia beneaugurante, che allontanava la
malattia di mamma e rendeva tutti un po’ allegri. Del resto
nessuno di noi ne abusava, chi per questioni professionali,
chi per questioni di pillole tranquillanti che continuavano a
fornire un instabile equilibrio, e fu durante una di queste
cene che venne fuori l’idea di un viaggio negli Stati Uniti,
noi e loro. La questione era legata anche al fatto che
mamma non sarebbe mai andata oltre Atlantico senza il
suo medico. Dunque eravamo legati a doppio filo.

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Quel viaggio lo facemmo cinque anni dopo, tanto era
durata l’incertezza e la paura d’allontanarsi da casa.
Ricordo che bevemmo Martini nell’aereo che ci portava a
San Francisco. Graziose mini bottigliette di Martini già pre-
parati. Mica male da prendere sopra l’Atlantico. Bevvi il
mio primo Martini americano nella hall del Fairmont Hotel
mentre aspettavo i miei per andare a cena. Un po’ stordito,
per il fuso orario più che per il Martini. Quando scesero,
mi dissero: «Ah, un Martini da solo?! Non si fa». E mi
tennero compagnia. Bevemmo un Martini non tanto
buono al Fisherman’s Wharf. E molti altri, noi sempre più
affiatati, perché il viaggio proseguiva in allegria e perché
mia madre sembrava aver allontanato le paure che
l’attanagliavano sempre. E arrivò il Martini di Las Vegas,
che fu anche la sera “della fotografa in peplo che mi diede
il suo numero di camera” e che svetta con una sua origi-
nalità nel congruo numero delle mie occasioni mancate.
La storia non finisce bene. Col tempo le crisi di mia madre
si fecero sempre più frequenti e devastanti. Morta lei, una
sera che eravamo insieme, forse fattosi coraggio grazie
all’abituale Martini che inaugurava le nostre serate,
Francesco, complice la sincerità che scaturisce dalla
consuetudine, ci disse: «Ci penso spesso. Credo che non
sarebbe mai guarita».
*
Ora, io ogni volta, ma proprio ogni volta che bevo un Mar-
tini – e sarà accaduto migliaia di volte, dovunque io sia e
con chiunque lo beva, – ma il Martini lo bevi in compagnia
delle persone che ami o a cui vuoi bene – per un
brevissimo istante mi allontano dal luogo dove mi trovo e
torno a quel teatro di Las Vegas, poco prima che inizi lo
spettacolo di varietà che eravamo andati a vedere e ricordo
i sorrisi di tutti noi e il tempo trascorso sembra annullarsi e

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guardo la ragazza vestita da schiava romana che sta
scattando la fotografia, che aveva segnato il suo numero di
stanza e aveva dato a me, forse il più appetibile degli
uomini, il biglietto con l’invito a contattarla. Mi volto poi
verso di te, che sei seduta in fondo al tavolo e che sei un
po’ assente dalla scena, ma tuttavia sorridi perché quel
momento dev’esserti sembrato perfetto. O quasi perfetto.
Questo volevo dire, a chi partecipa con me alla cerimonia
del Martini e mi vede per un attimo assente, e nota
un’impercettibile piega formarsi ai bordi delle labbra che si
trasforma in un piccolo sorriso mentre avvicino il bicchiere
alla bocca e sento il profumo di ginepro e l’aspro delle
cipolline e la punta speziata del pepe macinato (perché così
a me piace prepararlo), ecco, in quel momento torno al
Martini più allegro, ancorché di un’allegria transitoria
perché l’allegria è transitoria, lo racconta anche questa
fotografia dove c’è gente che pure ride per l’eternità come
mi piace immaginare.
Era una cosa che andava messa per iscritto. L’ho fatto
quasi per un puntiglio, – me lo perdonerai – o forse per
una semplice onesta questione di sincerità verso il mio
mestiere di scrittore.

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Un libro e un biglietto ferroviario

(da ‘Le galanti’, pagg. 621-627)

Mi accorgo che questi appunti parlano soprattutto di addii


e ricongiungimenti e che lo struggimento che mi prende
quando mi confronto con queste opere è pari a quello che
provo quando m’intenerisco per qualche circostanza
fortuita – una cartolina, un biglietto, un gingillo o un dono
d’amore che riappare a distanza d’anni tra le pagine di un
libro che sfoglio e solo in quel momento misura la di-
stanza intercorsa e riaccende se non il dolore almeno la
tenerezza per quel che è andato storto o che era,
effettivamente, impossibile risolvere diversamente. Non
bisognerebbe guardarsi troppo indietro ma il nostro futuro
è tutto nel ricordare il passato. Ora gli album delle
fotografie sono nascosti dietro gli sportelli di destra della
libreria di rovere e tutto potrei sopportare adesso, a
quest’ora che precede l’alba, tutto tranne il prenderli in
mano, sfogliarli e andare a scegliere una fotografia che ci
rappresentasse proprio in uno di quei momenti di euforia
giovanile; ma se l’atto volontario è escluso dalla ragionevo-
lezza e dall’esperienza non così il ritrovamento fortuito di
quel che possono nascondere e poi mostrare i libri che
sfogliamo in maniera occasionale. Quel genere di tuffi del
cuore non si possono prevedere e quando accadono sono
devastanti.

