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LA LETTERATURA ITALIANA DALLE ORIGINI E TRADIZIONI GALLO-ROMANZE

6.1 La diffusione della lirica trobadorica e i trovatori d’Italia


La presenza o il passaggio di trovatori occitani in Italia e la recezione attiva della loro poesia nella penisola
sono già storicamente documentati ben prima della fine del XII secolo, quando troviamo il primo
componimento in occitano scritto da un italiano: si tratta del sirventese antimperiale e filolombardo di
Peire de la Cavarana (vedi testo pagina 407). Il componimento è sicuramente anteriore alla fine del 1100,
quando un esercito di Federico I Barbarossa attraversò il Brennero e occupò la parte dell'Italia del nord.
Gli scambi poetici tra l'Italia e il sud della Francia si fecero però sempre più frequenti e incisivi a partire
dall'inizio del Duecento quando anche in seguito alle turbolente, e spesso tragiche, vicende politico-militari
d’Occitania molti trovatori si videro indotti ad emigrare laddove erano in grado di trovare migliore
accoglienza, nonché protezione e mecenatismo, vale a dire nelle città nelle corti signorili della Pianura
Padana, da sempre aperte alle suggestioni e alle mode culturali provenienti dalla Francia.
Particolarmente importanti furono tra gli altri i soggiorni prolungati di Raimbaut de Vaquieras e di Aimeric
de Peguilhan presso le corti dei Malaspina in Lunigiana e in Monferrato in Piemonte. Questi trovatori
lasciarono un segno importante e duraturo come autori improprio tant'è che le cose migliori e più
innovative di Raimbaut furono composte proprio in Italia e i suoi due componimenti poliglotti contengono i
primi segni di una lirica d'arte in italiano. Nel discordo, dove ognuna delle complessive cinque coblas è
scritta in una lingua romanza diversa, la seconda coblas è composta in italiano, un italiano non privo di
gallicismi grafico-fonetici e lessicali ma, nell’insieme, ben caratterizzato da una patina dialettale di marca
settentrionale. Un altro trovatore importante attivo presso i Da Romano, nella marca Trevigiana,
Uc de Sant Circ non si limitò a esercitare il proprio mestiere di poeta ma intraprese anche un'opera di
promozione e divulgazione della letteratura trobadorica sollecitata e apprezzata dai suoi committenti i
quali, di lingua e cultura non occitana oltre che neofiti del trobar, avevano tutto l'interesse essere informati
su una tradizione ormai secolare e a disporre di materiali di prima mano che consentissero loro di
accostarsi con cognizione di causa ai prodotti di quella letteratura. Il risultato fu cospicuo, a Uc infatti si
deve non solo una delle prime grammatiche dell'occitano, ma anche l'allestimento del più antico
canzoniere trobadorico a noi pervenuto. Inoltre, fu certamente nel Veneto che Uc portò a termine
l'impresa di raccogliere rivedere e in buona parte scrivere quello straordinario sussidio storico-esegetico ai
testi trobadorici che sono le vidas e le razos.
All'interesse riflesso del pubblico italiano per la cultura trobadorica fa riscontro la fioritura di una
produzione lirica autonoma in lingua d’oc: l'emulazione in Italia settentrionale del modello d'Oltralpe
comporta anche l'adozione tout court della lingua che in quel modello fu veicolo prestigioso, sì che i
“trovatori d'Italia” possono in realtà essere ascritti di diritto alla letteratura occitana. Anche dal punto di
vista artistico la produzione di molti poeti italiani filotrobadorici può stare tranquillamente alla pari con esiti
maggiori di tanti trovatori d'Oltralpe. Basta menzionare due nomi: quello del genovese Lanfranco Cigala e
quello del mantovano Sordello da Goito. Il primo è il poeta di grande finezza e dignità formale che
interpreta con varietà di accenti la lingua del troubadorismo giungendo a polemizzare anch’egli contro i
sostenitori del poetare oscuro, come si evince dal testo riportato a pagina 411. Quanto a Sordello è
l'esempio significativo di quanto un trovatore italiano potesse competere con maestri provenzali nell'arte
del trobar, soprattutto in quelle del serventese politico-morale e d’occasione.
La vena caustica e la pungente ironia, l'equilibrio formale e la fitta trama di corrispondenze interne lessicali
e metaforiche possono, senza difficoltà, essere equiparate alla tecnica di maestri occitani della critica
politico militare e dell'invettiva personale. Del resto, è proprio nei generi nominati sin qui che la poesia dei
trovatori italiani dà il suo contributo più originale e innovativo. A rinnovare la poesia d'amore avrebbe
provveduto invece la Scuola Siciliana.
