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Indice

Il libro
L’autore
Frontespizio
1. Potreste piantarla di uccidere la mia capra?
2. Classica scena di inseguimento sui tetti, con tanto di ninja e spade parlanti
3. I miei amici mi proteggono non dicendomi nulla di nulla. Grazie, amici
4. Sono investito da un ghepardo
5. La mia spada ha una vita sociale più intensa della mia
6. Adoro la zuppa di donnola
7. Tu o qualcuno dei tuoi cari avete mai avuto i vermi?
8. Mi ammazzano per salvarmi da morte certa
9. Non fatevi mai il bagno con un dio decapitato
10. Il luau vichingo più imbarazzante di sempre
11. Cosa si deve fare per una standing ovation?
12. Samirah e Magnus PARLANO seduti su un albero
13. Rilassati, è solo una piccola profezia di morte
14. Siamo in un mare di guai… No, aspetta. Mi sa che è un fiume di sangue
15. Chi vuole fare a pezzi Magnus alzi la mano
16. Hearthstone scatena il proprio bovino interiore
17. Zio Randolph finisce alla grande nella mia lista dei Cattivi
18. Devo imparare molte, molte più parolacce nella lingua dei segni
19. Il pilota sta pregando. Devo preoccuparmi?
20. In caso di possessione demoniaca, seguite le indicazioni luminose fino all’uscita più vicina
21. I vagabondi saranno fucilati, arrestati e fucilati di nuovo
22. Il papà di Hearthstone è un alieno che rapisce mucche
23. Eh, già. Ha sicuramente un UFO in garage
24. Oh, volevi respirare? Fanno tre monete d’oro in più
25. Mago delle rune o re di cuori?
26. Bombardiamo tutti i pesci
27. Lasciami subito andare, o ti renderò miliardario
28. E, se ordinate ora, riceverete in omaggio anche questo anello maledetto!
29. Nøkk, Nøkk
30. Tutti insieme: Oltreee l’arcobalenooo…
31. Heimdall si fa un selfie con tutti, ma proprio tutti
32. Godzilla mi manda un messaggio importante
33. Pausa falafel? Sì, grazie
34. Facciamo visita al mio mausoleo preferito
35. Abbiamo un minuscolo problema
36. Risolvere i problemi con scelte di stile estreme
37. Spiedini di carne intorno al fuoco
38. Non indovinerete mai la password di Blitzen
39. Elvis ha dimenticato la borsa da bowling
40. Little Billy se lo meritava
41. Nel dubbio, trasformati in un insetto che punge
42. Oppure brilla come una lampadina. Anche questo funziona
43. Continui a usare la parola “aiuto”, ma credo abbia un significato diverso da quello che gli dai tu
44. Rune e coupon in omaggio, che onore!
45. Le trecce non sono mai state così spaventose
46. Arriva la sposa e/o l’assassino
47. Mi preparo per una battaglia in discoteca
48. Tutti a bordo del Taco Express
49. Thrym!
50. Un po’ di veleno rinfrescante sul viso, signore?
51. Ciao, paranoia! Chi si rivede, eh?
52. Zio Randolph mette su un gruppo di coristi
53. Datemi un martello! (Qualcuno doveva pur dirlo)
54. Gli scoiattoli alla finestra possono essere più grandi di come sembrano
55. Margherite a forma di elfo
56. Un caffè con una valchiria… Riproviamoci!
57. Riscuoto dei favori
Glossario
I Nove Mondi
Rune
Copyright
Il libro

Thor ha di nuovo perduto il suo martello. Il dio del tuono ha la sgradevole abitudine di dimenticare in giro per il Valhalla
l’arma più potente dei Nove Mondi, per poi doverla recuperare a suon di guerre, sfide all’ultimo sangue e duelli con
creature che si dilettano a distruggere l’universo.
Questa volta riconquistare il martello sarà ancora più difficile, perché è finito nelle mani di un gigante, che non ha
alcuna intenzione di restituire il suo nuovo giocattolo.
Magnus Chase e i suoi amici devono ritrovarlo in fretta, prima che si compia il Ragnarok e il mondo dei mortali
soccomba all’avanzata di un esercito di mostri. Per fortuna possono contare su un alleato prezioso: Loki, l’unica divinità
in grado di aiutarli a raggiungere un accordo con il gigante. Peccato che sia il dio del male, nonché il peggior nemico
degli abitanti del Valhalla...
L’autore
Rick Riordan

Autore per ragazzi e adulti, è stato premiato con i riconoscimenti più importanti del
genere mystery.
Vive a Boston con la moglie e i due figli. Le saghe “Percy Jackson e gli dei
dell’Olimpo”, “Eroi dell’Olimpo” e “The Kane Chronicles” hanno venduto un milione e
mezzo di copie in Italia e più di quaranta milioni nel mondo.
Rick Riordan
MAGNUS CHASE E GLI DEI DI ASGARD
Il martello di Thor

Traduzione di Loredana Baldinucci e Laura Melosi


A J.R.R. Tolkien,
che mi ha aperto le porte
della mitologia norrena
1
POTRESTE PIANTARLA DI UCCIDERE LA MIA CAPRA?

Lezione imparata: se esci per un caffè con una valchiria, ti ritroverai solo, con un cadavere e il conto in
mano.
Non vedevo Samirah al-Abbas da quasi sei settimane, così quando all’improvviso mi aveva chiamato
dicendo che dovevamo parlare di una questione di vita o di morte, avevo accettato subito.
(Tecnicamente sono già morto, e la definizione non faceva tanto al caso mio, però Sam sembrava
molto preoccupata.)
Quando arrivai al Thinking Cup, in Newbury Street, lei ancora non c’era. Il locale era pieno come al
solito, così mi misi in fila per il caffè. Pochi secondi dopo, Sam mi raggiunse al volo – letteralmente –
planando sopra le teste dei clienti.
Nessuno batté ciglio. I comuni mortali non sono bravi a metabolizzare la magia, ed è una fortuna,
perché altrimenti gli abitanti di Boston passerebbero gran parte del tempo nel panico, a scappare da
giganti, troll, orchi e einherjar armati di asce e caffellatte.
Sam mi atterrò accanto, vestita con l’uniforme della scuola: sneaker bianche, pantaloni color cachi e
una maglietta blu a maniche lunghe con il logo della King Academy. Aveva i capelli coperti da uno hijab
verde e un’ascia appesa alla cintura. Ero piuttosto sicuro che l’ascia non facesse parte
dell’abbigliamento standard richiesto.
Per quanto fossi felice di vederla, notai che la pelle sotto i suoi occhi era più scura del solito. Non si
reggeva molto bene in piedi.
«Ehi, hai un aspetto orribile» dissi.
«Anch’io sono contenta di vederti, Magnus.»
«No, cioè… non intendevo orribile nel senso di diverso dal solito. Intendevo orribile nel senso di…
stanco, ecco.»
«Devo procurarti una pala per sotterrarti ancora un po’?»
Alzai le mani in segno di resa. «Dove sei stata nell’ultimo mese e mezzo?»
Sam irrigidì le spalle. «Mi sono ammazzata di studio, questo semestre. Do lezioni private dopo la
scuola. E poi, come forse ricorderai, c’è sempre il mio lavoro part-time: raccogliere le anime dei morti e
compiere missioni di massima segretezza per Odino.»
«Voi ragazze di oggi siete piene di impegni…»
«Come se questo non bastasse, c’è la scuola di volo.»
«La scuola di volo?» Avanzammo di qualche passo nella fila. «Nel senso di… aeroplani?» Sapevo
che Sam aveva l’obiettivo di diventare una pilota professionista, un giorno, ma non mi ero reso conto che
stesse prendendo lezioni. «Puoi frequentarla già a sedici anni?»
Gli occhi le brillavano di entusiasmo. «I nonni non avrebbero mai potuto permetterselo, ma i Fadlan
hanno un amico che gestisce una scuola di volo. E alla fine sono riusciti a convincere Jid e Bibi…»
«Ah.» Sorrisi. «Quindi le lezioni sono un regalo di Amir.»
Sam arrossì. È l’unica ragazza che conosco ad avere un “promesso sposo”, e fa tenerezza vedere il
suo imbarazzo quando parla di Amir Fadlan.
«È stato il pensiero più gentile, più premuroso che…» Sospirò, con sguardo sognante. «Ma basta così.
Non ti ho chiamato per parlare dei miei impegni. Dobbiamo incontrare un informatore.»
«Un informatore?»
«Potrebbe essere l’occasione che stavo aspettando. Se l’informazione è buona…» Il telefono di Sam
ronzò. Se lo sfilò dalla tasca, controllò lo schermo e imprecò. «Devo andare.»
«Ma sei appena arrivata!»
«Roba da valchirie. Possibile codice tre-otto-uno: morte eroica in corso.»
«Te lo stai inventando.»
«No.»
«Ma come funziona, scusa? Qualcuno capisce che sta per morire e ti manda un SMS? Sto per tirare le
cuoia! Emergenza valchiria!… magari con una serie di faccine tristi?»
«Se non ricordo male, ho portato anche la tua anima nel Valhalla. E tu non mi hai mandato un SMS.»
«Ma io sono speciale.»
«Senti, siediti a un tavolo fuori» tagliò corto Sam. «Incontra il mio informatore. Torno prima che
posso.»
«Non so nemmeno che aspetto ha il tuo informatore.»
«Lo riconoscerai quando lo vedrai» assicurò Sam. «Coraggio. E prendimi una focaccina.»
Volò via dal locale come Super Musul-Man, lasciandomi lì da solo a pagare l’ordinazione.

Presi due caffè lunghi e due focaccine, e mi procurai un tavolo fuori.


La primavera era arrivata presto a Boston. Chiazze di neve sporca incrostavano ancora i marciapiedi
come placca dentale, ma i ciliegi erano un’esplosione di boccioli bianchi e rossi. Abiti a fiori dai colori
pastello spuntavano nelle vetrine delle boutique di lusso. I turisti a passeggio si godevano il sole.
Seduto all’aperto, perfettamente a mio agio in jeans, maglietta e giubbotto freschi di bucato, mi resi
conto che quella sarebbe stata la prima volta in tre anni che non avrei trascorso la bella stagione in
strada.
Un anno prima, a marzo, mi procuravo ancora il cibo nei cassonetti. Dormivo sotto un ponte del Public
Garden, passavo il tempo con i miei amici Hearth e Blitz, evitavo i poliziotti e in generale cercavo
soltanto di sopravvivere.
Poi, due mesi prima, ero morto combattendo contro un gigante di fuoco, e mi ero svegliato nell’Hotel
Valhalla come uno dei guerrieri di Odino.
Ormai indossavo sempre vestiti puliti. Facevo la doccia ogni giorno. Dormivo in un letto comodo tutte
le notti. Potevo sedermi al tavolo di quel locale e mangiare un pasto che avevo pagato di tasca mia, senza
dovermi preoccupare di quando i camerieri mi avrebbero costretto a sloggiare.
Dopo la mia rinascita, mi ero abituato a un sacco di stranezze. Avevo viaggiato per i Nove Mondi e
incontrato divinità norrene, elfi, nani e un bel gruppetto di mostri dai nomi impronunciabili. Mi ero
aggiudicato una spada magica che al momento era un ciondolo con una runa appeso al mio collo. Avevo
avuto una conversazione folle con mia cugina Annabeth a proposito degli dei della Grecia che sono in
circolazione a New York e che rendono la sua vita difficile. A quanto pareva, il Nord America pullula di
divinità antiche. È praticamente un’infestazione.
Ecco, tutto questo ho imparato ad accettarlo.
Ma trovarmi di nuovo a Boston, in un bel giorno di primavera, come un qualunque ragazzo mortale…
Questo sì che era strano.
Scrutai la folla di passanti, cercando di individuare l’informatore di Samirah.
“Lo riconoscerai quando lo vedrai” aveva promesso.
Mi chiesi quale genere di informazione avesse questo tizio, e perché Sam la considerasse una
questione di vita o di morte.
Mi cadde lo sguardo sulla facciata di un negozio in fondo al quartiere. Sopra la soglia, l’insegna
d’ottone e d’argento scintillava ancora fiera: BLITZEN’S BEST. Il negozio però era chiuso. La vetrina era
stata coperta di fogli dall’interno, e c’era un messaggio scarabocchiato a pennarello rosso, in fretta e
furia: Chiuso per ristrutturazione. A presto!
Avevo sperato di chiedere notizie a Sam. Non avevo idea del perché il mio vecchio amico Blitz fosse
scomparso così all’improvviso. Un bel giorno di poche settimane prima mi ero presentato al negozio e
l’avevo trovato chiuso. Da allora, né Blitzen né Hearthstone si erano più fatti vivi. Non era da loro.
Ero così assorto in quei pensieri che rischiai di non vedere il nostro informatore finché non mi si parò
davanti. Ma Sam aveva ragione: si faceva notare. Non capita tutti i giorni di vedere una capra con
l’impermeabile. Aveva anche un cappello a tesa stretta incastrato fra le corna ritorte e un paio di occhiali
da sole in bilico sul naso. Continuava a pestarsi l’impermeabile con gli zoccoli posteriori.
Eppure, nonostante l’astuto travestimento, lo riconobbi ugualmente. Avevo ucciso e mangiato quella
particolare capra in un altro mondo, il genere di esperienza indimenticabile capace di porre le basi delle
migliori amicizie.
«Otis» dissi.
«Sssh» rispose lui. «Sono in incognito. Chiamami… Otis.»
«Mmm… non sono sicuro che funzioni proprio così, ma va bene.»
Otis, alias Otis, si arrampicò sulla sedia che avevo tenuto per Sam. Si sedette sul posteriore e piantò
gli zoccoli anteriori sul tavolo. «Dov’è la valchiria? Anche lei è in incognito?» Sbirciò con diffidenza il
sacchetto con la focaccina, come se Sam potesse essere nascosta lì dentro.
«Samirah è dovuta andare a raccogliere un’anima» risposi. «Torna presto.»
«Dev’essere bello avere uno scopo nella vita.» Otis sospirò. «Be’, grazie per il cibo.»
«Non è per…»
Otis addentò il sacchetto con la focaccina di Sam e cominciò a mangiarlo, carta e tutto.
Al tavolo accanto a noi, una coppia di anziani lanciò un’occhiata al mio amico caprino e sorrise.
Forse i loro sensi mortali lo percepivano come un grazioso bimbetto o come un buffo cagnolino.
«Allora.» Feci un po’ fatica ad assistere alla scena di Otis che divorava la focaccina, spargendo
briciole sul bavero dell’impermeabile. «Avevi qualcosa da dirci?»
La capra ruttò. «Riguarda il mio padrone.»
«Thor.»
Otis trasalì. «Sì, lui.»
Se lavorassi per il dio del tuono, anch’io sarei trasalito al nome di Thor. Otis e il fratello, Marvin,
trainavano il carro del dio. Ed erano la sua riserva infinita di carne di capra. Ogni sera, Thor le uccideva
e le mangiava per cena. Ogni mattina, Thor le resuscitava. Ed è per questo che dovete studiare e andare
all’università, ragazzi: così da grandi non sarete costretti ad accettare un lavoro da capra magica.
«Finalmente ho una pista su quel certo oggetto che ha perso il mio padrone…» disse Otis.
«Intendi il suo mar…»
«Non dirlo!» mi fermò la capra. «Ma sì, il suo… mar.»
Ripensai a quel gennaio, quando avevo incontrato per la prima volta il dio del tuono. Ah, che bei
momenti! Seduti intorno al fuoco, con Thor che scoreggiava, parlava dei suoi programmi TV preferiti,
scoreggiava, si lamentava del martello perduto, che usava per uccidere i giganti e per guardare in
streaming le sue serie TV preferite, e scoreggiava.
«È stato di nuovo smarrito?» chiesi.
Otis batté gli zoccoli sul tavolo. «Be’, non ufficialmente, è chiaro. Se i giganti fossero sicuri che Thor
non ha più il suo tu-sai-cosa, invaderebbero i mondi mortali, distruggerebbero tutto, e io me la farei sotto
dalla paura. Ma ufficiosamente… sì. Lo cerchiamo da mesi senza risultati. I nemici di Thor si stanno
facendo più audaci. Percepiscono la debolezza. Ho detto al mio terapista che tutto questo mi ricorda
quando ero piccolo e i bulli della fattoria mi prendevano di mira.» Le pupille orizzontali di Otis si
persero per un attimo nel vuoto. «Credo che sia stato l’inizio di tutto il mio stress traumatico.» Era il suo
modo per invitarmi a trascorrere le ore successive a parlare con lui delle sue emozioni.
Siccome sono una persona orribile, dissi soltanto: «Quanto mi dispiace» e passai ad altro. «Otis,
l’ultima volta che ci siamo visti abbiamo procurato a Thor un bel bastone di ferro da usare come arma di
scorta. Non è disarmato.»
«No, ma il bastone non è all’altezza del… mar. Non incute lo stesso timore nei giganti. E poi, Thor si
innervosisce molto quando cerca di guardare col bastone i programmi TV . Lo schermo è minuscolo e ha
una pessima risoluzione. Non mi piace quando Thor si innervosisce. Faccio più fatica a trovare il mio
angolino felice.»
C’erano parecchie cose senza senso in quel discorso: perché Thor aveva tanta difficoltà a localizzare
il proprio martello? Come aveva fatto a mantenere così a lungo il segreto con i giganti? Possibile che
Otis la capra avesse un proprio angolino felice?
«E così Thor vuole il nostro aiuto» conclusi.
«Non ufficialmente.»
«No, certo. Dovremo tutti indossare impermeabili e occhiali scuri.»
«Questa è un’ottima idea» commentò Otis. «Comunque, avevo detto alla valchiria che l’avrei tenuta
aggiornata dal momento che si occupa delle… missioni speciali di Odino. E questa è la prima buona
pista che ho per localizzare quel certo oggetto. La mia fonte è attendibile. È un’altra capra che va dal mio
stesso psichiatra. Ha sentito per caso dei discorsi nel cortile della sua fattoria.»
«Ci stai chiedendo di seguire una pista basata sulle chiacchiere sentite nella sala d’aspetto del tuo
psichiatra.»
«Sarebbe fantastico.» Otis si sporse così in avanti che ebbi paura potesse cadere dalla sedia. «Ma
dovrete fare attenzione.»
Ce la misi tutta per non ridere. Avevo giocato a palla-di-lava con i giganti di fuoco. Avevo fatto surf
con un’aquila sopra i tetti di Boston. Avevo pescato il Serpente del Mondo nella baia di Massachusetts e
sconfitto Fenris il Lupo con un gomitolo di corda sottile. E quella capra mi stava dicendo di fare
attenzione.
«Allora, dov’è il mar?» chiesi. «Jotunheim? Niflheim? Thorscoreggheim?»
«Tu scherzi.» Gli occhiali scuri di Otis gli scivolarono di sghembo sul muso. «Ma il mar è in un luogo
pericoloso diverso. È a Provincetown.»
«Provincetown» ripetei. «Sulla punta di Cape Cod.»
Avevo vaghi ricordi di quel posto. Mamma mi ci aveva portato per un fine settimana un’estate, quando
avevo più o meno otto anni. Ricordavo spiagge, caramelle mou, sandwich di aragosta e qualche galleria
d’arte. La cosa più pericolosa che avevamo incontrato era un gabbiano con l’intestino irritabile.
Otis abbassò la voce. «C’è un tumulo a Provincetown… il tumulo di uno spettro.»
«Un… cumulo di un… che?»
«Un tumulo… una tomba.» Otis rabbrividì. «E ci abita uno spettro, una creatura non morta molto
potente a cui piace collezionare armi magiche. Scusami, faccio una fatica terribile a parlarne. Gli spettri
mi ricordano mio padre.»
E questo dava adito a tutta una nuova serie di domande sull’infanzia di Otis, ma decisi di lasciarle al
suo terapista.
«Ci sono molti altri covi di Vichinghi non morti a Provincetown?»
«Soltanto uno, a quanto ne so. Ma è sufficiente. Se quel certo oggetto è lì, sarà difficile da recuperare
sottoterra, sarà protetto da una magia potente. Ti serviranno i tuoi amici: il nano e l’elfo.»
Sarebbe stato fantastico, se avessi avuto la minima idea di dove si erano cacciati. Mi augurai che Sam
ne sapesse più di me.
«Perché non ci va Thor a fare una visitina a questo spettro?» chiesi. «Aspetta… fammi indovinare.
Non vuole attirare l’attenzione. O vuole darci l’occasione di essere eroi. Oppure è un lavoraccio e lui
deve rimettersi in pari con qualche serie TV .»
«A dirla tutta, è appena cominciata la nuova stagione di Jessica Jones» ammise Otis.
“Non è colpa della capra” mi dissi. “Non merita un pugno sul naso.”
«E va bene!» esclamai. «Non appena arriva Sam, parleremo di strategie.»
«Forse non dovrei aspettarla qui con te.» Otis si leccò una briciola dal bavero. «Avrei dovuto dirtelo
prima, ma ecco, vedi… c’è qualcuno, o qualcosa… che mi segue.»
Mi si drizzarono i peli sulla nuca. «Pensi che siano qui?»
«Non lo so» rispose la capra. «Spero che il mio travestimento li abbia depistati.»
“Oh, fantastico!” pensai. Perlustrai la strada con lo sguardo, ma non vidi loschi figuri in agguato. «Sei
riuscito a vedere bene questo qualcuno/qualcosa?»
«No» ammise Otis. «Ma Thor ha nemici di ogni genere, e tutti vorrebbero impedirci di recuperare il
suo… mar. Non gradirebbero che io ti confidi un bel nulla, tantomeno l’ultima parte del mio discorso.
Devi avvertire Samirah che…»
TUNK!
Abitando nel Valhalla, ero abituato alle armi mortali che sbucavano in volo dal nulla, ma rimasi
comunque sorpreso quando un’ascia spuntò dal petto peloso di Otis.
Mi tuffai in avanti per aiutarlo. Sono il figlio di Freyr, dio della fertilità e della salute, e sono piuttosto
bravo con la magia del pronto soccorso, se me ne danno il tempo. Ma non appena toccai Otis, compresi
che era troppo tardi. L’ascia gli aveva trafitto il cuore.
«Oh, misericordia.» Otis tossì sangue. «Ora… muoio.» E si accasciò a terra, senza vita. Il cappello a
tesa stretta rotolò sul pavimento.
La donna seduta dietro di noi urlò come se avesse appena notato che Otis non era un bel cagnolino, ma
una capra morta.
Scrutai i tetti dall’altra parte della strada. A giudicare dall’angolatura dell’ascia, dovevano averla
lanciata da lassù… sì. Feci appena in tempo a scorgere l’assalitore, che chinava la testa per togliersi
dalla visuale: era una sagoma nera, con una specie di elmo.
E tanti saluti al mio tranquillo caffè da ragazzo normale. Mi strappai il ciondolo magico dal collo e
corsi all’inseguimento dell’assassino di capre.
2
CLASSICA SCENA DI INSEGUIMENTO SUI TETTI, CON TANTO DI NINJA E SPADE
PARLANTI

Forse dovrei presentarvi la mia spada.


Ragazzi, questo è Jack. Jack, i ragazzi.
Il suo vero nome è Sumarbrander, la Spada dell’Estate, ma Jack preferisce Jack perché non è scemo.
Quando Jack ha bisogno di farsi un sonnellino, ovvero la maggior parte del tempo, se ne sta appeso alla
catenina che porto al collo sotto forma di ciondolo marchiato con fehu, la runa di Freyr:

