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DANIELA BOMBARA*

SERVI E CONTADINI SULLA SCENA NELLE COMMEDIE REGOLARI


DI GIULIO CESARE CROCE: IL SOGNO UTOPICO DI DOMINIO
DEL “VILLANO” NELLA BOLOGNA PONTIFICIA A FINE ’500

Nel contesto della storia letteraria italiana, raffinata ed elitaria, non è facile
collocare un personaggio come Giulio Cesare Croce, fabbro autodidatta e cantore
del popolo bolognese in opuscoli di poche pagine, che presentano la difficile
esistenza di un proletariato urbano e rurale vessato dai potenti e tormentato dalla
fame. Sullo sfondo il quadro politico della Bologna controriformista, dove l’alleanza
fra governo del legato pontificio e classe senatoria non lascia spazio di manovra per
altri gruppi sociali. Ma in questo contesto soffocante il creativo artigiano elabora
anche la vicenda utopica, dalle movenze favolistiche, de Le sottilissime astuzie di
Bertoldo1; qui il villano, per quanto mostruoso ed incolto, non solo assurge ad un
ruolo di primaria rilevanza ma domina interamente la scena, stravolgendo la logica
di dominio che guida le azioni ‘di corte’ e trasformando la reggia di Alboino in luogo
dell’insensatezza e dell’ipocrisia. Un personaggio sorprendentemente trasgressivo,
che però muore per non poter mangiar rape e fagiuoli, contaminato quindi dalla
mollezza cortigiana; ed il figlio Bertoldino, protagonista di un secondo, più breve
romanzo crocesco, rientra nella consueta satira del villano della tradizione letteraria,
poiché diventa lo zimbello della corte per la sua irrimediabile ‘sciocchezza’2.

*
Università di Messina, Italia
1
Il titolo completo è Le sottilissime astuzie di Bertoldo, dove si scorge un villano accorto e sa-
gace il quale doppo varii e strani accidenti a lui intervenuti, alla fine per il suo ingegno raro et acuto
vien fatto homo di corte e Regio Consigliero. Opera nova et di gratissimo gusto, Milano, Pandolfo
Malatesta, 1606; questa edizione, che si credeva perduta, è stata ritrovata nel 1993 e pubblicata col
titolo Le sottilissime astuzie di Bertoldo, introduzione di Piero Camporesi e Vittore Branca, Milano,
Silvio Berlusconi Editore, 1993.
2
Cfr. Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino, col
“Dialogus Salomonis et Marcolphi e il suo volgarizzamento a stampa, a cura di Piero Camporesi To-
rino, Einaudi, 1976. Vedi anche, sempre a cura di Camporesi, il successivo Le astuzie di Bertoldo e
le semplicità di Bertoldino; seguite dai Dialoghi salomonici, Milano, Garzanti, 1993.

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Anche nelle poche commedie regolari in lingua italiana che Croce compone
su modello del teatro rinascimentale, i diversi villani, servi, facchini, svolgono
un’azione scenica che per varie ragioni può essere qualificata come marginale:
quando ordiscono beffe, secondo un uso comico consolidato di matrice plautina,
la loro abilità progettuale sembra non incidere effettivamente sul reale; se aspirano
alla scalata sociale i loro tentativi sono destinati al fallimento. Una produzione
composita, dunque, che spazia dalle effimere ventarole e muricciolai3, recitate
con accompagnamento di gesti e musica, a più ambiziose parodie della cultura
ufficiale – L’Indice universale della Libraria, ad esempio –, a romanzi dal contenuto
potenzialmente eversivo, sino ad alcuni tentativi di comicità erudita; un corpus di
testi che sembra incrociare cultura scritta e orale, mentalità popolare e letterarietà,
poetica del naturale e artificio, secondo un andamento ossimorico che informa la
vita stessa di Croce, umile artigiano che si esibisce in piazza ma frequenta anche le
ville dei Signori, e cerca per decenni un facoltoso mecenate.
La letteratura critica crocesca sembra esprimere, nelle diverse linee che la
caratterizzano, la complessità e latente contraddittorietà di un autore che non è
facile ricondurre a schemi prestabiliti. A fine Ottocento Olindo Guerrini inaugura
una linea che potremmo definire ‘sociologica’, perchè individua nelle opere di
Croce la volontà di rappresentare la realtà popolare coeva con fedeltà e vividezza,
dando spazio ai rapporti conflittuali fra subordinati e dominatori4; dagli anni ’70 del
Novecento Piero Camporesi propone invece un tipo di indagine ‘antropologica’,
focalizzata sul romanzo maggiore: l’audacia e il ribellismo di Bertoldo derivano
dall’essere la risultante ultima, ed ormai attenuata dal soffocante clima
controriformista – il villano infatti muore –, di un’antitesi fra Natura e Cultura, fra
il mondo ‘basso’ della sapienza contadina e quello ‘alto’ dei potenti, che vengono
stravolti e mutati di segno nel momento carnevalesco di un assoluto ribaltamento

3
Le operette crocesche erano spesso pubblicate dallo stesso autore come “ventarole (quando
la carta più spessa impiegata permetteva di usarli anche per farsi vento) o muricciolai, cosiddetti
perché messi in mostra sui muretti per attirare i compratori”( STRAPPINI 1985: 215).
4
OLINDO GUERRINI, La vita e le opere di Giulio Cesare Croce, Bologna, Zanichelli, 1879 (rist.
Bologna, Forni, 1969), ma anche, pochi anni dopo, GIOVANNI NASCIMBENI, Note e ricerche intorno
a Giulio Cesare Croce, Bologna, Zanichelli, 1914. Dagli anni ’60 si assiste ad un rinnovato interesse
per il rapporto fra lo scrittore persicetano e la realtà sociale: abbiamo allora i contributi di GIAM-
PAOLO DOSSENA, “Introduzione” a Giulio Cesare Croce, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, Milano,
Rizzoli, 1965; MARIA CORTI, Metamorfosi in Marcolfo, in «Paragone», XVII (1966), n. 20, pp. 119-
129; la serie di saggi curata da Massimo Dursi, Affanni e canzoni del padre di Bertoldo. La poesia
popolare di Giulio Cesare Croce, Bologna, Ed. Alfa, 1966; FRANCO CROCE, Giulio Cesare Croce e
la realtà popolare, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», LXXIII ( 1969), nn. 2-3, pp. 181-
205; MONIQUE ROUCH, “Introduzione generale” a Storie di vita popolare nelle canzoni di piazza di
G.C. Croce. Fame fatica e mascherate nel ’500. Opere poetiche in italiano, Bologna, CLUEB, 1982;
QUINTO MARINI, Il Bertoldino di Giulio Cesare Croce, in «La Rassegna della Letteratura Italiana»,
LXXXVII (1983), nn. 1-2, pp. 63-79 e Bertoldo e Marcolfo, in «Studi di Filologia e Letteratura
Italiana», VI (1984), pp. 95-119.

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Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

dei ruoli5. Il paradigma bachtiniano del mondo alla rovescia ha dominato la critica
crocesca per decenni, ed ha avuto il merito di focalizzare l’attenzione degli studiosi
sulla creatività linguistica di un Croce “alluviante e diluviante” (Camporesi, 1993,
172), campione di eccessi stilistici interpretati variamente come annunzi di una
visione barocca del reale, o anche espressione di una vitalità e ‘naturalità’ popolare
che richiede nuovi strumenti di comunicazione6.
Oggi questa linea interpretativa, che sembrava aver risolto il problema
dell’ambiguo rapporto di Croce con il potere, identificando il ribellismo dell’autore
con la festosità e l’eccesso del rovesciamento carnevalesco – e ciò ne spiegherebbe
il successivo adeguamento all’ottica dei dominatori –, è messa in discussione, e si
sottolinea piuttosto, nelle opere dell’autore, la volontà di rappresentare con serietà
usi, costumi, sentimenti e l’intera cultura antropologica della comunità popolare
di area bolognese:

Giulio Cesare Croce, fabbro divenuto cantastorie, poeta e narratore autodi-


datta, appare oggi come un mediatore culturale privilegiato, forse unico nella
letteratura italiana, tra popolo ed élite, cultura orale e cultura scritta (Rouch
2006: XI)7.

5
Di Piero Camporesi, a parte le edizioni dei romanzi citate nelle note precedenti, sono fon-
damentali, per la lettura carnevalesca della produzione di Croce, i seguenti saggi: La maschera di
Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura carnevalesca, Torino, Einaudi, 1976; Rustici e buffoni. Cultura
popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna, Torino, Einaudi, 1991; Il palazzo e il cantim-
banco; Giulio Cesare Croce, Milano, Garzanti, 1994. Seguono fondamentalmente le linee critiche
indicate da Camporesi i saggi contenuti negli atti del convegno La festa del mondo rovesciato: Giu-
lio Cesare Croce e il carnevalesco, a cura di Elide Casali e Bruno Capaci, Bologna, il Mulino, 2002.
6
Monique Rouch osserva ad esempio che le lunghissime enumerazioni presenti nei vari Av-
visi e Pronostici croceschi rispondono non solo alle leggi dell’accumulo verbale carnevalesco ma
sono anche indizio di “un mondo aperto e instabile che si potrebbe dire controriformistico e
barocco in cui tutti i tipi, o come viene indicato, tutte le “fantasie” di uomini, sono possibili”
(ROUCH 2006: XXI).
7
Sulla stessa linea l’approccio critico di Fabio Foresti, il quale stigmatizza, nella letteratura
critica crocesca, “l’ubriacatura dovuta all’ipnosi carnevalesca” (p. 226), poiché essa conduce a
destoricizzare la rappresentazione della realtà popolare attuata da Croce, individuandola come un
prodotto da ‘illetterato’, che non ha la capacità di costruire un linguaggio specifico per descrivere il
mondo del proletariato urbano e rurale, e lo raffigura quindi sotto la lente deformante del ‘mondo
alla rovescia’, festoso e surreale. (FORESTI 2012: 193-234). Già in precedenza Foresti aveva auspi-
cato la messa a punto di strumenti critici più precisi e la necessità “adottare approcci disciplinari
diversi rispetto a quelli finora usuali […], attenendosi quindi maggiormente allo specifico della
cultura folclorica di cui Croce è senz’altro da considerarsi un esponente. Si è riconosciuta a questo
autore una collocazione al confine tra mondi diversi che si confrontano e si interrelano, dove le al-
terità e le identità ufficiali incrociano i propri sistemi di valori e le forme espressive, ma si sono poi
mantenute le analisi all’interno di parametri valutativi messi a punto per gli strati colti dei prodotti
culturali (FORESTI 2006: IX).

