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Riassunti

2021-2022
Agata Mantuano

PSICODIAGNOSTICA
Elementi di psicologia clinica (F. Del Corno e M. Lang)
Sezione I- la storia
Capitolo 1
L’evoluzione della psicologia clinica

Le origini
Lightner Witmer, direttore del laboratorio di psicologia
dell’Università di Pennsylvania e fondatore della prima
“psychological clinic” per bambini con problemi di
adattamento (1896). Che cosa può essere considerato come punto di
partenza: il mutamento radicale della disciplina accademica della
psicologia, essa stessa da poco emancipata dalla filosofia, e
l’impulso dato agli psicologi perché entrassero nel mondo
dei problemi segnò l’inizio della psicologia clinica. Nel 1876
Willian James stabilisce ad Harvard una sede della “demostration
experiments”, che precede addirittura la fondazione del primo
laboratorio ufficiale per la ricerca sperimentale in psicologia, da
parte di Wilhelm, a Lipsia nel 1879. Nel 1883: Stanley Hall apre un
secondo laboratorio di psicologia alla Johns Hopkins
University. Nel 1869 hanno inizio in Inghilterra gli studi di
Francis Galton ai quali, indipendentemente dai loro risultati, può
essere ascritto un quadruplice merito: aver focalizzato l’attenzione
sull’individuo e sulle differenze fra gli individui; aver introdotto il
concetto di misura quantitativa di queste differenze; aver
accreditato l’importanza dell’analisi statistica dei dati psicologici;
aver impiegato le misure psicologiche per lo studio e la
classificazione degli individui. Nel 1890, James McKeen Cattel
introduce il termine “mental test” e nel 1894 sviluppa una batteria di
reattivi che viene utilizzata per valutare le abilità mentali delle
matricole della Columbia University (consulenza ingloriosa). Pinel:
inizia a fare le prime distinzioni tra le varie patologie. Fu il primo a
dire che non tutte le patologie hanno cause organiche. Nascita della
relazione con il paziente, scioglie i pazzi dalle catene. Suggerisce di
concentrare l’attenzione su “la distinzione fra i vari tipi di
alterazione mentale, la storia esatta dei sintomi precursori, il
decorso e l’esito dell’attacco, se è intermittente, l’accurata
definizione di quelle circostanze che rendono necessari certi rimedi
e di quelle che li rendono invece superflui”. Benjamin Rush: il
Pinel americano, pubblica nel 1812 il suo trattato, “medical inquiries
and diseases of the mind”, che è il primo testo americano di
psichiatria e che rimane l’unico per i successivi settant’anni. Negli
USA continuano ad essere aperti ospedali psichiatrici e nel 1844
nascono l’ “American Psychiatric Association”(APA) e l’ “American
Journal of Insanity” (attuale Psychiatry). In Europa Kraepelin
propone un sistema di classificazione delle malattie mentali che
viene utilizzato anche in America. Fino alla fine del diciottesimo
secolo negli “asylums” la visita del medico era compiuta una volta
all’anno e, nelle istituzioni private, addirittura una volta ogni dieci
anni veniva effettuata la visita e veniva prescritto il trattamento.
Nello stesso anno di Pinel (1792), in Inghilterra, Tuke crea un
proprio ricovero nel quale incomincia ad accogliere pazienti
in alternativa agli istituti pubblici, poiché disgustato dalle
condizioni degli asylum. Ricovero che in alcuni anni si trasforma in
un vero e proprio stabilimento per la cura dei malati di mente
famoso con il nome di York Retreat. Qui vengono banditi
gl’interventi psichiatrici tradizionali e viene praticata un
trattamento (moral treatment) affine a quello di Pinel. Purtroppo,
questo periodo di grande speranza e ottimismo circa i recenti
successo nel trattamento dei pazienti psichiatrici dura poco più di
50 anni. Infatti a partire dalla metà del 1800 gli ospedali
psichiatrici ritornano ad essere stabilimenti costruiti in aree
remote, spesso sovraffollati a causa dell’immigrazione dall’Europa,
sporchi, inadatti a qualsiasi trattamento che non sia la semplice
repressione delle manifestazioni più disturbanti della malattia.
Dorothea Dix: per risolvere questa nuova situazione di disagio si
pone a capo di un vero e proprio movimento per l’umanizzazione
del trattamento ai criminali, ai malati psichici e ai deboli mentali.
Alla fine della sua attività, che si sviluppa lungo quarant’anni fino
all’inizio del ventesimo secolo, risultano ricostruiti o
rimodernati, su suo suggerimenti, molti ospedali psichiatrici.
L’evoluzione della psicologia clinica
Dal 1896 agli anni ‘40 , Witmer impiega l’aggettivo “clinico” perché
in greco richiama al “letto” e alla condizione di sofferenza di un
individuo che necessita di aiuto. Witmer dimostra fin dall’inizio
una notevole difficoltà a stare al suo passo con lo sviluppo
professionale della psichiatria e della psicologia. Il suo lavoro ha
per oggetto i problemi educativi e in primo luogo quelli relativi al
ritardo mentale. Healy, antagonista di Witmer entra in rapporto con
un grande numero di agencies e di istituzioni, ciò gli permette di
inglobare alcuni importanti contributi che arrivano dall’Europa;
mentre Witmer e i suoi collaboratori continuano a muoversi
esclusivamente nell’ambito scolastico, rimanendo ostili verso le
teorie dinamiche. Nel 1916: Terman pubblica la Stanford Revision
della scala Binet Simon e introduce il concetto di Quoziente di
Intelligenza. Il suo lavoro ha successo tanto che per molti anni,
negli Stati Uniti, il compito più importante assegnato agli psicologi
clinici fu la somministrazione del test Stanford-Binet. L’incremento
dell’uso dei test psicologici è favorito anche dal fatto che, in quegli
anni, vengono aperte diverse cliniche (child guidance clinic) nelle
quali un’equipe composta da psichiatri, psicologi clinici e
assistenti sociali si occupa della valutazione e del trattamento
di bambini adolescenti con anomali del comportamento, soprattutto
di tipo delinquenziale. L’abilità nella somministrazione e
nell’interpretazione delle varie versioni delle scale Binet fu
considerata per molti anni come sinonimo di psicologia clinica.
Accanto a questo movimento si sviluppa anche il movimento per
l’igiene mentale con lo scopo di incrementare la quantità e la qualità
dei trattamenti per i pazienti ospedalizzati, ma soprattutto di
stimolare la società a compiere ogni sforzo per prevenire lo
sviluppo dei disturbi di carattere psichiatrico (Beers 1908). Allo
scoppio della prima guerra mondiale, la psicologia clinica, è tra le
discipline alle quali si può far ricorso per rispondere ai bisogni che
questo eccezionale evento socio-politico sta determinando. Nel
1917, le autorità militari degli Stati Uniti chiedono quindi aiuto agli
psicologi. Il compito che essi devono svolgere è mettere a
punto alcuni strumenti efficienti per la valutazione e la
classificazione dei soldati. I tre test impiegati sono stati Army Alfa,
Army Beta e Personal Data Sheet. La psicologia clinica si
identifica con la testologia. Nel 1921 nasce la Psychological
Corporation che raccoglie circa duecento psicologi con lo scopo
primario di offrire consulenza al mondo degli affari e all’industria.
Sempre nel ‘21 Hermann Rorschach ha messo a punto il test
proiettivo che porta il suo nome. Nel 1924 viene fondata la
American Orthopsychiatric Association, due anni dopo viene
cambiato lo statuto per permettere l’ammissione anche agli
psicologi. Nel 1935 l’APA dichiara “la psicologia è una scienza
applicata”. Durante gli anni ’40 vi è l’immigrazione di psicoanalisti
europei in America, in seguito al progressivo espandersi del
Nazifascismo nel vecchio continente. Molti psicologi clinici si
preparano a esercitare professionalmente la psicoanalisi, anche se
coloro che non sono laureati in medicina devono scontrarsi per la
prima volta con un problema che resterà irrisolto per molti
anni: la preferenza accordata alla formazione medica come
prerequisito per effettuare il training psicoanalitico.
Il secondo conflitto mondiale e il dopoguerra: Gli psicologi furono
spinti dalle necessità dalle necessità di guerra a familiarizzare con
tutte quelle attività di valutazione, di intervento terapeutico, di
consultazione, di administration che, ancora oggi, costituiscono, a
grandi linee, le partizioni della psicologia clinica. Negli USA, 40.000
reduci di guerra affetti da diverse turbe psichiatriche vengono
ricoverati negli ospedali della Veterans Administration. La Veterans
Administration apre dei corsi per formare psicologi clinici e nel
1946 nasce la National Mental Health Act. per supportare la ricerca
e l’addestramento in psicologia clinica.
Gli anni ’50 e ‘60: Negli anni ’50 la psicologia clinica continua nel
proprio consolidamento e iniziano una serie di problematiche,
in parte risolte, relative allo stato giuridico del ruolo
professionale dello psicologo. Gli anni ’60 sono caratterizzati dalla
nascita e dalla proliferazione, in tutto il mondo occidentale, dei
movimenti per la salute mentale e per la psichiatria di comunità
(alternativa all’ospedalizzazione). Gli psicologi americani
tentano una procedura di autoregolamentazione con il compito
di certificare la comprensione professionale in tre aree della
psicologia applicata: clinica, counseling e psicologia industriale. Gli
anni ’60 sono caratterizzati dalla nascita e dalla proliferazione dei
movimenti per la salute mentale e per la psichiatria di comunità. Il
ruolo degli psicologi si apre alle attività di servizio all’interno della
comunità come consulenti per varie agenzie sociali e divengono
supervisori nei programmi di formazione per le figure para-
professionali.
Gli anni ’70 e i primi anni ’80: Gli anni ’70 rappresentano, per la
psicologia clinica, il declino del favore accordato alle tecniche di
valutazione (assessment) e un grande sviluppo di interesse per
l’attività psicoterapeutica. Questa imprevedibile proliferazione dei
professionisti della psicoterapia pone il problema di un più efficace
controllo sulla professione (soprattutto da parte di dai i rimborsi
per i trattamenti). Negli USA il governo, quindi, riduce
progressivamente le sovvenzioni ai programmi per la salute
mentale e vengono avvantaggiati i trattamenti che si ritengono più
rapidi e risolutivi; vivace ritorno di interesse per le terapie
farmacologiche e aumento del potere degli psichiatri di
orientamento biologico. Nel 1973 l’American Psychiatric
Association relega i “professionisti della mente non medici” in
ruoli subordinati alla supervisione e al controllo di uno psichiatra.
Nel 1975 l’American Psychiatric Association definisce il
trattamento delle malattie mentali come “psicoterapia medica”,
che deve essere esercitata da un terapeuta con formazione in
“medicina psichiatrica”. Afferma H. Goldenberg che “nel periodo
postbellico, soprattutto quando gli psicologi cominciarono a
ricevere un addestramento clinico sia all’università che in internati
ospedalieri, le due professioni si sovrapposero sempre più sia a
proposito dei programmi di training che dei servizi che esse erano
in grado di offrire”. In quegli stessi anni, l’APA e l’American
Psychological Association istituirono una commissione congiunta
per risolvere le contese fra le due professioni. Nel 1954 L’American
Medical Association (AMA) dichiara che la psicoterapia è una
forma di trattamento medico. L’APA fa propria
l’affermazione dell’AMA. L’American Psychological Association
risponde con durezza: nello stesso anno dichiara di non accettare
alcuna restrizione al ruolo e alle funzioni degli psicologi. Lo scontro
perdura fino agli inizi degli anni ’80.

