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INTRODUZIONE

Tim Burton è un giovane autore americano le cui opere, grazie ad uno stile

di regia personale e visionario, hanno attirato l’interesse della critica e degli

studiosi di cinema. La produzione di questo autore non è molto vasta: se si

escludono i due cortometraggi realizzati quando lavorava come cartoonist alla

Disney, in diciannove anni Burton ha firmato la regia di dieci lungometraggi

(l’ultimo dei quali, Big Fish, è uscito nei cinema di recente e per questo motivo

non potrà essere preso in esame all’interno di questo lavoro); a questo elenco è

doveroso aggiungere Nightmare Before Christmas, un film d’animazione

interamente concepito da Burton, ma diretto dal suo collaboratore Henry Selick.

Ad un numero di opere abbastanza ridotto, corrisponde una compattezza

stilistica e tematica che si rintraccia raramente nel cinema contemporaneo,

compattezza visibile fin dai primi lavori e che ha spinto la critica ad attribuire a

Tim Burton la definizione di autore. Come sottolinea Franco La Polla “con

Burton entriamo in piena autorialità, intesa non solo come capacità di dar corpo

visivo a un talento fantastico, ma anche e soprattutto come capacità di

organizzazione di un proprio personale universo complesso facilmente

riconoscibile e leggibile opera dopo opera così da caricarne le componenti formali

di valenze che rimandano alla sua stessa sostanza, cioè al suo significato”1.

Tim Burton può dunque, a ragione, essere considerato un autore utilizzando

il termine nel suo senso più puro, in un’accezione molto prossima a quella

teorizzata dalla Nouvelle Vague negli anni ’60: tutta la produzione di Burton è

contrassegnata, in modo indelebile, dal dominio dello sguardo del regista che

permea ogni pellicola in tutte le sue componenti. I film di Burton sono

1
Franco La Polla, “Ed Wood”, Cineforum, n. 344, maggio, 1995, p. 66

3
contrassegnati da uno stile inconfondibile, frutto di una felice unione di forma e

contenuto: il décor e le immagini denunciano l’estrema cura nella composizione

di ogni singola inquadratura, l’uso simbolico del colore ed il ritorno costante di un

certo tipo di atmosfera cupa e goticheggiante rivelano, nella loro concezione, una

serie di molteplici valenze allegoriche che si celano dietro alla perfezione grafica

e formale; a livello tematico occorre sottolineare il ritorno costante di una serie di

topoi, temi fondativi della poetica burtoniana che si intrecciano con motivi

autobiografici in una visione/rappresentazione soggettiva della realtà.

Quello di Burton è un cinema profondamente personale che, dietro le

vicende fantastiche che lo caratterizzano, rivela le tracce di uno sguardo allo

stesso tempo acuto ed ingenuo, ironico e malinconico, quello dello stesso regista.

Pur riscuotendo notevole successo anche presso il grande pubblico, Tim Burton è

un autore tutt’altro che commerciale: ad un’attenta visione delle sue opere egli

dimostra, infatti, una notevole consapevolezza degli strumenti della propria arte,

consapevolezza che deriva ovviamente da un’accurata riflessione sul cinema del

passato e da un profondo rispetto per questa forma di comunicazione.

Autore ancora più atipico proprio perché capace di conservare la propria

identità “indipendente” anche all’interno delle grandi produzioni hollywoodiane,

Burton è entrato a far parte dello star system senza tradire la propria originalità

artistica, inoltre, è stato capace di posizionarsi, con i propri lavori, all’interno di

un’area chiaramente codificata. Le opere oggetto della nostra analisi si collocano,

infatti, a cavallo tra generi cinematografici ampiamente sperimentati quali il

meraviglioso, l’horror ed il gotico; nonostante ciò il regista, pur ispirandosi ad una

tradizione iconografica precisa, è riuscito a creare una produzione estremamente

personale. La critica ha cercato le ragioni di questa originalità andando ad

4
analizzare la commistione di influenze culturali che lo stesso regista dichiara

essere alla base della propria poetica: il retaggio di una tradizione cinematografica

“nobile” unito al recupero ed all’assunzione a grado di cultura di fenomeni

folcloristici della modernità (dal fumetto al cinema di serie B) hanno portato

Burton a sviluppare uno stile visivo unico a cui poi si sono aggiunte una serie di

tematiche psicologiche personali ed autobiografiche; la continua ricerca e

rappresentazione di sé ha dato vita, film dopo film, ad una galleria di alter ego

differenti per sesso ed età, ma accomunati dalla solitudine, dalla diversità e

dall’emarginazione. La critica si è soffermata sullo studio comparato dei caratteri

dei personaggi, che ha dato buoni frutti poiché, a parte qualche eccezione, è

costante il ritorno di tematiche e comportamenti, di caratteri e dinamiche

psicologiche.