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Dal Bertoldo l’attenzione si è quindi spostata a quelle opere di Croce che


descrivono il proletariato urbano e contadino con modi e forme vicini alla cultura
delle classi sociali rappresentate; da questa linea critica restano però sostanzialmente
escluse le commedie regolari, quei testi comici che l’autore compone in lingua
italiana riagganciandosi direttamente alla tradizione letteraria rinascimentale:
canonica divisione in atti, trama ‘basica’ di amori giovanili contrastati, risolti da
un inganno o dall’agnizione finale, monolinguismo, con inserti dialettali riservati
solo ad un limitato numero di personaggi. Nella sterminata produzione di Croce le
opere teatrali di questo genere sono poche: di una sola, La Farinella, possediamo
l’edizione a stampa, mentre le altre – Il Tesoro, Sandrone Astuto, Tartuffo – sono
state conservate in forma manoscritta fino ad alcune recenti edizioni, di cui si dà
notizia nei paragrafi dedicati ad ogni opera; non si conoscono rappresentazioni
coeve. Tutto ciò, insieme all’ambiguo status culturale di un Croce letterato e
popolare insieme ha fatto sì che queste commedie siano state considerate poco più
che excursus limitati nell’ambito, poco familiare all’autore, della letteratura colta;
forse per accattivarsi potenziali committenti8. In realtà questi testi presentano,
rispetto ai modelli di primo Cinquecento, una più ricca tipologia di personaggi
appartenenti alle classi basse – servi, villani, facchini, “bifolchi” –; e anche quando
la loro azione scenica appare separata da quella dei personaggi nobili, o benestanti,
è proprio questa separatezza a costituire un’implicita critica nei confronti di un
ceto padronale avido e parassitario. Di fronte ad esso la fantasia creatrice dei servi,
o la modesta esistenza dei villani lavoratori e affamati, furfanti ed ingannatori per
necessità, ci appaiono diverse e migliori rispetto al mondo dei Signori. Lo scopo di
questo lavoro consiste dunque nell’esaminare i personaggi ‘umili’ nelle commedie
regolari di Croce, nella convinzione che l’autore affidi anche a questi testi, legati
ad una precisa tradizione letteraria culta, un suo discorso sul potere che parta dalla
rivalutazione dei ceti popolari; in questo caso il suo messaggio si indirizza non

8
Già gli studiosi di fine ‘800 sono concordi nel rilevare la scarsa attitudine comica del Croce
(SARTI 1894; 13-38; TREBBI 1926). In tempi più recenti Franco Croce rileva “la vena garbata ma
fiacca della commedia “Farinella”, edita di recente […] da Piero Cazzani, con lodevole impegno
nel riconoscimento dei suoi indubbi pregi ma con una generale tendenza alla sopravvalutazione”
(CROCE F. 1969: 186, nota 5). Negli ultimi decenni però la ricerca si è mossa su più fronti: da un
lato abbiamo avuto alcune edizioni di singoli testi teatrali, fra cui La Farinella, di cui si è già detto
(CROCE 1965), poi Il Tesoro e Sandrone astuto (Foresti, Damiani 1982) e il recentissimo Tartuffo
(DAMIANI 2013). Manca però una letteratura critica che esamini in una visione complessiva le com-
medie regolari – escludiamo dal novero, e dalla nostra analisi, testi comici croceschi in lingua
italiana che, pur presentando elementi di indubbio interesse, non presentano un’organizzazione
testuale ed un intreccio di tipo rinascimentale, quali ad esempio il Banchetto de’ Malcibati, oppure
Le nozze di M. Trivello Foranti e di Madonna Lesine de gli Appuntati. Dopo un saggio di Pietro
Cazzani del 1966, dedicato ad esaminare il teatro di Croce ma in effetti rivolto soprattutto a La
Farinella, possiamo avvalerci solo delle brevi introduzioni e note al testo presenti nelle edizioni
moderne.

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Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

solo alla piazza, ma ad un pubblico ampio, che comprenda anche quei Signori fatti
oggetto, nel testo comico, delle critiche e dell’esclusione, sia pure in modo non
esplicito.

1. Il Tesoro

Si tratta di una breve commedia in tre atti, di cui possediamo due manoscritti
e un’edizione recente a stampa, a cura di Fabio Foresti e Maria Rosa Damiani9. Al
centro della vicenda vi è l’amore di Lelio per una ragazza povera, Ardelia, figlia
di Madonna Pandora; una passione contrastata dal vecchio ed avaro padre del
giovane, Cassandro. Lelio chiede aiuto al servo Frappa, che architetta una beffa ai
danni di Cassandro, facendogli credere che Pandora abbia scoperto una pentola
d’oro in casa propria; il vecchio avido pensa allora di combinare un doppio
matrimonio, del figlio con Ardelia e di sé stesso con la madre. La pentola viene
trovata, ma è piena di carbone: tutto ciò è opera di Frappa, che accusa Cassandro
di aver causato la trasformazione, poiché non ha compiuto correttamente il rituale
di avvicinamento al tesoro. Il padre comprende in realtà di essere stato beffato, ma
ormai i giochi sono fatti ed i due matrimoni si attuano realmente.
In questa commedia troviamo due personaggi appartenenti alle classi basse; il
servo Frappa, il cui nome “significa, nel linguaggio furbesco, chiacchiera, fandonia
e frappa […]; è anche il nome di un dolce tipico del carnevale” (Foresti, Damiani
1982: 45, n. 1); Mingon, contadino10. L’onomastica crocesca fornisce sempre utili
indicazioni per definire il ruolo scenico dei personaggi teatrali: Frappa utilizza la
parola per ingannare, e infatti attua la burla convincendo Cassandro, con la sola
forza del suo discorso, dell’esistenza di un tesoro che gli altri personaggi negano.
La connotazione carnevalesca del nome guida le stesse modalità dell’inganno si
pone come ribaltamento dei valori tradizionali, poiché all’avarizia degli anziani

9
Il Tesoro. Comedia nuova piacevole et pretiosa del Croce da farsi ad un convito, o festa, o
veglia, per trattenimento di Cavallieri e Dame, ms.3878 I/30, Bibl. Univ. Bologna; Il Tesoro come-
dia, intermedio piacevole e breve da comedia, da fare a un convito o festa o veglia per trattenimento
di cavalieri e di dame, ms.3878 XXV/1, Bibl. Univ. Bologna, Indice Cochi 1640; GIULIO CESARE
CROCE, Il Tesoro. Sandrone astuto. Due commedie inedite del Cinquecento, a cura di Fabio Foresti,
Maria Teresa Damiani, Bologna, Clueb, 1982; ed. agg. 1990.
10
“Un classico nell’anagrafe dei villani sciocchi emiliani[…]; appartiene di diritto a quella
che è stata giustamente definita da P. Camporesi […] l’”internazionale della balordaggine”, nella
quale un posto importante è sicuramente riservato al Bertoldino crocesco, di luminosa e poetica
scempiaggine”. (FORESTI - DAMIANI 1982: 45-46, n. 1). Sciocco, ma non agli infimi livelli della scala
sociale: nel corso della commedia Mingon verrà infatti definito “socio” di Pandora; egli quindi è,
come Sandrone protagonista dell’omonima commedia, un mezzadro, “condizione sociale in cui la
fatica del lavoro dei campi viene compensata da una certa libertà, dall’avere una casa propria e un
minimo di prodotti agricoli da consumare” (Ivi: 48, n. 12).

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viene contrapposta la forza della passione amorosa; inoltre la beffa è definita dal
suo stesso autore, “giottoneria” (Il Tesoro, II, 2)11, e situata quindi in quell’universo
del cibo e dei piaceri materiali da cui si origina l’azione eversiva che porterà al
trionfo dell’amore dei giovani.
Frappa è quindi, almeno a prima vista, un personaggio bertoldesco, per
l’intelligenza, la capacità di dominare le situazioni e di prevederne gli sviluppi;
è lui a condurre interamente l’inganno con una perizia di cui ha una precisa
consapevolezza: dirige i movimenti dei personaggi, assegna le parti, scandisce
con esattezza i tempi della beffa12. Ad un esame più approfondito, però, l’abilità
progettuale di Frappa non appare autonoma, ma piuttosto favorita dal disporsi
degli eventi secondo il fine da lui desiderato; d’altra parte è il servo stesso ad
affermare “che ha d’haver vintura non occorre a levarsi a bon hora (II, 2), proverbio
che “rispecchia in maniera adeguata il suo atteggiamento nei confronti della realtà
esterna […], che resta senz’altro governata dalla fatalità” (Foresti, Damiani 1982:
51, n. 34).
La Fortuna contribuisce al risultato finale: Cassandro non è un vero e proprio
antagonista, non fa nulla per opporsi agli avvenimenti, anzi cade fin dal principio
nel tranello tesogli, ed anche quando scopre di essere stato ingannato, accetta
la situazione quasi con indifferenza. Assistiamo in effetti ad uno svuotamento
del senso della beffa, e del ruolo del servo in essa, come paladino delle ragioni
d’amore contro la gretta logica economica delle figure di potere: la stessa coppia
di giovani amanti ci appare statica, incapace di agire a livello pratico e bloccata
da un linguaggio iperletterario, che allude parodicamente ai trattati d’amore
rinascimentali.
Il ruolo trasgressivo, di critica al potere, si situa allora ai margini del testo comico,
e viene affidato all’altro personaggio che appartiene al gruppo dei sottoposti, il
contadino Mingon; questi compare sulla scena per un tempo brevissimo, poiché
all’inizio della commedia deve recapitare una lettera a Lelio da parte di Ardelia, ma
Cassandro intercetta il messaggio13; Mingon si ripresenta nel momento in cui si sta

11
“Frappa: Adesso è il tempo di porre in opra i ferri e trovar le giottonerie” (Il Tesoro II 2).
Ed alla fine della commedia Frappa, rispondendo a Cassandro che definisce coloro da cui è stato
ingannato “giottoni”, affermerà di essere stato lui ad ordire “questa giottonia” (III, 6).
12
“Lassate pure fare a chi sa fare” (III, 1); così replica Frappa a Lelio preoccupato per i pos-
sibili sviluppi negativi dell’inganno. E subito dopo coordina con precisione le azioni di beffatori e
beffati sui diversi ‘fronti’: “Horsù entrate signor Lelio, che in quel mezo che voi tenete il padre a
bada io voglio andare a comodare la pentola con li carboni (III, 4). Si arriva al punto che lo stesso
Cassandro, il beffato, chiede al servo di guidarlo: “Horsù, Frappa, a te tocca mandarmi dov’è il
tesoro (III, 4). Del resto l’abilità del servo è ampiamente riconosciuta dal giovane padrone, che lo
definisce “sagaze furbo” e, nella stessa scena, “il gran mariolo” (III, 1); infine “il primo huomo
del mondo” (III, 4).
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Un compito piccolo, dunque, ma anche insignificante, in quanto le stesse informazioni che
deve trasmettere vengono subito dopo comunicate ad Ardelia da Lelio stesso.