A volte so quando ho comprato certi libri; rammento


l’anno, il mese, le circostanze, persino la libreria dov’è
avvenuto l’acquisto. Devo questa precisione chirurgica al
fatto che ho l’abitudine d’inserire lo scontrino d’acquisto
nei volumi, come segnalibro.

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A volte so quando ho letto certi libri; rammento l’anno, il
mese, le circostanze, persino il treno e la linea ferroviaria
che percorrevo mentre li leggevo. Devo questa precisione
chirurgica all’abitudine d’inserire il biglietto ferroviario nei
volumi, come segnalibro.

Può accadere che, per un certo numero d’anni, quel libro


poi giaccia intonso nella libreria di casa per tornare
all’improvviso, per qualche necessità immediata:
rammentare una frase, cercare una coincidenza, richiamare
una situazione. Allora riappare lo scontrino d’acquisto o il
biglietto ferroviario e il tempo fa un balzo all’indietro.

La mia edizione delle Eroidi di Ovidio è quella classica


della «Collezione di Poesia», insomma la cosiddetta «collana
bianca» Einaudi. È tradotta da Gabriella Leto e pubblicata
per la prima volta nel 1966. La mia copia non è preziosa, fa
parte della terza edizione, finita di stampare il 21 maggio
1977, così precisa il colophon: Ristampa identica alla
precedente. Pensavo d’averla comprata per qualche esame
dell’università – Ovidio è necessario agli studenti di Storia
dell’Arte – ma non è stato così. Nel 1977 avevo
praticamente finito gli esami di Storia dell’Arte; me ne
mancavano due che ritardai a dare per molti motivi: l’anno
nero dei colpi di pistola alla Sapienza e poi il 1978, anno
del servizio militare. Insomma me la presi comoda. Del
resto aiutavo mio padre nel negozio e l’università sembrava
ormai una formalità priva d’interesse. Non avrei intrapreso
né la carriera universitaria né quella della Soprintendenza.
Dunque mi dedicavo ad altro. Ma per Ovidio ho sempre
avuto una passione e dunque comprai quel volume non per
l’università, ma per mio piacere personale. Tempo prima
mia madre mi aveva regalato una bella edizione delle
Metamorfosi, nella traduzione di Ferruccio Bernini, edita

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da Zanichelli, acquistata in una libreria di via Salaria, vicino
casa, ormai chiusa da tempo. L’avevo letta con passione e
l’acquisto delle Eroidi deriva probabilmente dal piacere che
avevo provato nell’immergermi nel mondo fantastico di
Ovidio. Tuttavia non ricordo con precisione quando lo
acquistai. Accadde certamente in una data tra il maggio
1977 e l’agosto 1984 perché in quel mese l’avevo con me
durante un viaggio in treno, facendo fede il biglietto
ferroviario che è inserito nelle sue pagine da quel giovedì
30 agosto 1984, dunque da 34 anni.

Rivedendo la copertina, molto sobria – la semplice


riproduzione di alcuni versi – rammento immediatamente
cosa mi colpì in quel testo e quale fu l’atto d’impulso che
mi convinse a spendere 3500 lire (tanto allora costava quel
volumetto):

Mi chiedi cosa dico in tutto questo tempo:


ho sempre sulle labbra il tuo nome, Leandro.
In quegli anni, durante quel viaggio m’immaginavo Chiara
che attendeva palpitante il suo Leandro, ed io che

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percorrevo i flutti agitati della linea ferroviaria per
raggiungere la mia bella. Ricordo perfettamente il viaggio
Roma Termini – Orbetello-Monte Argentario di fine
stagione. La donna che il 6 ottobre successivo avrei
sposato si trovava nella casa di Ansedonia con Martina, che
allora aveva 8 anni. Ancora una settimana e si sarebbero
trasferite a Roma in previsione del matrimonio e per
consentire a Martina di iniziare l’anno scolastico
regolarmente: cose pratiche, dettate dal buon senso.
Io mi trovavo a Roma e in quei giorni avevo chiamato gli
operai che dovevano lamare il parquet della casa dove
avremmo abitato, in via Raffaele Cappelli 26 e dunque
facevo la spola tra la galleria antiquaria e la casa. Gli ultimi
preparativi: dopo la lamatura del parquet ci sarebbe stato il
trasloco dei mobili di Chiaretta, da Milano a Roma, e mio,
da Roma a Roma. La casa si sarebbe riempita del bagaglio
delle nostre esperienze, dei nostri successi e fallimenti;
insomma le cose che si portano dietro due persone, come
diceva allora Mimmo Locasciulli, «intorno a trent’anni».
Partii da Roma nel primo pomeriggio. Ricordo il treno
quasi deserto. Allora, nel 1984, la zona a nord di Roma non
era ancora periferia della capitale; pochi pendolari, quasi
nessun extracomunitario o rumeno ad affollare i vagoni;
rari viaggiatori che scendevano quasi tutti a Civitavecchia e
poi la Maremma, che era ancora una zona quasi desertica.
Del resto, un giovedì di fine agosto quasi nessuno partiva
da Roma diretto a nord. Ricordo il pomeriggio assolato e la
campagna di fine agosto; mi faceva venire alla mente un
racconto di Tabucchi che parlava di un viaggio in treno
sulla stessa linea tirrenica.
Avevo l’Ovidio, avevo un walk-man e ascoltavo – anche
questo lo ricordo benissimo – una cassetta con la
registrazione del quartetto in Si bemolle di Beethoven, l’op.
133. Proprio adesso, ho messo quell’interpretazione del

