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di Susanna Conti
Dimensioni Nuove 2011
Quel che l
La verità è che ci sono due posti dove l’accoglienza dovrebbe risultare costante
modo di essere: la scuola e la chiesa. Non stiamo parlando degli edifici, ma delle
comunità. Scusatemi, ma vorrei raccontare alcune esperienze personali. Infatti
penso che ci si possa rifare ad esperti quando si parla di didattica, ma quando si
tratta di valori bisogna di necessità mettersi in mezzo con la propria vita. Perciò
presento un elenco di “fatti miei”.
Comunità di sant’Andrea, città, una domenica in cui fa freddo. Fuori della chiesa,
come càpita spesso, c’è la zingara del quartiere a chiedere carità. La conosciamo
tutti e la salutiamo (quasi) tutti, alcuni con un’aria di sufficienza. Che chieda
carità dà un certo fastidio, tanto più che qualche volta la si vede fumare…
Durante la messa, la zingara entra per scaldarsi. Ci sono due cassette per le
offerte, una a ciascun lato della porta. La zingara mette un’offerta in entrambe le
cassette e ascolta le preghiere. Al momento del Padre Nostro, c’è l’uso di prendersi
per mano. Una donna riflette un po’ e poi offre la mano alla zingara. Lei è
contenta. All’uscita una brava signora commenta che c’è da aver paura con gli
zingari in chiesa… Un uomo dice invece con emozione dell’offerta doppia da parte
della zingara… Non c’è nulla da aggiungere, se non quello che hanno scritto su un
cartello i bambini del catechismo: andare a messa significa accogliere ed essere
accolti, ascoltare la parola di Dio, sapere che Dio ci ama.
Grotta di Lourdes, 14 anni fa. Maria è davanti alla grotta a pregare. È una dei
pellegrini dei quali, insieme a infermiere e barellieri esperti, mi occupo anche io.
Maria vive al Cottolengo, dov’è andata dopo l’orfanotrofio. Ha i problemi che può
avere chi è stato abbandonato appena nato. Maria, in quel tempo, ha 61 anni ed è
simpaticissima. Davanti alla grotta fa un caldo tremendo e Maria mi dice ridendo
che vorrebbe un cappello di paglia. Glielo compro e poi lei mi chiede di andarla a
trovare anche dopo Lourdes. Io glielo prometto. Altro che storie! È una promessa
davanti alla Madonna… Negli anni successivi mantengo la promessa e mio fratello
viene sempre con me. Io voglio un bene dell’anima a Maria, ma mi rendo conto
che la tratto con un po’ di superiorità. Non si sa mai che cosa può capitarti con
Maria: può fare i capricci per strada, può chiedere di mangiare due gelati e tre
panini. Mio fratello mi insegna che voler bene a Maria è volerle bene alla pari,
non perché è un’ospite del Cottolengo, ma perché Maria è Maria. Maria (con
indiscutibile autoironia) promette una preghiera al santo Cottolengo per ogni
regalino che riesce ad ottenere. Non ha niente altro da offrire. Maria mi vuole bene
alla pari anche adesso che (a 75 anni) non sta più al Cottolengo ed è stata
mandata in una struttura per lungodegenti da cui non esce più… Prima mi
accoglieva con gioia, adesso che non è più a casa sua al Cottolengo mi
accoglie con tristezza infinita. Ma sempre alla pari.
Casa mia, due anni fa. Porto a casa in città un gatto cucciolo. Lo ha abbandonato
qualcuno nel nostro cortile in campagna. È un micio rosso con i dentini da latte,
cieco (temporaneamente) per la fame. Lo porto a casa con ansia, perché c’è già
una gatta di sei anni: un vero moltiplicatore d’affetto, ma di carattere forte e
autorevole. Gli esperti dicono che una gatta ha i suoi territori, che non è bene
squilibrare gli equilibri… Tant’è: Remigio (il piccolino) è affamato e senza casa, in
qualche modo ce la caveremo… Sira (la grande) vede Remigio piccolo, povero e
affamato e accetta subito di squilibrare i suoi equilibri, di cambiare le sue
abitudini, di accogliere Remigio. Alla pari, ma con senso di responsabilità: tuttora
Sira si preoccupa che ci sia la pappa per Remigio, prima di mangiare la propria.
Accogliere con senso di responsabilità, non integrare: è lei che si è adattata
all’altro. Spartendo i territori e insegnandogli a non fare troppo caos con la
sabbia della lettiera.
Scusate se ho parlato per esempi senza rendere esplicito il filo conduttore: da soli
lo potete trovare benissimo. Anzi, inventate voi un test d’accoglienza. Date un
punteggio agli esempi, da 1 a 5. In base a quale valore? Trovate anche questo. Poi
ciascuno scelga l’esempio in cui si riconosce e interpreti la scelta. Un aiuto: fatevi
regalare un libro di Enzo Bianchi: L’altro siamo noi (Torino, Einaudi, 2010).
Oppure leggetene almeno un brano (tosto, ma bellissimo) a quest’indirizzo:
http://lettovisto.myblog.it/archive/2010/05/04/ascoltando-l-altro-conosci-te-
stesso-e-bianchi.html
Lì si dimostra che il nostro complemento di accoglienza esige che inventiamo
anche il complemento di responsabilità (nostra nei confronti dell’altro). Proprio
quello che ha fatto Sira con Remigio cucciolo.