Quando ho bisogno del suo aiuto, si trasforma in una spada e uccide. A volte lo fa mentre lo impugno.
Altre, lo fa volando per conto suo e canticchiando canzoncine pop piuttosto irritanti. È fatto così, è la sua
magia.
Mentre attraversavo di corsa Newbury Street, Jack prese vita nella mia mano. La lama – ottanta
centimetri di acciaio d’ossa a doppio filo – era incisa di rune che pulsavano emettendo colori diversi
quando parlava.
«Che succede?» chiese. «Chi stiamo ammazzando?»
Jack sostiene di non prestare attenzione alle mie conversazioni quando è sotto forma di ciondolo. Dice
che di solito indossa le cuffie. Io non ci credo, perché Jack non ha le cuffie. E nemmeno le orecchie.
«Inseguiamo un assassino» risposi telegrafico, schivando un taxi. «Ha ucciso una capra.»
«Giusto» commentò Jack. «Uff, che noia, sempre la stessa storia.»
Raggiunsi l’edificio della Pearson Publishing e saltai verso l’alto, superando l’ingresso principale.
Avevo trascorso gli ultimi due mesi a esercitare i miei poteri di einherji, perciò raggiunsi una sporgenza
del terzo piano con un solo balzo, senza problemi, anche con la spada in pugno. Poi continuai ad
arrampicarmi saltellando fra davanzali e cornicioni lungo la facciata di marmo bianco, attingendo al mio
Hulk interiore, fino in cima.
Lassù, in fondo al tetto, un bipede scuro non meglio identificato scomparve proprio in quell’istante
dietro una fila di comignoli. Il capricida sembrava umanoide, e questo escludeva l’ipotesi di una resa dei
conti fra capre, ma ormai conoscevo abbastanza i Nove Mondi per sapere che “umanoide” non significa
“umano”. Poteva trattarsi di un elfo, di un nano, di un gigante basso, o perfino di un dio omicida armato di
asce. (Vi prego, questo no!)
Quando raggiunsi i comignoli, la mia preda era già saltata verso il tetto successivo. Forse potrà
sembrarvi poco, ma il tetto in questione apparteneva a una villa di pietra scura a una quindicina di metri
di distanza, oltre un piccolo parcheggio. Il capricida non ebbe nemmeno la decenza di rompersi le
caviglie nell’impatto. Fece una capriola sulla copertura di catrame e si rialzò correndo. Poi attraversò di
nuovo Newbury Street con un salto e atterrò sul campanile della chiesa di Covenant.
«Odio questo tizio» commentai.
«Come fai a sapere che è un tizio?» chiese Jack.
La spada era penetrante come sempre. (Ops! Scusate, mi è scappata.) Con gli abiti neri e larghi e
l’elmo da guerra che indossava, era impossibile capire il genere del killer, ma per il momento decisi di
continuare a considerarlo un maschio. Non so perché. Forse l’idea che fosse un capricida me lo rendeva
ancora più antipatico.
Tornai indietro, presi la rincorsa e saltai verso la chiesa.
Mi piacerebbe molto dirvi che atterrai sul campanile, misi le manette al killer e annunciai: “Ti
dichiaro in arresto per assassinio di bestiame!”.
Invece… be’, la chiesa di Covenant ha bellissime vetrate istoriate di Tiffany della fine dell’Ottocento.
Sul lato sinistro c’è una finestra con una grande crepa in alto. Colpa mia.
Andai a sbattere contro lo spiovente del tetto, scivolai giù e restai aggrappato con la mano destra alla
grondaia. Un dolore lancinante mi si sprigionò dalla punta delle dita. E fu lì, a penzoloni dal tetto, con le
gambe che scalciavano nel vuoto, che colpii con un piede la bellissima finestra istoriata, in pieno Gesù
Bambino.
Sul fronte positivo, tuttavia, penzolare in modo così precario dalla grondaia mi salvò la vita.
Nell’istante in cui mi torcevo di lato, un’ascia piombò giù dall’alto, staccando di netto i bottoni del mio
giubbotto di jeans. Un centimetro più vicino, e mi avrebbe squarciato il petto.
«Ehi!» urlai.
Tendo a lamentarmi quando la gente cerca di uccidermi. Sì, certo, nel Valhalla noi einherjar non
facciamo altro che ammazzarci a vicenda, solo che poi resuscitiamo in tempo per cena. Ma fuori dal
Valhalla ero molto, molto più eliminabile. Se morivo a Boston, avevo chiuso: niente più rigenerazioni
totali.
Il capricida si affacciò a scrutarmi dalla cima del tetto. Grazie agli dei, sembrava aver finito le asce.
Purtroppo, però, aveva una spada appesa al fianco. Indossava un paio di pantaloni e una tunica di
pelliccia nera. Una cotta di maglia sporca di fuliggine gli copriva mollemente il busto. L’elmo nero aveva
una fascia in maglia di ferro intorno alla base – quella che noi del giro vichingo chiamiamo aventail –
che gli copriva totalmente il collo e la gola. I lineamenti erano nascosti da una maschera di metallo a
forma di lupo feroce.
Naturalmente. Un lupo. Tutti amano i lupi, nei Nove Mondi. Hanno scudi a forma di lupo, elmi a forma
di lupo, screensaver coi lupi, pigiami coi lupi e feste di compleanno coi lupi.
Io? Be’, diciamo che non li amo così tanto.
«Ascolta un consiglio, Magnus Chase.» La voce dell’assassino era distorta, e passava dal soprano al
baritono come se fosse filtrata da una macchina per gli effetti speciali. «Stai alla larga da Provincetown.»
Le dita della mia mano sinistra si strinsero sull’elsa della spada. «Jack, fai quello che sai fare.»
«Sicuro?» chiese Jack.
L’assassino sibilò. Per qualche ragione, spesso la gente rimane scioccata quando scopre che la mia
spada sa parlare.
«Cioè, lo so che questo tizio ha ammazzato Otis, ma tutti ammazzano Otis» continuò Jack. «Farsi
ammazzare fa parte del suo lavoro.»
«Mozzagli la testa!» urlai.
L’assassino, che non era uno stupido, si voltò e fuggì.
«Prendilo!» dissi a Jack.
«Perché devo farlo io? È una faticaccia!»
«Perché io sono appeso a una grondaia e tu sei invulnerabile!»
«Solo perché hai ragione non vuol dire che sia giusto.»
Lo lanciai verso l’alto. Jack sparì dalla mia visuale e volò all’inseguimento del capricida,
canticchiando la sua personale versione di Shake It Off. (Continuava a inventarsi le parole delle canzoni
come gli faceva comodo. In questo caso, cantava: Ora morirai ahi ahi ahi ahi.)
Anche con la mano sinistra libera, ci misi qualche secondo a issarmi sul tetto. Da qualche parte verso
nord, il cozzare delle lame riecheggiava tra gli edifici di mattoni. Corsi in quella direzione, volando
sopra le torrette della chiesa, lanciandomi nel vuoto per attraversare Berkeley Street. Saltai di tetto in
tetto finché non udii Jack gridare in lontananza: «AHIA!».
La maggior parte della gente non si lancia in battaglia per vedere come sta la propria spada, ma io lo
feci. All’angolo di Boylston, mi arrampicai su per il muro di un grande parcheggio coperto, arrivai
all’ultimo piano e trovai Jack che combatteva per salvarsi la… be’, forse non per salvarsi la pelle, ma
almeno per salvarsi l’onore.
Jack si vantava spesso di essere la lama più affilata dei Novi Mondi. Era in grado di penetrare
qualunque materiale e poteva combattere contro una decina di nemici in contemporanea. Io tendevo a
credergli, perché lo avevo visto eliminare giganti grossi quanto grattacieli. Eppure il capricida non stava
avendo nessun problema a farlo indietreggiare sul tetto. L’assassino sarà stato anche piccolo, ma era forte
e veloce. La sua spada di ferro scuro mandava scintille cozzando contro Jack. Ogni volta che le due lame
si toccavano, Jack strillava: «Ahia! Ahia!».
Non sapevo se la mia spada fosse davvero in pericolo, ma dovevo aiutarla. Dal momento che non
avevo altre armi e che non me la sentivo di combattere a mani nude, corsi al lampione più vicino e lo
strappai dal cemento.
Detto così, sembra che volessi fare lo sbruffone. Onestamente, non è vero. Il palo era soltanto il primo
oggetto simile a un’arma a portata di mano, a parte una Lexus parcheggiata lì vicino, e non ero abbastanza
forte per brandire un’automobile di lusso.
Attaccai il capricida con i miei sei metri di lampione da guerra. E ottenni la sua attenzione. Mentre lui
si voltava verso di me, Jack menò un fendente, aprendogli un taglio profondo sulla coscia. Il capricida
barcollò, con un grugnito.
Era la mia occasione. Avrei potuto stenderlo. Invece, quando fui a meno di tre metri di distanza, un
ululato lontano squarciò l’aria, pietrificandomi sul posto.
Lo so cosa state pensando: “Cavoli, Magnus, era solo un ululato lontano. Che sarà mai?”.
Ve l’ho detto che non mi piacciono i lupi? Quando avevo quattordici anni, due lupi dagli occhi
baluginanti di luce azzurra avevano ucciso mia madre. E il mio recentissimo incontro con Fenris non
aveva certo contribuito ad aumentare il mio apprezzamento per la specie.
Quel particolare ululato apparteneva decisamente a un lupo. Proveniva da qualche parte oltre il
Boston Common, risuonava fra le mura dei palazzi, e trasformò il mio sangue in freon. Era lo stesso
identico suono che avevo udito la notte in cui era morta mia madre: famelico e trionfante, il latrato di un
mostro che ha trovato la propria preda.
Il lampione mi scivolò dalle mani e cadde sferragliando sull’asfalto.
Jack fluttuò al mio fianco. «Ehm, señor… stiamo ancora combattendo contro questo tizio o…?»
L’assassino indietreggiò barcollando. Il bordo di pelliccia dei suoi pantaloni luccicava di sangue. «E
così ha inizio.» La sua voce era ancora più distorta. «Attento, Magnus. Se andrai a Provincetown, farai il
gioco del tuo nemico.»
Guardai la maschera feroce dell’assassino, e per un attimo fu come se avessi di nuovo quattordici anni
e mi trovassi nel vicolo dietro il mio appartamento, solo, la notte in cui morì mia madre: lo sguardo che
saliva su per le scale antincendio da cui ero appena saltato, l’ululato dei lupi che proveniva dal nostro
soggiorno… E infine le fiamme che esplodevano dalle finestre.
«Chi… chi sei?» balbettai.
L’assassino scoppiò in una risata gutturale. «Domanda sbagliata. Quella giusta è: sei disposto a
perdere i tuoi amici, Magnus? Perché, se non lo sei, faresti meglio a non continuare la ricerca del
martello di Thor.» Arretrò fino al bordo del tetto e si lasciò cadere giù.
Corsi ad affacciarmi, e in quello stesso istante uno stormo di piccioni si levò verso l’alto come una
nuvola grigiazzurra, allontanandosi in un turbinio sopra la foresta di comignoli di Back Bay. Sotto, il
nulla: nessun movimento, nessun cadavere, nessuna traccia del killer.
Jack aleggiava accanto a me. «Avrei potuto eliminarlo. Mi hai preso alla sprovvista. Non ho avuto il
tempo di fare stretching.»
«Le spade non fanno stretching» commentai.
«Oh, chiedo scusa, Mister Esperto di Tecniche di Riscaldamento!»
Un ciuffo di piume di piccione roteò giù dal cielo e atterrò sul cornicione, in una macchia di sangue
dell’assassino. Raccolsi una penna sottile e osservai il liquido rosso che la impregnava.
«Adesso che si fa?» domandò Jack. «E che cos’era quell’ululato?»
Un rivolo d’acqua gelida mi scivolò giù dalle trombe d’Eustachio, lasciandomi un saporaccio freddo
in bocca. «Non lo so» risposi. «Qualunque cosa fosse, ora è finito.»
«Andiamo a vedere?»
«No! Cioè… quando avremo capito da dove proveniva, sarà già troppo tardi per intervenire. E poi…»
Studiai la penna di piccione insanguinata. Mi chiesi come avesse fatto il capricida a sparire così bene, e
che cosa sapesse del martello perduto di Thor. La sua voce distorta riecheggiò nella mia mente: “Sei
disposto a perdere i tuoi amici?”.
Qualcosa in quell’assassino mi era sembrato molto strano… eppure molto familiare.
«Dobbiamo tornare da Sam.» Afferrai l’elsa di Jack e fui travolto dalla stanchezza.
Lo svantaggio di avere una spada che combatte da sola: qualunque cosa Jack facesse, io ne pagavo le
conseguenze non appena lui tornava nella mia mano. Mi sentii invadere le braccia di lividi, uno per ogni
colpo che Jack aveva ricevuto dall’altra spada. Avevo le gambe indolenzite, come se mi fossi allenato
tutta la mattina. Un groppo di emozione mi salì in gola: la vergogna di Jack che si era lasciato mettere
alle strette dal capricida.
«Ehi, amico, almeno lo hai ferito» gli dissi. «È più di quello che sono riuscito a fare io.»
«Sì, be’…» Jack sembrava imbarazzato. Sapevo che non gli piaceva condividere le cose brutte con
me. «Forse dovresti riposare un poco, señor. Non sei in forma…»
«Sto bene» lo rassicurai. «Grazie, Jack. Sei stato bravo.»
Gli ordinai di trasformarsi di nuovo in ciondolo e mi rimisi la runa al collo.
Jack aveva ragione su una cosa: avevo bisogno di riposo. Avrei tanto voluto infilarmi in quella bella
Lexus e farmi un sonnellino, ma se il capricida avesse deciso di fare dietrofront e tornare al Thinking
Cup, se avesse colto Sam alla sprovvista…
Mi allontanai sui tetti, sperando che non fosse troppo tardi.
3
I MIEI AMICI MI PROTEGGONO NON DICENDOMI NULLA DI NULLA.GRAZIE,
AMICI

Arrivato al locale, trovai Samirah china sul corpo di Otis.


I clienti entravano e uscivano aggirando la capra morta. Non sembravano allarmati. Forse vedevano
Otis come un senzatetto svenuto. Alcuni dei miei migliori amici erano senzatetto svenuti. Sapevo quanto
fossero capaci di disgustare la gente.
Sam mi guardò accigliata. Aveva un nuovo livido arancione sotto l’occhio sinistro. «Perché il nostro
informatore è morto?»
«È una lunga storia» risposi. «Chi ti ha dato un pugno?»
«Anche questa è una lunga storia.»
«Sam…»
Liquidò con un gesto vago la mia preoccupazione. «Sto bene. Però tu per favore dimmi che non hai
ucciso Otis perché ha mangiato la mia focaccina.»
«No. Certo se avesse mangiato la mia…»
«Ah, ah. Cos’è successo?»
Ero ancora preoccupato per l’occhio di Sam, ma feci del mio meglio per spiegarle la storia del
capricida. Nel frattempo, la forma di Otis cominciò a svanire, sciogliendosi in riccioli di vapore bianco
come ghiaccio secco. Nel giro di pochi attimi, rimasero soltanto l’impermeabile, gli occhiali da sole, il
cappello a tesa stretta e l’ascia che lo aveva ucciso.
Sam raccolse l’arma dell’assassino. La lama non era più grande di uno smartphone, ma sembrava
affilata. Il metallo scuro era inciso di rune nere come fuliggine.
«Ferro forgiato dai giganti» disse Sam. «Incantata. Perfettamente bilanciata. È un’arma preziosa da
lasciarsi indietro.»
«Meno male. Non vorrei mai che Otis fosse stato ucciso con un’arma scadente.»
Sam mi ignorò. Era diventata piuttosto brava a farlo. «Hai detto che l’assassino indossava un elmo a
forma di testa di lupo?»
«Esatto. Il che restringe le indagini a circa la metà dei cattivi dei Nove Mondi.» Indicai con un gesto
l’impermeabile vuoto di Otis. «Dov’è andato il suo corpo?»
«Oh, starà bene. Le creature magiche si formano dalla foschia del Ginnungagap. Quando muoiono, i
loro corpi si dissolvono e tornano in quella foschia. Otis si dovrebbe riformare dalle parti del suo
padrone, speriamo in tempo per essere macellato per cena.»
Mi sembrò una strana speranza da coltivare, ma non più della mattinata che avevo appena trascorso.
Prima che mi cedessero le ginocchia, mi sedetti. Bevvi un sorso del mio caffè, ormai freddo. «Il
capricida sa che il martello è stato smarrito» riferii. «Mi ha detto che se andiamo a Provincetown faremo
il gioco del nemico. Non credi che stesse parlando di…?»
«Loki?» Sam si sedette di fronte a me, lanciando l’ascia sul tavolo. «Sono sicura che c’entra qualcosa.
C’entra sempre.»
Lo disse con amarezza, e non potevo darle torto. Non le piaceva parlare del dio dei sotterfugi e degli
inganni. A parte il fatto che era malvagio, era anche suo padre.
«Si è fatto vivo di recente?» le chiesi.
«Soltanto in qualche sogno.» Sam girò la propria tazza prima a destra e poi a sinistra, come la
serratura di una cassaforte. «Con bisbigli, avvertimenti. È interessato soprattutto a… lascia perdere. A
nulla.»
«Da come ne parli, a me non sembra nulla.»
Lo sguardo di Sam era intenso e pieno di calore, come legna nel camino un attimo prima di ardere.
«Mio padre sta cercando di rovinarmi la vita» disse. «Non è niente di nuovo. Vuole distrarmi. I miei
nonni, Amir…» Le si incrinò la voce. «Niente che io non riesca a gestire. E non ha nulla a che vedere con
il nostro problema del martello.»
«Sicura?»
Mi bastò la sua faccia per capire che dovevo piantarla. In passato, se insistevo troppo con lei, mi
sbatteva contro un muro e mi schiacciava la gola con un braccio. Il fatto che non mi avesse ancora
strozzato fino a farmi perdere i sensi era un segno dei progressi della nostra amicizia.
«Comunque, Loki non può essere il tuo capricida» riprese Sam «Non sarebbe in grado di lanciare
un’ascia in quel modo.»
«Perché no? Cioè, lo so che tecnicamente è incatenato nel carcere di massima sicurezza per assassini
di Asgard o quello che è, ma non mi pare che abbia problemi a comparirmi davanti quando vuole.»
«Mio padre può proiettare la sua immagine o apparire in sogno. Se si concentra al massimo, per un
tempo limitato, può perfino emanare una quantità sufficiente del suo potere da assumere una forma
corporea.»
«Come quando usciva con tua madre.»
Sam dimostrò di nuovo il suo affetto per me evitando di spaccarmi il cervello. Ehi, era praticamente la
festa dell’amicizia!
«Sì» confermò. «Può aggirare la prigionia come dici tu, ma non può manifestarsi in modo abbastanza
solido da brandire armi magiche. Gli dei l’hanno impedito con uno specifico incantesimo sulle sue
catene. Se fosse in grado di sollevare una lama magica, finirebbe col liberarsi.»
Probabilmente, la cosa aveva senso. Nel nonsenso generale dei miti norreni, chiaro. Mi raffigurai Loki
disteso a gambe e braccia spalancate in una caverna, con le mani e i piedi bloccati da catene fatte con…
bleah, non riuscivo quasi a pensarci! Fatte con gli intestini dei suoi stessi figli. Erano stati gli dei a
predisporre il tutto. A quanto pareva, gli avevano anche piazzato un serpente sopra la testa, in modo che
il veleno che fuoriusciva dalla bocca del rettile gli gocciolasse sul viso per l’eternità. La giustizia di
Asgard non era molto misericordiosa.
«Il capricida però potrebbe comunque lavorare per Loki» osservai. «Potrebbe essere un gigante.
Potrebbe…»
«Potrebbe essere chiunque» concluse Sam. «Da come lo descrivi – il modo in cui si muoveva e
combatteva – potrebbe essere un einherji. Forse perfino una valchiria.»
Mi sentii sprofondare lo stomaco. Immaginai che mi crollasse a terra e rotolasse fino a fermarsi
accanto al cappello di Otis. «Qualcuno del Valhalla. Perché… chi…?»
«Non lo so» disse Sam. «Chiunque sia, lui o lei non vuole che seguiamo questa pista per ritrovare il
martello di Thor. Ma non mi sembra che abbiamo altra scelta. Dobbiamo agire alla svelta.»
«Perché tutta questa fretta?» chiesi. «Il martello è sparito da mesi. I giganti non hanno ancora
attaccato.»
Qualcosa negli occhi di Sam mi ricordò le reti di Ran, la dea del mare, e il modo in cui turbinavano
fra le onde, agitando gli spiriti degli annegati. Non era un ricordo felice.
«Magnus, gli eventi stanno accelerando» affermò. «Nelle mie ultime missioni a Jotunheim… I giganti
sono irrequieti. Hanno fatto ricorso a grandi malie per nascondere quello che stanno combinando, ma
sono sicura che interi eserciti si stanno muovendo. Si stanno preparando a invadere.»
«A invadere… cosa? Dove?»
La brezza le scompigliò lo hijab intorno al viso. «Qui, Magnus. E se vengono a distruggere
Midgard…»
Nonostante il calore del sole, mi sentii gelare. Sam mi aveva spiegato che Boston sorgeva sul punto di
snodo di Yggdrasil, l’Albero del Mondo. Era il luogo più facile per passare dall’uno all’altro dei Nove
Mondi. Immaginai le ombre dei giganti che calavano su Newbury Street, il terreno che tremava sotto i
loro stivali ferrati grandi come carri armati.
«L’unica cosa che li trattiene è la paura di Thor» continuò Sam. «È così da secoli. Non si lanceranno
in un’invasione su larga scala finché non saranno sicuri al cento per cento della sua vulnerabilità. Ma si
stanno facendo più audaci. Stanno cominciando a sospettare che potrebbe essere il momento giusto…»
«Thor non è l’unico dio» osservai. «Che mi dici di Odino, per esempio? O di Tyr? O di mio padre,
Freyr? Loro non possono combattere contro i giganti?»
Non appena lo dissi, l’idea mi sembrò ridicola. Odino era imprevedibile. Quando si faceva vivo, era
più interessato a mostrare presentazioni motivazionali in PowerPoint che a combattere. Non avevo mai
incontrato Tyr, il dio del coraggio e del combattimento. Quanto a Freyr… mio padre era il dio dell’estate
e della fertilità. Se volevi che i fiori sbocciassero, che le messi crescessero, o che un graffietto guarisse,
era lui il tuo uomo. Ma terrorizzare e scacciare le orde di Jotunheim? Forse no.
«Dobbiamo fermare l’invasione prima che avvenga» dichiarò Sam. «E questo significa che dobbiamo
trovare il martello Mjolnir. Sei sicuro che Otis abbia detto Provincetown?»
«Sì. Ha parlato del tumulo di uno spettro. È una cosa brutta?»
«Su una scala da uno a dieci, direi… venti. Abbiamo bisogno di Hearthstone e Blitzen.»
Nonostante le circostanze, la prospettiva di rivedere i miei vecchi amici mi sollevò il morale. «Sai
dove sono?»
Sam esitò. «So come contattarli. Si nascondono in uno dei rifugi segreti di Mimir.»
Cercai di digerire quell’informazione. Mimir, la testa senza corpo del dio che spacciava drink del
pozzo della conoscenza in cambio di anni di schiavitù, che aveva ordinato a Blitz e Hearth di tenermi
d’occhio quando ero un senzatetto perché ero “importante per il destino dei mondi”, che dirigeva il racket
del pachinko e chissà quali altre losche imprese in tutti i Nove Mondi. Mimir aveva una serie di rifugi
segreti. Mi chiesi cosa pretendesse dai miei amici per l’affitto.
«Ma perché Blitz e Hearth hanno bisogno di nascondersi?»
«Te lo spiegheranno loro» rispose Sam. «Non volevano che ti preoccupassi.»
Era così poco divertente che scoppiai a ridere. «Sono spariti senza dire una parola perché non
volevano che mi preoccupassi?»
«Senti, Magnus, tu avevi bisogno di tempo per addestrarti, per sistemarti bene nel Valhalla e abituarti
ai tuoi poteri di einherji. Hearthstone e Blitzen hanno letto un pessimo auspicio nelle rune e hanno deciso
di prendere delle precauzioni, sparendo dalla circolazione. Per questa impresa, però…»
«Un pessimo auspicio. L’assassino ha detto che dovevo prepararmi a perdere i miei amici.»
«Lo so.» Sam sollevò il suo caffè. Le tremavano le dita. «Saremo prudenti, Magnus. Ma per il tumulo
di uno spettro… la magia runica e le capacità di muoversi sottoterra potrebbero essere decisive. Avremo
bisogno di Hearth e Blitz. Li contatterò questo pomeriggio. Poi ti dirò tutto, promesso.»
«C’è dell’altro, quindi?» A un tratto mi sentii come se fossi rimasto seduto al tavolo dei bambini per
le ultime sei settimane. Mi ero perso tutte le conversazioni importanti fra gli adulti. Non mi piaceva il
tavolo dei bambini. «Sam, non c’è bisogno che voi mi proteggiate» protestai. «Sono già morto. Sono un
guerriero di Odino che vive nel Valhalla, per la miseria! Lasciate che vi aiuti.»
«Lo farai. Ma avevi bisogno di addestramento, Magnus. Quando ci siamo lanciati nella ricerca della
Spada dell’Estate, siamo stati fortunati. Per quello che ci aspetta… avrai bisogno di tutte le tue capacità.»
La corrente di paura che intercettai nella sua voce mi fece rabbrividire.
Non ci avevo considerati fortunati quando avevamo recuperato la Spada dell’Estate. Avevamo
rischiato la pelle più di una volta. Tre dei nostri compagni avevano dato la vita per quell’impresa.
Eravamo riusciti a impedire a Fenris il Lupo e a un manipolo di giganti di fuoco di scatenarsi nei Nove
Mondi soltanto per il rotto della cuffia. Se quella si chiamava fortuna, non volevo sapere cosa fosse la
sfortuna.
Sam allungò una mano, prese una delle mie focaccine all’arancia e mirtilli e ne assaggiò un angolino.
La glassa era dello stesso colore del suo occhio livido. «Meglio che io torni a scuola. Non posso saltare
un’altra lezione di fisica avanzata. Questo pomeriggio dovrò gettare un po’ di acqua sul fuoco, a casa.»
Ripensai a quello che aveva detto a proposito di Loki che cercava di rovinarle la vita, e a quell’ombra
quasi impercettibile di dubbio che avevo avvertito quando aveva pronunciato il nome di Amir. «Posso
fare niente per aiutarti? Se passassi da Falafel Fadlan e scambiassi due parole con Amir?»
«No!» Sam arrossì all’istante. «Cioè, no, grazie. Non è proprio il caso. No.»
«Quindi è proprio un no, eh?»
«Magnus, sono certa che hai buone intenzioni. Ho molta carne al fuoco, lo so, ma posso farcela. Ci
vediamo stasera al banchetto per…» Fece una smorfia. «Per la nuova recluta.»
Si riferiva all’anima che era andata a raccogliere. Come leader delle valchirie, Sam doveva essere
presente al banchetto serale per introdurre il nuovo einherji.
Scrutai il livido sotto il suo occhio, ed ebbi una piccola illuminazione. «Questa anima che hai
raccolto… è stata lei a darti un pugno?»
Sam si scurì in viso. «È complicato.»
Avevo già incontrato einherjar violenti, ma nessuno che osasse mollare un pugno a una valchiria. Era
un comportamento suicida, perfino per uno che era già morto. «Che razza di idiota… Aspetta, non è che
c’entra qualcosa quell’ululato che ho sentito provenire dal Common?»
Gli occhi castano scuro di Sam si fecero ancora più accesi, come un incendio che sta per scoppiare.
«Stasera saprai tutto.» Si alzò e raccolse l’ascia dell’assassino. «Adesso torna nel Valhalla. Stasera avrai
il piacere di conoscere…» Fece una pausa, come per soppesare bene le parole. «Mio fratello.»
4
SONO INVESTITO DA UN GHEPARDO

Quando si sceglie un aldilà, la posizione è importante.


Gli aldilà di periferia, come il Folkvanger e il Niflheim, potranno anche offrire un costo di non-vita
più basso, ma l’ingresso del Valhalla a Midgard è proprio nel cuore della città, in Beacon Street, subito
dopo il Boston Common: a pochi passi dai migliori ristoranti e negozi, e a meno di un minuto dalla metro
di Park Street!
Sì, il Valhalla. Soddisferà tutte le vostre esigenze di paradiso vichingo.
(Okay, chiedo scusa. Avevo promesso alla direzione dell’hotel che avrei fatto un po’ di pubblicità. In
ogni caso, tornare a casa era davvero facile.)
Dopo aver comprato un sacchetto di chicchi di caffè al cioccolato, imboccai il Public Garden,
superando il mio vecchio rifugio sotto il ponte pedonale. C’erano un paio di senzatetto seduti fra i sacchi
a pelo, che si dividevano gli avanzi dei bidoni di spazzatura con un piccolo Rat Terrier.
«Ehi, ragazzi.» Gli lasciai il cappello e l’impermeabile di Otis, insieme a tutti i soldi mortali che
avevo: ventiquattro dollari o giù di lì. «Buona giornata.»
Mi guardarono senza fiatare, troppo sbalorditi per rispondere. Continuai a camminare, con la
sensazione di avere un’ascia conficcata nello sterno.
Soltanto perché ero stato ucciso da un gigante di fuoco due mesi prima, ormai vivevo nel lusso. Nel
frattempo, quei due tizi e il loro cane mangiavano dai bidoni della spazzatura. Non era giusto.
Avrei tanto voluto radunare tutti i senzatetto di Boston e dire: “Ehi, c’è una grande villa a pochi passi
da qui con migliaia di comodissime suite e cibo gratis per sempre. Seguitemi!”.
Ma non avrebbe funzionato.
Non si possono portare i mortali nel Valhalla. Non si può nemmeno morire di proposito per essere
ammesso. La tua morte dev’essere un atto di puro altruismo non pianificato, e devi anche sperare che ci
sia una valchiria in circolazione che lo noti.
Naturalmente, il Valhalla resta comunque un posto migliore di tutti quei palazzoni del centro, pieni di
scintillanti appartamenti di lusso vuoti, che sono la quarta o quinta casa di miliardari. Per entrare lì non
serve una morte coraggiosa, ma solo un sacco di soldi. Se i giganti avessero invaso Boston, forse avrei
potuto convincerli a fare qualche demolizione mirata.
Alla fine raggiunsi la facciata dell’Hotel Valhalla a Midgard. Da fuori, sembrava una grande villa a
otto piani di pietra grigia e bianca, l’ennesima costosissima proprietà immobiliare in una fila di edifici
coloniali. Con una differenza: il giardino dell’hotel era cinto da un muro di pietra alto quasi cinque metri,
senza nessun ingresso: la prima di molte difese pensate per impedire ai non-einherjar di entrare
abusivamente.
Io lo scavalcai con un salto e atterrai direttamente nel Boschetto di Glasir.
Due valchirie fluttuavano fra i rami della betulla bianca, raccogliendo il fogliame d’oro a ventiquattro
carati. Mi salutarono con la mano, ma non mi fermai a chiacchierare. Andai dritto alla scalinata
d’ingresso e spinsi i pesanti battenti del portone.
Nell’immensa hall, grande quanto una cattedrale, mi accolse la solita scena. Di fronte a un camino
acceso, gli einherjar della mia età giocavano a scacchi o si rilasciavano (cioè, si rilassavano, ma con
l’ascia da guerra). Altri einherjar con gli accappatoi verdi dell’hotel si rincorrevano fra le colonne di
legno grezzo della hall, giocando a una versione particolarmente letale di acchiapparella. Le loro risate
riecheggiavano fino al soffitto, con le travi che scintillavano di migliaia di lance affastellate.
Guardai il bancone della reception, chiedendomi se il misterioso fratello tirapugni di Sam stesse
facendo il check-in. Ma l’unica persona che vidi era Helgi, il direttore, che scrutava corrucciato lo
schermo del computer. Aveva una manica della divisa verde strappata. I capelli somigliavano ancora più
del solito a una grossa cornacchia morta.
«Non ti avvicinare» mi avvisò una voce familiare. Hunding, il fattorino, mi si piazzò timidamente
accanto, con la faccia rossa e bitorzoluta coperta di nuovi graffi. Come la barba di Helgi, anche la sua
sembrava rimasta vittima di uno spennapolli meccanico. «Il capo è di pessimo umore» aggiunse. «Il
pessimo umore delle bastonate.»
«Nemmeno tu mi sembri molto allegro» osservai. «Che cos’è successo?»
La barba di Hunding tremò di rabbia. «Il nostro nuovo ospite, ecco cos’è successo!»
«Il fratello di Samirah?»
«Bah. Se vuoi chiamarlo così. Non so come le sia saltato in mente di portare quel mostro nel
Valhalla.»
«Mostro?» Mi ricordai in un lampo di X, il mezzo-troll che Samirah aveva portato mesi fa nel
Valhalla. Anche allora l’avevano bersagliata di critiche, solo che poi si era scoperto che X era Odino
sotto mentite spoglie. (È una lunga storia.) «Vuoi dire che il nuovo arrivato è un vero mostro, come Fenris
o…?»
«Peggio, se vuoi la mia opinione.» Hunding si tolse un ciuffetto di baffi dalla targhetta dell’uniforme.
«Quel maledetto argr mi ha quasi strappato la faccia, quando ha visto la sua stanza. E non mi ha neanche
lasciato una mancia decente…»
«Ragazzo!» strillò il direttore dalla reception. «Piantala di bighellonare e vieni subito qui! Hai dei
denti di drago da spazzolare!»
Guardai Hunding. «Ti fa spazzolare i denti ai draghi?»
Hunding sospirò. «E ci vuole un secolo. Devo andare.»
«Ehi, aspetta.» Gli consegnai il sacchetto di chicchi di caffè al cioccolato che avevo preso al Thinking
Cup.
Gli occhi gli si annebbiarono. «Magnus Chase, sei proprio un bravo ragazzo. Potrei abbracciarti a
morte…»
«RAGAZZO!» gridò di nuovo Helgi.
«ARRIVO! CALMA! NON SONO MICA IL CAVALLO A OTTO ZAMPE DI ODINO!» Hunding si
precipitò alla reception, risparmiandomi l’abbraccio mortale.
Per quanto mi sentissi giù, almeno non avevo il lavoro di Hunding. Quel poveretto era arrivato nel
Valhalla soltanto per essere costretto a servire Helgi, il suo nemico giurato durante la vita mortale. Si
meritava un po’ di cioccolato di tanto in tanto. E poi, la sua amicizia si era già rivelata preziosa diverse
volte. Hunding sapeva orientarsi all’interno dell’hotel meglio di chiunque altro e conosceva tutti i
pettegolezzi più succosi.
Mi diressi agli ascensori, chiedendomi cosa fosse un “argr” e perché Sam ne avesse portato uno nel
Valhalla. Ma soprattutto mi chiedevo se avevo ancora tempo per il pranzo e un sonnellino prima della
battaglia del pomeriggio. È importante essere riposati e con la pancia piena quando si muore in
combattimento.
Nei corridoi, qualcuno degli altri einherjar mi lanciò un’occhiata di traverso, ma in generale mi
ignorarono quasi tutti. Certo, avevo recuperato la Spada dell’Estate e sconfitto Fenris il Lupo, ma la
maggior parte dei miei compagni mi vedeva soltanto come il ragazzo che aveva fatto ammazzare tre
valchirie e che aveva quasi dato inizio al Ragnarok, il Giorno del Giudizio. Il fatto che fossi figlio di
Freyr, il dio vani dell’estate, non aiutava. La sua progenie non era comune nel Valhalla. Non ero
abbastanza figo per stare con la cricca più popolare, i figli di divinità guerriere come Thor, Tyr e Odino.
Sì, il Valhalla ha le sue cricche particolari, proprio come alle superiori. E mentre le superiori
sembrano durare un’eternità, il Valhalla è eterno sul serio. Gli unici einherjar che mi accettavano
veramente erano i miei compagni del piano diciannove, ed ero ansioso di tornare da loro.
Nell’ascensore, la musichetta vichinga di sottofondo non migliorò il mio umore. Molte domande mi
frullavano nel cervello: chi aveva ucciso Otis? Di cosa mi voleva avvertire la capra? Chi era il fratello
di Sam? Da cosa si stavano nascondendo Blitz e Hearth? E a chi poteva mai essere saltato in mente di
registrare una versione in norreno antico dei maggiori successi di Frank Sinatra?
Le porte dell’ascensore si aprirono al diciannovesimo piano. Non feci in tempo a mettere piede fuori
che un grosso animale mi superò, urtandomi di striscio. Era così veloce che riuscii solo a mettere a fuoco
una sagoma confusa, nera e dorata, prima che sparisse dietro l’angolo. Poi notai i buchi che mi aveva
lasciato sulle scarpe passandoci sopra. Minuscoli geyser di dolore eruppero dal dorso dei miei piedi.
«Ahia!» esclamai a scoppio ritardato.
«Fermate quel ghepardo!» Thomas Jefferson Jr arrivò di corsa lungo il corridoio, con la baionetta
pronta, seguito dai miei altri due compagni, Mallory Keen e Halfborn Gunderson. Si fermarono quasi
inciampando di fronte a me, tutti e tre sudati e con il fiato grosso.
«L’hai visto?» domandò T.J. «Dov’è andato?»
«Ehm…» Indicai a destra. «Perché c’è un ghepardo nel nostro corridoio?»
«Non è stata una nostra idea, credimi.» T.J. si mise il fucile in spalla. Come al solito, indossava
l’uniforme blu dell’esercito nordista, con la giacca sbottonata sopra una maglietta verde dell’Hotel
Valhalla. «Il nostro nuovo compagno di piano non è felice di essere qui.»
«Nuovo compagno di…» ripetei. «Un ghepardo. Vuoi dire… l’anima che ha portato Sam. Un figlio di
Loki. È un mutaforma?»
«Fra le altre cose» rispose Halfborn Gunderson. Essendo un berserker, aveva la corporatura di uno
yeti e indossava soltanto calzoni di pelle al ginocchio. Spirali di tatuaggi runici gli ricoprivano il petto.
Batté sul pavimento l’ascia da guerra. «Quel meinfretr per poco non mi rompeva la faccia!»
Da quando mi ero trasferito nel Valhalla, avevo imparato una quantità impressionante di parolacce in
antico norreno. “Meinfretr” voleva dire all’incirca qualcosa come “scoreggia pestilenziale”, ovvero il
genere di scoreggia peggiore.
Mallory sfoderò i suoi due pugnali. «Halfborn, alla tua faccia non farebbe male una bella batosta di
tanto in tanto.» Il suo accento irlandese diventava più forte quando era arrabbiata. Con i capelli rossi e le
guance in fiamme, l’avreste potuta scambiare per un gigante di fuoco in miniatura, solo che i giganti
incutevano meno paura. «Mi preoccupa di più l’idea che quel demonio distrugga l’hotel! Hai visto come
ha ridotto la stanza di X?»
«Ha preso la vecchia stanza di X?» chiesi.
«Sì, e non ci ha messo molto a sfasciarla.» Mallory formò una V con le dita, se le avvicinò al mento e
le fece scattare in avanti, nella direzione in cui il ghepardo era fuggito. La signorina Keen era irlandese, e
la sua V non significava né “vittoria” né “pace”, ma qualcosa di molto più volgare. «Siamo andati a
dargli il benvenuto, e abbiamo trovato la stanza devastata. Ti sembra corretto?»
Ripensai al mio primo giorno nel Valhalla. Avevo lanciato un divano dall’altra parte del soggiorno e
sfondato una parete del bagno con un pugno. «Be’… ambientarsi può essere difficile.»
T.J. scosse la testa. «Non così tanto. Quel tipo ha cercato di ammazzarci. E ha detto delle cose…»
«Insulti di prima scelta» ammise Halfborn. «Questo devo concederglielo. Ma non avevo mai visto una
persona sola fare tanti danni. Vieni a dare un’occhiata, Magnus. Guarda tu stesso.»
Mi accompagnarono nella vecchia stanza di X. Non c’ero mai entrato, ma in quel momento la porta era
spalancata. L’interno sembrava arredato da un uragano di categoria 5.
«Santissima Frigg!» Avanzai nell’ingresso calpestando i frammenti dei mobili.
La suite era organizzata in modo molto simile alla mia: quattro sezioni squadrate distribuite intorno a
un atrio centrale, a formare una gigantesca croce. Un tempo, l’ingresso ospitava un divano, una libreria,
un televisore e un caminetto. Ormai era il teatro di un disastro. Solo il caminetto era ancora integro, ma la
mensola aveva enormi squarci, come se il nostro nuovo vicino l’avesse colpita più volte con una grossa
spada.
Da quanto potevo vedere, la camera da letto, la cucina e il bagno erano ridotti nello stesso stato.
Sbigottito, mi avvicinai all’atrio.
Proprio come il mio, aveva un grande albero al centro. I rami più bassi si spandevano per tutto il
soffitto dell’appartamento, intrecciandosi con le travi. I rami superiori si allungavano verso un cielo
azzurro e senza nuvole. Affondai i piedi nell’erba. La brezza che proveniva dall’alto profumava di alloro
di montagna, un odore quasi medicinale. Ero stato in diverse altre suite dei miei amici, ma nessuna aveva
un atrio all’aperto.
«Era così anche per X?» domandai.
«Non direi proprio» rispose Mallory. «L’atrio di X era una grande vasca termica naturale. E tutta la
sua suite era calda, umida e sulfurea come le ascelle di un troll.»
«Mi manca X.» Halfborn sospirò. «Ma sì, è tutto nuovo. Ogni suite si rinnova completamente per
adeguarsi allo stile del suo proprietario.»
Mi chiesi cosa significasse il fatto che il mio atrio era identico a quello del nuovo arrivato. Non mi
piaceva molto avere gli stessi gusti di un felino omicida figlio di Loki che calpestava i piedi alla gente.
Ai margini dell’atrio c’era un mucchio di cocci. Gli scaffali erano stati rovesciati, e l’erba era
cosparsa di ciotole e tazze di ceramica: alcune colorate e smaltate, altre di argilla cruda.
Mi inginocchiai e raccolsi la base di un vaso rotto. «Secondo voi, è stato il nostro gattone a fare tutte
queste ceramiche?»
«Sì.» T.J. indicò con la baionetta. «In cucina ci sono anche un tornio e il forno adatto.»
«E sono di ottima qualità» commentò Halfborn. «Il vaso che mi ha lanciato in faccia era bellissimo e
letale, proprio come la nostra signorina Keen.»
Il viso di Mallory passò dal rosso fragola all’arancione. «Sei un idiota.» Era il suo modo di esprimere
affetto verso il proprio ragazzo.
Mi rigirai il frammento tra le mani. Sulla base, c’erano le iniziali A.F. incise nell’argilla. Non avevo
nessuna voglia di mettermi a ragionare su cosa significassero. Sotto le iniziali c’era un marchio
ornamentale: due serpenti intrecciati a formare un’elaborata S, con le code che si avvolgevano a cappio
sulle rispettive teste.
Mi si intorpidirono le dita, e il frammento mi cadde di mano. Raccolsi un altro vaso rotto: c’erano le
stesse iniziali sulla base, lo stesso marchio serpentino.
«È un simbolo di Loki» spiegò Halfborn. «Significa flessibilità, cambiamento, ambiguità.»
Mi ronzavano le orecchie. Avevo già visto quel simbolo recentemente, nella mia stanza. «Come…
come lo sai?»
Halfborn gonfiò il petto, che era già gonfio di suo. «Come forse ho già detto, ho impiegato bene il mio
tempo nel Valhalla. Ho un dottorato in letteratura germanica.»
«Cosa che ci ricordi almeno dieci volte al giorno» aggiunse Mallory.
«Ehi, ragazzi!» T.J. ci chiamò dalla camera da letto. Rovistò con la baionetta in un mucchio di vestiti e
tirò su uno smanicato di seta verde scuro.
«Che eleganza!» commentò Mallory. «È un modello di Stella McCartney.»
Halfborn aggrottò la fronte. «Come fai a saperlo?»
«Impiego bene il mio tempo nel Valhalla.» Mallory si produsse in una discreta imitazione del vocione
roco di Halfborn. «Ho un dottorato in moda.»
«Oh, piantala, donna!» replicò Halfborn, sorridendo.
«E guardate questo.» T.J. sollevò la giacca di uno smoking, anch’essa verde scuro, con i baveri rosa.
Lo ammetto, ero parecchio confuso. Riuscivo soltanto a pensare al simbolo di Loki su quegli oggetti di
ceramica, e a dove avevo già visto il marchio del serpente. Il tornado di vestiti in quella stanza mi
sembrava incomprensibile. C’era di tutto: jeans, gonne, giacche, cravatte e abiti da sera, in varie
sfumature di verde e rosa.
«Ma quante persone vivono in questo posto?» chiesi. «Il nostro amico ha una sorella?»
Halfborn sbuffò. «T.J., glielo spiego io o glielo spieghi tu?»
FLUUUUUUUUM! Il suono del corno di un ariete riecheggiò nel corridoio.
«È ora di pranzo» annunciò T.J. «Parleremo a tavola.»
I miei amici si diressero alla porta.
Io rimasi accovacciato sui cocci di ceramica, a fissare le iniziali A.F. e i serpenti intrecciati.
«Magnus?» chiamò T.J. «Vieni?»
Avevo perso l’appetito. E ogni desiderio di fare un sonnellino. L’adrenalina mi scorreva nelle vene
come un acuto di chitarra elettrica. «Voi andate pure.» Chiusi le dita intorno al frammento con il simbolo
di Loki. «Io devo controllare una cosa, prima.»
5
LA MIA SPADA HA UNA VITA SOCIALE PIÙ INTENSA DELLA MIA