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Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

concludendo la beffa e pronuncia le battute finali. Un personaggio scorbutico, che


manifesta una diffidenza ed estraneità assolute nei confronti della classe dominante,
anche a livello linguistico: parla infatti in bolognese14. Egli inoltre, fin dalla sua
entrata in scena (I, 2), afferma di non capire il linguaggio dei Signori, lo fraintende,
mostra di averne una percezione distorta: secondo lui Lelio canta i rispetti d’amore
“in cant sfigurà”, ed essi hanno dentro “tant sulfania”; la scrittura di Ardelia è
“pia d’moscha”15. Non c’è solo incomprensione, quindi: questi messaggi d’amore
di parte nobiliare vengono ridicolizzati, ed ‘abbassati’ parodicamente sino a
diventare materia triviale, o comunque insignificante16. Dietro i fraintendimenti
di Mingon e gli epiteti irriverenti che egli indirizza ai signori avvertiamo quindi
l’immagine, realistica e smitizzata, di una classe padronale caratterizzata da ottusità
e inettitudine17.

14
L’uso del dialetto e, come vedremo, la storpiatura dell’italiano parlato dagli altri perso-
naggi, “possono essere interpretati anche come l’espressione di una non accettazione del modello
linguistico ‘alto’. Il rifiuto di adeguarvisi conferisce ai villani croceschi una coerenza e una certa
identità di classe che rappresenta poi la loro forza, culturale e teatrale.” (FORESTI - DAMIANI 1982:
p. 49, n. 14).
15
“Es canta i più bia rspiet d’amor in cant sfigurà, ch’al i è dentr tant sulfania (Canta i più
bei rispetti d’amore in canto sfigurato, e dentro ci sono tanti zolfanelli); “guarda qui quant pia
d’moscha è scrit qui su” (Guarda qui quanti piedi di mosca sono scritti quassù) (Il Tesoro, I 2)
16
Si tratta di una riconoscibile tecnica del linguaggio carnevalesco, che degrada il livello alto
della comunicazione attraverso la storpiatura di termini e il fraintendimento; una tecnica ancora
più evidente nello scambio di battute fra Mingon e Cassandro, definito dal contadino con una
serie di epiteti negativi ed insultanti, quali “barba Marforii”, msièr Calandra”, “vecch pultron”,
che lo qualificano come stupido ed inetto. Per la figura di Marforio, e il senso spregiativo del
nome (‘persona stupida’), cfr. in questo lavoro la nota 28; il termine “Calandra” si situa nella stessa
area semantica e riveste un’analoga funzione, se si considera che Calandro è il protagonista, vec-
chio e stupido, della notissima Calandria del Bibbiena; Calandrino è un celebre personaggio boc-
caccesco, icona dell’assoluta stupidità. Si noti che l’epiteto “Marforio” sarà ripreso da Pandora,
durante il dialogo in cui Cassandro cerca di scoprire qualcosa sulla pentola d’oro (II, 4); subito
dopo Cassandro afferma la sua volontà di “sottigliar l’ingegno”, confermando in tal modo la to-
tale misconoscenza della propria ‘sciocchezza’, proprio subito dopo essere stato definito tale, sia
pure in modo implicito. Per quanto riguarda la ridicolizzazione del linguaggio alto bisogna però
considerare che non si tratta solo di una tecnica carnevalesca, ma piuttosto di uno stilema teatrale
già rinascimentale, e ripreso dal teatro plautino, utilizzato dai personaggi socialmente ‘inferiori’ in
senso oppositivo nei confronti dei detentori del potere. Al riguardo è ancora significativo il saggio
di Maria Luisa Altieri Biagi, “Dal comico del significato al comico del significante”, in La lingua
in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, 1-57, che esamina l’articolarsi del codice linguistico carnevale-
sco – equivoci, fraintendimenti, slittamenti semantici, giochi fonici – nei personaggi dei servi della
commedia regolare di primo Cinqucento, come mezzo per evidenziare l’incomprensione fra classi
alte e basse, ma al tempo stesso svuotare di senso gli strumenti comunicativi dei Signori.
17
Il disprezzo di Mingon non si indirizza solo, com’è naturale, verso il vecchio beffato, ma
coinvolge anche personaggi che sembrerebbero incarnare la morale positiva della commedia: nella
scena conclusiva del primo atto il villano si scontra violentemente con Ardelia la quale, pur es-
sendo anagraficamente giovane, dunque potenzialmente portatrice di un’ideologia alternativa a

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Daniela Bombara

Molto meno trasgressivo ci appare allora il regista della beffa, quel Frappa
che inganna l’anziano padrone in modo quasi gentile, evitando critiche ed insulti,
anche in sua assenza18; egli inoltre istituisce una relazione di tipo paritario con
Lelio, se ne dichiara suo amico, arriva quasi a prestargli dei soldi, viene chiamato
affettuosamente “fratello” dal giovane padrone.
Servi e padroni appartengono invece, nell’ottica di Mingon, a realtà
inconciliabili: l’idea di un’amicizia fra padrone e sottoposto, adombrata nel
rapporto Lelio – Frappa, è impossibile, perché il servo è “fratello” del signore
solo finchè gli rende dei servigi. Mingon non accetta questa sostanziale falsità dei
rapporti umani, non vuole essere coinvolto negli affari dei padroni e rifiuta, di
fatto, un ruolo subordinato: rinfaccia ad Ardelia di avergli fatto fare il ruffiano con
la consegna della lettera, e ritiene di essere stato imbrogliato19. Un tratto distintivo e
alquanto realistico di questo mezzadro degradato a ‘fattorino’, è allora la diffidenza
costante, la paura di essere coinvolto in affari poco convenienti; sentimenti che
marcano, all’interno del testo comico, la sua fondamentale estraneità all’universo
dei dominatori, ma dovevano corrispondere nella società del tempo all’effettivo
atteggiamento di sospetto, e al senso di estraneità, di un ceto contadino situato
ormai ai margini del tessuto civile. Mingon rimane anche fisicamente staccato
dall’azione scenica: è fuori città per buona parte della vicenda, e torna solo alla
conclusione della storia. Il suo acido commento finale (“Cancar, sti galant’huomn

quella dei vecchi padroni, insulta il contadino, che chiama “villan porco”, “villan assasino balordo
e ignorante” (I 5). Mingon tratta Ardelia con distacco: il contatto con i padroni, a suo dire, pro-
voca la peste (Ardelia: “E ben Mingone hai tu trovato il signor Lelio? Mingone: “Sì, ai ho trovà la
ghiandetta” I 5). Il villano, dopo essere stato insultato, decide di allontanarsi anche fisicamente dai
dominatori, quasi ne temesse il contagio, e lascia la città. Un’analoga conflittualità padroni/ servi
troviamo in un’altra commedia del Croce, I parenti godevoli, una breve commedia apparentemente
allineata con l’ideologia delle classi dominanti, poiché presenta un’immagine idealizzata della clas-
sica famiglia alto – borghese. Qui i servi hanno un ruolo minimo – per cui non si è dedicato uno
spazio specifico a questo lavoro nel presente articolo –, ma si ribellano con decisione ai padroni,
ai loro regali squallidi, trattamento che riservano alla servitù, per cui se “può sembrare che Croce
rimanga sul filo di un conformismo che punta sulle immagini della banalità confortando i bene-
stanti nella visione negativa dei loro dipendenti […]; ciò non toglie la concretezza del testo, tanto
nella prepotenza dei padroni quanto nella ribellione della servitù, vissute diversamente dai vari
personaggi con punte di sincera insofferenza e momenti di fatalismo. E forse non sarebbe errato
pensare che il Croce serbi, tutto sommato, un suo sguardo leggermente ironico nei confronti di
questi borghesucci con velleità aristocratiche” (ROUCH 2006: XLV).
18
Il ritegno di Frappa è degno di nota, se si considera che nella commedia del ’500 i servi
orditori di beffe criticano aspramente il beffato, anche se non in sua presenza, per ovvie ragioni
strategiche.
19
In effetti è il ruolo in sé di messaggero ad essere fortemente subordinato e sostanzialmente
umiliante, e certamente rispecchia un’analoga esclusione sociale, non solo nel teatro di Croce; vedi
al riguardo Pagliano Ungari (1983), che rileva la sempre minore valenza scenica dei personaggi di
inferiori dalla fine del ’500 e per tutto il 600: sono soprattutto i servitori a perdere centralità nel
testo comico come orditori di beffe e diventano semplici messaggeri e informatori.

