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Forum Italicum
2021, Vol. 55(2) 296–315
Dante e i nomi di Dio ! The Author(s) 2021
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DOI: 10.1177/00145858211022643
journals.sagepub.com/home/foi
Erminia Ardissino
Università degli Studi di Torino, Italia

Abstract
Il saggio studia le perifrasi (stranamente poco considerate dalla critica) che nella
Commedia vengono impiegate per indicare Dio. Si sa che sul nome di Dio Dante interviene
ben due volte, legandolo alla questione della prima parola umana, ma nel poema c’è anche
una ricca varietà di perifrasi usate per indicare la divinità. Da un regesto di queste figure
retoriche si ricavano le caratteristiche che Dante assegna al divino con qualche originalità.
La trattazione discute anzitutto i fondamenti biblici e teologici delle opzioni poetiche di
Dante, confrontando in particolare le perifrasi su Dio con il De divinis nominibus dello
Pseudo-Dionigi. Si rileva però anche l’originalità di Dante per le qualità divine che fa
emergere attraverso la creazione poetica.

Parole chiave
Dante, Pseudo-Dionigi, perifrasi, nominazione, teologia

È ben noto che il nome di Dio è problema importante per Dante, tanto è vero che,
dopo avervi dedicato attenzione nel trattato sul linguaggio (DVE 1 4.4), ritorna
sull’argomento nella terza cantica del poema, in occasione dell’incontro con il
padre Adamo, per correggere la sua proposta.1 La questione è stata anche ben
dibattuta dalla critica.2
La definizione del nome di Dio impiegato dai progenitori coincide per Dante con
l’origine del linguaggio, dunque rappresenta un aspetto fondamentale nella config-
urazione dell’antropologia dantesca. Infatti sul linguaggio, attribuito all’essere
umano in modo precipuo in quanto necessario strumento di comunicazione che
combina il sensibile e il razionale dell’essere umano – necessitante sia di forma
sensibile, non potendo comunicare come gli angeli ‘‘per spiritualem speculationiem,
ut angelum’’ (DVE 1 3.1: ‘‘per rispecchiamento spirituale, come avviene agli
angeli’’), sia di forma razionale, non limitandosi a una comunicazione solo per
gesti, come fanno le bestie (‘‘per proprius actus vel passiones, ut brutum animal’’,
ibidem: ‘‘attraverso i propri comportamenti e le proprie passioni, come fanno le

Autore corrispondente:
Erminia Ardissino, Università degli Studi di Torino, Torino 10124, Italia.
Email: erminia.ardissino@unito.it
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bestie’’) – si definisce la specificità dell’essere umano, cui unicamente fu dato il


parlare (‘‘sic patet soli homini datum fuisse loqui’’, DVE 1 2.8: ‘‘e cosı̀ è chiaro
che solo all’uomo è stato dato di parlare’’) (Alighieri, 2010: 1149).3
Dante elabora una propria teoria sulla prima parola di un essere umano in fun-
zione dell’importanza che riveste il linguaggio, per cui ipotizza, contrariamante a
quanto riporta Genesi, che attribuisce le prime parole umane ad Eva in risposta al
serpente (Gn 3.2), che dovrebbe essere stato il primo uomo a parlare, rivolgendosi a
Dio o per sollecitazione Sua o per impulso gioioso verso il proprio creatore:

Quid autem prius vox primi loquentis sonaverit, viro sane mentis in promptu
esse non titubo ipsum fuisse quod ‘‘Deus’’ est, scilicet ‘‘El’’, vel per modum interrogationis
vel per modum responsionis. Absurdum atque rationi videtur orrificum ante Deum ab
homine quicquam nominatum fuisse, cum ab ipso et in ipsum factus fuisset homo. (DVE 1
4.4: ‘‘Che cosa poi abbia pronunciato per prima cosa la voce del primo parlante, non
dubito che appaia evidente a chiunque sia sano di mente: fu il suono stesso che significa
‘‘Dio’’, ciè El, o in forma di domanda., o in forma di risposta. Appare assurdo e ripugnante
alla ragione che qualcos’altro sia stato nominato dall’uomo prima di Dio, dato che l’uomo
è stato creato da Lui e per Lui’’). (Alighieri, 2010: 1159)

‘‘El’’ dunque sarebbe stato il primo nome indicante Dio, secondo la prima discus-
sione del problema in Dante. Il termine è ricavato dall’ebraico, poiché ‘‘Fuit ergo
hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt’’ (DVE 1 6.7: ‘‘Fu
dunque ebraico quell’idioma che plasmarono le labbra del primo parlante’’)
(Alighieri, 2010: 1181). Questa lingua sarebbe stata poi frantumata con l’affronto
della torre di Babele, origine della differenziazione delle lingue, secondo il trattato.
Dante poteva aver trovato questa ipotesi in una lettera di Girolamo (la 25 ad
Marcellam), o più facilmente in testi a lui più familiari, come le Etymologiae di
Isidoro (7 1.3) o le Magnae derivationes di Uguccione (30 1).4
Ma in Paradiso 26.133–136 Dante offre un’altra versione della forma della
prima parola, che anzitutto non corrisponderebbe più all’ebraico, perché ora
ipotizza che la lingua adamitica sarebbe stata spenta prima ancora della torre
di Babele. Il nome di Dio sarebbe stato per Adamo ‘‘I’’, solo dopo si chiamò ‘‘El’’
in ebraico.

Opera naturale è ch’uom favella;