Meno male che saltai il pranzo.


Il buffet di solito era un campo di battaglia e, distratto com’ero, sarei morto infilzato con una forchetta
da fonduta prima ancora di riuscire a riempirmi il piatto.
La maggior parte delle attività del Valhalla sono all’ultimo sangue: lo Scarabeo, il rafting, la merenda
con i pancake, il croquet. (Vi do una dritta: non giocate mai al croquet vichingo.)
Andai nella mia stanza e feci qualche respiro profondo. Mi aspettavo quasi di trovarla devastata come
quella di A.F. : le due suite erano talmente simili che forse la mia aveva deciso di incasinarsi per
solidarietà. Invece era identica a come l’avevo lasciata, solo più pulita.
Non avevo mai visto il personale che si occupava delle pulizie. In qualche modo, riuscivano sempre a
riordinare mentre io non c’ero. Rifacevano il letto, che ci avessi dormito oppure no. Tiravano il bagno a
lucido anche se ci avevo già pensato io. Mi stiravano e piegavano la biancheria, anche se stavo attento a
non lasciarla in giro. No, sul serio: chi è che si mette a stirare e inamidare perfino le mutande?
Mi sentivo già abbastanza in colpa per avere quella suite enorme tutta per me; l’idea che ci fosse
qualcuno a tenerla in ordine al posto mio non faceva che peggiorare le cose. Mia madre mi aveva
insegnato a occuparmi del mio casino da solo. Eppure, per quanto ci provassi, il personale dell’hotel
faceva la sua incursione ogni giorno e igienizzava tutto senza pietà.
E poi mi lasciavano dei regali, cosa che mi turbava ancora di più delle mutande inamidate.
Mi avvicinai al caminetto. La prima volta che avevo messo piede in quella stanza, c’era solo una foto
sulla mensola: uno scatto di me e la mamma quando io avevo otto anni, sulla cima del Monte Washington.
Da allora, erano comparse altre fotografie, alcune che ricordavo dall’infanzia, altre che non avevo mai
visto. Non sapevo dove il personale dell’albergo le trovasse. Forse, man mano che la suite mi
assomigliava di più, le foto emergevano da sole dal cosmo. Forse il Valhalla aveva una copia di backup
della vita di ogni singolo einherji su iCloud.
In uno scatto c’era mia cugina Annabeth, in cima a una collina, con il Golden Gate e San Francisco
sullo sfondo e i capelli biondi al vento. I suoi occhi grigi scintillavano come se qualcuno le avesse
appena raccontato una barzelletta.
Guardarla mi rendeva felice, perché era la mia famiglia, ma mi rendeva anche ansioso, perché non
faceva che ricordarmi la nostra ultima conversazione.
Secondo Annabeth, la nostra famiglia, i Chase, esercitava una sorta di attrazione fatale sugli antichi
dei. Forse era la nostra personalità vincente. O forse la nostra marca di shampoo. Fatto sta che la madre
di Annabeth, la dea greca Atena, si era innamorata di suo padre Frederick, mentre mio padre, Freyr, si
era innamorato di mia madre, Natalie. Se qualcuno fosse venuto da me quel giorno e mi avesse detto che
– sorpresa! – gli dei aztechi erano vivi e vegeti a Houston e mia cugina di secondo grado era nipote di
Quetzalcoatl, non avrei esitato a crederci. Poi sarei corso urlando a tuffarmi da una rupe nel
Ginnungagap.
Per come la vedeva Annabeth, tutti gli antichi miti sono veri. Si nutrono della memoria e della fede
dell’umanità, e ci sono decine di pantheon ammuffiti che si sfidano mostrando i muscoli come ai bei
vecchi tempi. Finché le loro storie sono vive, anche gli dei sopravvivono. E le storie sono quasi
impossibili da uccidere.
Annabeth mi aveva promesso che ne avremmo riparlato. Per il momento, non ne avevamo avuto
l’occasione. Prima di tornare a Manhattan, mi aveva avvisato che raramente usava il cellulare, perché è
pericoloso per i semidei (anche se io non avevo mai notato problemi). Cercai di non preoccuparmi del
fatto che non avessi sue notizie da gennaio. Però mi chiesi ugualmente cosa stesse accadendo da quelle
parti, in terra greca e romana.
La mia mano scivolò sulla mensola, passando alla foto successiva.
Questa era più difficile da guardare. Mia madre e i suoi due fratelli, tutti sui vent’anni, seduti sui
gradini della villa di famiglia. Mamma era come la ricordavo da sempre: i capelli corti da folletto, il
sorriso contagioso, le lentiggini, i jeans stracciati e la camicia di flanella a quadri. Se fosse stato
possibile collegare un generatore di corrente alla sua gioia di vivere, si sarebbe potuta illuminare tutta
Boston.
Seduto accanto a lei c’era zio Frederick, il padre di Annabeth. Indossava un cardigan troppo grande
sopra una camicia Oxford, e pantaloni beige che gli arrivavano a metà polpaccio o quasi. Aveva il
modellino di un biplano della Prima guerra mondiale in una mano e sorrideva come un superimbranato.
Su un altro gradino, con le mani piantate sulle spalle dei fratelli, c’era il maggiore dei tre, Randolph.
Doveva avere circa venticinque anni, anche se era una di quelle persone che sembrano nate vecchie. I
capelli cortissimi erano così biondi da sembrare bianchi. La faccia larga e rotonda e la corporatura
robusta, un po’ tarchiata, lo facevano assomigliare più a un buttafuori che a un laureato di Oxford.
Nonostante il sorriso, i suoi occhi erano penetranti, e la postura guardinga. Come se da un secondo
all’altro potesse aggredire il fotografo, strappargli di mano la macchina fotografica e distruggerla
pestandoci sopra.
Mamma me l’aveva ripetuto all’infinito: “Non andare da Randolph. Non fidarti di lui”. Lo aveva
evitato per anni, si era rifiutata di portarmi nella villa di famiglia a Back Bay.
Quando avevo compiuto sedici anni, Randolph mi aveva trovato lo stesso. Era stato lui a raccontarmi
del mio padre divino. Poi mi aveva guidato verso la Spada dell’Estate e mi aveva prontamente fatto
ammazzare.
Questo mi rendeva un po’ cauto all’idea di rivedere il buon vecchio zio Randolph, anche se Annabeth
riteneva che avremmo dovuto concedergli il beneficio del dubbio.
Ripensai alle parole che lei mi aveva detto prima di partire per New York: “Fa parte della famiglia. E
la famiglia non si abbandona”.
Una parte di me pensava che avesse ragione. Ma un’altra era convinta che Randolph fosse una
canaglia pericolosa. Non mi fidavo di lui nemmeno un po’; neppure adesso che, con la mia forza di
einherji, in teoria avrei potuto difendermi meglio.
Forse penserete: “Caspita, Magnus, quanto sei severo. È tuo zio. Soltanto perché tua madre lo odiava
e lui ti ha ignorato per la maggior parte della vita finché non ti ha fatto ammazzare, non ti fidi di lui?”.
Sì, lo so. Mi stavo comportando in maniera irragionevole.
Ma quello che mi turbava di più dello zio Randolph non era il nostro passato. Era il modo in cui la
foto dei tre fratelli era cambiata nel corso dell’ultima settimana. A un certo punto, non capisco come, un
nuovo segno era comparso sulla guancia dello zio Randolph: un simbolo, lieve come una macchia
d’umidità. E ormai sapevo cosa significava.
Sollevai il frammento di vaso che avevo preso dalla stanza del nuovo arrivato: le iniziali incise
nell’argilla, i due serpenti intrecciati. Era decisamente lo stesso disegno. Qualcuno aveva marchiato il
volto di mio zio con il simbolo di Loki.
Fissai i due serpenti a lungo, cercando di capirne il senso.
Peccato non poterne discutere con Hearthstone, il mio esperto di rune e simboli. O con Blitzen, che era
un intenditore di oggetti magici. Avrei voluto che Sam fosse lì con me, perché, se stavo impazzendo e
cominciavo a immaginarmi le cose, sarebbe stata la prima a farmi tornare in me a suon di schiaffi.
Ma siccome non avevo nessuno di loro con cui parlare, sganciai il mio ciondolo ed evocai Jack.
«Ehi, señor!» Jack fece una capriola nell’aria. Le rune luccicavano di rosso e di blu. Non c’è niente di
meglio di un po’ di luci da discoteca quando si ha bisogno di fare una conversazione seria. «Meno male
che mi hai svegliato. Questo pomeriggio ho un appuntamento con una lancia molto sexy, e se me lo
perdessi… Oh, te lo giuro, mi infilzerei da solo!»
«Jack, preferirei non sapere nulla dei tuoi appuntamenti con altre armi magiche.»
«E dai. Devi uscire di più! Se vuoi farmi da spalla, ci penso io a combinare. Questa lancia ha
un’amica che…»
«Jack!»
«E va bene.» Sospirò, e la lama mandò meravigliosi bagliori violacei. Le signore lance dovevano
trovarlo molto attraente, non ne dubitavo. «Allora, che succede? Non ci saranno altri ninja da combattere,
spero.»
Gli mostrai il marchio dei serpenti sul frammento di vaso. «Sai qualcosa di questo simbolo?»
Jack fluttuò più vicino. «Sì, certo. È uno dei marchi di Loki. Non ho un dottorato in letteratura
germanica o roba del genere, ma penso che rappresenti… be’, sì, la serpentosità.»
Cominciai a chiedermi se evocarlo fosse stata una buona idea. «Il nostro vicino di corridoio fa il
ceramista. E sul fondo di ogni vaso o piatto c’è questo simbolo.»
«Ah. Direi che è un figlio di Loki.»
«Questo lo so. Ma perché vantarsene? Sam evita perfino di nominare il padre. Invece questo tizio
marchia con il simbolo di Loki tutti i cocci che fabbrica.»
«I gusti sono gusti» commentò Jack. «Una volta ho incontrato un pugnale da lancio con l’elsa di
plastica verde. Ma ci pensi?»
Sollevai la foto dei tre fratelli Chase. «La scorsa settimana, non so quando di preciso, lo stesso
simbolo di Loki è comparso sul volto di mio zio. Che ne pensi?»
Jack si piantò di punta sulla moquette del soggiorno, poi si piegò in avanti finché l’elsa non fu a pochi
centimetri dalla foto. Forse non aveva più una vista tanto penetrante? Certo che per una spada… (Okay,
okay, la smetto.)
«Mmm… Vuoi la mia opinione?»
«Sì.»
«Credo che sia molto strano.»
Aspettai.
Jack non elaborò il concetto.
«E va bene!» esclamai. «Non pensi che potrebbe esserci una connessione fra… non lo so, l’arrivo di
un altro figlio di Loki nel Valhalla, questo marchio assurdo sulla faccia di zio Randolph e il fatto che,
all’improvviso, dopo un paio di mesi di silenzio, dobbiamo trovare subito il martello di Thor per evitare
un’invasione?»
«Se la metti così, hai ragione, è molto strano. Ma Loki compare sempre nei posti più assurdi. E il
martello di Thor…» Jack vibrò sul posto come se tremasse o soffocasse una risata. «Mjolnir finisce
sempre fuori posto. Thor dovrebbe attaccarsi quel martello in faccia con lo scotch, te lo dico io.»
Dubitai di riuscire a togliermi quell’immagine dalla testa entro breve. «Ma come fa a perderlo così
facilmente? E com’è possibile che qualcuno lo rubi? Pensavo che Mjolnir fosse così pesante che nessun
altro fosse in grado di sollevarlo.»
«È un errore comune» ribatté Jack. «Dimentica tutta la storia del “soltanto i più degni possono
sollevarlo”, è roba da film. Il martello è pesante, ma mettiamo che riesci a radunare un buon numero di
giganti… Possono sollevarlo? Sì. Ora, per brandirlo – cioè per lanciarlo nel modo giusto, riprenderlo in
mano, usarlo per evocare i fulmini – ci vuole una certa abilità. Ma ho perso il conto di quante volte Thor
si è addormentato in una foresta per risvegliarsi senza martello, perché magari alcuni giganti in vena di
scherzi sono arrivati all’improvviso con una ruspa e l’hanno fatto sparire. La maggior parte delle volte
Thor lo recupera alla svelta, ammazza i giganti burloni e tanti saluti.»
«Ma non questa volta.»
Jack ondeggiò avanti e indietro. Era la sua versione di una scrollata di spalle. «Immagino che
recuperare Mjolnir sia importante. Il martello è potente. Incute timore nei giganti. Sbaraglia eserciti
interi. Impedisce alle forze del male di distruggere l’Universo eccetera. Personalmente, l’ho sempre
trovato piuttosto noioso. Se ne sta fermo immobile per quasi tutto il tempo. Non dice una parola. E non
invitarlo mai all’Arcobaleno Nucleare per la serata karaoke. Un disastro. Ho dovuto cantare tutte e due
le parti di Love Never Felt So Good.»
Mi chiesi se la punta di Jack fosse abbastanza penetrante da decidersi a tagliare corto. Mi stava dando
decisamente troppe informazioni. Ma immaginai che fosse chiedere troppo. «Un’ultima domanda.
Hunding ha detto che questo nuovo figlio di Loki è un “argr”. Hai idea di che cosa…?»
«Io ADORO gli argr!» Jack fece una capriola di gioia, e per poco non mi affettò il naso. «Per le
brache di Freyr! Abbiamo un argr nel nostro corridoio? È una notizia fantastica!»
«Ehm, e quindi…»
«Una volta a Midgard… eravamo io, Freyr e un paio di elfi, no? Saranno state le tre del mattino e
questo argr si avvicina e…» Jack si sganasciò dalle risate, con le rune che pulsavano in piena modalità
Febbre del sabato sera. «Oh, wow. Quella sì che è stata una nottata epica!»
«Ma che cos’è di preciso un…?»
Qualcuno bussò alla porta.
T.J. fece capolino sulla soglia. «Magnus, scusa il disturbo… Oh, ehi, Jack, come va?»
«T.J.!» esclamò Jack. «Ti sei ripreso da ieri notte?»
T.J. ridacchiò, anche se sembrava imbarazzato. «Quasi.»
Aggrottai la fronte. «Siete andati a divertirvi insieme, ieri sera?»
«Oh, señor, señor» replicò Jack, in tono di rimprovero. «Devi assolutamente uscire con noi qualche
volta. Non puoi dire di aver vissuto veramente finché non hai fatto serata con una baionetta della Guerra
Civile.»
T.J. si schiarì la voce. «Allora, ehm… Magnus, sono venuto a prenderti. La battaglia sta per
cominciare.»
Mi guardai intorno cercando un orologio, poi mi ricordai che non ne avevo uno. «Non è presto?»
«È giovedì» mi rammentò T.J.
Imprecai. I giovedì erano speciali. E complicati. Li odiavo. «Fammi prendere l’attrezzatura.»
«E poi, i corvi dell’hotel hanno rintracciato il nostro nuovo compagno» proseguì T.J. «Penso che
dovremmo stargli vicino. Intendono portarlo in battaglia… che lui lo voglia o no.»
6
ADORO LA ZUPPA DI DONNOLA

Il giovedì significava una cosa sola: draghi. Ovvero una morte ancora più dolorosa del solito.
Avrei portato Jack, ma: 1) pensava che le battaglie di allenamento non fossero degne di lui, 2) aveva
un appuntamento galante con un’alabarda.
Quando io e T.J. arrivammo sul campo di battaglia, gli scontri erano già cominciati. Gli eserciti
affluivano nel cortile interno dell’hotel, una zona di guerra topografica grande quanto uno Stato sovrano,
dotata di boschi, prati, fiumi, colline e finti paeselli. Su tutti e quattro i lati, nel cielo lattiginoso e
fluorescente, file e file di balconi bordati d’oro si affacciavano sul campo. Dai livelli superiori, le
catapulte lanciavano proiettili infuocati verso i guerrieri sottostanti, come letali stelle filanti.
Il suono dei corni riecheggiava per le foreste. Pennacchi di fumo si levavano dalle capanne incendiate.
Gli einherjar si lanciavano all’attacco nei fiumi, combattendo a cavallo e ridendo mentre si abbattevano a
vicenda.
E siccome era giovedì, anche una decina di grossi draghi si era unita alla carneficina.
Gli einherjar più anziani li chiamavano lindworm. Ma, se volete la mia opinione, il nome non rendeva
per niente l’idea. A sentirlo pensavi subito a una specie di verme, di lombrico o che so io, invece erano
creature grosse quanto enormi TIR . Avevano soltanto due zampe anteriori e un paio di coriacee ali
marroni, da pipistrello, troppo piccole per volare davvero. Per la maggior parte del tempo si
trascinavano sul terreno, svolazzando, balzando e piombando sulle prede di tanto in tanto.
Visti da lontano, con la loro pelle marrone, verde e ocra, somigliavano a uno stormo inferocito di
giganteschi serpenti-tacchino carnivori. Ma fidatevi di me: visti da vicino, erano una pessima notizia.
Il nostro obiettivo per la battaglia del giovedì? Restare vivi il più a lungo possibile sebbene i draghi
ce la mettessero tutta per impedircelo. (Spoiler: i draghi vincono sempre.)
Mallory e Halfborn ci aspettavano a bordo campo. Halfborn stava regolando le cinghie dell’armatura
di Mallory.
«Così non va» ringhiò lei. «Me la sento troppo stretta sulle spalle.»
«Donna, vesto l’armatura da secoli.»
«Ma quando mai? Combatti sempre a torso nudo.»
«E ti lamenti?»
Mallory arrossì. «Piantala!»
«Ah, guarda, ecco Magnus e T.J.!» Halfborn mi diede una pacca sulla spalla, slogandomi diverse
giunture. «Il diciannovesimo piano è al completo!»
Tecnicamente, non era vero. Il diciannovesimo piano ospitava un centinaio di guerrieri. Ma il nostro
particolare corridoio – il nostro quartiere nel quartiere, diciamo così – era composto da noi quattro. Più,
ovviamente, il nuovo arrivato.
«Dov’è il ghepardo?» chiese T.J.
In quello stesso istante, arrivò un corvo in picchiata. Sganciò un sacco di iuta ai miei piedi e andò a
posarsi poco lontano, sbattendo le ali e gracchiando con rabbia. Il sacco si mosse. Un animale smilzo e
lungo strisciò fuori dalla iuta: era una donnola marrone e bianca.
La donnola soffiò come un gatto. Il corvo gracchiò.
Io non parlo la lingua dei corvi, ma ero piuttosto sicuro che stesse dicendo alla donnola: “Comportati
bene o ti strappo gli occhi col becco”.
T.J. puntò il fucile contro l’animale. «Sapete, quando il Cinquantaquattresimo Massachusetts stava
marciando verso Darien, in Georgia, sparavamo alle donnole e ci facevamo la zuppa. Non erano niente
male. Dite che dovrei tirare fuori la mia vecchia ricetta?»
La donnola si trasformò. Avevo sentito così tante volte dare del mostro al nuovo arrivato, che quasi mi
aspettavo di vederlo diventare una specie di cadavere vivente, come la dea Hel, o una versione in
miniatura del serpente marino Jormungand. Invece l’animale crebbe e si tramutò in un ragazzo normale,
lungo e smilzo, con un cespuglio di capelli verdi, neri alle radici, come un ciuffo di erbacce strappato da
un prato.
La pelliccia marrone e bianca della donnola si trasformò in vestiti verdi e rosa: scarpe da ginnastica
rosa, alte e piuttosto malconce; pantaloni stretti di velluto a coste verde acido; un gilè di lana a rombi
verde e rosa sopra una maglietta bianca, e un altro maglione rosa di cachemire avvolto intorno alla vita
come se fosse un kilt. Sembrava il completo di un giullare, o la colorazione di un animale velenoso che
manda un avvertimento al mondo: “Assaggiami e muori”.
La nuova recluta alzò lo sguardo, e io mi dimenticai come si fa a respirare. Era il volto di Loki, solo
più giovane: aveva lo stesso sorriso ironico e gli stessi lineamenti spigolosi, la stessa bellezza
ultraterrena, ma senza cicatrici sulle labbra né ustioni di acido sul naso. E gli occhi: uno marrone scuro,
l’altro di ambra chiara. C’è un termine per definire quella caratteristica, le due iridi diverse, ma l’avevo
dimenticato. Mamma li avrebbe chiamati “occhi alla David Bowie”. Io li chiamavo “occhi inquietanti” e
basta.
La cosa più strana di tutte? Ero abbastanza sicuro di averlo già visto prima.
Sì, lo so. Starete pensando che un tipo così non passava di certo inosservato. Come facevo a non
ricordarmi dove ci eravamo incontrati? Ma, quando vivi in strada, la gente dall’aspetto assurdo è
normale. Soltanto le persone normali risultano strane.
Il ragazzo rivolse a T.J. un sorriso bianchissimo, ma senza traccia di calore nello sguardo. «Punta quel
fucile da qualche altra parte, o te lo lego intorno al collo come un cravattino.»
Qualcosa mi diceva che non si trattava di una minaccia a vanvera. Quel tipo aveva l’aria di sapere
davvero come si annoda un cravattino, una specie di scienza arcana abbastanza spaventosa.
T.J. rise. Ma abbassò il fucile. «Non abbiamo avuto l’occasione di presentarci prima, mentre provavi
a ucciderci. Io sono Thomas Jefferson Jr. Loro sono Mallory Keen, Halfborn Gunderson e Magnus
Chase.»
La nuova recluta si limitò a fissarci.
Alla fine, il corvo gracchiò in tono irritato.
«Sì, sì» replicò il ragazzo all’uccello. «Come ho già detto, ora va meglio. Non mi avete incasinato,
perciò è tutto a posto.»
Squaaak!
Il ragazzo sospirò. «Va bene, mi presento. Sono Alex Fierro, piacere di conoscervi. Ora te ne puoi
andare, Mister Corvo. Prometto di non ucciderli, a meno che non sia proprio necessario.»
Il corvo arruffò le penne. Mi lanciò un’occhiataccia, della serie: “Adesso te la vedi tu, bello”, e volò
via.
Halfborn sorrise. «Bene, tutto sistemato! Ora che hai promesso di non ucciderci, cominciamo ad
ammazzare altra gente!»
Mallory incrociò le braccia. «Non vedi che non è neppure armato?»
«Armata» la corresse Alex.
«Come, scusa?» chiese Mallory.
«Sono una lei… a meno che e fino a che non sia io a dirvi il contrario.»
«Ma…»
«E così sia!» intervenne T.J. «Cioè, no… e lei sia!» Si strofinò il collo come se fosse ancora
preoccupato del fucile a cravattino. «Scendiamo in battaglia!»
Alex si stiracchiò.
Lo ammetto, non riuscivo a distogliere lo sguardo. A un tratto la mia intera prospettiva si era
capovolta, come quando guardi un disegno a macchie d’inchiostro e vedi solo la parte nera; poi il tuo
cervello inverte l’immagine e ti rendi conto che le parti bianche compongono una figura completamente
diversa, anche se non è cambiato nulla. Alex Fierro era così, soltanto in rosa e verde. Un secondo prima,
per me era con ogni evidenza un ragazzo. Ora, era con ogni evidenza una ragazza.
«Che c’è?» mi domandò.
«Nulla.»
Sopra di noi, altri corvi cominciarono a volteggiare in cerchio, gracchiando in tono accusatorio.
«Meglio darci una mossa» disse Halfborn. «Ai corvi non piacciono gli scansafatiche in battaglia.»
Mallory estrasse i pugnali e si voltò verso Alex. «Allora vieni, dolcezza. Vediamo quello che sai
fare.»
7
TU O QUALCUNO DEI TUOI CARI AVETE MAI AVUTO I VERMI?