6.2 La Scuola siciliana e la lirica trobadorica
Il primo movimento organico e unitario di lingua e cultura poetica italiana è costituito dalla cosiddetta
Scuola poetica Siciliana fiorita alla Corte di Federico II di Svevia, soprattutto nel quarto e quinto decennio
del Duecento. A loro volta i “poeti siciliani” (la denominazione non si riferisce alla provenienza territoriale
quanto al loro ideale convergere verso la Magna Curia e soprattutto all'adozione di una lingua poetica
comune: un siciliano illustre variamente ibridato da gallicismi e latinismi) sono eredi diretti della tradizione
lirica dei trovatori occitani. Da questa tradizione i siciliani desumono, oltre a un repertorio di forme, di
stilemi ed i termini chiave, le linee portanti della concezione dell'amore e dell' ideologia cortese
adattandole al diverso contesto in cui operano: non più la miriade di centri e corti feudali, ma l'unitario
stato federiciano retto dall'unico sovrano attraverso un collaudato sistema amministrativo, gestito da
funzionari, giuristi e burocrati imperiali. Da ciò derivano alcune delle più macroscopiche differenze che
caratterizzano le scelte poetiche dei siciliani rispetto ai loro modelli:
 la riduzione delle tematiche quasi esclusivamente unico tema quello amoroso;
 un trattamento più astratto analitico intellettualistico di esso (del resto il rapporto dei siciliani con
la lirica è mediato quasi esclusivamente dai libri).
Tutto ciò spiega la drastica selezione di temi, motivi e generi a cui si accennava più sopra e spiega anche
perché l'imitazione del modello trobadorico non si limiti a generali riecheggiamenti o convenzionali riprese
paradigmatiche di repertorio, ma aggiunga anche all'imitazione diretta e circostanziata di singoli testi e
passi scelti o addirittura al loro adattamento in siciliano.
Il caso più celebre è quello del caposcuola il notaio imperiale Giacomo da Lentini. La sua canzone-manifesto
Madonna, dir vo voglio è una raffinatissima traduzione-adattamento di una canzone attribuita al trovatore
Folchetto di Marsiglia (vedi testo pagina 416-417). La versione del Notaro non è una traduzione letterale sia
perché vengono ora omesse ora aggiunte porzioni di testo, sia perché l'andamento sintattico le scelte
lessicali si discostano non di rado dal modello. La modificazione più vistosa e gravida di conseguenze cui
Giacomo sottopone il suo modello è però quella metrica: all'andatura uniforme, lenta e compatta delle
strofe di Folchetto, subentra il movimento snodato ed energico di strofe autonome eterometriche con
fronte e sirma nettamente distinte ed egualmente bipartite. Il numero dei versi di ogni strofa sale da 11 a
16 e varia la loro qualità non più soli endecasillabi ma endecasillabi alternati a settenari. Il numero delle
rime è più che raddoppiato da 4 a 9 per ogni strofa. La nuova struttura crea tutta una serie di nuovi
rapporti e vincoli strutturali tra le parole con conseguente esaltazione del loro valore espressivo.
Purtuttavia, la canzone siciliana non è neppure un libero rifacimento perché rispetta fedelmente le linee
tematiche dell'ipotesto occitano e facendo ricorso un serbatoio quanto più affine possibile di scelte
semantiche cerca persino di recuperare il gusto per certi giochi formali. Il componimento siciliano può
essere quindi considerato a tutti gli effetti una traduzione poetica.
Un'altra sostanziosa traduzione del provenzale è la canzone Umile core e fino e amoroso di Jacopo
Mostacci ricalcata sul Longa sazon ai estat vas Amor, di autore incerto (vedi testo pagina 419).
Questa pratica di acquisizione culturale per via di trasposizione poetica si configura come un vero e proprio
metodo all'interno della scuola siciliana. Non si tratta di una moda passeggera, diverse infatti saranno le
riprese nel corso del tempo.
Secondo alcuni studiosi queste imitazioni così fedeli e consapevoli sarebbero una prova indiretta della
sostanziale fedeltà dei siciliani a una delle regole base la lirica occitana e francese antica: quella per cui il
testo poetico era sempre e comunque un testo cantato, unione di parole e musica. D'altra parte proprio il
fatto che i siciliani deroghino dal principio tutto medievale del contrafactum (il calcolo metrico e di
conseguenza musicale del modello) e non riproducano per nulla gli schemi metrici degli originali ma li
modifichino liberamente giungendo talora a trasformarli radicalmente sarebbe indizio proprio del contrario
cioè, di un sostanziale disinteresse per la destinazione musicale del testo. In realtà il problema della
presenza o meno della musica, della vocalità nella poetica della scuola siciliana resta uno dei più spinosi e
ancora lungi dall'essere risolto.