ma cosı̀ o cosı̀, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.
Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia
I s’appellava in terra il sommo bene,
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.
(Pd 26.130–138)
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Adamo, quando parla della prima esperienza del linguaggio, ne dice anche la
mutabilità, essendo esso frutto umano. Per questa seconda opzione non sembra
che Dante possa aver attinto a qualche fonte, ma la scelta di ridurre alla semplice
lettera ‘‘I’’ il nome divino probabilmente sembra dovuta alla sua ‘‘massima
semplicità, paragonabile a quella divina, oppure – leggendo I come numero –
per l’analogia con l’unità divina’’.5 Dante usa poi regolarmente il nome volgare
‘‘Dio/Deo’’, che registra molte occorrenze nel poema (altre ovviamente nella Vita
nova e nel Convivio) e ‘‘Deus’’ nelle opere latine.6 A questi termini, che etimolo-
gicamente veicolavano un’idea di luce, si può associare anche theos, usato da
Dante in termini come ‘‘teologia’’ o ‘‘teodia’’.7
Ma lo spettro dantesco dei nomi di Dio si allarga molto se considerariamo anche
le numerose perifrasi che il poeta crea per indicare la divinità. Sulla base del regesto
tardo ottocentesco che Lorenzo Bettini ha redatto, se ne contano 88 nelle tre can-
tiche, con una prevalenza nettissima delle occorrenze nel Paradiso, rispetto alle altre
due cantiche: 8 occorrenze nella prima cantica, 15 nella seconda, contro 65 nella
terza.8 Sicuramente però è questo un conteggio per difetto, poiché soggetto a una
stretta definizione di perifrasi, che tuttavia può includere anche forme più ampie di
quelle lı̀ conteggiate, come indica ad esempio Enzo Noè Girardi, in un saggio del
1979, interamente dedicato alle perifrasi dantesche nel poema, che segnala come
perifrasi molte altre espressioni indicanti Dio.9
La perifrasi tecnicamente può essere considerata quasi un ‘‘sinonimo a più ter-
mini’’ (Garavelli, 2010: 29), infatti la Rethorica ad Herennium la definisce come
‘‘oratio rem semplicem assumpta circuscribens elocutione’’ e la chiama circuitio
(‘‘un discorso che aggira con un’espressione elaborata una cosa semplice’’).10 Più
precisamente Quintiliano, la dice: ‘‘Pluribus autem verbis cui id quod uno aut pau-
cioribus certe dici potest explicatur, periphrasin vocant, circumitum quendam elo-
quendi’’ (‘‘Quando si spiega con più parole ciò che potrebbe essere detto con una o
con poche parole, chiamano perifrasi, una circonlocuzione del parlare’’), chiaman-
dola poi anche circumlocutio (Quintiliano, Institutionis oratoriae 8 6.59).11 Può essere
usata per ragioni di decoro, per evitare nomi imbarazzanti (in questo caso può
confondersi con l’eufemismo), o può servire per amplificare un termine, veicolando
concetti ad esso connessi. Ed è proprio in questo uso che si possono collocare le
perifrasi dei nomi di Dio create da Dante, che diventano a tutti gli effetti degli
appellativi che includono notazioni teologiche, bibliche, filosofiche. Proprio la non
necessità rende la figura efficace non solo dal punto di vista poetico, ma anche
interessante dal punto di vista semantico.
Sebbene ‘‘il principio che la governa [sia] l’equivalenza di senso’’, la perifrasi viene
posta da Lausberg (1969) tra i tropi, perché può contenere uno ‘‘straniamento’’, che
anzi è spesso nell’intenzione di chi usa la perifrasi, straniamento che può essere
intensificato proprio perché inteso ‘‘all’espressione del carattere composto (cui si
sovrappone il vocabolario convenzionale) della realtà concreta’’, quindi la perifrasi
compare spesso come tropo composto (Lausberg, 1969: 111). Questo è pure il caso
delle perifrasi indicanti i nomi di Dio che qui consideriamo, che includono anche
espressioni metaforiche o definizioni per analogia, come ‘‘fontana’’ (Pd 31.93) o
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‘‘speglio’’ (Pd 15.62). Ma, anche se non include un traslato, la perifrasi è comunque
rivelatrice di un significato ulteriore che si manifesta anche negli appellativi scelti per
indicare Dio.
Benché nell’Epistola a Cangrande si menzionino proprio queste figure nel pre-
sentare la terza cantica, interpretandone i primi versi, riferendosi all’Empireo,
ardente di amore santo e carità, la perifrasi non ha avuto grande attenzione dalla
critica dantesca.12 Dopo il sistematico studio della scuola storica (Bettini, 1895),
sono poi state considerate da Curtius (1960), che ne ha pure redatto un suo regesto,
quindi da Tateo (1973) per la corrispondente voce dell’Enciclopedia dantesca, infine
da Enzo Noè Girardi, nel saggio del 1979: davvero poco, se si considera la pervasi-
vità della figura nella poesia di Dante.13 Proprio Tateo ne parla come ‘‘una delle
figure più care al poeta e che maggiormente concorrono a caratterizzare il suo stile
immaginoso e difficile, poiché [. . .] risulta uno dei mezzi più suggestivi per circondare
di mistero e di difficoltà il messaggio dottrinale e la profezia’’ (Tateo, 1973: 420). Lo
studioso sottolinea anche la frequenza con cui viene impiegata la perifrasi per
designare la divinità, e indica come in questo modo se ne mettano in evidenza le
qualità, ‘‘come la potenza’’ o ‘‘la bontà’’, se ne espliciti un concetto teologico o la si
arricchisca del simbolismo biblico (portando per ogni caso opportuni esempi).14
Anche Girardi (1979) sottolinea, con molteplici esempi, la frequenza delle perifrasi
indicanti la divinità, che ‘‘è designata attraverso le sue qualità come la potenza, la
bontà, il mistero, l’onniscienza [. . .] ove la perifrasi non fa che esplicitare un concetto
teologico, [. . .] e talora anche si attinge al simbolismo biblico [. . .]’’ (Girardi, 1979:
519). Girardi, che elabora pure nel suo saggio una teoria della perifrasi dantesca, ne
illustra bene le motivazioni e la funzione poetica, mostrando come l’importanza
dell’uso che Dante fa di questa figura risieda nel suo significare.15 Non solo è
molto usata, non solo è particolarmente complessa oltre che variata, non solo con-
tribuisce alla formazione di un linguaggio poetico in cui si armonizzano elementi
dall’‘‘autonoma fisionomia’’, ma la perifrasi dantesca ‘‘comporta sempre un ele-
mento conoscitivo nuovo rispetto al discorso di cui fa parte’’ (Girardi, 1979: 524).
In effetti i nomi di Dio, e di conseguenza gli attributi di Dio, che risultano dalle
perifrasi del poema possono essere studiati proprio da questa prospettiva semantica,
in quanto definiscono e precisano le coordinate spirituali e teologiche che struttur-
ano il poema. Non solo Girardi, volendo dare una sommaria classificazione delle
perifrasi dantesche del poema, colloca quelle relative alla divinità tra ‘‘quelle che
servono a determinare o a richiamare le più generali dimensioni spazio-temporali e
spirituali-teologiche che costituiscono il poema nel suo aspetto di base’’ (1979:
531)16, ma mostra anche come esse siano particolarmente significative per un
poema che avanza una modalità di conoscenza di Dio e la racconta con parole
umane, sottolineando chiaramente anche i limiti del linguaggio.17 Non è dunque
un caso che sia il Paradiso la cantica ove più si fa ricorso alla forma perifrastica per
indicare Dio, ‘‘una generica perifrasticità che si diffonde per tutta la cantica’’, indica
Girardi, sottolineando come essa sia essenzialmente ‘‘la forma linguistica più appro-
priata a indicare il nome vero e ultimo di Dio, cioè Dio quale, secondo la
Rivelazione, si deve credere che sia [. . .] in sé nell’intimo della sua vita trinitaria e
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nel mistero della sua incarnazione’’, che approda infine a ‘‘quella specie di perifrasi
figurata e colorata dell’ultimo canto, che è la forma stessa di Dio nell’alta fantasia di
Dante’’ (Girardi, 1979: 536, 538).
Le perifrasi indicanti Dio che si trovano nel poema sono quanto mai variegate e
complesse, talora assai prevedibili, perché ereditate da una lunga tradizione biblica e
teologica, talaltra più soprendenti, perché meno consuete, anche se pure in questi
casi sta alle spalle delle scelte di Dante una letteratura religiosa, anche mistica o
teologico-filosofica, che aveva impiegato variamente forme analogiche per la rap-
presentazione divina, quindi autorizzandole. I nomi di Dio infatti non possono
estendersi in base alla creatività poetica o ad altri criteri inventivi. Come indica
chiaramente e ripetutamente lo Pseudo-Dionigi nell’introdurre il suo trattato, De
divinis nominibus: della divinità non possono essere dette né pensate cose che esulino
da quanto manifestato nei libri sacri.18 I limiti obbligati nella costruzione dei nomi
divini sono ribaditi più volte dallo Pseudo-Dionigi, sostenendo che i suoi nomi divini
sono presi dalla Sacra Scrittura (theologia è il termine da lui usato). E Dante, che
conosceva con ogni probabilità il trattato pseudo-dionisiano in una versione latina,
si attiene in effetti a un criterio di ortodossia pur nella grande varietà delle sue
perifrasi.19
La perifrasi più frequente impiegata da Dante per indicare Dio è quella della luce
(Dio come Sole o luce), che include evidentemente un traslato di lunga tradizione,
mistica e teologica. Dante è ‘‘l’alto Sol’’ in Pg 7.26, è ‘‘l’etterna luce’’ in Pd 5.8, è il
‘‘lume che per tutto ’l ciel si spazia’’ di Pd 5.118, è ‘‘’l Sol che la rı̈empie’’ in Pd 9.8, è
‘‘il Sol de li angeli’’ di Pd 10.53, è ‘‘luce etterna’’ in Pd 11.20, è il ‘‘lucente’’ di Pd
13.56, è ‘‘Elı̈òs’’ di Pd 14.96, è ‘‘’l Sol che v’allumò e arse’’ di Pd 15.76, è il ‘‘Sol che
raggia tutto nostro stuolo’’ di Pd 25.54, è ‘‘la prima luce’’ di Pd 29.136, è ‘‘trina luce’’
in Pd 31.28, è ‘‘l’etterno lume’’ di Pd 33.43, è ancora ‘‘l’alta luce che da sé è vera’’,
‘‘somma luce’’, ‘‘la luce etterna’’, ‘‘l’alto lume’’, rispettivamente di Pd 33.54, 67, 83,
116. Evidentemente l’essenza di queste perifrasi non sta nel dare un sinonimo, ma nel
dire una qualità che rende intelligibile Dio, che è entità inintelligibile, per cui la
metafora, per ammissione stessa di Tommaso d’Aquino, diventa strumento inelu-
dibile per veicolare le divine verità per la natura umana, che si deve servire del
sensibile nell’intelligere e nel comunicare.20 Anche Dante nell’Epistola a
Cangrande propone le metafore come veicolo delle cose inintelligibili sulla base di
Platone: ‘‘Multa namque per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt; quod
satis Plato insinuat in suis libris per assumptionem metaphorismorum’’ (Ep. 13, 29:
‘‘Infatti con l’intelletto vediamo molte cose per le quali mancano i segni vocali: che a
sufficienza Platone nei suoi libri suggerisce con l’assunzione di metafore’’) (Alighieri,
2014: 1519).
La proclamazione di Dio come luce o Sole è confacente a una figurabilità di Dio
che irradia per ogni dove, sebbene rimanga irrappresentabile e invisibile.21 Stante la
precisazione che troviamo nel terzo trattato del Convivio, la metafora Dio-Sole-luce
indica solo il ‘‘fontale principio’’, perché le sue manifestazioni ne sono mezzi o effetti.
Scrive Dante nel trattato filosofico: ‘‘Dico che l’usanza de’ filosofi è di chiamare
‘‘luce’’ lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare ‘‘raggio’’,
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in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di
chiamare ‘‘splendore’’, in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso’’ (Cv 3
14.5). Se è visibile nell’universo, nell’Empireo come in terra, la luce divina è splen-
dore del suo raggio, già diverso dalla sua fonte, che è all’essere umano inaccessibile.22
Anche se ogni discorso su questa luce, quindi ogni teo-logia della luce divina, non
può che essere un discorso sui raggi e sullo splendore, mai sulla fonte, la metafora
della luce consente una rappresentabilità di Dio, che rimane tuttavia impredicabile
anche come luce.23 Impredicabile e inconoscibile: infatti, quando il viator potrebbe
avere accesso a questa luce, ne viene violentemente rigettato: ‘‘la mia mente fu
percossa / da un fulgore in che sua voglia venne’’ (Pd 33.140–141). Scrive Ariani
su questo passo:

l’‘‘alta luce che da sé è vera’’ è comunque sottratta all’umana pensabilità e percepibilità,
dunque può essere colta solo nella sua istanza espansiva, effusiva e diffusiva sui [. . .] nella
sua istanza di progressiva degradazione dall’alto verso il basso. [. . .] la teologia non
potrà che trattare di questa manifestatio, non essendoci altro di essenziale cioè l’essentia
Dei come effusio luminis) da dire. Di fatto una teologia negativa, ponendosi le metafore
vili come sostitutive di un quid assolutamente inattingibile. (Ariani, 2009a: 33)

Resta però almeno la possibilità di dire la metafora, ovvero usare le vili parole del
linguaggio concreto per dire l’essere inattingibile, inarrivabile e ineffabile, ‘‘alla
metafora dunque il compito di trasmettere una scintilla, una stilla almeno, di
quella fons lucis intravista per lumen intellectualis’’ (Ariani, 2010: 48).24 La metafora
di Dio-luce-Sole giustifica tra l’altro tutta l’invenzione del paradiso dantesco,
costruito come manifestazione della luce e suo inveramento, che assimila l’umano
al divino, per Dante (che ne viene deificato) e per i beati (che sono luci). Beatrice è
mediazione del divino, perché partecipa della sua luce e perché ne trasmette la forza
vivificante (‘‘nel suo aspetto’’ il viator si ‘‘trasumana’’, come indicato in Pd 1.67).25
Se la tradizione neoplatonica e dionisiana è il grande serbatoio da cui Dante può
attingere per queste metafore-perifrasi di Dio come luce-Sole, o direttamente dalla
tradizione filosofica o dal suo impiego frequentissimo nella teologia, che vede nel
Sole il simbolo più confacente per indicare la divinità, per la sua natura vitalizzante,
rigenerante, orientante per la vita spirituale e intellettuale, come lo è l’astro per la
vita fisica, essa può trovare anche conferma nella Sacra Scrittura.26 Già nell’ispirato
proemio del vangelo di Giovanni la luce è indicata come qualità divina: ‘‘in ipso vita
erat, et vita erat lux hominum, et lux in tenebris lucet’’ (Io 1.4–5: ‘‘In lui era la vita e la
vita era la luce degli uomini’’), quindi di Cristo si dice: ‘‘Non erat ille lux, sed ut
testimonium perhiberet de lumine. Erat lux vera, quae illuminat omnem hominem,
veniens in mundum’’ (Io 1.8–9: ‘‘Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza
alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo’’), concetto
che poi era passato nel simbolo apostolico in modo assai sintetico, ove si dice di
Cristo ‘‘Lumen de lumine’’ (‘‘Luce da luce’’).
Se dietro questo nome divino si profila fortemente l’influsso dello Pseudo-Dionigi
e del capitolo quarto del suo De divinis nominibus, altrettanto determinante potrebbe
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essere stato il trattato dionisiano per altri nomi che ricorrono frequenti nella fraseo-
logia poetica di Dante.27 Sebbene tra i critici non vi sia coerenza su quale tradizione
esegetica dionisiana possa essere stata oggetto di conoscenza da parte di Dante, gli
studi mostrano con abbondanza di prove l’incisività di questo testo sulla poesia del
Paradiso.28
Il primo nome proposto dal De divinis nominibus, sulla base delle parole stesse di
Gesù riportate nei sinottici (Mt 19.17; Mc 10.18; Lc 18.19), è la Bontà, come car-
atteristica della Trinità, e il Bene, come sua manifestazione primaria (DN capitoli 2 e
3). Anche nel poema ricorrono ripetutamente e in cospicuo numero le perifrasi che
definiscono Dio come bene, bene sommo, bene infinito. Nella seconda cantica per
ben tre volte abbiamo perifrasi indicanti Dio come ‘‘infinito e ineffabil bene/che là sù
è’’ (Pg 15.67), ‘‘lo sommo Ben’’ (Pg 28.91), e ‘‘lo bene/di là dal qual non è che
s’aspiri’’ (Pg 31.24). Nel Paradiso Dio è indicato con il titolo di ‘‘sommo ben’’ (Pd
3.90), ‘‘sommo bene’’ (Pd 14.47), ‘‘la divina bontà che ’l mondo imprenta’’ (Pd
7.109), ‘‘Lo ben che tutto il regno che tu scandi/volge e contenta’’ (Pd 8.97), ‘‘quel
bene / che non ha fine e sé con sé misura’’ (Pd 19.50–51).29 È in queste perifrasi anche
implicita una lode di Dio, perché i nomi di Dio per perifrasi non solo lo nominano e
lo definiscono, ma lo celebrano anche, come peraltro aveva suggerito già lo Pseudo-
Dionigi (DN cap. 2) e come esplicitamente indica la preghiera insegnata da Gesù e
volgarizzata da Dante nel Purgatorio (‘‘laudato sia ’l tuo nome’’, Pg 11.4).30 Si
possono considerare veicolo di questa stessa idea di Dio-Bontà anche affermazioni
affini per opposizione, come la perifrasi di Inferno 2.16, che indica Dio come
‘‘l’avversario di ogni male’’, o quella di Paradiso 18.6: ‘‘colui ch’ogni torto disgrava’’,
che vanno ambedue ben oltre la concezione di un Dio buono, proponendo
pure l’idea di una attiva contrarietà di Dio verso il male, per il primo caso, e la
funzione di amministratore equo della giustizia e di riparatore delle ingiustizie nel
secondo caso.
La giustizia, che è uno dei nomi di Dio per lo Pseudo-Dionigi (DN 8.1 e 7),
costituisce una modalità non molto consueta per definire Dio da parte di Dante,
che lo indica come ‘‘lui che tutto giuggia’’, detto in Purgatorio 20.48 da Ugo Capeto.
La giustizia sembra infatti essere per Dante una virtù divina più che sua essenza,
virtù che muove Dio, come si legge nell’iscrizione sulla porta dell’inferno: ‘‘Giustizia
mosse il mio alto fattore’’ (If 3.4), dove Dio è chiaramente definito come il divino
creatore anche degli inferi, ma la giustizia è causa della sua azione, non sua identità.
Anche per Paradiso 19.68, quando si parla della ‘‘giustizia viva’’ relativa alla pre-
destinazione, nascosta agli occhi del viator che ne avvertiva l’incognita come
‘‘digiuno’’ di lunga data, per sottolinearne la necessità vitale (‘‘la latebra/che
t’ascondeva la giustizia viva,/di che facei question cotanto crebra’’, Pd 18.67–69),
ancora si può dire che la ‘‘giustizia viva’’ sia non tanto perifrasi per Dio, quindi nome
di Dio, piuttosto sua virtù, la sola delle virtù morali attribuibile a Dio, come nota
Tommaso nel commento al capitolo ottavo del De divinis nominibus: ‘‘attribuitur ei
distributiva iustitia’’ (Tommaso d’Aquino, 1950: 291) (‘‘Gli si attribuisce la giustizia
distributiva’’).31 La ‘‘giustizia viva’’, come anche la ‘‘divina giustizia’’ di Pg 21.65, è
dunque disposizione divina, frutto delle deliberazioni sue, basate su un principio che
Ardissino 303