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Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

han acumdà gli ov in t’al panier lor” III 7) ancora una volta rivela una profonda
verità: non solo la beffa ha rappresentato un ribaltamento soltanto temporaneo
della realtà sociale, ma sono stati i vecchi a ricavarne il maggior vantaggio, anche
Pandora, che “la turnarà zovna d’vint’an” (III 7); sposerà infatti Cassandro.
Questo Mingon, villano/mezzadro il cui nome ne dovrebbe evidenziare la
stolidità, affine in ciò al Bertoldino crocesco, si rivela invece portatore del senso
profondo della commedia; d’altra parte la letteratura critica si è ormai avviata
a considerare anche il figlio di Bertoldo una figura ‘doppia’, attribuendogli
un’analoga funzione di svelamento della verità20.
Testo comico e narrativo appartengono dunque allo stesso orizzonte ideologico:
si può ancora dire che la “riduzione” del tipo bertoldesco nel personaggio di
Frappa, beffatore ma non critico verso il mondo dei Signori, anticipi l’immagine
dell’ “ormai addomesticato Bertoldo, divenuto cortigiano, [la cui morte] sigillava
definitivamente ogni velleità di cambiamento sociale” (Camporesi 1994: 23 e 25).

2. La Farinella, inganno piacevole. Comedia nova

È l’unica, fra le commedie regolari di Croce, ad essere stata edita ai primi del
’600, e poi ristampata nel 1965 da Pietro Cazzani21. L’opera, in cinque atti, narra
una storia abbastanza scontata di beffa en travesti di chiara matrice rinascimentale,
comunque interessante per il nostro discorso poiché presenta una più ricca tipologia
di figure subalterne rispetto ad altri testi comici dello stesso autore22. Ogni Signore

20
Camporesi osserva come la stoltezza del giovane contadino costituisca in effetti una tat-
tica per difendersi ed estraniarsi dal mondo dei signori, anche a livello linguistico, e per forni-
re un’immagine degradata del potere, attraverso il fraintendimento degli ordini (CAMPORESI
1993c: 142-146); Quinto Marini nota come l’equivocare di Bertoldino finisca per offrire ai let-
tori un’immagine fortemente pessimistica di un governo regale dominato da disprezzo e crudeltà,
all’interno del quale gli umili non possono trovare spazio; ciò spiega anche il senso della morte del
padre Bertoldo (Marini 1983: 63-79).
21
La Farinella, inganno piacevole, comedia nova, di Giulio Cesare Croce, Bologna, Bartolomeo
Cochi, MDCIX; ma troviamo anche un’edizione ferrarese nel 1612, e altre due bolognesi, del 1621
e del 1628. In epoca moderna citiamo GIULIO CESARE CROCE, La Farinella, introduzione, testo e
note a cura di Pietro Cazzani, Torino, Einaudi, 1965.
22
La storia racconta i problemi “di un giovane (Lelio) allontanato dalla propria città, perché
l’avaro padre (Zenobio) vuole impedirgli il matrimonio con la non ricchissima innamorata (Ar-
delia). Ma Lelio, spinto dall’amico Flavio a sua volta innamorato di Silvia, si traveste da donna
e viene assunto, col nome di Farinella, al servizio della giovane, alla quale racconta come il suo
innamorato sia morto annegato […]. Di fronte alla disperazione di lei, prova palese d’amore, egli
si rivela. Ma intanto il padre si è invaghito del figlio travestito da donna, che ne approfitta per
giocargli una burla: si vesta da fornaio e di buon’ora venga in casa di Ardelia per incontrarla. Il che
accade; finchè avvengono i riconoscimenti, si preparano le nozze e il servo di Lelio si ripromette
una grande scorpacciata” (CAZZANI 1965: 7).

499
Daniela Bombara

ha il suo dipendente: Flavio comanda Chiappino; madonna Simplicia, madre di


Ardelia, Gianettina ; Zenobio Burasca; infine troviamo un facchino bergamasco,
Stramazzo.
Nessuno di questi servi, però, svolge una parte decisiva nell’intreccio, poiché
la beffa è progettata da Flavio, amico di Lelio, che assume un vero e proprio
ruolo di regista guidando i movimenti scenici degli altri personaggi23; è un
Signore, quindi, ad escogitare un inganno dalla forte valenza carnevalesca, poiché
implica un travestimento, con conseguente trasformazione da padrone in servo
e da uomo in donna: un ribaltamento totale, da una condizione dominante alla
massima subordinatezza. I giovani padroni invadono allora uno spazio ideologico
tradizionalmente riservato ai sottoposti, restringendone il campo di azione; in questa
commedia, infatti, i servi sembrano vivere in un mondo isolato rispetto a quello dei
signori, e non compaiono insieme a loro, ad esclusione della scena finale24.
Fa eccezione Burasca, che rappresenta comunque un tipo particolare di
servo, connotato negativamente perché sempre dalla parte dei dominatori25; il
comportamento antipatico del cameriere di Zenobio, delatore e irrispettoso nei
confronti di Gianettina, che tenta malamente di sedurre, ne provoca l’isolamento
all’interno del gruppo dei servitori, al punto che questi lo picchiano selvaggiamente26.
Il ‘tipo’ Burasca si ritrova in altre opere del Croce, incentrate sulla polemica contro
il villano inurbato che desidera migliorare la propria condizione economica, ed
è perciò avido ed imbroglione, ormai venduto ai padroni. Burasca è affine a

23
Flavio possiede una piena consapevolezza della sua capacità di ordire inganni; afferma, in-
fatti, dopo aver progettato la burla: “Oh, che bella invenzione sarà questa” (I 5). Inoltre la perizia
del giovane è nota a tutti e viene considerata un tratto distintivo della persona: in II 3 madonna
Simplicia afferma: “Io so che sempre il signor Flavio sta su le burle, e che ne sa fare delle belle, e
questa ancora è forza, che sia bella”. (La Farinella, II 3).
24
Solo Stramazzo si troverà a confrontarsi con uno dei Signori, e proprio alla sua comparsa in
scena, in I 3; il facchino infatti deve portare una lettera di Lelio ad Ardelia, ma il messaggio viene
intercettato da Zenobio, padre di Lelio.
25
Burasca è in scena due volte con i padroni (Flavio e Lelio in I 1, Zenobio in III 1), due
volte con i servi (Stramazzo in I 6, Gianettina e Chiappino in IV 3), una volta è da solo (II 6). Egli
difende il punto di vista del padrone anziano, esortando Lelio a studiare e lasciar perdere gli amori
(I, 1) e verso la fine della commedia manifesta addirittura l’intenzione di denunciare Chiappino e
Gianettina ai loro padroni, poiché è stato da loro insultato e malmenato (IV 3).
Burasca si considera inoltre superiore agli altri servi, e spia di questa supponenza è l’uso di
un linguaggio ‘alto’, con esiti spesso ridicoli: egli non riesce infatti a sostenere un livello comunica-
tivo elevato, ed il suo eloquio subisce spesso brusche cadute di tono, determinando un’alternanza
comica di latinismi e popolarismi: “tentare non nocet, e ch’audaces fortuna iuvat, e sfacciato cac-
ciati innanzi” (IV 3).
26
Nell’ultima scena Burasca, per le botte ricevute, è diventato deforme, quasi mostruoso,
tanto che Lelio gli dice: “Ma che cosa hai a quella spalla, che’ l pare che tu vadi gobbo?” (V 3). Bu-
rasca è escluso in effetti non solo dai suoi pari ma anche dalla vicenda in sè: nel momento cruciale
della beffa si trova in uno stato di obnubilamento provocato dal vino, forse artefatto, che gli ha
fatto bere Lelio per liberarsi di lui e torna in scena solo alla fine, quando la storia è ormai conclusa.

500
Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

Graziano, il falso sapiente che nasconde le sue umili origini di contadino nato in
un piccolo villaggio: “Bertoldo e Graziano incarnano le due anime del contadino,
quella fedele alle sue origini e alla sua cultura, e quella che, inurbatasi, tradisce il
passato e si atteggia a cittadino sapiente” (Camporesi 1993c: 217-218).
Stramazzo è invece un personaggio tipicamente ‘bertoldinesco’27: ma la sua
‘sciocchezza’ ha una più marcata connotazione sociale, evidenziata già dall’uso di un
dialetto di ardua comprensione come il bergamasco, che ne indica la totale estraneità
al codice comunicativo dei Signori. Stramazzo non solo non capisce, ma non vuole
neanche essere capito, e l’incomunicabilità funge da maschera protettiva per un
personaggio che, come Mingon, è costruito intorno alla tematica della diffidenza
e timore di essere beffato dagli esponenti delle classi dominanti, verso i quali
manifesta un’aggressività notevole, soprattutto a livello verbale. Come il mezzadro
‘fattorino’ de Il Tesoro Stramazzo utilizza il linguaggio in senso carnevalesco, per
degradare i personaggi ‘alti’: egli, lo abbiamo accennato, incontra Zenobio, padre
di Lelio, all’inizio della commedia, ed ha con lui un dialogo serrato, durante il
quale gli affibbia una serie di epiteti (“Messer Marforio”, “Misser Bernardù”, uno
“della compagnia della lesina”)28; apparentemente gratuiti, in realtà questi termini
rivelano la vera natura del vecchio ricco, la sua stupidità, grossolanità, avarizia,
tutte caratteristiche negative che la beffa metterà ulteriormente in luce29.
Anche il successivo incontro di Stramazzo con Chiappino, ragazzo di
Lelio, è marcato da incomprensione e sfocia quasi nella lite: il servo prende in
giro il facchino, facendo sfoggio di un codice linguistico tipicamente burlesco,
che stravolge interamente le categorie della logica, modificando le dimensioni
degli oggetti e l’aspetto in sé del reale30. È un comico del significante: la lingua

27
Stramazzo, facchino bergamasco, nella Commedia dell’Arte origina lo Zanni, tipo sciocco e
balordo individuato dal dialetto rozzo e incomprensibile.
28
(La Farinella, I 3) Marforio è il nome di una gigantesca statua del I d. C. che si trovava ai
piedi del Campidoglio, alla quale si appendevano fogli contenenti satire popolari; nella letteratura
popolaresca Marforio diventa poi l’antagonista stupido e grosso di Pasquino, altra statua ‘parlante’
romana. “Misser Bernardù: “Bernardone”, titolo di spregio di persona grande e grossa ma poco av-
veduta e saggia” (CAZZANI 1965: 90). Uomo “della compagnia della lesina” è proverbiale per ‘avaro’.
29
Osserva Foresti, a proposito di Stramazzo, che questi “è un personaggio dai tratti realisti-
ci, non una maschera. Analogamente, Croce rappresenta il contadino Sandrone in un altro testo
teatrale (FORESTI - DAMIANI 1982) e il bifolco Tartuffo, nell’omonima commedia inedita, come
personaggi cui l’autore affida il ruolo di protagonisti, non di figure marginali e stereotipate, come
di norma avviene nel teatro plurilingue cinquecentesco. Alla luce di questa necessariamente breve
considerazione, risulta ancora meno giustificabile l’assenza di Croce nelle storie del teatro italiano”
(FORESTI 2012: 228, n. 3).
30
Chiappino pone domande incomprensibili: “Avresti veduto per sorte una mula in groppa
ad un pagliaio?; “Cerco un grillo che porta la lanterna di Genova a Milano”; “Quante miglia sono
da Roma al primo dì d’agosto?”; “Hai tu veduto un uomo grande, lungo più di mezo braccio, a
cavallo d’una cimice gravida, con un fagotto alle spalle pieno di malizie di putane, che le porta a
Comachio a barrattare in tante anguille affumate?” (II 2).