Il nostro studio vuole però affrontare la produzione di questo autore da un

altro punto di vista, isolando un aspetto specifico della poetica burtoniana toccato

da alcuni studi critici, i quali, però, non hanno approfondito l’argomento in

maniera esaustiva. Abbiamo fino ad ora sottolineato la compattezza formale e

tematica dell’opera di Tim Burton, compattezza che emerge soprattutto nella forte

presenza autoriflessiva all’interno del testo filmico. Le tracce di un enunciatore

all’interno della diegesi si materializzano in forme e modi diversi nell’arco

dell’intera produzione. Se si accetta la definizione di storia come “il luogo in cui

risuona la purezza dell’enunciato senza enunciatore”2 ci si trova di fronte ad una

serie di testi in cui le marche del soggetto dell’enunciazione saltano fuori da tutte

le parti (autoreferenzialità, autoironia, strizzate d’occhio allo spettatore, citazioni).

2
Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 1980, p. 90

5
Aderendo al percorso tracciato da Christian Metz3 nell’identificazione delle

marche di enunciazione, ossia le molteplici forme in cui l’enunciatore interviene

all’interno del testo filmico, analizzeremo la produzione burtoniana per ricercare

le forme metadiscorsive tipiche del suo cinema. La catalogazione delle varie

marche, ed il successivo isolamento delle più significative, ci permetterà di

ricostruire un vero e proprio percorso all’interno della produzione burtoniana per

arrivare a tracciare un quadro generale della poetica dell’autore. L’analisi si

soffermerà, in particolare, sulle forme enunciative che ricorrono più di frequente

all’interno del corpus esaminato, le quali, grazie al particolare significato che

rivestono nell’universo burtoniano, potranno essere utilizzate come chiave di

lettura che ci permetterà di accedere alla comprensione delle strutture profonde e

delle tematiche fondative di questo cinema.

Nel primo capitolo prenderemo in esame l’esordio del film come momento

dotato di forte presenza enunciativa. Dopo aver passato in rassegna le strutture

metadiscorsive che emergono all’interno dei singoli incipit, metteremo a

confronto i risultati ottenuti, soffermandoci principalmente sull’osservazione delle

eventuali somiglianze e differenze riscontrate nella strategia narrativa tratteggiata

all’interno delle sequenze esordiali. Gli obiettivi di questa analisi saranno

principalmente due: stabilire il tipo di istanza narrante che emerge dai singoli

esordi e verificare se, dopo aver individuato l’esistenza di alcune costanti nelle

strutture narrative, è possibile tratteggiare un modello di incipit comune a tutte le

pellicole esaminate.

3
Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1995

6
Nel secondo capitolo la nostra attenzione si concentrerà su un altro elemento

narrativo, il flashback, e sulla valenza enunciativa che la sua presenza acquista

all’interno del racconto filmico. L’analisi si soffermerà, in particolare, su tre

pellicole: Batman, Edward Mani di Forbice e Il Mistero di Sleepy Hollow, che

includono al loro interno alcuni flashback accomunati da uno stesso contenuto

tematico. In questo caso il principale intento sarà quello di isolare ed identificare i

temi basilari contenuti all’interno delle sequenze analettiche, successivamente

questi temi verranno messi in relazione con gli altri tratti identificativi del cinema

di Burton per comprendere il significato e la funzione che i flashback assumono

nel corpus burtoniano.

Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, verranno messi a confronto alcuni

aspetti specifici della produzione cinematografica di Tim Burton con quelli

corrispondenti di un genere letterario molto antico: la fiaba classica. Nello

specifico, l’analisi verterà sul raffronto di quattro elementi: strutture esordiali,

formule conclusive, sistema spaziale e tempo del racconto. Il fine della

comparazione sarà quello di stabilire se esiste un legame di filiazione diretta che

unisce il cinema di Burton con l’universo fiabesco, ed inoltre, cercheremo di

comprendere ed approfondire il ruolo e le funzioni che la fiaba assume

nell’universo poetico del regista.