riprende, come presto ha segnalato Pietro Alighieri, il concetto paolino della lettera
ai Romani: ‘‘O altitudo divitiarum sapientie et scientie Dei, quam incomprensibilia
sunt iuditia eius et investigabiles vie eius’’ (Rm 11, 33–34) (‘‘O profondità della
ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i
suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!’’) (Alighieri, 2002: 638). Infatti la ‘‘viva giusti-
zia’’ appare pure come ispiratrice delle azioni umane (per esempio nel discorso di
Giustiniano, Pd 6.88 e 6.121). Dio come superiore giudice è ancora implicitamente
definito nella perifrasi di Purgatorio 14.151: ‘‘onde vi batte chi tutto discerne’’, che
indica appunto la capacità divina di tutto vedere e giudicare, di assegnare a ciascuno
secondo i suoi meriti, attribuzione che si ritrova anche altrove (Pd 7.51, Pd 9.62).
Legato al concetto di giustizia è per lo Pseudo-Dionigi, come sarà per Dante,
quello di salvezza e redenzione, cui però non corrispondono specifiche perifrasi
dantesche indicanti Dio, sebbene il ruolo redentivo di Cristo, e persino la volontà
redentiva del Padre verso l’umanità caduta, sia elemento strutturante il poema, come
si vede bene nel settimo canto della terza cantica, dove l’intervento divino è indicato
con termine giovanneo ‘‘Verbo’’ (la decisione di Dio di redimere l’uomo è detta ‘‘fin
ch’al Verbo di Dio discender piacque’’, Pd 7.30). Questi concetti, fondamentali per
tutto il sistema del viaggio nell’adilà e per la teologia che vi è sottesa, che si basa sulla
redenzione e sulla salvezza data dalla morte di Cristo per rimedio al peccato origi-
nale, potrebbero essere alla base della diade ‘‘ultima salute’’, impiegata identica in
Paradiso 22.124 e 33.27, che Bettini classifica come perifrasi per Dio.32 In realtà,
come si deduce anche dai commenti, per l’‘‘ultima salute’’ dell’ultimo canto è da
vedersi piuttosto la finale beatitudine cui aspira il viator. Anche in Paradiso 22 in
effetti il seguito sembra definirne il significato proprio come perifrasi della beatitu-
dine, perché è specificato che l’ultimo sguardo verso ‘‘l’aiuola che ci fa tanto feroci’’,
che Dante può rivolgere dal settimo cielo, è consentito prima che egli si ‘‘inlei’’:

‘‘Tu se’ sı̀ presso a l’ultima salute’’,


cominciò Bëatrice, ‘‘che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;
e però, prima che tu più t’inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei;
[. . .]’’.
(Pd 22.124–129)

Sebbene i commentatori siano divisi nell’interpretare la diade, il neologismo ‘‘inlei’’


non può che riferirsi a ‘‘ultima salute’’, dunque determina implicitamente che la
diade non è perifrasi per Dio, ma indica la beatitudine finale in cui entrerà infine
Dante-viator, beatitudine che comunque è ovviamente parte di Dio.33
Sono riconducili a Dionigi invece più precisamente le perifrasi indicanti Dio come
Sapienza, Intelletto, Ragione, Potenza, Amore, che hanno diverse occorrenze nel
poema. Sebbene la sapienza sia indicata, oltre che nel verso di Inferno 3.4 per la
scritta sulla porta infernale, anche nel Convivio come attributo per antonomasia
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della seconda persona della Trinità, appare soprattutto come elemento connotativo
di Dio creatore in diversi luoghi del poema. Anzitutto la sapienza divina è indicata
nella perifrasi ‘‘Colui lo cui saver tutto trascende’’ (If 7.73), che dice molto più sulla
sapienza divina, indicando Dio come sapiente ordinatore, superiore e al di là di tutto
il sapere del mondo. Infatti il seguito della perifrasi estende il potere divino alla
creazione delle intelligenze angeliche che reggono l’universo, consentendo alla
‘‘luce’’ divina di splendere in ogni sua parte, dove ‘‘luce’’ non è solo connotazione
luministica (sebbene già molto essa significhi), ma anche connotazione sapienziale,
ordinatrice, governante, ispirante:

Colui lo cui saver tutto trascende,


fece li cieli e diè lor chi conduce
sı̀, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce;
[. . .].
(If 7.73–78)

Anche Dionigi legava la sapienza divina allo splendore della sua luce e alla creazione
degli angeli, sostenendo che Dio conosce prima che le cose siano: ‘‘Quare divina
mens omnia continet, ab omnibus segregata cognitione, secundum omnium causam,
in seipso omnium scientiam praeaccipiens. Antequam Angeli fierent, sciens et pro-
ducens Angelos et cuncta alia, intus et ab ipso, ut ita dicam, principio sciens et ad
substantiam agens’’ (Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus, 7.2, 315) (‘‘Cosicché
l’intelligenza divina tutte le cose comprende con una cognizione separata da tutto,
comprendendo anticipatamente in sé la nozione di tutte le cose attraverso la causa di
tutte le cose, conoscendo gli angeli e portandoli alla luce prima che gli angeli
esistessero e conoscendo tutte le altre cose internamente e dal loro stesso principio,
per cosı̀ dire, e poi portandole alla luce’’).34 Infatti la Sapienza ‘‘che tutto trascende’’,
ordina e crea, è perfetta ipotiposi di Dio, cioè perfetta sua rappresentazione.
‘‘Somma sapı̈enza’’ è detto Dio da Dante in Inferno 19.10, attributo che nuovamente
sarà da considerare piuttosto per Dio creatore.35 Il seguito infatti parla dell’arte
distribuita nel creare cielo, terra e ‘‘mal mondo’’, quindi nel senso indicato da
Proverbi 3.19, che suggerisce come la Sapienza sia a fondamento di Cieli, terra e
abissi: ‘‘Dominus sapientia fundavit terram,/stabilivit caelos prudentia;/sapientia
illius eruperunt abyssi,/et nubes rorem stillant’’ (Prov. 3.19–20, ‘‘Il Signore ha fon-
dato la terra con sapienza, ha consolidato i cieli con intelligenza; con la sua scienza si
aprirono gli abissi e le nubi stillano rugiada’’).
Cosı̀ la ‘‘mente’’ divina è utilizzata per indicare la disposizione perfetta per ogni
creatura implicita nella creazione da parte di un fattore che sa predisporre per il bene
con intelletto, infatti la perifrasi è impiegata in Paradiso 8.101: ‘‘la mente ch’è da sé
perfetta’’, per indicare Dio, che provvede anche alla salvezza degli esseri umani (le
‘‘nature provvedute’’) oltre che alla loro creazione. Allo stesso modo ‘‘mente’’, nel
Ardissino 305

senso di intelletto e sapienza, entra nella definizione di Dio in Paradiso 19.53, indi-
cando anche l’intelligenza che sta nelle creature: ‘‘la mente/di che tutte le cose son
ripiene’’, ovvero la sapienza che è principio e vita di tutte le cose.36 Cosı̀ in Pd 18.118
‘‘la mente in che s’inizia/tuo [della giustizia] moto e tua virtute’’ è Dio, che origina
anche la giustizia umana. Ma la più articolata esaltazione della mente divina è in Pd
33.124–125, dove la Trinità è costruita sulla ripresa del verbo intendere: ‘‘O luce
etterna che [. . .]/sola t’intendi, e da te intelletta/e intendente’’, una perifrasi tutta
giocata sulla comunicazione intellettuale tra le tre divine persone (Ariani, 2010:
384).37
Altre perifrasi di Dio come Trinità anticipano quest’ultima sia in Pd 15.47, nel
ringraziamento di Cacciaguida: ‘‘Benedetto sia tu, [. . .] trino e uno’’, sia nella pure
complessa perifrasi che dice l’oggetto del canto dei sapienti, un’articolata rappre-
sentazione chiastica e simmetrica:

Quell’ uno e due e tre che sempre vive


e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,
[. . .].
(Pd 14.28–30)

Alle tre persone della Trinità sono attribuite le loro qualità in If 3.5–6: ‘‘la divina
potestate, / la somma sapı̈enza e ’l primo amore’’, che indicano diversamente Padre
(potestate), Figlio (sapienza), Spirito Santo (amore). Sono tutti nomi che si trovano
anche nello Pseudo-Dionigi come nomi divini, ma sono da Dante indicati separata-
mente per le tre persone trinitarie, sebbene assommati in un solo ente, che è soggetto
infatti di un verbo al singolare.38
Affine alle perifrasi sulla sapienza è la definizione di Dio come ‘‘consiglio che ’l
mondo governa’’ di Pd 21.71, che indica appunto la sapienza provvidenziale che
governa il mondo, immagine boeziana, con termini appena appena variati rispetto al
‘‘O qui perpetua mundum ratione gubernas’’ (Boezio, 1977: 224–225) (‘‘O tu che
governi il mondo con stabile norma’’) del carme 3.9 della Consolatio philosophiae, un
testo caro a Dante.39 Dio è indicato poi come artefice creatore di un perfetto ordine
nelle perifrasi che ricordano appunto la sua progettazione e cura provvidenziale del
mondo: ‘‘l’arte / di quel maestro che dentro a sé l’ama’’ (Pd 10.11), ‘‘Colui che volse il
sesto / a lo stremo del mondo’’ (19.40–41), dove Dio compare come l’architetto
preciso dell’universo, secondo l’immagine offerta già dall’ottavo capitolo di
Proverbi, che è tutta una lode alla Sapienza divina creatrice.40
Possono essere ancora ricondotte allo Pseudo-Dionigi le perifrasi celebranti la
potenza divina nelle definizioni ‘‘quei che puote’’ (Pd 1.62), ‘‘quei che vede e puote’’
(Pd 4.123), (ristretta alla visione in ‘‘colui che tutto vede’’ in Pd 21.50), che bene
traducono l’attributo di potenza infinita, onnipotenza, su tutte le creature, dalle
sostanze angeliche alle piante, e persino alla virtù deificante, cioè la grazia di rendere
partecipante della divinità, come viene indicato nel De divinis nominibus: ‘‘et totaliter
nihil est universalitur existentium ab Onnipotentis firmitate et ambitu divinae
306 Forum Italicum 55(2)

