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Non v’è alcun dubbio che il progetto europeo sia stato disegnato per costruire la pace
ridimensionando il carattere di onnipotenza di cui nel corso degli anni si era rivestito il nazionalismo
statale come indiscutibile forma di aggressività.
Negi ultimi decenni l’ampliarsi dei flussi migratori ha portato al ridimensionamento della coscienza
nazionale, ponendo così in termini nuovi il problema della legittimazione dello Stato.
Con il termine globalizzazione si intende il processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro
sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transazionali, dai loro
orientamenti, identità e reti, che secondo Bauman, comporta la compressione dello spazio e del
tempo. Le stesse identità etnica e religiosa si determinano fuori dei confini territoriali dando vita
anche a forme nuove di nazionalismo ultrastatale.
È quindi chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non cono strumenti politici
globali, restituendo alle istituzioni la possibilità d’interpretare la volontà e gli interessi delle
popolazioni.
È necessario riorganizzare lo Stato, con radicali cambiamenti per adattarlo al nuovo contesto, non
sostenendo un’imminente scomparsa degli Stati nazionali, che svolgono ancor’ oggi un ruolo
importante.
Strettamente connesso al valore della pace è l’affermarsi della tutela dei diritti fondamentali della
persona: alcuni diritti appartengono agli esseri umani come tali e ciò è sancito dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite approvata nel 1948.
Questa concezione si consolida con la nascita, l’anno successivo, del Consiglio d’Europa e la
stipulazione, nel 1950, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. Per la prima volta si riconoscono gli effettivi poteri d’azione non più solo agli Stati, ma
anche ai singoli individui.
Il cammino verso l’integrazione di carattere politico fra gli Stati membri, è ancora ricco di ostacoli: il
Trattato di Lisbona, pur introducendo importanti modifiche, non ha modificato l’impianto politico del
sistema tuttora fondato sul controllo degli Stati Nazionali.
Con tale Trattato l’Unione resta comunque fondata sul principio di attribuzione, secondo il quale
l’Unione agisce nei limiti rigorosi delle competenze che ad essa sono conferite.
L’assenza di un quadro politico – istituzionale di tipo federale pone un ulteriore problema di notevole
portata: il deficit dell’istituzione parlamentare europea, dovuta soprattutto allo scarso rilievo da essa
assunto. Solo con il Trattato di Amsterdam si è formalmente sancito che il principio della democrazia
si applica anche all’Unione.
Alla base dell’UE troviamo una doppia struttura di legittimità, costituita sia dalla totalità dei cittadini
dell’Unione sia dai popoli dell’Unione organizzati nelle costituzioni dei corrispettivi Stati membri.
È innegabile che la democrazia, fermandosi ai confini nazionali, mostra preoccupanti segni di
debolezza. Essa ha perso il contatto con i grandi problemi e rischia di ridursi a governare aspetti
secondari della vita politica. Il popolo rischia di essere progressivamente escluso dal controllo delle
questioni determinanti per il suo avvenire. Il processo di globalizzazione, moltiplicando i problemi
che possono avere solo una soluzione a livello mondiale, mette in crisi la democrazia.
In un’Unione Europea della quale fanno parte 28 (ma è uscita l’Inghilterra) membri, alcuni dei quali
dichiaratamente contrari ad ulteriori forme d’integrazione politica, è illusorio pensare ad una graduale
trasformazione della struttura attuale in senso federale, e diviene invece inevitabile porsi nell’ottica
dell’iniziativa di alcuni Stati che, con un atto di rottura rispetto ai Trattati esistenti, decidano di dar
vita ad un primo nucleo di effettiva integrazione politica e sottopongano un progetto chiaro ai
cittadini.
L’ultima tappa significativa del processo d’integrazione europeo ha avuto inizio con la Dichiarazione
Schumann del 9 maggio 1950, e raggiunta con la firma, del Trattato di Lisbona, il 13 dicembre 2007
(entrato in vigore nel dicembre 2009). Tale riforma si concretizza con il Trattato sull’Unione europea
(TUE) con il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Con il Trattato di Lisbona, l’Unione acquisisce la personalità giuridica, e vi sono numerosi aspetti
positivi:
- Cittadinanza dell’Unione;
- Principi democratici;
- Figura del Presidente del Consiglio europeo,
- Miglioramento della determinazione del voto a maggioranza qualificata;
- Viene generalizzata la procedura di codecisione, che diviene procedura legislativa ordinaria;
- Potenziamento della capacità d’azione dell’Unione,
Inoltre la solidarietà diviene un concetto centrale nel settore energetico, per cui l’Unione offrirà
sostegno in caso di difficoltà di approvvigionamento dei singoli membri.
Rimane invece irrisolta la questione di un’improduttiva coesistenza dell’unione monetaria e del
mercato unico.
Con il Trattato di Lisbona vengono introdotte novità soprattutto nell’aspetto istituzionale del sistema,
cercando di dare un nuovo equilibrio al rapporto tra libelli diversi di organizzazione del potere, anche
se continua ad essere presente la dimensione internazionalistica.
Il TUE all’art.1 afferma che gli stati conferiscono competenze per conseguire obiettivi comuni, e
all’art. 5 delimita le competenze dell’Unione. Quindi l’Unione non è titolare di una competenza
generale, ma solo di quelle conferitele dagli stati tramite i Trattati.
Le competenze attribuite in via esclusiva all’Unione sono solo 5: unione doganale, regole di
concorrenza per il mercato interno, politica monetaria per i paesi aderenti all’euro, la conservazione
delle risorse biologiche del mare, la conclusione di accordi internazionali.
Le competenze concorrenti sono invece relative a tutti gli altri settori nei quali i Trattati attribuiscano
all’Unione qualche competenza.
Per sette settori è prevista una semplice competenza di sostegno. Mentre per la cooperazione allo
sviluppo e gli aiuti umanitari possono essere qualificati come competenze parallele, nel senso che
l’Unione conduce una politica autonoma senza impedire agli Stati membri di esercitare le loro
competenze.
Per quanto riguarda la dimensione internazionalistica è evidenziata dalla Politica estera e di sicurezza
comune: in questo contesto la nascita della figura dell’Alto rappresentate dell’Unione a cavallo tra
Consiglio e Commissione, è certamente non priva d’interesse nel tentativo di unificare l’attività
politica estera dell’Unione.
Il Trattato di Lisbona contiene elementi interessanti legati alle novità in tema di istituzione e di
adozione degli atti giuridici. Vi è una rivisita dell’equilibrio dei poteri del Parlamento europeo: tra il
Parlamento e il Consiglio vi è un esercizio congiunto di funzioni, legislativa e di bilancio.
Il Parlamento ha il potere di eleggere il Presidente della Commissione.
Per quanto riguarda la sua composizione, è fissata ad un massimo di 750 membri, più il presidente,
attraverso il principio “degressivamente proporzionale”, con una soglia minima di 6 seggi e una
soglia massima di 96 seggi per Stato membro.
Per quanto riguarda la novità in tema di atti giuridici, è assunta come procedura legislativa ordinaria
quella fondata sull’adozione congiunta dell’atto da parte del Parlamento e del Consiglio su proposta
della Commissione. L’estensione della codecisone riguarda i settori dell’agricoltura, della pesca, dei
trasporti, dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel suo insieme.
Altrettanto interessante è l’ampia estensione, nel Consiglio e nel Consiglio europeo del voto a
maggioranza qualificata; tale estensione riguarda oltre 40 nuove materie tra le quali lo spazio di
libertà sicurezza e giustizia. Più precisamente il sistema è basato sulla “doppia maggioranza” degli
Stati della popolazione (rimangono ancora una 70ina di casi in cui decide ad unanimità).
Anche le politiche materiali sono state revisionate a partire dall’ambito dell’integrazione economica.
Su di un piano generale è stata inserita una nuova norma con cui si stabilisce che, nella definizione e
nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la
promozione di un elevato livello occupazionale, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta
contro l’esclusione sociale e un elevato livello d’istruzione, formazione e tutela della salute umana.
In materia di politica sociale, è rafforzato il riconoscimento e lo sviluppo del ruolo delle parti sociali
facilitandone il dialogo, nel rispetto della loro autonomia e della diversità dei sistemi nazionali.
Istruzione e formazione sono opportunatamente arricchite dall’inserimento dello sport del quale
l’Unione contribuisce alla promozione dei profili europei.
Riguardo alla sanità pubblica, viene estesa l’azione diretta a fronteggiare gravi minacce per la salute
a carattere transfrontaliero ed a proteggerla in relazione al tabacco ed all’abuso di alcol nonché a
fissare elevati livelli di qualità e sicurezza dei medicinali.
L’Unione elabora una politica spaziale europea promuovendo iniziative comuni, sostenendo la
ricerca e lo sviluppo tecnologico e coordinando gli sforzi necessari per l’esplorazione e l’utilizzo
dello spazio.
Un apposito Titolo XXI ed una specifica norma costituiscono la base giuridica per la politica
dell’Unione nel settore dell’energia fondata, come si è detto, sull’esigenza di perseverare e migliorare
l’ambiente e caratterizzata da uno spirito di solidarietà tra gli Stati membri. Essa ha il compito di
garantire il funzionamento del mercato dell’energia, la sicurezza dell’approvvigionamento energetico
nell’Unione, promuovere il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie
nuove e rinnovabili, promuovere l’interconnessione delle reti energetiche.
Tra i settori di azione complementare dell’Unione è stato inoltre inserito il turismo per incoraggiare la
creazione di un ambiente propizio allo sviluppo delle imprese, nell’ambito della competitività fra di
esse, e favorire la cooperazione tra Stati membri, in particolare attraverso lo scambio delle buone
pratiche.
Una nuova base giuridica è introdotta anche in tema di protezione civile, al fine di rafforzare
l’efficacia dei sistemi di prevenzione e di protezione dalle comunità naturali e provocate dall’uomo.
A tal fine è stato istituito il Meccanismo europeo di protezione civile quale strumento dell’Unione
avente il compito di rispondere tempestivamente e in maniera efficace alle emergenze che si
verificano su un territorio interno o esterno all’Unione.
Allo scopo di rendere più efficienti gli interventi in tutti i settori e migliorare il necessario
coordinamento con gli Stati membri, è inoltre prevista una cooperazione amministrativa con questi
per aiutarli ad attuare il diritto dell’Unione facilitando lo scambio d’informazioni e di funzionari
pubblici e sostenendo programmi di formazione.
Nel complesso, con l’acquisizione della personalità giuridica, l’intera Unione si procura un evidente
vantaggio rispetto alla sua capacità d’azione sulla scena internazionale.
L’intero settore, tuttavia, resta ancorato al criterio decisionale dell’unanimità, salvo alcuni casi
marginali.
È comunque ribadito l’impegno per cui gli Stati dell’Unione anche membri del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite si concertano e tengono pienamente informati gli altri Stati membri e l’Alto
rappresentate. Ed è anche simbolicamente indicativo che quest’ultimo sia invitato dagli Stati membri
a presentare la posizione dell’Unione, eventualmente definita, su di un tema all’ordine del giorno del
Consiglio di sicurezza.
Bisogna segnalare la nascita di un’ Agenzia nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della
ricerca, dell’acquisizione e degli armamenti, che è incaricata di individuare le esigenze operative,
promuovere misure per rispondere alle stesse, contribuire a individuare e mettere in atto qualsiasi
misura utile a rafforzare la base industriale e tecnologica del settore della difesa, partecipare alla
definizione di una politica europea delle capacità e degli armamenti, e assistere il Consiglio nella
valutazione del miglioramento delle capacità militari.
La politica in materia di sicurezza è basata sulla clausola di solidarietà: se è uno stato membro è
oggetto di un attacco terroristico, o una calamità naturale, è prevista l’istituzione di un Corpo
volontario europeo di aiuto umanitario.
Rispetto alla politica commerciale comune, l’ampliamento delle relative competenze è affiancato da
un deciso rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo chiamato ad una approvazione preventiva
in particolare per gli accordi di associazione e di cooperazione.
Maggiori innovazioni sono riscontrabili nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. La
relativa disciplina è saldamente ancorata al rispetto dei diritti fondamentali per cui la politica comune
in materia di asilo, immigrazione e controllo sulle frontiere esterne è basata sulla solidarietà tra Stati
membri ed equa nei confronti dei cittadini di paesi terzi.
Il processo d’integrazione europea deve misurarsi con il problema della cittadinanza e di un popolo
europeo.
L’opportunità di dotare simile figura giuridica di primi livelli di autonomia è alla base della
circostanza per cui il Trattato di Lisbona afferma all’art.9 TUE che “La cittadinanza dell’Unione si
aggiunge alla cittadinanza nazionale”.
Questa nuova espressione utilizzata nel TUE suggerisce probabilmente l’intenzione di giungere a
conferire all’Unione il potere di attribuire la propria cittadinanza secondo un’autonoma
regolamentazione giuridica.
Nell’epoca della globalizzazione diviene fondamentale la condivisione dei valori fondamentali posti
alla base del vivere quotidiano, ma soprattutto per la costruzione di un destino e di un futuro politico e
sociale condiviso.
In questo senso va sottolineato l’inserimento, fra i valoro e obiettivi dell’Unione, del nuovo principio
di solidarietà. Nel TUE, è considerata come obiettivo da perseguire nei rapporti intergenerazionali
nonché in quelli tra Stati membri rispetto alla coesione economica, sociale e territoriale oltre che nella
costruzione della pace e del rispetto reciproco tra i popoli, tanto da dover caratterizzare l’azione
esterna dell’Unione verso Paesi terzi, ma anche fra gli stati membri.
Non va quindi sottovalutato il maggiore rilievo attribuito al principio di sussidiarietà nella sua
dedicata funzione di contemperare le esigenze dell’integrazione con quelle di non allontanare in
maniera ingiustificata il luogo delle decisioni delle sedi istituzionali più vicine ai cittadini.
La realtà europea si basa su una collaborazione integrata fra ordinamenti giuridici, proprio per questo
il Trattato di Lisbona, con il Protocollo n. 14 formalizza la prassi esistente dell’Eurogruppo per cui i
Ministri Ecofin dei Paesi aderenti all’euro si riuniscono, con il rappresentante della Commissione, il
giorno precedente la vera e propria riunione ufficiale.
La figura delle cooperazioni rafforzate, attivabile attualmente da almeno nove Stati membri, tende ad
acquisire crescente importanza testimoniata sia dalla previsione di una disciplina semplificata sia
dalla cautela con cui si precisa che esse non posso costituire un ostacolo né una discriminazione per
gli scambi tra gli Stati membri né distorcerne la concorrenza.
Gli Stati partecipanti possono modificare la procedura di voto passando dall’unanimità alla
maggioranza qualificata, salvo che in materia militare o di difesa; diventa quindi sempre meno
accettabile che anche un solo Paese possa tenere in ostaggio il processo europeo rispetto alla revisione
dei Trattati, quando se ne ponga l’esigenza.
Un aspetto fondamentale è dato dall’acquisizione di piena centralità da parte dei diritti umani
fondamentali, tuttavia si è assistito a ripetute e persistenti violazioni di tali valori da parte di un
governo quale l’ungherese il cui tentativo di limitare l’indipendenza della magistratura è stato
bloccato da una sentenza della Corte di giustizia del 6 novembre 2012. Il complesso meccanismo di
controllo indicato non è stato realmente mai messo in moto, suscitando perplessità aggravate dalle
circostanze della crisi economico – finanziaria che ha fatto riaccendere nazionalismi e populismi.
Anche riguardo al principio di solidarietà, si è fatto ben poco, basti pensare che nel settore economico
sono assenti strumenti di solidarietà: basti pensare alla creazione di un come reddito di base. È
d’altronde impensabile scindere il destino di ciascuno Stato da quello degli altri.
Non si sono fatti nemmeno progressi di rilievo in campo di flussi migratori provenienti da Paesi terzi.
Un inventario più positivo può essere dato dal deficit democratico delle istituzioni. Sappiamo che
Lisbona ha fissato come ordinario il processo legislativo fondato sulla codecisione fra Consiglio e
Parlamento.
Va anche segnalata la messa in moto dell’iniziativa legislativa popolare, ma per ora, due proposte
sottoposte con successo alla Commissione non hanno raggiunto l’obiettivo prefissato. La prima,
concernente “L’acqua è un diritto” in quanto bene pubblico, ha ricevuto una risposta del tutto
interlocutoria in quanto ci si è limitati ad aprire una consultazione pubblica sulla politica dell’Unione
in materia di acqua potabile. Con la seconda, “Uno di noi”, è stato chiesto all’Unione di smettere di
finanziare attività che implicano la distribuzione di embrioni umani; la Commissione ha concluso che
l’esistente quadro di finanziamento è appropriato.
Molto deludente è stata la nuova figura dell’Alto rappresentante per la politica estera; sottoporre
l’adozione delle decisioni in materia al vincolo paralizzante dell’unanimità evidenzia di per sé
l’inesistenza di una volontà politica da parte degli Stati membri di rinunciare anche parzialmente
all’esercizio della propria sovranità (scelta miope che continua a vedere l’Europa incapace di avere
qualsiasi incidenza sulle complesse crisi nella comunità internazionale).
Cap. 3: MERCATO INTERNO
Fondamento e Contenuti
Dopo l’abolizione, negli anni ’60, delle barriere tariffarie, i processi di liberalizzazione si erano
arrestati e persistevano ancora delle barriere formali; con il Trattato di Maastricht si è consolidato il
rapporto tra l’apertura espressa dalle quattro libertà di circolazione dei fattori produttivi (persone –
merci – servizi – capitali) e quella fondata sulla concorrenza attraverso la creazione di una Unione
economica e monetaria. È preferibile parlare di mercato unico, no di mercato interno.
Con il progetto Europa 2020 vi è stato uno slancio diretto al perfezionamento del mercato, una
strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, grazie a investimenti più efficaci
nell’istruzione, la ricerca e l’innovazione.
La base giuridica del mercato è nell’art.3 TUE, per il quale il mercato istaurato dall’Unione deve
adoperarsi per lo sviluppo sostenibile dell’Europa; non è quindi fine a sé stesso, ma al
raggiungimento di chiari obiettivi di carattere sociale.
Nell’art. 26 TFUE, il mercato interno viene definito come uno spazio senza frontiere interne,
assicurando la libera circolazione, secondo disposizioni dei trattati.
Con la strategia Europa 2020 è stata introdotta l’Agenda digitale europea, riconoscendo il ruolo
abilitante chiave che l’uso delle tecnologie dovrà svolgere se l’Unione vuole che le proprie ambizioni
per il 2020 abbiano esito positivo. A tal fine, la Commissione, ha presentato il 6 maggio 2015 la
nuova Strategia per un mercato unico digitale europeo della Commissione, che poggia su tre pilastri:
migliorare l’accesso a beni e servizi digitali in tutta Europa per i consumatori e le imprese; creare un
contesto favorevole e parità di condizioni affinché le reti digitali e i servizi innovativi possano
svilupparsi; massimizzare il potenziale di crescita dell’economia digitale.
Il mercato interno non può riferirsi semplicemente alla libera circolazione dei quattro fattori
produttivi ed all’unione doganale.
Alle competenze comunitarie è stata aggiunta la politica ambientale non solo per caratterizzare la
qualità del processo d’integrazione, ma anche per segnare l’opportunità di distribuire equamente fra
le imprese degli Stati membri i costi derivanti dal rispetto di tali tematiche.
Al servizio del perfezionamento del mercato interno è stato istituito il SISTEMA IMI, quale
strumento obbligatorio per lo scambio di informazioni per le direttive sul Mercato interno; esso è
sviluppato dalla Commissione europea in collaborazione con gli Stati membri. Si tratta di uno
strumento informatico multilingue.
Inoltre, per promuovere il coordinamento delle politiche degli Stati membri, l’art. 132 TFUE, prevede
un Comitato economico finanziario. Esso esprime pareri su richiesta del Consiglio o della
Commissione europea.