Dalla metà degli anni ’80 ad oggi: A partire da metà degli anni ’80
si inizia a parlare delle differenze, tra i diversi stati, della
formazione in psicologia. In Italia la legge 18 febbraio 1989 n.56
regolamenta la professione e istituisce l’Ordine degli psicologi. La
legge inoltre regolamenta l’esercizio dell’attività psicoterapeutica.
Sono state istituite due diverse sezioni dell’Albo: sezione A
(psicologi con specialistica), sezione B (laurea triennali
“dottore in scienze e tecniche psicologiche”). Oltre
all’abilitazione alla professione di psicologo, la legge del 18 febbraio
1989 n.56 regolamenta l’esercizio dell’attività psicoterapeutica,
consentendola, previo conseguimento di una specialistica post
lauream, a laureati in psicologia e medicina. Il nodo più complesso
è rappresentato dalle Scuole private di formazione alla psicoterapia.

Gli psicologi del futuro


Gli psicologi clinici, così come tutti gli altri professionisti della
salute mentale, sono tuttora indotti a studiare strategie di intervento
che, sostanzialmente, rispondano al motto “di più con meno”. Le
capacità diagnostiche e di pianificazione dei trattamenti, in questa
situazione caratterizzata dal fatto che i pazienti sempre più difficili
devono essere aiutati in sempre meno tempo e a costi sempre più
ridotti, costituiscono quindi un tool professionale degno del
massimo sviluppo da parte degli psicologi clinici. Una buona
formazione diagnostica (e anche testo logica) merita allora di essere
presa in considerazione fra le possibilità professionali. Si richiede
uno sforzo di creatività e un’attenta analisi della domanda, per
individuare compiti professionali diversificati, che rispondano a
bisogni che non sono soltanto quelli della cura nei setting
tradizionali. L’obiettivo è quello di rinforzare questo nuovo trend
nelle nuove generazioni, compito che appartiene alle generazioni
precedenti. In particolare, è necessario che gli psicologi clinici del
futuro acquisiscano familiarità con i nuovi indirizzi di ricerca e di
pratica clinica. Innanzitutto il tema dell’approccio integrato fra i
trattamenti. Vi è l’esigenza di trattamenti integrati per rispondere
alla multiformità dei bisogni dei pazienti. Il tema dell’integrazione
fra tecniche che provengono dai diversi orientamenti terapeutici sta
progressivamente trovando spazio anche nella letteratura
manualistica. Accanto a questa evoluzione, dobbiamo registrare
sempre maggiore importanza attribuita alla relazione terapeutica,
come variabile che “apporta un contributo sostanziale e
rilevante all’esito della psicoterapia indipendentemente dalla
specificità del tipo di trattamento”. Un altro tema con il quale
dovranno confrontarsi gli psicologi clinici del futuro è quello
dell’integrazione fra le tecniche psicologiche e psicofarmaco
terapia. Inoltre, lo sviluppo delle neuroscienze sta
integrando e confermando/disconfermando con dati di ricerca
molti dei concetti fondamentali della psicologia e, soprattutto, della
psicopatologia evolutiva e le conoscenze che si stanno accumulando
in questo ambito stanno progressivamente esercitando la
propria influenza anche sulla pratica psicoterapeutica. Anche a
proposito dei modelli diagnostici, lo sviluppo delle neuroscienze
sta producendo proposte alle quali la psicologia clinica degli anni a
venire non potrà sottrarsi. Si è dato inizio a un progetto che ha
l’obiettivo di mettere a punto un modello diagnostico della
psicopatologia, concepito come un sistema dimensionale,
dell’integrazione multidisciplinare sia di strumenti che di
professionisti con diverse competenze, tra cui gli psicologi. Un
ultimo tema è quello dei possibili collegamenti fra attività
psicoterapeutica e nuove tecnologie (terapie online, SMS, chatlines,
email).
Capitolo 2
SISTEMI DIAGNOSTICI NOSOGRAFICI-DESCRITTIVI
Evoluzione storica dei primi sistemi nosografici-descrittivi
Cosa è la psicologia clinica? Non è facile definire cos'è la psicologia
clinica poiché è una materia poliedrica. È una branca
disciplinare che trae origine storica e scientifica dalla
psicologia differenziale e sperimentale e dalla medicina (psichiatria
e fisiologia). Tuttavia essa ha un suo statuto autonomo, una sua
delimitazione, una sua metodologia e i suoi campi di applicazione.
Possiamo dire che il termine clinico deriva dal greco κλίνη = letto,
da cui si passa a κλινικόσ = chi visita un malato a letto. “Clinico” si
riferisce dunque alla sofferenza, a chi se ne fa carico, al luogo di
cura e alla cura stessa, alla scienza che se ne occupa sia
nel suo aspetto applicativo che metodologico. La psicologia
clinica dunque è la disciplina che fornisce al
professionista competenze e conoscenze che gli permettono di
affrontare i problemi di adattamento e i disturbi del
comportamento nell'ottica della ricerca, della prevenzione e della
valutazione psicodiagnostica, al fine di progettare un intervento
con valenza psicoterapeutiche. L’APA afferma che “La psicologia
clinica integra scienza, teoria e pratica sia al fine di capire, predire e
alleviare disadattamento, disabilità e disagio sia al fine di promuovere
l’adattamento umano e lo sviluppo personale”. La psicologia clinica si
concentra sugli aspetti intellettivi, emotivi, biologici, psicologici,
sociali e comportamentali del funzionamento umano lungo tutto
l’arco di vita, nelle varie culture e a tutti i livelli socioeconomici. La
psicologia clinica è una disciplina applicativa che occupa un posto
fondamentale nell’ambito della salute mentale. La psicologia clinica
trae origine a cavallo tra ‘800 e ‘900, dalla confluenza di due diverse
tradizioni e professioni: La pratica dei reattivi mentali per la
valutazione dei bambini intellettivamente deficitari, che nei decenni
successivi si allargherà all’età adulta e a test di personalità. La
pratica dell’ipnosi nel trattamento dell’isteria, che presto cederà il
passo alla grande lezione freudiana e alla lunga egemonia
psicoanalitica
Il metodo clinico
Considera il coinvolgimento tra clinico e individuo una risorsa
conoscitiva ineludibile (che non si può eludere, che non può essere
evitato). Tale metodo ritiene che i comportamenti possano essere
interpretati sulla base del significato che assumono per il soggetto
in relazione al contesto a cui sente di appartenere e l’interpretazione
assume la forma di una narrazione. Utilizza il rapporto
interpersonale come strumento di conoscenza. Non possiede una
rigorosa biettività al contrario del metodo sperimentale.
L’individuo è osservato nel suo ambiente naturale, nella globalità
del suo comportamento. Non raggiunge la scientificità del
metodo sperimentale, ma ottiene informazioni impossibili da
ottenere con altri metodi. A differenza del metodo statistico (quanto
accomuna tutti gli appartenenti ad una specie), il metodo clinico
svolge la sua indagine sul singolo individuo o sul singolo gruppo.
Rispetto al problema della quantificazione e della verifica esiste la
divisione fra chi le considera obiettivi da raggiungere e chi un
impedimento. Due tendenze attraversano quest’area disciplinare:
-Una di supporto: prevede che lo psicologo clinico fornisca
informazioni e supporti conoscitivi, tramite una strumentazione di
tipo diagnostico e psicometrico al personale delle istituzioni (al
medico, agli insegnanti, al personale dirigente delle aziende)
-Una di intervento: si riferisce a qualsiasi intervento terapeutico
(psicoterapia) volto o ad adattare l’individuo alle situazioni
precostituite o ad accompagnarlo nel suo processo di
trasformazione e di crescita.
La Diagnosi
È la valutazione clinica che consente di ottenere informazioni utili
sulla natura, l’entità ed eventualmente, le cause della problematica
del paziente. Il fine è di giungere all’individuazione dei mezzi
necessari alla sua risoluzione. La scelta del metodo valutativo
dipende dallo scopo della valutazione (descrittivo o funzionale)
a un eventuale trattamento; dagli aspetti dell’individuo che si
vogliono rilevare “metodo osservativo”; dall’orientamento teorico
del clinico. Due sono i principali approcci valutativi:
1. l’approccio psicometrico: si occupa della comparazione degli
individui, in base a caratteristiche e tratti ben definiti, attraverso
procedure standardizzate (i test obiettivi o proiettivi) allo scopo di
inferire gli aspetti del soggetto connessi al disturbo.
2. l’approccio psicodinamico (psicologica dinamica). Utilizza
procedure meno obiettive, ma più specifiche perché connesse
alle dinamiche psicologiche dell’individuo, allo scopo di
identificare il tipo di trattamento più adeguato.