7
CAPITOLO 1

1.1 L’incipit: la matrice del film

Il primo elemento che andremo ad analizzare per identificare i caratteri

specifici della forte presenza autoriale nel cinema di Tim Burton è l’incipit. Le

caratteristiche specifiche proprie delle sequenze incipitali hanno spinto i teorici

del cinema a focalizzare l’attenzione sull’inizio della diegesi. David Bordwell4,

analizzando diversi modelli di cinema narrativo, evidenzia un aspetto comune ai

vari tipi di narrazione filmica da lui elencati; chiedendosi come e in che misura il

testo filmico sveli apertamente la sua natura di racconto emesso da un narratore-

enunciatore ed indirizzato ad un pubblico, lo studioso introduce il concetto di

autoriflessività. Bordwell specifica che tutte le narrazioni filmiche sono

autoriflessive, ma alcune lo sono più di altre poiché l’autoriflessività varia in

grado e funzione a seconda dei generi e dei modelli di pratica filmica. Anche

all’interno di uno stesso film però, la progressione temporale dell’intreccio può far

fluttuare le proprietà della narrazione e queste fluttuazioni sono codificate.

Tipicamente, l’apertura e la chiusura di un film sono i momenti più

autoriflessivi, omniscienti e comunicativi; i titoli di testa e le prime inquadrature,

infatti, mostrano tracce di una narrazione aperta anche in modelli rigorosamente

codificati come quello hollywoodiano classico. Moltissimi analisti hanno insistito

sulla particolare ricchezza semantica degli inizi dei testi filmici, tanto da giungere

all’elaborazione del concetto di incipit come matrice del film: l’incipit

conterrebbe in nuce il senso ultimo del film interamente concentrato nella sola

sequenza d’apertura, il quale poi “esploderà” per diffondersi nel corso dell’intera

4
David Bordwell, Narraction in the Fiction Film, Madison, University of Wisconsin Press, 1985

8
pellicola. “Il film è sottoposto a una dinamica interna, a una generazione, a delle

compressioni e rilassamenti di forze. I titoli di testa sono la matrice di tutte le

rappresentazioni e sequenze narrative. [...] Fascinazione degli inizi, per l’analista:

raccolto su se stesso, il film espone le proprie catene significanti (l’ordine

successivo) nella simultaneità. [...] L’inizio rimane il luogo più “moderno”,

plurale, del testo”5. Il film si genera, dunque, proprio a partire dal suo inizio che

stabilisce le regole del gioco, inoltre le prime immagini del film determinano

immediatamente il regime di finzione e di disponibilità a credere richiesta allo

spettatore. “Si tratta sempre di operare un transfert radicale da un’istanza di realtà,

quella della sala cinematografica, a un’istanza immaginaria, quella della diegesi

filmica”6.

Per comprendere i meccanismi di attuazione di questo transfert all’interno

del cinema di Tim Burton, verranno prese in esame le dieci pellicole realizzate dal

regista fino ad oggi, ed in particolare le sequenze esordiali. La nostra analisi, dopo

un’accurata descrizione di ogni incipit, si concentrerà sui due versanti opposti

della narrazione: quello del narratore-soggetto dell’enunciazione e quello del

narratario-spettatore. L’esame dei vari tipi di marche enunciative sparse

all’interno delle sequenze incipitali ci permetterà di ricostruire le strategie

narrative adottate dall’istanza narrante, il modo in cui si evidenzia la sua volontà

organizzatrice e le funzioni che essa ricopre all’interno del testo filmico. Il

modello di narratore così tratteggiato ci permetterà di ricostruire quello

corrispondente dello spettatore interno al testo, il cui posizionamento all’interno

della diegesi è frutto della dimensione discorsiva del soggetto dell’enunciazione.