La libera circolazione delle merci trova anzitutto fondamento sull’unione doganale che ha istituito
l’elemento cardine di tale libertà e comporta: l’eliminazione di tutti i dazi doganali e di tutte le
restrizioni tra gli Stati membri; l’introduzione di una tariffa doganale comune a tutta l’Unione per le
merci provenienti da Paesi terzi.
Essa è disciplinata attraverso il Codice doganale, infatti si tratta di una materia esclusiva dell’Unione.
È bene fare alcune considerazioni sulla nozione di “merce”, interpretata dalla Corte di giustizia in
termini molto ampi poiché comprende “ogni bene o prodotto che sia valutabile in denaro e oggetto di
transazione commerciale” quindi anche le monete che non hanno più corso legale, i rifiuti, apparecchi
per giochi d’azzardo, gas naturale ecc.
Si precisa che e merci interamente ottenute in un unico paese sono considerate originarie degli stessi;
mentre, per le merci alla cui produzione contribuiscono due o più Paesi, l’acquisizione di origine va
riferita al paese in cui abbiano subito l’ultima trasformazione.
Quanto alle merci provenienti da paesi terzi, sono sdoganate una singola volta e possono poi circolare
liberamente. La tariffa doganale comune è fissata una volta all’anno per ogni singolo bene. Si tratta di
un sistema di classificazione che prevede l’attribuzione di un codice ad ogni tipo di merce.
Per le merci originare da uno Stato membro l’art. 30 TFUE prescrive il divieto non solo dei dazi
doganali all’importazione ed esportazione, ma anche delle tasse di effetto equivalente, ovvero “ogni
onere pecuniario imposto unilateralmente che colpisca le merci nazionali o estere in ragione del fatto
che esse varcano la frontiera”.
Tale art. va collegato all’art. 110 TFUE, secondo il quale i prodotti importanti, possono essere tassati,
purché analoga imposizione venga apposta anche a quelli nazionali, senza quindi determinare
discriminazioni.
In proposito la Corte di giustizia è molto rigorosa, tanto da ritenere irrilevante la dimensione della
collettività territoriale che riscuote la tassa dal momento che la stessa costituisce ugualmente uno
ostacolo agli scambi del mercato interno.
I divieti sulla libera circolazione sono derogabili, ma solo per motivi di moralità pubblica, ordine
pubblico, pubblica sicurezza, tutela della vita delle persone, protezione del patrimonio artistico, tutela
della proprietà commerciale; le eccezioni non devono costituire una discriminazione e devono
rispettare i principi di proporzionalità e di idoneità al raggiungimento dello scopo.
Queste deroghe non devono costituire l’occasione per indirette forme di protezione del mercato
nazionale, infatti qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla
misura meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli
scopi perseguiti.
Nel determinare la sussistenza di reali pericolo per la salute, la Corte si è avvalsa del principio di
precauzione, tipico del diritto ambientale, senza tuttavia che ci si fondi su considerazioni puramente
ipotetiche: nel caso della mucca pazza è stato che quando esistono incertezze per la salute delle
persone, le istituzioni possono adottare misure protettive.
La libera circolazione delle merci potrebbe trovare ostacolo nell’esistenza di monopoli pubblici
nazionali che non sono vietati in quanto tale. Con l’art. 37 TFUE vengono semplicemente riordinati
quelli che presentano un carattere commerciale. L’intento della norma è quello di evitare che tali
monopoli possano agire sul mercato operando discriminazioni fra i cittadini degli altri Stati membri;
si tratta quindi di conciliare la possibilità di mantenere taluni monopoli, in quanto strumenti per il
perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, con esigenze dell’instaurazione e del funzionamento
del mercato unico.
La libera circolazione dei lavoratori è un elemento chiave per lo sviluppo del mercato del lavoro
dell’Unione; per questo vi è una sollecita produzione normativa comunitaria fondata sull’allora art.
48 del Trattato Cee, nonché sull’adozione dei Regolamento 151/1961 e 1612/1968.
In applicazione a tali norme abbiamo oggi la Direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini
dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri.
Le disposizioni dei Tratti si riferiscono anche alla più ampia fattispecie della libera circolazione delle
persone nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne e ai diritti
derivanti dalla cittadinanza europea. Di qui il riconoscimento ai cittadini comunitari stabilmente
residenti in altro Stato membro dell’elettorato attivo e passivo alle amministrative.
La disposizione “base” dell’art. 45 TFUE stabilisce che la libera circolazione dei lavoratori
all’interno dell’Unione implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità, tra
i lavoratori degli Stati membri, con le sole limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico,
sicurezza e sanità pubblica.
Per garantire una tutela effettiva vengono in considerazione anche e discriminazioni dissimulate o
indirette, le quali si basano sul rispetto formale della norma riguardo alla nazionalità ma introducono
una disparità di trattamento attraverso altre condizioni difficilmente soddisfabili dagli stranieri
comunitari quali la residenza, il Paese di conseguimento del titolo di studio ecc.
L’art.45 prevede alcune limitazioni alla libertà di circolazione giustificate dai motivi di ordine
pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, nonché una deroga per quanto concerne gli impieghi
nella pubblica amministrazione.
Ogni provvedimento deve rispettare il principio di proporzionalità, che dovrebbe ulteriormente
attenuare la portata delle eccezioni.
Discutibile appare la possibilità che il cittadino dell’Unione, pur avendo soggiornato nello Stato
membro ospitante i precedenti 10 anni, possa comunque essere oggetto di una decisione di
allontanamento per motivi di pubblica sicurezza definiti dallo Stato membro.
Sempre per l’art.45 l’accesso al pubblico impiego può essere riservato ai cittadini dello Stato membro
ospitante, sull’evidente presupposto della richiesta di garanzie di lealtà e fedeltà, ma non rientrano
nella deroga, gli impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o altri enti pubblici, non implicano alcuna
partecipazione a compiti di direzione e controllo spettanti alla Pubblica amministrazione.
Va comunque ricordato che l’esercizio della deroga è una mera facoltà dello Stato membro il quale,
ove non volesse utilizzarla deve allora garantire la parità di trattamento per ogni aspetto relativo
all’accesso e all’esercizio di detta attività.
La mobilità dei cittadini in funzione all’attività lavorativa potrebbe essere ostacolata se da un Paese
all’altro si perdessero i diritti acquisiti per le prestazioni di sicurezza sociale, ovvero la pensione di
vecchiaia, quella di reversibilità, i sussidi di invalidità, l’assistenza sanitaria ecc. Si tratta quindi di
garantire il mantenimento dei diritti e dei vantaggi acquisiti o in corso di acquisizione nonché
l’acquisizione dei diritti derivanti da periodi assicurativi. Tale garanzia si concretizza con il principio
della totalizzazione di tutti i periodi di assicurazione, occupazione, lavoro autonomo o residenza nei
vari Stati membri e quello di esportazione delle prestazioni in altri Stati membri dove risiede il
beneficiario ed i suoi familiari.
Per questo i sistemi di sicurezza sociale dei Paesi dell’Unione europea sono coordinati tra loro,
tuttavia, la determinazione delle prestazioni sociali e delle loro condizioni di attribuzione avviene a
livello nazionale, conformemente alle tradizioni e alla cultura di ciascun Paese.
Riguardo ai lavoratori transfrontalieri, essi sono iscritti all’organismo del Paese in cui lavorano,
anche se residenti in un altro Paese dell’Unione e aventi accesso alle prestazioni sanitarie dei due
Stati. Sono previste disposizioni specifiche per le prestazioni in natura destinate ai membri della loro
famiglia.
Una volta andati in pensione possono beneficiare delle prestazioni nell’ultimo Stato in cui hanno
lavorato.
Un aspetto particolare, recente oggetto della Direttiva 2014/50 è dato dai requisiti minimi per
accrescere la mobilità dei lavoratori tra Stati membri migliorando l’acquisizione e la salvaguardia di
diritti pensionistici complementari. Gli stati membri non sono tenuti a introdurre obbligatoriamente
l’istituzione di regimi pensionistici complementari però si può chiedere che i lavoratori che si
spostano in un altro Stato informino i loro regimi pensionistici complementari.
La pensione complementare assume sempre maggiore importanza poiché serve a garantire il tenore di
vita delle persone anziane. Tale Direttiva si applica però solo a quelle forme di previdenza
complementare originate da un rapporto di lavoro. Se il rapporto di lavoro cessa prima che il
lavoratore in uscita abbia maturato diritti pensionistici complementari, è possibile riscattare il
montante accumulato anche il valore può essere superiore o inferiore ai contributi versati; in
alternativa il regime può rimborsare l’importo dei contributi effettivamente versati.
La Direttiva 2014/54 nasce per stabilire disposizioni che agevolano l’uniforme applicazione e
attuazione pratica dei diritti sulla libertà di circolazione dei lavoratori.
Essa parte dal presupposto della scarsa conoscenza della normativa dell’Unione sia fra i lavoratori,
ma anche fra i datori di lavoro, e per superare tali ostacoli propone di sensibilizzarli maggiormente
rispetto ai loro diritti e obblighi per quanto riguarda i termini e le condizioni di occupazione.
In ciascuno Stato membro vi sono degli organismi efficaci che con adeguate competenze sono
incaricati di promuovere la parità di trattamento, analizzare i problemi incontrati dai lavoratori UE e
dai loro familiari, valutare possibili soluzioni e fornire loro assistenza specifica.
Le persone che esercitano attività indipendenti e i professionisti che operano legalmente in uno Stato
membro possono sia esercitare un’attività economica in un altro Stato membro insediandovi la
propria sede lavorativa ed iscrivendosi ai relativi albi professionali, sia offrire e fornire i loro servizi
in altri Stati membri su base temporanea anche restando nel proprio Paese d’origine.
Per quel che concerne lo stabilimento, esso si qualifica come primario se consiste nel trasferimento in
altro Stato membro dell’unico centro di attività, secondario se si concreta nell’apertura di agenzie,
succursali e filiali.
L’obiettivo del Trattato è quello di rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione nell’Unione europea
dei professionisti, e si persegue sia abolendo le restrizioni connesse ai requisiti della nazionalità
e della residenza sia assicurando il riconoscimento delle qualifiche professionali nello Stato membro
diverso da quello ove sono state conseguite.
A tal fine, il Trattato di Roma aveva previsto che, entro un periodo transitorio, sarebbero state adottate
Direttive intese al coordinamento delle normative degli Stati membri, ma nessun provvedimento è
stato adottato per le libere professioni. Questa situazione venne sbloccata dalle sentenze della Corte a
partire dal caso Reyners che, a proposito di un avvocato olandese cui era stata negata l’iscrizione
all’ordine professionale in Belgio, proclamò la diretta applicabilità dell’allora art.52 del Trattato in
quanto riconosceva ad ogni cittadino comunitario un diritto individuale di stabilirsi e di esercitare la
propria attività professionale in qualsiasi paese della CE.
Tale sentenza provocò salutari conseguenze sull’inerzia normativa del Consiglio dei ministri che,
preoccupato dall’eventuale liberalizzazione senza controllo, pose subito mano al settore sanitario.
Nel 1975, furono adottate le Direttive 75/362 concernete il reciproco riconoscimento dei diplomi,
certificati ed altri titoli di medico e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del
diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi e 75/363 concernete il coordinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative per le attività di medico. Da quel momento
si procedette attraverso l’adozione di decine di Direttive “settoriali” regolamentando le singole
attività professionali ed autonome. A tal fine per ogni professione fu adottata una coppia di Direttive:
una di coordinamento, idonea ad individuare le condizioni di accesso ed esercizio della professione;
l’atra relativa al riconoscimento dei diplomi conseguiti sulla base dei requisiti formativi minimi
comuni precedentemente armonizzati.
Ne caso di percorsi formativi solo parzialmente corrispondenti tra gli Stati membri in ordine ad una
professione regolamentata, lo Stato di accoglienza poteva adottare misure di compensazione, quali il
tirocinio di adattamento o prova attitudinale, o richiedere un’esperienza professionale preliminare.
Anche il nuovo metodo ha mostrato presto i propri limiti, in termini di trasparenza e flessibilità,
dando luogo a una nuova riforma concretizzatasi con l’adozione della Direttiva 2005/36.
Essa mantiene inalterato il meccanismo di riconoscimento stabilito dalle precedenti, ma intende
raggruppare in un unico testo legislativo le Direttive generali e settoriali e fissare le regole con cui uno
Stato membro riconosce le qualifiche professionali acquisite in Paesi diversi dell’Unione e che
permettano al titolare di esercitarvi la stessa professione.
La nozione di professione regolamentata fornita del legislatore comunitario è ampia e comprende
ogni attività, o insieme di attività professionali, l’accesso alle quali e il cui esercizio, sono subordinati
direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, al possesso di determinate qualifiche
professionali.
Sono invece escluse le professioni non regolamentate e i cittadini non comunitari, anche se stabiliti in
un Paese dell’Unione.
Rimane centrale il principio di base per cui il riconoscimento delle qualifiche consente al beneficiario
di accedere alla medesima professione per la quale è qualificato nel Paese d’origine.
Sul piano innovativo va in particolare segnalata la previsione di una disciplina generale ad hoc per la
libera prestazione di servizi professionali che abbia luogo in uno Stato membro diverso da quello di
provenienza del prestatore.
Fra le maggiori novità introdotte dalla Direttiva si segnala la tessera professionale europea, quale
strumento volto a semplificare il riconoscimento delle qualifiche professionali e a rendere più rapida
la procedura per chi intende esercitare una professione regolamentata in altri Stati membri. Si tratta di
uno strumento volontario a disposizione dei professionisti avente la forma di un certificato elettronico
che le autorità competenti dello Stato membro d’origine e di quello ospitante si scambieranno tramite
il sistema d’informazione del mercato interno.
Il nuovo art.59 della Direttiva prevede il processo di trasparenza in base al quale ogni Stato membro
dovrà rivedere tutta la propria regolamentazione sulle professioni soprattutto al fine di verificare se la
presenza di requisiti richiesti per l’accesso o esercizio di una determinata professione siano
direttamente o indirettamente discriminatori sulla base della nazionalità o del luogo di residenza.
Tale Direttiva ha introdotto l’istituto dell’accesso parziale che potrà consentire al cittadino
richiedente di esercitare la propria attività in un altro Stato membro solo nel settore corrispondente a
quello per il quale è qualificato nel proprio pur inserendosi tale attività, nello Stato ospitante,
nell’ambito di una professione più ampia.
Sono stati anche introdotti i “principi comuni di formazione”, per colmare le differenze sostanziali
esistenti nei curricula formativi dei diversi Stati membri e permettere il riconoscimento automatico
per quelle qualifiche professionali ottenute sulla base di quadri comuni di formazione, ossia un
insieme condiviso di conoscenze, abilità e competenze.
Si coordina con la 2005/36 la successiva Direttiva 2006/123 relativa ai servizi nel mercato interno.
Tra le principali novità introdotte è il principio della “libertà di prestare servizio”, che prevede, in
base ai principi di non discriminazione, necessità e proporzionalità, il divieto per gli Stati di imporre
al prestato di servizi di un altro Stato membro requisiti aggiunti rispetto a quelli richiesti ai propri
operatori. Codesto principio si è sostituito, nella versione finale della Direttiva, al cosiddetto
“principio del Paese d’origine”, in base al quale il prestatore di servizi è soggetto alle disposizioni
dello Stato membro da cui proviene.
La Direttiva si riferisce a ulteriori questioni distinte da quelle oggetto della Direttiva sulle qualifiche
professionali. E comunque è previsto che le disposizioni della Direttiva “servizi” cedano rispetto a
quelle eventualmente confliggenti contenute nella Direttiva sulle qualifiche che regolano aspetti
peculiari dell’accesso ai servizi per professioni specifiche.
Per quanto concerne la prestazione di servizi trasfrontalieri a titolo temporaneo esclude le materie
disciplinate dal titolo II della Direttiva 2005/36 dall’applicazione della disposizione sulla libera
prestazione dei servizi compresi i requisiti negli Stati membri dove il servizio è prestato che riservano
un’attività ad una particolare professione; pertanto non si determina alcuna incidenza su nessuna delle
misure applicabili a norma della Direttiva 2005/36 nello Stato membro in cui viene fornito il servizio.
È da segnalare il riferimento, nell’applicazione della Direttiva, alla necessità di armonizzare il
rispetto dei diritti fondamentali applicabili negli Stati membri, quali riconosciuti dalla Carta dei diritti
fondamentali con le libertà fondamentali da cui gli art. 49 e 56 TFUE.
Il TFUE esclude dalla libertà di stabilimento e dalla libera prestazione dei servizi le attività che in tale
Stato partecipino, sia pur occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri. Simili esclusioni possono
riguardare solo attività e funzioni specifiche che comportino l’esercizio dei pubblici poteri,
limitandosi a ciò che sia strettamente necessario per tutelare gli interessi che tale disposizione
permette agli Stati.
Elementi non formalmente derogatori ma sotto alcuni profili “circoscrittivi” della libertà in esame
sono poi stati individuati dalla Corte sulla base di esigenze imperative che, mutuate dalla libera
circolazione delle merci, legittimano misure restrittive corrispondenti ad un generale criterio di
ragionevolezza e proporzionalità. È il caso della tutela dei consumatori, in particolare dei destinatari
dei servizi giudiziali forniti da professionisti operanti nel settore della giustizia, e dalla buona
amministrazione della giustizia.
Lo Stato è altresì legittimato a difendersi da comportamenti abusivi o fraudolenti con cui i suoi
cittadini tentino di avvalersi delle norme dell’Unione per eludere la normativa nazionale. In
proposito, la Corte ricorda che l’accertamento dell’esistenza di una pratica abusiva richiede un
elemento oggettivo.
Non costituisce una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro in possesso di una
laurea si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato e
faccia ritorno nel proprio Paese per esercitare tale attività usando questo titolo ottenuto.
Si prevede, inoltre che tutte le restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione dei
servizi possano essere ritenuti legittime se giustificate da esigenze nazionali collegate alla
salvaguardia dell’ordine pubblico, della pubblica sicurezza e della sanità pubblica.
Appalti pubblici
Il perfezionamento del mercato unico, ha trovato significativi ostacoli in materia di appalti indetti
dalle amministrazioni pubbliche.
È stato prodotto un complesso di atti normativi avente oggetto l’armonizzazione delle misure
informative e procedurali. In particolari, la trasparenza nelle procedure di selezione dei candidati e di
aggiudicazione della gara si presenta come aspetto essenziale nella liberalizzazione di questo settore,
nel tentativo di superarne le artificiose chiusure nazionaliste.
Le Direttive in materia si applicano solo agli appalti di maggiore importo qualificati da una soglia
predeterminata in funzione della categoria cui gli stessi sono riferibili.
L’impegno di armonizzazione in materia di public procurament è cresciuto negli anni, passando dal
perseguimento di obiettivi mini fino al raggiungimento di rilevanti livelli di uniformazione grazie a
norme ricche di contenuti sempre più dettagliati e completi. Un importante contributo in tale
direzione era stato offerto da delle precedenti Direttive disciplinanti gli appalti di lavori, servizi e
forniture, aventi valore superiore ad una certa soglia.
Si è posta subito l’esigenza di una riforma anche richiesta da Strategia Europa 2020, nel cui ambito gli
appalti pubblici svolgono un ruolo fondamentale per accrescere l’efficienza della spesa pubblica,
facilitando in particolare la partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.
L’iniziativa ha portato all’adozione delle tre Direttive 2014/24 sugli appalti pubblici nei settori
ordinari, 2014/25 sugli appalti nei cosiddetti settori speciali (acqua – energia – trasporti – servizi
postali) e 2014/23 sulla aggiudicazione dei contratti di concessione. Quest’ultima del tutto innovativa
in quanto l’aggiudicazione delle concessioni di servizi con interesse transfrontaliero, priva di una
specifica disciplina, veniva in precedenza governata dalle norme generali.