Da Kraepelin alla fine della 1^ Guerra Mondiale: tra la fine del XIX
secolo e l’inizio del XX secolo aumenta l’interesse per una
classificazione dei disturbi psichici, nasce la psicologia clinica.
Compiaono i sistemi classificatori di Kraepelin e si diffonde il
modello dei “reaction sets” di A. Mayer, cioè delle reazioni
psicobiologi che a eventi stressanti multi casuali. Kraepelin crede in
un’eziologia organica del disturbo, pur sostenendo la
necessità di un’attenta analisi del comportamento del paziente
in modo da capirne il quadro clinico.
Dalla 1^ alla 2^ Guerra Mondiale: nel corso del XX secolo, i sistemi
classificatori risentono di molteplici variabili. Mentre la psichiatria
cerca di identificare il fattore biologico sotteso ad ogni disturbo
psichico, gli altri orientamenti ricercano possibili nessi
causali tra meccanismi eziopatogenetici non organici. Nel 1933 è
stata pubblicata la Standard Classified Nomenclature of Diseases,
sistema tassonomico per classificare pazienti cronici,
successivamente impiegata ai veterani della seconda Guerra
Mondiale, risultando inadeguata poiché quest’ultimi sono affetti da
disturbi non contemplati dal sistema. L’assenza di categorie
classificatorie che rispondano ai quadri psicopatologici che lo
psichiatra vede in ospedale induce le strutture coinvolte davanti
alle nuove patologie a sviluppare nuove nomenclature alternative,
basate su presupposti teorici differenti.
La seconda Guerra Mondiale e la ricerca di una classificazione
internazionale: nel frattempo, emerge la necessità di disporre
di un’unica nomenclatura delle cause di decesso che sia
internazionale. Pertanto nasce l’ ICD (International Classification of
Diseases), rivolto a tutte le malattie mediche. Nel 1948 la World
Health Organization (WHO) pubblica la sesta edizione che, per la
prima volta, include la classificazione dei disturbi psichici. Gli
psichiatri statunitensi criticano questa nuova classificazione
perché non diagnostica malattie quali la demenza, i disturbi
di adattamento e molti disturbi di personalità. L’APA propone di
rivedere la Standard Classified Nomenclature of Diseases e di
trovare una nuova versione alternativa all’ICD-6. Di conseguenza,
nel 1952 compare la prima edizione del DSM (Diagnostical
Statistical Manual), che rappresenta un tentativo di classificare in
modo scientifico i disturbi psichici e si basa su un elenco di segni e
sintomi. L’obiettivo è creare una classificazione che incontri il
consenso degli psichiatri e degli altri operatori e che presenti i
disturbi così come sono concettualizzati in quegli anni. La necessità
di una nomenclatura unica non è un’esigenza solo americana, infatti
alla fine degli anni ’60 è stata messa appunto dal WHO l’ICD-8
(1968). Il DSM-II pubblicato nel 1968 cerca di uniformarsi alla
classificazione del WHO.

La necessità di un paradigma scientifico: nel ventennio tra il ’50 e il


70’ si scoprono nuovi farmaci, nascono le prime strutture
intermedie e compaiono diverse forme di psicoterapia. La diagnosi
nosografico-descrittiva è il criterio selettivo per l’accesso ai Servizi e
alle politiche assistenziali e, proprio per questo, oggetto di critiche
sempre maggiori. L’attenzione si sposta gradualmente verso la
validità e l’attendibilità diagnostica, l’esito dei trattamenti,
l’epidemiologia psichiatrica e il markers di laboratorio e genetici.
I criteri di Feighner e i Research Diagnostic Criteria: acquista
importanza sempre maggiore il movimento dei neo-kraepliani, che
si basa sull’assunto che sia possibile identificare la malattia solo se
si ha a disposizione un sistema tassonomico adeguato. Il
sistema proposto è un sistema categoriale nosografico-
descrittiva che si fonda su criteri diagnostici che permettono di
rilevare i sintomi con un livelllo minimo di inferenza. I 25
Feighner Criteria prenderanno il nome di Research Diagnostic
Criteria e alcuni saranno inclusi nel DSM-III (1980). Questo
approccio è stato mantenuto fino al DSM-IV-TR. Se l’affidabilità
diagnostica è migliorata, gli studi epidemiologici su larga scala
hanno sottolineato l’inefficienza dei criteri del DSM nel
differenziare accuratamente le sindromi diagnostiche, facendo
eccessivo affidamento sulla categoria NAS. Nel frattempo si
diffondono sistemi di classificazione alternativi a quello categoriale,
quali i sistemi dimensionali, quelli proto-tipici o quelli basati
sull’analisi fattoriale e sull’analisi dei cluster.
Dal DSM-III AL DSM-IV-TR
Il DSM-III fa proprio il modello diagnostico medico, in cui la
diagnosi è il punto-chiave della pratica e della ricerca clinica. La
malattia risponde ad una logica categoriale, le dimensioni passano
in secondo piano a fronte di una concettualizzazione fondata
sempre più sulla sintomatologia. La sua pubblicazione cambia la
concezione di disturbo psichico. La crescita esponenziale del
numero di diagnosi sarebbe da ricondurre alle maggiori capacità
dello strumento di classificare più disturbi e, quindi, alle maggiori
conoscenze scientifiche. A partire dal DSM-III, le diverse
edizioni del Manuale hanno alcune caratteristiche comuni:
propongono un approccio ateorico, si avvalgono di un sistema
multi assiale, si fondano sul presupposto che i disturbi psichici
siano entità discrete, usano criteri diagnostici di
inclusione/esclusione e sono costruiti ai fini di una maggiore
validità e attendibilità diagnostica. Rimane irrisolto il problema
della comorbilità tra disturbi.
L’approccio ateorico: il presupposto dell’ateoreticità è stato
introdotto perché si è ritenuto che la presenza di teorie eziologiche
avesse costituito un ostacolo all’uso del Manuale da parte di
operatori con formazioni differenti. I DSM si avvalgono di un
approccio basato sui fatti osservabili.
Sistema multiassiale:
-ASSE I  Disturbi clinici e altre condizioni di attenzione clinica
-ASSE II  Disturbi di Personalità e Ritardo Mentale
-ASSE III  Condizioni Mediche Generali
-ASSE IV  Problemi Psicosociali e Ambientali
-ASSE V  Valutazione Globale del Funzionamento
I primi tre assi sono categoriali, gli altri due dimensionali.
I disturbi psichici sono entità discrete: la concezione dei disturbi
psichici come entità discrete, di chiara derivazione neokraepeliana,
nel DSM non è affermata in modo esplicito, per cui è male definita
la natura della discontinuità su cui si basa la classificazione. Le
successive edizioni del DSM mantengono l’approccio categoriale,
anche se sono stati proposti modelli dimensionali.
Pertanto è stato introdotto il modello ibrido.
Criteri di inclusione ed esclusione: in una tassonomia
(classificazione) della psicopatologia, i criteri di
inclusione/esclusione devono essere chiaramente definiti. Dal DSM-
5 questo non avviene più.
Validità e attendibilità diagnostica: uno degli obiettivi dei DSM è
stato ottenere una validità e un’attendibilità diagnostica superiori a
quelle dei sistemi precedenti. Bisogna, tuttavia, trovare un adeguato
equilibrio tra validità e attendibilità e, di conseguenza, tra
sensibilità e specificità.

