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ERRORI DI VALUTAZIONE
di Jerry Miller

1. Questo saggio non si occupa semplicemente di errori, ma intende an-


che compierne alcuni. Inoltre, la discussione della valutazione e dell’etica
come forma di pregiudizio, ci offre deliberatamente una visione pregiudi-
ziale di questi stessi argomenti. Questi errori e pregiudizi, tuttavia, non
compromettono gli argomenti qui presentati, quanto piuttosto, si spera, li
rendono possibili. Infatti, nonostante il titolo, questo saggio non concepi-
sce “le asserzioni erronee” [misstatements] come giudizi negativi che ci al-
lontanano dal ruolo del valore più di quanto facciano le asserzioni sul mon-
do; al contrario, lo scopo qui è mostrare come possiamo comprendere i
giudizi erronei di valore in quanto produttivi di ciò che noi consideriamo
delle asserzioni legittime.
A questo scopo ci si presentano un paio di approcci possibili. Si può, sul-
le orme di Nietzsche, affermate che tutti i valori sono dei giudizi erronei.
Nietzsche asserisce che ogni giudizio di valore – vale a dire, ogni giudizio
sulla validità comparativa di una rappresentazione interpretata – è un “er-
rore”. Eppure, per Nietzsche stesso tali giudizi inesatti di valore denotano
degli errori che sono necessari e inevitabili, cioè sono degli errori creativi
e in questo senso sono produttivi e positivi. Questi errori non sono correg-
gibili, eppure, ciononostante, costituiscono dei fraintendimenti.
Un secondo modo di ipotizzare un “giudizio inesatto di valore” è quello
di concepire il valore stesso come una forza produttiva. Per far ciò è neces-
sario che noi pensiamo al valore non come a un genere di interpretazioni o
di asserzioni, come credeva Nietzsche, ma come qualcosa che è necessario
alla produzione di qualunque asserzione o occorrenza interpretativa. In que-
sto senso il “valore” si riferirebbe ad un elemento strutturale che è condizio-
ne per ogni rappresentazione mentale. Il valore, vale a dire, dovrebbe esse-
re formativo rispetto alle asserzioni “meramente” fattuali su come il mondo
“è”, per esempio, che un triangolo è una figura di tre lati, che la gelosia è
un’emozione o che la creatività consente nuove modalità di esistenza. Tipi-
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camente, non consideriamo queste asserzioni come valutative, ma come


semplicemente descrittive. Infatti, si potrebbe pensare che la neutralità-va-
loriale sia costitutiva della definizione di un’asserzione descrittiva – e cioè
che asserire come le cose “stanno” nel mondo, e niente di più, implica l’as-
senza di qualunque valenza valutativa. Se, tuttavia, le asserzioni descrittive
si dimostrassero dipendenti dalla funzione valoriale, allora la vera natura e
la possibilità stessa di una rappresentazione o di una considerazione “pura-
mente” descrittive, non mediate dal valore, si rivelerebbe intenibile.
Questa seconda strategia si fa strada attraverso una riconsiderazione del-
la relazione sussistente tra valore e fenomeni, e quindi una relazione tra eti-
ca ed epistemologia. Specificamente, essa sfida la tradizionale interpreta-
zione del valore come un giudizio secondario, un giudizio qualitativo che è
“annesso” alla percezione presuntivamente neutra del mondo, da un punto
di vista valoriale. A motivare questo riesame è la teoria della formazione del
segno linguistico e la teoria della formazione linguistica dei segni di Ferdi-
nand de Saussure (Saussure 1916). Nei suoi lavori, Saussure sottolinea
come il valore sia una condizione per l’emergenza di rappresentazioni men-
tali discrete e articolabili o di “pensieri-suoni”, e tuttavia la spiegazione che
egli fornisce del ruolo del valore nella formazione di occorrenze dotate di
significato, sfortunatamente, è frammentaria e nebulosa. Non è qui possibi-
le fornire una ricostruzione chiara e onnicomprensiva di questa funzione,
ma un’ipotesi sulla struttura generale dell’argomento ci fornirà elementi
sufficienti per suggerire per quale motivo il valore per Saussure è costituti-
vo del significato e perché, a sua volta, gli “errori” o i “fraintendimenti” di
giudizio” pertengono a quell’operazione formativa.

2. Per poter apprezzare l’innovazione distintiva dell’analisi di Saussure


è bene ricordare il primo principio convenzionale della relazione tra valo-
re e fenomeni – cioè quella premessa fondamentale cui si conforma in lar-
ga misura l’etica moderna e le filosofie morali moderne: in breve, cioè, che
il valore necessariamente segue, o succede, all’interpretazione epistemica.
Il modello generale che deriva da questa premessa procede secondo questa
sequenza: prima si diviene consapevoli o si evoca un percetto mentale, cioè
si concettualizza, diciamo, un triangolo, la gelosia o la creatività, e a que-
sto punto soltanto, dopo aver identificato questa rappresentazione come
una rappresentazione di tipo particolare, si può successivamente valutarla,
cioè se ne può fare l’oggetto di una valutazione (in questa possibilità di va-
lutazione è implicita l’idea che sia anche possibile che quella stessa rappre-
sentazione possa non essere oggetto di giudizio valutativo). Questo ragio-
namento appare chiaramente auto-evidente: se si vuole contemplare il
J. Miller - Errori di valutazione 215