501
Daniela Bombara

ha perso la sua funzione comunicativa per diventare puro gioco azzerando la


valenza comunicativa dei tradizionali istituti linguistici. Quello di Chiappino è un
linguaggio eccessivo, diluviante, tipicamente carnevalesco, che non contiene però,
almeno apparentemente, alcuna carica eversiva e non comporta stravolgimento di
valori: Stramazzo infatti è un inferiore ed oltretutto non c’è una reale interazione
linguistica fra i due parlanti31.
Nella quinta scena dello stesso atto si svolge un dialogo amoroso fra Chiappino
e Gianettina, nel quale i servi mostrano la loro abilità di danzatori di linguaggi,
sfoggiando una discreta varietà di registri linguistici32: quello prettamente
popolare, sia a livello di lessico che di strutture – sono infatti presenti enumerazioni
e ripetizioni con effetto cantilenante, e quello colto, che connota in genere lo
scambio linguistico fra innamorati delle classi alte, con sintassi complessa e
ipotattica, rimandi fonici e semantici, allitterazioni33. Il mondo dei servi innamorati
appare allora ricco di significazioni e lo strumento comunicativo caratterizzato da
un’ampia gamma espressiva; i due giovani costruiscono una loro autonoma realtà,
estranea ai valori tradizionali e incentrata piuttosto sugli istinti primordiali, quali
la fame e la passione fisica. E se la loro vicenda personale può apparire irrelata
e marginale rispetto alla storia d’amore dei personaggi di alto lignaggio che
costituisce il fulcro della commedia, ad un esame approfondito, però, si rilevano
una serie di legami che vanno al di là di un richiamo a distanza, come già si è detto,
fra passione sensuale e realistica dei servi e amori astratti e letterari dei padroni.

31
La funzione eversiva tradizionalmente assegnata al linguaggio servile non viene dunque atti-
vata; si tratterebbe soltanto di un momento carnevalesco fine a se stesso, di un, citando Camporesi,
“rituale del diluvio” che porta “alla frantumazione delle forme chiuse tradizionali, all’abolizione
delle consuete norme letterarie e stilistiche e delle usuali categorie grammaticali” cosicchè “paral-
lelamente, con perfetta consequenzialità, la parodia consuma fin in fondo la propria vocazione
disgregatrice e rinnovatrice (dissacrazione/ rigenerazione) reinventando una nuova funzione del
testo su cui opera” (CAMPORESI 1993c: 143-144). Si osservi però la conclusione della scena, quando
Chiappino dichiara la sua intenzione di recarsi dall’amata Gianettina e afferma: “Infin l’è una bella
cosa l’essere innamorato, e massime di queste serve da cucina, ch’elle sono sempre pastose e mor-
bide per la lavattura delle scudelle, che le tiene sempre unte e grasse, onde gli traluce la pelle come
tanti specchi” (II 2). Il giovane dichiara la propria passione inserendola nell’universo del cibo e dei
piaceri materiali; questa gustosa affermazione funge da controcanto agli sproloqui sentimentali dei
giovani padroni, che in precedenza sono stati rappresentati in scena, e nei loro confronti si pone
come abbassamento parodico ma soprattutto proposta di un’altra realtà, più viva e concreta.
32
Traggo l’espressione da un saggio di KATIA CREMONINI, G. C. Croce: un danzatore di lin-
guaggi (in CASALI - CAPACI 2002: 139-156), che prende in esame “le vertiginose insensatezze del
linguaggio carnevalesco in molti luoghi croceschi” (144) inserendole nel consueto paradigma del
rovesciamento bachtiniano.
33
Come esempio di linguaggio basso: “Chiappino: “Or mira se ’l formaggio m’è cascato
(come si suol dire) suso i macheroni”; “lavascodelle che tu sei”; Gianettina: “Se io lavo le scodelle,
e tu lavi il cantaro del tuo padrone”. Chiappino: “Vacci tu su le fune, massaraccia, guataraccia,
sporca, unta, bisunta, lordaccia, puzzolente”; Gianettina: “Chiappinetto mio bello, Chiappinetto
mio caro, Chiappinetto mio d’oro” (II 5).

502
Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

Prima di tutto si consideri che, per travestirsi, Lelio indossa un vestito di


Gianettina, e sembra acquisirne anche, per questa via, il comportamento ‘libero’:
l’obbediente Lelio, che all’inizio della commedia appare del tutto sottomesso,
anche linguisticamente, al mondo degli anziani, nei panni di Farinella mostra di
saper giocare con il linguaggio, sia per burlare Ardelia che per criticare il padre
che chiama, ironicamente, “il mio vecchietto da bene”34. Grazie al travestimento,
che si configura come rovesciamento carnevalesco, ma ancor più impossessamento
magico, poiché sembra che il vestito di Gianettina ne abbia trasmesso al giovane la
personalità, Lelio diventa un Ercole (III 4), ed è in grado di condurre con perizia
la burla ai danni del padre, facendosi corteggiare sfacciatamente e invitandolo ad
incontrarsi con lui nottetempo; la maschera di perbenismo è caduta ed è venuta
fuori la faccia di Farinello, cioè di furfante35.
Tornando al confronto Gianettina – Farinella / Lelio, bisogna osservare anche
la somiglianza fra le due scene d’amore, padronale e servile: Gianettina sottopone
l’amato ad una prova per vedere se la tradisce, ed anche la finta serva, in due
diverse scene (III 2 e III 4) mette alla prova l’amore di Ardelia, prima calunniando
Lelio nelle vesti di Farinella, poi facendole credere che sia morto36.
Fra il mondo dei servi e quello dei giovani padroni sono presenti quindi
sottili analogie e continui rimandi: l’universo servile può gareggiare col mondo
signorile per ricchezza espressiva e possiede in più quella libertà di parola e azione
che i giovani signori acquistano soltanto indossando la maschera di inferiore. I
personaggi subordinati possiedono ingegno e fantasia – certo non Burasca o
Stramazzo, perché il primo è un ‘venduto’, il secondo un pover’uomo estraneo
al mondo dei Signori – ma realizzano anche il pieno soddisfacimento dei bisogni

34
Lelio, prima del travestimento, esprime la sua passione amorosa tramite un linguaggio esa-
speratamente petrarchesco (sintassi complessa, coppie sinonimiche, ripetizioni euritmiche), che è
comunque la norma per gli scambi dialogici di argomento amoroso fra personaggi delle classi alte.
Quando invece Lelio/ Farinella, in II 7, incontra per la prima volta Ardelia, afferma che, come
servitore, intende “soddisfare” la padrona, e dà al termine un’evidente connotazione erotica. Su-
bito dopo, parlando dei suoi precedenti servizi, si vanta: “ho lassato buon odore del fatto mio”, ed
anche questa espressione allude ad una realtà bassa e sensuale.
35
Nel momento in cui Lelio si rivela ad Ardelia le dice che “a guisa d’Ercole ha preso la con-
occhia in vece della spada” (III 4), alludendo al mito di Ercole servitore di Onfale, regina di Lidia.
Riguardo al significato di “Farinella”, nome parlante come spesso in Croce, cfr. CAMPORESI (2003:
498): “Farinello o farinella significava in furbesco furfante”
36
Si osservi inoltre che Gianettina chiama Chiappino “frasca” (II 5), e così Farinella definisce
Lelio in III 2; Farinella ammette di burlare Ardelia, Gianettina a sua volta confessa a Chiappino di
averlo burlato; l’aggressività di Chiappino che vuole rompere la testa di Gianettina con un sasso
poiché questa lo prende in giro durante il dialogo amoroso sarà replicata, ma in forma inversa,
dall’aggressività amorosa di Ardelia nei confronti di Lelio/ Farinella. “Ardelia: ma tu che sei donna
perché non posso io baciarti così per ischerzo in iscambio di lui? Farinella: Perché con il pensiero
ancora si viene a corrompere alquanto l’onestà. Ardelia: Di grazia, fatti in qua, ch’io ti baci una sol
volta” (III 2).

503
Daniela Bombara

primari: esprimono pertanto qualità positive che possono essere fatte proprie solo
da quei ‘padroni’ che hanno in comune con i sottoposti la giovinezza.
Questo è infatti il tema del prologo: l’amore senile è disdicevole, poiché
ai vecchi si addice soltanto il pensiero della morte. La Farinella può essere
considerata, come gli Ingannati dell’Accademia degli Intronati, noto testo comico
del primo Cinquecento con il quale l’opera di Croce presenta non poche affinità,
una commedia della giovinezza37; il vecchio potere deve morire per fare posto
a forze nuove, e allora la creatività e l’irruenza dei giovani sottoposti contagia i
giovani padroni e li spinge alla ribellione. Se infatti è Fulvio ad architettare una
prima bozza della beffa, è Lelio travestito da serva ad attuarla, con grande audacia
ed abilità.
La libertà inventiva, di per se stessa inerente al testo comico che si situa
sempre in un momento festivo, consente a Croce di realizzare il sogno impossibile
di un avvicinamento fra servi e padroni, al quale il più realistico Bertoldo aveva
rinunciato. Ma si tratta di un testo comunque attardato, anacronistico, legato
ad un clima rinascimentale. Questo perché alle soglie del 1600 la crisi politica
ed economica condanna invece i ceti inferiori ad una povertà estrema e ad una
assoluta marginalità: il contatto fra dominatori e subalterni è ormai impossibile, e
l’opera teatrale può mostrare un’improbabile alleanza fra classi solo inquadrandola
in coordinate letterarie ben riconoscibili, ed indiscutibilmente legate al passato38.