5
Thierry Kunzel, “Le travail du film 2”, Communications, n. 23, 1975 (citato da Jacques Aumont,
Michel Marie, L’analisi dei film, Roma, Bulzoni Editore, 1996, p. 117)
6
Jacques Aumont, Michel Marie, L’analisi dei film, Roma, Bulzoni Editore, 1996, p. 117

9
1.2 Pee-Wee’s Big Adventure

Pee-Wee’s Big Adventure (1985) è il primo lungometraggio diretto da Tim

Burton, il quale viene scelto per dirigere il film dai funzionari della casa di

produzione (la Warner) e dall’attore protagonista Paul Reubens grazie ai due

cortometraggi (Vincent e Frankenweenie) realizzati quando Burton lavorava alla

Disney come disegnatore. Nonostante l’opera manchi degli elementi

autobiografici che caratterizzeranno la sua produzione successiva, Burton riesce a

mostrare già in questo primo lavoro uno stile registico personale e visionario

infarcendo il film di elementi autoriflessivi, citazioni ed omaggi e trasformando

una sceneggiatura per bambini in un’originalissima slapstick comedy.

Il film, privo di una vera trama, anticipa una delle caratteristiche costanti

della cinematografia burtoniana: l’estrema cura dell’aspetto visivo e scenografico,

che è un elemento dominante, non è accompagnata quasi mai da una struttura

narrativa forte e lo stesso regista, in molte interviste, sottolinea come la critica

americana gli rimproveri costantemente il fatto di non saper raccontare una storia.

La ricchezza del cinema burtoniano, dunque, deve essere cercata altrove. Pee-

Wee’s Big Adventure “non racconta nulla, raccontando magnificamente”7, il film

altro non è che una folle sarabanda di peripezie che coinvolgono il protagonista,

Pee-Wee Herman, un incrocio tra Harry Langdon, Buster Keaton (dotato in più,

però, di una risatina acuta ed infantile) ed uno Charlot in un continuo

incontro/scontro con gli oggetti e le macchine domestiche che lo circondano.

La ricerca della bicicletta rubata da un ricco prepotente è la molla, il Mac

Guffin per dirla alla Hitchcock, che fa scattare la lunga serie di gag e di avventure

che animano la narrazione, trasformando la commedia iniziale in un road movie, il

7
Massimiliano Spanu, Tim Burton, Milano, Il Castoro Cinema, 1998, p. 34

10
quale permette al regista di giocare con i generi tradizionali incastonando di volta

in volta, all’interno della vicenda principale, l’horror, il western, la commedia

sentimentale e il musical, per poi concludere il film con una rocambolesca fuga

proprio all’interno degli studi Warner, attraverso numerosi set, con la fida

bicicletta ritrovata proprio in uno di questi set.

Passiamo ad analizzare la sequenza d’apertura del film. Dopo il marchio

della Warner Bros i titoli di testa scorrono su uno sfondo nero, accompagnati da

una musica allegra composta da Danny Elfman, autore di tutte le colonne sonore

delle pellicole realizzate da Burton (ad eccezione di Ed Wood). Il sodalizio

Burton-Elfman può scomodare tranquillamente paragoni illustri come quello

Hitchcock-Herrman o Fellini-Rota; la colonna sonora, nei film di Burton, non può

essere considerata semplice musica di sottofondo, ma diventa essenziale,

imprescindibile dalle immagini, capace di creare quelle atmosfere “alla Burton”;

usando le parole dello stesso regista “è come se Elfman avesse aggiunto un altro

personaggio a ogni film attraverso la musica”8 ed ogni analisi formale e tematica

dell’opera di Burton dovrà tener conto di questo elemento fondamentale e del suo

strettissimo legame con le altre componenti filmiche. Inoltre, in questo caso, la

musica che accompagna i titoli di testa richiama apertamente la marcetta di Otto e

mezzo, una somiglianza tutt’altro che casuale in quanto lo stesso Burton non fa

mistero di apprezzare moltissimo la fantasia anarchica e onirica di Fellini e di

ispirarsi, talvolta, al maestro riminese ed al suo cinema visionario.

Il prologo di Pee-Wee’s Big Adventure è composto da 17 inquadrature (inq),

ed è chiaramente delimitato da due segni d’interpunzione forti (una dissolvenza

d’apertura e una dissolvenza incrociata a conclusione della prima scena).