valore di un fenomeno, diciamo la “gelosia”, un tale intento sembrerebbe


implicare logicamente una previa comprensione di quell’affetto in quanto
è riconoscibile proprio come una specifica emozione. Da questo punto di
vista, prima si identifica – o si riconosce che qualcuno è capace in primo
luogo di identificare – un’esperienza affettiva le cui caratteristiche si pre-
sentano appunto come gelosia, e successivamente si può considerare il va-
lore contestuale della gelosia, che a sua volta giustifica una conseguente di-
fesa o opposizione rispetto a quell’emozione.
Per meglio spiegare questa visione standard e perché, secondo Nietzsche
e Saussure, essa non riesce a dar conto adeguatamente del modo in cui la
forza valutativa comparativa della rappresentazione venga in essere, pos-
siamo considerare tre esempi immaginari.

a) Immaginiamo che io abbia un’amica, Anna. Anna mi racconta che il


suo collega riceve una promozione e che, da quel momento in poi, sente un
forte desiderio di essere anch’essa promossa. Anna è sorpresa e un po’ per-
plessa per ciò che sente così fortemente, e ne è preoccupata. In risposta, po-
trei porle alcune domande a scopo di chiarificazione: in che modo lei vede
il suo collega? Come un modello o un mentore? O piuttosto lo percepisce
come un rivale competitivo o un nemico? Nel momento in cui pongo ad
Anna queste questioni, quindi, sto cercando di aiutarla a denominare o
identificare questo sentimento, quest’emozione di cui lei fa esperienza –
cioè, distinguere, in questo caso, il sentimento di “emulazione” da quello
di “gelosia”. Secondo il ragionamento concepito a partire dal modello stan-
dard, dobbiamo prima determinare che cosa è quest’emozione per poterne
stabilire il valore o la sua importanza. Se determiniamo che si tratta di un
desiderio di emulazione allora è fortemente probabile che noi intenderemo
il valore di questo sentimento in maniera diversa da come lo valuteremmo
se l’avessimo identificato come gelosia.

b) Consideriamo ora che io disegni un simbolo o un segno e vi chieda: è


ben disegnato o è mal disegnato? Se è una figura con tre lati, equilatera, e
io dico che è un triangolo, voi potete dire che sì, è un triangolo ben disegna-
to. Se, d’altra parte, io dicessi che questa figura è un quadrato, voi rispon-
dereste che è mal disegnato – che io ho disegnato male il quadrato nella mi-
sura in cui la figura che ho disegnato ha soltanto tre lati. In questo caso, in
funzione di ciò che ho dichiarato circa quello che la figura rappresenta, si
tratterà o di un triangolo ben disegnato o di un quadrato disegnato male. Di
nuovo, secondo la teoria standard, la qualità della rappresentazione, dicia-
mo il suo valore, dipende innanzitutto da “che cos’è” che deve essere valu-
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tato. Questa posizione afferma, in effetti, che il giudizio valutativo del se-
gno è impossibile se prima non identifichiamo quel segno, cioè finché non
sappiamo di che cosa è una istanziazione di, cioè che cosa rappresenta o si-
gnifica. Ora, che possa trattarsi di una rappresentazione estremamente di-
fettosa non è qui di alcun interesse per il teorico morale. Potremmo dire di
una casa colpita da un uragano che è pur sempre una casa, anche se metà
del tetto fosse stato divelto e le quattro mura contenessero delle enormi cre-
pe. Si tratterebbe, quindi, di un esempio mediocre di casa, così come po-
trebbe dire il teorico morale, ma anche così malridotto l’oggetto conserve-
rebbe la sua identità o il suo nome – “casa” – anche se il suo valore
cambierebbe, cioè da una casa pienamente funzionale a una casa non fun-
zionale. Era una buona casa ma ora non lo è più, ora è una casa manchevo-
le e comunque priva di valore.