Entrammo in battaglia come una famigliola felice.


Be’, tranne per il fatto che T.J. mi prese per un braccio e mi bisbigliò all’orecchio: «Tienila d’occhio,
okay? Non voglio che mi colpisca alle spalle».
Così restai alla retroguardia insieme ad Alex Fierro.
Ci spostammo nell’entroterra, avanzando con cautela in un campo disseminato di cadaveri: tutta gente
che avremmo rivisto più tardi, viva e vegeta, a cena. Avrei potuto scattare foto molto divertenti, ma i
cellulari con la fotocamera sono caldamente sconsigliati in battaglia. Sapete come vanno le cose.
Qualcuno ti fotografa morto in una posa imbarazzante, la foto diventa popolare su Instagram e resti lo
zimbello di tutti per secoli.
Halfborn e Mallory ci aprirono la strada a colpi di ascia e pugnali attraverso un branco di berserker.
T.J. sparò in testa a Charlie Flannigan. Charlie pensa che sia esilarante farsi colpire lì. Non chiedetemi
perché.
Schivammo una raffica di palle di catrame infuocate, regalo delle catapulte sui balconi. Ingaggiammo
un rapido scontro di spada con Big Lou del piano quaranta: un tipo in gamba, solo che vuole sempre
morire decapitato, ed è difficile, perché è alto più di due metri. Ogni volta cerca di individuare Halfborn
Gunderson sul campo di battaglia perché è uno dei pochi einherjar abbastanza alto da poterlo
accontentare.
In qualche modo, riuscimmo ad arrivare ai margini del bosco senza finire spiaccicati da un lindworm.
Mallory, Halfborn e T.J. si disposero a ventaglio di fronte a noi e ci condussero all’ombra degli alberi.
Avanzai con cautela nel sottobosco, con lo scudo alzato e la spada d’ordinanza nella mano sinistra.
L’arma non era neanche lontanamente bilanciata e letale come Jack, ma era molto meno loquace. Accanto
a me, Alex procedeva tranquilla e disarmata, come se non si preoccupasse minimamente del fatto di
essere il bersaglio più colorato del nostro gruppo.
Dopo un po’, non ne potei più del silenzio. «Io ti ho già visto» dissi. «Non eri al rifugio per giovani
senzatetto in Winter Street?»
Lei tirò su col naso. «Odiavo quel posto.»
«Eh, già. Ho vissuto in strada per due anni.»
Alex inarcò un sopracciglio, cosa che fece sembrare il suo occhio sinistro, quello color ambra, più
pallido e freddo. «E pensi che questo basti a renderci amici?»
Tutto nel suo atteggiamento diceva: “Sta’ alla larga da me. Odiami pure. Non mi importa, basta che mi
lasci in pace”.
Ma io sono un bastian contrario. In strada, un sacco di senzatetto erano aggressivi con me e mi
scansavano in malo modo. Non si fidavano di nessuno. Perché avrebbero dovuto? Questo però non faceva
che rendermi più determinato a conoscerli. I solitari di solito hanno le storie migliori. Sono i più
interessanti e i più scaltri in fatto di sopravvivenza.
Sam al-Abbas doveva avere le sue buone ragioni se aveva portato quella tipa nel Valhalla. E io non
avevo intenzione di mollare Alex Fierro soltanto perché aveva quegli occhi inquietanti, un gilè
sconcertante e la tendenza a investire la gente.
«Cosa intendevi prima?» chiesi. «Quando hai detto…»
«… che sono una lei? Sono gender fluid e transgender, idiota. Cercalo su Internet, se non sai cos’è,
non è compito mio educare la gen…»
«Non mi riferivo a questo.»
«Oh, per favore. Ho visto come mi guardavi a bocca aperta.»
«Be’, sì. Forse per un secondo sono rimasto sorpreso ma…» Non sapevo come continuare senza fare
ulteriormente la figura dell’idiota.
Non era stata la faccenda del genere a sorprendermi. Un’enorme percentuale dei ragazzi senzatetto che
avevo incontrato non si riconosceva nel genere che gli era stato assegnato alla nascita e si identificava in
un altro, oppure sentiva che la dicotomia maschio/femmina non faceva per loro. Erano finiti sulla strada
perché – incredibilmente – le loro famiglie non li accettavano. A volte bisogna essere severi per aiutare
coloro che si amano, giusto? Niente esprime di più questo concetto come cacciare il proprio figlio non-
eteronormativo di casa e lasciare che sperimenti abusi, droghe, alte percentuali di suicidio e una
condizione di pericolo fisico costante. Grazie, mamma e papà!
Quello che mi sorprendeva era il modo in cui io avevo reagito ad Alex, la velocità con cui la mia
impressione di lei si era capovolta, e il genere di emozioni che aveva suscitato in me. Non ero sicuro di
riuscire a esprimere a parole tutto questo senza diventare più rosso dei capelli di Mallory Keen.
«Que… quello a cui mi… cioè, quando hai risposto al corvo, hai detto che eri preoccupata che ti
avessero incasinato. Che volevi dire?»
Alex mi guardò come se le avessi appena offerto una grossa fetta di formaggio puzzolente. «Forse ho
avuto una reazione esagerata. Non mi aspettavo di morire oggi né di essere raccolta da una valchiria.»
«Quella era Sam. È una a posto.»
Alex scosse la testa. «Io non la perdono. Sono arrivata qui e ho scoperto che… lasciamo perdere.
Sono morta. Sono immortale. Non invecchierò mai e non cambierò mai. Pensavo che significasse…» Le
si incrinò la voce. «Non ha importanza.»
Ero sicurissimo del contrario. Avrei voluto chiederle com’era la sua vita a Midgard, perché aveva un
atrio all’aperto come il mio nella sua suite, perché c’erano tutti quegli oggetti di ceramica, perché aveva
voluto mettere il marchio di Loki accanto alle sue iniziali sui suoi lavori. Mi domandai se il suo arrivo
fosse solo una coincidenza… o se invece avesse qualcosa a che fare con il marchio comparso sulla
faccia di zio Randolph nella foto e con la nostra urgenza improvvisa di ritrovare il martello di Thor.
D’altro canto sospettavo che, se avessi provato a chiederle tutte queste cose, lei si sarebbe trasformata
in un gorilla di montagna e mi avrebbe spaccato la faccia.
Per fortuna, quel destino mi fu risparmiato quando un lindworm si schiantò proprio di fronte a noi.

Il mostro piombò a precipizio giù dal cielo, sbattendo le ridicole ali e ruggendo come un grizzly con un
amplificatore da cento watt di potenza. Gli alberi si squarciarono in mille pezzi sotto il suo peso quando
atterrò in mezzo a noi.
«AWRGGG!» urlò Halfborn – che in antico norreno significa: “PORCACCIA LA MISERIA, C’È UN
DRAGO!” – un attimo prima che il lindworm lo spedisse dritto in cielo. A giudicare dalla traiettoria,
Halfborn Gunderson sarebbe finito più o meno nei paraggi del piano ventinove, una bella sorpresa per
chiunque si stesse rilassando sul balcone.
T.J. fece fuoco con il fucile. Il fumo dell’arma si levò innocuo contro il petto del mostro. Mallory
strillò un’imprecazione in gaelico e partì all’attacco.
Il lindworm la ignorò e si voltò verso di me.
Ah, non vi ho detto questo: i lindworm sono brutti. Come se Freddy Krueger e uno zombie di The
Walking Dead avessero un figlio: parecchio brutti. Le facce non hanno né carne né pelle, solo un
carapace di ossa e tendini nudi, zanne luccicanti e orbite buie e profonde. Quando il mostro spalancò la
mascella, riuscii a vedere fino in fondo alla sua gola color carne rancida.
Alex si accovacciò, cercando confusamente qualcosa all’altezza della cintura. «Non è una bella cosa.»
«Ma va’?» Avevo la mano così sudata che a stento riuscivo a impugnare la spada. «Tu vai a destra, io
a sinistra. Lo prendiamo ai fianchi e…»
«No. Intendevo dire che questo non è un drago qualunque. È Grimwolf, uno di quelli più antichi.»
Fissai le orbite scure del mostro. In effetti sembrava più grosso della maggior parte dei draghi che
avevo combattuto, ma di solito ero troppo occupato a morire per chiedergli l’età o il nome.
«Come lo sai?» domandai. «E perché qualcuno dovrebbe chiamare un drago Grimwolf? Non è mica un
lupo!»
Il lindworm soffiò, riempiendo l’aria di un odore di copertoni bruciati. A quanto pareva, era
suscettibile riguardo al proprio nome.
Mallory infilzò le zampe del drago, strillando sempre più inferocita, dato che il mostro la ignorava.
«Voi due avete intenzione di aiutarmi o preferite starvene lì a chiacchierare?» ci rimbeccò.
Con la baionetta, anche T.J. colpì il mostro. La punta dell’arma però si limitò a rimbalzare sulle
costole della creatura. Da bravo soldato, T.J. arretrò di un passo e ci riprovò.
Alex estrasse una specie di corda dai passanti della cintura: un cavo d’acciaio smussato non più
spesso del filo di un aquilone, con semplici perni di legno alle due estremità a mo’ di maniglie.
«Grimwolf è uno dei draghi che vivono alle radici di Yggdrasil. Non dovrebbe essere qui. Nessuno
sarebbe così folle da…» Alex sbiancò all’improvviso, e la sua espressione si indurì come se il volto
fosse fatto di ossa di lindworm. «È stato lui. L’ha mandato per me. Sa che sono qui.»
«Chi?» domandai. «Cosa?»
«Tu pensa a distrarlo» mi ordinò Alex. Balzò sull’albero più vicino e cominciò ad arrampicarsi.
Anche se non si era trasformata in un gorilla, di certo si muoveva con la stessa abilità.
Trassi un respiro tremante. «Tu pensa a distrarlo. Certo.»
Il drago cercò di mordere Alex, staccando diversi rami, mentre lei si muoveva svelta, salendo sempre
più in alto. Altri due o tre morsi, però, e sarebbe diventata uno spuntino per lindworm. Nel frattempo,
Mallory e T.J. continuavano a sferrare colpi alle zampe e alla pancia della creatura, eppure non
riuscivano a convincere il mostro a mangiarli.
“È solo una battaglia di addestramento” mi dissi. “Vai all’attacco, Magnus! Fatti ammazzare come un
professionista!”
Del resto era proprio questo il senso dei combattimenti quotidiani: imparare a battersi contro qualsiasi
nemico, a sconfiggere la paura della morte, perché durante il Ragnarok avremmo avuto bisogno di tutta
l’abilità e di tutto il coraggio possibili.
Allora perché esitavo?
Innanzitutto, sono molto più bravo a curare che a combattere. Oh, e a scappare, naturalmente… in
questo sono un asso. E poi, è difficile tuffarsi a testa bassa verso la propria dipartita, anche se sai che
non sarà permanente, soprattutto se la dipartita in questione prevede una dose abbondante di dolore.
Il drago cercò ancora una volta di mordere Alex, mancando le sue sneaker rosa per un pelo.
Per quanto odiassi morire, odiavo ancora di più vedere i miei compagni che si facevano ammazzare.
Gridai: «FREYR!» e corsi verso il lindworm.
La mia solita sfortuna. Grimwolf fu felicissimo di rivolgermi la propria attenzione. Quando c’è da
scatenare la violenza in qualche antico mostro, ho davvero il tocco magico.
Mallory si scansò per lasciarmi passare, conficcando uno dei suoi pugnali nella testa del drago.
Anche T.J. si ritirò, urlando: «È tutto tuo, amico!».
Come parole d’incoraggiamento prima di una morte straziante, direi che facevano piuttosto schifo.
Sollevai lo scudo e la spada come i simpatici istruttori del corso introduttivo sui Vichinghi mi
avevano insegnato. La bocca del drago si spalancò, rivelando diverse file di denti di scorta, nel caso la
fila più esterna di zanne non mi avesse ucciso abbastanza.
Con la coda dell’occhio, vidi Alex che ondeggiava in cima all’albero: un fascio teso di panni verdi e
rosa, pronto a saltare. E capii il suo piano: voleva balzare sul collo del mostro. Era un piano così stupido
che mi sentii sollevato al pensiero del mio stupido modo di morire.
Il drago colpì. Tirai un fendente verso l’alto, sperando di conficcare la lama nel palato del mostro.
Invece fui accecato da un dolore improvviso. Fu come se mi avessero innaffiato la faccia con la
varechina. Poi mi cedettero le ginocchia, e questo probabilmente mi salvò la vita. Il drago azzannò l’aria
nel punto esatto in cui si trovava la mia testa fino a un millisecondo prima.
Da qualche parte alla mia sinistra, Mallory strillò: «Alzati, scemo!».
Cercai di scacciare il dolore strizzando gli occhi. Ma peggiorò. Un tanfo di carne bruciata mi riempì
le narici.
Grimwolf recuperò l’equilibrio, ringhiando irritato.
Dentro la mia testa, una voce familiare disse: “Suvvia, amico mio, arrenditi!”.
Cominciai a vederci doppio. Riuscivo ancora a distinguere la foresta, il drago che torreggiava sopra
di me, una figurina rosa e verde che saltava verso il mostro dalla cima di un albero. Ma c’era un altro
strato di realtà, una scena candida come un velo che cercava di imprimersi a fuoco sulle mie cornee. Ero
in ginocchio nello studio dello zio Randolph, nella villa di famiglia a Back Bay. In piedi di fronte a me
c’era qualcuno di molto più terribile di un lindworm: Loki, il dio del male.
Mi sorrise condiscendente. “Eccoci qua. Che bello!”
Allo stesso tempo, il drago Grimwolf colpì di nuovo, spalancando le fauci per divorarmi in un
boccone.
8
MI AMMAZZANO PER SALVARMI DA MORTE CERTA

Non ero mai esistito in due posti in contemporanea. Decisi che non mi piaceva.
Nel dolore, ero vagamente consapevole della battaglia in corso nella foresta: Grimwolf stava per
spezzarmi in due con un morso, quando all’improvviso impennò la testa; Alex era appena atterrata a
cavalcioni sul suo collo, e gli stringeva il cavo d’acciaio intorno alla gola così forte che il drago si
dimenava, con la lingua nera e biforcuta a penzoloni.
T.J. e Mallory corsero a farmi da scudo. Urlarono contro il mostro, agitando le armi e cercando di
farlo arretrare.
Io avrei voluto aiutarli. Avrei voluto alzarmi o almeno rotolare via. Ma ero paralizzato, in ginocchio,
intrappolato fra il Valhalla e lo studio dello zio Randolph.
“Te l’avevo detto, Randolph!” La voce di Loki mi attirò ulteriormente dentro la visione. “Visto? Il
sangue non è acqua. Abbiamo una connessione molto forte!”
La scena bianca e velata di prima divenne a colori. Mi trovavo in ginocchio sul tappeto orientale di
fronte alla scrivania di Randolph, e sudavo nel quadrato di luce verde che il vetro istoriato della finestra
disegnava sul pavimento. La stanza sapeva di cera al limone e carne bruciata. Ero abbastanza sicuro che
il secondo odore provenisse dal mio viso.
Di fronte a me c’era Loki: i capelli arruffati del colore delle foglie d’autunno, il bel volto dai
lineamenti scolpiti deturpato dalle ustioni di acido sul naso e sugli zigomi e dalle cicatrici di sutura
intorno alle labbra. Mi sorrise e allargò le braccia contento. “Ti piace il mio completo?”
Indossava uno smoking verde smeraldo con una camicia color porpora ornata di gale, un papillon a
motivo cachemire e una fascia di seta abbinata intorno alla vita (ammesso che la parola “abbinata”
potesse applicarsi in qualche modo a quell’insieme). Dalla manica sinistra della giacca penzolava il
cartellino del prezzo.
Non riuscivo a parlare. Non riuscivo a vomitare, sebbene lo desiderassi. Non riuscivo nemmeno a
proporgli una consulenza gratuita da Blitzen’s Best, l’atelier di Blitz.
“No?” L’espressione di Loki si inasprì. “Te l’avevo detto, Randolph. Avresti dovuto comprarmi anche
quello giallo canarino!”
Mi uscì un suono strozzato dalla gola.
«Magnus, non ascoltare…» disse la voce di mio zio.
Loki tese una mano, coi polpastrelli fumanti. Non mi sfiorò nemmeno, ma il dolore sul mio viso
triplicò, come se qualcuno mi stesse marchiando con un ferro infuocato. Avrei voluto svenire, pregare
Loki di smettere, ma non riuscivo a muovermi.
Mi resi conto che stavo vedendo tutto attraverso gli occhi di zio Randolph. Abitavo il suo corpo,
provavo quello che lui provava. Loki lo stava usando come una sorta di telefono ad agonia per contattare
me.
Il dolore si alleviò, ma il peso di Randolph mi avvolgeva come una cappa di piombo. Mi tremavano i
polmoni e avevo le ginocchia deboli, indolenzite. Non mi piaceva essere un vecchio.
“Suvvia, Randolph, comportati bene” lo rimbrottò Loki. “Magnus, mi scuso per tuo zio. Dov’ero
rimasto? Oh, sì! Il tuo invito!”
Nel frattempo, nel Valhalla, ero ancora paralizzato sul campo di battaglia mentre il drago Grimwolf si
muoveva barcollando intorno, abbattendo intere porzioni di foresta. Una delle sue zampe finì col
calpestare Mallory Keen, spiaccicandola a terra. T.J. urlò e agitò i pezzi del fucile ormai rotto, cercando
di attirare l’attenzione del mostro. In qualche modo, Alex Fierro riusciva a restare a cavalcioni del drago
e stringeva sempre di più il cavo, mentre Grimwolf si scuoteva a più non posso.
“Un matrimonio!” annunciò Loki allegramente. Sollevò un invito verde, poi lo piegò e lo infilò nel
taschino della camicia di Randolph. “Fra cinque giorni! Chiedo scusa per il poco preavviso, ma spero
che riuscirai a venire, soprattutto perché sarà compito tuo portare la sposa e il prezzo della sposa.
Altrimenti, be’… la guerra, l’invasione, il Ragnarok e via dicendo. Un matrimonio sarebbe molto più
divertente! Ora, vediamo. Cosa ti ha già raccontato Samirah?”
Mi sentii stringere il cranio finché non ebbi l’impressione che il cervello mi uscisse dal naso. Un urlo
strozzato mi sfuggì dalle labbra, ma non avrei saputo dire se ero stato io oppure Randolph.
Dal collo del drago, Alex gridò: «Che cos’ha Magnus?».
T.J. corse al mio fianco. «Non lo so! Gli fuma la testa! Brutto segno, vero?»
«Prendi la sua spada!» Alex strinse ancora di più il cavo, e un rivolo di sangue nero prese a scorrere
lungo il collo del drago. «Tieniti pronto!»
“Oh, misericordia!” Loki mi diede – o diede allo zio Randolph – dei colpetti sul naso. La pressione
nella mia testa passò dalla sofferenza assoluta alla tortura moderata. “Samirah non ti ha detto nulla.
Povera piccola, è imbarazzata. Lo capisco! È difficile anche per me concedere in moglie la mia figlia
preferita. Ah, crescono così in fretta!”
Cercai di parlare. Avrei voluto dirgli: “Vattene! Mi fai schifo! Esci dalla mia testa e lascia in pace
Samirah!”.
Ma tutto ciò che venne fuori dalla mia bocca fu: “Gaaaaah!”.
“No, no, non ringraziarmi” disse Loki. “Nessuno di noi vuole che il Ragnarok abbia inizio, no? E io
sono l’unico che può aiutarti! Non è stato un negoziato facile, ma so essere molto persuasivo. Il martello
in cambio della sposa. Un’offerta unica. Ti dirò di più quando ti sarai assicurato il prezzo della sposa.”
«Ora!» strillò Alex. Tirò il cavo così forte che il drago inarcò la schiena, separando le grosse scaglie
che gli proteggevano la pancia.
T.J. si lanciò in avanti e conficcò la mia spada d’ordinanza in un punto morbido sotto il cuore di
Grimwolf. Poi rotolò di lato mentre il mostro si abbatteva a terra, infilzandosi da solo. Alex saltò giù dal
collo del lindworm, con la garrota insanguinata in una mano.
“Sbaglio o era la voce di Alex?” Loki arricciò le labbra sfregiate in una smorfia. “Lei non è invitata al
matrimonio. Rovinerà tutto.” Gli occhi di Loki scintillarono di malizia. “Le daresti un regalino da parte
mia?”
Mi si strinsero i polmoni, perfino più di quando ero un ragazzino asmatico. Il mio corpo cominciò a
surriscaldarsi; provavo un dolore così intenso che i miei organi sembravano sul punto di dissolversi in
molecole; mi bruciava la pelle come lava, emanavo vapore. Loki mi stava incendiando il cervello,
riempiendomi di ricordi che non erano miei: secoli di rabbia e di sete di vendetta.
Cercai di scacciarlo dalla testa. Cercai di respirare.
Alex Fierro si stagliava sopra di me e mi guardava accigliata. Il suo volto e quello di Loki si fusero in
uno solo. «Il tuo amico esploderà» disse, come se fosse una cosa normalissima che accade tutti i giorni.
T.J. si asciugò la fronte. «In che senso… esploderà?»
«Nel senso che Loki lo sta usando per incanalare il proprio potere» spiegò Alex. «È troppo. Magnus
salterà in aria, distruggendo gran parte di questo cortile.»
Strinsi i denti. Riuscii a pronunciare una sola parola: «Scappate».
«Sarebbe inutile» replicò Alex. «Ma non ti preoccupare. Ho la soluzione.»
Si avvicinò, e con tutta calma mi avvolse il cavo di metallo intorno al collo.
Riuscii a pronunciare un’altra parola: «Aspetta».
«È l’unico modo per togliertelo dalla testa.» Lo sguardo castano e ambrato di Alex era indecifrabile.
Mi fece l’occhiolino… o forse era Loki, il cui volto baluginava confusamente sotto la pelle di Alex.
“A presto, Magnus” disse il dio.
Alex tirò i due capi della garrota, e la mia vita si spense.
9
NON FATEVI MAI IL BAGNO CON UN DIO DECAPITATO

Qualcuno per favore può spiegarmi perché devo sognare, quando sono morto?
Me ne stavo lì, a fluttuare nelle tenebre della non-vita, badando ai fatti miei e cercando solo di
superare la mia ultima decapitazione, quando mi ritrovai catapultato in questi incubi vividi e pazzeschi. È
una cosa molto sgradevole.
Ero su uno yacht di nove metri, in mezzo a una tempesta. Il ponte si sollevava. Le onde si schiantavano
sulla prua. Densi scrosci di pioggia si abbattevano sulle finestre della timoniera.
Sulla sedia del capitano c’era lo zio Randolph, una mano stretta sul timone e l’altra avvinghiata alla
cornetta della radio. Il suo impermeabile giallo sgocciolava, formando pozze ai suoi piedi. La testa rasata
luccicava d’acqua salata. Di fronte a lui, i monitor del quadro di controllo mostravano solo interferenze.
«Mayday!» urlava, come se la cornetta fosse un cane testardo che si rifiutava di eseguire un ordine del
suo padrone. «Mayday, maledizione. Mayday!»
Sulla panca alle sue spalle, erano rannicchiate una donna e due bambine. Non le avevo mai conosciute
nella vita vera, ma le riconobbi dalle fotografie nell’ufficio dello zio Randolph. Forse perché ero appena
stato dentro la sua testa, riuscii a estrarre i loro nomi dai suoi ricordi: la moglie, Caroline, e le due figlie,
Aubrey ed Emma.
Caroline era seduta al centro, i capelli castano scuro incollati al viso, le braccia intorno alle spalle
delle figlie. «Andrà tutto bene» diceva alle bambine, lanciando a Randolph un’occhiata che conteneva
una muta accusa: “Perché ci hai fatto questo?”.
Aubrey, la più piccola, aveva i capelli biondi e ondulati dei Chase, ma la testa era china, il volto
concentratissimo. Reggeva in grembo un modellino dello yacht e cercava di mantenerlo in orizzontale,
nonostante i marosi che scuotevano la timoniera, come se in questo modo potesse aiutare il padre.
Emma invece non era così calma. Aveva più o meno dieci anni, i capelli scuri come la madre e gli
occhi cauti e tristi del padre. In qualche modo, sapevo che fra le tre era stata la più entusiasta per quella
gita. Aveva insistito lei per accompagnare il papà nella sua grande avventura: la ricerca della spada
vichinga perduta che avrebbe finalmente dimostrato le sue teorie. Papà sarebbe stato un eroe! Randolph
non era riuscito a dirle di no.
Ora, però, Emma tremava di paura. Un lieve odore di urina mi fece capire che la sua vescica non
aveva retto lo stress. A ogni inclinazione della barca, la piccola strillava e si aggrappava al ciondolo che
aveva al collo, una runa che Randolph le aveva regalato per il suo ultimo compleanno. Non riuscivo a
scorgere bene il simbolo, eppure sapevo qual era:

Othala: eredità. Randolph considerava Emma la propria erede, la prossima, grande storica e archeologa
della famiglia.
«Vi riporterò a casa.» La voce di Randolph si incrinò per la disperazione.
Era stato così sicuro dei suoi piani, le previsioni del tempo erano ottime. Sarebbe stata una facile gita
in mare. Aveva svolto ricerche approfondite e molto accurate. Sapeva che la Spada dell’Estate giaceva
sul fondo della baia di Massachusetts. Aveva immaginato un rapido tuffo, con la benedizione degli antichi
dei di Asgard. Avrebbe riportato la spada in superficie e sollevato la lama alla luce del sole per la prima
volta dopo mille anni. E la sua famiglia avrebbe assistito al suo trionfo.
Invece eccoli là, in balia di una tempesta anomala, lo yacht sbattuto dalle onde come il giocattolo sul
grembo di Aubrey.
La barca si inclinò a dritta. Emma strillò.
Una parete d’acqua mi inghiottì.