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Quartetto Italiano e mi lascio cullare, come allora, dalla
Danza tedesca, una piccola gemma tradizionale in
contrasto con il resto della composizione, con le arditezze
della fuga finale, così tanto ardita e così tanto indirizzata al
futuro che, in ultimo, Beethoven aveva deciso di
pubblicarla come pezzo autonomo.
Da quel viaggio, quel brano di musica mi procura sempre
una forte inquietudine: qualcosa me lo fa amare ma c’è
anche qualcosa da cui sento di dovermi tenere alla larga.
Non so. Anche quando tempo addietro, a Vienna, uscendo
dalla casa di Freud a Berggasse e proseguendo lungo la
direttiva stradale verso ovest, lungo la Schwarzspa-
nierstrasse, passai accanto alla casa dove Beethoven
compose questo e gli ultimi quartetti, quel sapore amaro –
desiderabile ma ostile – è tornato. Penso sempre che sia a
causa di quel viaggio in treno, anche se la melodia mi strega
e la sottile malinconia che la colora mi trasportano sempre
altrove.
Non ricordo se allora vi fossero le biglietterie automatiche
o se, pur essendoci, fossero poche e affollate. Certamente
affollate erano le biglietterie tradizionali della stazione
Termini; quelle lo erano sempre; una prospettiva quasi
infinita che si sviluppava lungo tutto l’immenso salone
d’ingresso; le balaustre tubolari e le finestre dei bigliettai.
Probabilmente arrivai tardi alla stazione e presi il treno
senza biglietto. Del resto, come si vede, la multa era
relativa; anzi, non era neppure una multa, ma un «diritto
per esazioni suppletive» che corrispondeva pressappoco al
50 per cento del prezzo del biglietto – non poco, ma il
costo del viaggio in seconda classe era risibile – e il
sovrapprezzo accettabile. E poi, insomma, andavo al mare
a passare un lungo fine settimana con la mia futura e
prossima sposa – il matrimonio era stato fissato per il 6
ottobre.

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Chiara venne a prendermi alla stazione di Orbetello e non
so se andammo a cena fuori con Martina o se mangiammo
a casa. Parlammo di qualche questione pratica a proposito
del trasloco e del matrimonio. Ricordo che al mattino
successivo andammo al mare in Feniglia e a testimoniare
questo fatto ci sono ancori pochi finissimi granelli di sabbia
tra le pagine del libro, perché finissima è la sabbia della
Feniglia e s’insinua nella rilegatura con facilità e neppure
dopo 34 anni vuole abbandonare quella specie di piega del
tempo dove s’è annidata.
Il pomeriggio del 31 agosto andammo a Orbetello e,
passeggiando lungo il corso decisi di fermarmi al bar Rossi
dove c’erano le cabine telefoniche (nel 1984 non esistevano
i cellulari e Chiara non aveva il telefono a casa, dunque si
poteva telefonare solo dai bar di Orbetello o di
Ansedonia). Così telefonai ai miei, perché partendo il
giorno prima avevo sentito che mia madre aveva qualche
linea di febbre. Parlai con mio padre che appunto mi disse
che mia madre era peggiorata e per tanti motivi che non
sto qui a ridire si pensava se ricoverarla o meno in una
clinica. Poiché sembrava una decisione da prendere in
maniera collegiale e in casa si aspettava l’arrivo del medico
pensai che sarebbe stato meglio essere presente e dunque
non appena terminai la telefonata uscii dalla cabina, dissi a
Chiara di accompagnarmi alla stazione che avrei preso il
primo treno per Roma e poiché c’era ancora tempo prima
del primo treno per Roma passammo a casa e presi
l’Ovidio e la cassetta con la registrazione degli ultimi
quartetti di Beethoven e finalmente dopo circa un’ora dalla
telefonata salii sul treno che doveva ricondurmi a Roma e
in quel viaggio lessi l’Ovidio e ascoltai la Danza tedesca del
quartetto in Si bemolle di Beethoven e arrivai in tempo a

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casa a salutare mia madre che all’alba del giorno successivo
avrebbe cessato di vivere.

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