c) L’esempio finale è, in un certo modo, una variante di quello preceden-


te. Immaginiamo un segno – non una forma geometrica elementare come
un triangolo, ma piuttosto qualcosa che potrebbe essere o non essere una
lettera o una parola. Forse potrebbe non essere neppure un segno grafico –
potrebbe trattarsi di un suono. Un suono che proviene da qualche parte,
fuori di me, o forse da qualcuno o qualcosa che sta fuori di me. Per il teo-
rico morale, il problema di determinare se questo suono è – nel senso etico
più semplice del termine – importante o non è importante, significativo o
non significativo, è che non è chiaro che ci sia qualcosa che questo suono
“è” oppure rappresenta. Il dilemma in questo caso consiste in qualcosa di
più che semplicemente nello stabilire che cosa “è” la rappresentazione che
potrebbe essere valutata – non si tratta solo di stabilire se, come negli
esempi precedenti, il fenomeno sia da classificarsi come gelosia o deside-
rio di emulazione, o se sia un triangolo o un quadrato. Questo suono senza
referenti lascia il teorico morale incerto sul fatto che ci sia qualcosa in ge-
nerale che abbia un significato – cioè incerto se questo suono abbia un “og-
getto”: non una fonte o un’origine ma, come per l’esempio della figura
tracciata, se esso sia una “figura” di qualcosa, come potrebbe essere un’oc-
correnza linguistica (una parola pronunciata o una espressione verbale ri-
conoscibile). Detto in altri termini, questo suono sarebbe “significativo” o
“privo di significato”? Se avesse significato, il teorico morale potrebbe cer-
care di determinare la sua identità rappresentazionale nello stesso modo in
cui uno potrebbe determinare se una certa emozione è o non è gelosia, o se
una certa figura è un (buon esempio di) triangolo o un (cattivo esempio di)
quadrato – con ciò fornendo un oggetto al quale poter annettere un certo
valore. In un caso del genere, può essere necessario dover tradurre quel
J. Miller - Errori di valutazione 217

suono per poter scoprire il concetto o il “significato” che esso intende co-
municare. E a quel punto, finalmente, il suono – essendo stato legato a un
concetto o a un pensiero – può mettere capo ad un giudizio di valore.
Questa è, dunque, la teoria standard della relazione tra valore e rappre-
sentazione fenomenica nelle tre varianti. In ognuna di queste, la determina-
zione epistemica – cioè la capacità di dire che cosa un fenomeno sia o che
cosa un’occorrenza specifica significhi o rappresenti – costituisce una con-
dizione prioritaria per l’originarsi del valore.

3. Consideriamo allora la sfida che Nietzsche pone a questa interpreta-


zione convenzionale e a ciò che egli percepisce come i suoi problemi più
consistenti. La sua risposta potrebbe qualificarsi come “critica dell’origi-
ne”, in quanto afferma che la visione standard presume una contraddizione
implicita rispetto all’origine del valore. Precisamente, Nietzsche si chiede
in che modo un’identificazione del «che cos’è» e una valutazione di quel-
la interpretazione possano rivendicare una medesima origine se sono qua-
litativamente e temporalmente giudizi diversi. Quando poniamo la questio-
ne dell’identificazione, cioè del «che cos’è», da quale punto, si chiede
Nietzsche, poniamo la questione del valore? Forse che «le valutazioni ri-
mandano a un mondo metafisicamente diverso?» (Nietzsche 2003: 96). Se
è così, egli suggerisce, dovremmo porre due “mondi metafisici” distinti –
un mondo di verità (valorialmente neutrale) e un mondo distinto ma com-
plementare di valori. Questo ci obbligherebbe, di conseguenza, a trovare
un meccanismo addizionale che riesca a combinare appropriatamente i due
mondi – cioè una qualche capacità che faccia corrispondere il fenomeno
del primo mondo al suo proprio valore nel secondo.
Così per Nietzsche delle due l’una: o il valore inerisce al fenomeno stes-
so – in altre parole l’origine del valore appartiene organicamente al fenome-
no – oppure il valore si origina all’esterno del fenomeno. Se il valore si ori-
gina nel fenomeno, non è chiaro in che modo il valore possa essere una
comprensione secondaria che venga dopo l’individuazione di identità.
Come può una stessa facoltà cognitiva che costruisce un’interpretazione a
partire da percetti elementari – cioè una rappresentazione del «che cos’è?»
– “percepire” in un secondo momento un’altra proprietà di quegli stessi
precetti che essa non abbia inizialmente afferrato? Come può il valore esse-
re una proprietà di una rappresentazione fenomenica che può entrare nella
coscienza soltanto dopo che altre proprietà sono state colte in primo luogo?
Se il valore non può coerentemente emergere dalla stessa capacità della
rappresentazione, si potrebbe pensare, alternativamente, che esso si origini
da una fonte esterna delle nostre capacità interpretative primarie. Questa
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spiegazione è, in larga misura, quella che Nietzsche favorisce. Definendo