Riemersi in un sogno diverso. La mia testa senza corpo ballonzolava in una vasca da bagno che
profumava di sapone alla fragola e asciugamani ammuffiti. Alla mia destra galleggiava un’allegra
paperella di gomma dagli occhi stinti. Alla mia sinistra, fluttuava la testa non altrettanto allegra del dio
Mimir, con alghe e pesciolini morti che gli turbinavano nella barba, e le bolle del bagnoschiuma che gli
uscivano dagli occhi, dalle orecchie e dal naso.
«Datemi retta, dovete andare, ragazzi.» La sua voce riecheggiò sulle piastrelle della stanza. «E non
solo perché è il vostro capo che ve lo dice. È il destino che lo vuole.»
Non stava parlando con me. Accanto alla vasca, seduto su un bellissimo water color avocado, c’era il
mio amico Hearthstone, con le spalle chine e l’espressione di un cane bastonato. Indossava i soliti
pantaloni e giubbotto di pelle nera, una camicia bianca inamidata e una sciarpa a pallini che sembrava
ricavata dal tappetino del gioco Twister. I capelli biondi a spazzola erano pallidi quasi quanto la faccia.
Hearth gesticolava nella lingua dei segni, così in fretta e con così tanta agitazione che riuscii a
cogliere solo una parte delle sue parole: “Troppo pericoloso… morte… proteggere questo idiota”.
Indicò Blitzen, che stava appoggiato al lavandino con le braccia incrociate. Il nano era elegantissimo
come sempre, con un completo tre pezzi color noce intonato alla sua carnagione, un cravattino nero come
la sua barba e un cappello alla Frank Sinatra che in qualche modo riusciva a dare un senso all’insieme.
«Dobbiamo andare» insistette Blitzen. «Il ragazzo ha bisogno di noi.»
Avrei voluto dirgli quanto mi mancavano, quanto avevo voglia di vederli, ma pure che non dovevano
rischiare la vita per me. Purtroppo, quando aprii bocca, l’unica cosa che ne uscì fu un pesce rosso, che
guizzò via come se non vedesse l’ora di liberarsi.
Caddi a faccia in giù fra le bolle e, quando tornai di nuovo in superficie, il sogno era cambiato.
Ero ancora una testa senza corpo, ma adesso galleggiavo dentro un enorme barattolo aperto pieno di
cetriolini sottaceto. Era difficile vederci bene attraverso il liquido verdastro e la curvatura del vetro, ma
sembrava che mi trovassi in un bar. Le insegne pubblicitarie al neon di alcune bibite baluginavano sulle
pareti. Appollaiate sugli sgabelli c’erano enormi sagome sfocate. Il suono di risate e conversazioni
riverberava fin dentro l’aceto del barattolo.
Io non passavo molto tempo nei bar. E di certo non passavo molto tempo a guardarne uno mentre stavo
immerso fra i cetriolini. Ma c’era qualcosa in quel posto che aveva un’aria familiare: la disposizione dei
tavoli, la finestra di vetro molato a rombi sulla parete di fronte, la rastrelliera di calici da vino sospesi
sopra di me come lampade dal soffitto.
Una nuova sagoma entrò nella mia visuale, qualcuno ancora più grosso degli altri avventori e vestito
tutto di bianco. «FUORI!» La voce femminile era molto dura e aspra, come se la persona a cui
apparteneva occupasse il tempo libero a fare i gargarismi con la benzina. «FUORI TUTTI! VOGLIO
PARLARE CON MIO FRATELLO!»
Con un brontolio diffuso, la folla si disperse. Il bar piombò nel silenzio, tranne per il suono di una TV
da qualche parte in fondo alla stanza; una trasmissione sportiva, con un commentatore che diceva: «Oh,
ma l’hai visto quello, Bill? Ha perso completamente la testa!».
Lo presi come un commento personale.
Al capo opposto del bar, qualcun altro si mosse: una figura così scura e imponente che fino a un attimo
prima l’avevo scambiata per un’ombra. «È il mio bar.» La voce era profonda e baritonale, stizzita e
gorgogliante. Se un tricheco potesse parlare, la sua voce sarebbe così. «Perché sbatti sempre fuori i miei
amici?»
«Amici?» strepitò lei. «Sono i tuoi sudditi, Thrym, non i tuoi amici! Comincia a comportarti da re!»
«Lo sto già facendo!» replicò lui. «Distruggerò Midgard!»
«Bah. Ci crederò solo quando lo vedrò coi miei occhi. Se tu fossi un vero re, avresti usato subito quel
martello invece di nasconderlo e tentennare per mesi sul da farsi. E di certo non lo avresti barattato con
quella poco di buono di…»
«È un’alleanza, Thrynga!» tuonò Thrym. Dubitavo che quel tizio fosse davvero un tricheco, ma me lo
immaginai che saltellava da una pinna all’altra, con i baffi dritti. «Tu non capisci quanto sia importante.
Mi servono degli alleati per impadronirmi del mondo degli umani. Quando avrò sposato Samirah al-
Abbas…»
BLOOP!
Non volevo, ma non appena sentii il nome di Samirah urlai dentro il mio barattolo, e una grossa bolla
emerse sulla superficie del liquido verdastro.
«Cos’è stato?» domandò Thrym.
La sagoma bianca di Thrynga si stagliò sopra di me. «Veniva dal barattolo di cetriolini.» Lo disse
come se fosse il titolo di un film horror.
«Be’, che aspetti? Ammazzalo!» urlò Thrym.
Thrynga sollevò uno sgabello del bar, colpì il barattolo e lo scaraventò contro la parete, lasciandomi
sul pavimento, in una pozza di cetriolini, aceto e vetri rotti.

Mi svegliai annaspando nel letto, e mi portai subito le mani al collo.


Grazie a Freyr, la mia testa era di nuovo attaccata al corpo. Però mi bruciavano ancora le narici per
l’odore di cetriolini e bagnoschiuma alla fragola.
Cercai di analizzare quello che era appena successo, distinguendo le parti reali dai sogni. Il drago
Grimwolf. Alex Fierro e la sua garrota. Loki che si insinuava a forza dentro la mia testa, usando in
qualche modo lo zio Randolph per arrivare a me. Il suo avvertimento riguardo a un matrimonio che
sarebbe stato celebrato tra cinque giorni.
Tutto questo era successo davvero.
Purtroppo, i miei sogni sembravano altrettanto concreti. Ero stato con Randolph sulla sua barca il
giorno in cui la sua famiglia era morta. I suoi ricordi adesso si confondevano con i miei. La sua angoscia
mi si era piazzata sul petto come un blocco d’acciaio: provavo per la perdita di Caroline, Aubrey ed
Emma lo stesso dolore che provavo per quella di mia madre. No, di più, in un certo senso, perché
Randolph non era mai riuscito a superarlo. Soffriva ancora, ogni singola ora di ogni singolo giorno.
Il resto delle visioni: Hearthstone e Blitzen che venivano ad aiutarmi. Avrei dovuto sentirmi sollevato,
ma ricordavo i segni frenetici di Hearthstone: Troppo pericoloso. Morte.
E la scena vista dal barattolo di cetriolini. Che accidenti significava, per Helheim? Quei misteriosi
fratelli, Thrym e Thrynga… avrei scommesso cinquanta pezzi d’oro rosso e una cena a base di falafel che
erano giganti. Quello di nome Thrym aveva il martello di Thor e progettava di barattarlo con… – deglutii
per scacciare il saporaccio d’aceto che mi era salito in bocca – … di barattarlo con Sam.
Ripensai alle parole di Loki: “Sarà compito tuo portare la sposa e il prezzo della sposa… Un’offerta
unica”.
Loki doveva essere impazzito. Voleva “aiutarci” a recuperare il martello di Thor dando in sposa
Samirah?
Perché Sam non me ne aveva parlato?
“Povera piccola, è imbarazzata” aveva detto Loki.
Ricordai l’urgenza nella voce di Sam quando avevamo parlato in quel locale, il modo in cui le
tremavano le dita sulla tazza. Non c’era da stupirsi che ci tenesse tanto a ritrovare il martello. Non si
trattava solo di salvare il mondo dall’invasione e via dicendo: questo lo facevamo sempre. Sam voleva
impedire quell’accordo matrimoniale.
Ma come poteva pensare di sentirsi obbligata a onorare un patto così stupido? Loki non aveva nessun
diritto di dirle cosa doveva fare. Lei era promessa ad Amir, e lo amava. Avrei sollevato un esercito di
einherjar, elfi magici e nani ben vestiti e raso al suolo Jotunheim per impedire che obbligassero la mia
amica a fare quel passo.
Comunque stessero le cose, dovevo parlarle di nuovo, e presto.
Mi trascinai giù dal letto. Mi sentivo ancora le ginocchia stanche e doloranti come quelle di Randolph,
anche se sapevo che era soltanto uno scherzo della mia mente. Zoppicai fino all’armadio, rimpiangendo il
bastone da passeggio dello zio.
Mi vestii e recuperai il cellulare in cucina.
Il display segnava le 19:02. Ero in ritardo per il banchetto serale del Valhalla.
Non ci avevo mai messo così tanto a resuscitare dopo una morte in battaglia. Di solito ero uno dei
primi a rinascere. Ripensai ad Alex Fierro che si stagliava sopra di me e mi mozzava serenamente la
testa con la sua garrota.
Controllai i messaggi: ancora nulla da Annabeth. La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi, ma
continuavo a sperare di sentirla. Avevo proprio bisogno dello sguardo esterno di mia cugina in quel
momento, della sua intelligenza, e della rassicurazione che sarei riuscito a gestire tutte quelle assurdità.
La porta si spalancò all’improvviso. Tre corvi volarono dentro, volteggiarono sopra la mia testa e si
posarono sul ramo più basso dell’albero al centro dell’atrio. Mi lanciarono una di quelle occhiatacce che
solo i corvi sanno dare, come se fossi una carcassa indegna del loro pasto.
«Lo so, sono in ritardo» replicai. «Mi sono appena svegliato.»
CRA!
CRA!
CRA!
Traduzione più probabile:
“DATTI!”
“UNA MOSSA!”
“STUPIDO!”
Samirah sarebbe stata al banchetto. Forse sarei riuscito a parlarle.
Afferrai la catenina e me la infilai al collo. Avvertii il calore confortante del ciondolo sulla clavicola,
come se Jack stesse cercando di rassicurarmi. O forse era solo di buon umore dopo un piacevole
appuntamento con una bella lancia. In ogni caso, fui felice di riprenderlo.
Avevo la sensazione che nei cinque giorni a venire non avrei più usato una spada da allenamento. Solo
Jack era all’altezza dell’evoluzione che stavano seguendo gli eventi.
10
IL LUAU VICHINGO PIÙ IMBARAZZANTE DI SEMPRE

Come se il giovedì dei draghi non bastasse, era anche il giorno della serata a tema nella sala banchetti. E
il tema era: luau hawaiano.
Argh!
Capivo che la direzione avesse bisogno di movimentare le cose, soprattutto per gli ospiti che erano lì
ad aspettare il Giorno del Giudizio fin dal Medioevo. Eppure la festa hawaiana mi sembrava
un’appropriazione culturale indebita. (I Vichinghi erano famigerati per questo. E non solo si
appropriavano delle culture altrui, ma le saccheggiavano e le distruggevano completamente.) E poi,
vedere migliaia di einherjar con le camicie hawaiane e i lei di fiori era come ricevere una bomba di
vernice fluorescente in mezzo agli occhi.
La sala banchetti era piena zeppa fino all’ultima fila, quella dei rompiscatole: centinaia di tavoli
disposti come le gradinate di uno stadio, tutti rivolti verso la corte centrale, dove si ergeva un albero
grande quanto il grattacielo del Prudential Center, con i rami che si spandevano per tutto l’ampio soffitto
a cupola. Accanto alle radici, su uno spiedo che ruotava sopra il fuoco, c’era la nostra solita cena: la
carcassa di Saehrimnir, la bestia del banchetto, che quella sera indossava una deliziosa ghirlanda di
orchidee e aveva un ananas grosso quanto il Wisconsin in bocca.
Le valchirie sorvolavano la sala in ogni direzione, riempiendo i boccali, servendo la cena e riuscendo
in qualche modo a non bruciarsi i gonnellini hawaiani sulle torce tiki che brillavano fra i tavoli.
«Magnus!» chiamò T.J., invitandomi con grandi cenni. Aveva appoggiato la baionetta accanto a sé, e
notai che il calcio era tenuto insieme con lo scotch.
Non avevamo tavoli assegnati, per non toglierci il divertimento di combattere per i posti migliori.
Quella sera, i miei compagni del piano diciannove si erano conquistati un’ottima posizione in terza
gradinata, a poche file dal tavolo dei capi.
«Ecco il nostro bell’addormentato!» Halfborn sorrise, coi denti sporchi di arrosto di Saehrimnir.
«Alicarl, amico mio!»
Mallory gli diede di gomito. «Si dice aloha, scemo.» Mi guardò con un’espressione esasperata.
«Alicarl significa “ciccione” in antico norreno, come Halfborn sa perfettamente.»
«Però ci somiglia!» Halfborn batté la propria coppa sul tavolo per attirare l’attenzione di una
valchiria. «Idromele e carne per il mio amico!»
Mi accomodai fra Mallory e T.J., e ben presto avevo una coppa di idromele e un piatto caldo di
Saehrimnir con salsa e focaccine dolci sotto il naso. Nonostante tutte le follie di quella giornata, avevo un
appetito enorme: la resurrezione mi faceva sempre questo effetto. Ci diedi dentro.
Al tavolo dei capi c’era il solito assortimento di trapassati illustri. Riconobbi Jim Bowie, Crispus
Attucks ed Ernie Pyle, tutti morti coraggiosamente in battaglia, insieme a Helgi, il direttore dell’hotel, e
ad altri tizi vichinghi più antichi. Il trono centrale di Odino era vuoto, come al solito.
Sam in teoria riceveva ordini dal Padre Universale di tanto in tanto, ma Odino non era più comparso
di persona dalla fine della nostra impresa di gennaio. Probabilmente stava lavorando al suo prossimo
libro – Mancano cinque giorni al Ragnarok migliore di sempre! – con la relativa presentazione in
PowerPoint.
Alla sinistra dei capi c’era il tavolo d’onore. Quella sera, era occupato soltanto da due persone: Alex
Fierro e la valchiria che la sosteneva, Samirah al-Abbas. Questo significava che, in tutti i Nove Mondi,
nelle ultime ventiquattr’ore, solo Alex aveva avuto una morte degna del Valhalla.
Non era necessariamente una cosa insolita. Il numero oscillava da zero a dodici tutte le sere. Eppure
non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che nessuno fosse morto valorosamente quel giorno
proprio per non sedersi a tavola insieme ad Alex. Due valchirie erano di guardia alle sue spalle, come
per prevenire eventuali tentativi di fuga.
A giudicare da come stava seduta, Sam era piuttosto tesa. Ero troppo lontano per sentire qualcosa, ma
immaginai che la conversazione con Alex andasse più o meno così:
Sam: Imbarazzo.
Alex: Imbarazzo, imbarazzo.
Sam (annuendo): Imbarazzo, imbarazzo, imbarazzo.
Accanto a me, T.J. scansò il piatto vuoto. «Che battaglia, oggi. Non avevo mai visto nessuno fare una
cosa del genere…» Si passò un dito sul collo. «Così in fretta, e così freddamente.»
Resistetti all’impulso di toccarmi la gola. «È stata la mia prima decapitazione.»
«Non è divertente, vero?» commentò Mallory. «Che ti stava succedendo, però? Ti fumava la testa
come se stessi per esplodere…»
Conoscevo i miei compagni da un po’, ormai. Mi fidavo di loro come della mia famiglia; nel senso di
Annabeth, non di zio Randolph. Gli raccontai tutto: Loki nel suo orribile smoking verde che mi invitava a
un matrimonio; i sogni con mio zio, Hearth e Blitz, e i due giganti fratelli al bar.
«Thrym?» Halfborn Gunderson si sfilò alcuni pezzetti di focaccia dalla barba. «Conosco questo nome.
Nelle antiche leggende, era un re dei giganti di terra, ma non può trattarsi di lui. Quel Thrym fu
ammazzato una volta per tutte secoli fa…»
Pensai a Otis la capra, che era in grado di riformarsi dalla foschia del Ginnungagap. «Ma i giganti
non… resuscitano?»
Halfborn tossicchiò. «Non che io sappia. Probabilmente si tratta di un altro Thrym. È un nome comune.
Però, se ha il martello di Thor…»
«Non dobbiamo far sapere in giro che è sparito, probabilmente» dissi.
«Giustissimo» brontolò Mallory. «Hai detto che questo gigante progetta di sposarsi con…» Indicò
Samirah. «Ma Sam sa del suo piano?»
«Glielo devo chiedere» risposi. «In ogni caso, abbiamo cinque giorni. E poi, se questo gigante Thrym
non ottiene la sua sposa…»
«Corre al primo telegrafo e avverte tutti gli altri giganti che ha il martello di Thor» intervenne T.J.
«Dopodiché invaderanno Midgard.»
Decisi di non ricordare a T.J. che da un pezzo nessuno usa più i telegrafi.
Halfborn afferrò il coltello da bistecca e cominciò a usarlo come stuzzicadenti. «Non capisco perché
questo Thrym abbia aspettato tanto. Se ha il martello da mesi, perché non siamo già sotto attacco?»
Non lo sapevo, ma immaginai che ci fosse lo zampino di Loki. Come sempre, stava manipolando gli
eventi da dietro le quinte, bisbigliando all’orecchio della gente. Qualunque cosa sperasse di ottenere da
quell’assurdo matrimonio, però, di una cosa ero certo: Loki non stava cercando di recuperare il martello
di Thor soltanto perché era un tipo in gamba.
Scrutai Alex Fierro da lontano. Ripensai a quello che aveva detto in battaglia, mentre affrontavamo
Grimwolf: “È stato lui. L’ha mandato per me. Sa che sono qui”.
Mallory mi diede un colpetto col gomito. «Stai pensando la stessa cosa, eh? Non può essere una
coincidenza che Alex Fierro sia arrivata qui proprio ora. Pensi che l’abbia mandata Loki?»
Mi sentii come se il pesce rosso della vasca di Mimir mi stesse guizzando di nuovo in gola. «Ma…
come potrebbe far diventare qualcuno un einherji?»
«Oh, amico mio…» T.J. scosse la testa. L’abbinamento camicia hawaiana/giubba militare lo faceva
assomigliare a un detective del telefilm Hawaii Five-0. «Allora come ha potuto sguinzagliare un antico
lindworm nel Valhalla? O aiutare Johnny Reb a vincere la prima battaglia di Bull Run?»
«Cos’è che ha fatto?»
«Quello che voglio dire è che Loki è in grado di fare molte cose» continuò T.J. «Non sottovalutarlo
mai.»
Era un buon consiglio. Però… guardando Alex Fierro, faticavo a credere che fosse una spia. Era
terrificante e pericolosa, questo sì. E una gran rompiscatole, certo. Ma possibile che lavorasse per il
padre?
«Non pensate che Loki avrebbe scelto qualcuno di… meno appariscente?» chiesi. «E poi, quando Loki
era nella mia testa, mi ha detto di non portare Alex al matrimonio, perché avrebbe rovinato tutto.»
«Psicologia inversa» suggerì Halfborn, continuando ad armeggiare con il coltello fra i denti.
Mallory fece un verso di scherno. «E tu che ne sai della psicologia, bisonte che non sei altro?»
«Anzi di più: psicologia tre volte inversa!» Halfborn sollevò le sopracciglia cespugliose. «Loki è un
gran truffatore.»
Mallory gli lanciò una patata arrosto. «Sto solo dicendo che dobbiamo tenere d’occhio Alex Fierro.
Dopo che ha ucciso quel lindworm…»
«Con un po’ d’aiuto da parte mia» specificò T.J.
«… è scomparsa nel bosco. Ha lasciato me e T.J. a cavarcela da soli. All’improvviso ci sono
piombati addosso i draghi rimasti e…»
«E ci hanno ucciso» concluse T.J. «Sì, questo è stato un po’ strano.»
Halfborn grugnì. «Fierro è una figlia di Loki, e un argr. Non ci si può fidare di un argr in battaglia.»
Mallory gli mollò uno schiaffo su un braccio. «Sei disgustoso! Che discorsi fai?»
«Ehi, così mi offendi!» protestò Halfborn. «Volevo solo dire che gli argr non sono dei guerrieri.»
«E va bene, che cos’è un argr?» chiesi. «La prima volta che l’ho sentito, ho pensato che fosse un
mostro. Poi ho pensato che fosse un’altra parola per dire, non so, uno che si arrabbia molto. Invece
cos’è? Una persona transgender o…?»
«Letteralmente, significa “poco virile”» rispose Mallory. «Ed è un insulto mortale per i grossi
guerrieri vichinghi zoticoni come lui.» Punzecchiò il petto di Halfborn con un dito.
«Bah!» commentò Halfborn. «È un insulto soltanto quando lo dici a qualcuno che non è un argr. Le
persone gender fluid non sono una novità, Magnus. C’erano molti argr fra i Norreni, e andava bene così.
Alcuni dei sacerdoti e delle streghe più grandi…» Disegnò dei cerchi nell’aria con il coltello da
bistecca. «Hai capito.»
Mallory mi guardò accigliata. «Il mio ragazzo è un uomo di Neanderthal.»
«Niente affatto!» la rimbeccò Halfborn. «Sono un uomo moderno e illuminato dell’865 e.v. Certo, se
vai a chiederlo a uno di quegli einherjar del 700 e.v., be’… quelli non hanno una mentalità così aperta
rispetto a queste cose.»
T.J. bevve un sorso di idromele, con lo sguardo perso in lontananza. «Durante la guerra, avevamo un
esploratore della tribù Lenape. Si faceva chiamare Madre William.»
«Ma è un nome di battaglia terribile!» si lamentò Halfborn. «Chi tremerebbe di paura di fronte a
qualcuno che si chiama Madre William?»
T.J. si strinse nelle spalle. «Ammetto che la maggior parte di noi non sapeva come comportarsi con
lui, o lei. Continuava a cambiare identità di giorno in giorno. Diceva di avere due spiriti in un corpo solo,
un maschio e una femmina. Ma lasciate che ve lo dica: era un grande esploratore. Ci salvò da
un’imboscata durante la marcia in Georgia.»
Osservai Alex che mangiava la sua cena, piluccando pezzettini di carote e patate dal piatto. Era
difficile credere che poche ore prima quelle stesse dita delicate avevano abbattuto un drago – e mozzato
la mia testa – con un cavo di metallo.
Halfborn si sporse verso di me. «Non c’è da vergognarsi se provi attrazione, Magnus.»
Per poco non mi strozzai con un pezzo di Saehrimnir arrosto. «Cosa? No, io non la stavo…»
«… fissando?» Halfborn sorrise. «Sai, i sacerdoti di Freyr erano molto fluidi. Durante la festa del
raccolto, indossavano lunghe vesti e si esibivano in danze stupefacenti…»
«Mi stai prendendo in giro.»
«No, no.» Halfborn ridacchiò. «Una volta a Uppsala incontrai un’adorabile…»
La sua storia fu interrotta bruscamente dal suono dei corni, che riecheggiò per tutta la sala.
Al tavolo dei capi, Helgi si alzò. Rispetto a quella mattina, si era rammendato la giacca del completo
e spuntato la barba, ma indossava un elmo da guerra troppo grande, probabilmente per nascondere i danni
che Alex Fierro aveva causato alla sua acconciatura da cornacchia stecchita. «Einherjar!» tuonò. «Questa
sera, soltanto un guerriero caduto si è unito a noi, ma mi dicono che la storia della sua morte è davvero
impressionante.» Lanciò un’occhiata accigliata a Samirah al-Abbas, come a dire: “Ti conviene che lo
sia”. «Alzati, Alex Fierro, e stupiscici con le tue gesta gloriose!»
11
COSA SI DEVE FARE PER UNA STANDING OVATION?

Alex non sembrava molto entusiasta all’idea di doverci stupire. Si alzò, aggiustandosi il gilè, poi scrutò
la folla come per sfidare a duello tutti i guerrieri, uno dopo l’altro.
«Alex, figlio di Loki!» cominciò Helgi.
«Figlia» lo corresse lei. «A meno che non sia io a dirvi il contrario.»
A un’estremità del tavolo dei capi, Jim Bowie tossì risputando l’idromele nella coppa. «Eh?»
Ernie Pyle gli borbottò qualcosa all’orecchio. Avvicinarono le teste. Pyle tirò fuori penna e taccuino
da giornalista. Probabilmente stava tracciando uno schemino per spiegare a Bowie un paio di cosette.
La faccia di Helgi si irrigidì appena. «Come desideri, figlia di Loki…»
«E non sentitevi obbligati a nominare mio padre» aggiunse Alex. «Non mi sta molto simpatico.»
Una risatina nervosa si diffuse nella sala. Accanto ad Alex, Samirah strinse i pugni come per scaldarsi
i muscoli da strangolatrice. Dubitai che ce l’avesse con Alex – neanche a lei piaceva Loki – ma se per
qualche ragione i capi avessero deciso che Alex non era degna del Valhalla, Sam rischiava di essere
cacciata dalle valchirie ed esiliata a Midgard. Lo sapevo perché era già successo quando aveva
presentato me.
«E va bene, persona figlia di un certo genitore.» La voce di Helgi era secca come l’orbita vuota di
Odino. «Guardiamo le tue imprese, per gentile concessione di Valchiria TV .»
Ah, questi Vichinghi moderni e la loro tecnologia di ultimissima generazione…
Intorno al tronco dell’albero di Laeradr, si accesero enormi schermi olografici, che cominciarono a
trasmettere le immagini riprese dalla videocamera da valchiria in dotazione di Samirah.
Sam era un’esperta di trigonometria, calcolo e aviazione. Ci si sarebbe aspettato che fosse in grado di
usare una videocamera. Eh, no. Dimenticava sempre quando bisognava accenderla e spegnerla. La metà
del tempo, i suoi video erano sbilenchi perché teneva male l’apparecchio. A volte registrava intere
missioni in cui si vedevano soltanto le sue narici.
Quella sera la qualità del video era buona, ma Sam aveva iniziato a registrare decisamente troppo
presto: l’indicatore segnava le 7:03 del mattino. Fummo omaggiati di una veduta del soggiorno dei suoi
nonni: uno spazio piccolo ma ordinato, con un tavolino e due divani di pelle scamosciata. Sopra il
caminetto c’era un’opera di calligrafia araba: un sinuoso disegno a inchiostro dorato su una pergamena
bianca. Sulla mensola facevano bella mostra di sé varie foto di Sam in età diverse: da bambina con un
aeroplanino, alla scuola media sul campo da calcio, alle superiori con un grosso trofeo in mano.
Non appena Sam si rese conto di dove il video era iniziato, soffocò un grido. Ma non poteva fare nulla
per fermarlo.
Il video fece una panoramica a sinistra e inquadrò un tinello, dove tre anziani bevevano il tè in
raffinate tazze dai bordi dorati. Uno dei tre lo conoscevo: era Abdel Fadlan, il proprietario di Falafel
Fadlan. La sua criniera di capelli d’argento e l’elegante completo blu erano inconfondibili. Gli altri due
dovevano essere i nonni di Sam, Jid e Bibi. Jid somigliava a Babbo Natale, oppure a Ernest Hemingway:
petto largo e faccia tonda, con la barba bianca e le rughe di chi sorride spesso, anche se quel giorno
sembrava accigliato. Indossava un completo grigio che probabilmente gli era calzato a pennello vent’anni
e parecchi chili prima. Bibi portava un bell’abito ricamato rosso e oro, con uno hijab in tinta. Sedeva
dritta come una regina e versava il tè al suo ospite, il signor Fadlan.
Dall’angolatura della videocamera, capii che Samirah era seduta su una poltrona fra i due divani. A
pochi metri di distanza, di fronte al caminetto, Amir Fadlan camminava avanti e indietro in preda
all’agitazione, passandosi le mani fra i lucidi capelli neri. Era bello come sempre, con i jeans stretti, la
maglietta bianca e il gilè alla moda, ma non c’era traccia del suo abituale sorriso rilassato. Sembrava
angosciatissimo, come se qualcuno gli avesse appena calpestato il cuore.
«Sam, io non capisco» disse. «Io ti amo!»
Dall’intera sala banchetti si levò un: «Ooh!».
«Piantatela!» li folgorò Sam, riuscendo solo a suscitare l’ilarità generale. Capii che ce la stava
mettendo tutta per non piangere.
Il video proseguì in avanti-veloce. Vidi Sam che volava da me al Thinking Cup e riceveva il
messaggio di un possibile codice 381.
Volò via dal locale e sfrecciò attraverso il parco verso Downtown Crossing.
Poi si abbassò bruscamente di quota e rimase a fluttuare sopra un vicolo cieco fra due cinema
fatiscenti. Sapevo dove si trovava quel posto, perché era dietro l’angolo di un rifugio per senzatetto. I
drogati andavano volentieri in quel vicolo, e questo lo rendeva il posto ideale per essere picchiati,
rapinati o uccisi.
Nel momento in cui arrivò Sam, era anche il posto ideale per farsi attaccare da lupi malvagi e
baluginanti di luce.
A ridosso del muro che lo chiudeva, tre grosse bestie avevano messo all’angolo un vecchio senzatetto.
L’unica cosa che separava l’uomo da morte certa era un carrello della spesa pieno di lattine da riciclare.
Mi si gelò la cena nello stomaco. Quei lupi suscitavano troppi ricordi dell’assassinio di mia madre.
Anche se non fossero stati grossi quanto cavalli, avrei capito subito che non erano comuni lupi di
Midgard. Una nebbiolina azzurra e fosforescente impregnava le loro pellicce, mandando increspature di
luce simili a quelle di un acquario sui muri di mattoni del vicolo. I musi poi erano troppo espressivi, con
gli occhi quasi umani e le labbra atteggiate in un ghigno. Quei lupi erano figli di Fenris. Si muovevano
avanti e indietro, ringhiando e fiutando l’aria, godendosi l’odore della paura che emanava dalla preda.
«Indietro!» gracchiava l’uomo, brandendo il carrello come un’arma. «Ve l’ho detto, non voglio! Non
ci credo!»
Nella sala banchetti, mormorii di disapprovazione si diffusero tra gli einherjar.
Avevo sentito storie su alcuni semidei moderni – figli e figlie delle divinità norrene – che rifiutavano
di accettare il proprio destino. Voltavano le spalle all’assurdità dei Nove Mondi. Anziché combattere
quando comparivano i mostri, correvano a nascondersi. Alcuni si convincevano di essere pazzi patentati,
s’imbottivano di medicinali e si facevano ricoverare negli ospedali. Altri diventavano alcolizzati o
drogati e finivano sulla strada. Quel tizio doveva essere uno di loro.
Riuscivo a percepire il disgusto e la pietà dell’intera sala banchetti. Forse quel vecchio aveva
trascorso tutta la vita a nascondersi, ma ormai era in trappola. Anziché ascendere al Valhalla come un
eroe, sarebbe morto da codardo e sarebbe finito nella fredda terra di Hel: il fato peggiore che un einherji
potesse immaginare.
Poi, all’imboccatura del vicolo, una voce gridò: «Ehi!».
Alex Fierro era arrivata. Se ne stava là a gambe larghe, con i piedi ben piantati a terra e i pugni chiusi
in vita, come Supergirl (se Supergirl avesse i capelli verdi e sfoggiasse un gilè rosa e verde).
Probabilmente passava di lì per caso. Forse aveva udito il vecchio che gridava o i lupi che
ringhiavano. Non aveva motivo di farsi coinvolgere. I lupi erano così concentrati sulla loro preda che non
l’avrebbero mai notata.
Eppure attaccò lo stesso, e si lanciò in battaglia tramutandosi in un pastore tedesco.
Nonostante la differenza di taglia, riuscì a mandare al tappeto il lupo più grosso e gli affondò i denti
nel collo. La bestia si divincolava e ringhiava, ma Alex saltò via prima che riuscisse a morderla. Mentre
il lupo ferito barcollava, gli altri due passarono all’attacco.
Rapida come acqua corrente, Alex riprese la forma umana, estrasse il cavo d’acciaio e lo usò come
una frusta. Con un solo schiocco, uno dei lupi perse la testa.
«Ooh!» esclamò il pubblico con approvazione.
Prima che potesse colpire di nuovo, però, l’altro lupo la placcò, e si ritrovarono avvinghiati a rotolare
nel vicolo. Alex si tramutò di nuovo in un pastore tedesco, e ci dava dentro con artigliate e morsi, ma non
era nella stessa categoria di peso del suo avversario.
«Trasformati in qualcosa di più grosso» mi scoprii a mormorare.
Ma, chissà per quale motivo, Alex non lo faceva.
Mi erano sempre piaciuti i cani, più della maggior parte delle persone, e di sicuro più dei lupi. Fu
difficile continuare a guardare mentre il lupo affondava le zanne nel pastore tedesco, squarciando il muso
e la gola di Alex, impregnando la sua pelliccia di sangue. Alla fine, Alex riuscì a mutare forma,
riducendosi a una lucertola e schizzando via da sotto il suo nemico. Tornò umana a pochi metri di
distanza, con i vestiti a brandelli e il volto una maschera d’orrore piena di graffi e morsi.
Purtroppo, il primo lupo si era ripreso. Ululò inferocito: un suono che riecheggiò per tutto il vicolo,
riverberandosi sugli edifici circostanti. Mi resi conto che era lo stesso ululato che avevo sentito
dall’altra parte della città mentre affrontavo il capricida.
Insieme, i due lupi rimasti avanzarono verso Alex, con gli occhi azzurri che luccicavano di odio.
Lei armeggiò goffamente con il maglione che portava allacciato in vita, e all’improvviso fu evidente
una delle ragioni per cui lo indossava: nascondeva un coltello da caccia alla cintura. Estrasse l’arma e la
lanciò verso il senzatetto. «Aiutami!» urlò. «Combatti!»
La lama scivolò rapidamente sull’asfalto. Il vecchio si ritrasse, schermandosi con il carrello dalla
battaglia.
I lupi si tuffarono su Alex.
Alla fine, lei cercò di tramutarsi in qualcosa di più grosso – un bufalo, forse, o un orso, non si capiva
bene – ma immagino che non avesse più abbastanza forza. Si accasciò, di nuovo umana, e i lupi la
placcarono e la costrinsero a terra.
Alex combatté ferocemente, stringendo la garrota intorno alla gola di un lupo e bersagliando l’altro di
calci, ma erano in due contro una e lei aveva perso troppo sangue. Riuscì a soffocare il lupo più grosso,
che collassò, schiacciandola sotto il suo peso. L’ultima bestia l’azzannò alla gola. Alex gli strinse le mani
al collo, ma i suoi occhi si stavano annebbiando.
Fuori tempo massimo, il vecchio raccolse il coltello. Si avvicinò spaventato all’ultimo lupo e, con un
urlo inorridito, gli conficcò la lama nella groppa.
Il mostro crollò a terra, morto.
L’uomo arretrò dalla scena: tre lupi morti, con la pelliccia che mandava ancora deboli nubi di
fluorescenza azzurra, e Alex Fierro, con l’ultimo fiato che le tremava nel petto e una pozza di sangue che
le si spandeva intorno come un’aureola.
Il vecchio lasciò cadere il coltello e corse via singhiozzando.
La videocamera zumò in avanti mentre Samirah al-Abbas calava verso la guerriera caduta. Sam tese il
braccio. Dal corpo spezzato di Alex Fierro, uno spirito tremolante di luce dorata fluttuò verso l’alto, col
volto già corrucciato per quella convocazione inaspettata.
Il video si spense. Non mostrò Alex che litigava con Sam e le mollava un pugno in un occhio, né il
caos che aveva provocato al suo arrivo nel Valhalla. Forse la videocamera aveva finito le batterie. O
forse Sam aveva interrotto il video lì di proposito, per esaltare ancora di più l’eroismo di Alex.
Nella sala banchetti piombò il silenzio. Si sentiva solo il crepitio delle torce tiki. Poi gli einherjar
scoppiarono in un applauso.
I capi si alzarono. Jim Bowie si asciugò una lacrima dagli occhi. Ernie Pyle si soffiò il naso. Perfino
Helgi, che fino a pochi minuti prima sembrava così arrabbiato, piangeva senza remore e batteva le mani
ad Alex Fierro.
Samirah si guardò intorno, sbigottita per quella reazione.
Alex invece era praticamente una statua, con lo sguardo fisso nel punto in cui il video era scomparso,
come se potesse rimandare indietro la propria morte con la sola forza del pensiero.
Quando l’ovazione si spense, Helgi alzò il calice. «Alex Fierro, hai combattuto contro ogni
probabilità di successo, senza mai pensare alla tua salvezza personale, per proteggere un uomo più
debole. Hai offerto a quest’uomo un’arma, un’occasione per redimersi in battaglia e meritarsi il Valhalla!
Questa dimostrazione di coraggio e onore in una figlia di Loki è… è davvero eccezionale.»
Sam aveva tutta l’aria di voler dire qualche bella parolina a Helgi, ma fu interrotta da un altro
applauso.
«Vero è che abbiamo imparato a non giudicare troppo duramente i figli di Loki» continuò Helgi.
«Recentemente, Samirah al-Abbas è stata accusata di comportamento non consono a una valchiria, e
l’abbiamo perdonata. E ora ecco un’altra prova della nostra saggezza!»
Altri applausi. I capi annuirono e si scambiarono pacche sulle spalle, come a dire: “Sì, caspita,
evviva! Siamo davvero saggi e di mentalità aperta! Ci meritiamo un premio!”.
«E poi, un eroismo del genere da parte di un argr!» Helgi sorrise agli altri capi per condividere il
proprio stupore. «Non so nemmeno cosa dire. Davvero, Alex Fierro, hai superato ogni aspettativa che
potessimo mai avere nei confronti di qualcuno come te. Brindiamo ad Alex Fierro!» Alzò il calice. «Alla
morte in battaglia!»
«ALLA MORTE IN BATTAGLIA!»
Nessun altro sembrò notare con quanta forza Alex stringeva i pugni, né l’espressione truce che rivolse
al tavolo dei capi. Secondo me, non aveva preso molto bene alcune parole del brindisi.
Helgi non si prese la briga di chiamare una vala, ovvero una veggente, per leggere il destino di Alex
nelle rune come aveva fatto al mio arrivo nel Valhalla. Probabilmente pensava che i capi già sapessero
che Fierro avrebbe fatto grandi cose quando saremmo andati incontro alla morte, nel Ragnarok.
Gli einherjar entrarono in piena modalità festa. Ridevano, si sfidavano alla lotta e ordinavano a gran
voce altro idromele. Le valchirie ronzavano intorno con i gonnellini d’erba e le ghirlande hawaiane,
riempiendo boccali più in fretta che potevano. I musicisti attaccarono motivetti dance nordici simili a un
death metal acustico eseguito da un branco di gatti selvatici.
Quanto a me, due cose smorzarono la mia voglia di festeggiare.
La prima fu quando Mallory Keen si voltò e disse: «Pensi ancora che Alex sia un’einherji legittima?
Se Loki voleva piazzare un agente nel Valhalla, non avrebbe potuto architettare una presentazione
migliore…».
A quell’idea mi sentii come se fossi di nuovo sulla barca di Randolph, sballottato da onde di cinque
metri. Volevo dare ad Alex il beneficio del dubbio. Sam mi aveva detto che era impossibile meritarsi il
Valhalla con l’inganno. Tuttavia, da quando ero diventato un einherji, l’impossibile era diventato il mio
pane quotidiano: lo mangiavo a colazione, pranzo e cena.
La seconda cosa che successe: intravidi un guizzo di movimento da qualche parte sopra di me. Lanciai
un’occhiata al soffitto, aspettandomi di vedere una valchiria volante o forse uno degli animali che
vivevano sull’albero di Laeradr. Invece, su in alto, a una trentina di metri da terra, quasi nascosta
nell’ombra, una sagoma vestita di nero si ritrasse nell’incavo di un ramo, battendo lentamente le mani
mentre osservava i nostri festeggiamenti. In testa indossava un elmo d’acciaio con la maschera di un lupo.
Prima ancora che potessi dire: “Ehi, guardate, c’è un capricida sull’albero”, battei le palpebre e la
sagoma non c’era più. Dal punto in cui era appollaiato, cadde una fogliolina, atterrando nella mia coppa
di idromele.
12
SAMIRAH E MAGNUS PARLANO SEDUTI SU UN ALBERO