Direttiva 2014/24: i bandi e gli avvisi sono trasmessi all’Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione per
via elettronica e pubblicati entro cinque giorni dalla loro trasmissione.
Per quanto riguarda le procedure, quella aperta consente a qualsiasi operatore economico interessato
di rappresentare un’offerta in risposta ad un avviso di gara. Nelle procedure ristrette qualsiasi
operatore economico può presentare una domanda di partecipazione in risposta a un avviso di gara
contente le informazioni richieste, ma soltanto gli operatori economici invitati in tal senso dalle
amministrazioni aggiudicatrici in seguito alla valutazione delle informazioni fornite hanno titolo per
presentare un’offerta.
Nelle procedure competitive con negoziazione qualsiasi operatore economico può presentare una
domanda di partecipazione in risposta ad un avviso di gara, ma solo gli operatori economici invitati
dall’amministrazione in seguito alla sua valutazione delle informazioni fornite possono presentare
un’offerta iniziale, come base per le successive negoziazioni.
Nel caso di appalti molto complessi, qualsiasi operatore economico può richiedere di partecipare in
risposta ad un bando di gara, fornendo le informazioni richieste dall’amministrazione aggiudicatrice,
tali amministrazioni avviano un dialogo con i partecipanti per selezionare i mezzi più idonei a
soddisfare le proprie necessità.
Una forma più complessa consiste nei partenariati per l’innovazione nei quali qualsiasi operatore
economico può presentare una domanda di partecipazione in risposta ad un bando di gara, con
documenti nei quali l’amministrazione deve identificare l’esigenza di prodotti, servizi o lavori
innovativi che non potrebbe avere acquistando quelli disponibili sul mercato.
In generale, la procedura per le imprese diviene più semplici, grazie a un documento unico europeo di
gara standard, basato sull’autocertificazione: questa consiste in un’autodichiarazione aggiornata
come prova documentale preliminare in sostituzione dei certificati rilasciati da autorità pubbliche o
terzi in cui si conferma che l’operatore economico in questione soddisfa le condizioni richieste.
Pertanto, solo il vincitore sarà tenuto a fornire la documentazione originale.
Tale innovazione è legata al fatto che molti operatori economici ritengono che un ostacolo principale
alla loro partecipazione agli appalti pubblici consista negli oneri amministrativi derivanti dalla
necessità di produrre un considerevole numero di certificati relativi ai criteri di esclusione e di
selezione.
S’introducono, inoltre, regole più severe in materia di subappalto per combattere il dumping sociale e
garantire che i diritti dei lavoratori siano rispettati.
Disposizioni più severe sono previste per le offerte anormalmente basse: se l’offerente non è in grado
di dare giuste spiegazioni, l’amministrazione ha il diritto di respingere l’offerta. Proprio per questo
per parlare “Offerta economicamente più vantaggiosa”, il legislatore europeo ha utilizzato un termine
diverso per tradurre tale concetto e cioè miglior rapporto qualità/prezzo.
Le amministrazioni pubbliche aggiudicano gli appalti anche attraverso un’asta elettronica. Prima di
procedere, l’amministrazione deve effettuare una prima valutazione completa delle offerte
consentendo la partecipazione solo a quelle ammissibili. L’invito a partecipare all’asta deve indicare
la data e l’ora d’inizio della stessa e il numero delle fasi nonché la formula matematica che
determinerà la riclassificazione. In ciascuna fase, l’offerente deve poter vedere la propria classifica
rispetto agli altri concorrenti senza conoscerne l’identità
La circolazione dei capitali non era stata inizialmente intesa quale piena liberalizzazione, perché gli
Stati volevano evitare speculazioni monetarie.
La completa liberalizzazione in abito comunitario si è realizzata solo a partire dall’approvazione della
Direttiva 88/361, che ha abolito tutte le rimanenti restrizioni ai movimenti di capitali tra i residenti
degli Stati membri a decorrere dal 1° Luglio 1990, perfezionata nel ’92 a Maastricht. La
liberalizzazione del settore trova la sua fonte nel Trattato.
Gli ostacoli sono vietati nella loro totalità e viene introdotto un divieto generale che va oltre
l’eliminazione di una disparità di trattamento in base alla cittadinanza.
Il diritto alla libera circolazione dei capitali non è soggetto a obblighi di notifica, ovvero alla
segnalazione delle operazioni transfrontaliere ai fini dell’elaborazione delle statistiche sul settore
esterno utilizzate per la compilazione della bilancia dei pagamenti degli Stati membri e dell’UE.
I Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri. La
normativa “comunitaria” interviene a disciplinare comunque la titolarità dei beni pubblici in funzione
dello sviluppo del mercato interno e dell’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle
merci e dei capitali.
Fondamentale completamento dell’applicazione dei principi di libertà dei quattro fattori produttivi è
la nascita dell’euro, con il Trattato di Maastricht.
Inizialmente per il mercato comune era in vigore un sistema internazionale dei cambi fissi, nel quale
le diverse valute erano ancorate al dollaro americano. Ma nell’agosto 1971, l’allora presidente USA,
dichiarò l’inconvertibilità del dollaro in oro, decretando ufficialmente la fine del sistema di cambi
fissi. Si tentò di ovviare un meccanismo di fluttuazione concertata delle monete nazionali entro i
margini di fluttuazione ristretti rispetto al dollaro ormai liberamente fluttuante.
Nel 1979 si arrivò alla nascita del Sistema Monetario Europeo, ma anche questo si rivelò inadeguato
rispetto agli obiettivi prefissi; allora, con il Rapporto Delors del 17 Aprile 1989 si raccomandò di
articolare la realizzazione dell’Unione Economica e Monetaria in tre fasi distinte e successive: la
prima fase doveva incentrarsi sul completamento del mercato interno, sulla riduzione delle disparità
tra le politiche degli Stati membri; la seconda è da considerarsi come un periodo di transizione prima
della tappa finale, prevedeva l’istituzione degli organi fondamentali e della struttura organizzativa
dell’UEM; la terza, si basava sulla fissazione irrevocabile dai tassi di cambio e la piena assegnazione
delle rispettive competenze in ambito monetario ed economico alle istituzioni e agli organi della
Comunità.
Il 1 Luglio 1990 si determinò la vera e propria libera circolazione dei capitali e quindi, sulla base del
Trattato di Maastricht, 1 gennaio 1994 fu costituito, in via transitoria, l’Istituto Monetario Europeo,
con il mandato di rafforzare la cooperazione fra le banche centrali e il coordinamento delle politiche
monetarie, preparando l’avvio di una moneta e di una politica monetaria comuni.
Gli 11 Stati membri partecipanti adottarono l’euro quale moneta unica con l’avvio della terza fase
dell’UEM, il 1 gennaio 1999, data a partire dalla quale la conduzione della politica monetaria è
affidata all’Eurosistema e alla Banca centrale europea.
Nei primi tre anni dell’UEM, l’euro ha svolto solo il ruolo di moneta scritturale; il contante in euro è
stato introdotto il 1 gennaio 2002.
La BCE, istituita il 1 giugno 1998 con sede a Francoforte, è il perno centrale del sistema monetario, ed
è stata elevata ad istituzione grazie al Trattato di Lisbona. Essa basa le proprie decisioni di politica
monetaria sull’analisi economica e quella monetaria, ed è amministrata da organi indipendenti e cioè
dal Consiglio direttivo e il Comitato esecutivo nonché, per determinati compiti, il Consiglio generale.
Il Consiglio direttivo, in qualità di organo decisionale, adotta le linee guida necessarie
all’assolvimento dei compiti affidati al SEBC, formula la politica monetaria dell’Unione e stabilisce
gli indirizzi per la loro attuazione. Tale Consiglio si riunisce due volte al mese, presso la sede della
BCE, valuta gli andamenti economici e monetari e assume le decisioni di politica monetaria.
Il Comitato esecutivo, attua la politica monetaria, impartendo le necessarie istruzioni alle Banche
centrali nazionali, ha il compito di preparare le riunioni del Consiglio direttivo ed è responsabile della
gestione degli affari correnti alla BCE.
Il Consiglio generale concorre alla raccolta di informazioni statistiche, coordina le politiche
monetarie degli Stati membri che non hanno adottato l’euro e sovrintende al funzionamento del
meccanismo del cambio.
Il compito di emettere banconote nella zona euro spetta alle Banche centrali nazionali, ma dietro
autorizzazione della BCE.
La BCE può svolgere compiti specifici in merito alle politiche che riguardano la vigilanza
prudenziale degli enti creditizi e delle altre istituzioni finanziare; le autorità nazionali degli Stati
membri continuano, comunque, a controllare il sistema bancario. La cooperazione transfrontaliera
delle autorità di vigilanza nell’Unione è garantita da tre Autorità di vigilanza: Autorità bancaria
europea; Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati; Autorità europea delle
assicurazioni e delle pensioni aziendali. Tale sistema di vigilanza è completato dal Comitato europeo
per il rischio sistemico.
L’interazione fra politica economica e quella monetaria, ma anche la non appartenenza di tutti gli
Stati membri all’UEM, rendono complesso il funzionamento ed il raccordo fra istituzioni e organismi
che hanno il compito di occuparsi di queste materie.
Il primo riferimento è al Consiglio, il quale elabora e definisce gli indirizzi di massima per le politiche
economiche degli Stati membri e sorveglia l’evoluzione economica in ciascuno dei Membri, prende
le misure adeguate in caso di mancata osservanza degli stessi da parte di uno Stato.
Per quanto riguarda i Paesi aderenti all’euro, l’art, 137 rimanda al Protocollo n.14 le modalità per le
riunioni tra i ministri degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Inizialmente denominata Euro 11, ha
cambiato denominazione in Eurogruppo. Quest’organo consultivo e informale si riunisce
periodicamente, per discutere tutte le questioni relative al regolare funzionamento della zona Euro e
dell’UEM.
Al fine di promuovere il coordinamento delle politiche degli Stati membri per quanto necessario al
funzionamento del mercato interno, è stato istituito un Comitato economico e finanziario. Esso è
composto da un massimo di sei componenti, designati per un terzo dagli Stati membri, un terzo dalla
Commissione e un terzo dalla BCE.
Il Comitato tiene sotto controllo la situazione monetaria e finanziaria nonché il sistema generale dei
pagamenti di tali Stati membri e riferisce periodicamente in merito al Consiglio e alla Commissione.
Cap. 5: Concorrenza
Per interpretare l’applicazione della normativa antitrust dell’Unione è necessario chiarire la nozione
di impresa. I Trattati non offrono, in proposito, alcuni aiuto. Per tempo la Corte ebbe modo di
affermare che “l’impresa consiste in un complesso unitario di elementi personali, materiali ed
immateriali facente capo a un soggetto giuridico autonomo e diretto al perseguimento di un
determinato scopo economico”; nel complesso, si tratta quindi di un qualsiasi soggetto che eserciti
un’attività economica consistente nell’offerta di beni e servizi su un determinato mercato.
Si tratta di una valutazione che andrebbe rivista, perché alcune attività, in precedenza considerate
come “non economiche” hanno visto trasformata la propria natura o funzione. È il caso degli
aeroporti regionali, inizialmente non considerati in ottica imprenditoriale, sono ricaduti nell’ambito
di applicazione della normativa antitrust soprattutto a seguito del loro rilevante sviluppo delle
compagnie aeree low cost. Si veda la sentenza Aeroports de Paris nella quale si precisa che tali ultime
attività hanno carattere economico perché, da un lato, consistono nella messa a disposizione delle
compagnie aeree e dei vari prestatori di servizi di installazioni aeroportuali contro pagamento di un
canone il cui tasso è fissato liberamente dal gestore e, dall’altro, non rientrano nell’esercizio
prerogative dei pubblici poteri e sono dissociabili dalle attività connesse all’esercizio di quest’ultime.
Inoltre non sono qualificabili come imprese soggetti esplicanti una funzione di carattere
esclusivamente sociale, ma è da valutare diversamente il caso in cui, per esempio, un ente, pur senza
perseguire uno scopo di lucro, gestisce un regime di assicurazione per la vecchiaia destinato ad
integrare un regime di base obbligatorio.
Non sono qualificabili come imprese, anche organismi ai quali siano affidati compiti d’interesse
generale, il cui scopo è quello di contribuire alla conservazione e al miglioramento della sicurezza
della navigazione aerea.
Di estremo interesse è poi la giurisprudenza della Corte relativa all’applicabilità delle norme antitrust
ai gruppi di imprese per le quali essa ha elaborato la teoria della unità di gruppo; in tal caso si deve
ritenere di non essere in presenza di intese intercorrenti tra soggetti distinti, ma di decisioni adottate
nell’ambito di un’unica impresa. Nel noto caso Materie coloranti la Corte precisò che una personalità
giuridica dell’affiliata distinta da quella della società madre non basta ad escludere la possibilità
d’imputare a quest’ultima il comportamento della prima, soprattutto se l’affiliata, pur avendo
personalità giuridica distinta, non decide in modo autonomo il suo comportamento sul mercato.
La prima norma che disciplina la libertà di concorrenza è l’art. 101 TFUE, il quale sancisce che sono
incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di
associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possono pregiudicare il commercio tra gli
Stati membri, e che abbiano per effetto, impedire, falsare o restringere il gioco della concorrenza.
Si deve verificare l’impatto negativo, reale o probabile, su almeno uno dei parametri della
concorrenza nel mercato, quali prezzo, produzione, qualità e varietà dei prodotti.
In esame sono qualsiasi concertazione fra imprese indipendenti anche in ordine allo stadio del
processo economico; questo è orizzontale quando esse si trovino sullo stesso livello; verticale,
quando si trovino su livelli diversi, come nel rapporto fra imprese produttive e distributive. Sono le
prime a produrre maggiore probabilità di conseguenze negative sulla libertà di competizione.
Le collusioni anticompetitive si possono manifestare con accordi tra imprese:
- Accordo, quando le parti raggiungono un’intenzione comune di comportarsi in modo
interdipendente tra loro e di limitare la loro libertà di azione all’interno del mercato; non è
necessario che l’accordo sia scritto e può essere sia espresso che implicito;
- Pratica concordata, rappresenta una fattispecie molto più difficoltosa da provare ed è ancora più
ampia poiché non è necessaria la presenza di tutte le caratteristiche di un accordo. Essa si basa
sull’esistenza di un parallelismo di comportamenti tra le imprese interessate, e che si riflettono in
un danno alla concorrenza poiché l’imita il grado d’indipendenza economica di ciascuna delle
imprese coinvolte; Per sanzionare tale pratica risulta sufficiente osservare la simmetria di
comportamenti fra le imprese.
In realtà i casi d’intesa presentano spesso elementi sia di una che dell’altra, pertanto l’eventuale
erronea classificazione di un’intesa nell’una piuttosto che nell’altra figura non ha importanza, qualora
sia comunque dimostrato il concorso di volontà nelle parti nella violazione dell’art. 101 TFUE.
- La terza figura delle decisioni di associazione di imprese, e cioè di categoria, si concretizza in atti
apparentemente unilaterali, con i quali si deve tuttavia intendere qualsiasi espressione di volontà
collettiva, manifesta anche in modo informale, da imprese riunite in una comune “struttura”, con
una definita organizzazione corporativa; si crea un sistema coerente e rigidamente organizzato
con cui si influenza l’attività economica e il comportamento commerciale delle imprese che vi
partecipano limitando la concorrenza fra gli aderenti.
Ai sensi dell’art.101 TFUE, si tratta di un raggruppamento di impresi che si fonda su un atto
costitutivo diretto al fine di uno scopo comune.
Si potrebbe ritenere che le prime due figure, potrebbero contenere anche quest’ultima fattispecie,
poiché alla base della decisione potrebbe esserci comunque l’espressione di volontà dei membri.
L’art. 101 TFUE indica le modalità tipiche attraverso le quali si determinano comportamenti
anticopetitivi come: fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita; limitare o
controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo e gli investimenti; ripartire i mercati o le fonti di
approvvigionamento; applicare condizioni dissimili per prestazioni equivalenti; subordinare la
conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari,
che non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti.
Rispetto alla competenza territoriale, della Commissione soprattutto, al fine di verificare la violazione
dell’art.101 TFUE vanno considerati due comportamenti, ovvero la formazione dell’intesa e la sua
attuazione.
Il divieto di cui all’art. 101 TFUE si applica esclusivamente se l’intesa posta in essere possa
pregiudicare il commercio tra gli stati membri ed abbia come oggetto o effetto l’impedire, restringere
o falsare la concorrenza nel mercato interno; si tratta di due condizioni che devono essere riscontrate
contemporaneamente:
1) La prima si riferisce a verificare le circostanze per le quali, in relazione all’estensione territoriale
dell’intesa ed alla sua ricaduta transfrontaliera, appare improbabile il prodursi dell’effetto
pregiudizievole.
Secondo quanto indicato dalla Commissione nelle sue Linee direttici la nozione di pregiudizio al
commercio va anzitutto considerato che la normativa antitrust si applica all’intero accordo ivi
comprese tutte le parti dello stesso che non pregiudicano singolarmente il commercio
intercomunitario. Inoltre, quando le relazioni contrattuali tra le medesime parti riguardano più
attività, queste, devono essere direttamente connesse e costituire parte integrante di uno stesso
accordo globale tra le imprese; in caso contrario, si considera che esista un accordo distinto per
ciascuna attività.
Perché una decisione, un accordo o una pratica possano pregiudicare il commercio fra Stati membri
è necessario che appaia sufficientemente probabile che essi siano atti ad esercitare un’influenza
diretta o indiretta sugli scambi tra gli stessi in modo tale da fare temere che possano ostacolare la
realizzazione di un mercato unico.
L’incidenza sensibile può, secondo la Commissione, essere valutata in particolare con riferimento
alla posizione e all’importanza delle imprese in questione sul mercato dei prodotti rilevanti. La
valutazione dell’incidenza sensibile dipende dalle circostanze di ogni singolo caso, in particolare
dalla natura dell’accordo e della pratica, dalla natura dei prodotti interessati e dalla posizione di
mercato delle imprese coinvolte.
2) La seconda condizione, concerne il divieto di intese aventi come oggetto o per effetto, impedire,
restringere o falsare la concorrenza nel mercato interno.
L’alternativa tra oggetto ed effetto implica che occorre verificare la presenza di un solo criterio
dell’oggetto dell’accordo.
Solamente in via subordinata, occorrerà esaminarne gli effetti e, per poterlo vietare, dovranno
sussistere tutti gli elementi che comprovino che il gioco della concorrenza sia sta stato di fatto
impedito, ristretto o falsato in modo sensibile. La distinzione tra “oggetto” ed “effetto” attiene alla
circostanza che talune forme di collusione tra imprese possono essere considerate per loro stessa
natura nocive al buon funzionamento del normale gioco della concorrenza; in altri termini, l’intesa
deve semplicemente essere idonea in concreto ad impedire, restringere o falsare il gioco della
concorrenza nel mercato comune.
In un contesto di crescente rilievo del digitale, merita segnalazione la sentenza Football Association
Premier League nella quale a Corte di giustizia ha ritenuto illecito un accordo con cui un’emittente
televisiva si impegna nei confronti del soggetto detentore dei diritti di proprietà intellettuale su un
determinato contenuto a non fornire dispositivi di decodificazione che consentano a un abbonato di
avere accesso a detto contenuto al di fuori dello Stato membro coperto dalla relativa licenza. In tal
caso l’oggetto concorrenziale riguarda il ricreare barriere artificiali al commercio intracomunitario
con il prodursi di restrizioni territoriali.
Inoltre, la costituzione fra aziende concorrenti di un’impresa comune può restringere o falsare la
concorrenza anche in assenza di alcuna restrizione esplicita della stessa soprattutto all’interno di un
mercato oligopolistico.