Alcune revisioni sui cambiamenti introdotti


Queste revisioni sono state fatte con la necessità di mantenere la
compatibilità con l’ICD. Le aree oggetto di maggiori cambiamenti
sono la divisione in Asse I e Asse II e l’introduzione di nuovi Assi
per valutare non solo il funzionamento globale, ma anche le difese,
il funzionamento relazionale e il funzionamento sociale e
lavorativo. Le Scale del Funzionamento Difensivo prevede che il
clinico indichi fino a sette stili difensivi: dall’alto livello adattivo a
quello denominato sregolatezza difensiva, che coincide con la
frattura dell’esame di realtà. La Scala di Valutazione Globale del
Funzionamento Relazionale permette al clinico di stimare il grado
in cui la famiglia o un’altra unità sociale soddisfa i bisogni affettivi
o strumentali dei suoi membri.
Trentatré anni dopo…
Nel 2013 è stato pubblicato il DSM-5, in cui sono stati introdotti
alcuni cambiamenti: abbandonare il sistema multiassiale, per cui i
Disturbi di Personalità non sono più un Asse a parte. Poiché è
eliminato anche l’Asse V, il clinico, per valutare il livello di
funzionamento, ricorre a strumenti specifici. Il Manuale è articolato
il tre sezioni: nella prima sezione sono riportate le indicazioni per il suo
impiego, nella seconda le diagnosi categoriali dei diversi disturbi ordinati
secondo le common clinical features o che rientrano nello stesso
spectrum (sono incluse le diagnosi degli Assi I, II, III). Nella terza
sezione sono descritte le condizioni per le quali saranno necessari ulteriori
dati di ricerca.
N.B.: i Disturbi cognitivi – quali Demenza e Delirium – sono
inclusi in un gruppo denominato “Disturbi Neurocognitivi”; il
termine Demenza è stato sostituito da “Disturbo
Neurocognitivo Maggiore” e il termine Ritardo Mentale diventa
“Disturbo dello Sviluppo Intellettivo”. La diagnosi “Demenza di
Tipo Alzheimer” è divisa in: “ Disturbo Neurocognitivo Lieve
Associato alla Malattia di Alzheimer” e “Disturbo
Neurocognitivo Grave Associato alla Malattia di Alzheimer”.
A causa dell’eccessiva comorbilità, inizialmente è stato proposto di
mantenere solo cinque disturbi di personalità, cosa che poi non fu
attuata, mantenendo i dieci disturbi di personalità presenti nelle
precedenti edizioni.
I Research Domain Criteria
I RDoC sono stati una recente proposta del National Istituto of
Mental Health (NIMH) che si propone di sviluppare a fini di ricerca
nuovi modi di classificare i disturbi mentali, basandosi sulla
dimensione dei comportamenti osservabili e nelle misure
neurobiologiche. A causa dei limiti dei DSM è stato sviluppato
questo nuovo approccio. Gli stessi meccanismi possono essere
implicati in disturbi “diversi”, mentre molteplici meccanismi
possono essere coinvolti in un “singolo” disturbo. L’obiettivo è
quello di pervenire a un sistema di classificazione che
integri le dimensioni fondamentali del funzionamento
comportamentale, i circuiti cerebrali sottesi e i fattori genetici
edepigenetici che concorrono al loro sviluppo.
Capitolo 3
I SISTEMI DIAGNOSTICI INTERPRETATIVO- ESPLICATIVI
Ogni sistema diagnostico interpretativo costituisce
l’applicazione di una specifica teoria del comportamento che
viene poi successivamente applicata anche in una
particolare tecnica terapeutica. Il valore e il significato dei sistemi
diagnostici interpretativo-esplicativi consistono nel fatto di
intendere le cause e l’evoluzione di un fenomeno patologico come
elementi necessari per definire, e eventualmente catalogare, il
fenomeno stesso. Nella prospettiva interpretativo- esplicativa,
è indispensabile, per conseguire una conoscenza adeguata
formulare una teoria causale. La teoria causale permette di
gerarchizzare i sintomi e di individuare le cause. Possiamo dire
che, ciascun sistema interpretativo-esplicativo descrive, di quella
cosa “comune” che è il comportamento umano normale e
patologico, aspetti particolari che costituiscono il proprio “oggetto”
di indagine peculiare. Di conseguenza il salto di qualità si ha
quando il clinico accetta il fatto che la spiegazione del fenomeno è
nel fenomeno stesso prima che nella propria testa e, quindi, la fatica
non è quella di forzare i fatti (sintomi, comportamenti, vissuti e
relazioni del paziente) entro gli schemi della/e teoria/e, bensì quella
di creare le condizioni perché dai fatti emerga la teoria che li spiega
nel modo più chiaro e utile pragmaticamente.
Segni e sintomi
Nell’ottica di un sistema interpretativo-esplicativo, l’attenzione ai
sintomi o ai comportamenti sintomatici è necessaria, ma non
sufficiente. Come abbiamo detto, la caratteristica dei sistemi
nosografici-descrittivi è di essere “orientato al sintomo
comportamentale”; in un sistema interpretativo-esplicativo
questo è solo il punto di partenza, perché la potenza del sistema si
esprime proprio nel “leggere dietro” il materiale osservativo per
costruire un’interpretazione eziologica. Di conseguenza, ciò implica
la lettura anche di quei comportamenti del paziente e del suo
intorno che possono non avere valore di sintomo e/o persino non
essere “presenti”, bensì richiedere un processo di inferenza a partire
da dati osservativi e relazionale, che rimandano ad altri dati non
più, o non ancora, evidenti. Possiamo dare a questi dati che
provengono da un’osservazione allargata e che non hanno
importanza sintomatica il nome di “segni”.
Il sintomo, sostanzialmente, è una manifestazione
soggettiva percepita solo dal soggetto. Il sintomo, per sua natura,
non è misurabile.
Il segno è una manifestazione oggettiva, visibile e oggettivamente
misurabile.
Verso un sistema interpretativo-esplicativo clinicamente fondato
La costruzione di un sistema interpretativo-esplicativo
integrato del comportamento umano normale e patologico
presuppone la possibilità che le teorie biologiche, psicologiche e
sociali del disturbo mentale riconoscano ciascuna la parzialità del
proprio punto di vista e, al tempo stesso, l’utilità dei punti di
vista diversi dal proprio, in uno sforzo di collaborazione
anziché di concorrenza. Di fronte al disturbo di un paziente, è
opportuno che confliggano nella mente del clinico la spiegazione
biologica e quella psicologica, l’interpretazione sistemica e quella
cognitiva e così via. Ciascuna di esse vince o perde o si completa
con gli apporti delle altre, man mano che gli elementi clinici
raccolti nel lavoro diagnostico danno sostanza a una diagnosi
funzionale del disturbo del paziente. Nella realtà del lavoro
quotidiano, il problema che si pone al clinico, talvolta con
drammatica evidenza, è la scelta della chiave interpretativa, e
terapeutica, più utile al paziente. Se diamo per scontata la
concorrenza di molti fattori etiologici, comprendiamo che la
maggiore garanzie di intervento corretto si hanno quando è
possibile stabilire una gerarchia fra i fattori che inducono il disturbo
e affrontare ciascuno di essi nel modo adeguato. Il conflitto, nella
mente del clinico, durante il lavoro diagnostico, fra le diverse
spiegazioni possibili è allora il motore del ragionamento che porta a
stabilire una diagnosi e a instaurare una o più terapie.
Sezione II
Capitolo 1
IL PROCESSO DIAGNOSTICO E IL COLLOQUIO CLINICO
- Modelli di assessment
Il processo diagnostico può essere applicato in ambiti diversi ed
indica tutto il movimento che si deve fare per arrivare alla diagnosi
del paziente.
L’Information Gathering (IG) è il modello più tradizionale e
diffuso; è finalizzato alla raccolta di informazioni e si affida ad un
numero imprecisato di colloqui. La strategia con cui i dati sono
raccolti rispecchia le modalità di lavoro che hanno caratterizzato la
psichiatria fin dai primi del ‘900. Non prevede momenti specifici di
restituzioni al paziente delle informazioni raccolte. Non presta
particolare attenzione ad aspetti dell’interazione e quindi alla
comunicazione verbale e non verbale. Il suo focus è la raccolta delle
informazioni.
Il Therapeutic Model of Assessment (TMA) è un modello di
assessment più strutturato. Si sviluppa a partire dal pensiero di C.
Fischer (2001); si basa sulla condivisione dei dati emersi nel corso
dell’assessment con il paziente. Oltre all’utilizzo di colloqui,
interviste cliniche e strumenti psicodiagnostici per la raccolta dei
dati, prevede la comunicazione con il paziente di quanto emerso nel
percorso di valutazione. Il modo in cui il clinico si relaziona con il
paziente è un punto cruciale di questo modello di
assessment. È importante coinvolgere il paziente, adottando,
nella postura e nella verbalizzazione, un atteggiamento
collaborativo e non giudicante. Interventi che esplorano le
emozioni negative, che permettono al paziente di aprirsi su
questioni salienti, che evidenziano temi relazionali, che
chiariscono le fonti di sofferenza hanno dimostrato la loro
utilità nel favorire lo sviluppo ed il mantenimento di positive
relazioni di lavoro. Indagare attivamente le emozioni che insorgono
durante il TMA e le caratteristiche della sofferenza del paziente,
può migliorare significativamente lo stabilirsi ed il mantenersi della
successiva alleanza terapeutica.
La Therapeutic Specific Formulation: questo approccio si basa