virtutis segregatum: quod enim universaliter habet nullam virtutem, neque est neque
erit aliqua ipsius omnino positio’’ (Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus 8.5, 893)
(‘‘E insomma, non esiste nessuno degli esseri completamente separato dalla fermezza
onnipotente e dalla protezione della Potenza divina; infatti, ciò che non ha assolu-
tamente alcuna potenza non esiste, né lo si può assolutamente affermare’’).41 È in
questo senso che si possono includere nella onnipotenza divina anche le perifrasi che
celebrano la perfezione creatrice e la virtù divina (il ‘‘valor ch’ordinò e provide’’ di
Pd 9.105, il ‘‘primo e ineffabile valore’’ di Pd 10.3, l’‘‘etterno valor’’ di Pd 29.143, e
più genericamente l’indicazione ‘‘valore infinito’’ di Pd 33.81).
Ovviamente Amore è una qualità divina, o meglio principio stesso dell’Essere,
molto esaltata da Dante, che perciò compare anche nelle perifrasi. Il nostro poeta
non aveva certo necessità di trovare ispirazione nel De Divinis nominibus per questo
nome divino, in quanto sarebbe bastata la prima lettera di Giovanni per attestare la
natura amorevole di Dio verso il creato, e tutta la mistica medievale, con Bernardo in
primis, offriva la visione di Dio come Amore. Ma è interessante notare che non solo
lo Pseudo-Dionigi usa Amore come qualità attraverso cui è celebrata la bontà
divina, associandole il concetto di predilezione, ma nel suo trattato si trovano
anche combinati i concetti di amore e di motore dell’universo, come troviamo nei
punti cruciali del poema di Dante, ovvero nella perifrasi indicante Dio come ‘‘Amor
che move il sole e l’altre stelle’’, espressione che chiude il poema, che però si era
aperto pure con l’affermazione che ‘‘l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle’’
(If 1.39–40). Genericamente Dante definisce Dio ‘‘etterno amore’’ (Pg 3.134 e Pd
29.18), ‘‘primo amante’’ (Pd 4.118), ‘‘’l caldo amor’’ (Pd 13.79), ma è particolar-
mente interessante che nei versi iniziale e finale unisca la forza generante divina, che
compare altrove nelle perifrasi di Dio come ‘‘motor primo’’ (Pg 25.70) o ‘‘colui che
tutto move’’ (Pd 1.1), con la caratteristica amorosa. Nel De divinis nominibus si
distingue l’amore divino come causa che genera al di fuori di sé e come forza che
muove verso di sé in quanto desiderabile, ovvero si afferma che l’amore non resta
infruttuoso ma ‘‘movit ad operandum’’ (Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus 4.9,
159) (‘‘ha spinto ad operare’’).42 Questo è il principio, dipendente o no dallo Pseudo-
Dionigi, su cui pure Dante costruisce le perifrasi di Dio che ‘‘tutto move’’ e dell’‘‘a-
mor che move il sole e l’altre stelle’’, che aprono e chiudono la terza cantica.43
Associandole ad Amore, le perifrasi che indicano Dio come motore sono sottratte
al meccanicismo aristotelico, per essere ricondotte in una dimensione neoplatonica, e
chiudere in un moto circolare di ‘‘amore’’ e ‘‘desiderio’’ movente tutto l’universo,
moto determinato dalle qualità di Dio. Esse diventano nomi (come amore e motore),
ma generano anche la definizione di Dio come fine ultimo dei desideri umani, come
vedremo.
Non ha invece bisogno del breve cenno che fa lo Pseudo-Dionigi alla natura regale
di Dio la frequente perifrasi dantesca di Dio come ‘‘re’’ o ‘‘sire’’ o ‘‘imperadore’’
dell’universo. Essa ha in primis nelle Sacre Scritture la sua origine, soprattutto nel
Vecchio Testamento (dove la dignità regale di Dio implica il regnare, dettare regole),
e trova conferma nel Nuovo attraverso le numerose menzioni che Gesù fa al Regno
di Dio (dove la regalità è spesso usata proprio in senso figurato conseguente al regno,
Ardissino 307

che si nomina anche nella preghiera del Pater noster).44 Dio è nel poema l’‘‘impera-
dor che là su regna’’ (If 5.126), ‘‘lo ’mperador che sempre regna’’ (Pd 12.40), ‘‘lo
nostro [dei beati] imperadore’’ (Pd 25.41), l’‘‘alto sire (Pg, 15.112), il ‘‘giusto sire’’
(Pg 19.125), il ‘‘re de l’universo’’ (If 5.91), lo ‘‘rege etterno’’ (Pg 19.63), ‘‘lo re che ’n
suo voler ne ’nvoglia’’ (Pd 3.84), ‘‘lo rege per cui questo regno pausa’’ (Pd 32.61), il
‘‘sommo duce’’ (If 10.102 e Pd 25.72), il ‘‘verace duca’’ (If 15.62). Come nella Bibbia
anche per Dante le perifrasi ‘‘regali’’ indicano soprattutto il ruolo di regolatore
supremo dell’universo, qualità confermata dove Dio è indicato come ‘‘quei che sı̀
governa’’ (If 18.126).
Il primato divino sul mondo compare in diverse occasioni: ‘‘Colui che mai non
vide cosa nova’’ (Pg 10.94), ‘‘primo vero’’ (Pd 4.96), ‘‘prima virtù’’ (Pd 13.80), ‘‘quel
ch’è primo’’ (Pd 15.55), ‘‘prima equalità’’ (Pd 15.74). Questo primato non sembra
corrispondere ad una qualifica dionisiana, dove si usa piuttosto l’attributo di
‘‘antiquus dierum’’ (‘‘antico dei giorni’’) per celebrare la divinità nella durata dei
secoli (DN cap. 10). Solo l’appellativo ‘‘prima equalità’’ trova corrispondenza nella
‘‘equalitas’’ usata da Dionigi per indicare la divinità sempre uguale a sé stessa (DN
cap. 9).45
Il modello dei nomi divini pseudo-dionisiani non è infatti costringente per Dante.
Alcune tra le caratteristiche, pure poeticamente affascinanti, come le opposizioni del
capitolo nono del De divinis nominibus (grande-piccolo, medesimo-altro, simile-dis-
simile, stato-moto, ineguaglianza-uguaglianza) non compaiono tra le perifrasi dan-
tesche. Pure le definizioni di Dio come essere, vita, verità, che costituiscono grande
parte della trattazione dei capitoli 5–6–7 del De divinis nominibus, non hanno eco,
salvo nella perifrasi di Pd 21.87 che indica Dio come ‘‘somma essenza’’.
Caratteristiche non dionisiane, ma riconducibili chiaramente a fonti evangeliche
sono le perifrasi indicante Dio come ‘‘quei che volentier perdona’’ (Pg 3.120), cosı̀
come perfettamente in linea con lo spirito evangelico sono le due perifrasi che defi-
niscono Dio come padre che dona il pane materiale e spirituale: ‘‘l’alto Padre, che
sempre la [famiglia=beati] sazia’’, (Pd 10.50), il ‘‘pio Padre [che] a nessun serra / lo
pan’’ (Pd 18.129). Evangeliche possono anche dirsi alcune perifrasi con
traslato, come quella di Dio come ‘‘etterna fontana’’ di Pd 31.93, che si può ricon-
durre a Dio come fonte di quell’acqua che ‘‘sazia’’ per sempre promessa alla ‘‘fem-
minetta’’ (la Samaritana), di cui si parla anche in Purgatorio 21.1–3, secondo il
vangelo di Giovanni (Io 4.1–26). Cosı̀ anche ‘‘l’ortolano etterno’’ di Paradiso
26.65 può essere ricondotto alla definizione di Dio padre come agricola di Io 15.1,
detta da Cristo e che in effetti si può collegare all’‘‘orto’’ di cui Domenico è
‘‘agricola’’ in Pd 12.71 e 104.
Nella sincretica perifrasi indicante Cristo come ‘‘sommo Giove/che fosti in terra per
noi crocifisso’’ (Pg 6.118–119), l’appellativo mitologico appare traslato non solo ad
indicare la divinità, ma anche a ricordare che quel mondo pagano, pur non avendo
riconosciuto il giusto Dio, era stato però beneficiato perché predisponesse l’avvento del
vero Dio e perché potesse riconoscerlo dopo la rivelazione. Non a caso l’appellativo si
trova nel canto politico e collocato poco dopo che Virgilio ha riconosciuto il proprio
errore nel credere agli dei pagani (Pg 6.28–42, gli ‘‘dei falsi e bugiardi’’ di If 1.72).
308 Forum Italicum 55(2)