Nel caso in cui l’esame di un accordo non riveli un grado sufficiente di dannosità per la concorrenza
se ne dovranno prendere in esame gli effetti, che andranno dedotti anche valutando come la
concorrenza si svolgerebbe in assenza dell’accordo stesso.
Gli effetti restrittivi della concorrenza debbono essere considerati anche in ordine alle ripercussioni
sulla situazione di terzi.
La distinzione fra “eliminazione” e restrizione della concorrenza, nel complesso non ardua, si ferisce
ad una valutazione “quantitativa” del grado in cui un accordo è in grado di incidere sul libero gioco
della concorrenza; essa, peraltro, è rilevante sotto il profilo giuridico in quanto il presupposto per
l’eventuale riconoscimento di un’esenzione al divieto è la non eliminazione della concorrenza nel
mercato.
La conseguenza sanzionatoria della violazione delle norme antitrust è la nullità di pieno diritto degli
accordi o decisioni; i singoli interessati possono far valere questa nullità di fronte al giudice
nazionale.
Sempre grazie alla giurisprudenza della Corte, si precisa che l’effetto utile del divieto sarebbe messo
in discussione se fosse impossibile per chiunque chiedere il risarcimento del danno causatogli da un
contratto o da un comportamento idoneo a restringere o falsare il gioco della concorrenza.
Ovviamente deve essere provata l’esistenza di un desso di causalità tra tale danno e un’intesa; tuttavia
siffatto diritto non viene escluso nel caso in cui il soggetto interessato abbia intrattenuto rapporti
contrattuali non già con un membro dell’intesa, bensì con un’impresa ad essa non aderente.
L’obiettivo, quindi, è di scoraggiare, attraverso il diritto al risarcimento, ogni comportamento
anticopetitivo.
Esistono i programmi di clemenza, diretti a facilitare l’emersione e l’accertamento dei pericolosi
cartelli segreti, con i quali vieni riconosciuta un’immunità dalla sanzione solo all’impresa che per
prima denuncia il cartello alle autorità di concorrenza. Analogamente, una più rapida conclusione
della procedura è data dalla transazione che consente alcune agevolazione alle imprese che
riconoscono di aver partecipato ad un cartello.
La legittimazione ad agire per ottenere la nullità di un accordo spetta a qualsiasi singolo, d’altronde
per la Corte le norme antitrust “comunitarie” possono essere considerate come regole di ordine
pubblico dell’Unione.
Il divieto anticollusivo è dichiarato inapplicabile dal par. 3 dello stesso art. 101 TFUE in caso di
accordi che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere
il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne
deriva, che non impongano restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi e che
non diano alle imprese interessate la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale
dei prodotti di cui trattasi. Queste quattro condizioni sono cumulative, per cui una volta stabilito che
una di loro non è soddisfatta, non è necessario esaminare quelle restanti.
Si presume che queste sussistano comunque per gli accordi i quali rispettino i requisiti precisati nei
Regolamenti di esenzione per categoria adottati dalla Commissione o dal Consiglio. Fra questi si
segnalano il 330/2010 che offre una zona di sicurezza per maggior parte degli accordi verticali, in
particolare, il caso delle restrizioni di durata limitata che agevolino il lancio di prodotti nuovo e
complessi, che proteggano investimenti specifici ad un rapporto contrattuale o che agevolino il
trasferimento di know – how.
Per quanto concerne gli accordi orizzontali, essi possono apportare notevoli benefici economici
quando sono finalizzati a condividere i rischi, realizzare economie, aumentare gli investimenti,
mettere in comune il know – how, migliorare la qualità e la varietà dei prodotti e lanciare più
rapidamente le innovazioni.
L’art. 102 TFUE dispone che è vietato lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una
posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo. Si tratta di un ulteriore
divieto antitrust, tale potere non è di per sé considerato illecito ma costituisce il presupposto
indispensabile perché, in determinate circostanze, si possa determinare l’abuso attraverso
comportamenti volti a escludere dal mercato concorrenti pur ugualmente efficienti.
Un’impresa può crescere proprio grazie al proprio comportamento virtuoso offrendo prodotti che
meglio di altri soddisfano le esigenze dei consumatori.
Esemplare è la sentenza United Brands Company già nel fornire una definizione incisiva di posizione
dominante: una posizione di potenza economica, grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado
di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione, e ha la possibilità di
tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e dei
consumatori. La p.d., infatti, non coincide con il monopolio, potendo sussistere anche in presenza di
una qualche forma di concorrenza residua.
La p.d. può essere individuale, ma anche di gruppo e collettiva. La p.d. di gruppo comprende un
insieme di imprese affiliate dipendenti per le proprie scelte da uelle madre che ne è quindi
responsabile. Più diffusa è la p.d. collettiva che si determina allorché due o più entità economiche
indipendenti siano, su un mercato specifico, unite da tali vincoli economici che per tale motivo esse
detengono insieme una posizione dominante rispetto agli altri operatori sullo stesso mercato.
L’esistenza della p.d. deriva comunque dalla concomitanza di più fattori i quali, se presi isolatamente,
potrebbero non essere decisivi ai fini della relativa dimostrazione. In tal senso, essa prescinde dalla
dimensione assoluta dall’impresa, dall’entità del suo fatturato o dal volume delle attività, tutte
circostanze legate a una pluralità di altri fattori. È invece preliminarmente necessario delimitare il
mercato rilevante dal punto di vista sia geografico che merceologico.
Il mercato geografico comprende l’area in cui le imprese interessate forniscono o acquistano prodotti
o servizi.
Sotto il profilo merceologico, il mercato del prodotto rilevante comprende a sua volta, tutti i prodotti
e/o servizi considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore. Su queste basi, l’analisi si
sposta, sul concetto di sostituibilità, intesa sia sul versante della domanda che su quello dell’offerta. Il
primo caso interessa i consumatori, per cui vi va verificato se questi possono passare prontamente ad
un prodotto simile in risposta, per es., ad un piccolo ma permanente aumento di prezzo. Nel secondo
caso, si deve vedere se altri fornitori sono in grado prontamente modificare il loro processo produttivo
in modo da fabbricare i prodotti in causa e immetterli sul mercato rilevante. Tuttavia occorre
esaminare le condizioni di accesso al mercato così definito. A tal fine, la Commissione compie una
valutazione della dimensione del prodotto e della dimensione geografica del mercato rilevante. Noti
casi affrontati dalla giurisprudenza comunitaria in ordine alla sostituibilità sono l’Hoffman – La
Roche relativo alle vitamine dei gruppi C ed E ritenuti mercati rilevanti a sé stanti, il Michelin riferito
alla distinzione fra pneumatici per autoveicoli pesanti e quelli per autovetture nonché fra nuovi e
rigenerati, il Continental Can concernente gli imballaggi metallici leggeri
La definizione di mercato rilevante consente di individuare gli operati attivi sul mercato stesso. La
probabilità che un’impresa divenga o sia dominante sono tanto maggiori quanto più elevata è la sua
quota di mercato; anche l’esistenza della concorrenza su un determinato mercato, non esclude
l’esistenza di una p.d. sullo stesso giacché questa è caratterizzata essenzialmente dalla possibilità di
agire senza dover tener conto di detta concorrenza e senza subire conseguenze pregiudizievoli.
Al contrario, per la Commissione europea una quota di mercato inferiore al 40% rende improbabile la
p.d.
Un’impresa dominante potrebbe sempre sostenere che il suo comportamento è obiettivamente
necessario o produce efficienze considerevoli in grado di compensare eventuali effetti
anticoncorrenziali suo consumatori, purché se ne dimostri l’indispensabilità e la proporzionalità
rispetto allo scopo perseguito.
Accertata l’esistenza di una p.d. è necessario individuare l’esistenza di un abuso ad essa correlato per
dichiararla illecita. L’art. 102 TFUE elenca alcune delle pratiche abusive:
- Impone direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto;
- Limitare produzione, sbocchi, sviluppo tecnico a danno dei consumatori;
- Applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni
equivalenti;
- Subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di
prestazioni supplementari, che non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.
L’abuso può concretizzarsi in una pluralità di forme specifiche. Le più frequenti sono gli accordi di
esclusiva con i quali un’impresa dominante può provare a precludere il mercato ai suoi concorrenti,
con obblighi di acquisto esclusivo o sconti.
Un’atra forma è data dalle vendite abbinate e aggregate basate sull’intento di un’impresa dominante
di precludere il mercato ai suoi concorrenti. Nel primo caso, i clienti che acquistano un prodotto
devono acquistarne anche un altro dall’impresa dominante. Nel secondo caso, ci si riferisce al modo
in cui i prodotti sono offerti dall’impresa dominante e in cui essa ne fissa il prezzo.
Il comportamento predatorio si verifica allorché un’impresa dominante sostiene deliberatamente
perdite o rinuncia a profitti a breve termine, in modo da precludere o avere la probabilità di precludere
il mercato a uno o più dei suoi concorrenti reali o potenziali allo scopo di rafforzare o di mantenere il
suo potere di mercato e causando un danno ai consumatori.
Ne caso del rifiuto di effettuare forniture e compressione dei margini, la fornitura è subordinata al
fatto che l’acquirente accetti limitazioni del proprio comportamento. Queste possono riguardare il
rifiuto di fornire prodotti a clienti nuovi o esistenti, di concedere in licenza diritti di proprietà
intellettuale, anche quando questo è necessario per fornire informazioni d’interfaccia, o di concedere
l’accesso ad un impianto o ad una rete essenziali.
Esemplare è il caso United Brands Company la quale costituiva il gruppo bananiero più importante
del mondo che aveva commercializzato il marchio Chiquita 10 e lode. Ai fini della verifica
dell’esistenza di una p.d., la Corte analizza il mercato del prodotto di fronte alla tesi dell’azienda per
cui si sarebbe dovuto considerare l’intero mercato delle frutta fresche, in quanto le banane sarebbero
in una certa misura intercambiabili con altre varietà di frutta fresca. Per la Commissione e per la
Corte, invece, il mercato delle banane era sufficientemente distinto in quanto la maturazione delle
banane avviene durante tutto l’anno, quindi la produzione è per tutto l’anno superiore alla domanda e
consente di farvi fronte in qualsiasi momento; queste caratteristiche fanno della banana un frutto
privilegiato, particolarmente indicato per i bambini e anziani, la cui produzione e la cui vendita
possono adattarsi alle fluttuazione stagionali; non vi è una inevitabile sostituzione stagionale, poiché
il consumatore può procurarsi questo frutto durante tutto l’anno. Dal complesso si desume che una
grande massa di consumatori, per i quali il fabbisogno di banane è costante, non è distolta in misura
tangibile, né del resto apprezzabile, dall’acquisto di questo prodotto a causa dell’arrivo sul mercato di
altre frutta fresche, come pure che anche le punte stagionali influiscono solo per un periodo di limitato
o assai moderatamente sotto il profilo della sostituibilità.
Commissione e Corte affermano, quindi, che anche l’UBC detiene una p.d. per una somma di
vantaggi consistenti nella sua quota di mercato rispetto a quella dei concorrenti, la varietà delle sue
fonti di approvvigionamento, la qualità omogena del suo prodotto, la sua organizzazione di
produzione e trasporti, la sua azione pubblicitarie, la sua integrazione verticale. Il comportamento
abusivo viene individuato nella clausola, dei maturatori – distributori, del divieto di rivendita delle
banane allo stato verde. Questo vincolo rendeva impossibile lo scambio di banane verdi UBE, e
quindi tale clausola aveva effetto analogo ad un divieto d’esportazione: l’organizzazione del mercato
istaurata dalla UBC confinava i maturatori nel ruolo di semplici fornitori di mercato locale e impediva
loro di migliorare il proprio potere di contrattazione nei confronti della UBC, che per di più
accentuava la sua egemonia economica su di loro rifornendoli in misura in misura inferiore ai
quantitativi da essi ordinati. Si creava, inoltre, un rigido isolamento dei mercati nazionali a livelli di
prezzo artificialmente differenziati e discriminatori, che implicavano uno svantaggio per alcuni
distributori – maturatori, essendo la concorrenza in questo modo falsata rispetto a quello che sarebbe
stato il suo andamento naturale.
Noto è anche il caso della Microsoft condannata per pratica abusiva a seguito del suo rifiuto a fornire
informazioni agli altri server; tale rifiuto non è giustificabile alla luce della normativa sulla proprietà
intellettuale, poiché non consentiva a gruppi di lavoro di altre società di assicurare, a prezzi
ragionevoli, una piena interoperabilità con il sistema Windows. Inoltre non è stato ritenuto legittimo
preinstallare Windows Media Player nel sistema operativo Windows, poiché induce i clienti a non
acquistare altri prodotti di lettura multimediale. Si tratta del cosiddetto bulding in cui i prodotti sono
venduti solo congiuntamente ed in proporzioni fisse. Tutto ciò ostacolavo lo sviluppo tecnico a danni
dei consumatori.
In tema di elettronica, il Tribunale ha condannato anche per abuso Intel. L’azienda in chiara p.d.
deteneva più del 70% delle quote di mercato dei processori per computer e stava cercando di far fuori
il suo competitore AMD. Infatti, Intel applicava ad alcuni produttori di computer, sconti subordinati
all’acquisto di altra componentistica al fine di acquisire un’esclusiva nei confronti di questi clienti ed
estromettere la sua concorrente dalla fornitura delle medesime merci. Inoltre aveva concesso un
incentivo finanziare, anche sotto forma di rimborsi, a Media Saturn, rivenditore di prodotti elettronici
di consumo, subordinati alla condizione di esclusiva. Infine, l’azienda aveva eseguito dei pagamenti a
favore di HP, Acer e Lenovo allo scopo di ritardare, annullare o di restringere la distribuzione di
alcuni prodotti dotati di processori AMD. Tale pratica, denominata “restrizioni allo scoperto”, è
abusiva dato che il solo interesse perseguito è quello di nuocere ad un concorrente.
Più recentemente, con sentenza del 10 Luglio 2014 la Corte di giustizia ha chiuso definitivamente una
lunga vertenza relativa al caso Telefonica, partito da una decisione del 4 Luglio 2007 con cui la
Commissione aveva dichiarato che la società Telefonica e Telefonica de Espana avevano abusato
della loro posizione dominante, imponendo prezzi iniqui ai propri concorrenti compimento oltremodo
i margini tra i prezzi dell’accesso alla banda larga al dettaglio sule mercato di massa spagnolo e i
prezzi dell’accesso alla banda larga all’ingrosso a livello regionale e nazionale.
La complessità delle valutazioni dell’art. 101 e dell’art. 102 TFUE ha indotto il legislatore
comunitario ad adottare il 16 dicembre 2002 l’importante Regolamento 1/2003. Tale nuova
disciplina, basata sul decentramento della disciplina antitrust, modernizza radicalmente il sistema di
controllo sostituendo il precedente, centralizzato, in vista della necessità di esercitare una
sorveglianza efficace e, nel contempo, di semplificare, per quanto possibile, il controllo
amministrativo.
Ai sensi dell’art. 1 del nuovo Regolamento non occorre alcuna previa decisione da parte della
Commissione sia per le intese di cui all’art. 101, par 1 TFUE che non soddisfano le condizioni di cui
al successivo par. 3 e sono di conseguenza vietate, sia per quelle lecite che invece le soddisfano. Nel
primo caso l’onere della prova incombe alla parte o all’autorità che asseriscano l’esistenza di tale
infrazione, nel secondo esso spetta all’impresa o alle associazioni di imprese che affermino il rispetto
delle condizioni.
La Commissione mantiene un ruolo centrale nelle procedure antitrust, pur essendo costretta ad
operare meno frequentemente. Essa attiva la relativa procedura nel pieno rispetto del contraddittorio
con le imprese interessate in seguito a denuncia. La procedura si conclude o con una lettera di
archiviazione oppure, ove sia constata un’infrazione agli art. 101 e 102 TFUE, con una decisione di
infrazione con l’obbligo per le imprese e associazioni di imprese interessate a metter fine alla stessa.
A tal fine essa impone loro l’adozione di tutti i rimedi comportamentali o strutturali, proporzionati
all’infrazione commessa e necessari a farla cessare effettivamente.
Nel caso la Commissione decida di infliggere sanzioni, queste non possono superare per ciascuna
impresa o associazione di imprese partecipanti all’infrazione il 10% del fatturato totale realizzato
durante l’esercizio sociale precedente. La Commissione può inoltre irrogare imprese e associazioni di
imprese penalità di mora il cui importo può giungere fino al 5% del fatturato medio giornaliero
realizzato durante l’esercizio sociale precedente per ogni giorno di ritardo a decorrere della data
fissata nella decisione.
A mitigare il rigore sanzionatorio sono stati introdotti anche nel sistema dell’unione i programmi di
clemenza, diretta a facilitare l’emersione e l’accertamento dei pericolosi cartelli segreti. Il
partecipante a un cartello segreto collabora a un’indagine dell’autorità garante della concorrenza
rappresentando volontariamente elementi di propria conoscenza del cartello e il ruolo svolto al suo
interno, ricevendo in cambio, per decisione o sospensione del procedimento, l’immunità delle
ammende irrogate per il suo coinvolgimento nel cartello o una loro riduzione. Tali programmi mirano
a innescare tra i partecipanti ad un cartello una sorta di collaborazione.
Un’utile procedura in caso di cartelli è quella della transazione che può essere attivata solo in seguito
alla fase istruttoria vera e propria che ha evidenziato l’esistenza di un illecito. Si tratta di una
“scorciatoia” procedurale diretta ad abbreviare i tempi del procedimento, incentivando le parti
affinché esse rinuncino consapevolmente all’esercizio dei diritti di difesa e ammettano la propria
responsabilità, in cambio di una riduzione della sanzione pecuniaria pari al 10%.
Tenendo conto del regime giuridico introdotto dalla Direttiva 2014/104, la Commissione adotta un
nuovo Regolamento 2015/1348; questa attribuisce alla Commissione un ampio margine di
discrezionalità per stabilire quali casi possano essere adatti per sondare l’interesse delle parti a
partecipare a discussioni in vista di una transazione nonché per decidere di avviare dette discussioni o
di porvi fine o di giungere a una soluzione definitiva del caso.
L’aspetto più interessante del Regolamento 1/2003 è dato dalla organica cooperazione che si instaura
tra la Commissione con le autorità garanti della concorrenza e le giurisdizioni nazionali. Alle autorità
il Regolamento attribuisce poteri decisionali simili a quelli della Commissione con la differenza che
in caso d’insussistenza delle condizioni per un divieto esse debbono limitarsi a decidere che non v’è
motivo di intervenire.
Quanto alle giurisdizioni nazionali, l’art. 6 del Regolamento ribadisce il potere di applicare
direttamente gli articoli 101 e 102 TFUE, ma con un significativo ampliamento dell’eliminazione
della competenza assoluta della Commissione.
Ciò consente loro di applicare la sanzione di nullità dell’intesa, previa la verifica dell’insussistenza
delle condizioni di deroga di cui al par. 1 dell’art.101. Viene così svolto un ruolo complementare
rispetto a quello delle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri.
Una così articolata rete di pubbliche autorità a presidio della tutela antitrust deve evidentemente
basarsi sul continuo scambio di informazioni. Tuttavia la Commissione può rifiutarsi di trasmettere
qualora la giurisdizione nazionale non possa garantire la tutela delle informazioni riservate e del
segreto aziendale.
Per assicurare un’applicazione coerente delle regole di concorrenza e al contempo una gestione
ottimale della rete, è fissata la regola in virtù della quale le autorità garanti della concorrenza degli
Stati membri sono automaticamente private della loro competenza qualora sia avviato un
procedimento da parte della Commissione, la quale deve quindi essere in grado di rendere pubblica la
propria decisione di avvio del procedimento.
Inoltre, sia le giurisdizioni nazionali che le autorità garanti, quando si pronunciano su accordi,
decisioni e pratiche già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni
in contrasto con quella adottata dalla Commissione.