sull’assunto che la diagnosi è un processo bilaterale, in cui i pazienti
si autodiagnosticano con l’aiuto di un esperto. Il clinico attraverso
il rapporto personale con il paziente riesce a suscitare una
gamma di condizionamenti psicologici che possono essere
utili per riuscire a comprendere la problematica del paziente,
per riuscire poi ad indirizzarlo verso quelli che possono essere i
trattamenti più indicati.
Non tutti i pazienti possono beneficiare dello stesso tipo di trattamento.
Il processo diagnostico
Fra i diversi modelli di assessment che si sono sviluppati nel corso
degli anni, il processo diagnostico occupa uno spazio specifico. L.
Balestri, S. Orefice, A. Pandolfi (1996) ne forniscono una
definizione di carattere generale: “è l’iter che il clinico
percorre insieme al paziente allo scopo di rivelare e
circoscrivere l’ampiezza e l’entità del/dei disturbi lamentati,
attribuire loro un significato ed individuare le possibili strategie
di cui avvalersi per ridurre e modificare, laddove
possibile, la causa che ha provocato la sofferenza che lui e/o i
famigliari lamentano”. L’obiettivo del processo diagnostico è
prevenire ad una comprensione del funzionamento del paziente,
che preveda l’integrazione di dati longitudinali che derivano dalla
storia clinica di quest’ultimo, con dati trasversali, che si ottengono
dalla somministrazione di test.
I dati raccolti sono di due tipi: dati descrittivi, che includono i
problemi attuali, i tentativi fatti del paziente per far fronte al
proprio disturbo e le informazioni provenienti dalla storia
evolutiva. La raccolta di queste informazioni avviene in più
colloqui Possiamo caratterizzare il processo diagnostico attraverso
le seguenti affermazioni:
La processualità riguarda, per il clinico, il percorso emotivo-
cognitivo che permette una progressiva definizione e selezione
degli elementi raccolti ai fini diagnostici; per il paziente è il
progressivo strutturarsi di una particolare condizione
relazionale, che gli consente di partecipare al lavoro clinico,
condividendone lo scopo conoscitivo;
Ogni giudizio è momentaneamente sospeso;
Non è prevista una scelta a priori riguardo alle modalità di
indagine sulla psicopatologia. Non viene privilegiata l’indagine di
sintomo o di segni. Il criterio che riguarda il processo diagnostico è
l’individuazione dell’eziologia del funzionamento psicopatologico;
L’obiettivo finale non è l’identificazione di un trattamento,
bensì l’individuazione delle modalità di funzionamento che
risultano disattivate o antieconomiche per il paziente.
L’indicazione al trattamento è un passaggio successivo.
La strumento che costituisce il fulcro del complesso percorso che
abbiamo descritto è il colloquio clinico o meglio, “il colloquio
clinico di consultazione”. Si tratta di “quella situazione
particolare che permette, in un assetto metodologicamente corretto
e in un idoneo clima emotivo, sia al paziente di presentarsi,
comunicare le proprie difficoltà e fornire gli elementi necessari alla
consultazione, sia al clinico di osservare, rilevare e
comprendere questi ultimi. L’ulteriore specificazione del
termine “consultazione” è finalizzata a definire un’area, in
cui non dovrebbe interferire l’intenzionalità fuorviante di
qualsivoglia tipo di cooptazione, compresa la presa in carico del
terapeuta”.
Il clinico che conduce il percorso diagnostico si colloca al
di qua (o prima) di ogni richiesta di cambiamento. Le
stesse tecniche che potranno essere impiegate durante i colloqui
potranno più meno influenzare il modo comunicare o i
contenuti della comunicazione, ma non sono intese produrre
dirette modificazioni. La qualità di rapporto fra clinico e paziente
sono descritte dal concetto di alleanza diagnostica.
Alleanza diagnostica
Il concetto di alleanza diagnostica fa riferimento al particolare
clima emotivo che caratterizza il contesto di una relazione
interpersonale che “procede per acquisizioni successive dagli
elementi significativi dell’organizzazione psicopatologia del
paziente”. Deve essere distinto dal concetto di “alleanza
terapeutica”, che indica lo “specifico rapporto collaborativo che si
stabilisce tra un paziente ed un terapeuta” e fa quindi riferimento
alla corrispondenza di intenti tra l’uno e l’altro riguardo agli scopi,
ai modi e agli strumenti attraverso i quali raggiungere un
mutamento nella condizione di sofferenza, nella sintomatologia
e nell’organizzazione di personalità di un paziente. Questa forma di
alleanza è quindi guidata da uno specifico obiettivo di
cambiamento. L’alleanza diagnostica si declina invece, in modo
diverso.
Il processo diagnostico ha lo scopo di comprendere il
funzionamento del paziente senza il compito e l’intenzione esplicita
di modificarlo. Il giudizio deve essere sospeso e non si deve
chiedere al paziente di cambiare, anche perché questo potrebbe
metterlo sulla difensiva. L’alleanza diagnostica alle volte può
favorire una buona alleanza terapeutica. L’alleanza che si sviluppa
nel corso dei colloqui diagnostici si mantiene anche nel corso della
successiva terapia. Nonostante le differenze tra alleanza diagnostica
e terapeutica, i due concetti esprimono la medesima ricerca di
collaborazione con il paziente a proposito della sua sofferenza.
Processualità
Ciò che caratterizza il processo diagnostico è la sua processualità. Si
tratta di ingaggiare il paziente non solo nel fornire dati oggettivi o
soggettivi che concorrono in diversa maniera alla comprensione
della sua sofferenza, ma anche di cimentarlo a interrogarsi sul
proprio comportamento, sui motivi a esso sottesi e sulla
formulazione di ipotesi al riguardo. Il dato (l’informazione) raccolto
durante il processo diagnostico nasce all’interno di una
comunicazione biunivoca ed è il prodotto di un’elaborazione
continuamente partecipata. Qualunque cosa avviene tra il clinico e
il paziente fa parte del processo diagnostico. La questione riguarda
soprattutto la forma che un fatto assume, quanto sia utile e quanto
ne siamo consapevoli. Le caratteristiche personali e psicologiche del
paziente sono fondamentali nella costruzione di qualsiasi tipo di
alleanza; il livello di alleanza è positivamente correlato con la
capacità di mentalizzazione e la qualità delle rappresentazioni
oggettuali: sono state rilevate, invece, relazioni negative con la
tendenza del soggetto all’evitamento e con la presenza in
anamnesi di precoci esperienze negative di attaccamento.
L’approccio basato sul processo fornisce una forma per
coinvolgersi in una relazione con i nostri pazienti, in modo tale
che impariamo al rovescio che cosa preoccupa e che cosa ci
mette nelle condizioni di risolverlo.
Gli strumenti del processo diagnostico
Nel processo diagnostico il clinico si può avvalere di metodi
differenti che permettono l’osservazione e la descrizione del
funzionamento del paziente. La prospettiva del multi-method
assessment (più metodi) prevede l’integrazione dei risultati
di strumenti e di setting differenti. (in questo caso per setting
s’intende l’ambiente, ambienti differenti. Es: verificare il bambino in
setting diversi, scuola, casa. In analisi il setting sta ad indicare lo
studio, la cadenza delle sedute, l’ambiente). Oltre al colloquio
clinico, il processo clinico può avvalersi di: colloqui per la raccolta
di dati bio-psico-sociali e batterie di test, scelti tra check-list, test
proiettivi e inventari di personalità. I colloqui per la raccolta dei
dati bio-psico-sociali sono interviste semi-strutturate che hanno
come oggetto le informazioni relative a periodi ed eventi della vita
del soggetto, dall’infanzia all’età adulta, che ne hanno influenzato il
percorso di crescita. Per quanto riguarda le batterie di test, è sempre
opportuno utilizzare più di un test, per avere una rappresentazione
esaustiva del disturbo del paziente, ma anche del suo
funzionamento.
La restituzione
La restituzione ripropone e riassume vicende relative al livello ed
alla qualità dell’alleanza diagnostica. In letteratura, il focus della
restituzione è spesso indicato nella valutazione testologica; in
realtà, quest’ultima costituisce senz’altro uno dei temi da proporre
al paziente e discutere con lui, ma deve essere contestualizzata alla
luce dei tratti emersi dagli altri strumenti diagnostici. Elemento
centrale della restituzione è la valutazione con il paziente delle sue
ipotesi eziopatologiche e delle possibilità di modificarle, in questo
modo è offerta al paziente una prospettiva alternativa a quella
considerata fino a quel momento a proposito della propria
sofferenza ed il clinico verifica quali risorse il paziente è in grado di
introdurre per mettere a frutto il set di nuove informazioni. Una
restituzione effettuata con una modalità attenta e costruttiva
tende ad incrementare le emozioni positive, ad aumentare la
fiducia nel possibile trattamento successivo, a fornire una
significativa diminuzione del malessere e a migliorare il livello di
autostima. Anche la restituzione, come l’intero processo
diagnostico, possiede una propria processualità, ossia implica
l’esistenza di una sequenza, che è l’elemento cardine di