37
Una certa somiglianza di situazioni è messa in rilievo da Pietro Cazzani che però non con-
sidera affatto, nel confronto fra i due testi teatrali, la presenza di una comune tematica incentrata
sull’antitesi giovinezza/ vecchiaia. Secondo l’autore ne La Farinella la beffa attuata tramite il tra-
vestimento e la mescolanza di ruoli, sociali e di genere, presenta un significato più superficiale
rispetto al testo comico senese che può essere considerato una fonte: “La morale è solo un pretesto
e non va oltre il prologo: il vecchio, caduto nella rete dell’inganno tesogli dal figlio, è l’occasione
per un finale che tocca le punte estreme del comico” (CAZZANI 1965: 8).
38
E forse il senso profondo del testo risiede nella scena carnevalesca dell’incontro fra Chiap-
pino e Stramazzo: entrambi gli inferiori mostrano in scena la loro alterità rispetto al mondo signo-
rile, il servo distanziandosene con gli strumenti della logica, il secondo mediante la ‘sciocchezza’.
Tornando al confronto Stramazzo/ Bertoldino può essere utile istituire un ulteriore parallelo Chi-
appino/ Bertoldino, citando il discorso di Denise Arigò che individua nel linguaggio sproloquiante
e burchelliesco del figlio di Bertoldo una significazione politica, poiché esso marca “nettamente la
separazione fra i due mondi” [la corte e la campagna], mostrando l’inaccessibilità della corte per
il contadino, irrimediabilmente suddito e distante dai giochi di potere. “L’eversione di Croce si
esercita dunque sul piano di una funambolica girandola di parole che colpiscono il mondo artifi-
cioso della letteratura, ma anche quello reale, dominato dall’arrogante immoralità di chi comanda”
(ARICÒ 2003: 178).

504
Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

3. Tartufo, nuova comedia boscherezzia piacevolissima del già Giulio Cesare Croce

Opera in cinque atti, di cui abbiamo un manoscritto conservato alla Biblioteca


Universitaria di Bologna, ma anche una recentissima edizione a stampa39. Non si
tratta di una vera e propria commedia regolare ma piuttosto di una favola pastorale
parodica, poiché Tartuffo, “bifolco”, è il vero protagonista dell’opera, mentre i
raffinati pastori e ninfe sono lasciati in secondo piano; è il mondo rustico quindi a
prendere il sopravvento, almeno apparentemente, in quanto lo stesso Tartuffo non
è particolarmente caratterizzato come personaggio rozzo e triviale40. La vicenda
è imperniata sugli amori avventurosi di due coppie di giovani che chiedono
l’aiuto di Tartuffo41; questi ha un aspetto animalesco, ma possiede al tempo
stesso una morbidezza ed ingenuità dei tratti, che la moglie rileva paragonandolo
ad un vitellino appena nato. Distante quindi anche fisicamente dal protagonista
del romanzo maggiore di Croce, Tartuffo non dà prova, fra l’altro, di astuzia
‘bertoldesca’, anzi appare smarrito di fronte ad eventi che si svolgono in totale
autonomia. Riguardo al linguaggio, non abbiamo in questa commedia un uso
consapevole del codice linguistico come segno di separatezza del personaggio
‘inferiore’: sia Tartuffo che pastori e ninfe usano un linguaggio medio-basso, un
sermo quotidianus con rari idiotismi42. È comunque possibile che l’omogeneità di
registro stilistico sia coscientemente progettata dal Croce nell’ottica carnevalesca
dell’abbassamento e del rovesciamento: i personaggi dominatori condividono lo
stesso codice linguistico del ‘villano’ perché di fatto sono abbassati al suo livello,

39
Il manoscritto ha la seguente collocazione: ms.3878 XXVI/1. Riguardo agli studi recenti
ricordiamo qualche accenno in Cazzani 1966, una tesi di laurea di Carla Toffoletti, discussa al
DAMS di Bologna con relatore Renzo Tian nel 1984, ma non pubblicata, e la presentazione di
Maria Grazia Accorsi all’edizione moderna dell’opera: Tartuffo, nuova comedia boscherezzia piace-
volissima di Giulio Cesare Croce, a cura di Maria Rosa Damiani, Bologna, 2013.
40
Cazzani (1966) non rileva l’intento parodico ma afferma solamente che il Tartuffo, al pari de
La Farinella e Sandrone astuto, si ricollega alla tradizione teatrale scritta del ’500 e al tempo stesso
rivela l’influenza della commedia dell’arte nella struttura dell’intreccio.
41
Spesso Croce assegna ai villani “nomi derivati dal mondo vegetale: Tartuffo, Marone, Sam-
buco” (FORESTI - DAMIANI 1982: 46, n.1). La trama racconta di Mirtilo che non ama Lidia ma è da
lei amato, e Ardente che ama Frigida senza essere ricambiato: gli amanti pregano Tartuffo di accor-
rere in loro aiuto; la ricompensa di abbondante cibo fa sì che il bifolco accetti. Ma anche Tartuffo è
tormentato dalla passione amorosa: piange infatti la moglie Lisca rapita da un satiro e, spinto dalla
sofferenza, medita il suicidio, ma poi cambia idea, e in effetti il suo desiderio di morte non acquista
mai una coloritura veramente drammatica. Il personaggio gradatamente perde dignità e presenza
scenica: i suoi consigli non vanno a buon fine e Tartuffo si smarrisce, non riesce più a governare
la situazione, al punto da essere sbeffeggiato dai personaggi ‘alti’ i quali, liberatisi dalle loro pene
amorose, lo insultano ferocemente chiamandolo pazzo, barbagianni, babuino.
42
“Rimangono nel Tartuffo brandelli di una lingua municipale parlata, un parlato semicolto
[…] con spesso una toscanizzazione elementare, che consiste nell’aggiungere la vocale alle tronche
bolognesi (ACCORSI 2013: 198).

505
Daniela Bombara

non migliori, né dal punto di vista sociale né economico.


Un tema presente nel Tartuffo e riscontrabile in diversa forma e misura sia nel
Bertoldo che nelle commedie è quello della fame: la promessa di cibo è il primo
motore scenico della commedia ed il pianto di Tartuffo causato dal rapimento
della moglie è comico, nella sua latente drammaticità, proprio perché l’uomo non
potrà più godere dell’abilità culinaria della sua compagna; la disperazione del
protagonista si situa pertanto ad un livello ‘basso’, di istinti primari. In effetti il
protagonista persegue una poetica della naturalità, come afferma il prologo del
testo comico, pronunciato dalla Natura stessa: l’Arte è cacciata da una scena che
dà invece risalto al “bifolco” Tartuffo, ignorante e di aspetto orribile ma capace di
amare e soffrire; un personaggio che sembra affermare i diritti di Natura di fronte
ai più nobili pastori, evidenziando quanto sia innaturale il loro velato disprezzo43.

4. Sandrone astuto

Commedia in cinque atti, di cui si conserva il testo manoscritto nella Biblioteca


Universitaria di Bologna; esiste anche un’edizione a stampa recente, a cura di
Fabio Foresti e Maria Rosa Damiani44. L’intricata vicenda ha come protagonista
il mezzadro Sandrone, diventato ricco perché ha venduto sottobanco a messer
Pancratio un terreno che gli era stato affidato da un altro possidente, Cassandro;
questo primo raggiro determina una serie di inganni e beffe ai Signori, che servono
da un lato a creare confusione, in modo tale che non si scopra la ‘furfanteria’
di Sandrone, ma al tempo stesso ad impedire le mire erotiche di Cassandro e
Pancratio nei confronti delle serve, che anche i loro figli amano45. Il complesso
meccanismo di raggiri riesce solo in parte, e la situazione in effetti si accomoda solo

43
Il motivo della naturalità è comunque appena accennato in un testo privo di una reale vena
popolare, e distante anni luce dalla creatività linguistica di un Croce mediatore fra alta e bassa
cultura: “questi pastorelli sono decisamente mediocri, in tutto” (ACCORSI 2013: 197).
44
Sandrone Astuto Comedia piacevole e di spasso di Giulio Cesare Croce, ms.3878 II/24.
Bibl. Univ. Bologna; GIULIO CESARE CROCE, Il Tesoro. Sandrone astuto. Due commedie inedite del
Cinquecento, a cura di Fabio Foresti, Maria Teresa Damiani, Bologna, Clueb, 1982; ed. agg. 1990.
45
Pancratio ha in casa una serva, Minghina, di cui si è invaghito; ma la ragazza è amata anche
dal figlio Flaminio, che chiede aiuto a Sandrone, senza però ottenere risultati. Intanto s’incontrano
Pancratio e Cassandro, della cui serva, Erminia, Pancratio s’innamora, ma ha un rivale nella per-
sona di Lelio, figlio di Cassandro. Sandrone teme di rivedere il suo vecchio padrone, al quale ha
sottratto indebitamente il podere, e quindi si traveste, ma è subito scoperto dagli altri personaggi;
Pancratio intanto promette la sua serva, Minghina, a Cassandro, per avere in cambio Erminia.
Sandrone decide allora di beffare i vecchi ed attua una serie d’inganni: si traveste da medico e
informa Pancratio del fatto che Cassandro è gravemente malato, per rimandare l’incontro fra i
due; fa credere a Cassandro che Pancratio sia già sposato e a quest’ultimo dice che Cassandro fa
commercio di donne; comunica a Cassandro che Minghina ha già dei pretendenti; manda il servo
di Lelio, Frappa, travestito, a riscattare Erminia, estorcendo con l’inganno i soldi a Pancratio.