Il Regolamento 1/2003 ha quindi rafforzato in misura rilevante la tutela antitrust ed ha anche
consentito un’idonea disciplina positiva al private enforcement; considerando n.7 afferma, infatti, che
le giurisdizioni nazionali tutelano i diritti soggettivi garantiti dal diritto comunitario nelle
controversie fra privati, in particolare accordando risarcimenti alle parti danneggiate dalle infrazioni.
L’esigenza di una specifica disciplina della materia si è tradotta nell’adozione della Direttiva
2014/104 con cui l’Unione europea si è dotata di un corpo di norme comuni volte a disciplinare le
azioni di risarcimento in materia antitrust.
La Direttiva in questione ha come base giuridica, oltre l’art.103 TFUE, anche l’art. 114 TFUE, sul
ravvicinamento delle legislazioni; sussiste, infatti, la necessità, con l’adozione di condizioni più
uniformi per le imprese che operano nel mercato interno, di evitare in materia un approccio
disomogeneo da parte degli Stati membri.
Un obiettivo fondamentale della Direttiva consiste nella necessità di agevolare l’attore nell’onere, a
volte complesso, di provare l’esistenza e l’entità del danno derivante dal comportamento
anticompetitivo a causa dell’inaccessibilità dei documenti relativi alle indagini svolte, disponibili
unicamente ai colpevoli dell’illecito e alle autorità antitrust che le hanno condotte. Per ovviare a tale
ostacolo, la Direttiva ha introdotto la presunzione, salvo prova contraria, che una stretta categoria di
accordi tra concorrenti di particolare gravità, i cartelli, siano sempre fonte di generici danni al
mercato.
Un’altra novità riguarda la prova dell’esistenza dell’infrazione alle norme di concorrenza: con il
nuovo regime, le decisioni definitive delle autorità nazionali che accertano un illecito antitrust
diventano vincolanti per il giudice ordinario, che dovrà trattarle come prova incontestabile
dell’illecito ove esse promanino dall’autorità del suo stesso Stato o di un altro Stato membro.
In particolare, la Direttiva, in termine di divulgazione delle prove, prevede che, su istanza di un attore
con una richiesta motivata, i giudici nazionali potranno ordinare al convenuto o ad un terzo la
divulgazione delle prove rilevanti di cui tali soggetti abbiano disponibilità, a determinare condizioni
che vengono precisate dallo stesso atto dell’Unione.
Inoltre, attraverso il combinato disposto dall’art 6, par. 6, 7 e 8 il legislatore dell’Unione ha voluto
fornire un’efficace protezione ai programmi di clemenza. Infatti le imprese potrebbero essere
dissuase dal collaborare con e autorità garanti della concorrenza nell’ambito di tali programmi e di
procedure di transazione se dichiarazioni contenti prove autoincriminanti venissero divulgate. Per
garantire che le imprese continuino ad essere disposte a rivolgersi volontariamente alle autorità
garanti della concorrenza presentando dichiarazioni legate a un programma di clemenza o proposte di
transazione, questi documenti vengono esclusi dall’ordine della divulgazione delle prove.
Un altro aspetto della Direttiva riguarda l’effetto da riconoscere alle decisioni dei giudici nazionali. A
tale riguardo, l’art.9 prevede che una decisione definitiva di un’autorità nazionale garante della
concorrenza, che abbia accertato una violazione degli art. 101 – 102 TFUE, costituisca
automaticamente la prova di tale violazione davanti ai giudici dello stesso Stato membro io in cui si è
verificata l’infrazione. L’art. 10 affronta la questione della prescrizione e di come tale istituto venga
influenzato a fronte dell’intervento di un’autorità garante della concorrenza. L’art. 11 prevede che se
la violazione delle normative antitrust concerne un comportamento congiunto di più imprese, esse
devono essere ritenute responsabili in solido, con la conseguenza che il soggetto danneggiato potrà
esigere il pieno risarcimento da ognuna di loro fino a conseguire il totale indennizzo.
Per quanto concerne la composizione consensuale delle controversie, nell’intento di favorire il
ricorso a una definizione non giudiziale delle stesse, l’art. 18 stabilisce che gli Stati membri debbano
prevedere, per tutta la durata del procedimento, una sospensione del termine di prescrizione previsto
per intentare un’azione per il risarcimento del danno.
Nel complesso la Direttiva consentirà di agire per il risarcimento del danno in materia antitrust in un
quadro di maggiore trasparenza e certezza del diritto, anche se non sono da escludere futuri interventi
della Commissione per chiarire qualche dubbio interpretativo.
L’art. 107 TFUE introduce la previsione di alcune deroghe al principio dell’incompatibilità degli
aiuti. Essi, infatti, possono risultare a volte molto utili non solo per la realizzazione di obiettivi di
comune interesse ma anche per correggere taluni fallimenti di mercato.
Una prima categoria di deroghe, oltre quelle contemplate dai Trattati, attiene agli aiuti compatibili di
pieno diritto a partire da quelli a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che
siano accodati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti. È evidente che in tal caso
non s’interferisce con la libera concorrenza essendo beneficiario solo il consumatore finale.
Sono poi previsti gli aiuti destinati ad ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da
altri eventi eccezionali. Naturalmente l’aiuto deve essere proporzionato al danno realmente subito ed
essere del tutto temporaneo sì da non costituire l’occasione per creare indebiti vantaggi.
Una seconda categoria derogatoria riguarda gli aiuti potenzialmente compatibili. Essi, in quanto
astrattamente riconducibili a particolari esigenze ritenute rilevanti e meritevoli di considerazione, si
caratterizzano per la circostanza di dover essere autorizzati attraverso una valutazione discrezionale
da parte della Commissione o del Consiglio.
Anzitutto ci si riferisce agli aiuti a finalità regionale, sia agli investimenti e all’occupazione che al
funzionamento, destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia
anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni
di cui all’art.349 TFUE, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e sociale, ma anche
agli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre
che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse.
In materia appare evidente l’ampio potere attribuito alla Commissione, considerato che la valutazione
sull’entità del tenore di vita ed il livello di sottoccupazione avviene sulla base di un riferimento ad un
livello medio dell’Unione in applicazione del principio della contropartita.
Altra fattispecie derogatoria concerne gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un
importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento
dell’economia di uno Stato membro. Nel primo caso, va precisato che non è necessaria la
partecipazione di tutti gli Stati dell’Unione al progetto purché sostenuto da diversi Membri o portato
avanti per far fronte ad una minaccia comune.
Con grave ritardo è stata introdotta solo nel 1992 grazie al Trattato di Maastricht la deroga relativa
agli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio. Rientrano nella deroga
in questione gli aiuti alla produzione cinematografica e televisiva nella ricerca di una soluzione
equilibrata tra gli obiettivi di creazione culturale, lo sviluppo della produzione audiovisiva
nell’Unione e il rispetto del diritto comunitario in materia di aiuti di Stato.
Infine, sono previste altre forme di aiuto, determinate con decisione del Consiglio su proposta della
Commissione.
Nella prassi della Commissione sono state individuate con frequenza fattispecie derogatorie nel
complesso configurabili quali aiuti a finalità regionale, a finalità settoriale e gli aiuti orizzontali (tutto
il territorio unionale).
Nel maggio 2012 la Commissione ha reso la comunicazione sulla Modernizzazione degli aiuti di
Stato dell’UE con cui si è posta l’obiettivo di migliorare la qualità della propria analisi al fine di
promuovere un impiego adeguato delle risorse pubbliche e favorire la crescita economica, limitando
le distorsioni della concorrenza nel mercato interno. La complessità delle norme sostanziali e del
quadro procedurale è ritenuta una sfida per il sistema di controllo degli aiuti di Stato.
Su questa base il Regolamento 800/2008 del 6 agosto (pg 154 – 155).
Sono sottoposte ad una rigorosa procedura di controllo le forme di aiuto, per le quali sussiste una
presunzione di compatibilità con le disposizioni del Trattato.
Questa procedura vede come protagonista la Commissione che negli anni si è fatta carico di
valutazioni complesse e delicate sì da costituirne il corpus di una sorta di parziale politica economica
sovranazionale. A tale fine essa ha utilizzato lo strumento delle comunicazioni, atti giuridici non
contemplati dal Trattato ma ormai costantemente utilizzati, in materia, per fornire agli interessati
preventivamente i propri criteri interpretativi. Sia la Corte di giustizia che il Tribunale hanno tenuto
sempre in gran conto i contenuti delle comunicazioni anche in considerazione dell’autolimitazione
dei propri poteri discrezionali da parte della Commissione stessa.
Gli Stati membri sono tenuti a comunicare preventivamente alla Commissione, in tempo utile perché
la stessa presenti le sue osservazioni, ogni progetto diretto ad istituire o modificare aiuti che
intendono erogare. Tale notifica non consente quindi l’esecuzione della misura prima che la stessa sia
stata autorizzata dalla Commissione (obbligo di standstill). La violazione di tale obbligo determina un
vizio dello stesso o di quello che ne dispone l’erogazione per cui gli aiuti concessi senza
l’approvazione della Commissione sono automaticamente considerati illegali.
Gli Stati membri devono pertanto rispettare due obblighi inscindibili, ossia quello di preventiva
notificazione dei progetti d’aiuto e quello consistente nel differire l’esecuzione di detti progetti sino a
quando non ci sia stata la pronuncia sulla compatibilità della misura con il mercato unico da parte
della Commissione. Essa, inoltre, può attivare la procedura di controllo anche attraverso denunce
provenienti da qualsiasi fonte; naturalmente spetta ai denunciati l’onere della prova di essere parti
interessate.
L’esigenza di maggiore trasparenza già aveva indotto la Commissione ad adottare nel 2009 il Codice
delle migliori pratiche applicabili nei procedimenti di controllo degli aiuti di Stato. Lo strumento
individuato non è stato sufficiente a risolvere le problematiche esistenti, rendendo non più rinviabile
una formale revisione del Regolamento di procedura realizzatasi con il Regolamento 734/2013 del 22
Luglio 2013, il quale prevede un intervento dell’esecutivo dell’Unione solo quando la concessione
degli aiuti di Stato procura restrizioni o distorsioni rilevanti alla concorrenza nel mercato interno in
diversi Stati membri.
I controlli si articolano su due distinte modalità: una più incisiva per gli aiuti di entità considerevole e
con potenziali gravi effetti distorsivi della concorrenza all’interno del mercato comune; un’altra, più
semplificata, per i casi aventi solamente effetti limitati sugli scambi tra gli Stati membri. Inoltre, si
esentano in blocco determinate categorie di aiuti a basso potenziale distorsivo; in tal senso, le piccole
e medie imprese sono interpellate raramente.
La Commissione, se a conclusione della fase preliminare ritiene che un progetto non sia compatibile
con il mercato interno, dà inizio alla procedura descritta al par. 2 dell’art. 108. Nella decisione con cui
è avviato il procedimento, essa espone sinteticamente i punti di fatto e di diritto pertinenti, effettua
una valutazione preliminare del provvedimento notificato ed espone i motivi che la inducono a nutrire
dubbi circa la sua compatibilità con il mercato comune.
Il procedimento d’indagine formale si chiude mediante decisione, con la quale la Commissione può
affermare che il provvedimento notificato non costituisce un aiuto.
Il provvedimento notificato, contenente il progetto di aiuto, non può invece essere messo in atto se
considerato incompatibile con il mercato comune. Tuttavia, prima che la Commissione assuma una
decisione definitiva lo Stato membro interessato può ritirare la notifica dell’aiuto oppure apportare
modifiche ad una misura già nota ed approvata. Tali modifiche, non devono essere atte ad influenzare
la valutazione della compatibilità della misura di aiuto con il mercato comune. L’eventuale
cambiamento dovuto alla modifica non può superare il 20% dello stanziamento iniziale di un regime
di aiuto esistente.
Per quanto concerne gli aiuti esistenti, non devono essere notificati alla Commissione, poiché sono
qualificati come semplici misure di esecuzione del regime generale.
L’adozione da parte dello Stato di un nuovo aiuto senza previamente notificarlo, oppure la sua
attuazione in modo abusivo comportano, la chiusura della procedura di controllo con un giudizio di
incompatibilità dell’aiuto con il mercato interno. Tale atto riveste la forma di una decisione con cui la
Commissione impone allo Stato membro di sopprimere o modificare l’aiuto nel termine da lei fissato.
Lo Stato, pertanto, deve attivare tutte le misure idonee a recuperare l’aiuto illegittimamente percepito
dal beneficiario; va precisato che le norme procedurali dell’ordinamento nazionale dirette in astratto
al recupero non devono essere applicate in modo da renderlo praticamente impossibile. Infatti, il
recupero dell’aiuto è diretto a ripristinare rapidamente la situazione anteriore alla sua erogazione
eliminando l’effetto distorsivo della concorrenza prodottosi a favore delle imprese beneficiate,
comprensivo quindi anche di tutti i vantaggi finanziari derivati.
La Commissione ha sempre avuto, sulla circostanza in questione, un atteggiamento molto rigoroso,
ingiungendo sistematicamente agli Stati membri di recuperare ogni aiuto illegale perché privo di
previa notifica o da essa giudicato incompatibile con il mercato comune.
L’aiuto deve essere recuperato maggiorato degli interessi che decorrono dalla data in cui l’aiuto
illegale è divenuto disponibile per il beneficiario fino alla data di recupero.
Inoltre, la Commissione, può ordinare agli Sati membri di sospendere il pagamento di un nuovo aiuto
“compatibile” ad un’impresa fintantoché quest’ultima non abbia rimborsato il precedente aiuto
illegale e incompatibile che formi oggetto di una decisione di recupero, il quale deve essere effettivo e
concreto.
Lo stesso ricorso di annullamento presentato dinanzi al Tribunale contro una decisione che ordina il
recupero di un aiuto non ha effetto sospensivo sull’obbligo di dare esecuzione alla stessa.
L’unica eccezione all’obbligo di dare esecuzione alla decisione di recupero, è riferita dalla
giurisprudenza della Corte all’esistenza di circostanze eccezionali da cui si desuma per lo Stato
l’impossibilità assoluta di dare corretta esecuzione alla decisione. È il caso della sopravvenienza di
difficoltà impreviste o imprevedibili; ma rileva anche l’estrema difficoltà, come per l’italiana Imposta
Comunale sugli immobili (ICI), di determinare quale porzione dell’immobile di proprietà dell’ente
senza scopo di lucro sia stata utilizzata esclusivamente per attività non commerciali e quale invece
riferibile ad attività di natura non esclusivamente commerciale.
In tal caso, comunque, lo Stato deve dimostrare che tentato in buona fede di recuperare l’aiuto illegale
e collaborare con la Commissione al fine di superare le difficoltà incontrate, nel rispetto del citato
dovere di leale collaborazione di cui all’art. 4 TUE.
La Corte ha valutato l’obbligo di recupero in termini così rigorosi da giungere ad affermare, nel noto
caso Lucchini, che il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione di diritto nazionale,
volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale
disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e
la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiara con decisione della Commissione delle
Comunità europee divenuta definitiva. Nonostante la situazione del tutto particolare del caso
Lucchini, l’approccio in questione è stato confermato rispetto al giudicato esterno in materia fiscale,
per cui la pronuncia definitiva su un periodo d’imposta diverso da quello all’esame del giudice non
può impedire a quest’ ultimo di accertare correttamente e confermemente al diritto dell’Unione
l’esistenza di pratiche abusive poste in essere nella vicenda sottoposta al suo esame.
Con le descritte sentenze, la Corte non ha voluto disconoscere l’importanza rivestita dal principio
dell’autorità di cosa giudicata negli ordinamenti giuridici ma ha inteso rimarcare la competenza
esclusiva affidata dal Trattato alla Commissione in materia di compatibilità degli aiuti con il mercato
interno.
D’altronde costituirebbe un ottimo escmotage per lo Stato conferire aiuti illegittimi e coprirsi dietro
l’invocazione del legittimo affidamento da parte delle imprese. Tale possibilità priverebbe di
efficacia l’intera procedura di controllo, vanificando l’efficacia delle decisioni adottate dalla
Commissione. Per questa ragione, considerata la mancanza di potere discrezionale dell’autorità
nazionale, il beneficiario dell’aiuto illegittimamente attribuito cessa di trovarsi nell’incertezza non
appena la Commissione adotta una decisione che dichiari l’incompatibilità dell’aiuto e ne imponga il
recupero.
Diversa è la situazione allorché sia proprio un atto della Commissione a far sorgere nel beneficiario di
un aiuto fondate aspettative che l’agevolazione sia stata concessa in conformità del diritto unionale.
Ci si riferisce, ad esempio, al caso in cui per una misura analoga a quella oggetto dell’ordine di
recupero la Commissione abbia escluso la natura di aiuto di Stato; o in cui il legittimo affidamento
derivi da un ritardo significativo della Commissione nell’adottare una decisione. Tale ritardo,
tuttavia, non esime da responsabilità quando dipenda proprio dalla mancata notifica dell’aiuto da
parte dello Stato membro interessato.
L’errore della Commissione, secondo la Corte, non è in grado di vanificare le conseguenze del
comportamento dello Stato concedente anche se solo successivamente sancito come illegittimo.
Infine, un’ulteriore interessante conseguenza sanzionatoria è legata alla disciplina delle offerte
anormalmente basse in materia di appalti pubblici. Per la nuova Direttiva 2014/24 l’amministrazione
aggiudicatrice, la quale ne individua la causa in quanto l’offerente ha ottenuto un aiuto di Stato, può
respingere tale offerta unicamente per questo motivo soltanto dopo aver consultato l’offerente e se
quest’ultimo non è in grado di dimostrare, entro un termine sufficiente stabilito dall’amministrazione
aggiudicatrice, che l’aiuto in questione era compatibile con il mercato interno.
Il giudice dell’Unione non intacca la centralità affidata dal Trattato alla Commissione. Le sue
competenze, si svolgono entro limiti ben definiti, individuati nel sindacato di legittimità sulle
decisioni di questa attraverso la verifica della presenza di vizi d’irregolarità nella procedura, errore
manifestato, insufficiente motivazione, sviamento di potere, dell’esattezza materiale dei fatti, nonché
dell’assenza di manifesti errori di valutazione e di sviamento di potere.
Rispetto ad una decisione della Commissione, ogni Stato membro ed ogni istituzione dell’Unione
hanno titolo per proporre ricorso in annullamento entro due mesi.
La mancata osservanza del termine d’impugnazione rende la decisione definitiva ed intaccabile sì
che, nel caso di un ricorso per infrazione avanzato nei confronti dello Stato, non risulta accettabile
l’eccezione di illegittimità da questo mossa.
L’impugnazione da parte dei privati è condizionata dall’esistenza di un interesse diretto ed
individuale rilevabile sia nell’impresa beneficiaria effettiva, sia nei terzi non beneficiari quali imprese
concorrenti ove lese da un pregiudizio sostanziale.
Anche un’associazione di categoria è, in linea di principio, legittimata a proporre un ricorso di
annullamento avverso una decisione definitiva della Commissione. Il che si verifica soltanto in due
ipotesi e cioè quando le imprese da essa rappresentante o talune di esse hanno la legittimazione ad
agire a titolo individuale o, in secondo luogo, allorché può far valere un interesse proprio, in
particolare perché l’atto di cui è chiesto l’annullamento ha inciso sulla sua posizione di negoziatrice.
La relativa decisione del Tribunale è comunque oggetto di eventuale riesame da parte della Corte di
giustizia, per i soli motivi concernenti la violazione di norme di diritto, con esclusione di qualsiasi
valutazione dei fatti.
Oltre al ricorso in annullamento, può essere promosso un ricorso in carenza, qualora la Commissione
ometta la diffida ad essa rivolta di agire o anche nell’ipotesi in cui essa non si pronunci entro un
termine ragionevole.