qualsiasi lavoro di elaborazione mentale. La restituzione è il
momento in cui l’alleanza diagnostica può essere incrementata, ma
anche messa alla prova: spesso, si riattivano le stesse sensazioni e le
stesse ansie che il paziente aveva manifestato all’inizio del processo
diagnostico. Questa riattivazione può essere tuttavia proficua se
viene gestita e trasformata in un elemento clinico che può
fornire ulteriori informazioni sul funzionamento del paziente.
Si può parlare di:
Restituzioni di tipo ricostruttivo, che tendono a fornire al
paziente una lettura integrata delle vicende affettive e relazionali
della sua vita;
Restituzioni mirate e parziali; centrate su un aspetto specifico che
si ritiene proficuo mettere in evidenza, talvolta perché considerato
di ostacolo al proseguimento stesso della restituzione o
all’istaurarsi di una successiva alleanza di lavoro, talaltra perché
probabile chiave di svolta di importanti e significativi eventi
dell’esistenza del paziente. Secondo le circostanze può variare
anche lo scopo che prefigge la restituzione:
Ci si può limitare ad una pura e semplice indicazione/
controindicazione di trattamento;
Si può scegliere di prolungare la restituzione, ossia diluirla nei
tempi e nei modi, perché il paziente possa recepire i contenuti senza
avvertirne la necessità di una conclusione imposta da motivi diversi
dalle sue capacità di assimilazione;
È anche possibile scegliere una nuova modalità osservativa,
ossia lasciare un tempo sufficientemente lungo dopo ciascun
colloquio di restituzione, perché paziente e clinico possano
osservare gli eventi successivi;
Si può mettere in atto una restituzione-intervento; può verificarsi
questa condizione, talvolta, quando sono particolarmente evidenti
alcune ripetute situazioni di difficoltà o di disturbo, il cui
chiarimento diagnostico può andare di pari passo con
l’elaborazione di proficue alternative nella valutazione soggettiva
degli eventi, dei vissuti, delle relazioni, ecc.
Capitolo 2: Il processo diagnostico con i “casi difficili”: dal
disturbo dell’alleanza al concetto di organizzazione
1. Chiavi di ingresso per la compressione della psicopatologia
I pazienti rispondono alla relazione con il clinico in modo diverso,
in base soprattutto alla loro storia e alle caratteristiche della
psicopatologia. Già nel corso del primo incontro, il clinico dovrebbe
rendersi conto fino a che punto la psicopatologia del paziente
pervade e condiziona la relazione che si sta costruendo. Ciò che ha
luogo nel primo colloquio (o comunque nei colloqui iniziali) si
presta a due livelli di lettura: il primo costituisce le “chiavi
d’ingresso” per la comprensione della psicopatologia; il secondo è
costituito dai dati e dalle informazioni che il paziente sottopone
all’attenzione del clinico.
2. Chiavi di ingresso e disturbi dell’alleanza
I modi di sentire o le emozioni che il paziente può aver sviluppato
nel corso della relazione con l’ambiente primario, sono indici
utili alla comprensione della psicopatologia e al tempo
stesso, indicatori di possibili “disturbi di alleanza”; questi
sentimenti possono influenzare qualsiasi possibilità di accedere a
un contatto e a ogni modalità di relazione con un essere umano,
quindi anche con il clinico. I pazienti “difficult-to-treat-
populations” hanno cospicue difficoltà a fare buon uso di una
relazione d’aiuto o di proposte di cambiamento e, in taluni casi
particolari persino nel processo diagnostico. In genere si tende a
identificare, impropriamente, il paziente difficile con alcune
categorie diagnostiche nosografico-descrittive o sindromiche:
questo avviene perché spesso si sopravvaluta il ruolo delle
classificazioni a discapito di una comprensione orientata da modelli
di tipo interpretativo-esplicativo.
Se il clinico parte dal presupposto che il paziente debba avere a priori
fiducia in lui può trovarsi in difficoltà.
S. Orefice, identifica due emozioni primarie che devono
essere considerate “criteri formativi e orientativi” nella
conduzione del processo diagnostico: la sfiducia e la
diffidenza. Nel linguaggio comune spesso vengono considerate
sovrapponibili, ma nella clinica si deve tener conto di alcune
differenze.
Sfiducia: “una qualità passiva, nel senso di un’estesa
rinuncia alla fiducia, profondo e persistente scoraggiamento
riguardo alla possibilità di utilizzare sia il mondo esterno sia se
stessi o alcune funzioni o capacità”. Può trattarsi di una condizione
che perdura nel tempo, oppure di una situazione di crisi, o infine di
un fenomeno che si verifica in situazioni particolari.
Diffidenza: consiste nella propensione a uno stato ipervigile
e guardingo che può andare dall’eccessiva prudenza fino a
sospettosità continua. Può essere primaria o secondaria. Se è
primaria, si tratta di una modalità di funzionamento che possiede
caratteristiche strutturali legate a una lesione della fiducia di base.
Se è secondaria, può essere legata a particolari vicissitudini. In
ogni caso il paziente presenta una sostanziale incapacità di
usufruire di una relazione di aiuto, elemento fondamentale per
qualsiasi tipo di alleanza.
Secondo Orefice, può fare da contraltare ai sentimenti di sfiducia e
diffidenza un altro atteggiamento ovvero “l’affidamento magico”.
La componente magica dell’affidamento si rivela quando
l’individuo abdica alle proprie capacità, smette di usarle e diventa
per così dire incapace di intendere e di volere. Si crea una
situazione in cui il paziente abdica allo spazio emotivo necessario
per vigilare possibilità differenti all’insegna di una profonda
sfiducia sia nelle proprie capacità sia nella possibilità di un reale
cambiamento. Una relazione di questo tipo con il clinico può essere
facilmente scambiata come vera alleanza, in realtà si tratta di una
“pseudo alleanza”, che riproduce un’originaria relazione
patologica che deve essere disvelata.
L’individuazione dell’organizzatore psicopatologico
La sfiducia e la diffidenza possono anche essere considerate in
alcuni pazienti il nucleo attorno al quale si è progressivamente
organizzata l’intera loro esistenza e che ha prodotto effetti
specifici sulla percezione di sé stessi, sulle relazioni, sui tentativi di
imprimere un diverso corso alle vicende della propria quotidianità.
L’ “intervento” può essere definito come un’azione
psicologica clinicamente significativa, ma intenzionalmente priva
di un impianto terapeutico preordinato.
Capitolo 3: Il colloquio in psicologia clinica
Il colloquio clinico
Il colloquio è un processo interattivo, che ha luogo tra
almeno due persone, diverso dalla conversazione, in quanto
l’interazione è finalizzata al conseguimento di un obiettivo
predeterminato. Nel contesto psicologico lo scopo del colloquio è
chiarire il modo caratteristico di vivere della persona in esame.
A chi conduce un colloquio clinico è richiesto di:
Possedere buone capacità di diagnostica e di osservatore;
Conoscere la gamma dei diversi trattamenti possibili;
Saper comunicare e motivare al paziente decisioni prese,
con un linguaggio chiaro e comprensibile.
Richiesta di appuntamento e invio
La decisone di rivolgersi ad uno psicologo clinico potrebbe essere:
L’esito di un ragionamento diagnostico, fatto dall’individuo;
Il frutto di pressioni ambientali (da parte dei famigliari, degli
amici);
L’accettazione passiva di un’indicazione proveniente dell’esterno
e non riconosciuta congruente con i propri bisogni;
Un caso particolare è rappresentato dalla decisione di
consultare lo psicologo al fine di acquisire ulteriori elementi
diagnostici, che implementano quelli già a disposizione del
soggetto.
Già il modo in cui il paziente formula la richiesta di appuntamento
fornisce alcune informazioni al clinico. Se la richiesta di consultare
uno psicologo è l’esito di un ragionamento diagnostico fatto dal
paziente, è possibile inferire che questi abbia classificato la
propria sofferenza come psichica, individuando, come probabile
causa, fattori di natura non organica, oppure abbia un dubbio sulla
possibile coesistenza di due cause diverse, oppure ancora non
avverta una sensazione di profondo disagio, che non sa bene come
identificare. Esistono alcune differenze tra il paziente che si rivolge
perla prima volta a uno psicologo e il paziente “insoddisfatto” dalla
diagnosi fatta da un altro operatore.
Il paziente che si rivolge allo psicologo per la prima volta può essere:
Perplesso rispetto alla richiesta stessa di consultazione;
Disorientato alla scoperta di essere affetto da un disturbo psichico;
Avvilito perché deve chiedere aiuto ad un’altra persona ed
ammettere che la “buona volontà ”non è sufficiente;
Colpevolizzato dall’idea di aver fatto qualcosa di sbagliato;
Disorientato dalle informazioni ricevute. Familiari, amici e
persone dell’ambiente hanno ognuno una propria teoria su che cosa
si dovrebbe fare in circostanze simili;Imbarazzato nel raccontare
le proprie sensazioni.
Il paziente che si rivolge ad un altro operatore perché insoddisfatto
di un precedente parere, spesso segnala l’esistenza di una
discrepanza tra la propria autodiagnosi e quella formulata dal
clinico.