6.3 La diffusione del francese e la letteratura franco-italiana. Brunetto Latini. Marco Polo.
Il francese venne largamente utilizzato nelle scritture due-trecentesche prodotte in Italia settentrionale e in
Toscana sia per la redazione di adattamento e rifacimenti di storie bretoni e avventuri cavalleresche sia per
la composizione di opere originali di argomento storiografico didascalico enciclopedico: e qui vanno subito
menzionati il tesor di brunetto latini e il milione di Marco polo.
La scelta della lingua d'oil come strumento di espressione letteraria da parte di un autore italiano obbedisce
a motivazioni insieme pratiche ed estetiche. Scrivere nell’idioma d'oltralpe significa anzitutto poter
raggiungere un pubblico internazionale e assai diversificato. Oltre a essere la parlata più diffusa entro la
Romania medievale, il francese circolava come veicolo di scambio nei centri commerciali del Mediterraneo
e veniva impiegato come strumento di comunicazione tra le diverse nazioni dell'impero latino d'oriente.
Non a caso Brunetto Latini e Martino da Canal inseriscono nel prologo delle rispettive opere un’esplicita
dichiarazione programmatica volta a spiegare le ragioni della loro scelta di scrivere in francese (vedi testi
pagina 422).
È stato osservato che alla lingua di Francia veniva riconosciuto un carattere di universalità e democraticità
analogo a quello rivestito dal latino presso i dotti. Il Duecento è un secolo di assimilazione e di elaborazione
del patrimonio intellettuale e questo universalismo erudito favorisce la sintesi dei saperi dell'epoca
incoraggiando la realizzazione di collettanee geografiche, raccolte di curiosità, veri e propri tesori di scienza
che di norma trattano “dell'inizio del mondo in forma compendiosa”. È interessante notare l'uso della
locuzione en soume cioè “per sommi capi” che diventa una formula tecnica usata per definire il
procedimento letterario che mira sunteggiare quanto più è possibile dello scibile umano.
Il Tesor del fiorentino Brunetto Latini negli anni 1260-1266, è una summa venata di riflessioni etiche
politiche suddivisa in tre libri: il primo offre un sommario di storia sacra e profana seguito da un'esposizione
di temi e questioni scientifiche; il secondo libro affronta i problemi della morale; il terzo contiene
un'esposizione delle arti sermocinali. Proprio quest'ultimo libro ha un'importanza particolare
nell'organizzazione editoriale e nel disegno ideologico di Brunetti: sulla scorta dei precetti delle artes
dictaminis formalizzati nei manuali di retorica che riprendevano, rimaneggiavano e glossavano il pensiero e
le opere delle auctoritates classiche, Brunetto fonde la figura del rètore con la figura del rettòre, cioè colui
che regge il comune individuando nella rettorica la scienza indispensabile a qualunque uomo di potere.
All’ambito didattico dottrinale va ricondotto anche il Milione del viaggiatore veneziano Marco Polo e del
pisano Rustichello. Si ipotizza che a Marco Polo spettasse la sezione dei contenuti informativi attinti dal
ricordo delle peregrinazioni in partibus orientis e dalle esperienze del soggiorno dell'impero mongolo, e che
a Rustichello fossero affidate la mise en ecriture e l'organizzazione dell'assetto testuale. Della versione
primigenia del Milione ci conserva un'immagine abbastanza attendibile il manoscritto della Biblioteca
Nazionale di Parigi dove si legge anche il titolo che ha più probabilità di essere quello originario Devisement
du Monde cioè la descrizione del mondo. Il prologo definisce la materia che libro si accinge a trattare come
un trattato ordinato e veritiero del viaggio compiuto nelle lontane ed esotiche terre d'oriente dal veneziano
Marco Polo. Questo libro è un'opera di matrice trattatistica che ingloba nella sua intelaiatura enciclopedica
una molteplicità di generi e tipologie testuali. Dopo una lunga introduzione che presenta gli antefatti della
missione della stesura del libro l'opera risulta suddivisibile in tre grandi sezioni: la prima parte è consacrata
al viaggio verso la Cina, la seconda parte è dedicata alla figura di Kubilai Khan e alle sue imprese, mentre la
terza parte è riservata alle spedizioni nei territori dell'estremo Oriente fino al viaggio di ritorno per mare
verso Occidente. Nel passo riportato a pagina 426-427-428 si evidenzia dal punto di vista contenutistico gli
intreccio di informazioni storiche documentabili con altre imprecise altre inventate; dal punto di vista
stilistico e formale la descrizione si alterna con la narrazione. in generale il disegno compositivo del regesto
geografico si incrocia con il vissuto dell'autore sicchè la materia si dispone lungo le direttrici tracciate
dall’itinerario stesso di Marco Polo in tal modo le unità testuali ovvero i capitoli corrispondono alle cartelle
dell'atlante dell'Asia e queste a loro volta coincidono con le tappe del viaggio poliano nelle regioni orientali.