il valore come un’interpretazione secondaria e affettiva di un’interpretazio-
ne epistemica, egli sostiene che le valutazioni non si originano nel fenome-
no con cui esse sono associate, ma derivano dall’esterno rispetto a queste;
di conseguenza esse possono non avere relazione coerente con i fenomeni
che presuntivamente valutano. Le interpretazioni epistemiche del «che
cos’è», sostiene Nietzsche, si presentano come interpretazioni valorial-
mente neutrali di identità; queste vengono per prime. Le interpretazioni va-
lutative, invece, seguono, ma in quanto hanno una relazione arbitraria ed
esterna con le precedenti interpretazioni di identità, esse costituiscono dei
«fraintendimenti». Il valore, secondo Nietzsche, è «soltanto un’interpreta-
zione di certi fenomeni, [ed è] più precisamente un fraintendimento»
(Nietzsche 1889: 55). Queste asserzioni valutative distorcono ulteriormen-
te le credenze, che sono già prospettiche, circa l’identità e la causa delle no-
stre azioni e dei nostri oggetti. Il valore, in effetti, per Nietzsche, si riferi-
sce ad un giudizio interpretativo secondario e inferiore, cioè a un mondo
erroneo in cui le rappresentazioni del mondo vengono ulteriormente seg-
mentate e riclassificate.
Nietzsche sostiene così che se la valutazione è successiva all’identifica-
zione fenomenica, così come vorrebbe la teoria standard, è soltanto perché
tutte le relazioni che sussistono tra fenomeni e valori sono completamente
arbitrarie e inessenziali. La sfida nietzscheana alla teoria standard, dun-
que, è la rivendicazione che i giudizi valutativi non possono essere inter-
pretazioni “secondarie” e nello stesso tempo avere una qualunque forza au-
toritativa o prescrittiva. Infatti se la relazione di valore con i fenomeni è
arbitraria, allora il valore non ha nessun significato circa la rappresentazio-
ne alla quale è annesso, ma soltanto circa lo stato affettivo del soggetto per-
cipiente. Il valore, conclude Nietzsche, o è intrinseco alla determinazione
del «che cos’è» o è un errore inessenziale e basato sul pregiudizio.
Un esempio della critica di Nietzsche si può trovare in un’asserzione di
questo tipo: “Questa sedia è insicura”. Per Nietzsche l’asserzione costitui-
rebbe un giudizio erroneo di valore, nella misura in cui la sedia non può es-
sere giudicata “insicura” nel modo in cui si potrebbe dire che è, per esem-
pio, piccola, di legno o che ha quattro gambe. La rappresentazione
interpretata della sedia, così affermerebbe Nietzsche, rimane sempre mo-
ralmente neutrale; è cioè priva di valutazione. Al contrario, il giudizio va-
lutativo “insicura” è un termine che possiede un significato soltanto rispet-
to agli affetti individuali che si danno in un particolare contesto di ricezione.
Dire che la sedia è “insicura”, in altre parole, è ciò che J. L. Austin chiame-
rebbe un atto linguistico perlocutivo – cioè un’asserzione intesa a modifi-
J. Miller - Errori di valutazione 219