Corrispondenti a una visione poetica peculiare di Dante sono le definizioni di Dio


come ‘‘speglio/in che, prima che pensi, il pensier pandi’’ (Pd 15.62–63)46, o quelle di
Dio come punto: ‘‘il punto/a cui tutti li tempi sono presenti’’ (Pd 17.18), il ‘‘punto
fisso che li tiene a li ubi’’ (Pd 28.95).47 Queste ultime riassumono l’indivisibilità e
l’incommensurabilità di Dio nel tempo e nello spazio, la sua totale concentrazione
nell’idea geometrica del punto che ‘‘leg[a] con amore in un volume,/ciò che per
l’universo si squaderna’’ (Pd 33.86–87). Specchio e punto sono tra l’altro uniti da
Dante nella definizione della prospettiva divina come ‘‘specula punctalis eternitatis’’
(‘‘specola dell’eternità che è un punto’’) di Ep. 11.1 (Alighieri, 2014: 1480–1481).
Dio è infine nominato ‘‘fine di tutt’i disii’’ (Pd 33.46), ricordando un obiettivo già
dichiarato nel Convivio, dove si considera che il desiderio è centrale nell’antropologia
dantesca: esso costituisce il meccanismo attraverso cui si realizza la dinamicità che
caratterizza l’essere umano sempre alla ricerca di un piacere che non può essere
soddisfatto se non dal fine ultimo, secondo Convivio 4 12.13–20.48 Se l’essere
umano si muove, come tutte le creature, ‘‘nel gran mar de l’essere’’ (Pd 1.113),
verso la sua perfezione ovvero verso la realizzazione delle potenze che ha nascoste
in sé o ciò che è implicitamente dalla creazione, si muove verso il ‘‘fine di tutt’i disii’’,
seguendo le tappe indicate dai moti del desiderio di Dio, cui Dante ha il privilegio di
giungere a contemplarlo per poesia.
La varietà dei nomi divini ricavati dalle perifrasi dantesche indicano, oltre la
fedeltà alle Sacre Scritture e alla loro esegesi, anche la lunga meditazione teologica
sul valore della nominazione.49 Più che lo slancio creativo, che si vede tuttavia nelle
ultime perifrasi che abbiamo considerato, vale per i nomi divini danteschi la con-
siderazione dei testi scritturali o teologici. Non è tanto una devozione individuale ad
ispirare Dante nel creare perifrasi, ma una ben strutturata considerazione del valore
e del significato celebrativo del nome, che doveva essergli ben presente se in Paradiso
25, interrogato da Giacomo sulla speranza e su come abbia appreso la virtù, il viator
risponde menzionando non solo l’Epistola di Giacomo e la ‘‘teodia’’ dei Salmi, come
testi istruttivi, ma precisando proprio che il Salmo in cui Davide celebra il nome di
Dio: ‘‘sperent in te qui noverunt nomen tuum’’ (Ps 9, 11: ‘‘Confidino in te quanti
conoscono il tuo nome’’), è quello che gli ha infuso la virtù, per cui può affermare di
conoscere il nome di Dio per fede altissima:

‘‘Sperino in te’’, ne la sua teodia


Dice, ‘‘color che sanno il nome tuo’’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
(Pd 25.73–75)

Notes
1. Le opere di Dante sono indicate con le sigle: DVE per il De vulgari eloqiuentia; Cv per il
Convivio; Ep 13 per l’epistola a Cangrande. Per il poema si usano le sigle If, Pg, Pd, per
ciascuna delle cantiche. Si userà anche la sigla DN per il De divinis nominibus dello Pseudo-
Dionigi o Dionigi Aeropagita.
Ardissino 309

2. Sulla questione del nome di Dio si possono vedere: Guerri (1990), Imbach (2003),
Corrado (2010), Gambale (2012a, 2012a) e Sasso (2015).
3. Per la traduzione da DVE mi servo di quella di M. Tavoni.
4. Cfr. Epistola XXV ad Marcellam, in PL 22, cl. 429–430. Altra possibile fonte accessibile a
Dante: Historia scholastica di Pietro Comestore, al capitolo De impositione nominum PL
198, cl 1069, ma poteva anche trarre ispirazione dai commenti di Rabano Mauro,
Commentarium super Genesim, dall’Hexaemeron di Beda e dall’Elucidarium di Onorio
d’Autun. Si vedano Nardi (1942: 171–175) e Corti (1993: 90). Sull’ebraico di Dante si
vedano Raffi (2006: 92) e Gorni (1981: 143–186).
5. La citazione dal commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi a Pd 29.133–136. La fonte
poteva essere una proposta di Gerolamo (sempre dalla lettera XXV), che suggeriva come
uno dei dieci nomi di Dio, anche ‘‘Ia’’.
6. Si veda sulla questione la voce di K. Foster, Dio, in Enciclopedia dantesca (1970–1976) v.
2, pp. 452–457.
7. Nella stessa sede e sempre di K. Foster, si veda anche Teologia, in Enciclopedia dantesca
(1970–1976) v. 5, pp. 564–568 e M. Cimino Teodia, in Enciclopedia dantesca (1970–1976)
v. 5, pp. 563–564. Sul greco di Dante si veda Gianola (1980).
8. Si veda Bettini (1895).
9. Lo studioso considera infatti per esempio la perifrasi indicante il sole di If 1.17–18, come
un modo per indurre ‘‘la nozione di Dio’’: ‘‘Non è infatti possibile, per ‘il pianeta/che
mena dritto altrui per ogni calle’, intendere il sole reale. [. . .] Dante non ha smarrito la via
perché l’abbia sorpreso la notte o perché sia entrato nel buio della selva; al contrario, è
finito nella selva, è privato della luce, perché ha smarrito la via. Dunque il pianeta è,
ormai, un sole simbolico, cioè quella figura di Dio [. . .]’’ (Girardi, 1979: 527).
10. Rethorica ad Herennium 4 43.5.
11. Poco oltre si legge ‘‘Quidquid enim significari brevius potest et cum ornatu latius ostenditur
periphrasis est cui nomen latine datum est non sane aptum orationis virtuti circumlocutio’’
(‘‘Tutto ciò infatti che può essere detto alquanto brevemente, e che con l’ornato si manifesta
con più ampiezza, è una perifrasi, alla quale in latino è stato dato il nome, non certo adatto
alla virtù dell’orazione, di circumlocutio’’) (Quintiliano, Institutionis oratoriae 8 6.61).
12. ‘‘Et postquam premisit hanc veritatem, prosequitur ab ea, circumloquens Paradisum; et
dicit quod fuit in celo illo quod de gloria Dei, sive de luce, recipit affluentius. [. . .] Et
postquam dixit quod fuit in illo loco Paradisi per suam circumlocutionem, prosequitur
dicens se vidisse aliqua que recitare non potest qui descendit’’ (Ep. 13.24–28), (‘‘Dopo aver
premesso questa verità, l’autore da questa procede, usando una perifrasi per il Paradiso; e
dice che fu in quel cielo che più si inonda della gloria di Dio, cioè della luce. [. . .] E dopo
che, con la sua perifrasi, l’autore ha detto di essere stato in quel luogo del Paradiso,
prosegue dicendo che non può riferire chi ne ritorna’’). La traduzione è di C. Villa in
Alighieri (2014: 1513–1517).
13. Bettini (1895); Girardi (1979); Curtius (1960: 321–333); Tateo (1973).
14. Tateo (1973: 420).
15. ‘‘Appare insomma evidente che la funzione della perifrasi in quanto tale, nella Commedia,
non consiste nell’ornare, intensificare, arricchire hic et nunc un significato, ma consiste nel
determinarlo’’ (Girardi, 1979: 527). E più avanti si legge: ‘‘la perifrasi ci appare come lo
strumento e al tempo stesso il simbolo linguistico strutturale di quella connessione e
ricapitolazone teologica dell’io e del mondo in cui consiste, in ultima analisi, la
Commedia [. . .]’’ (Girardi, 1979: 529).
310 Forum Italicum 55(2)