Il paziente che comunica, invece, la propria insoddisfazione per una


precedente esperienza terapeutica segnala l’esistenza di un altro
genere di discrepanza, che può essere relativa sia all’obiettivo del
trattamento sia alle caratteristiche di quest’ultimo.
L’insoddisfazione per la diagnosi e/o per il trattamento può essere
propria del paziente o dei suoi familiari o di entrambi ed essere
imputata a fattori diversi:
Paziente (e/o familiari) e psicologo clinico utilizzano modelli
interpretativi diversi. Il paziente, ad esempio, ha fatto una diagnosi
organica del proprio disturbo, mentre il clinico ha proposto una
diagnosi psicologica; oppure il paziente interpreta il proprio
disturbo come la conseguenza di dinamiche interpersonali, mentre
il clinico ne attribuisce la causa a conflitti intrapsichici;
oppure il paziente ritiene di soffrire di un certo disturbo e il clinico
ne ha diagnosticato un altro;
Paziente (e/o familiari) e psicologo clinico divergono
sull’individuazione dei possibili “rimedi”;
Paziente (e/o familiari) e psicologo clinico valutano diversamente
i possibili effetti collaterali della terapia;
Paziente (e/o familiari) e psicologo clinico hanno aspettative
diverse rispetto ai risultati;
Paziente (e/o familiari) e psicologo clinico non concordano sulla
gravità della diagnosi;
Paziente (e/o familiari) sono globalmente insoddisfatti dei
risultati di un trattamento terapeutico;
Paziente (e/o familiari) sono soddisfatti degli esiti ma ritengono
che esso non abbia risolto alcuni sintomi e /o problemi e desiderano
capire se sia stato conseguito il massimo risultato possibile o se si
possa ottenere ancora qualcosa.
Il paziente inviato dai familiari: La richiesta di parere è, in questo
caso, l’esito di un ragionamento diagnostico fatto dai familiari; il
paziente può concordare, in misura maggiore o minore.
Il paziente decide, d’accordo con i familiari, che è necessaria una
consultazione psicologica, ma delega ad un familiare gli “aspetti
tecnici”. In quel caso, il paziente ha coscienza di star male e chiede
all’altro di svolgere una funzione specifica (prendere
l’appuntamento). (se si parla di un bambino è chiaro che sia il
genitore a perdere l’appuntamento, se il paziente è più grande è
preferibile parlare ugualmente con il paziente);
I familiari chiedono la consultazione al posto del paziente, perché
data la gravità dei sintomi di quest’ultimo, non lo ritengono in
grado di provvedervi da solo. Il congiunto, che telefona al posto del
paziente, fornisce informazioni utili alla realtà clinica di
quest’ultimo.
Il paziente è indotto a prendere un appuntamento dai familiari.
Alcuni pazienti esprimono chiaramente la propria intenzione per le
preoccupazioni dei familiari. Altri hanno fatto proprie le
preoccupazioni dei familiari.
È importante non brutalizzare i parenti che telefonano; prima di
tutto, perché non si vede qualche motivo ci sia per trattarli male, poi
perché può darsi che in un secondo momento dobbiamo
effettivamente parlare con loro, i quai ovviamente ci tratterebbero a
pesci in faccia come noi abbiamo fatto con loro.
Il clinico deve comunque trovare risposta ad alcuni quesiti e, alla
fine del colloquio (o dei colloqui) è importante conoscere:
Qual è il ragionamento clinico fatto dai familiari per diagnosticare
il disturbo e quali sono gli elementi che hanno provocato in loro
una sensazione di allarme;
Qual è il ragionamento clinico del paziente;
Se il paziente ha qualche motivo di evitare un consulente scelto
dai familiari.
Il paziente inviato dai colleghi: Un paziente può essere inviato allo
psicologo clinico da un medico generico, che ha ipotizzato che
taluni disturbi organici abbiano una grave componente psicologica;
da uno specialista; da un medico che si occupa di pazienti
terminali; da un collega psichiatra; da uno psicoterapeuta, che
vuole una diagnosi prima di prendere il paziente in trattamento.
Il paziente può:
Concordare con l’analisi della situazione fatta dall’operatore che
ha consultato;
Essere a disagio con il curante attuale e accettare con piacere l’idea
della consultazione, nella speranza di risolvere il problema;
Non essere riuscito a contraddire l’inviante, nonostante
desiderasse opporsi perché non vede la necessità di una
consultazione;
Non credere all’utilità della consultazione e avere già una propria
idea di ciò che lo potrebbe aiutare;
Avere la sensazione che l’inviante non sappia cosa fare del suo
caso.
Bisogna comprendere in che modo il paziente abbia vissuto l’invio ed in
quale misura ne sia convinto e lo condivida.
Il paziente inviato da altre agenzie o da professionisti
diversi dal medico e dallo psicologo : È importante verificare
la correttezza dell’indicazione data dall’inviante nel caso di un
invio scorretto, non è sempre facile convincere l’inviante delle
ragioni della mancata presa a carico. Se l’invio è corretto, è
comunque importante distinguere fra il paziente che accetta
volontariamente il consiglio che gli è stato fornito, ed il paziente che
è costretto a subire una consultazione coatta. (ad esempio, pazienti
inviati dall’Autorità Giudiziaria. Se il paziente non concorda ed è
costretto non manifesta fiducia ed è molto più difficile istaurare
un’alleanza).
La proposta di un lavoro diagnostico consente l’instaurarsi di
una qualche forma di alleanza e la riduzione dei comportamenti
reattivi al vissuto di costrizione (può essere reciproco, anche da
parte del terapeuta). Un attaccamento diagnostico, d’altra parte, è
spesso un’esigenza pressante anche dello psicologo, che rischia di
sentirsi costretto a svolgere un compito attribuito da altri. Diverso è
il caso in cui l’inviante (ad esempio un avvocato o un giudice)
chiede esplicitamente un parere diagnostico.
Anche qui la percezione del paziente di doversi sottoporre alla
consultazione non per un’esigenza propria direttamente sentita,
può minare le possibilità di alleanza. La consultazione
assume caratteristiche dell’esame.
Lo psicologo compie la consultazione in un setting nel quale
l’elemento coercitivo e la necessità di rendere conto a terzi
introducono pesanti distorsioni; può anche accadere che il paziente
“reciti” una parte, per dare allo psicologo un’immagine di sé che
taciti l’inviante e lo convinca a prendere certe decisioni.
Funzione dei modelli e delle teorie
Non esistono il modello o la teoria che siano globalmente esplicativi
del disturbo del paziente. Per ogni paziente esistono vari modelli,
che si possono utilizzare per ottenere una migliore comprensione.
Conduzione del colloquio e raccolta delle informazioni
È utile differenziare le variabili che determinano le modalità di
conduzione del colloquio, dalla qualità dell’alleanza diagnostica, e
dalla quantità e qualità degli elementi informativi. In un colloquio
non si può prescindere dalla gravità della situazione clinica. La
situazione di gravità deve essere suddivisa in acuta e cronica. È
acuta quando siamo nel bel mezzo della fase (paziente schizofrenico
nel mezzo delle allucinazioni). Nel colloquio con i pazienti acuti è
indispensabile ottenere il maggior numero di informazioni nel
minor tempo possibile, mantenendo una buona alleanza.
I quesiti cui trovare risposte nel colloquio sono:
 Il paziente è un interlocutore sufficientemente attendibile o è
necessario interpellare qualcun altro? È indispensabile
valutare, a questo proposito se nella situazione di acuzie
(momento in cui un fenomeno morboso si manifesta in
maniera più acuta) permanga un adeguato rapporto con la
realtà. La flessione o la perdita di quest’ultima non sono
esclusivi di talune sintomatologie psicotiche;
 È indispensabile l’intervento di un altro specialista oltre allo
psicologo? (alle volte è buono chiedere anche un consulto
psichiatrico, dipende sempre da che tipo di paziente si ha
davanti);
 Il paziente è in grado di avere una sufficiente compliance? (nel
senso lato di adesione motivata alle indicazioni, non solo
farmacologiche). Resta fondamentale il tema dell’alleanza.
Non è possibile mantenere uno stile di consultazione uguale
con tutti i pazienti. Le modalità di conduzione del colloquio
devono essere adeguate alla specificità di ogni diversa realtà clinica.
Accade che talune caratteristiche della psicopatologia del paziente
interferiscano pesantemente. In fase diagnostica alcuni pazienti
inducono nel clinico vissuti che determinano la comparsa di
difficoltà diagnostica e possono condizionare la diagnosi stessa.

Possiamo raggruppare le possibili reazioni emotive del clinico in:


a. Reazioni al paziente comuni e generalizzate: si tratta di una
sorta di “contagio emotivo”; ad esempio, se il paziente è depresso,
il terapeuta diviene depresso; se il paziente è allegro, il terapeuta
diventa allegro. Ovviamente, la trasmissione non è sempre lineare.
Se taluni pazienti depressi inducono un’analoga depressione, altri
inducono, invece, iperattività o rabbia e così via. Il contagio può
esercitare i propri effetti sul funzionamento del clinico.
b. Reazioni al paziente specifiche di un determinato operatore:
alcune risposte del clinico alla psicopatologia del paziente sono
determinate dalla specificità della sua (del clinico) struttura di
personalità. Un clinico può:
Sottovalutare la psicopatologia del paziente perché ne è
spaventato o perché ricorre così frequentemente nelle sue
esperienze professionali da considerarla normale. Può anche
avvenire l’inverso;
Incontrare alcune difficoltà nello stabilire l’alleanza con il paziente,
perché con alcune strutture di personalità tende ad entrare in un
rapporto di sfida e di conflitto;
Non tollerare i pazienti che fanno domande imbarazzanti o
commenti sgradevoli;
Essere suscettibili alla seduzione e a sua volta sedurre;
Scoraggiarsi di fronte alle difficoltà poste dal paziente;
Poter lavorare con paziente solo se quest’ultimo si affida
totalmente;
Sentirsi in ansia di fronte ad una situazione di delega e di
affidamento e quindi spingere il paziente verso un’autostima
precoce; oppure, al contrario non accettare un atteggiamento
sospettoso e diffidente;
 Non essere in grado di “fermarsi” e riflettere, quando il
paziente induce sensazioni disturbanti, ma tendere a trovare
una soluzione immediata.
Una persona capace di fare colloqui deve sapere come lavorare
con differenti strutture di personalità e con problemi diversi.
L’ansia del “primo incontro” (il primo incontro è al telefono) non
esiste solo nel paziente, ma anche nel clinico. L’ansia del clinico e
l’ansia del paziente hanno due matrici diverse. Sia il clinico sia il
paziente gestiscono la propria ansia attraverso le cosiddette
“operazioni (o misure) di sicurezza”; non sono altro che
meccanismi di difesa, utilizzati allo scopo di padroneggiare
meglio il disagio.
Alcuni esempi di operazioni di sicurezza sono:
Cercare di mostrarsi sempre molto intelligenti
Sforzarsi di capire sempre tutto
Cercare di conquistare la fiducia e l’ammirazione del paziente
Cercare una soluzione immediata a ogni problema
Assumere una posizione inquisitoria
Ostentare freddezza e distanza come caricatura della neutralità
o, al contrario, amichevolezza e vicinanza
Assumere una posizione di attesa passiva, sempre e comunque,
o al contrario di incondizionato attivismo.
Le situazioni di ansia vissute dallo psicologo clinico possono
essere indotte da numerose variabili. Ad esempio:
Il rapporto con figure autoritarie (il primario, il collega più
anziano e così via), che, in alcuni casi possono indurre
atteggiamenti di sfida (o eccessivo timore di sbagliare)
La presenza di sensi di colpa nei confronti del paziente
L’ansia a sua volta produce taluni effetti specifici:
Una diminuita sensibilità ai contenuti della comunicazione del
paziente;
Una valutazione inadeguata dall’effetto che, a sua volta, il clinico
produce al paziente;
La tendenza ad effettuare una lettura parziale degli elementi
psicopatologici. Viene formulata un’unica ipotesi e il processo
diagnostico è trasformato in un’etichetta diagnostica;
La necessità di intervenire continuamente. Al paziente è lasciato
uno spazio molto circoscritto;
L’assunzione di una posizione di passività, che lascia il paziente
“libero” di dire e fare quello che vuole; il paziente ha bisogno di un
interlocutore che, evitando il rischio dell’invasività, sancisca
tuttavia la propria presenza e manifesti interesse e comprensione,
sconfiggendo i timori di inacessibilità e di distanza, che spesso
accompagnano la prima richiesta d’aiuto.
Elementi informativi (diretti e inferiti): rientrano in questa
categoria ciò che il paziente dice del proprio star male, la sua
autodiagnosi e i sintomi che ha rilevato, quello che il clinico
inferisce dall’aspetto, dall’abbigliamento, dall’atteggiamento,
dall’attività motoria ecc.
Determinati aspetti della vita del paziente devono essere indagati.
Dobbiamo sapere della sua infanzia, della scuola, della professione,
della vicenda coniugale. Il metodo e la sequenza in cui tali dati
saranno raccolti saranno modificati a seconda del rapporto clinico-
paziente. Non ci si deve soffermare sul sintomo del paziente,
ma bisogna andare più a fondo.