506
Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

grazie ad una doppia agnizione, per cui le ragazze risultano essere le figlie perdute
dei vecchi Signori46.
Sandrone è un ‘villano astuto’ di tipo bertoldesco, e appare perfettamente
calato nella parte; cerca infatti di estendere sempre più il proprio raggio d’azione,
‘rubando la scena’ agli altri personaggi, dei quali azzera l’iniziativa con un ossessivo
“lassà far a mi”47; si vanta di essere in grado di architettare una “duzina d’ burl […]
a sti viech mat”, e di essere disposto a “metr sudsovra al chmun” (Sandrone astuto
III, 7); afferma di voler fare un “astut final” (III, 4)48. Anche gli altri personaggi
approvano la sua linea comportamentale e lo definiscono “astuto” e “sagaze”49.
Sandrone inoltre manifesta una notevole aggressività verbale nei confronti dei
vecchi padroni – anche se mai in loro presenza –, e parla in dialetto bolognese,
rifiutando implicitamente il codice comunicativo delle classi alte e dunque i valori
che esse rappresentano50.

46
La serva Erminia è Silvia, figlia di Pancratio, e specularmente Minghina è Ardelia, figlia di
Cassandro. I giovani innamorati possono ora sposarsi.
47
Atto I, 3 (per ben tre volte); atto III, 4; atto III, 7 (nella variante “Lassa pur far a Sandron”);
atto IV, 1 (per due volte); atto IV, 3.
48
Il nome Sandrone è già un indizio dell’attitudine truffaldina del personaggio, poiché si
ritrova in un’altra opera del Croce, come notano Foresti e Damiani nell’introduzione all’edizione
moderna dell’opera: “Un altro Sandrone crocesco è un briccone come questo, e si trova nel Vanto
di dui villani cioè Sandron e Burtlin sopra l’astuzie tenute da essi nel vendere le castellate, Bologna,
Bart. Cochi, 1610: si tratta di un’operetta drammatica in dialetto in cui le “astuzie”, che consistono
naturalmente nell’allungare il mosto con l’acqua, sono in realtà dei furti, verso i quali l’Autore
mostra un atteggiamento non di comprensione ma neppure di condanna. I motivi infatti per i quali
i villani, cioè i mezzadri – o soci – erano indotti a derubare il padrone del podere che lavoravano,
erano ben noti al Croce: i contratti agrari, i cosiddetti ‘patti’, imponevano al villano di dare al
padrone, oltre alla metà del raccolto, tutta una serie di altri prodotti e di animali che li riducevano
ad una lotta brutale per la sopravvivenza fino al latrocinio” (FORESTI - DAMIANI 1982 :171, n. 21).
Si noti, fra l’altro, che il vero nome di Sandrone è Burtlin, come lo stesso personaggio rivela verso
la fine della commedia: questo mezzadro ‘furfantesco’ e servile riassume dunque nella sua figura
scenica il comportamento della coppia di villani dell’operetta drammatica. Anche MONIQUE ROUCH
(2007: 158) osserva come le opere di Croce – e cita espressamente il Vanto – intendano voluta-
mente rappresentare, con un implicito intento di critica sociale o almeno con l’intento di raffigu-
rare in modo realistico una realtà marginale quale quella popolare, la «sfibrante guerriglia [per]
l’appropriazione del prodotto» tra padrone e mezzadro e la negatività di un ingiusto contratto di
mezzadria.
49
Nella sesta scena del primo atto Pancratio dice, presente Sandrone, “anch’io sono astutto”,
facendo dunque capire che ritiene astuto il mezzadro; è Erminia a definirlo “sagaze” (III, 7).
50
Si è già osservato che anche i personaggi di Mingon ne Il Tesoro e di Stramazzo ne La Fari-
nella utilizzano il dialetto per marcare una separatezza, non solo linguistica ma anche ideologica,
rispetto al ceto dei dominatori. È importante osservare che, se il plurilinguismo è un tratto tipico
della Commedia dell’Arte, nel caso di Croce non si tratta soltanto di un espediente scenico per
attirare la curiosità del pubblico, ma piuttosto, come già si è detto, per identificare le classi sociali
e soprattutto evidenziare i rapporti conflittuali fra di esse. “Croce’s plays aim at providing genuire
entertainment through realworld portrayals, removed from traditional literary schemes. Strikingly,

507
Daniela Bombara

Questa continua insistenza sull’intelligenza truffaldina di Sandrone appare


però eccessiva e contraddetta dagli eventi: le burle del mezzadro in realtà non
riescono, oppure il loro risultato coincide con la volontà dei personaggi beffati51;
d’altra parte egli manca di lucida progettualità, anzi prende le decisione in modo
estemporaneo (“sicond l’ucasion a m’trarò al partì”, III 5), si affida di preferenza
alla fortuna (“a vui tintàr la furtuna”, I 5; “Andèm pur ch’ pr la strà s’cunza al
sach”, III 8). Il contadino inoltre non evidenzia alcuna autonomia nel suo ruolo
di orditore d’inganni, e chiede spesso l’aiuto di altri personaggi che oltretutto
appartengono al gruppo sociale dei dominatori52; Sandrone, infine, vive nel
terrore di essere scoperto o imbrogliato e l’unica vera soluzione che immagina per
risolvere i propri problemi è la fuga. Nel cruciale momento conclusivo il “sagaze”
contadino ci appare nella sua vera natura, non essendo più in grado di controllare
un meccanismo che ha solo messo in moto: “Mi son al più confùs hom ch’ veda al
sol” (V 4).
Si consideri poi che l’agire di Sandrone è in sé privo di ogni connotazione
trasgressiva e persegue obiettivi molto circoscritti, ai quali è estranea ogni forma
di rivendicazione sociale: il mezzadro vuole solo salvare se stesso, oppure ottenere
qualche forma di ricompensa. Egli non aiuta i giovani padroni perché difende
la morale ‘naturale’, sostanziata da una genuina passione, di contro ai valori
tradizionali dei vecchi, ma cerca solo il favore dei potenti, qualunque sia la loro
età: “mo s’ i viech m’ udiaràn i zuvn m’acarzràn” (IV 1).
Anche l’altro personaggio che appartiene al gruppo dei subordinati, il servo
Frappa, non assume un ruolo eversivo nel testo comico, anzi ha in esso una funzione
del tutto marginale, poiché si limita a portare messaggi di scarsa rilevanza, o viene
mandato a rintracciare altri personaggi; nello svolgimento di queste mansioni si
mostra inoltre solerte e diligente53. Un servo perfetto, dunque, allineato con la
logica dei Signori. Ma anche questo personaggio piatto e monolitico ha un momento
di crisi alla fine della storia quando, insultato da Lelio che gli dà della “bestia”,
esclama: “Subito della bestia, povera servitù” (V 7). Un’affermazione pregnante,
nella sua desolata accettazione di un ruolo di sottomissione; queste parole ci aprono
uno spiraglio su quello che è il possibile tema centrale di una commedia percorsa

and perhaps pioneeringly, different language registers identify different social classes. The two
peasants Mingon and Sandrone speak in the Bolognese dialect, while the bourgeois characters use
a remarkably modern-sounding regional form of Italian” (HALLER 1999: 178).
51
Ad esempio, quando Sandrone suggerisce a Cassandro che, essendo Minghina già impegna-
ta con numerosi pretendenti, sarebbe pericoloso per lui impegnarsi in questo affare, il vecchio lo
informa di aver già cambiato idea.
52
Sandrone chiede infatti aiuto a Pancratio, che era stato il suo vecchio padrone: gli con-
fessa il raggiro, cioè di avergli venduto il podere di Cassandro, poiché è spinto dal timore che
quest’ultimo lo riconosca (Sandrone astuto II, 2).
53
Sulla ‘riduzione’ del valore scenico del servo nel teatro fra il ’500 e il ’600 , da regista dell’azione
a semplice latore di messaggi, è utile consultare, lo si è già detto, Pagliano Ungari (1983).

508
Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

quasi ossessivamente da dichiarazioni di disponibilità al servire dei vari personaggi


subordinati – con, in controcanto, il lamento sulla negatività di questo servire54.
L’astuzia bertoldesca è solo il motivo di facciata, dietro cui si profila l’autentica e
squallida condizione di un ceto rurale che non ha nel testo comico – specchio della
vita reale – alcuna possibilità di azione scenica effettiva: i vari contadini e servitori
sono continuamente esortati al lavoro senza che i Signori lascino loro un attimo di
tregua, spostandoli da un punto all’altro della scena per negotii di diverso genere55.
La tematica dell’obbedienza/ servitù informa di sé tutta la realtà e l’appiattisce: ciò
può spiegare la mancanza di vivacità e ritmo in una commedia che sembrerebbe
adatta ai giochi scenici, per la concatenazione ininterrotta di burle, ma in effetti
l’azione si blocca su se stessa, non progredisce, poiché le beffe non mutano lo stato
delle cose e neppure determinano un ribaltamento dei valori56.