8
Dichiarazione di Tim Burton, in Massimo Monteleone, Luna-dark. Il cinema di Tim Burton,
Recco, Le Mani, 1996, p. 137

11
Inq 1 Il film si apre sulla Tour Eiffel, ma l’illusione dura solo pochi secondi, un
travelling all’indietro ci svela che in realtà quello che stiamo guardando è solo un
cartellone pubblicitario del Tour de France; a conferma di ciò subito dopo davanti ad esso
sfreccia un gruppo di ciclisti che percorre a gran velocità un strada di campagna a fianco
della quale corre una staccionata bianca decorata con bandiere francesi.
Inq 2 Una carrellata laterale accompagna la corsa dei ciclisti finché, all’improvviso,
questi vengono superati da un buffo personaggio vestito con un completo grigio, Pee-Wee
Herman, in sella ad un’enorme bicicletta rossa.
Inq 3-7 Si alternano piani frontali e laterali che mostrano le varie fasi della corsa, con i
ciclisti che cercano ripetutamente di superare Pee-Wee, senza riuscirvi.
Inq 8 Totale dall’alto di un lunghissimo viale alberato. In primo piano campeggia lo
striscione che indica l’arrivo del Tour. Man mano che i ciclisti si avvicinano al traguardo
la macchina da presa (mdp) si abbassa fino a raggiungere il livello della strada proprio nel
momento in cui Pee-Wee taglia il traguardo tra due ali di folla festante.
Inq 9-10 Pee-Wee viene sollevato dal pubblico e portato in trionfo in un tripudio di
coriandoli e palloncini, poi viene condotto davanti al palco della premiazione.
Inq 11 Mdp a livello del terreno, forte angolazione dal basso verso l’alto, Pee-Wee si
avvicina alla miss che ha il compito di premiare il vincitore del Tour.
Inq 12-14 Campi/controcampi sulla linea dei 180°. Si alternano i primi piani (PP) di Pee-
Wee e della miss che sta deponendo una corona sulla sua testa. L’azione sembra quasi
rallentata, la musica crea un effetto di suspence. Nell’inq 14 la mdp si avvicina sempre di
più al volto di Pee-Wee fino al primissimo piano (PPP).
Inq 15-16 All’improvviso lo squillo di una sveglia fa fuggire tutti. Nel totale dall’alto
dell’inq 16 vediamo premiatori, pubblico e fotografi correre via lasciando Pee-Wee, da
solo, nel bel mezzo del prato, davanti ad un palco vuoto.
Inq 17 PPP di Pee-Wee con gli occhi chiusi in attesa della sua corona. Dissolvenza
incrociata del PPP di Pee-Wee con un altro PPP (inq 18) del nostro protagonista, stavolta
con la testa appoggiata ad un cuscino rosso. Un movimento di gru verso l’alto ci mostra
che il suono della sveglia, che è la causa dell’interruzione del sogno, proviene dalla sua
stanza.

L’incipit di Pee-Wee’s Big Adventure è caratterizzato da una serie di

inquadrature che variano per durata ed angolazione, il ritmo all’interno della scena

è rapido e vivace, tutte le inquadrature sono separate da stacchi, ad eccezione,

come già detto, delle due dissolvenze all’inizio ed alla fine. La presenza

12
enunciativa in questo incipit è molto forte, Burton non si risparmia angolazioni

atipiche e movimenti di macchina improvvisi che “rendono manifesta la presenza

di un dispositivo”9 (cioè la macchina da presa) fin da subito, catalizzando

l’attenzione dello spettatore non solo sul “cosa” viene mostrato, ma soprattutto sul

“come”. L’intera scena è accompagnata da una musica extradiegetica che rafforza

il contenuto delle immagini, contenuto che, come scopriamo solo con l’ultima

inquadratura, è di stampo onirico. Quello che apre il film, infatti, è un sogno del

protagonista che, grazie alla sua amata bicicletta, sale sul podio del Tour de

France, acclamato dalla folla festante. Con l’ultima inquadratura dell’incipit lo

spettatore si “risveglia” insieme al protagonista, rendendosi conto che quello che

sta vedendo non è il film, ma un film nel film.

Possiamo infatti affermare che ogni sogno ha un contenuto diegetico. “La

storia del film si sviluppa sempre chiaramente, è una storia raccontata, una storia,

insomma, che è rivestita da una narrazione. La storia del sogno è una storia pura,

una storia senza narrazione, che affiora nel tumulto o nelle tenebre, una storia che

non viene a formare alcuna istanza narrativa, una storia che non viene da nessun

posto, che nessuno racconta a nessuno. E tuttavia è ancora una storia”10. Il sogno è

quindi a tutti gli effetti un racconto secondo per quanto riguarda l’effetto di

“frattura” che causa nella diegesi, e per questo è assimilabile alle altre forme di

raddoppiamento e di riflessione di cui Metz evidenzia la natura enunciativa,

seppur specificando che esistono diversi gradi di forza enunciativa a seconda del

rapporto che lega il racconto primo e i racconti secondi incastonati in esso (il

grado forte sarà la mise in abyme più pura, “quando il film nel film è il film

9
Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1995, p. 42
10
Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio Editori,
1980, pp. 115-116

13
stesso”11). La scelta di Burton di aprire il suo film con un sogno mette in gioco una

serie di problematiche che cercheremo di approfondire nella nostra analisi di

questo incipit, affrontando dapprima gli aspetti formali della scena, poi

soffermandoci sugli aspetti tematici ed infine sull’enunciazione.