Un ulteriore potere è attribuito alla Corte in caso di mancata esecuzione di una precedente sentenza.
Com’è noto, in ciascuna causa e in relazione alle circostanze del caso di specie di cui è investita,
determina le sanzioni pecuniarie adeguate per garantire l’esecuzione più rapida possibile della
sentenza che abbia precedentemente costatato un inadempimento.
In conclusione, va quindi ribadito che il controllo del giudice dell’Unione presenta di sicuro alcune
limitazioni. Per un verso è vero che esso ha il potere di controllare l’interpretazione, da parte della
Commissione, anche di dati di natura economica verificando l’esattezza materiale degli elementi di
prova addotto, la loro attendibilità e la loro coerenza; può, poi, accertare se tali elementi costituiscano
l’insieme dei dati rilevanti che devono essere presi in considerazione per valutare una situazione
complessa e se siano di natura tale da corroborare le conclusioni che ne sono state tratte. Tuttavia non
spetta al giudice dell’Unione sostituire la propria valutazione economica a quella della Commissione.
Infatti, il controllo che i giudici dell’Unione è un controllo che si limita necessariamente alla verifica
dell’osservanza delle regole procedurali e di motivazione, dell’esattezza materiale dei fatti, nonché
dell’assenza di errori di valutazione di sviamento di potere.
Va rimarcato che il giudice nazionale non ha alcuna competenza in ordine alla valutazione di
compatibilità dell’aiuto, riservata com’è noto alla Commissione. La sua funzione, limitata, si riferisce
ai casi in cui un’autorità dello Stato abbia concesso l’aiuto senza rispettare la clausola di sospensione
oppure nell’esecuzione delle decisioni di recupero o ancora in ordine alle domande di risarcimento
dei danni causati dall’aiuto di Stato illegale a concorrenti del beneficiario e terzi.
La Corte di giustizia ha esplicitamente affermato che, al pari della Commissione, i giudici nazionali
possono interpretare la nozione di aiuto di Stato, e ne consegue che essi possono essere chiamati a
conoscere di controversie nell’ambito delle quali hanno titolo ad interpretare ed applicare la nozione
di aiuto: il fine, in tal caso, è quello di determinare se un provvedimento statale, adottato senza seguire
il procedimento di controllo preliminare, debba o meno esservi soggetto.
Sotto questo profilo, è chiara la distinzione di competenze con la Commissione, la cui competenza
esclusiva riguarda la valutazione, sotto il controllo della Corte, della compatibilità di misure di aiuto
con il mercato unico; invece, i giudici nazionali provvedono alla salvaguardia dei diritti dei singoli in
caso di inadempimento dell’obbligo di previa notifica degli aiuti di Stato alla Commissione.
Ad essi è affidato l’esercizio del potere di dichiarare illegittimi gli aiuti non notificati e di richiederne
il recupero sulla valutazione della loro illegalità anche nella salvaguardia dei diritti delle imprese
concorrenti e dei terzi controinteressati. L’importanza di tale ruolo è evidenziata dalla circostanza che
la Commissione non può invece adottare una decisione finale che ordini il recupero dell’aiuto,
dovendo prima effettuare una valutazione completa della compatibilità in un contesto per cui il suo
potere di emanare ingiunzioni preliminari di recupero è soggetto a requisiti giuridici molto rigorosi.
L’obbligo di recupero da parte dei giudici nazionali non si pone sia qualora sussistano circostanze
eccezionali a causa delle quali sarebbe inappropriato ordinare il rimborso di un aiuto di Stato illegale
o anche quando la Commissione abbia adottato una decisione finale che dichiari la compatibilità dello
stesso con il mercato comune.
Per quanto attiene al problema della sospensione, tali provvedimenti possono essere concessi solo
con riserva che siano soddisfatte le condizioni enunciate dalla giurisprudenza.
In generale, c’è da chiedersi se, nella sua attività, il giudice nazionale debba attenersi alle
comunicazioni della Commissione nonostante il loro carattere non vincolante; la risposta, sul piano
formale, dovrebbe essere negativa ma è discutibile che il giudice non possa essere guidato
dall’istituzione che costituisce il dominus del settore, si eviterebbe, tra l’altro, il rischio di
interpretazioni divergenti sempre a causa di complessi problemi e di incertezza del diritto. Più
consigliabile appare che il giudice possa chiedere alla Commissione chiarimenti sui vari profili
interpretativi della misura in esame.
Va infine rilevato che l’Italia ha finalmente articolato meglio le procedure ed adempimenti correlati
alla materia in esame, con la Legge 234 del 24 dicembre 2012, riguardante le Norme generali sulla
partecipazione dell’Italia alla formazione e attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione.
Essa risponde alla necessità di adeguare la normativa contenuta nella precedente legge, alle
innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona al fine di consentire maggiore partecipazione del
Parlamento e delle autonomie locali alla fase di formazione delle normative e delle politiche europee
nonché di provvedere con maggiore rapidità all’attuazione delle Direttive nel rispetto del principio di
sussidiarietà.
Per quel che ci riguarda, la nuova normativa riconduce a sistema la materia degli aiuti di Stato,
comprese le procedure relative all’esecuzione delle decisioni di recupero, e prevede anche il riordino
delle disposizioni in tema di contenzioso innanzi alla Corte di giustizia.
Più precisamente si assicura l’unitarietà d’indirizzo per la tutela degli interessi nazionali nel settore
degli aiuti pubblici, s’introduce il divieto della concessione di aiuti a coloro che in precedenza hanno
ricevuto e non rimborsato aiuti ritenuti illegali o incompatibili dalla Commissione europea e si
affidano alla società Equitalia le procedure di recupero degli aiuti incompatibili.
È poi prevista la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con l’impugnazione davanti al
TAR competente del territorio, che è altresì competente sui ricorsi contro provvedimenti relativi ad
aiuti alle imprese in violazione dell’obbligo di notifica alla Commissione.
Quindi con la Legge 234/2012 viene ampliato in maniera significativa l’ambito di competenza del
giudice amministrativo rispetto a quello in precedenza previsto dal diritto comune. In particolare, un
campo d’intervento nuovo dovrebbe essere quello della tutela cautelare considerata l’importanza
dell’efficacia dei relativi provvedimenti in questione, resi più incisivi dal nuovo Codice sul processo
amministrativo.
Gli aiuti di stato si muovono all’interno del dilemma fra il potenziale effetto distorsivo della
concorrenza nel mercato e il contributo al raggiungimento di obiettivi qualificanti per il
rafforzamento di una vera e propria economia sociale di mercato. Non va dimenticato che quest’
ultima dovrebbe costituire un vero e proprio elemento identitario del processo d’integrazione e non
essere messa a rischio da un’applicazione rigida delle regole di concorrenza.
La Commissione è in grado di occupare una maggiore centralità all’interno degli equilibri
interistituzionali dell’Unione. Ad essa, sotto la supervisione del Consiglio europeo, spetta il delicato
compito di modulare sapientemente limiti e possibilità di concessione degli aiuti statali.
La razionalizzazione del sistema deve tuttavia tener conto del pericolo che si creino ulteriori divari tra
gli Stati membri a seguito del differente grado di utilizzazione degli aiuti. La Commissione dovrebbe
allora svolgere un ruolo più coerente con le originarie funzioni ipotizzate dai costruttori del processo
d’integrazione ma ripetutamente svuotato soprattutto nel corso degli ultimi anni a favore della mera
cooperazione intergovenativa. Si tratta di consentire alle norme del Trattato di rispondere con
maggiore incisività ed efficacia alle complesse esigenze del processo d’integrazione che si colloca in
un contesto mondiale caratterizzato progressivamente da una forte ibridazione tra mercato e
interventi dello Stato.
I diritti sociali vanno ricollocanti in sede europea per due ragioni: la prima è data dalla dimensione
sovranazionale delle relazioni sociali quale conseguenza inevitabile di quella dell’economia; essa ha
prodotto la necessità di sviluppare un nuovo compromesso sociale per le derivanti difficolta dei
sistemi nazionali di assicurare un’adeguata protezione; la seconda ragione risiede nel trasferimento di
una pluralità di competenze e poteri normativi, anche per quanto riguarda la sfera sociale, nelle
istituzioni europee.
Maggiore rilievo, nell’ambito del Consiglio d’Europa, assume la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo di Roma del 1950 (CEDU).
I diritti sociali presentano ben altra portata nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione, anche se
inizialmente essi sono pressoché assenti e sono comunque sacrificati sull’altare del mercato comune e
della concorrenza. Nella prima fase i riferimenti fondamentali vanno ricercati soltanto nel principio di
eguaglianza e nel divieto delle discriminazioni. È vero, infatti, che il Trattato di Roma istitutivo della
Comunità economica europea indica tra gli obietti un miglioramento del tenore di vita e con l’art. 117
esprime l’accordo tra gli Stati membri sulla necessità di promuovere il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera che consenta la loro parificazione nel progresso. Ma
tra le clausole sociali solo la parità uomo – donna diviene, grazie alla Corte di giustizia, il primo
“cavallo di Troia” di un’effettiva tutela del lavoro. Non a caso proprio in occasione dell’applicazione
di tale parità la Corte di giustizia sancisce, nel noto caso Defrenne II, che il principio della parità di
retribuzione è uno dei principi fondamentali della comunità e che i giudizi nazionali devono tutelare.
Lo stesso Comitato economico e sociale nasce come forum di discussione delle questioni legate al
mercato unico per trasmettere i propri pareri alle maggiori istituzioni. Esso è oggi, con il Comitato
delle Regioni, organo consultivo dell’Unione in grado di formulare parere anche di propria iniziativa.
Il Trattato, nei primi anni, ha il prioritario obiettivo di creare il mercato comune, rendendo la
legislazione in materia di lavoro, funzionale rispetto a questo: migliorando le condizioni di vita e di
lavoro si sarebbe prodotto solo quale conseguenza del funzionamento del mercato e comunque
costituire oggetto di tutela soprattutto al fine di evitare distorsioni della concorrenza. In tal senso va
letta la vasta giurisprudenza della Corte nell’attribuire valenza sociale al principio di non
discriminazione a motivo della nazionalità nell’ambito della libera circolazione dei lavoratori, al fine
di consentire l’inserimento degli stranieri comunitari e delle loro famiglie nel nuovo contesto
territoriali di immigrazione.
Il superamento del deficit sociale è lento e complesso ed è diretto alla costruzione di un modello
sociale europeo basato sullo sviluppo della politica sociale e l’insieme dei diritti sociali cui fa
riferimento. Su questa base si aprono i primi tentativi di dialogo sociale tra la Confederazione dei
sindacati (CES) e le organizzazioni europee degli imprenditori sia privati (UNICE) che pubblici
(CEEP).
Il secondo “cavallo di Troia” ai fini del maggiore rilievo dei profili sociali nell’ordinamento
comunitario è dato da un aspetto puramente procedurale ma di notevole significato non solo
simbolico. Infatti, con l’Atto Unico Europeo, del 17 febbraio 1986, è introdotto il voto a maggioranza
qualificata per l’approvazione delle norme dirette a migliorare l’ambiente di lavoro e a tutelare salute
e sicurezza dei lavoratori. È di tutta evidenza che sottrarre una materia di così delicata importanza alla
possibilità del diritto di veto significa finalmente aver la possibilità di adottare numerosi atti.
Un’ulteriore novità è data dall’introduzione del concetto di coesione economica e sociale,
comportante l’impegno degli Stati membri verso la riduzione del divario fra le diverse regioni e del
ritardo di quelle meno favorite.
Le numerose tappe portano all’approvazione, il 9 dicembre 1989, della Carta dei diritti sociali
fondamentali dei lavoratori la quale, diviene la base per sviluppi importanti, cominciando a disegnare
uno spazio sociale europeo.
Il vero punto di svolta lo si ha con il Tratto sull’Unione europea di Maastricht del 7 febbraio 1992,
con cui l’ampliamento della dimensione sociale dell’azione comunitaria si determina grazie allo
stratagemma, necessario per superare l’opposizione britannica, di inserire un Protocollo addizionale
sottoscritto inizialmente solo da undici dei dodici Stati membri. L’Accordo sulla politica sociale
estende gli obiettivi di intervento comunitario, inserendo l’informazione e la consultazione dei
lavoratori, la parità uomo – donna, l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro.
Inoltre, soprattutto per il settore dell’ambito della fissazione delle condizioni di lavoro, il Consiglio
delibera a maggioranza qualificata degli Stati firmatari, pur restando esclusi i settori della
retribuzione e del diritto sindacale. Ma soprattutto è operato il rinvio ai diritti sanciti dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri
e viene istituita la cittadinanza europea.
L’anomali britannica della descritta clausola derogatoria è superata con il Trattato di Amsterdam del
2 ottobre 1997, grazie al nuovo atteggiamento politico assunto dal Regno Unito. Il contenuto
dell’accordo sulla politica sociale è così trasposto nei nuovi articoli da 136 a 145 con preciso
riferimento si diritti sociali fondamentali. Il modificato quadro normativo offre maggiori possibilità
interpretative alla Corte di giustizia per cui i nuovi equilibri politici raggiunti sono dalla stessa assunti
nella sentenza Albany con cui vengono posti i primi limiti alla libertà di concorrenza in ordine agli
accordi collettivi stipulati tra organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Nella sentenza è fatto esplicito riferimento al principio di solidarietà, che acquisterà un ruolo più
rilevante dopo Lisbona.
I passi fatti restano tuttavia ancorati al conseguimento di obiettivi sociali ma non del soddisfacimento
di veri e propri diritti sociali, e pur sempre nel quadro del mantenimento della competitività
dell’economia comunitaria.
Di grande rilievo è la Direttiva 99/70 sul lavoro a tempo determinato, per l’ovvia ragione che, con la
crisi economica, si implica il ricorso al contratto a termine quale forma contrattuale preferita per le
nuove assunzioni; tale Direttiva si è rivelata uno strumento normativo in grado di offrire garanzie
importanti in molti Paesi ed in particolare nel nostro.
La tutela dei diritti in materia sociale si rafforza con l’approvazione della Direttiva 2000/43 sulla
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dalla
Direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro nonché
le Direttive sulle pari opportunità. Si tratta di provvedimenti di grande rilevanza, costruiti con
struttura e contenuti quasi identici, salvo che per la specifica tipologia dei motivi discriminatori
sanzionati. L’art. 1 della Direttiva 2000/78 si pone l’obiettivo di stabilire un quadro generale per la
lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, età ecc.
Si delinea quindi un atteggiamento della Corte di giustizia in cui la tutela dei diritti non è più garantita
solo in quanto funzionale agli interessi e agli obiettivi della Comunità, ma si lega progressivamente al
raggiungimento dei valori ed obiettivi più generali perseguiti dal Trattato.
Tale evoluzione riceve un impulso dal Consiglio europeo di Nizza che adotta l’Agenda sociale
europea, ma soprattutto, viene proclamata la Carta dei diritti fondamentali che, non opera più la
tradizionale divisione, fra diritti civili e politici, da un lato, e sociali ed economici, dall’altro. Nell’atto
adottato a Nizza, tali diritti sono unificati attorno ai valori fondamentali della dignità della persona,
della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, della cittadinanza e della giustizia.
È in tal senso significativo che la libertà di riunione e di associazione nonché i diritti di lavorare e di
stabilirsi in qualunque Stato membro sono già sanciti nel titolo II dedicato alle Libertà, insieme alla
libertà di impresa e al diritto di proprietà, ma trovano un rafforzamento nei successivi titoli III
“Uguaglianza” e IV “Solidarietà”.
Questo insieme di disposizioni si muove quindi nella medesima logica del perseguimento delle
finalità di progresso e coesione sociali su cui afferma di fondarsi l’intero processo d’integrazione
europea. È vero che la stessa Carta pone una propria autolimitazione, prevedendo all’art. 51, par. 2, di
non introdurre competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione” e di non modificare le competenze e
i compiti definiti nei trattati”. Tuttavia tale portata delimitativa andrebbe letta nel senso che la Carta
debba comunque dispiegare i suoi effetti riguardo a tutte le situazioni legate ad una materia oggetto di
disciplina normativa dell’Unione. Peraltro, la Carta non viene inizialmente dotata di valore
giuridicamente vincolante, per il quale si dovrà attendere il Trattato di Lisbona.
Peraltro la Carta contribuisce al conseguenziale rafforzamento del ruolo assunto dalle norme della
Convenzione di Roma del 1950 rispetto alla quale i giudici di Lussemburgo si sentono ancor di più
propensi a riconoscerne il rilievo. Esemplare, in tal senso, è una sentenza della Corte di giustizia del
2003: la Corte piega il principio della libera circolazione delle merci al rispetto di un diritto
fondamentale come quello di sciopero. La tutela dei diritti fondamentali rappresenta un legittimo
interesse che giustifica una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché
derivanti da una libertà fondamentale garantita dal Trattato, quale libera circolazione di merci.
Per i giudici di Lussemburgo i diritti alla libertà d’espressione e alla libertà di riunione pacifica vanno
invece considerati alla luce della loro funzione sociale consentendone alcune restrizioni a condizione
che le stesse rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale e non costituiscano, rispetto
allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile tale da ledere la sostanza stessa dei
diritti tutelati. Occorre quindi effettuare un bilanciamento tra gli interessi di cui si tratta ed accertare,
con riferimento a tutte le circostanze di ciascuna fattispecie, se sia stato osservato un giusto equilibrio
tra i suddetti interessi.
La tutela dei diritti fondamentali può quindi giustificare una limitazione degli obblighi imposti dal
diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà garantita dal Trattato.
Le speranze da molti riposte in una sorta di capovolgimento dei rapporti tra diritti economici e diritti
sociali grazie alla giurisprudenza innovativa della Corte di giustizia sono nondimeno deluse dalle
celeberrime sentenze Viking e Laval.
Nella prima, riguardante lo sciopero, volta ad impedire, mediante la stipulazione di appositi contratti
collettivi, gli effetti deteriori sul trattamento dei lavoratori del mutamento di bandiera, da finlandese
ad estone, di una nave. Nella Laval, si tratta della pretesa avanzata dal sindacato, anche mediante
azioni collettive, di indurre un’impresa lettone, avente cantieri in Svezia, ad aderire ad un contratto
collettivo al quale è pacifico in causa che l’impresa medesima abbia la libertà di aderire.
Nelle due sentenze la Corte di giustizia, pur riconoscendo per la prima volta il diritto dei sindacati di
intraprendere un’azione collettiva come un diritto fondamentale, tuttavia ne limita l’utilizzazione nel
senso che essa deve avvenire in modo proporzionato. La Corte precisa che le restrizioni alle libertà
del mercato possono essere giustificate da una ragione imperativa d’interesse generale come la tutela
dei lavoratori, purché venga accertato che le stesse siano idonee a garantire la realizzazione del
legittimo obiettivo perseguito e non vadano al di là di ciò che è necessario per conseguire simile
obiettivo Nella sentenza Viking la Corte, pur sancendo l’intangibilità del diritto di sciopero ai fini
contrattuali nei confronti della libertà di concorrenza. Viene quindi dalla Corte assegnata una
sostanziale prevalenza alla puntuale disciplina sovranazionale di settore della libertà economica, nella
specie contenuta nelle Direttive 92/50 e 2004/18.
Si è accennato in precedenza alla circostanza che il criterio del bilanciamento era già stato adottato
dalla Corte di Strasburgo ma il relativo impatto valutativo è certamente inferiore; essa, infatti, deve
basarsi anzitutto sul diritto da proteggere e solo nelle considerazioni finali ha il compito di verificare
l’eventuale esistenza di limiti, peraltro operanti sol ose espressamente sanciti. Si tratta,
evidentemente, di un approccio che appare come opposto rispetto a quello utilizzato dalla Corte di
giustizia, ancorata alla persistente priorità delle libertà economiche.