16. Lo studioso colloca in questo gruppo oltre alle perifrasi che per la loro composizione
definiscono aspetti del poema, anche quelle che definiscono il demonio, il tempo, il creato,
con le perifrasi per Dio.
17. Sull’indicibilità e sui limiti del linguaggio si vedano Ledda (2002) e Ariani (2008).
18. Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus 1.2, 588C, ribadito in 1.8, 597B.
19. Sulla conoscenza dello Pseudo-Dionigi da parte di Dante non vi sono dubbi, viste le
considerazioni sull’angelologia: Scazzoso (1969), Gamba (1985), Cogan (1999: in parti-
colare 187–222, 305–312) e Ariani (2004); molte le considerazioni sullo Pseudo-Dionigi in
Ariani (2010: 15–95), Sbacchi (2006), Rossini (2009) e Barsella (2010). In particolare per il
De Divinis nominibus e Dante: Scazzoso (1958) e Prandi (2009).
20. Sulla concezione tomistica della metafora si veda l’articolo introduttivo della Summa theo-
logiae I, q. 1, a. 1, citato da Ariani (2013: 23). Sulla metafora in Dante rimando al saggio di
Tamazzoli (2015), che offre anche un’estesa bibliografia. Essenziale è il volume curato da
Ariani (2009a). Si vedano inoltre: Butler Fletcher (1966) e Morrison (2001).
21. Si vedano sulla simbologia del Sole in Dante: Stabile (2007), Barsella (2009), Biffi (2010) e
Falzone (2016).
22. Si veda anche il commento di Tommaso al De divinis nominibus, 5.3, dove la ‘‘lux inac-
cessibilis’’ è indicata come ‘‘caligo impalpabilis et invisibilis, inquantum est lumen inac-
cessibile, excedens omne lumen quod a nobis videri potest vel per sensum vel per
intellectum’’ (Tommaso d’Aquino, 1951: 271) (‘‘caliggine impalpabile e invisibile, in
quanto lume inaccessibile, eccedente ogni lume che a noi è dato di vedere coi sensi o
con l’intelletto’’) (traduzione mia).
23. Si veda Ariani (2010: 29).
24. Si veda anche Italia (2013).
25. Occorre anche ricordare che per spiegare il primo verso del Paradiso nella Epistola 13, Dio
viene identificato con la luce: ‘‘divinus radius sive divina gloria’’ (Ep 13.23).
26. Sulla filosofia della luce e le sue implicazioni in Dante: Gilson (2000), Ottaviani (2004),
Fasolini (2005), Ruschioni (2005), Ariani (2009a), Gagliardi (2010), Ariani (2010),
Bersanelli (2012) e Sbacchi (2014).
27. Per l’influenza di Dionigi sulle opzioni dantesche per i nomi divini si veda Scazzoso
(1958).
28. Diverse erano le traduzioni latine disponibili all’epoca, anche nel commento di Tommaso
d’Aquino. Prandi propende per una pluralità di tradizioni interpretative utilizzate da
Dante: Prandi (2009: 11). Ma si veda anche Sbacchi (2006). Sul commento di
Tommaso: Curiello (2015).
29. Già in Convivio 3 7.2, si parla della bontà divina.
30. Si veda Scazzoso (1958: 203). Scazzoso mostra anche l’affinità delle perifrasi dantesche
sulla bontà con le espressioni del De divinis nominibus (1958: 204).
31. Traduzione mia.
32. Bettini, 1895: 52–53.
33. I commentatori sono divisi: chi interpreta la diade come la divinità (Ottimo Commento,
Benvenuto da Imola, Francesco da Buti e tra i moderni: Scartazzini, Pietrobono, Mattalia
e Giacalone), chi come la beatitudine (Jacopo della Lana, Anonimo Fiorentino, e tra i
moderni Sapegno, Bosco-Reggio e Hollander), alcuni addirittura semplicemente come
l’Empireo (Poletto e Fallani). I commenti sono stati consultati su https://dante.dart-
mouth.edu.
34. Citato da In librum beati Dionysii de Divinis nominibus, 7.2, p. 269; traduzione da Pseudo-
Dionigi – Dionigi Aeropagita (1981: 353).
Ardissino 311

35. ‘‘Sapienza’’ per indicare Dio si trova anche in If 3.6 e Pd 23.37, dove, abbinato a
‘‘Potenza’’, indica Cristo.
36. Dante non usa per Dio ‘‘intelletto’’ e ‘‘ragione’’, che pure sono altri nomi divini proposti
dallo Pseudo-Dionigi, si veda Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus, 7. L’impiego di
‘‘intelletto’’ nel poema è piuttosto riferito all’intelletto umano; lo stesso si può dire per
‘‘ragione’’.
37. Per la Trinità come intellezione e per i rapporti con gli scritti di Agostino e di Riccardo di
San Vittore si veda Rossini (2013).
38. Sulle qualità delle tre persone trinitarie in Dante si vedano Cv 2 5.8: ‘‘si può contemplare
la potenza somma del Padre [. . .] la somma sapienza del Figliuolo [. . .] e [. . .] la somma e
ferventissima caritade de lo Spirito Santo’’, e Cv 3 12.12: ‘‘In Dio è somma Sapienza,
sommo Amore e sommo Atto, che non può essere altrove, se non in quanto da esso
procede’’.
39. Anche se la corrispondenza del verso non è riconosciuta, molte utili considerazioni
sull’influenza di Boezio nelle determinazioni divine di Dante si trovano nel documentato
saggio di Lombardo (2013) specie alle pagine 151–228.
40. Si veda Rossini (2009).
41. Citato da In librum beati Dionysii de Divinis nominibus, 8.5, 285; traduzione da Pseudo-
Dionigi – Dionigi Aeropagita (1981: 360).
42. Citato da In librum beati Dionyssii de Divinis nominibus, 4.9, 131; traduzione da Pseudo-
Dionigi – Dionigi Aeropagita (1981: 307).
43. Su ‘‘amore che move’’: Dronke (1984: 439–475).
44. Dante conserva il termine ‘‘regno’’ nella sua versione della preghiera in Pg 11.7. Per la
ricchezza di attributi di regalità nelle Sacre Scritture si può vedere, in forma riassuntiva, la
voce ‘‘Règne de Dieu’’, in Feuillet e Cazelles (1985).
45. Si veda Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus 9.10, 381, citato da In librum beati Dionysii
de Divinis nominibus, 9.10, 381, 315.
46. Sulla metafora dello ‘‘specchio’’ per Dio: Finazzi (2010).
47. Sulla metafora del ‘‘punto’’: Masciandaro (1998), Bologna (2003) e Ferroni (2015).
48. Essenziali sul desiderio in Dante sono i saggi di Fasolini (2003), Rossi (2005), D’Onofrio
(2014), Pertile (2005), Gragnolati, Kay, Lombardi e Southerden (2012), Lombardi (2007)
e Lombardi (2012: particolarmente 86–131). Mi permetto di rimandare anche al mio
capitolo sul desiderio in Ardissino (2016: 41–56).
49. Interessanti considerazioni sulla nominazione in Dante in Atturo (2009).

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