1) Aspetti formali. Fin dalle origini, il cinema ha sempre tentato di

trasporre sullo schermo il sogno e gli stati onirici (allucinazione, follia, etc.), in

parte per sottolineare quanto il suo stesso statuto sia costitutivamente onirico (la

sala oscura che equivale ad una “caduta nell’inconscio”, la stessa definizione di

“fabbrica dei sogni”) e moltissimi teorici si sono soffermati sul rapporto cinema-

sogno evidenziandone somiglianze e differenze. Tuttavia la rappresentazione

cinematografica del sogno ha posto molti problemi, in quanto la “logica del

sogno” (ampiamente studiata da Freud) è determinata dal processo primario,

processo che entra in azione solamente durante il sonno regolando l’attività

dell’inconscio e che stabilisce una logica basata sui principi di condensazione e

spostamento, gli stessi principi grazie ai quali “un oggetto può trasformarsi,

all’istante, in un altro senza provocare lo stupore del sognatore e una figura umana

può farsi riconoscere chiaramente come essendo due persone

contemporaneamente”12. Perciò la rappresentazione del sogno risulta molto spesso

artificiosa, sia perché deve “marcare” la natura mentale delle immagini che mostra

(in modo da distinguerle dalle immagini “reali”) sia perché deve imitare il

funzionamento del processo primario.

“Il film si trova in difficoltà nell’intento di raggiungere l’autentica assurdità,

l’incomprensibile puro, ciò che il più comune dei nostri sogni raggiunge

11
Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1995, p. 118
12
Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio Editori,
1980, p. 113

14
immediatamente e senza sforzo. È per questa ragione, probabilmente, che sono

quasi sempre tanto poco credibili le “sequenze di sogno” che figurano nei film

narrativi”13. Per risolvere il problema molti cineasti hanno scelto di “ricorrere a

stilizzazioni scenografiche di matrice espressionista o surrealista”14 e di saturare le

sequenze oniriche con i più svariati effetti ottici (distorsioni prospettiche, flou,

filtri, mascherini, sovrimpressioni) col risultato che viene a mancare una delle

proprietà costitutive dell’esperienza onirica, l’impressione di realtà (o illusione di

realtà, come la chiama Metz).

Burton, per la resa iconica del suo sogno, sceglie delle soluzioni visive non

troppo marcate o artificiose: le immagini che noi vediamo all’inizio non hanno

quell’impatto tipico di altre sequenze oniriche, lo spettatore rimane affascinato

dalla vivacità dei colori e dalla sapienza con cui la mdp si muove nello spazio

diegetico, ma non riconduce immediatamente ciò che vede ad un sogno (almeno

ad un primo sguardo), casomai ad una più generale atmosfera giocosa ed infantile

che sarà tipica del resto del film. La sequenza onirica è marcata a posteriori e

Burton sfrutta dapprima un espediente sonoro; dall’inquadratura 15 lo squillo

insistente di una sveglia irrompe nella diegesi interrompendo la premiazione di

Pee-Wee e facendo fuggire tutti coloro che si trovano intorno a lui. Lo stesso

spettatore è disorientato, da dove proviene il suono? Quello che sentiamo ha tutta

l’aria di essere un suono extradiegetico, perché non ha alcun tipo di legame con le

immagini e con la situazione rappresentata, eppure i personaggi (tranne Pee-Wee)

hanno mostrato di udirlo perfettamente e di percepire qualcosa di minaccioso che

li ha fatti fuggire. Questo espediente stimola lo spettatore ad esercitare le sue

capacità predittive e nello stesso tempo genera un’attesa che culmina nella

13
Ivi, p. 112
14
Alberto Boschi, “I wake up screaming: la messa in scena del sogno nel noir”, Cinema &
Cinema, n. 61, maggio-agosto, 1991, p. 52