Mentre la folla si riversava fuori dalla sala, intravidi Sam che volava via.
«Ehi!» gridai, ma non avrebbe mai potuto sentirmi in mezzo al chiasso di tutti quegli einherjar
scalmanati. Mi staccai il ciondolo dal collo ed evocai Jack. «Vola dietro Sam, per favore. Dille che ho
bisogno di parlarle.»
«Posso fare di meglio» replicò Jack. «Aggrappati.»
«Cavoli, vuoi dire che puoi trasportarmi?»
«Se il tratto è breve, sì.»
«Perché non me l’hai detto prima?»
«Certo che te l’ho detto! E poi è nel manuale di istruzioni.»
«Jack, tu non hai un manuale di istruzioni.»
«Dammi retta, aggrappati. Certo, quando mi ordinerai di tornare un ciondolo, ti sentirai…»
«… come se mi fossi trasportato di peso nell’aria» conclusi. «Quindi perderò i sensi o roba del
genere. Va bene. Andiamo.»
Il mio volo con la Jack Air non fu per niente aggraziato. Non somigliavo a un supereroe o a una
valchiria. Somigliavo a un tizio appeso all’elsa di una spada che schizzava verso il cielo, con le chiappe
strette e le gambe che ondeggiavano a più non posso. Persi una scarpa da qualche parte sopra la
ventesima gradinata. E rischiai di schiantarmi a terra un paio di volte. Per il resto, sì, fu un’esperienza
fantastica.
Quando arrivammo a pochi metri da Sam, gridai: «Alla tua sinistra!».
Lei si voltò, sospesa a mezz’aria. «Magnus, ma cosa…? Oh… ciao, Jack!»
«Come butta, Leonessa? Possiamo atterrare da qualche parte? Questo qui pesa.»
Ci posammo sul ramo più vicino. Dissi a Sam del capricida in agguato sull’albero di Laeradr, e lei
schizzò via per allertare le valchirie. Cinque minuti dopo tornò indietro, giusto in tempo per interrompere
Jack e la sua interpretazione di Hands on Me.
«È inquietante» disse Sam.
«Lo so» concordai. «Jack non sa cantare Selena Gomez.»
«No, mi riferivo all’assassino» chiarì Sam. «È scomparso. Abbiamo l’intero staff dell’hotel in allerta,
ma…» Si strinse nelle spalle. «Non si trova da nessuna parte.»
«Ora posso finire la mia canzone?» chiese Jack.
«No!» replicammo io e Sam all’unisono.
Per poco non ordinai a Jack di ritrasformarsi in ciondolo. Poi mi ricordai che, se lo avessi fatto, avrei
rischiato di restare svenuto per il resto della giornata.
Sam si sistemò sul ramo accanto a me.
Sotto di noi, in lontananza, gli ultimi commensali stavano abbandonando la sala. I miei amici del piano
diciannove, Mallory, T.J. e Halfborn, circondavano Alex Fierro e la guidavano verso l’uscita. Da lassù
era difficile capire se fosse una scorta festosa da “amici”, o una marcia forzata per assicurarsi che non
facesse fuori nessuno.
Sam seguì la direzione del mio sguardo. «Hai dei dubbi su di lei, lo so. Ma merita di essere qui,
Magnus. Il modo in cui è morta… Sono certa del suo eroismo come lo ero del tuo.»
Dal momento che non ero mai stato molto sicuro del mio, il commento di Sam non mi tranquillizzò.
«Come va l’occhio?» le chiesi.
Si toccò il livido. «Non è nulla. Alex ha solo dato un po’ di matto. Ci ho messo un po’ a capire, ma
quando afferri la mano di qualcuno per condurlo nel Valhalla ti si apre uno spiraglio nella sua anima.»
«È successo anche quando hai preso me?»
«Con te, non c’era molto da vedere. È molto buio lì dentro.»
«Ah, ah, buona questa!» commentò Jack.
«Non c’è una runa per farvi zittire tutti e due?» chiesi.
«Comunque, Alex era arrabbiata e spaventata» continuò Sam. «Dopo che l’ho lasciata qui, ho iniziato
a comprendere il perché. Lei è gender fluid. Pensava che, diventando un einherji, sarebbe rimasta
bloccata in un solo genere per sempre. E non sopportava l’idea.»
«Ah» commentai, che era l’abbreviazione di: “Ho capito, ma non ho capito veramente”.
Io ero bloccato in un solo genere da tutta la vita, e la cosa non mi aveva mai turbato. Ora mi chiedevo
che effetto facesse ad Alex. L’unica analogia che mi veniva in mente non era molto positiva. La mia
maestra di seconda elementare, la signorina Stringler (alias Strangler), mi aveva costretto a scrivere con
la destra anche se ero mancino. Mi aveva perfino bloccato la mano sinistra sul banco con il nastro
adesivo. Mamma si era infuriata quando lo aveva scoperto, ma io ricordavo ancora la sensazione di
panico che avevo provato nel sentirmi trattenuto con la forza, costretto a scrivere in quel modo innaturale
perché la signorina Stringler aveva insistito: “È questo il modo normale, Magnus. Smettila di lamentarti.
Ti ci abituerai”.
Sam si lasciò sfuggire un sospiro. «Ammetto di non avere molta esperienza con…»
Jack balzò sull’attenti nella mia mano. «Con gli argr? Oh, sono fantastici! Una volta io e Freyr…»
«Jack…» dissi.
La luce magenta delle sue rune si smorzò un poco. «E va bene. Me ne starò seduto qui come un
oggetto inanimato.»
La battuta almeno riuscì a far ridere Sam. Si era scoperta i capelli, come faceva spesso nel Valhalla.
Mi aveva detto che considerava l’hotel la sua seconda casa, e gli einherjar e le altre valchirie erano parte
della famiglia, perciò non sentiva il bisogno di indossare lo hijab. I riccioli scuri le si riversavano sulle
spalle, mentre il velo di seta verde le restava appeso al collo, scintillando come per attivare il suo
camuffamento magico. La cosa era un po’ inquietante, perché di quando in quando le spalle e il collo di
Sam sembravano sparire nel nulla.
«Alex Fierro ti… turba?» chiesi. «Voglio dire… il fatto che sia transgender? Cioè, considerato che sei
religiosa eccetera?»
Sam inarcò un sopracciglio. «Considerato che sono “religiosa eccetera”, ci sono un sacco di cose che
mi turbano in questo posto.» Indicò con un ampio gesto intorno. «Mi sono dovuta fare un bell’esame di
coscienza quando ho scoperto che mio padre era… be’, Loki. Ancora non accetto l’idea che gli dei
norreni siano divinità. Sono soltanto degli esseri potenti. Alcuni di loro sono miei parenti molesti. Ma
non sono altro che creature di Allah, l’unico Dio, proprio come me e te.»
«Ti ricordi che sono ateo, vero?»
Sbuffò. «Sembra l’inizio di una barzelletta, eh? Un ateo e una musulmana si ritrovano in un aldilà
pagano… Comunque, il fatto che Alex sia transgender è l’ultimo dei miei problemi. Sono più
preoccupata per il suo… legame con nostro padre.» Sam tracciò con un dito la linea della vita sul palmo
della mano. «Alex muta forma così spesso. Non si rende conto di quanto sia pericoloso affidarsi al potere
di Loki. Non gli si può dare più presa di quanta già ne abbia.»
Mi accigliai. Samirah mi aveva accennato a qualcosa del genere in passato – al fatto che non le
piaceva mutare forma perché non voleva diventare come suo padre – ma io non lo capivo. Personalmente,
se avessi avuto quel potere, mi sarei trasformato in orso polare, tipo, ogni due minuti, e mi sarei divertito
a spaventare la gente.
«Di che genere di presa stiamo parlando?»
Sam evitò il mio sguardo. «Lasciamo perdere. Ma non mi sei volato dietro per parlarmi di Alex
Fierro, vero?»
«Vero.» Le descrissi cos’era successo sul campo di battaglia: il drago, e il modo in cui Loki mi aveva
invaso la mente indossando uno smoking osceno e invitandomi a un matrimonio. Poi le raccontai dei miei
sogni e di come, a quanto pareva, quel matrimonio fosse il suo, con un gigante di nome Thrym che
parlava come un tricheco e che nel bar di sua proprietà serviva i cetriolini più puzzolenti di Jotunheim.
Neanche Jack era a conoscenza di parte di queste cose e, nonostante la sua promessa di restare
inanimato, sobbalzò e gridò: «Stai scherzando?!» in tutti i punti più appropriati, e anche in alcuni dei
meno appropriati.
Quando ebbi finito, Sam rimase zitta. Un soffio di aria gelida passò fra noi come una perdita di freon
da un climatizzatore.
Sotto di noi, intanto, era arrivato il personale delle pulizie. I corvi raccoglievano piatti e bicchieri.
Branchi di lupi divoravano gli avanzi e leccavano il pavimento. Ci teniamo molto all’igiene, qui nel
Valhalla.
«Volevo dirtelo!» esclamò infine Sam. «È successo tutto così in fretta. Mi è praticamente… crollato
addosso.» Si asciugò una lacrima dalla guancia.
Non l’avevo mai vista piangere. Avrei voluto consolarla, abbracciandola o dandole delle pacche di
incoraggiamento sulla mano, ma Sam non andava matta per il contatto fisico, anche se io facevo parte
della sua famiglia allargata del Valhalla.
«Quindi è così che Loki ti sta rovinando la vita» dissi. «È venuto a trovare i tuoi nonni? Amir?»
«Gli ha consegnato gli inviti.» Sam se ne sfilò uno di tasca e me lo passò: corsivo dorato su
cartoncino verde, proprio come quello che Loki aveva infilato nel taschino di Randolph.

L’incomparabile Loki
e un po’ di altra gente
ti invitano a festeggiare con loro
il matrimonio di Samirah al-Abbas Bint Loki
e Thrym, figlio di Thrym, figlio di Thrym
QUANDO :
Fra cinque giorni da oggi
DOVE :
Te lo faremo sapere
PERCHÉ :
Perché è sempre meglio del Giorno del Giudizio
Sono graditi regali
Balli e sacrifici pagani a seguire
Alzai lo sguardo: «Sacrifici pagani?».
«Ti puoi immaginare come l’hanno presa i miei nonni.»
Studiai di nuovo l’invito. La riga del quando scintillò, e il cinque scolorì lentamente, trasformandosi
in un quattro. Anche la riga del dove aveva una lucentezza olografica, come se alla fine potesse cambiare
in un indirizzo specifico. «Non potevi dirgli che era uno scherzo?»
«No, visto che mio padre gliel’ha consegnato personalmente.»
Mi figurai Loki seduto al tavolo da pranzo degli al-Abbas, che sorseggiava il tè da una delle loro
belle tazze dorate. Immaginai la faccia da Babbo Natale di Jid farsi sempre più rossa, mentre Bibi si
sforzava il più possibile di mantenere la propria posa regale, nonostante la nuvola furente di rabbia che
esalava dai bordi dello hijab.
«Loki gli ha raccontato tutto» continuò Sam. «Come ha conosciuto mia madre, come sono diventata una
valchiria, tutto. Gli ha detto che non avevano nessun diritto di organizzare un matrimonio per me, perché
era lui il padre e aveva già provveduto.»
Jack vibrò nella mia mano. «Se vogliamo guardare il lato positivo, devo dire che l’invito è molto
bello.»
«Jack!» esclamai.
«Sì, sì, va bene. Inanimato.»
«Ti prego, dimmi che i tuoi nonni si sono opposti, Sam. Non pretenderanno che sposi un gigante.»
«Non sanno cosa pensare.» Sam si riprese l’invito e lo fissò, come augurandosi che andasse in
fiamme. «Avevano avuto qualche sospetto sulla relazione di mia madre. Come ti dicevo, la mia famiglia
interagisce con gli dei norreni da generazioni. Gli dei hanno una sorta di… attrazione per noi.»
«Benvenuta nel club» borbottai.
«Ma Jid e Bibi non avevano idea dell’entità della cosa finché Loki non si è presentato e li ha
scioccati. Quello che li ha feriti di più, però, è stato il fatto che gli ho tenuto nascosta la mia vita da
valchiria.» Un’altra lacrima si fermò sotto il naso di Sam. «E Amir…»
«Il video che abbiamo visto su Valchiria TV !» esclamai. «Lui e suo padre sono venuti a casa tua
stamattina, e tu hai cercato di dargli una spiegazione.»
Sam annuì, giocherellando con un angolino dell’invito. «Il signor Fadlan non capisce cosa sta
succedendo, sa solo che c’è un disaccordo di qualche tipo. Ma Amir… abbiamo parlato di nuovo questo
pomeriggio, e… gli ho detto la verità. Tutta quanta. E ho promesso che non avrei mai acconsentito a
questo assurdo matrimonio con Thrym. Ma dubito che Amir voglia perfino ascoltarmi, a questo punto. Mi
avrà presa per pazza…»
«Troveremo il modo di uscirne» le promisi. «Non ti costringeranno a sposare un gigante, non esiste.»
«Tu non conosci Loki come lo conosco io, Magnus. Può distruggere completamente la mia vita. Ha già
cominciato. Ha dei modi di…» Sam esitò. «Il punto è che ha deciso di essere l’unico a poter negoziare
per il martello di Thor. Non riesco a immaginare che cosa voglia in cambio, ma non può essere niente di
buono. L’unico modo per fermarlo è trovare il martello per primi.»
«Allora lo faremo» dichiarai. «Sappiamo che ce l’ha questo Thrym. Andiamo a prenderlo. O meglio,
diciamolo a Thor e lasciamo che sia lui a farlo.»
Jack scintillò, vibrando sulle mie ginocchia. «Non sarà così facile, señor. Anche se riusciste a trovare
la sua fortezza, Thrym non sarà stato così stupido da custodire lì il martello di Thor. È un gigante di terra.
Potrebbe averlo sepolto ovunque, letteralmente.»
«Il tumulo dello spettro» disse Sam.
«A Provincetown.» Annuii. «Pensi ancora che sia la pista migliore? Anche con questo capricida che ci
perseguita e dice che è una trappola?»
Sam fissò un punto oltre le mie spalle, come se guardasse l’orizzonte, immaginando un fungo atomico
che si levava dalla bomba che Loki aveva sganciato sul suo futuro. «Devo provarci, Magnus. Il tumulo
dello spettro. Domani mattina, come prima cosa.»
L’idea non mi piaceva per niente. Purtroppo, però, non ne avevo una migliore. «E va bene. Hai
rintracciato Hearth e Blitz?»
«Ci aspettano a Cape Cod.» Sam si alzò e accartocciò l’invito del matrimonio. Prima che potessi
obiettare che avremmo potuto averne bisogno, lo lanciò ai corvi e ai lupi. «Ci vediamo dopo colazione. E
portati un cappotto. Sarà una mattinata fredda per volare.»
13
RILASSATI, È SOLO UNA PICCOLA PROFEZIA DI MORTE

Come volevasi dimostrare, non appena Jack si trasformò di nuovo in ciondolo, io collassai per il resto
della giornata.
Al mattino, mi svegliai con le braccia e le gambe indolenzite, come se avessi passato la notte a
svolazzare con un einherji appeso alla caviglia.
Alex Fierro era clamorosamente assente a colazione, anche se T.J. mi assicurò che le aveva fatto
scivolare un biglietto sotto la porta per spiegarle dov’era la sala da pranzo del piano diciannove.
«Probabilmente dorme ancora» ipotizzò. «Il suo primo giorno è stato molto stressante.»
«A meno che non sia la zanzara qui presente.» Halfborn indicò un insetto che zampettava sulla saliera.
«Sei tu, Fierro?»
La zanzara non replicò.
I miei amici promisero di restare in allerta, pronti a fare qualunque cosa si rendesse necessaria per
impedire a Loki di celebrare il matrimonio riparatore di lì a cinque (ormai quattro) giorni.
«Terremo d’occhio anche Fierro» promise Mallory, guardando male la zanzara.
Ebbi appena il tempo di ingurgitare un bagel prima che Sam arrivasse e mi conducesse nelle scuderie
sopra la palestra del piano quattrocentoventidue.
Ogni volta che Sam parlava di “volare”, non potevo essere sicuro di cosa intendesse dire.
Le valchirie erano perfettamente in grado di volare da sole. Erano abbastanza forti da trasportare
almeno un’altra persona, perciò forse aveva intenzione di infilarmi in un borsone e trascinarmi di peso a
Cape Cod.
O forse intendeva “volare” nel senso di “ci butteremo giù da una scogliera e andremo incontro alla
morte”. Era una cosa che facevamo molto spesso.
Quel giorno, però, intendeva “volare” nel senso di “cavalcare un cavallo volante”. Non avevo proprio
le idee chiare sul perché le valchirie avessero dei cavalli volanti. Probabilmente solo perché erano una
figata. E poi, nessuno voleva combattere in groppa a un lindworm, svolazzando e saltellando come un
cowboy su un serpente-tacchino.
Sam sellò uno stallone bianco, salì in groppa e mi issò dietro di sé, dopodiché ci lanciammo al
galoppo fuori dai cancelli della scuderia, direttamente nel cielo di Boston.
Aveva ragione sul freddo. Non mi dava fastidio, ma i venti erano forti, e lo hijab di Sam continuava a
finirmi in bocca. Dal momento che lo hijab è un simbolo di modestia e pietà, dubitavo che Sam avrebbe
gradito che il suo avesse l’aria di essere stato masticato.
«Quanto manca?» le chiesi.
Si voltò. Il livido sotto l’occhio era sparito, ma sembrava ancora distratta ed esausta. Mi domandai se
avesse dormito almeno un po’.
«Non molto, ormai» rispose. «Tieniti forte.»
Avevo volato con lei abbastanza spesso da prendere quell’avvertimento sul serio. Serrai le ginocchia
contro la cassa toracica del cavallo e mi aggrappai alla vita di Sam. E forse, mentre piombavamo giù in
picchiata fra le nuvole, urlai: «Meinfretr!».
Non mi sentivo più le chiappe sulla sella. E, per vostra informazione, non mi piace quando non mi
sento più le chiappe. Mi chiesi se Sam guidasse l’aeroplano in quel modo e, in tal caso, a quanti istruttori
avesse già procurato un arresto cardiaco.
Sbucammo oltre le nuvole. Di fronte a noi, Cape Cod si allungava fino all’orizzonte: una parentesi di
verde e oro nel mare blu. Sotto, la punta settentrionale della penisola disegnava un delicato ghirigoro
intorno al porto di Provincetown. Alcune barche a vela punteggiavano la baia, ma la primavera era
appena agli inizi ed era troppo presto per avere molti visitatori.
Sam stabilizzò la quota intorno ai cinquecento piedi e procedemmo lungo la costa, sorvolando dune e
paludi, e poi seguendo l’arco di Commercial Street, con i suoi cottage grigi e le case dipinte in vistosi
colori fluo. I negozi erano quasi tutti chiusi, le strade vuote.
«Un piccolo giro di ricognizione» mi disse Sam.
«Volevi accertarti che non ci fosse un esercito di giganti nascosto dietro la bottega dei tatuaggi?»
«Già… oppure troll marini, spettri, mio padre…»
«Okay, hai reso l’idea.»
Alla fine, virammo a sinistra, diretti verso una torre di pietra grigia che si profilava su una collina ai
margini della città. La struttura di granito si stagliava per più di settanta metri d’altezza; la cima turrita
ricordava un castello delle fiabe. Avevo il vago ricordo di aver visto quella torre durante la mia gita lì
da bambino, ma la mamma aveva preferito le escursioni fra le dune e le passeggiate sulla spiaggia.
«Cos’è quel posto?» chiesi a Sam.
«La nostra destinazione.» Un debole sorriso le stirò gli angoli della bocca. «La prima volta che l’ho
visto, ho pensato che fosse il minareto di una moschea. Un po’ ci somiglia.»
«Ma non lo è?»
«No. È un memoriale per i Padri Pellegrini. Approdarono qui prima di trasferirsi a Plymouth.
Naturalmente, anche i musulmani sono in America da molto tempo. Una delle mie amiche alla moschea ha
un antenato, Yusuf ben Ali, che combatté nell’esercito con George Washington durante la rivoluzione
americana.» Sam sorrise. «Scusami. Non hai bisogno di una lezione di storia. Comunque, non siamo qui
per la torre. Siamo qui per quello che c’è sotto.»
Temevo proprio che non si riferisse al negozio di souvenir.
Volammo intorno al monumento, perlustrando la radura ai suoi piedi. Poco lontano dall’ingresso della
torre, seduti sul muretto di pietra a dondolare i piedi come se si annoiassero, c’erano le mie due persone
preferite di tutti i mondi alieni.
«Blitz!» gridai. «Hearth!»
Hearth era sordo, perciò gridare il suo nome non serviva a molto, ma Blitzen richiamò la sua
attenzione con il gomito e ci indicò. Tutti e due saltarono giù dal muretto e ci salutarono gesticolando con
entusiasmo, mentre il nostro cavallo atterrava.
«Figliolo!» Blitzen mi corse incontro.
A vederlo così, sembrava il fantasma di un esploratore tropicale. Dal bordo del suo caschetto
coloniale, un velo di garza bianca lo copriva fino alle spalle. La garza, lo sapevo, era concepita per
bloccare la luce del sole, che trasforma i nani in pietra. Si era anche messo i guanti di pelle per
proteggere le mani. Per il resto, era vestito proprio come nel mio sogno: un completo tre pezzi color noce
con un cravattino nero, elegantissime scarpe di pelle a punta e uno squillante fazzoletto arancione come
ultimo tocco di stile. Niente di più adatto per un’escursione giornaliera nella tomba di un non morto.
Mi gettò le braccia al collo, rischiando di perdere il caschetto. Portava un’acqua di colonia ai petali
di rosa. «Per tutte le incudini e i martelli, sono felice di vederti!»
Hearthstone arrivò subito dopo, sorridendo debolmente e muovendo le mani nel gesto che nella lingua
dei segni indica “urrà!”. Per Hearth, era l’equivalente del grido di un fan sfegatato che si sgola
dall’entusiasmo.
Indossava come al solito pantaloni e giubbotto di pelle neri, con la sciarpa a pallini del Twister
intorno al collo. Il suo viso era pallido come sempre, con gli occhi perennemente tristi e i capelli biondo
platino dritti in testa, ma aveva messo su un po’ di peso nelle ultime settimane. Sembrava più in salute,
almeno secondo gli standard umani. Forse avevano ordinato montagne di pizza mentre si nascondevano
nel rifugio segreto di Mimir.
«Ah, ragazzi!» Afferrai Hearth e lo abbracciai. «Siete tali e quali a quando vi ho visti in quel bagno!»
A ripensarci ora, forse non era la battuta d’esordio migliore.
Feci un passo indietro e spiegai cosa stava succedendo: i miei sogni assurdi, la realtà ancora più
assurda, Loki nella mia testa, la mia testa nel barattolo di cetriolini, la testa di Mimir nella vasca e via
dicendo.
«Sì, il Capo adora comparire all’improvviso nelle vasche da bagno» commentò Blitzen. «Una notte,
mentre me ne stavo tranquillo con il mio pigiama in maglia di ferro, per poco non mi ha fatto prendere un
colpo!»
«Ecco un’immagine che avrei preferito evitare» dissi. «E poi, dobbiamo parlare di comunicazione.
Ragazzi, siete scomparsi senza dirmi una parola.»
«Ehi, figliolo, l’idea è stata sua.» Lo disse anche nella lingua dei segni, a beneficio di Hearth: si toccò
la fronte con il mignolo, poi indicò Hearth con due dita. “Idea.” “Sua.” E poi una “H” a indicare il nome
di Hearthstone.
Sbuffando infastidito, Hearthstone replicò: “Per salvare te, scemo. Dillo a Magnus”. Fece una “M” per
indicare il mio nome: un pugno chiuso con tre dita sopra il pollice.
Blitzen sospirò. «L’elfo esagera, come al solito. Mi ha terrorizzato e mi ha convinto a fuggire dalla
città in fretta e furia. Ma ora mi sono calmato. È stata solo una piccola profezia di morte!»
Sam sciolse il suo zaino dalla sella, accarezzò il cavallo sul muso e indicò il cielo. Il nostro amico
stallone bianco decollò verso le nuvole.
«Blitzen… Lo capisci, vero, che una piccola profezia di morte è qualcosa che non esiste?»
«Sto bene!» Blitzen ci rivolse un sorriso sicuro. Dietro il suo velo di garza, sembrava un fantasma un
po’ meno felice. «Qualche settimana fa, Hearthstone è tornato da una delle sue lezioni individuali di
magia runica con Odino. Era eccitatissimo all’idea di leggere il mio futuro. Così ha lanciato le rune e…
be’, il responso non è stato molto buono.»
“Molto buono?” Hearthstone pestò un piede a terra. “Blitzen. Sangue versato. Non si può fermare.
Prima di O-S-T-A-R-A.”
«Giusto» confermò Blitzen. «Questo è il messaggio che lui ha letto nelle rune, ma…»
«Che cos’è Ostara?» domandai.
«Il primo giorno di primavera» rispose Sam. «Che sarà fra… ehm, quattro giorni.»
«Lo stesso giorno del tuo presunto matrimonio.»
«Credimi, non è stata una mia idea» puntualizzò lei amareggiata.
«E così Blitzen dovrebbe morire prima di quella data?» Il mio stomaco cominciò ad arrampicarsi
verso la gola. «Il sangue versato non si può fermare?»
Hearthstone annuì con energia. “Lui non dovrebbe essere qui.”
«Sono d’accordo!» esclamai. «È troppo pericoloso.»
«Ragazzi!» Blitzen si sforzò di fare una bella risata. «Sentite, Hearthstone è un novellino nella lettura
del futuro. Forse ha interpretato male! Il sangue versato potrebbe essere… vino versato! E un vino
versato che non si può fermare sarebbe un ottimo auspicio!»
Hearthstone allungò le mani come per strangolare il nano, e non ci fu bisogno di traduzioni.
«E poi, se qui c’è una tomba, sarà sottoterra e avrete bisogno di un nano!» continuò Blitz.
Hearth si lanciò in un tornado di gestacci arrabbiati, ma Samirah intervenne.
«Blitz ha ragione» disse, facendo cozzare i pugni chiusi, con gli indici tesi. Era diventata brava nella
lingua dei segni da quando aveva conosciuto Hearthstone. Una cosuccia in più praticata nel tempo libero,
sapete… fra la raccolta delle anime, lo studio con il massimo dei voti e le lezioni di volo. «È troppo
importante. Non te lo chiederei, altrimenti. Dobbiamo trovare il martello di Thor prima del primo giorno
di primavera, o interi mondi saranno distrutti. E io… dovrò sposare un gigante.»
“Un altro modo” ribatté Hearth. “Dev’essercene uno. Non sappiamo nemmeno se il martello è qui.”
«Amico.» Blitz prese le mani dell’elfo. Una cosa dolce ma anche maleducata, perché nella lingua dei
segni è l’equivalente di mettere il bavaglio a qualcuno. «So che sei preoccupato, ma andrà tutto bene.»
Blitz si voltò verso di me. «E poi, per quanto adori questo elfo, sto impazzendo in quel rifugio segreto.
Preferirei morire qui, rendendomi utile ai miei amici, che continuare a guardare la TV e mangiare pizza
da asporto aspettando che la testa di Mimir spunti nella vasca da bagno. Per non parlare del fatto che
Hearthstone russa come un trattore.»
Hearth sottrasse le mani alla sua presa. “Non stai usando la lingua dei segni, ma so leggere le labbra,
ricordi?”
«Hearth, ti prego» disse Sam.
Si sfidarono a una guerra di sguardi così intensa che si riuscivano quasi a vedere i cristalli di ghiaccio
che si formavano nell’aria. Non avevo mai visto quei due così ai ferri corti prima di allora, e non volevo
trovarmici nel mezzo. Fui tentato di evocare Jack e chiedergli di cantare un pezzo di Beyoncé solo per
dare loro un nemico comune.
Alla fine Hearthstone disse: “Se gli succede qualcosa…”.
“Me ne prendo io la responsabilità” replicò Sam muovendo solo le labbra.
«Anch’io so leggere le labbra» protestò Blitz. «E sono l’unico responsabile di me stesso.» Si strofinò
le mani con entusiasmo. «Ora, troviamo l’ingresso di questo tumulo, eh? È da mesi che non riporto alla
luce un potere malvagio non morto!»
14
SIAMO IN UN MARE DI GUAI… NO, ASPETTA. MI SA CHE È UN FIUME DI
SANGUE