care il comportamento dell’ascoltatore, così che chiunque dovesse sedersi


sulla sedia possa ripensare come risultato della sua azione quella decisio-
ne. Che qualcuno possa provare un certo nervosismo nel sedersi su una se-
dia del genere non dice nulla sul valore intrinseco della sedia, che è soltan-
to neutrale da un punto di vista valoriale. Non può esserci, per Nietzsche,
alcuna asserzione di valore, circa una percezione o un’azione, che non sia
per ciò stesso un errore.
Come si vede dall’esempio, i giudizi erronei di valore per Nietzsche non
sono essi stessi privi di valore, ma sono necessari ed essenziali del nostro
modo di essere al mondo. Siamo costretti a vedere le sedie come qualcosa
che sostiene un certo peso o che sono fragili, stabili o instabili, e in effetti
possiamo vederle soltanto in questo modo, cioè solo in relazione nostro de-
siderio di sederci o di salirci sopra per piantare un chiodo cui appendere un
quadro. Più in generale, dunque, le asserzioni erronee sul valore delle azio-
ni e degli oggetti sono per Nietzsche funzioni delle nostre capacità creati-
ve di plasmare il mondo come disponibile per i nostri progetti, come ciò
che può servire ai nostri bisogni che continuamente si espandono e si am-
plificano. In questo modo, è soltanto nel linguaggio e nel contesto del va-
lore che noi, in quanto soggetti, possiamo intendere noi stessi come “pro-
duttivi”. Il fatto che possiamo concepire le rappresentazioni in questo
modo valutativo, però, dice soltanto dei nostri progetti produttivi e non ri-
vela nulla circa la formazione cognitiva di queste rappresentazioni concet-
tuali. Così, per Nietzsche, le nostre asserzioni sui concetti che abbiano que-
sto o quel valore sono degli errori, poiché quelle qualità sono addizioni
esterne o annessioni a identità che originariamente sono neutrali da un pun-
to di vista valoriale. Tuttavia, nella misura in cui soltanto in virtù di queste
qualità il mondo si vivifica per noi in quanto dotato di significato, come
qualcosa che rende possibili le nostre esperienze riuscite o non riuscite,
vantaggiose o svantaggiose per noi, le asserzioni di valori non sono degli
errori che noi possiamo correggere o di cui possiamo liberarci senza, con
ciò, privare il mondo di quella animazione e di qualunque relazione possi-
bile che i soggetti possono intrattenere con il mondo stesso.
Quel che è utile nell’analisi nietzscheana è che essa porta alle estreme
conseguenze logiche la visione della teoria standard. Se il valore è un’an-
nessione successiva e secondaria ai concetti, allora è difficile vedere come
qualità valutative possano appartenere a questi stessi concetti in modo si-
gnificativo; come, cioè, il valore possa non essere una distorsione inessen-
ziale e un pregiudizio rispetto a un’esperienza primaria del mondo che sia
valorialmente neutrale. Allo stesso tempo, tuttavia, questa conclusione lo-
gica porta in primo piano ulteriori contraddizioni e limitazioni di questa
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posizione, tra cui due sembrano più evidenti e che, a suo merito, lo stesso
Nietzsche riconosce. Questi due dilemmi, che sono connessi, in definitiva
incoraggiano a ripensare la traiettoria di ragionamento a vantaggio di una
teoria più sofisticata, sebbene più radicale, della relazione tra valore e fe-
nomeni.
Il primo problema è forse evidente: se la percezione e la valutazione
sono entrambe interpretazioni, come afferma Nietzsche, perché solo una è
una “interpretazione erronea” (misinterpretation)? Sembrerebbe che la va-
lutazione abbia l’effetto di distorcere le nostre percezioni “valorialmente
neutrali” del mondo soltanto se quelle percezioni neutrali fossero intese
come più strettamente corrispondenti alla natura delle cose in sé di quanto
siano le interpretazioni valutative. Nietzsche, però, è estremamente scetti-
co circa la relazione tra giudizi fenomenici e cose in sé in quanto parte di
un continuum, come se le nostre prospettive potessero essere correttamen-
te valutate come più o meno prossime a una «realtà incondizionata e iden-
tica a se stessa» (Nietzsche 1886: 12). Che questa credenza rifletta per lui
una “finzione” – ancorché una “finzione necessaria” – pone in dubbio la
prima asserzione circa il valore, poiché propone di conseguenza che di due
finzioni – cioè dell’interpretazione fenomenica e dell’interpretazione valu-
tativa – soltanto l’ultima delle due costituirebbe un fraintendimento (misin-
terpretation), cioè un’asserzione che richieda logicamente una commisura-
zione rispetto a qualcosa che costituisce una realtà incondizionata.
In secondo luogo, sebbene Nietzsche asserisca che le interpretazioni va-
lutative sono aggiunte alle interpretazioni rappresentazionali, egli non cre-
de che noi possiamo coscientemente giudicare il valore di una congnizione
percettiva, come invece suggerisce la visione standard. Tali percezioni, as-
serisce Nietzsche, sono valutate dai nostri affetti prioritariamente rispetto
all’autoconsapevolezza di quel processo – la valutazione, dunque, non è
qualcosa che noi inconsapevolmente attiviamo, ma qualcosa che si verifi-
ca in anticipo rispetto alla nostra coscienza riflessiva. Come tale, egli scri-
ve, «il nostro mondo è colorato [di valori]» (Nietzsche 1967: 260). Sem-
brerebbe cioè che i nostri affetti “colorano” valutativamente ogni
impressione rappresentazionale di cui noi facciamo esperienza, così che
non possiamo sperimentare una percezione che non sia colorata da un qual-
che valore più di quanto possiamo percepire un oggetto privo di colore. Se,
tuttavia, noi non siamo in grado di formarci un’impressione mentale a cui
non sia annesso alcun valore, come possiamo sapere che questo valore è, in
effetti, qualcosa che viene annesso? Come possiamo dire che esso sia stato
“aggiunto” successivamente a un concetto valorialmente neutrale se non
possiamo mai cogliere delle azioni o dei concetti in quello stato valorial-
J. Miller - Errori di valutazione 221

mente neutrale? Se il valore è, nella nostra esperienza fenomenica, sempre


presente fin dall’inizio, su che base possiamo dire che esso è secondario e
inessenziale rispetto al modo stesso in cui noi diamo senso al mondo?

4. La critica di Nietzsche mette in evidenza con successo la mancanza di


una qualunque teoria dell’origine concettuale e della natura del valore se-
condo il modello standard e spiega perché quest’assenza teoretica renda
inesplicabile la pretesa di questo modello che i giudizi di valore seguano e
siano subordinati ai giudizi ontologici. Nondimeno, la soluzione nietzsche-
ana, secondo cui i giudizi di valore si definiscono come interpretazioni che
derivano da affezioni soggettive prioritarie ad ogni consapevolezza cogni-
tiva, serve soltanto a rendere più difficile da spiegare la presunzione di va-
lore, in quanto fraintendimento derivativo di una determinazione ontologi-
ca. Per di più, esso riproduce il problema già presente nella teoria standard
del valore in quanto elemento “annesso”, in modo tale da rendere l’intera
teoria ancora più sospetta. Avendo seguito questa linea di indagine, al me-
glio con risultati eterogenei, possiamo ora considerare un approccio com-
pletamente diverso al valore modellato sulla linguistica strutturale. Ciò che
maggiormente distingue questa lettura da quelle discusse sopra è che essa
teorizza il valore come qualcosa che è primario e intrinseco alle determi-
nazioni di identità ontologica – cioè le determinazioni del «che cos’è» –
piuttosto che come un elemento secondario ed esterno. Questa posizione, a
suo modo, intende anche il valore nel contesto di asserzioni erronee. Nel
suo Corso di linguistica generale Ferdinand de Saussure dichiara che «la
nozione di valore [...] ci mostra che è un grossolano errore» considerare il
valore come secondario rispetto a e separato dalla formazione di rappre-
sentazioni distinte ed identificabili (Saussure 1916: 112). Nel capitolo sul
“Valore linguistico”, Saussure ci fornisce un argomento potenzialmente
profondo, ma un po’ confuso, a sostegno di questa idea. Quelle che seguo-
no sono alcune di queste asserzioni, stringenti benché non del tutto detta-
gliate, che rendono plausibile la nozione saussuriana di “valore” come
qualcosa che ci fornisce le risorse per controbattere al modello standard in
un modo che è fortemente segnato in termini di giudizio e di pregiudizio,
vale a dire in termini valutativi.
Saussure concepisce il “valore” non come un’interpretazione separata o
come una “cosa” che si “aggiunge” a un concetto. Si tratta piuttosto, per
lui, della forza differenziate con cui un concetto può emergere all’interno
di un linguaggio. Vale a dire come distinto da tutti gli altri concetti. Il «lin-
guaggio stesso», così comincia il capitolo di Saussure, «non può essere che
un sistema di valori» (ivi: 110). Fin dall’inizio sembra che per poter signi-
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ficare sensatamente si debba già significare un valore, ma non, tuttavia, nel