6.4 L’epica franco-veneta


Il prestigio culturale del francese si radicò profondamente da prima in Inghilterra e in un secondo tempo
nell'Italia settentrionale specialmente tra Lombardia Veneto ed Emilia. Qui vengono trascritti o adattati da
copisti locali innumerevoli testi letterari di provenienza francese; qui vengono rimaneggiati e rielaborati i
best sellers d'oltralpe; qui vengono create ex novo da autori italiani opere narrative originali in lingua
francese.
Il francese d'Italia per più o meno tutti i generi letterari ma due sono quelli che di gran lunga si impongono
sugli altri: il romanzo arturiano (in prosa) e la chanson de gestes (in versi). Il trapianto approda a una lingua
ibrida che presenta diversi gradi di allontanamento dal francese d'oltralpe e che è stata chiamata di volta in
volta franco-italiano o franco-lombardo o franco-veneto. Sono le stesse corti che ospitavano i trovatori
provenzali e italiani ad accogliere elaborare per sé i cicli delle gesta di Francia. E tuttavia la lirica provenzale
in Italia non ha dato origine ad una lingua mista, quale quella legata al romanzo cavalleresco e alla chanson
de geste segno evidente per quest'ultima di una diversità di una peculiarità di recessione più attiva e
dinamica e proprio per questo destinata alla perdita progressiva del francese e alla contestuale sostituzione
con l'elemento italiano nei nascenti cantari in ottava in rima.
L’apice di questo processo di diversificazione e di innovazione della materia epica oitana in veste franco-
veneta si ha con un consistente gruppo di manoscritti di provenienza italiani contenenti le chanson de
gestes trascritte e rielaborate in Italia e soprattutto con un gruppo di codici provenienti dalla biblioteca dei
Gonzaga e passati nel corso del XVIII secolo alla biblioteca Marciana di Venezia. I più importanti di questi
codici sono il V 31 e il V 21. Il primo, mutilo della parte iniziale, ospita una serie di chanson de geste
complessivamente indicate con il nome Geste Francor cioè “gesta dei franchi”, in cui il tema che unifica gli
8 poemi è l'ostilità della casa di Magaza nei confronti della stirpe reale di Francia ma con più marcata
attenzione alle vicende familiari dei paladini e vassalli che alle loro imprese epiche. L’architettura
dell’insieme è gestita attraverso un vasto reticolo organico di impianto ciclico, e articolata secondo precise
strategie microtestuali rintracciabili sia a livello delle connessioni interne di tipo tematico, sia a livello di
strutture narrative “a cornice”. Il secondo il manoscritto marciano, siglato V 21, è meno ibrido dal punto di
vista linguistico e tramanda con uno straordinario corredo di illustrazioni il capolavoro dell’epica franco-
veneta: l’Entrée d’Espagne e del quale è prosecuzione la cosiddetta Prise de Pampleune cioè la conquista di
Pamplona di Niccolò da Verona.
L’entrée narra di Orlando, delle avventurose vicende precedenti alla rotta di Roncisvalle desunte dalla
cronaca dello pseudo-turpino ed altri poemi perduti anche con l'aggiunta di nuovi scenari come il favoloso
oriente e la decisiva ridefinizione dei personaggi ereditati dalla tradizione precedente. L'entrée d'Espagne
narra le vicende di Carlo Magno e dei paladini nella Spagna dei Mori nei sette anni che precedono gli
avvenimenti raccontati nella chanson de Roland. Il protagonista indiscusso del poema è Orlando, il quale,
per aver organizzato di nascosto da Carlo la presa della città di Noble e aver così messo in pericolo l'esercito
francese, incorre nelle ire dell'imperatore e, offeso, parte solitario all'avventura. Qui gli elementi tipici della
chanson de geste si combinano dunque con gli spunti più propriamente romanzeschi (Orlando in Oriente è
in tutto simile ad un Cavaliere errante). Per dare un'idea della varietà dei toni e dello stile di scrittura
utilizzati nelle entrate spagne si veda pagina 433-434-435-436. Nonostante l'anonimo autore utilizzi una
lingua non sua, rivela un magistrale energico senso dello stile e mostra di possedere un radicato e preciso
sentimento della chevalerie in stretta unione con l'ideale della clergie, scienza dell'uomo del mondo. È
singolare che la scelta, o meglio l'invenzione, di una lingua genialmente ibridata che compete con
l'egemone francese abbia consentito all’Italia di recuperare brillantemente l'unico genere letterario che le
mancava, garantendogli in tal modo tradizione e vitalità secolari fino ai capolavori di Boiardo e Ariosto.
Dunque, questa materia di Francia comprensibile a tutti e legata all'esecuzione orale si fonde solo in un
secondo tempo con la letteratura francese diffusa nelle corti d'Italia settentrionale.

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