Proprio come ai vecchi tempi: in marcia verso l’ignoto, alla ricerca di perdute armi magiche, rischiando
la vita nei modi più dolorosi. Mi erano mancati i miei amici!
Ci incamminammo intorno alla base della torre, e quando fummo a metà percorso Blitz esclamò:
«Aha!». Si inginocchiò e fece scorrere i polpastrelli guantati lungo una crepa fra le pietre del selciato. A
me non sembrava per niente diversa dalle migliaia di altre crepe, ma a Blitzen piaceva proprio quella.
Alzò la testa e mi sorrise. «Ora capisci, figliolo? Non avreste mai trovato questa senza un nano. Avreste
camminato qui intorno all’infinito, cercando l’ingresso della tomba, e…»
«Quella crepa è l’ingresso?»
«È la leva dell’ingresso, sì. Ma ci serve comunque la magia per entrare. Hearth, mi dai una mano?»
Hearthstone si accovacciò accanto a lui. Annuì, come a dire: “Eh, già”, poi tracciò una runa a terra
con l’indice. Una sezione di tre metri quadrati del selciato si disintegrò all’istante, rivelando un pozzo
che si tuffava nelle tenebre. Purtroppo noi quattro ci eravamo proprio sopra.
Precipitammo nel buio accompagnati da una buona quantità di urla, per la maggior parte mie.
La buona notizia: quando atterrai, non mi ruppi neanche un osso. La cattiva: Hearthstone invece sì.
Udii una specie di crac, e poi un grugnito, e capii subito cos’era successo.
Non sto dicendo che gli elfi sono fragili. Sotto certi aspetti, Hearth era il tipo più tosto che conoscevo.
Ma ogni tanto avrei voluto avvolgerlo in una coperta e attaccargli in fronte un adesivo con su scritto:
Maneggiare con cura.
«Non ti muovere» gli dissi, cosa del tutto inutile, dato che non poteva vedermi al buio. Trovai la sua
gamba e localizzai rapidamente il punto in cui si era rotta.
Hearth trasalì e cercò di strapparmi la pelle dalle mani.
«Che succede?» domandò Blitz. «Di chi è questo gomito?»
«Il mio» rispose Sam. «Stiamo tutti bene?»
«Hearth si è rotto una caviglia» dissi. «Devo aggiustarla. Voi due restate di guardia.»
«Ma è buio pesto!» si lamentò Blitz.
«Sei un nano.» Sam si sfilò l’ascia dalla cintura, un suono che conoscevo bene. «Pensavo che
sottoterra ti sentissi a casa tua.»
«È così!» replicò Blitz. «Ma preferisco i sottoterra bene illuminati e arredati con gusto.»
A giudicare dall’eco delle nostre voci, eravamo in una grande camera di pietra. Non arrivava
nemmeno un po’ di luce, e ne dedussi che il pozzo da cui eravamo caduti si era richiuso sopra di noi.
Guardando il lato positivo, non eravamo stati attaccati da nessuno… non ancora.
Trovai la mano di Hearth e gli tracciai delle lettere sul palmo, per tranquillizzarlo: “TI CURO IO.
FERMO ”.
Poi gli poggiai le mani sulla caviglia rotta.
Attinsi al potere di Freyr. Un’ondata di calore mi divampò nel petto e si diffuse lungo le braccia. Le
mie dita si illuminarono di un debole bagliore dorato, scacciando il buio. Percepii le ossa della caviglia
di Hearthstone che si rinsaldavano, il gonfiore che diminuiva, la circolazione che tornava normale.
Lui liberò un lungo sospirò e disse: “Grazie”.
Gli strinsi un ginocchio. «Figurati, amico.»
«Allora, Magnus, forse vuoi dare un’occhiata intorno» intervenne Blitzen, con voce roca.
Un effetto collaterale del mio potere di guarigione è che mi fa brillare temporaneamente. Non in senso
figurato. Brillo davvero. Di giorno si nota appena, ma lì, in quella buia camera sotterranea, ero una
specie di lampione umano. Purtroppo questo significava che potevo vedere cos’avevamo intorno.
Eravamo al centro di una camera con il soffitto a cupola, simile a un gigantesco alveare di pietra. Il
culmine del soffitto, alto sei metri, non mostrava tracce della botola da cui eravamo caduti. Per tutta la
circonferenza delle pareti, custoditi in nicchie, c’erano uomini mummificati vestiti di stracci, con le dita
coriacee strette intorno all’elsa di spade corrose. Non vidi nessuna uscita.
«Be’, è perfetto» commentai. «Ora si sveglieranno, vero? Questi dieci tizi…»
«Dodici» mi corresse Sam.
«Questi dodici tizi armati di grosse spade.» Chiusi una mano intorno al mio ciondolo. Ero io che
tremavo, o era Jack? Decisi che era lui.
«Potrebbero anche essere soltanto spaventosi corpi inanimati» disse Blitz. «Pensa positivo.»
Hearthstone schioccò le dita per richiamare l’attenzione. Indicò il sarcofago che stava dritto in piedi
al centro della stanza.
Non è che non l’avessi notato. Quel grosso scatolone di ferro non passava di certo inosservato. Ma
avevo provato a ignorarlo, sperando che se ne andasse. Il davanti era scolpito di elaborate immagini
vichinghe: lupi, serpenti e iscrizioni runiche che roteavano intorno a una figura nel mezzo, un uomo
barbuto con una grossa spada.
Non avevo idea di cosa ci facesse una bara del genere a Cape Cod. Ero piuttosto sicuro che non ce
l’avessero portata i Padri Pellegrini con la Mayflower.
Sam ci fece cenno di restare fermi. Levitò da terra e fluttuò intorno al sarcofago, con l’ascia ben stretta
in mano. «Ci sono iscrizioni anche sul retro» riferì. «Questo sarcofago è antico. Non vedo tracce di
aperture recenti, ma forse Thrym ha nascosto dentro il martello.»
«Ho un’idea» disse Blitzen. «Non controlliamo.»
Gli lanciai un’occhiataccia. «Questa sarebbe la tua opinione da esperto?»
«Senti, figliolo, questa tomba puzza di potere antico. È stata costruita più di mille anni fa, molto prima
che gli esploratori vichinghi arrivassero in Nord America.»
«Come fai a dirlo?»
«Dai segni sulla pietra» rispose Blitzen. «Sono in grado di capire quando è stata scavata una camera
sotterranea con la stessa facilità con cui, dall’usura della stoffa, stabilisco l’età di una camicia.»
A me non sembrava per niente facile. Ma, del resto, non ho un diploma in fashion design per nani.
«Perciò è una tomba vichinga costruita prima che i Vichinghi arrivassero qui. Ma… com’è possibile?»
“Si è spostata” intervenne Hearth.
«Come può spostarsi una tomba?»
Blitzen si tolse il caschetto coloniale. Il velo di garza gli lasciò un ciuffo di capelli scomposti sulla
chioma altrimenti impeccabile. «Figliolo, le cose si muovono per i Nove Mondi in continuazione. Siamo
collegati all’Albero del Mondo, giusto? I rami ondeggiano. Ne crescono di nuovi. Le radici scavano più
in profondità. Questo posto si è mosso rispetto a dove era stato costruito in origine. Probabilmente
perché… be’, perché è imbevuto di magia malvagia.»
Sam si posò accanto a noi. «Non sono una fan della magia malvagia.»
Hearth indicò il pavimento di fronte al sarcofago. Non l’avevo notato prima, ma intorno alla base
della bara, c’era un debole cerchio di rune inciso nella pietra.
Hearth lo sillabò con le dita: “K-E-N-N-I-N-G”.
«Che cos’è?»
Samirah si avvicinò un po’ di più all’iscrizione. «Un kenning è un soprannome vichingo.»
«Vuoi dire, qualcosa come… “Ehi, Kenning, come va?”»
«No» replicò lei, in un tono da “ora ti picchio con un bastone”. «È un modo per riferirsi a qualcuno
con una descrizione, anziché con il nome. Per esempio, di Blitzen potrei dire “Abile con le Vesti”, o di
Hearthstone “Signore delle Rune”.»
Hearth annuì. “Puoi chiamarmi così quando vuoi.”
Sam scrutò l’iscrizione sul pavimento con gli occhi socchiusi. «Magnus, puoi brillare un po’ più
vicino, per favore?»
«Non sono la tua pila» replicai, ma mi avvicinai lo stesso alla bara.
«C’è scritto Fiume di Sangue» annunciò Sam. «A ripetizione, per tutto il cerchio.»
«Leggi l’antico norreno?» domandai.
«L’antico norreno è facile. Se vuoi una lingua difficile, prova a imparare l’arabo.»
«Fiume di Sangue.» Il bagel mangiato a colazione mi si piazzò come un’incudine sullo stomaco. «A
qualcuno non ricorda “il sangue versato che non si può fermare” di Hearth? Non mi piace.»
La faccia di Blitzen sembrò grigia anche senza il velo davanti. «Probabilmente… è una coincidenza.
Comunque, vorrei farvi notare che non ci sono uscite in questa stanza. I miei sensi nanici mi dicono che
queste pareti sono massicce. Siamo finiti in una trappola. L’unica via d’uscita è farla scattare.»
«Comincio a detestare i tuoi sensi nanici» commentai.
«Siamo in due, figliolo.»
Hearthstone guardò Blitzen con un’espressione furente. “Sei tu che sei voluto venire qui. E adesso?
Rompiamo il cerchio del kenning? Apriamo la bara?”
Sam si aggiustò lo hijab. «Se c’è uno spettro in questa tomba, sarà in quel sarcofago, che è anche il
posto più sicuro per nascondere un’arma magica come il martello di Thor.»
«Voglio un secondo parere.» Mi staccai il ciondolo dal collo.
Jack comparve in tutta la sua lunghezza. «Ehi, ragazzi! Oh, una tomba imbevuta di magia malvagia?
Forte!»
«Riesci a percepire il martello di Thor da qualche parte in questo posto?»
Jack vibrò per la concentrazione. «Difficile esserne certi. C’è qualcosa di potente in quella scatola.
Un’arma? Un’arma magica? Possiamo aprirla? Vi prego, vi prego! È così eccitante!»
Resistetti all’impulso di dargli una botta sull’elsa, ma solo perché mi sarei fatto male. «Hai mai
sentito parlare di un gigante di terra che collabora con uno spettro? Per esempio… usando la sua tomba
come una cassetta di sicurezza?»
«In effetti, sarebbe strano» ammise Jack. «Di solito i giganti di terra seppelliscono le loro cose… be’,
nella terra. In un punto bello profondo, ecco.»
Mi rivolsi a Sam. «Allora perché Otis ci ha mandati qui? E perché è stata una buona idea?»
Sam perlustrò la camera con lo sguardo, come per decidere dietro quale delle dodici mummie
nascondersi. «Senti, forse Otis si è sbagliato. Forse… forse è una falsa pista, ma…»
«Ma adesso siamo qui!» esclamò Jack. «E dai, ragazzi, vi proteggerò io! E poi, non sopporto quando i
regali non vengono aperti. Almeno fatemi scuotere la bara per provare a indovinare cosa c’è dentro!»
Hearthstone picchiò una mano di taglio contro il palmo dell’altra, come a dire: “Ora basta!”.
Dalla tasca interna del giubbotto tirò fuori un sacchetto di cuoio: la sua raccolta di rune. Ne estrasse
una che conoscevo:
«È dagaz» dissi. «La usiamo per aprire le porte nel Valhalla. Sei sicuro che…?»
L’espressione di Hearth mi costrinse a interrompermi. Non aveva bisogno della lingua dei segni per
comunicare quello che provava: detestava quella situazione, non avrebbe mai voluto mettere in pericolo
Blitzen. Ma eravamo lì. Lo avevamo portato con noi perché era un esperto di magia. E ora voleva
risolvere quella faccenda.
«Magnus, forse è meglio se stai indietro» disse Sam.
Arretrai, fermandomi di fronte a Blitzen, nel caso il fiume di sangue fosse saltato fuori dalla bara in
stile samurai, puntando dritto al nano più vicino.
Hearth si inginocchiò. Accostò dagaz all’iscrizione, e subito il kenning del Fiume di Sangue si accese
come un anello di polvere da sparo. Hearth si allontanò, mentre il coperchio di ferro del sarcofago si
staccava di botto, mi sfrecciava accanto e si schiantava contro il muro. Di fronte a noi si ergeva un
sovrano mummificato, con la corona e l’armatura d’argento, le mani strette intorno all’elsa di una spada
inguainata.
«Ci siamo» borbottai.
Naturalmente, il cadavere aprì gli occhi.
15
CHI VUOLE FARE A PEZZI MAGNUS ALZI LA MANO

Con la maggior parte degli zombie non ti aspetti di fare conversazione.


Mi immaginavo che Re Mummia dicesse “RARRRR!” o al massimo “CERVELLO!” e poi si desse da
fare per ucciderci.
Non ero pronto per: «Grazie, mortali! Vi sono debitore!».
Uscì dalla bara – con un passo un po’ incerto, forse, considerato che era un cadavere smunto la cui
armatura probabilmente pesava più di lui – e ballò il tip-tap dalla felicità.
«Mille anni in quella stupida scatola, e ora sono libero! AHAHAHAHAHAH!»
Alle sue spalle, le pareti interne del sarcofago erano marchiate con centinaia di segni con i quali
aveva tenuto il conto degli anni che passavano. Non c’erano tracce del martello di Thor, tuttavia, il che
significava che lo zombie era rimasto chiuso lì dentro senza neanche un modo decente per captare Netflix
in streaming.
Jack tremò per l’eccitazione. «Ma avete visto quanto è sexy quella spada?»
Non avevo la minima idea di: 1) come facesse a dire che la spada era femmina, 2) come facesse a dire
che era sexy. Però non ero sicuro di volerlo sapere.
Sam, Blitz e Hearth arretrarono appena dallo zombie. La punta di Jack fluttuò verso la signora spada,
ma l’abbassai a forza verso il pavimento, appoggiandomici sopra. Non volevo che offendesse Mister
Zombie o la sua spada con un comportamento sfacciato.
«Ehm, salve!» dissi allo zombie. «Io sono Magnus.»
«Hai un adorabile bagliore dorato!»
«Grazie. Allora, ehm… come mai parla la nostra lingua?»
«Parlo la… davvero?» Lo zombie incoronato inclinò l’orrenda testa. Aveva ciuffetti bianchi sul
mento, forse ragnatele o i resti di una barba. Gli occhi erano verdi e vivaci, e totalmente umani. «Forse è
magia. Forse stiamo comunicando a un livello spirituale. Comunque sia, grazie di avermi liberato. Io
sono Gellir, principe dei danesi!»
Blitzen fece capolino da dietro le mie spalle. «Gellir? Il suo soprannome è Fiume di Sangue, per
caso?»
La risata di Gellir risuonò come una maraca piena di sabbia bagnata. «No, mio nanico amico. Fiume
di Sangue è il kenning che devo alla mia lama, la Spada Skofnung.»
Clunk, clunk.
Hearth era indietreggiato fino al coperchio della bara e ci era caduto sopra. Poi si era bloccato lì con
la faccia rivolta al soffitto e gli occhi spalancati per lo shock.
«Ah!» esclamò Gellir. «Vedo che il tuo elfo ha sentito parlare della mia spada.»
Jack si agitò sotto il mio gomito. «Ehm, señor? Anch’io ne ho sentito parlare. Lei è… wow. È
famosa.»
«Aspettate» intervenne Sam. «Principe Gellir, c’è la possibilità che… che ci sia un martello, qui da
qualche parte? Abbiamo sentito dire che forse ce l’aveva lei.»
Lo zombie si accigliò, provocando l’apertura di una serie di faglie sul suo volto incartapecorito. «Un
martello? Perché dovrei avere un martello quando sono il Signore della Spada?»
Gli occhi di Sam si offuscarono, o forse era solo il mio bagliore che stava cominciando a spegnersi.
«È sicuro?» chiesi. «Cioè, essere il Signore della Spada è fantastico, ma potrebbe anche diventare,
non so, il Padrone del Martello.»
Gellir continuò a fissare Sam. Il suo cipiglio si incupì. «Un momento. Tu sei una donna?»
«Ehm… sì, Principe Gellir. Mi chiamo Samirah al-Abbas.»
«Noi la chiamiamo “la Regina dell’Ascia”» intervenni.
«Poi me la paghi» sibilò Sam.
«Una donna.» Gellir si prese il mento fra le dita, staccandosi qualche ciuffetto di barba a ragnatela.
«Che peccato. Non posso sguainare la mia spada al cospetto di una donna.»
«Oh, nooo!» esclamò Jack. «Voglio conoscere Skoffy!»
Hearthstone si rimise faticosamente in piedi. Gesticolò. “Dobbiamo andarcene. Subito. Non lasciamo
che lo zombie sguaini la spada.”
«Che sta facendo il tuo elfo?» chiese Gellir. «Perché fa quei gesti strani?»
«È il linguaggio dei segni» risposi. «Lui non… ehm, non vuole che lei sguaini la sua spada. Dice che
dobbiamo andarcene subito.»
«Ma non posso permetterlo! Devo mostrarvi la mia gratitudine! E poi devo uccidervi!»
Il mio bagliore svanì quasi del tutto.
Quando Jack parlò, le sue rune illuminarono la tomba di rossi lampi funesti. «Ehi, amico zombie… di
solito la gratitudine si esprime mandando un bel bigliettino, per esempio, non con qualcosa tipo “Devo
uccidervi”.»
«Oh, io vi sono molto grato!» ribatté Gellir. «Ma sono anche un draugr, il capo spettro di questo
tumulo. E voi avete violato questa tomba. Perciò, dopo che avrò finito di ringraziarvi come si conviene,
dovrò consumare la vostra carne e divorare la vostra anima. Ma, ahimè, Skofnung ha delle restrizioni
molto chiare. Non può essere sguainata alla luce del sole né al cospetto di una donna.»
«Che regole stupide» brontolò Sam. «Cioè, sono regole molto ragionevoli. Quindi non può
ucciderci?»
«No» ammise Gellir. «Ma, non temete, posso sempre farvi uccidere.»
Grattò il fodero della spada tre volte contro il pavimento. E, senza suscitare la sorpresa di nessuno, i
dodici guerrieri mummificati uscirono dalle nicchie nelle pareti.