54
Anche Sandrone afferma continuamente di voler ‘servire’, soprattutto Pancratio: A son qui
pr servìrv” (I, 6); “A farò quant a dsidrà” (II, 2); “A srì srvì” (“Sarete servito”, III, 3, ripetuta);
“Andà pur ch’a srì servi” (III, 8); “A son qui pr srvìrv” (V, 8). Sandrone è comunque sottomesso
anche nei confronti di chi non è il suo diretto padrone, ad esempio Flaminio: “Pur cha sippa bon
a faral a v’ survirò” (“Purchè sia in grado di farlo, vi servirò” , I, 3), e Lelio: “A son qui pr servìr”
(IV, 5). da parte loro, i Signori per tutta la commedia esortano il protagonista a lavorare. Com’è
naturale è soprattutto Pancratio ad incitare il suo mezzadro al lavoro (I, 1; I, 6); ma anche Ming-
hina, pur essendo lei stessa una serva, invita Sandrone ad essere operoso.
55
È interessante osservare come anche i rapporti fra le classi dominanti si configurino come
relazioni verticali: Cassandro si dichiara pronto a servire Pancratio (togli spazio III , 1), Lelio Fla-
minio (II 5 e V 2), Pancratio ordina a Flaminio di ubbidirgli (V 3). Se i termini ‘servitù’ ed ‘obbedi-
enza’ ricorrono in genere nell’accezione di servigio dovuto all’amicizia, mutuando il concetto
dall’etica cortese, poi cortigiana – e il termine risulta usuale, in ambito letterario, nell’interazione
dialogica fra personaggi delle classi alte – non sarà senza significato l’insistenza in sé sul legame di
dipendenza; in tal modo infatti si potenzia, in contesto signorile ed in ambito metaforico, l’effettiva
subordinazione, giuridica e soprattutto economica, effettivamente presente fra Signori e contadini,
mezzadri, servitori. Particolarmente rilevante, per il nostro discorso, l’ultima scena (V 9). dove i
termini collegati al campo semantico del ‘servire’ ricorrono con altissima frequenza: sembra che
Croce voglia congedarsi dallo spettatore lasciandogli un’immagine della società al cui interno non
ci si salva comunque da relazioni asimmetriche, e quindi da una struttura gerarchica costrittiva, che
organizza anche i rapporti fra la casta dei dominatori; la libertà del singolo individuo risulta quindi
fortemente compromessa. “Cassandro: Ecoti Ardelia il tuo sposo qui il signor Flaminio, quale
devi obedire servire e onorare fino alla morte. Ardelia: Tale è l’obligo della moglie verso il marito,
e sempre li sarà obediente come ancora al signor Pancratio, e perciò li do la mia fede d’esserli
obedientissima nora e figlia” “Flaminio: L’obbligo mio è di servir tutti” “Silvia: Riverisco anch’io
il signor Cassandro, obbligandomi a eserli obedientissima” “Sandrone: Orsù msier Casandr a
v’aringrati es v’srò bon srvitor pr l’avgnir, e a vu msier Pangrati ancora a v’srvirò”. Questo quadro
è completato dalle lamentazioni, a cui si è già accennato, sulla negatività dell’esser servo: Minghina
deplora la sua condizione “fatta d’altri servente e non servita, da altri beffata e non rispetata” (I,
4); Sandrone afferma, nella scena immediatamente successiva, “ch’a n’i è la più bella cosa a st’
mond quant’è al comandar” (I, 5); del grido di protesta di Frappa (“Povera servitù”) si è già detto.
56
Anche la soluzione finale non propone alcuna vera modifica, anzi la rete di rapporti ge-
rarchici in cui sono avvolti i personaggi sembra stringere ulteriormente le sue maglie: Sandrone

509
Daniela Bombara

Il servo/contadino può comunque mantenere una certa autonomia d’azione,


all’interno della propria inevitabile condizione di subordinato, grazie alla propria
operosità e all’attitudine a prendere sul serio il proprio lavoro: sono soprattutto
Frappa e Minghina a mettere in rilievo questo motivo57 e lo stesso Croce doveva
considerare centrale questo discorso, dal momento che fa precedere la commedia
da un’articolata polemica contro l’ozio; nel prologo si stigmatizza il “noioso vitio
del otio”, che distrugge l’uomo “ofuscando l’intelletto, ofendendo la memoria,
annullando il gusto”. È stato notato che “il Croce non è solo il poeta della povertà
e della miseria, è anche, talvolta, con serietà e solennità, il poeta del popolo al
lavoro” (Rouch 1982: 120); l’attività produttiva sembra essere quindi per Croce
l’unica forma di riscatto sociale in una società che non consente altro58. D’altra
parte l’operosità dei servi risalta ancor più dal contrasto con la totale inattività
dei padroni, sia vecchi che giovani: Pancratio vive in campagna per passeggiare
(I 1); qualche scena dopo afferma di “esser andato per ispasso” fino al fiume
(I 6); Flaminio invita Lelio ad andare in Accademia (II 5); poi al fiume a veder
pescare (II 9); mentre Sandrone allestisce la beffa i giovani sono andati a veder
ballare (III 3). In questo testo teatrale, quindi, tutti i Signori, giovani e vecchi, sono
fondamentalmente passivi, e l’attivismo dei subalterni, quando è presente, acquista
un senso ben diverso rispetto al mondo comico del primo Cinquecento: il servo o il
contadino è una figura positiva non quando si oppone ai dominatori, ma piuttosto
nel momento in cui conferma l’organizzazione dei ruoli sociali mantenendosi nel

nell’ultima scena rivendica a sé la paternità di tutte le burle, ma non c’è nessun orgoglio in una
dichiarazione che assume piuttosto toni da confessione; quello che preme al mezzadro è solo ot-
tenere il perdono “Quest’è mo quel ch’mi vre dscargar la mia cunsienza, e ch’ a m’ prdunassi
ubligandm a srvirv senza salari al temp ch’a starò in st’ mond” (V 9).
57
Frappa: “forsi [il padrone] vorrà qualche servitio” (III 2); Minghina: “voglio ir a far i ne-
gotii di casa” (I 6); Frappa: “io voglio andare a far condure le nostre robbe […] È già di sera, voglio
essere solecito” (II 3); Frappa: “non volio perder tempo in andar a preparar da cena” (V 9).
58
“L’affermazione della dignità umana anche nella povertà non è solo affidata alla celebrazione
della saggezza e dell’intelligenza sotto qualunque abito si presenti [ma anche] all’ammirazione per
la capacità di reagire alle sventure, per l’industriarsi degli uomini, per il loro lavoro e per le virtù, di
lealtà, di rispetto degli impegni, ad esso connesse” (CROCE F. 1969: 194). In fondo la forza eversiva
del villano crocesco consiste proprio nella volontà di ritagliarsi un ambito di azione autonomo a
partire dalla riscoperta del lavoro come fulcro dell’identità del popolo, riscoperta che attraversa
in varia misura tutta la produzione di Croce. A proposito di una sua commedia dialettale, La tibia
dal Barba Pol, imperniata sul resoconto di una giornata vissuta dai contadini, Monique Rouch
osserva che “un’opera così decisamente imperniata sul lavoro è un fatto del tutto originale da
sottolineare”, un unicum nella tradizione italiana che vede le attività lavorative attraverso il filtro
iperletterario del genere bucolico; “L’elogio dell’operosità umana è una costante dell’opera del
Croce quando parla dei contadini come degli artigiani della città, e appunto la sua originalità ci
pare quella di aver riferito questo elogio […] non più ai ceti borghesi ma alle classi popolari sboc-
cando così sul riconoscimento del lavoro manuale in un’epoca in cui era generale il disprezzo per
le arti «meccaniche» (ROUCH 2007, p. 161 e 167).

510
Servi e contadini sulla scena nelle commedie regolari di Giulio Cesare Croce

suo ambito di onesto e sottomesso lavoratore; in tal modo gli inferiori riescono a
mantenere intatta la propria identità ritagliandosi un ambito, sia pure ristretto e
marginale, in una società fortemente classista59.
Da questo discorso sembrerebbe dunque escluso proprio il protagonista della
commedia, che agisce in modo inconcludente e finisce per essere scavalcato dagli
eventi. Si ricordi però che il primo inganno di Sandrone, la vendita di un podere
non suo, ha in ogni caso prodotto risultati positivi: il terreno infatti è stato coltivato
e rende molto più di prima mentre, come afferma il Prologo, “la Terra incolta
germoglia spine, ed erbe inutili”. Il mezzadro ha dunque svolto bene il proprio
lavoro; escluso dal gioco scenico nella qualità di orditore di inganni, vi rientra
come umile contadino. Il discorso di Croce lascia poco spazio a facili ottimismi ed
a possibili utopie; neanche nel tempo carnevalesco della scena è possibile attuare la
scalata sociale e criticare quindi, sia pure in uno spazio ficto, la realtà sociopolitica
dell’epoca, che è comunque vista in modo lucido, realistico e senza illusioni,
neanche comiche.

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59
Come osserva Pagliano, nel già citato Servo e padrone, la condizione servile è di segno posi-
tivo, nei testi letterari, fin quando corrisponde ad un ruolo sociale produttivo; quando, dopo il
1600, tale funzione decade, “il disagio della condizione servile cresce e si insinua nel rapporto
[servo/padrone] fino a renderlo invivibile” (PAGLIANO UNGARI 1983: 12).

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Riassunto

Il presente lavoro intende analizzare il rapporto fra dominatori e dominati nella


produzione comica in lingua italiana di Giulio Cesare Croce, prendendo in esame
i personaggi degli inferiori, villani, servi, facchini; essi riflettono ed esprimono
l’ideologia dell’autore, potenzialmente critica nei confronti delle forme del potere.
Nelle commedie in lingua esaminate – La Farinella, Il Tesoro, Sandrone
astuto, Tartuffo – la dinamica servo/padrone appare determinata e condizionata
dal desiderio, vero e proprio motore drammaturgico, che conduce le più diverse
figure teatrali di ‘sottoposti’ ad esprimere una costante volontà di possesso: di beni
materiali, dello spazio scenico, delle forme di comunicazione. La parola servile, che
organizza il meccanismo della beffa, o esprime, attraverso il dialetto, una necessaria
e irrimediabile separatezza fra sfera ‘alta’ e ‘bassa’ della società, diventa un’arma
per disgregare la realtà dei Signori, ma non si traduce in un’effettiva incidenza
sul reale, poichè è impensabile, in un’Italia soffocata dall’assolutismo, un’effettiva
mutazione dei rapporti di forza.
Il villano, ricacciato ai margini della scena, rivendica comunque una sua dignità
di lavoratore, unica forza produttiva di una società in decadenza; sia nei testi comici
che nel Bertoldo Giulio Cesare Croce si pone dunque come mediatore fra cultura
popolare ed elitaria, in grado di dare visibilità letteraria ad un proletariato urbano
e rurale di fatto escluso dalla storia e dallo sguardo dei letterati.

Parole chiave: Giulio Cesare Croce, villano, servo, commedie, potere.

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