Lo scarso coraggio che la Corte di giustizia continua a mostrare va comunque letto alla luce della
collocazione dei diritti in questione in un ambito sovranazionale ancora a dimensione
prevalentemente economica. Certamente, il rafforzarsi del processo d’integrazione europea, con il
valore giuridicamente vincolante della Carta e la futura adesione alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, potrebbero creare un quadro normativo di base tale da indurre la Corte di giustizia a
rivedere le proprie posizioni in ordine al disegno gerarchico dei valori fondamentali.
Nella direzione appena indicata si muove il Trattato di Lisbona, con il quale s’introducono
interessanti novità sotto il profilo della valorizzazione degli aspetti sociali dell’integrazione. In via
generale l’art. 6 TUE, oltre a riproporre il richiamo alla Convenzione europea e alle tradizioni
costituzionali comuni, codifica l’adesione dell’Unione alla CEDU ed accorda alla Carta, lo stesso
valore giuridico vincolante dei Trattati.
L’art. 2 TUE sui valori dell’Unione sancisce quello della solidarietà, caratterizzando in talo modo la
disposizione successiva sugli obiettivi. Nell’art. 3, par. 3, infatti, gli obiettivi dell’Unione sono
ridefiniti facendo esplicito riferimento ad un’economia sociale di mercato, alla piena occupazione,
alla lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni, alla parità tra donne e uomini, alla solidarietà e
alla coesione sociale.
Il Trattato del 2007 ha introdotto l’obiettivo di un’economia sociale di mercato fortemente
competitiva, dove un ruolo particolarmente incisivo viene assegnato all’aggettivo sociale,
evidenziando uno sforzo di riequilibrio tra i valori, fini ed obiettivi sociali ed economici, appunto
nell’ottica di un’integrazione tra solidarietà e mercato.
Un ulteriore aspetto della conversione del Trattato si evince dall’art. 9 TFUE, una vera e propria
clausola sociale orizzontale che introduce per la prima volta nel sistema una condizionalità sociale
affiancandosi, e restituendo lo maggior forza, alle altre più specifiche clausole orizzontali come
quelle relative alla parità tra uomini e donne, alla tutela dell’ambiente, alla protezione dei
consumatori, alla lotta contro la discriminazione, tutte significativamente collocate nel titolo II
“Disposizioni di applicazione generale”.
Secondo la Corte di giustizia la Carta di Nizza occupa, attualmente, una posizione centrale nel
sistema di tutela dei diritti fondamentali in seno all’Unione, essa deve costituire la norma di
riferimento ogniqualvolta la Corte sia chiamata a pronunciarsi sulla conformità di un atto dell’Unione
o di una disposizione nazionale con i diritti fondamentali tutelati dalla Carta stessa.
È ovvio che un processo fondato sulla solidarietà coniugata a più livelli non possa che costruirsi dal
basso, partendo anche dai soggetti collettivi in grado di rappresentare gli interessi dei cittadini europei
attori nel mercato del lavoro. In tal senso va letto l’art. 152 TFUE, contenente l’implicito
riconoscimento giuridico delle diverse forme nelle quali si esprime il diritto sindacale. Esso svolge
un’importante funzione di rafforzamento della legittimazione degli istituti del pluralismo sociale al
livello dell’Unione; acquisiscono, così, ben maggiore significato sia concentrazione e la
contrattazione collettiva, come metodo di regolazione sopranazionale, quanto i processi di
negoziazione collettiva autonoma diffusisi di recente.
Ovviamente, la Corte di Lussemburgo, ha sentito la necessità di svolgere opportune operazione di
bilanciamento con altri principi tenendo contro di criteri tipici del sistema quali la ragionevolezza, la
proporzionalità, l’adeguatezza che sono influenzati dal caso concreto. L’ormai necessaria proiezione
sovranazionale deve costituire uno dei perni della progressiva democratizzazione della vita
dell’Unione. Grazie alle diverse sentenze della Corte di Lussemburgo si è decisamente ampliata la
sfera dei diritti di accesso transnazionale ad un’ampia gamma di prestazioni assistenziali e
previdenziali degli Stati membri, includendo anche i cittadini europei economicamente non attivi che
versino in condizione di bisogno sociale, dischiudendo così una forma di solidarietà sociale europea.
Questa giurisprudenza sembra indicare un affrancamento dalla logica del mercato ed il superamento
della concezione rigidamente funzionalizzata legata ai soggetti economicamente attivi nella veste di
lavoratori subordinati o autonomi.
Va infine segnalato che L’UE ha dimostrato interesse per la razionalizzazione di forme di reddito
minimo garantito e per l’istituzionalizzazione di una rete minima di sicurezza nell’ambito del
processo d’inclusione sociale. Si tratta del disegno di contrato indispensabile rispetto alle situazioni di
povertà, che risulterebbero, in grado di compromettere il godimento dei diritti civili e politici
vanificando l’obiettivo d’inclusione sociale.
A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sono opportune delle considerazioni in ordine
alla non chiarissima distinzione, prevista negli art. 51, par 1, e 52 della Carta, fra principi, che sono
riconosciuti, e diritti, devono essere osservati. Tale differenziazione è stata meglio precisata con le
modifiche introdotte nel 2007, per questo le disposizioni della Carta, che contengono dei principi,
possono essere attuate da atti legislativi ed esecuti adottati da istituzioni, organi e organismi
dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione,
nell’esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono invocate dianzi al giudice solo ai fini
dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti.
Dunque, mentre oggetto dei diritti è la tutela di una situazione giuridica già definita, per i principi è
previsto un mandato ai pubblici poteri chiamati a promuoverli e a trasformarli in una realtà giuridica.
I principi svolgono una funzione prevalentemente interpretativa quale parametro di riferimento per
l’azione del legislatore.
Va sottolineato che la formulazione della Carta non è tale da potersi desumere con sufficiente
precisione quando ci si trovi dinanzi all’una o all’altra categoria, ma una linea guida in proposito è
rintracciabile nel Mandato di Colonia a redigere una Carta dei diritti fondamentali per cui la Carta
deve contenere i diritti fondamentali riservati ai cittadini dell’Unione e nell’elaborazione occorrerà
prendere in considerazione diritti economici e sociali. Il riferimento a questi diritti non è casuale in
quanto essi sono stati prevalentemente intesi quale espressione di un intento programmatorio e quindi
più agevolmente collocabili nell’ambito dei principi.
L’approccio interpretativo sta però mutando, così da rendere necessaria, per la materia dei diritti
sociali, una valutazione circostanziata per ciascuna norma al fine di qualificarne la portata giuridica.
Nella specie, alcuni diritti, per la loro stessa natura e strutturazione, non riguardano i singoli, mentre
altri assumono con evidenza rilevanza nei rapporti giuridici privati. E proprio per quest’ultimi è rese
ulteriormente più delicata la funzione dell’interprete giurisdizionale.
Nel quadro appena delineato, la nascita di un vero e proprio modello sociale europeo potrebbe trarre
sicuro giovamento dalla adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I
riflessi positivi deriverebbero, soprattutto, dal conseguente ed indispensabile rafforzamento del
dialogo fra le due Corti.
In altri termini, si sta formando una nuova griglia di principi e diritti che innerva l’attuale assetto
istituzionale dell’Unione. Grazie ad essa, il controllo giurisdizionale esterno che la Corte di
Strasburgo potrà operare sulla normativa dell’Unione, costituirà senz’altro un maggiore stimolo per
le istituzioni e per la stessa Corte di giustizia al fine di conformarsi pienamente al rispetto dei diritti
fondamentali.
Non è semplice garantire la necessità di una coerenza dei due ordini, ma comunque, un esempio
d’interazione fra di essi può desumersi da qualche sentenza, in cui si precisa che si possono addurre
motivi d’interesse generale per giustificare una misura nazionale idonea ad ostacolare l’esercizio
della libera prestazione dei servizi solo qualora detta misura sia conforme a tali diritti fondamentali, e
in particolare al diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Non va inoltre trascurato, in queste reciproche contaminazioni, il contributo rinveniente dalle
giurisdizioni nazionali come, ad esempio, dalla nostra Corte di cassazione che, nella pronuncia del 2
febbraio 2010, in materia di “demansionamento” e danno alla professionalità, ha affermato che i
giudici del rinvio dovranno ispirarsi anche ai principi di cui all’art.1 della Carta, che regola il valore
della dignità umana, e all’art. 15, che regola la libertà professionale come diritto inviolabile.
Anche nel sistema europeo, il miglioramento della qualità della vita, inizialmente basato sugli aspetti
strettamente connessi alla crescita economica, viene legato anche alla protezione dell’ambiente
naturale con la Dichiarazione dei Capi di Stato e di governo di Parigi nel novembre 1972.
Dobbiamo tuttavia attendere l’Atto unico europeo del 987 per l’introduzione nel Trattato di un
apposito titolo “Ambiente”, con cui si fornisce la prima base giuridica per una politica comune
finalizzata a salvaguardarne la qualità, proteggere a salute umana e garantire un uso razionale delle
risorse naturali. A Maastricht tale politica viene rafforzata grazie all’introduzione della regola
generale del voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio. Il trattato di Amsterdam ha poi
stabilito l’obbligo di integrare la tutela ambientale in tutte le politiche settoriali dell’Unione al fine di
promuovere lo sviluppo sostenibile.
La Carta dei Diritti Fondamentali proclamata a Nizza nel 200 prevede una norma specifica, l’art. 37,
per il quale “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono
essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo
sostenibile”. Con il Trattato di Lisbona sono ribadite le norme e le misure poste per la tutela
ambientale e per la prima volta viene sancita la protezione del clima. Il TUE recita che l’Unione si
adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, contribuendo all’elaborazione di misure
internazionali per perseverare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle
risorse naturali mondiali.
Il TFUE ribadisce che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella
definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione.
Il cuore della disciplina della materia è comunque il Titolo XX; ci troviamo in una competenza
concorrente fra Unione Stati membri, dove il principio di sussidiarietà si applica spesso a favore
dell’Unione in quanto gli obiettivi possono essere meglio realizzati a tale livello piuttosto che a quello
dei singoli Stati membri.
La politica ambientale ora include diversi obiettivi connessi fra loro, per esempio salvaguardia, tutela
e miglioramento della qualità dell’ambiente, protezione della salute umana, utilizzazione accorta e
razionale delle risorse naturali ecc. È comunque importante sottolineare lo stretto collegamento fra
tutela ambientale e salvaguardia della salute umana, poiché è ormai chiaro che diverse malattie, anche
molto gravi, possono derivare dal degrado ambientale e dall’inquinamento.
L’ampia produzione normativa in applicazione degli obbiettivi fissati dal Trattato riguarda anche la
gestione delle risorse naturali e dei rifiuti, oggi è inserita in una Tabella di Marcia verso un’Europa
efficiente nell’impiego delle risorse (Strategia Europa 2020). In tale ambito è centrale la Direttiva
quadro sui rifiuti 2008/98 del 19 novembre 2008, adottata a seguito della strategia tematica sulla
prevenzione e riciclaggio dei rifiuti. Poi, il Regolamento 1013/2006 sulle spedizioni di rifiuti del 14
giugno 2006 disciplina tali spedizioni sia all’interno dell’Unione sia tra questa e i Paesi terzi, con
l’obiettivo specifico di migliorare la tutela ambientale. Esso contempla la spedizione di quasi tutte le
tipologie di rifiuti, per mezzo di veicolo stradali, treni, navi e aerei. In particolare, vieta le
esportazioni di rifiuti pericolosi verso Paesi non OCSE e le esportazioni di rifiuti destinati allo
smaltimento al di fuori dell’Unione o dell’Associazione europea di libero scambio.
Inoltre, la protezione dei sistemi naturali e della biodiversità è oggetto, da parte della Commissione,
di una nuova strategia che definisce il quadro per l’azione dell’UE nel prossimo decennio al fine di
conseguire l’obiettivo chiave per il 2020; essa si articola attorno a sei obiettivi complementari e
sinergici incentrati sulle cause primarie della perdita di biodiversità e volti a ridurre le principali
pressioni esercitate sulla natura e sui servizi ecosistemici nell’Unione. Ogni obiettivo si traduce in
una serie di azioni legate a scadenze temporali e di altre misure di accompagnamento ed il primo di
essi mira a dare piena attuazione alle Direttive Habitat e Uccelli:
- la Direttiva Habitat (1992) ha lo scopo di salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione
degli habitat naturali. Essa è costruita intorno a due pilastri, ovvero, la rete ecologica Natura 2000,
costituita da siti mirati alla conservazione di habitat e specie elencati negli Allegati, e il regime di
tutela delle specie elencate negli Allegati;
- la Direttiva Uccelli (2009) riguarda la conservazione degli uccelli selvatici, ed ha quindi
l’obiettivo di proteggere gli habitat delle specie elencate nell’Allegato e di quelle migratorie non
elencate che ritornano regolarmente, attraverso una rete coerente di Zone di Protezione Speciale che
includono i territori più adatti alla sopravvivenza di queste specie.
Per quanto concerne, infine, l’obiettivo di porre sotto controllo il cambiamento climatico e quindi le
quote di emissione dei gas a effetto serra, in applicazione della Convenzione Quadro delle Nazioni
Unite sui cambiamenti Climatici del 1992 e del Protocollo di Kyoto del 1997, l’Unione ha adottato la
Direttiva 2003/87 del 13 ottobre 2003 che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni
dei gas a effetto serra. A partire dal 1° gennaio 2005 tale sistema, denominato Emission Trading
System, permette agli Stati membri di adempiere agli obblighi di riduzione delle emissioni attraverso
un meccanismo di acquisto o di vendita di quote di emissione.
Recentemente è stato adottato il Regolamento 517/2004 del 2014, che si propone di proteggere
l’ambiente mediante la riduzione delle emissioni di gas fluorurati a effetto serra:
a) stabilisce disposizioni in tema di contenimento, uso, recupero e distribuzione dei gas fluorurati a
effetto serra e di provvedimenti accessori connessi;
b) impone condizioni per l’immissione in commercio di prodotti e apparecchiature specifici che
contengono o il cui funzionamento dipende da gas fluorurati a effetto serra;
c) impone condizioni per particolari usi di gas fluorurati a effetto serra;
d) stabilisce limiti quantitativi per l’immissione in commercio di idrofluorocarburi.
Nella Comunicazione del 10 gennaio 2007 dal titolo “Limitare il surriscaldamento dovuto ai
cambiamenti climatici”, la Commissione propone che l’Unione adotti obiettivi di riduzione delle
emissioni dei gas serra e chiede che l’UE si fissi l’obiettivo di abbattere le emissioni di gas serra dei
Paesi industrializzati del 30% entro il 2020.
Tenuto conto che il 60% del territorio dell’Unione europea è costituito da bacini idrografici condivisi,
particolare importanza riveste, inoltre, la normativa europea per la gestione del patrimonio idrico, che
mira alla protezione ed alla gestione integrata delle risorse idriche attraverso la definizione di obiettivi
di qualità e la fissazione di valori limite di emissione degli inquinanti. La disciplina ha fissato al 2015
ambiziosi obiettivi di qualità per le acque superficiali e sotterranee. I ritardi accumulati e le carenze
strutturali emerse nel raggiungimento degli obiettivi fissati sono illustrati nella Comunicazione della
Commissione del 9 marzo 2015.
A base della politica in esame sono posti alcuni principi e cioè precauzione, azione preventiva,
correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente, nonché il “chi inquina paga”.
I primi due propongono un modello di tutela di carattere “anticipatorio”, in quanto consentono un
intervento antecedente rispetto al verificarsi del danno ambientale Diversamente, i principi della
correzione alla fonte e “chi inquina paga” intervengono in via residuale nei casi in cui non è possibile
evitare il danno. La sistemazione di questi principi nell’art. 191 TFUE secondo una scala gerarchica
discendente suggerisce, quindi, di privilegiare, interventi di natura preventiva, indubbiamente più
efficaci rispetto a strumenti meramente risarcitori.
- il principio di precauzione trova applicazione in tutti i casi nei quali una preliminare valutazione
scientifica indica che vi sono ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti noci sull’ambiente e
sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere compatibili con l’elevato
livello di protezione prescelto dalla Comunità. Esso, pertanto, comporta che le autorità pubbliche,
possano adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la
realtà e la gravità di tali rischi. Nel caso in cui si ritenga necessario agire, le misure basate sul
principio di precauzione dovrebbero essere proporzionali rispetto al livello prescelto di protezione,
non discriminatorie nella loro applicazione, coerenti con misure analoghe già adottate, basate su un
esame dei potenziali vantaggi e oneri dell’azione o dell’inazione, soggette a revisione, alla luce dei
nuovi dati scientifici, e in grado di attribuire la responsabilità per la produzione delle prove
scientifiche necessarie per una più completa valutazione del rischio.
- l’azione preventiva o prevenzione, esprime la necessità di intervenire prima che siano causati
dei danni, così da prevenire o, almeno, ridurre fortemente, il rischio che tali danni si verifichino. Esso
opera in un rapporto di complementarietà con il principio di precauzione, il quale è di più recente
formulazione e dello stesso costituisce il logico sviluppo; a differenza della precauzione, pertanto, le
misure di prevenzione sono adottate quando si conosce con certezza il rischio derivante da alcune
azioni o attività. Per rendere operative le relative prescrizioni, l’ordinamento comunitario ha da
tempo individuato strumenti a carattere preventivo specifico, in riferimento ad opere ed impianti
(VIA), ma anche attraverso piani e programmi (VAS) e attività o relativi al profilo della
responsabilità. Grande importanza sotto molteplici profili presenta la valutazione di impatto
ambientale (VIA) che presuppone la conoscibilità, dal punto di vista scientifico, degli effetti negativi
sull’ambiente derivanti dalla realizzazione di una determinata opera. Con la nuova Direttiva 2014/52
del 16 aprile 2014, le principali novità riguardano la separazione funzionale tra autorità competente e
committente, per evitare i conflitti d’interesse; le sanzioni che devono essere effettive, proporzionate
e dissuasiva; le informazioni ambientali che devono essere tempestive e disponibili anche in formato
elettronico. Sono anche previsti progetti transfrontalieri, per cui gli Stati interessati possono creare un
organismo comune e paritetico per coordinare le procedure e le consultazioni.
Sono inoltre previsti nuovi fattori ambientali da valutare, quali il territorio, la popolazione, la salute
umana e la biodiversità, da rapportare all’efficienza delle risorse, ai cambiamenti climatici e ai rischi
di incidenti e calamità. L’obiettivo è di meglio garantire il miglioramento della protezione
ambientale, una maggiore efficienza delle risorse e il sostegno alla crescita sostenibile nell’Unione.
- il principio della correzione in via prioritaria alla fonte si pone in una posizione intermedia tra
la prevenzione e il risarcimento del danno. Esso impone che il danno ambientale sia arginato il più
possibile alla “fonte” di produzione, un esempio di applicazione di questo principio è legato alla
gestione dei rifiuti, imponendo trattamento e smaltimento nel luogo più vicino possibile a quello di
produzione. Gli strumenti attuativi per limitare l’immissione di sostanza inquinanti nell’ambiente
sono le soglie di emissione che fissano i limiti quantitativi e gli standard di qualità, che intervengono a
monte sulla composizione degli inquinanti.
- il principio di chi inquina paga comporta che l’operatore la cui attività ha causato un danno
ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in
modo da indurre gli operati ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi
di danno ambientale. L’imputazione di tali costi serve da incentivo per i responsabili
dell’inquinamento a diminuire la portata e, soprattutto, a ricercare metodologie meno inquinanti.
Va precisato che non a tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la
responsabilità civile, in quanto è necessario che vi sia uno o più inquinatori individuabili, il danno
dovrebbe essere concreto e quantificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli
inquinatori individuati.