15
suspence. Il mistero viene svelato tre inquadrature dopo, con una dissolvenza

incrociata che ci mostra, infine, il volto del protagonista dormiente. Il regista

sceglie quindi una soluzione classica, servendosi del segno di interpunzione che

ormai, nella grammatica filmica, viene utilizzato per identificare il sogno,

specialmente quando la dissolvenza incrociata è seguita dal PPP del protagonista

che dorme, come in questo caso. A posteriori notiamo come una lieve atmosfera

onirica pervadesse la scena grazie anche all’atmosfera creata dalla colonna sonora

e ad un moderato uso del ralenti in alcune inquadrature, ma solamente alla fine

dell’incipit lo spettatore avrà la certezza che quello che ha visto è solo un sogno.

2) Aspetti tematici. Il contenuto del sogno che apre il nostro film è la

proiezione mentale di una bambino troppo cresciuto, il sogno di un bici-maniaco:

vincere il Tour de France. La rappresentazione della gara, però, non ha niente di

realistico. La corsa si svolge in una strada di campagna delimitata da una

staccionata bianca che ha ben poco del paesaggio francese, anzi “chiaramente non

può che trovarsi nella California meridionale”15. Nonostante la staccionata sia

costellata di bandiere francesi, chiunque abbia visto almeno una volta il Tour in

televisione o abbia una vaga idea del paesaggio francese difficilmente può essere

ingannato. Quella che vediamo non è la Francia, ma una fantasia, una

rappresentazione mentale della Francia e del Tour come se li potrebbe immaginare

un appassionato di sport che non vi è mai stato (e che è dotato di una vivace

fantasia). Inoltre Pee-Wee supera un gruppo di corridori professionisti su bici da

corsa superaccessoriate vestito nella stessa buffa “divisa” (completo grigio e

farfallino rosso) che indosserà per tutto il resto del film e con un’enorme (e

15
Ken Hanke, Tim Burton. Una biografia non autorizzata, Torino, Lindau, 2001, p. 67

16
pesantissima) bici anni ’50. Lo spettatore di finzione16 che viene attivato in questa

prima scena (non dimentichiamo che i titoli di testa del film scorrono su uno

sfondo nero, perciò queste sono le prime immagini che vediamo) viene sollecitato,

mediante gli indizi che gli vengono forniti dalle immagini, alla ricomposizione del

mondo testuale. Le informazioni date (il cartello pubblicitario con la scritta Tour

de France, le bandiere francesi disseminate ovunque) ci conducono su una pista

falsa, verso la ricostruzione di una realtà diegetica che, dopo un attento esame,

non può essere realistica, ma appartiene al mondo del sogno. L’atmosfera onirica

della scena, quindi, è legata più al contenuto delle immagini che non alla forma.

Dopo aver verificato ciò possiamo provare a rispondere ad una altra

domanda: qual è la funzione di questo sogno? Indagando le ragioni della messa in

scena del sogno filmico, che peraltro è posto in una posizione di privilegio proprio

come esordio della narrazione, ci si può collegare all'idea, all'immagine, che il

film vuole offrire e all’importanza che il sogno assume rispetto alla situazione del

personaggio. In questo caso la scena non riveste una funzione narrativa vera e

propria, non porta avanti l’azione, che per l’esattezza non è neanche cominciata, è

“un’oziosa digressione” che serve ad introdurci nel mondo fiabesco di Pee-Wee, a

far scivolare lo spettatore in un’atmosfera giocosa e burlesca che permea tutto il

film, a farci “entrare nella finzione” dell’universo burtoniano.

3) Enunciazione. Il sogno ha una doppia natura enunciativa. Ad un primo

livello, come abbiamo già notato precedentemente, esso può essere considerato a

tutti gli effetti un racconto secondo incastonato nella narrazione principale e,

come tale, ha la valenza enunciativa (e riflessiva) del film nel film. Ma c’è di più.

Leonardo Quaresima cita un interessante contributo di Jacqueline Risset in cui si

16
Ruggero Eugeni, “Nascita di una finzione. La costituzione dello spettatore nei titoli di testa di
Via col Vento”, in Gian Paolo Caprettini, Ruggero Eugeni (a cura di), Il linguaggio degli inizi.
Letteratura, cinema, folklore, Torino, Il Segnalibro, 1988

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