senso di asserire una certa versione del rapporto di buono e cattivo. Al con-
trario, Saussure ci propone qui che il processo stesso di significazione è
reso possibile dal valore e espressivo del valore.
Cominciamo da qui. Per Saussure il concetto è concepibile soltanto
come un “pensiero-suono”, cioè un’unità che comprende due componenti
inseparabili: una linguistica (specificamente il segnale/significante in
quanto suono, occorrenza vocale o parola, ad esempio “triangolo”) e l’altra
rappresentazionale (ad esempio l’idea o la rappresentazione mentale evo-
cata di un triangolo). Per Saussure, il pensiero-suono è l’unità fondamenta-
le per il segno (suono/significante + pensiero/significato), e quindi di tutte
le espressioni di senso. In effetti, egli considera un truismo disciplinare che
la relazione suono-pensiero sia la modalità irriducibile della cognizione:
«filosofi e i linguisti sono sempre stati d’accordo sul fatto che, se non fos-
se per i segni, saremmo incapaci di distinguere due semplici idee in modo
chiaro e coerente» (ivi: 112). Ciò significa che per Saussure un’idea o un
concetto – il «che cos’è?» – “prende forma” dal caos dei dati percettivi,
come una segmentazione che si verifica in concomitanza con la sua forma-
zione in quanto unità linguistica. Per Saussure la parola e l’idea sono ana-
loghe alle due facce di un singolo foglio di carta: inseparabili. Eppure, sul-
la base di questo modello il suono/significante non è “aggiunto”
secondariamente al pensiero/significato. La rappresentazione mentale non
può precedere il suo segno linguistico, perché questo richiederebbe che
quelle rappresentazioni siano differenziate in anticipo da qualche altra for-
za che sia diversa e precedente alla forza di differenziazione del linguag-
gio. Piuttosto, il significante e il concetto co-emergono concomitantemen-
te come gli aspetti formali e contenutistici di ogni impressione conscia
possibile.
Ma quale ruolo può svolgere il valore in questo processo ontologico?
Per Saussure, il valore non è operativo al livello dell’unità del segno, ma si
riferisce alla relazione strutturale tra tutte le unità di questo genere. In altre
parole, il valore si riferisce al medium all’interno del quale ogni segno può
apparire differenziato – come distinto – ancorché in relazione con tutte le
altre unità significanti. Come Saussure spiega, l’unità del pensiero-suono
(diciamo del “triangolo”) rimane inseparabile dall’intera serie dei pensieri-
suoni alternativi rispetto ai quali essa si asserisce come dissimile. Sulla
base di questa condizione, l’emergere riconoscibile di ogni identità ontolo-
gica dipende dalla sua “simultanea coesistenza” con e, insieme, dalla diffe-
renziazione dalle sue controparti in un sistema mobile di valori. Così il
pensiero-suono “triangolo”, ad esempio, ha significato soltanto attraverso
J. Miller - Errori di valutazione 223