In proposito è interessante una recente sentenza della Corte che non ha ritenuto in contrasto con la
Direttiva 2004/35 la legislazione italiana la quale non impone al proprietario di un terreno di avviare
azioni di bonifica e/o riparazione, quando questi non sia direttamente responsabile del suo
inquinamento.
Il Trattato di Lisbona crea uno stretto legame tra ambiente e politica energetica, poiché gli obiettivi di
quest’ultima devono essere raggiunti vista la necessità di perseverare e migliorare l’ambiente.
La Comunicazione Energia 2020, in quanto parte dell’Iniziativa faro “Un’Europa efficiente
nell’impiego delle risorse”, ha concluso che gli obiettivi di un mercato dell’energia caratterizzato da
sicurezza di approvvigionamento, prezzi accessibili e sostenibilità saranno compromessi se non si
procederà all’ammodernamento delle reti elettriche, se gli impianti obsoleti non saranno sostituiti da
nuovi impianti competitivi e più puliti e se l’energia non sarà utilizzata in modo più efficiente lungo
l’intera filiera energetica.
L’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili aiuta a contenere i cambiamenti climatici. In proposito, la
Direttiva 2009/28/CE del 23 aprile 2009 ha istituito un quadro comune per la produzione di energia a
partire da fonti rinnovabili e per promuoverne l’uso. Ogni Stato membro adotterà un piano d’azione
nazionale per il 2020 che fissa la quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti, nella produzione
di elettricità e nel riscaldamento.
Con la Direttiva 2003/96/CE (2003) viene promosso un uso più efficiente dell’energia per ridurre la
dipendenza dai prodotti energetici di importazione e limitare le emissioni di gas serra. Inoltre, gli Stati
membri sono autorizzati a concedere sgravi fiscali alle imprese che adottano misure specifiche per
ridurre le loro emissioni.
La complessità della materia ha indotto la Commissione a presentare una Strategia quadro per
un’Unione dell’energia resiliente, corredata da una politica lungimirante in materia di cambiamenti
climatici, che si propone di operare una drastica trasformazione del sistema energetico europeo. A tal
fine, per la Commissione, è necessario prendere le distanze da un’economia basata sui combustibili
fossili, con una gestione centralizzata dell’energia incentrata sull’offerta. Bisogna inoltre consentire
ai consumatori di assumere un ruolo attivo mettendo nelle loro mani le informazioni e la possibilità di
operare delle scelte, garantendo la flessibilità per gestire non solo l’offerta ma anche la domanda.
I programmi d’azione per l’ambiente rappresentano sin dal 1970 il principale strumento di
coordinamento pluriennale delle iniziative europee in materia ambientale, evolvendo da semplici atti
a valenza politica a veri e propri strumenti normativi.
Nel 2013 è stato approvato il 7° Programma d’azione ambientale che individua obiettivi e priorità
della politica europea di settore per il periodo 2014 – 2020, per trasformare l’economia mondiale in
un’economia verde inclusiva, nel contesto dello sviluppo sostenibile e della riduzione della povertà.
A tal fine, il nuovo Programma reca un’impostazione metodologica strutturata per obiettivi e non più
per settori d’intervento. Tale approccio consente di focalizzare l’attenzione non solo sulle misure, ma
anche sulle modalità di intervento in modo tale da affiancare agli obiettivi propriamente ambientali
anche obiettivi funzionali relativi a strumenti normativi, economici e finanziari.
L’Unione mette a disposizione delle politiche ambientali un’interessante varietà di strumenti, a
partire da quelli finanziari. I programmi del settennio 2014 – 2020 sono concentrati prioritariamente
sulla realizzazione degli obiettivi della Strategia Europa 2020, che diviene il filo conduttore della
nuova programmazione dell’Unione.
Per rilanciare la competitività dell’Unione su scala mondiale e favorire la creazione di posti di lavoro
e di nuove idee per il futuro, è stato adottato il Programma Orizzonte 2020. Esso deve aiutate ad
affrontare le grandi sfide sociali come i cambiamenti climatici, la disponibilità di alimenti sicuri o
l’invecchiamento della popolazione. In questo strumento finanziario convergeranno tutti i progetti in
questo settore favorendone il coordinamento.
Il Programma Creazione di un’Europa più sicura è specificamene dedicato alla protezione
dell’ambiente e del clima. La Commissione ha proposto di includere questi due obiettivi in tutti gli
ambiti d’intervento e intende aumentare la percentuale di spesa per il clima di almeno il 20%.
Il Programma per l’ambiente e l’azione per il clima (LIFE) 2014 – 2020 dal 1992, con successive
modifiche, opera concretamente per preservare il bene comune ambientale e climatico dell’Unione
incoraggiando il ricorso a tecnologie innovative e coinvolgendo soggetti pubblici e privati.
Uno strumento di grande interesse è il marchio europeo di qualità ecologica (Ecolabel), un sistema a
partecipazione volontaria di etichettatura ecologica che consente ai consumatori di riconoscere i
prodotti di alta qualità più rispettosi dell’ambiente. Esso può essere assegnato ai prodotti e servizi con
un impatto ambientale inferiore rispetto ai prodotti dello stesso gruppo. I criteri per l’assegnazione
dell’Ecobel sono determinati su base scientifica considerando l’intero ciclo di vita dei prodotti, dalla
loro elaborazione fino al loro smaltimento. Il marchio può essere attribuito a tutti i beni e i servizi
destinati alla distribuzione, al consumo o all’uso sul mercato dell’Unione, a titolo oneroso o gratuito,
purché siano stati stabiliti con chiarezza dei criteri ecologici (NO MEDICINALI).
Finalità analoghe le presenta il Logo di produzione biologica dell’Unione europea (Euro – Leaf), che
mira a fornire visibilità ai cibi e alle bevande biologiche: essi devono contenere almeno il 95% di
ingredienti agricoli lavorati con metodo biologico; il prodotto deve essere conforme anche alle regole
del sistema di controllo e certificazione approvato da ogni singolo Stato membro; il prodotto proviene
direttamente dal produttore o preparato in una confezione sigillata; il prodotto porta il nome del
produttore, del preparatore o del venditore ed il numero del codice dell’organismo di certificazione
che ha effettuato il controllo dell’ultima operazione prima dell’immissione in vendita.
Importante funzione operativa svolge l’Agenzia europea dell’ambiente la cui missione è fornire
informazioni affidabili e indipendenti sull’ambiente. Essa rappresenta una delle principali fonti
d’informazione cui ricorrono i responsabili politici per definire e valutare la politica ambientale ed
attualmente conta 33 paesi fra i suoi membri. È un organismo indipendente che ha l’obiettivo di
proteggere e migliorare l’ambiente. L’Agenzia organizza le sue attività nel quadro di programmi di
lavoro annuali sulla base di una strategia quinquennale e di un programma di lavoro pluriennale.
Nel Trattato di Lisbona non appare l’espressione “bene culturale”, ma la più ampia nozione di cultura
è presente nel Preambolo per il quale ci si ispira alle eredità culturali, religiose e umanistiche
dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della
persona. Si precisa che l’Unione rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila
sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo.
L’attenzione è prevalentemente diretta al processo culturale fondativo dell’integrazione, in cui il
pluralismo delle storicamente consolidate realtà culturali dei Paesi membri esprime la ricchezza ed il
senso complessivo dell’intero progetto. Un riferimento più particolare al patrimonio culturale andrà
ricercato soprattutto nell’ambito della produzione normativa di carattere secondario.
Risulta evidente che il problema della salvaguardia del patrimonio culturale immateriale è connesso
al tema della diversità culturale. La tutela del patrimonio culturale di tipo immateriale è perciò diretta
alla garanzia di una convivenza pacifica e armoniosa tra i diversi gruppi sociali che producono le
diverse forme di beni culturali immateriali.
In questa direzione si muove la Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle
espressioni culturali, del 2005; essa parte dalla necessità d’integrare la cultura nelle politiche
nazionali ed internazionali di sviluppo, e mira a proteggere e promuovere l’interculturalità. La
diversità culturale viene così considerata una grande ricchezza per gli altri e per la società.
Nell’epoca contemporanea globalizzata, il problema della salvaguardia del pluralismo delle identità
culturali diviene anch’esso un compito fondamentale della Comunità internazionale. Ad essa spetta la
delicata responsabilità di evitare che l’identità si trasformi in un pericoloso nazionalismo.
In proposito è incisivo l’art.1 della Dichiarazione sui Principi sulla Tolleranza dell’Unesco per il
quale essa consiste in rispetto, accettazione ed apprezzamento della ricca diversità delle culture del
nostro mondo, delle nostre forme di espressione e di costumi dell’essere umano. Essa è nutrita da
conoscenza, apertura, comunicazione, libertà di pensiero, di coscienza e di fede.
In Europa, solo a partire dal Trattato di Maastricht del 1992 la cultura entra formalmente tra le
competenze dell’Unione. Come si è detto, l’espressione “bene culturale” non compare in quanto tale
in nessuna disposizione dei Trattati dell’Unione, per cui, nei dubbi interpretativi risulta indispensabile
un rinvio ai vari documenti internazionali descritti.
Il modello europeo costituisce un esempio unico e mirabile di coesistenza fra culture differenti ma,
nel contempo affini, cosicché la connotazione “culturale” di tale ordinamento aumenta di rilievo.
Risulta evidente che i singoli patrimoni nazionali non vanno considerati isolatamente, ma come una
rete di valore diretta ad evidenziare un carattere dell’identità europea.
Proprio per questo l’Unione mette a disposizione, delle politiche culturali, ingenti risorse finanziarie
grazie ad una serie di Programmi quali, Europa creativa e Horizon 2020. In questo contesto, va
segnalata la recentissima adozione da parte della Commissione europea del Programma operativo
“Cultura e Sviluppo” rivolto a cinque regioni del Sud Italia, fra cui la Puglia. Gli obiettivi prefissati
sono il preservare e valorizzare i principali siti culturali, promuoverne un uso efficiente e consolidare
il settore produttivo collegato all’utilizzazione del patrimonio culturale, supportare le piccole e medie
imprese nei settori del turismo, della cultura e della creatività. Per la prima volta la politica di
coesione dell’Unione sostiene un Programma nazionale dedicato al settore culturale, confermando il
ruolo fondamentale della cultura nelle politiche di sviluppo territoriale.
La crescente sensibilità in questa direzione è anche evidenziata dall’istituzione ance nell’Unione di
un Marchio del Patrimonio Europeo, per mettere in evidenza i siti eminenti della storia, della cultura
e dell’integrazione europea al fine di rafforzare il senso di appartenenza dei cittadini nonché aiutare il
dialogo tra le culture. I candidati devono possedere almeno uno fra i tre seguenti requisiti: 1) portata
europea della candidatura, quindi un carattere transazionale con un’influenza o attrattiva che vada
oltre le frontiere nazionali; 2) aver svolto un ruolo nella storia e nell’integrazione europea; 3) essere
stati presenti come ruolo nello sviluppo e nella promozione dei valori comuni su cui si fonda l’UE.
È necessario presentare un progetto organico e strutturato in cui s’impegna a sensibilizzare i cittadini
sulla rilevanza europea del sito, organizzare attività educative, favorire il multilinguismo, partecipare
alle attività delle reti di siti a cui è stato assegnato il marchio. Occorre presentare anche un piano di
lavoro e dimostrare come i candidati risponderanno a un certo numero di condizioni; la preselezione
dei siti viene effettuata dagli Stati membri, che possono sceglierne due ogni due anni. Questi sono
periodicamente controllati per verificare che continuino a rispettare i criteri e in caso di esito
negativo, verranno proposti gli adeguamenti in collaborazione con lo Stato membro interessato,
altrimenti la Commissione può ritirare il marchio (ITALIA – museo casa Alcide De Gasperi).
I profili economici restano prioritari nell’attuale fase dell’integrazione europea, per questo una più
ampia disciplina è dedicati ai beni culturali mobili nell’ottica di conciliare la libera circolazione delle
merci con le esigenze di protezione dei beni aventi valore artistico, storico e archeologico.
In particolare, in ordine all’esportazione dei beni culturali, il Regolamento 116/2009 del 18 dicembre
del 2008 ne definisce le regole ai fini della loro protezione. L’esportazione di beni culturali al di fuori
del territorio UE è soggetta alla presentazione di una licenza di esportazione rilasciata dall’autorità
competente dello Stato membro ed è valida in tutta l’Unione. Tale licenza può essere negata da uno
Stato membro, qualora i beni culturali in questione siano contemplati da una legislazione che tutela in
esso il patrimonio nazionale avente valore artistico, storico o archeologico.
Ulteriore oggetto di disciplina giuridica è il problema della restituzione dei beni culturali usciti
illegalmente dal territorio di uno Stato membro: la restituzione del bene deve avvenire se il bene sia
stato trasferito all’interno dell’Unione ed anche ove sia stato prima esportato verso un Paese terzo e
successivamente importato in un altro Paese membro.
In caso di restituzione, il possessore ha diritto ad un indennizzo se dimostra che egli abbia usato la
dovuta diligenza in occasione dell’acquisto, ad esempio la documentazione sulla provenienza del
bene, le autorizzazioni per l’uscita dello stesso, il prezzo pagato, la consultazione da parte del
possessore dei registri dei beni culturali rubati.
La procedura prevista dalla Direttiva 93/7 ha costituito un primo passo verso la cooperazione tra Stati
membri in questo settore nell’ambito del mercato interno, al fine di un ulteriore riconoscimento
reciproco delle legislazioni nazionali in materia. La Direttiva, tuttavia, ha mostrato seri limiti a causa
della ristrettezza del suo ambito di applicazione risultante dalle condizioni stabilite nel suo allegato. È
stata così approvata la Direttiva 2014/60 che ha ampliato l’ambito di applicazione a qualsiasi bene
culturale definito come patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale.
Per quanto riguarda l’Italia, ci si limita a ricordare il D. Lgs. 22 gennaio 2004, che costituisce la legge
fondamentale di tutela dei beni culturali.
Nell’ambito delle attività del Consiglio d’Europa, va segnalato che fra i primi strumenti
convenzionali adottati c’è la Convenzione culturale europea (1954), che segna l’avvio della
cooperazione nel nostro continente a tutela del patrimonio culturale comune.
L’iniziativa del Consiglio d’Europa si è successivamente concretizzata nella Convenzione di Londra
del 1969 sulla protezione del patrimonio archeologico, rivista nel 1992. Vengono descritte le
minacce che incombono sul patrimonio archeologico europeo e si fissa il quadro istituzionale per la
cooperazione paneuropea attraverso lo scambio sistematico di esperienza e di esperti tra i diversi
Paesi.
La Convenzione di Granada del 1985 sulla salvaguardia del patrimonio architettonico riconosce che
il patrimonio architettonico è un’espressione insostituibile della ricchezza e della diversità del
patrimonio culturale dell’Europa e un bene comune a tutti gli europei, gli Stati, per garantirne la
salvaguardia, devono perseguire una politica comune sensibilizzando l’opinione pubblica.
Nel 1999 è nato il Sistema Informativa HEREN, per assicurare il monitoraggio delle Convenzioni sul
patrimonio culturale. Lo strumento consente di analizzare e comprare le politiche d’implementazione
delle Convenzioni del Consiglio d’Europa sul patrimonio culturale degli Stati membri cogliendo le
tendenze in atto e le buone pratiche emergenti.
Il 19 luglio del 2000 a Firenze, è stata firmata la Convenzione europea del paesaggio, con la quale si
va ad intendere il paesaggio in senso globale, una determinata parte di territorio, così com’è percepita
dalla popolazione, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani, ma è anche la
componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità, e
fondamento della loro identità.
L’innovazione principale è stata quella di fondere il proprio dettato normativo sull’idea che il
paesaggio rappresenta un bene, indipendente dal valore concretamente attribuitogli. Altro aspetto
innovativo è costituito dalla dimensione sociale e partecipata del paesaggio, con l’introduzione del
fattore percettivo, poiché è solo la percezione della popolazione che può legittimare il riconoscimento
del paesaggio in quanto tale, introducendo così nuove scale di valori e di valutazione.
La definizione del campo di applicazione può definirsi anch’essa rivoluzionaria, perché guarda al
paesaggio come una categoria concettuale che si riferisce all’interno del territorio.
Gli obiettivi della Convenzione mirano a far recepire alle amministrazioni, i provvedimenti, atti e
politiche che sostengano il paesaggio con operazioni di salvaguardia, gestione e pianificazione dello
stesso. Perciò si esige da tutti i protagonisti aventi il potere decisione sul paesaggio, di acquisire uno
sguardo rivolto al futuro, per uno sviluppo sostenibile dei territori interessati.
Più recentemente il Consiglio d’Europa, sotto influenza di gravissimi danni inferti ai beni culturali ha
espresso un’importantissima Convenzione, conosciuta come Convenzione di Faro (2005). La sua
caratteristica è data dalla circostanza di focalizzare l’attenzione del patrimonio culturale sulle
persone, sul loro rapporto con l’ambiente circostante e sulla loro partecipazione attiva al processo di
riconoscimento dei valori culturali. Il patrimonio è considerato come fondamentale risorsa al centro
di una visione di sviluppo sostenibile e di promozione della diversità culturale per la costruzione di
una società pacifica e democratica; si vuole promuovere la concezione di un patrimonio il cui valore è
misurato anche attraverso l’efficacia del suo contributo allo sviluppo umano e al miglioramento della
qualità della vita.
Nela Convenzione di Faro si coglie anche l’influenza della Convenzione di Firenze del 2000, infatti
s’introduce un concetto di patrimonio che va al di là del singolo monumento per includere i luoghi
intorno ai quali si aggregano le persone, i luoghi che hanno una determinata valenza e intorno ai quali
si formano dei gruppi che li intendono tutelare.
Va infine sottolineati che, la Convenzione di Faro riconosce a ognuno il diritto al patrimonio
culturale, che si traduce nel diritto, individuale o collettivo, di trarre beneficio dal patrimonio e di
contribuire al suo arricchimento, con corrispondenti responsabilità.
Tutti questi atti giuridici hanno progressivamente qualificato i beni culturale come un diritto umano
fondamentale, per questo è opportuno far cenno alla vera e propria rivoluzione prodottasi alla fine
della seconda guerra; nel 1948 venne adottata, dalle Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei
diritti umani, base dei futuri sviluppi normativi, fra cui di gran rilievo è la citata Convenzione di Faro,
che offre un importante contributo all’evoluzione del diritto internazionale ancorando la protezione
del patrimonio culturale alla sfera dei diritti umani fondamentali: ogni persona esercita un diritto
individuale internazionalmente riconosciuto alla tutela ed alla protezione dei beni culturali.
Il diritto in questione presenta anche una portata collettiva, perché quel patrimonio esprime
un’identità culturale frutto del lavoro, dell’intelligenza, dello spirito di diverse generazioni di un
popolo o di una collettività.
In maniera efficace, la Dichiarazione sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le
generazioni future dell’Unesco prevede che: le generazioni presenti devono assicurare la
preservazione della diversità culturale dell’umanità e hanno la responsabilità di proteggere e di
conservare il patrimonio culturale, che dovrà essere trasmesso alle generazioni future. Tuttavia,
l’esercizio dei diritti relativi ai beni culturali diviene molto più complesso nei paesi in via di sviluppo,
dove non sono in grado di utilizzare i benefici connessi con i beni culturali, ed inoltre sono
ulteriormente impoveriti dall’assenza di risorse finanziare per la tutela e la valorizzazione di essi.
Per tale motivo è di grande attualità la Dichiarazione di Città del Messico sulle Politiche Culturali,
dove si deplora ogni concezione dello sviluppo concepita solo in termini quantitativi e si riafferma
che è l’uomo a dover rimanere sempre l’origine e l’obiettivo dello sviluppo. Viene anche dichiarato
come le strategie pianificate a livello internazionale dovrebbero essere concepite alla luce del
contesto culturale, storico e sociale di ciascun popolo poiché la cultura è l’essenziale condizione per
un autentico sviluppo.