 Le informazioni fornite dai pazienti possono essere


esaurienti, oppure parziali, settoriali, coscientemente o
inconsciamente distorte.
Il paziente può:
Ritenere che alcune informazioni non siano significative;
Vergognarsi di ciò che gli sta capitando e, quindi, fornire
una valutazione sintetica della situazione;
Avere rimosso o negato alcuni dati, allo scopo di non affrontare
taluni problemi;
Attribuire al clinico capacità magiche di comprensione;
Presentare gli elementi che potrebbero servire a formulare
una diagnosi categorizzati e comunicandoli in modo
idiosincratico, tanto da renderli poco fruibili.
Nel corso del colloquio si dovranno indagare diverse aree:
a. Funzionamento emotivo: la persona può provare un’emozione o
un sentimento specifico, è importante capire il tono dell’umore
generico. Alcune volte però si può verificare una
discrepanza, per cui diventa indispensabile un intervento che
faciliti al paziente l’espressione dell’emozione che tenta di
mascherare. Ad esempio, un paziente può esibire un volto
sorridente, che in realtà maschera ansia e depressione. Un
commento del tipo “stavo osservando che, anche quando parla di
cose tristi sorride”, può talvolta aiutare il paziente ad esprimere
più liberamente l’affetto. Bisogna che sia il clinico a trarre
le conclusioni diagnostiche.
I sentimenti e le emozioni espressi dal paziente nel corso del
processo diagnostico sono correlati con:
Il suo stato psicologico;
Eventi stressanti;
Il livello di tolleranza/ intolleranza nei confronti della malattia;
La difficoltà di dover chiedere aiuto e la sensazione di impotenza
per non avercela fatta da solo;
Il tipo di relazione che il paziente è riuscito ad istaurare con il
clinico;
La fiducia e la diffidenza, la speranza o lo scoraggiamento nei
confronti della situazione clinica generale o di quell’operatore
particolare;
Le ansietà rispetto al proprio futuro;
Le ansietà nei confronti delle reazioni del contesto familiari.
b. Funzionamento mentale: le funzioni cognitive valutabili in un
colloquio psicopatologico sono: livello di conoscenza e di
consapevolezza; orientamento; attenzione e concentrazione;
memoria, comprensione; capacità di concettualizzazione e di
astrazione; capacità di giudizio. È poi indispensabile valutare i
processi di pensiero del paziente (sono alterati nei pazienti
schizofrenici). Se dai contenuti del colloquio emerge un disturbo di
pensiero, analoghi indici di disturbo devono comparire nei
protocolli dei test. Alcuni pazienti possono rivolgere al clinico
richieste bizzarre, che acquistano invece significato se riflette ad un
pensiero delirante. (il pensiero delirante è un pensiero privo di
razionalità; il delirio è una formazione patologica di convinzioni
errate e assurde. Quando invece si parla di allucinazioni, si parla di
percezione senza oggetto).
c. modalità di interazione del paziente: Nel colloquio, si possono
osservare due processi che si svolgono contemporaneamente: il
modo in cui il paziente si relaziona con i contenuti del proprio
racconto ed il modo in cui si relaziona con la situazione
diagnostica in quanto tale e, più nello specifico, con il clinico. Il
modo del paziente di relazionarsi con il clinico rivela degli aspetti
della sua personalità. Anche il paziente, di fronte all’ansia
mobilitata dal colloquio, tende a mettere in atto alcune “misure di
sicurezza”. Il paziente, ad esempio, può sentirsi costretto a
dimostrare quanto soffre perché ha la sensazione che questo sia
l’unico modo per avere attenzione, oppure può fare una sfuriata
per mascherare la propria umiliazione. La particolare modalità
d’interazione del paziente può verificarsi: solo nella situazione
diagnostica; con tutti; con il clinico in particolare. Nella situazione
diagnostica, quella modalità di interazione può essere determinata:
dall’argomento che sta trattando;
dall’argomento che pensa di trattare successivamente;
dal fatto di nascondere qualcosa o di mentire;
del timore del giudizio del clinico;
da qualche dubbio sul rispetto, da parte del clinico, del segreto
professionale.
Bisogna avere un atteggiamento meno giudicante possibile, in
modo che il paziente si senta libero di tutto ciò che prova. Se il
paziente non riesce a fidarsi del clinico il trattamento non
funzionerà. La scarsa chiarezza dei contenuti comunicativi può
indicare una particolare difficoltà nell’interazione. Ad esempio può:
rispecchiare uno stato di affettiva confusione del paziente, che può
essere precedentemente al colloquio o determinato dalla presenza
del clinico;
essere imputabile a qualche difficoltà del paziente nel
compiere un corretto processo di selezione o di ordinamento
dei dati;
essere la conseguenza di difficoltà comunicative specifiche;
Quando il paziente racconta la propria storia è fondamentale che il
clinico gli comunichi empatia. Una comprensione empatica è
particolarmente importante per quei pazienti che non
darebbero informazioni al clinico, in quanto temono, dal loro
punto di vista, che questi possa ulteriormente ridurre la loro
fragile autostima. Il paziente non è disposto a rispondere ad una
persona che lo ascolta in modo non empatico. Se il clinico cerca di
ottenere dati senza aver istaurato con il paziente una sufficiente
alleanza diagnostica, la raccolta delle informazioni può essere
vissuta da quest’ultimo come una manovra predatoria.
Altre fonti di informazione
La possibilità di ricorrere a strumenti diagnostici diversi e
di utilizzare in modo incrociato le informazioni che fornisce
ciascuno di essi incrementa la quantità e l’attendibilità dei dati
raccolti. I pazienti forniscono risposte diverse a seconda del tipo di
strumento loro proposto ed a seconda della relazione che si istaura
con il singolo operatore. Anche la diversità del contesto di
osservazione elicita nel paziente comportamenti diversi.
Un’altra modalità di valutazione delle informazioni è conosciuta
dal ricorso ad interlocutori diversi dal paziente: i familiari possono
farci comprendere le loro aspettative, il modo in cui affrontano la
malattia del congiunto. La tendenza a rifiutare i contatti con i
familiari del paziente (…) si basa sull’esistenza di un modello
precostituito, clinico. Nel momento in cui il clinico rifiuta di vedere
la famiglia del paziente in nome di questa pseudo neutralità
analitica assume una posizione di parte.

L’importante è che il clinico non si allei con un familiare, questo


sarebbe un ostacolo alla comprensione del paziente. Nel processo
diagnostico non esistono alleanza con l’uno o con l’altro membro
della famiglia, in quanto ciò sarebbe un grosso ostacolo alla
comprensione.
J. Morrison (2008) elenca alcune situazioni specifiche nelle quali
ottenere informazioni da interlocutori diversi dal paziente diventa
una necessità:
con i bambini e gli adolescenti che di solito, non hanno una chiara
percezione del proprio comportamento;
con alcuni adulti che non sono a conoscenza di elementi
significativi della loro storia familiare;
con alcuni pazienti che, a prescindere dell’età, si vergognano di
alcuni loro comportamenti, anche se appartengono al passato;
con pazienti psicotici (non riescono ad essere lucidi);
con i pazienti con un disturbo organico che possono non essere in
condizioni di fornire dati attendibili;
con taluni pazienti con disturbi di carattere;
con i pazienti che presentano disturbi della personalità
egosintonici;
quando si ha il sospetto dell’esistenza di qualche “segreto di
famiglia”, che interlocutori diversi dal paziente possono forse
essere disposti a violare o comunque segnalare al clinico;
quando è necessario raccogliere elementi anamnestici
relativi al periodo prenatale o ai primissimi anni di vita. Nella
maggior parte dei casi, i familiari sono interpellati dopo aver sentito
il parere del paziente. Nel colloquio con i genitori possono essere
indagate le seguenti aree:eventuale storia psichiatria di altri
membri della famiglia;
storia evolutiva del paziente;
capacità del paziente di autogestirsi;
disponibilità ad occuparsi di eventuali aspetti deficitari;
eventuali cambiamenti della qualità della vita in famiglia, a
seconda che il paziente sia presente o assente;
idee dei familiari sul funzionamento emotivo del paziente;
modificazioni del comportamento del paziente/assenza di alcune
persone;
opinioni dei familiari sulla genesi della malattia;
segni e sintomi rilevanti dai familiari;
informazioni fornite dal paziente ai familiari sulle opinioni e le
prescrizioni dei curanti;
struttura di eventuali alleanze fra i familiari a favore o contro il
paziente e fra il paziente ed uno o più familiari contro uno o più
membri della famiglia.
Colloquio: arte o scienza? Problemi di formazione
È stato detto che fare colloqui è più un’arte che una scienza, una
capacità che si può acquisire ma che probabilmente non può essere
insegnata. Può essere vero, ma in gran parte di tale capacità può
essere imparata e ciò faciliterà l’apprendimento della tecnica del
colloquio. Si può insegnare a “parlare al paziente”. È importante
partire dal fatto che non esiste un unico modello di colloquio, bensì
modelli diversi che si avvalgono di tecniche differenti.
Un elemento di ostacolo all’apprendimento del colloquio è
soprattutto l’adesione aprioristica (ed esclusiva) ad un modello
teorico di riferimento o agli stereotipi comportamentali di un
“maestro”.
La fantasia di ogni apprendista è che quanto più diventa simile al
maestro o si identifica in qualche teoria consolidata tanto più riduce
il risico di sbagliare. L’identificazione con il maestro o con la teoria
inducono una rigidità di comportamento che è l’antitesi della
flessibilità necessaria alla costruzione di una buona alleanza.
La somministrazione di colloqui strutturati o l’uso di check-list di
argomenti, per verificare dopo il colloquio, la quantità e la
qualità delle informazioni raccolte patiscono gli stessi
effetti: non costituiscono cioè un training di sensibilità bensì il
tentativo di ridurre il colloquio ad una sequenza di domande giuste
o sbagliate. “Fare bene” il colloquio di consultazione vuol dire
essere capaci di fare un buon lavoro diagnostico ed avere imparato
che il processo diagnostico è il fulcro del metodo della psicologia
clinica.

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