la sua differenziazione “negativa”, e dunque valutativa, rispetto ad altre


unità linguistiche, per esempio quadrato, cerchio, cono, scatola ecc. La
possibilità di comprendere il «che cos’è» dipende essenzialmente dalla si-
multanea capacità di afferrare il «che cosa non è» – un triangolo è un trian-
golo nella misura in cui non è un quadrato ecc.
È qui di qualche interesse il fatto, sottostimato, che Saussure, ripetuta-
mente ed esplicitamente, si riferisca a questa operazione, secondo la quale
gli elementi del pensiero-suono o l’identità restano inseparabili anche se
sempre differenziati dalle loro multiple e simultanee identità, come a un’o-
perazione di “valore”. Come citato sopra, Saussure sostiene che è un erro-
re di valutazione immaginare che l’identità del «che cos’è» possa essere
pensabile fuori da un sistema di differenze. Similmente, egli afferma che il
«linguaggio è un sistema in cui tutti gli elementi si combinano insieme, si
adattano l’uno con l’altro, e in cui il valore di ognuno di questi elementi di-
pende da una simultanea esistenza di tutti gli altri» (ivi. 113). Forse in
modo più eloquente, Saussure afferma che «in un sistema semiologico
come quello del linguaggio [...] le nozioni di identità e di valore si fondo-
no» (ivi: 109). La tesi di Saussure, dunque, respinge il modello standard e
quello nietzscheano di valore come elemento secondario rispetto ai feno-
meni sostenendo che la formazione del «che cosa» si confonde con, e quin-
di è per questo motivo contemporanea e indistinguibile dalla formazione
del valore di quello stesso fenomeno.
Nondimeno, Saussure sostiene l’idea di valore in quanto costitutiva di
«giudizi erronei», nella misura in cui «i valori implicano sempre [...] qual-
cosa di dissimile che può essere scambiato per l’elemento il cui valore è ap-
punto in questione» (ivi: 113). Qui Saussure ci presenta come analoghi un
sistema di valutazione del significato ed un sistema economico di scambio:
in un sistema economico una banconota da venti euro può essere scambia-
ta con una maglietta: due oggetti dissimili, cioè, possono essere sostituiti e
stare l’uno per l’altro come conseguenza del loro “identico valore”. Ma
come possiamo concettualizzare il linguaggio in quanto sistema di valore
in accordo con questo modello economico in cui ogni oggetto porta una re-
lazione di valore con ogni altro? Come può questa analogia chiarire un si-
stema in cui i valori non si aggiungono come elementi secondari e inferio-
ri rispetto ai fenomeni valorialmente neutrali, ma sono piuttosto produttivi
delle stesse identità linguistiche differenziate?
Ciò che complica la questione è che, secondo Saussure, al momento di
entrare in un sistema dei segni multipli si verifica una transvalutazione del
segno in cui, al di là della relazione negativa di differenza grazie alla qua-
le il segno emerge in relazione ad altri segni, esso sviluppa anche, in un
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certo modo, una «natura positiva». «Nel momento in cui noi consideriamo
il segno nella sua interezza, incontriamo qualcosa che è positivo nel suo
stesso dominio», ed è questo «sistema [di valore] che fornisce il legame
operativo tra l’elemento fonico e l’elemento mentale [la cui] combinazio-
ne è un fatto di natura positiva» (ivi:118-119). In che modo, però, la funzio-
ne differenziante del valore realizza quest’operazione? In che modo essa
costituisce un sistema di scambio tra identità che, essendo dissimili, emer-
gono attraverso una comparazione negativa, ma stabiliscono anche, nello
stesso tempo, una relazione positiva di somiglianza o di identità all’interno
di questa differenza, tale che, come suggerisce Saussure, «[nel] momento
in cui noi confrontiamo un segno con un altro, come combinazione positi-
va, il termine differenza dovrebbe essere messo da parte», così com’è in
questo contesto in cui due segni diventano «non diversi l’uno dall’altro ma
soltanto distinti» (ivi: 119) ?

5. Queste questioni richiederebbero, tuttavia, molta più analisi e molta


più ricerca di quanto si può produrre in questa breve discussione. In luogo
di una vera e propria conclusione, tuttavia, questo saggio proporrà alcuni
suggerimenti in via ipotetica rispetto al modo in cui potremmo interpretare
queste nuove, ancorché enigmatiche, affermazioni di Saussure circa la fun-
zione costitutiva del valore per l’emergenza di concetti dotati di significa-
to e identificabili.
Ritorniamo all’esempio della figura di tre lati discussa prima. Secondo
il modello standard, sembra che noi dobbiamo sapere quale sia la figura –
o un triangolo o un quadrato – per essere in grado di stabilire il suo valore
rappresentazionale. Il valore della rappresentazione, in quanto triangolo
ben fatto o quadrato fatto male, sembra dipendere dalla prioritaria determi-
nazione della figura stessa in quanto effettivamente un triangolo o un qua-
drato. Quest’assegnazione di un valore neutrale di identità, in quanto trian-
golo o quadrato, costituisce l’oggetto di primo ordine per il modello
standard di valutazione etica. Ma sarebbe possibile immaginare che in ogni
figura di tre lati sia simultaneamente intrinseca un’identità in quanto qua-
drato mal riuscito, anche per quelle figure che noi dichiareremmo dei “buo-
ni triangoli”? Se uno disegna una figura di tre lati, e io la identifico come
un quadrato fatto male, egli può giudicare questa identificazione come
un’asserzione erronea, il principio generale della quale suggerirebbe che
tutti i triangoli sono nello stesso tempo quadrati fatti male. Di fatto, oltre ad
asserire che ciò che è stato disegnato non è un quadrato fatto male ma un
triangolo, si può certamente pensare che la grande maggioranza delle figu-
re di tre lati sono in effetti dei triangoli e non dei quadrati fatti male, e che
J. Miller - Errori di valutazione 225

sarebbe perciò un errore riferirsi ad essi in simili termini valutativi. Più


specificamente, si potrebbe dire che il mio errore non è stato principalmen-
te valutativo ma ontologico – cioè che ho confuso le categorie di triangolo
e quadrato, e che questa è la ragione per cui ho successivamente applicato,
in maniera erronea, la valutazione “fatto male” alla figura disegnata.
Come si può stabilire, tuttavia, che la verità epistemica di una figura di
tre lati è che essa è un triangolo? Che cosa distingue esattamente un trian-
golo ben fatto da un quadrato disegnato male che abbia solo tre lati? Secon-
do la mia lettura, Saussure propone che le due figure (il triangolo e il qua-
drato) siano di fatto indistinguibili. Più indirettamente, egli asserisce, in
maniera implicita, che la possibilità di una figura di significare un triango-
lo deve presumere che questa figura sia un esemplare “buono” o appropria-
to di triangolo e che dunque si debba simultaneamente rilevare il suo esse-
re un quadrato inappropriato. Ciò significa che la differenza tra il triangolo
e il quadrato non è, come abbiamo creduto all’inizio, una distinzione pura-
mente epistemica o ontologica, non si dà cioè il caso che il triangolo venga
riconosciuto come tale in forza di una relazione con qualche nozione idea-
le di triangolo, o che esso intrattenga una relazione negativa rispetto al se-
gno “quadrato” così come ad altre figure. Anche se questa relazione nega-
tiva fosse operativa, sarebbe insufficiente a spiegare come queste relazioni
negative possano andare oltre una posizione puramente negativa di diffe-
renza per attingere a quella relazione positiva che Saussure chiama «distin-
zione».
In un sol colpo, dunque, in quanto differenza, il triangolo e il quadrato
acquisiscono le loro identità attraverso la loro relazione negativa: un trian-
golo è un triangolo perché non è un quadrato, una definizione attribuita sul-
la base di una serie di elementi negativi sincronici e simultanei – nel mo-
mento in cui non è un quadrato, non è neanche un cerchio ecc. Eppure
Saussure è del tutto chiaro sul fatto che la definizione del pensiero-suono
“triangolo” – e dunque del suo significato e della sua identità – non può es-
sere una pura negazione. Per essere un segno significativo, il triangolo
deve essere positivamente, così come negativamente, correlato al quadrato
e a tutte le altre cose. Un’altra formulazione di questa stessa idea potrebbe
essere che la relazione negativa tra segni non può essere esaustiva – non
può essere cioè una piena negazione, perché una piena negazione elimina
tutte le relazioni implicando una completa incommensurabilità fra quelle
identità, o, in termini economici, l’esclusione di quegli elementi dalla rela-
zione di scambio. Ma allora come possono identità di questo genere corre-
larsi positivamente e negativamente? Solo, sembrerebbe, attraverso il valo-
re: è attraverso il valore, insomma, che un triangolo può anche essere,
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positivamente, un quadrato. Che un triangolo non sia un quadrato signifi-


ca, secondo questa idea, non stipulare un’identità esclusiva ma una defini-
zione relazionale e valutativa grazie alla quale un buon triangolo è allo
stesso tempo un esempio mal riuscito di quadrato. Valutarlo come un qua-
drato fatto male, o deforme o erroneo, non significa perciò che esso non sia
un esemplare di quadrato, ma un esempio di valore nettamente dissimile.
In questo senso sarebbe come la casa che è stata colpita dall’uragano; pre-
sentare la casa pesantemente danneggiata come un significante danneggia-
to del concetto “casa” sembrerebbe un’erronea rappresentazione o un giu-
dizio erroneo, poiché in quanto casa deficitaria essa serve come indicatore
deficitario; questo non significa però, che esso non significhi anche positi-
vamente, in senso valutativo, in quanto casa deficitaria. Ciò produce, nel
linguaggio di Saussure, non una «differenza» ma una «distinzione», dove
«distinzione» si riferisce alla prossimità valutativa piuttosto che a una se-
parazione ontologica.
In questo modo il valore sarebbe costitutivo di asserzioni apparentemen-
te neutrali da un punto di vista valutativo, così come quella forza con cui i
segni acquisiscono relazioni positive gli uni con gli altri in un modo che
conserva le sue relazioni di identità negativa. Infatti, dire che qualcosa sia
un triangolo improprio o deficitario non corrisponde a dire che qualcosa
non sia un triangolo: la prima è una distinzione qualitativa, la seconda è
una distinzione ontologica. Secondo questa lettura di Saussure, potremmo
non avere identità epistemiche puramente neutrali da un punto di vista va-
loriale rispetto a pensieri-suoni – perché questo significherebbe isolare
quelle unità dalla loro relazione valutativa sistematica da tutti gli altri.
La teoria di Saussure è certo un tentativo insolito per cominciare a pen-
sare al valore in modo del tutto contrario a come il termine funziona nei di-
scorsi quotidiani o accademici in tema di etica. Eppure, questo genere di
errori di valore che Saussure ci indica, diversamente da quelli proposti dal
modello standard o da Nietzsche, sembrano essere proprio quelli grazie ai
quali ogni gesto significativo o ogni asserzione diviene possibile.

(Traduzione Silvia Pedone)

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