Il draugr non aveva nessun rispetto per i cliché sugli zombie. I suoi guerrieri non strascicavano i piedi.
Non gemevano né si muovevano storditi alla maniera degli zombie come si deve. Al contrario,
sguainarono le spade in perfetto unisono e, con la schiena ben dritta, rimasero in attesa che Gellir desse
l’ordine di ucciderci.
«Brutta storia» disse Jack, signore dell’ovvio. «Non credo di riuscire ad abbatterne così tanti prima
che qualcuno di loro vi faccia fuori. E non voglio fare la figura dell’incompetente di fronte a quella spada
sexy!»
«Jack, le priorità!»
«Esatto! Spero che tu abbia un piano per farmi fare bella figura!»
Sam ci assicurò una nuova fonte di luce. Nella sua mano libera comparve una lancia luminosa: l’arma
delle valchirie. Al suo chiarore bianco e crudo le facce degli zombie cominciarono a emanare vapore.
Hearthstone sollevò il sacchetto di rune. Blitzen si strappò il cravattino – che, come tutta la sua linea
di abbigliamento per la primavera, era foderato in maglia di ferro ultraflessibile – e se lo avvolse intorno
al pugno, pronto a spaccare il naso a qualche zombie.
Era una lotta impari, però: quattro contro tredici. O cinque, se Jack veniva contato a parte, cosa che io
preferivo evitare, altrimenti avrei dovuto darmi troppo da fare da solo.
Mi chiesi se non potevo invocare la Pace di Freyr. Grazie a mio padre, un dio pacifista che non
consentiva battaglie nei suoi luoghi sacri, a volte potevo disarmare chiunque si trovasse nel raggio di un
ampio cerchio intorno a me, sbalzandogli via le armi dalle mani. Tuttavia quella era la mia ultima risorsa,
il mio asso nella manica. Avrei fatto la figura dello scemo se ci avessi provato lì per lì, in quello spazio
chiuso, e gli zombie si fossero limitati a raccogliere le spade cadute ed eliminarci.
Prima che potessi decidere la mossa più adatta per impressionare una spada sexy, uno degli zombie
alzò una mano. «Abbiamo il quorum?»
Il principe Gellir ebbe un cedimento di spalle, come se una delle sue vertebre si fosse disintegrata.
«Arvid, siamo rinchiusi in questa camera da secoli» osservò. «Certo che abbiamo il quorum! Siamo tutti
presenti perché nessuno può andarsene!»
«Allora propongo di dare inizio alla seduta» disse un altro morto.
«Oh, per l’amor di Thor!» si lamentò Gellir. «Siamo qui per massacrare questi mortali, nutrirci della
loro carne e prendere le loro anime. È ovvio. Poi avremo la forza necessaria per evadere da questa tomba
e devastare Cape Cod. C’è davvero bisogno di…?»
«Appoggio la mozione!» esclamò un altro zombie.
Gellir si diede una manata sulla fronte scheletrica. «E va bene! Tutti a favore?»
Gli altri dodici zombie alzarono la mano.
«Allora, che il massacro… cioè, che la seduta abbia inizio!» Gellir si voltò a guardarmi, gli occhi che
scintillavano di irritazione. «Vi porgo le mie scuse, ma votiamo per ogni cosa in questo gruppo. È la
tradizione del Thing.»
«Del cosa?»
«Thing. Viene dalla parola thingvellir, ovvero “campo dell’assemblea”» spiegò Gellir. «Il consiglio
direttivo dei norreni.»
«Ah.» Sam guardava ora la mano con l’ascia, ora la mano con la lancia, come se non sapesse decidere
quale delle due usare… forse c’era bisogno di una mozione anche per quello? «Ho sentito parlare del
Thing. Era un luogo dove gli antichi norreni si riunivano per risolvere dispute legali e prendere decisioni
politiche. Le assemblee del Thing hanno ispirato l’idea del parlamento.»
«Sì, sì» confermò Gellir. «Ora, il parlamento inglese… non è stato colpa mia. Ma quando i Padri
Pellegrini si presentarono da queste parti…» Indicò col mento verso il soffitto. «Be’, all’epoca ormai la
nostra tomba c’era già da secoli. I Padri Pellegrini approdarono qui e si accamparono sopra di noi per
qualche settimana. Sono certo che avvertivano inconsciamente la nostra presenza. Temo che fummo noi a
ispirare il Patto del Mayflower, dando il via a tutta quella faccenda dei diritti, della democrazia in
America e di non so che altro… bla, bla, bla.»
«Stendo io il verbale?» chiese uno zombie.
Gellir sospirò. «Dagfinn, onestamente… E va bene, sei il segretario.»
«Adoro fare il segretario.» Dagfinn rinfoderò la spada e si sfilò una penna e un taccuino dalla cintura
(ma non chiedetemi cosa se ne facesse un cadavere vichingo di quella roba).
«Allora… No, aspettate» disse Sam. «Se sta chiuso in quella scatola, come fa a sapere cosa succede
fuori dalla tomba?»
Gellir levò i bellissimi occhi verdi al cielo. «Con la telepatia, no? Comunque, da quando abbiamo
ispirato i Padri Pellegrini, le mie dodici guardie del corpo sono diventate insopportabilmente fiere di
loro stesse. Dobbiamo fare tutto secondo le norme parlamentari… o Thing-amentari, vedete voi. Non
temete, però. Vi uccideremo presto. Ora, vorrei avanzare una mozione per…»
«Andiamo con ordine» lo interruppe un altro zombie. «Ci sono vecchie faccende da sistemare?»
Gellir strinse un pugno così forte che pensai gli si sgretolasse la mano. «Knut, siamo draugr del Sesto
secolo. Per noi, ogni cosa è una vecchia faccenda!»
«Propongo che si legga il verbale dell’ultima assemblea» disse Arvid. «Chi appoggia la mozione?»
Hearthstone alzò due dita.
Come dargli torto? Più tempo passavano a leggere il verbale di massacri passati, meno ne avevano per
pensare a quello imminente.
Dagfinn scorse rapidamente il taccuino. I fogli gli si polverizzarono in mano. «Ah, a dire il vero, non
ce l’ho.»
«Bene, dunque!» esclamò Gellir. «Procediamo…»
«Aspettate!» esclamò Blitzen. «Ci serve un resoconto orale! Vogliono conoscere il vostro passato…
chi siete, perché siete stati sepolti tutti insieme, i nomi e le storie delle vostre armi. Sono un nano. Tengo
molto al retaggio degli oggetti, soprattutto se quegli oggetti mi uccideranno. Propongo che ci diciate
tutto.»
«Appoggio la mozione» disse Samirah. «Tutti a favore?»
Ogni singolo zombie alzò la mano, Gellir incluso – immagino per abitudine – anche se un attimo dopo
sembrò molto seccato con se stesso. Jack schizzò verso l’alto per rendere la votazione unanime.
Gellir si strinse nelle spalle, facendo cigolare le ossa e l’armatura. «State rendendo questo massacro
molto difficile, ma va bene, racconterò la nostra storia. Signori, riposo.»
Gli altri zombie rinfoderarono le spade. Alcuni si sedettero sul pavimento, altri si appoggiarono al
muro e incrociarono le braccia. Arvid e Knut recuperarono gomitoli e ferri dalle loro nicchie e si misero
a sferruzzare manopole.
«Orbene, io sono Gellir, figlio di Thorkel, principe dei danesi» cominciò il principe. Diede dei
colpetti amorevoli alla propria spada. «E questa è Skofnung, la spada più famosa mai brandita da un
guerriero vichingo!»
«Presenti esclusi» mormorò Jack. «Anche se, cavoli, Skofnung è un nome molto sexy.»
Non ero d’accordo. E non mi piaceva lo sguardo di terrore sul volto di Hearthstone. «Hearth, conosci
questa spada?»
L’elfo mi rispose muovendo le mani con cautela, come se l’aria potesse scottargli le dita.
“Apparteneva a re H-R-O-L-F. Forgiata con le anime dei suoi dodici seguaci, tutti berserker.”
«Che sta dicendo?» domandò Gellir. «Tutto quel gesticolare è molto irritante.»
Feci per tradurre, ma Blitzen mi interruppe, strillando così forte che Arvid e Knut lasciarono cadere i
ferri. «Quella spada?» Blitz guardava Hearthstone, con gli occhi sgranati. «Quella con… la pietra… casa
tua?»
Io non ci capivo nulla, ma Hearth annuì.
“Capisci ora?” replicò. “Non saremmo dovuti venire.”
Sam si voltò, e la luce della sua lancia fece sfrigolare la polvere sul pavimento. «Che vuoi dire?
Quale pietra? E che cosa c’entra con il martello di Thor?»
«Chiedo scusa» intervenne Gellir. «Stavo parlando io, mi pare. Se siete venuti qui in cerca del
martello di Thor, temo che qualcuno vi abbia male informati.»
«Dobbiamo uscirne vivi» dissi ai miei amici. «Ho una capra da ammazzare.»
«Ehm…» continuò Gellir. «Come stavo dicendo, Skofnung fu creata da un re di nome Hrolf. I suoi
dodici berserker diedero la vita affinché le loro anime impregnassero di potere la lama.» Gellir scrutò
corrucciato i propri uomini, due dei quali stavano giocando a carte in un angolo. «Quelli sì che erano
tempi in cui un principe poteva trovare guardie del corpo degne. A ogni modo, un uomo di nome Eid rubò
la spada dalla tomba di Hrolf. Eid la prestò a mio padre, Thorkel, che, diciamo così… dimenticò di
restituirla. Mio padre morì in un naufragio, ma la spada fu trasportata in Islanda dalle correnti. Io la
trovai e la usai in molti gloriosi massacri. E ora… eccoci qua! Quando caddi in battaglia, la spada fu
sepolta con me, insieme ai miei dodici berserker, per protezione.»
Dagfinn voltò una pagina del taccuino e scrisse: «Per… protezione. Posso aggiungere che ci
aspettavamo di andare nel Valhalla? E che una maledizione ci costringe a restare in questa tomba per
sempre perché la spada è un bene rubato? E che odiamo il nostro aldilà?».
«NO!» lo fulminò Gellir. «Quante volte devo chiedervi scusa?»
Arvid sollevò lo sguardo dal lavoro a maglia. «Propongo che Gellir si scusi ancora un milione di
volte. Chi appoggia la mozione?»
«Basta!» sbottò Gellir. «Sentite, abbiamo ospiti. Laviamo le tuniche sporche in famiglia, eh? E poi,
dopo che avremo ucciso questi mortali e divorato le loro anime, saremo abbastanza potenti da evadere da
questa tomba! Non vedo l’ora di fare un salto a Provincetown.»
Immaginai tredici zombie vichinghi che marciavano lungo Commercial Street, irrompevano al Wired
Puppy Coffee Shop e ordinavano il caffè minacciando con la spada i baristi.
«Ma ora basta con questa vecchia storia!» esclamò Gellir. «Posso per favore avanzare una mozione
per uccidere questi intrusi?»
«Io voto a favore.» Dagfinn scrollò la penna a sfera. «Tanto ho finito l’inchiostro.»
«No!» esclamò Blitzen. «Abbiamo altre discussioni da fare. Non conosco i nomi delle altre armi. E di
quei ferri da maglia! Parlatemi di loro!»
«Tu non fai parte dell’assemblea» disse Gellir.
«Propongo che ci accompagniate all’uscita più vicina» replicai io.
Gellir batté un piede per terra. «Neanche tu fai parte dell’assemblea! Votiamo!»
Dagfinn mi rivolse uno sguardo mortificato. «È una cosa da Thing. Non capiresti.»
Avrei dovuto attaccare subito e coglierli impreparati, ma mi sembrò antidemocratico.
«Tutti a favore?» domandò Gellir.
«Sì!» gridarono all’unisono i Vichinghi morti. Poi misero via le carte e i lavoretti a maglia e
sguainarono di nuovo le spade.
16
HEARTHSTONE SCATENA IL PROPRIO BOVINO INTERIORE

Jack decise che era l’occasione ideale per darmi una lezione di addestramento.
Sebbene fosse del tutto capace di combattere per conto suo, era convintissimo che io dovessi imparare
a brandirlo da solo, con le mie forze. Diceva che ero degno e competente e non so che altro. Ma il fatto è
che facevo proprio pena come spadaccino. E poi, Jack decideva sempre di addestrarmi nelle peggiori
situazioni possibili.
«Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi!» strillò, diventando tutt’a un tratto un peso morto
nella mia mano.
«E dai, amico!» Mi chinai per schivare la prima lama diretta verso la mia testa. «Alleniamoci più
tardi, coi fantocci o roba del genere!»
«Schiva a sinistra!» gridò Jack. «L’altra sinistra! Rendimi orgoglioso, señor, Skofnung ci sta
guardando!»
Fui quasi tentato di morire soltanto per mettere Jack in imbarazzo di fronte alla sua bella. Ma, dal
momento che eravamo fuori dal Valhalla e che la mia morte sarebbe stata permanente, decisi che non era
una linea d’azione lungimirante.
Gli zombie ci circondarono, sempre più vicini.
Lo spazio di manovra ristretto era il nostro unico vantaggio. Ogni draugr era armato di spadone, e c’è
bisogno di almeno un metro e mezzo di agio per roteare un’arma del genere con efficacia. Dodici
berserker morti armati di spadone, contro un gruppetto serratissimo di difensori in una camera angusta?
Non importa quanto siano bravi a formare un quorum, non riusciranno a massacrare quei difensori molto
facilmente senza fare a pezzi anche i propri compagni.
La mischia si trasformò ben presto in un goffo parapiglia con un sacco di spinte, imprecazioni e alito
cattivo da parte degli zombie. Samirah infilzò la lancia sotto la mascella di Arvid, e la luce dell’arma gli
incenerì la testa come una fiamma che incendia un rotolo di carta igienica.
Un altro zombie provò un affondo sul petto di Blitzen, ma il gilè in cotta di maglia del mio amico
piegò la lama. Blitz sferrò il pugno avvolto nel cravattino corazzato dritto nello stomaco dello zombie e –
per il disgusto di tutti – la mano gli rimase incastrata nella cavità addominale della creatura.
«Che schifo!» Blitzen prese ad arretrare a scatti, tirandosi dietro lo zombie come un ballerino
maldestro e usandolo per togliere di mezzo altri draugr.
Hearthstone vinse il premio per i Migliori Progressi in Battaglia. Sbatté a terra una runa:

E subito una luce dorata lo avvolse. Diventò più alto. I suoi muscoli si gonfiarono come se qualcuno li
stesse soffiando da sotto i vestiti. Con gli occhi iniettati di sangue e rivoli di elettricità statica fra i
capelli, ghermì il primo zombie a portata di mano e lo scaraventò dall’altra parte della stanza. Poi ne
sollevò un altro, se lo accostò a un ginocchio e lo spezzò letteralmente in due.
Come potete immaginare, gli altri zombie arretrarono dall’elfo culturista fuori di cervello.
«Che runa è quella?» chiesi, mentre per sbaglio facevo volare via con un colpo di Jack la cima del
sarcofago di Gellir, dotandolo di tettuccio apribile.
Blitz liberò finalmente la mano dal suo compagno di danze, che crollò in pezzi. «Uruz» rispose. «La
runa del bue.»
Fra me e me, aggiunsi una runa uruz alla mia lista dei desideri per Natale.
Nel frattempo, Samirah si faceva largo tra i nemici roteando la lancia in una mano come una letale
majorette. Gli zombie che riuscivano a evitare l’incenerimento venivano abbattuti dalla sua ascia.
Jack continuava a gridare consigli inutili. «Para, Magnus! Ora giù! Schema di difesa Omega!»
Schema di difesa Omega? Secondo me, neppure esisteva. Le poche volte che riuscivo a colpire uno
zombie, Jack lo faceva a pezzi, ma dubitai che le mosse fossero abbastanza impressionanti da fargli
guadagnare un appuntamento con la sua amata spada.
Quando capì che stava per esaurire le guardie del corpo, lo stesso Gellir si lanciò in battaglia,
colpendomi con la spada inguainata e urlando: «Cattivo mortale! Cattivo!».
Cercai di combatterlo, ma Jack opponeva resistenza. Probabilmente pensava che fosse poco
cavalleresco battersi contro una signora, soprattutto considerato che questa era infilata nel fodero. Jack è
un tipo all’antica.
Alla fine, Gellir fu l’unico draugr rimasto. Le sue guardie del corpo giacevano disseminate sul
pavimento in un orrendo guazzabuglio di braccia, gambe, armi e ferri da maglia. Arretrò verso il
sarcofago, stringendosi Skofnung al petto. «Aspettate. Presento una mozione d’ordine. Propongo di
rinviare ogni ulteriore combattimento fino a…»
Hearthstone rifiutò la mozione di Gellir saltandogli addosso e strappandogli la testa di netto. Il corpo
del draugr cadde in avanti, e il nostro pompatissimo elfo in pieno accesso di rabbia da anabolizzanti
runici cominciò a calpestarlo, scalciando e sparpagliando i resti essiccati finché l’unica cosa che rimase
a terra non fu Skofnung, la spada.
Hearthstone fece per prendere a calci anche quella.
«Fermatelo!» strillò Jack.
Afferrai Hearth per un braccio, compiendo il mio gesto più coraggioso della giornata. Lui si voltò a
guardarmi di scatto, con gli occhi che ardevano inferociti.
“È morto” gesticolai. “Ora ti puoi fermare.”
C’era un’altissima probabilità che stessi per essere decapitato di nuovo.
Poi Hearthstone strizzò le palpebre, e i suoi occhi iniettati di sangue si schiarirono. I muscoli gli si
sgonfiarono, e così i capelli. Crollò su se stesso, ma io e Blitz eravamo lì a prenderlo. Eravamo abituati
agli svenimenti post-magia di Hearthstone.
Sam conficcò la lancia nel cadavere di Dagfinn e la lasciò lì, come un bastone fluorescente gigante.
Prese ad aggirarsi intorno, imprecando fra i denti. «Mi dispiace, ragazzi. Tutti questi rischi, tutti questi
sforzi, e niente Mjolnir.»
«Ehi, non fa niente» disse Jack. «Abbiamo salvato la Spada Skofnung dal suo padrone malvagio! Ci
sarà molto grata. Dobbiamo portarla con noi!»
Blitzen sventolò il suo fazzoletto arancione davanti alla faccia di Hearth, cercando di rianimarlo.
«Prendere quella spada sarebbe proprio una pessima idea.»
«Perché?» chiesi. «E perché Hearth era così sconvolto quando ha saputo il suo nome? E tu hai parlato
di… una pietra, giusto?»
Blitz si poggiò la testa dell’elfo in grembo, come per proteggerlo dalla nostra conversazione.
«Figliolo, chiunque ci abbia mandati qui… Era una trappola, sì. Ma i draugr erano la cosa meno
pericolosa in questa camera. Qualcuno voleva che liberassimo quella spada.»
«Hai assolutamente ragione!» esclamò una voce familiare.
Il cuore mi si accartocciò in petto.
Davanti al sarcofago di Gellir c’erano i due uomini che meno desideravo incontrare in tutti i Nove
Mondi: zio Randolph e Loki. Alle loro spalle, il pannello nero della bara mozzata era diventato una
soglia scintillante, oltre la quale si intravedeva lo studio di Randolph.
Le labbra sfregiate di Loki si piegarono in un ghigno. «Ottimo lavoro, Magnus. Hai trovato il prezzo
della sposa. La spada è perfetta!»
17
ZIO RANDOLPH FINISCE ALLA GRANDE NELLA MIA LISTA DEI CATTIVI

Sam fu la più veloce a reagire. Strinse la lancia e si gettò verso suo padre.
«No, mia cara.» Loki schioccò le dita.
Sam si bloccò all’istante, le gambe paralizzate, e crollò di lato sul pavimento, dove rimase immobile
con gli occhi socchiusi. La sua lancia lucente rotolò sulle pietre.
«Sam!» Feci per raggiungerla, ma lo zio Randolph mi intercettò.
La sua grossa mole oscurò ogni cosa. Mi afferrò per le spalle. «Non farlo, Magnus.» La sua voce era
rotta dal panico. L’alito era un miscuglio soffocante di chiodi di garofano e pesce marcio. «Non
peggiorare le cose.»
«Peggiorare?» Lo spinsi via.
Il mio intero corpo vibrò di rabbia. Jack era leggero nella mia mano, pronto a scattare. Vedendo
Samirah svenuta ai piedi di suo padre (oh, dei, sperai che fosse solo svenuta), avevo una gran voglia di
spaccare la faccia a mio zio, in piena modalità uruz. Per non parlare della faccia di Loki.
“Dai una possibilità a Randolph” bisbigliò la voce di Annabeth in un angolino della mia mente. “Fa
parte della famiglia.”
Esitai… e tanto bastò per accorgermi dello stato in cui versava lo zio.
Il suo completo grigio era logoro e sporco di cenere, come se avesse strisciato dentro una canna
fumaria. E il volto… il naso, la guancia sinistra e il sopracciglio erano attraversati da un orrendo cratere
di tessuto cicatriziale: il segno di una scottatura recente che aveva la forma di una mano.
Fu come se un nano mi avesse mollato un pugno nella cavità addominale. Ricordai il marchio di Loki
che era comparso sulla guancia di Randolph nella foto di famiglia. Ripensai al mio sogno sul campo di
battaglia del Valhalla e al dolore lancinante sul viso quando Loki aveva comunicato con me, servendosi
di Randolph come canale. Loki aveva marchiato a fuoco mio zio.
Puntai lo sguardo sul dio dell’inganno. Indossava ancora quel disgustoso smoking verde che aveva
sfoggiato durante la visione che avevo avuto in battaglia, con il papillon a motivo cachemire di
sghimbescio. I suoi occhi scintillavano come se stesse pensando: “Coraggio. Uccidi tuo zio. Potrebbe
essere divertente”.
Decisi di non dargli quella soddisfazione. «Ci hai attirati qui con l’inganno» ringhiai. «Perché, quando
ti bastava attraversare una soglia magica in una bara?»
«Oh, ma non potevamo!» replicò Loki. «Prima bisognava che voi apriste la strada. Dopodiché, be’…
tu e Randolph siete collegati. O non l’avevi notato?» Si diede dei colpetti sulla guancia. «Il sangue è una
cosa potente. Posso sempre trovarti grazie a lui.»
«A meno che io non ti uccida» ribattei. «Randolph, levati di mezzo.»
Loki ridacchiò. «Hai sentito il ragazzo, Randolph. Scansati.»
Sembrava che mio zio stesse cercando di inghiottire una pillola da cavallo. «Ti prego, Loki. Non…»
«Caspita!» Loki inarcò le sopracciglia. «Sembra quasi che tu stia cercando di darmi un ordine! Ma
non è possibile, giusto? Violerebbe il nostro accordo!»
Le parole “il nostro accordo” fecero trasalire Randolph. Si scansò strascicando i piedi, coi muscoli
del viso che si contraevano intorno ai margini della sua nuova cicatrice.
Con la coda dell’occhio vidi Blitzen che aiutava Hearthstone a rimettersi in piedi. Mi augurai con tutto
me stesso che si tenessero alla larga. Non volevo nessun altro fra me e Loki.
Sam era ancora immobile.
Il cuore mi martellava nel petto. Feci un passo avanti. «Loki, cosa le hai fatto?»
Il dio lanciò un’occhiata alla figlia. «A Samirah, intendi? Sta bene. Le ho solo ordinato di smettere di
respirare.»
«Cosa?»
Loki liquidò la mia preoccupazione con un gesto vago. «Non in modo permanente, Magnus. Ma mi
piace avere la mano ferma con i miei figli. Ci sono così tanti genitori lassisti di questi tempi, non credi?»
«Li controlla» gracchiò Randolph.
Loki gli scoccò un’occhiata infastidita. «E tu come te la sei cavata come padre, Randolph?
Ricordamelo. Ah, giusto. La tua famiglia è morta, e la tua unica speranza di rivederli sono io.»
Randolph si ritrasse, raggelato.
Loki si voltò verso di me. Il suo ghigno suscitò brividi di disgusto a motivi cachemire lungo la mia
schiena. «Vedi, Magnus, i miei figli devono i loro poteri a me. In cambio, hanno l’obbligo di piegarsi al
mio volere quando glielo chiedo. È il minimo. Come ti dicevo, il sangue è una connessione potente. Hai
fatto bene ad ascoltarmi e a lasciare Alex nel Valhalla. Altrimenti avremmo due dei miei figli svenuti!»
Si strofinò le mani. «Ora, vuoi vedere qualcosina di più? Samirah è sempre così riluttante a mutare
forma. Potrei costringerla a trasformarsi in un gatto per te. O forse in un canguro? Sarebbe un canguro
adorabile.»
I brividi di disgusto a motivi cachemire passarono dalla schiena allo stomaco, minacciando di
eruttare. Finalmente capivo la riluttanza di Samirah a mutare forma.
“Ogni volta che lo faccio, sento che la natura di mio padre cerca d’impossessarsi di me” mi aveva
detto una volta.
Non c’era da stupirsi se Sam temeva che Loki potesse costringerla a sposare quel gigante. Né c’era da
stupirsi che fosse preoccupata per Alex Fierro, che mutava forma con tanta leggerezza.
Anche gli altri dei avevano quel genere di potere sui loro figli? Possibile che Freyr…? No. Mi rifiutai
di pensarlo.
«Lasciala stare.»
Loki fece spallucce. «Come vuoi. Avevo soltanto bisogno di metterla fuori uso. Gellir te lo avrà detto:
Skofnung non si può sguainare in presenza di una donna. Per fortuna, le donne in coma non contano!
Randolph, svelto, su. Siamo alla parte in cui tu sguaini la spada.»
Zio Randolph si leccò le labbra. «Forse sarebbe meglio se…» La sua voce si trasformò in un urlo
gutturale. Si piegò in due, mentre il fumo si levava dal tessuto cicatriziale sulla guancia.
Mi sentii scottare il viso anch’io. «Basta!» gridai.
Lo zio sussultò, inspirando forte con la bocca. Drizzò la schiena, con il vapore che si levava ancora da
un lato del naso.
Loki rise. «Randy, Randy, Randy. Non essere ridicolo. Ci siamo già passati, no? Vuoi che ti restituisca
la tua famiglia da Helheim? Il pagamento è anticipato. Tu porti il mio marchio, e fai quello che ti dico.
Non è così difficile.» Indicò la Spada Skofnung. «Prendila, su. E Magnus, se cerchi di interferire, posso
sempre rendere permanente il coma di Sam. Ma spero che non lo farai. Sarebbe alquanto inopportuno,
con il matrimonio alle porte.»
Avrei tanto voluto spezzarlo in due come Hel (nel senso di sua figlia Hel, che aveva due lati
totalmente diversi), soltanto per incollarlo e poi spezzarlo di nuovo. Non riuscivo a credere di aver
pensato che Loki fosse carismatico ed eloquente. Aveva chiamato mio zio “Randy”. Meritava la pena di
morte solo per questo.
Ma non sapevo fino a che punto controllasse Sam. Era davvero in grado di mandarla in catalessi
perenne? E poi ero anche preoccupato – più o meno – di quello che poteva capitare a Randolph. Sì, certo,
quell’idiota aveva siglato un patto malvagio con Loki, ma riuscivo a capire perché lo aveva fatto.
Ripensai a sua moglie, Catherine, sulla nave che affondava; ad Aubrey con la barchetta giocattolo; a
Emma che gridava stringendo la runa dell’eredità, il simbolo di tutti i sogni che non sarebbe mai riuscita
a realizzare da grande.
Alla mia sinistra, Hearthstone e Blitzen si avvicinarono piano. Hearthstone si era ripreso abbastanza
da camminare da solo. Blitz impugnava uno spadone recuperato da qualche zombie. Con un cenno li
invitai a restare indietro.
Randolph raccolse Skofnung e la estrasse lentamente dal fodero. Era una lama a doppio taglio di
freddo acciaio grigio. Lungo la cresta centrale, una serie di rune mandava tenui bagliori in ogni sfumatura
di azzurro, dal permafrost al sangue venoso.
Jack rabbrividì. «Oh… oh, wow.»
«Sì, wow» concordò Loki. «Ora, se io potessi impugnare una lama, e non potessi avere la favolosa
Spada dell’Estate, sceglierei Skofnung.»
«Quel tipo sarà anche malvagio, ma di certo ha buon gusto» bisbigliò Jack.
«Purtroppo, nelle mie condizioni attuali, non sono del tutto qui» aggiunse il dio.
Blitzen sbuffò. «La prima cosa che ha detto con cui mi trovo d’accordo. Quella spada non dovrebbe
mai essere sguainata.»
Loki alzò gli occhi al cielo. «Blitzen, figlio di Freya, sei un nano così melodrammatico quando si
parla di armi magiche! Io non posso impugnare Skofnung, no, ma i Chase discendono da antichi sovrani
norreni! Sono perfetti.»
Ricordai che Randolph mi aveva accennato alla cosa… i Chase discendono da un’antica famiglia
reale svedese e bla bla bla. Be’, spiacente. Se questo ci qualificava a impugnare spade malvagie, non
avevo nessuna intenzione di inserirlo nel mio curriculum.
“Troppo pericoloso.” I segni di Hearthstone erano deboli, senza energia. I suoi occhi traboccavano di
paura. “Morte. La profezia.”
«E così questa spada ha qualche cavillo» continuò Loki. «Ma a me piacciono i cavilli! Non la si può
usare in presenza di una donna. Non la si può sguainare alla luce del sole. Può essere usata soltanto da
qualcuno di nobile lignaggio.» Loki diede un colpetto di gomito sul braccio di Randolph. «Ma perfino lui
va bene. E poi, una volta sguainata, la spada non si può riporre nel fodero finché non ha assaggiato il
sangue.»
Jack mandò una sorta di gemito metallico. «Non è giusto. È troppo attraente.»
«Sì, vero?» Loki sorrise. «E l’ultimo piccolo cavillo della spada… Hearthstone, amico mio, vuoi
spiegarglielo tu, o lo faccio io?»
Hearthstone vacillò. Si aggrappò alla spalla di Blitzen, non capii se per sostenersi o per accertarsi che
il nano ci fosse ancora.
Blitzen sollevò lo spadone recuperato, che era alto quasi quanto lui. «Loki, non farai questo a Hearth.
Non te lo permetterò.»
«Mio caro nano, ti sono grato di aver trovato l’ingresso della tomba! E avevo bisogno che Hearthstone
spezzasse il sigillo magico intorno a quel sarcofago. Ciascuno di voi due ha svolto bene la propria parte,
ma temo di avere ancora bisogno di un vostro piccolo contributo. Non volete vedere Samirah felicemente
sposata?»
«Con un gigante?» Blitzen fece un verso di scherno. «No.»
«Ma è per una buona causa! La restituzione del martello di come accidenti si chiama! Questo significa
che mi occorre un adeguato prezzo della sposa, e Thrym ha chiesto la Spada Skofnung. È uno scambio
molto ragionevole. Ma il fatto è che la spada non è completa senza la pietra. Le due formano un set
coordinato.»
«Quale pietra?» domandai.
«La Pietra Skofnung, ovvero la cote fabbricata per affilare la spada!» Con i pollici e gli indici, Loki
fece un cerchio della dimensione di un piatto da dessert. «Più o meno grande così, azzurra screziata di
grigio.» Rivolse a Hearthstone una strizzatina d’occhio. «Ti suona familiare?»
Hearthstone sembrò strozzarsi con la sua stessa sciarpa.
«Hearth, di cosa sta parlando?» chiesi.
Il mio amico elfo non rispose.
Zio Randolph vacillò. Adesso usava tutte e due le mani per sorreggere la spada maledetta. La lama di
ferro si scurì, mandando ciuffi di vapore gelido dai bordi.
«Sta diventando più pesante» disse Randolph annaspando. «Più fredda.»
«Allora è meglio sbrigarci.» Loki abbassò lo sguardo sulla sagoma svenuta di Samirah. «Randolph,
nutriamo questa spada affamata, che ne dici?»
«Mai!» Sollevai la mia spada. «Randolph, non voglio ferirti, ma lo farò.»
Mio zio rispose con un singhiozzo strozzato. «Magnus, tu non capisci. Non sai che cos’ha in mente…»
«Randolph» sibilò Loki. «Se vuoi rivedere la tua famiglia, colpisci!»
Randolph si slanciò in avanti, tendendo la lama maledetta. E io fraintesi completamente il suo
bersaglio.
Stupido Magnus. Di una stupidità imperdonabile.
Ero tutto concentrato su Sam, che giaceva inerme ai piedi di Loki. Dovevo difenderla a ogni costo.
Non pensavo alle profezie, o al fatto che qualunque cosa Loki facesse, perfino un’occhiata casuale alla
figlia, fosse sempre un trucco calcolato.
Mi feci avanti per intercettare il colpo di mio zio, ma lui puntò dritto dietro di me. Con un grido di
orrore, affondò la Spada Skofnung nella pancia di Blitzen.
18
DEVO IMPARARE MOLTE, MOLTE PIÙ PAROLACCE NELLA LINGUA DEI SEGNI

Ululai di rabbia.
Sferrai un colpo verso l’alto, e Skofnung volò via dalla presa di Randolph, insieme a – bleah, forse
vorrete saltare questa parte – un paio di affarini rosa che somigliavano a due dita.
Randolph arretrò barcollando, portandosi il pugno al petto. La Spada Skofnung cadde sferragliando a
terra.
«Oh.» Blitzen sgranò gli occhi: la spada aveva trapassato il gilè in cotta di maglia. Il sangue gli
filtrava tra le dita. Fece un passo falso.
Hearthstone lo riprese in tempo e lo allontanò da Randolph e Loki.
Io mi rivoltai contro il dio. Sollevai di nuovo la lama di Jack e cercai di squarciare il suo volto
spavaldo, ma la sua forma si limitò a tremolare, come una proiezione.
«Ecco che Magnus sferra un colpo! Accidenti, mancato!» Loki scosse la testa. «Magnus, sappiamo
entrambi che non puoi farmi del male. Non sono del tutto qui! E poi, combattere non è il tuo forte. Se vuoi
sfogare la tua rabbia con qualcuno, uccidi Randolph, ma sbrigati. Abbiamo molte cose di cui parlare, e il
tuo nano si sta dissanguando.»
Non riuscivo a respirare. Era come se qualcuno mi stesse versando odio puro in gola. Avevo una gran
voglia di far fuori mio zio. O di demolire quella tomba, pietra dopo pietra. A un tratto comprendevo
Ratatoskr, lo scoiattolo che diceva soltanto cattiverie e tentava di distruggere lo stesso albero in cui
viveva.
Non fu facile, ma soffocai la rabbia: salvare Blitzen era più importante della vendetta. «Jack, tieni
d’occhio questi meinfretr» dissi. «Se cercano di far del male a Sam o prendere la Spada Skofnung, entra
in modalità affettatrice.»
«Contaci.» Jack parlò con una voce più profonda del solito, probabilmente per far colpo su Skofnung.
«Proteggerò questa bellezza a costo della vita! Oh, e anche Sam.»
Corsi al fianco di Blitzen.
«Ecco il mio ragazzo!» esultò Loki. «Ecco il Magnus che conosco e amo! Sempre così attento al
prossimo. L’eterno guaritore!»
Posai le mani sulla pancia di Blitz, poi alzai lo sguardo verso Hearthstone. «Hai qualche runa utile?»
Hearth scosse la testa. Il suo odio “livello Ratatoskr” gli si leggeva negli occhi. Capii quanto volesse
disperatamente fare qualcosa, qualunque cosa, ma aveva già usato due rune quella mattina: se ne avesse
usate altre, probabilmente ci avrebbe lasciato la pelle.
Blitzen tossì, il volto del colore dello stucco. «Sto… sto bene, ragazzi. Mi serve solo un… un
minuto.»
«Tieni duro, Blitz.» Evocai il potere di Freyr. Le mie mani si scaldarono come le serpentine di una
coperta elettrica, mandando calore in ogni cellula del corpo di Blitzen. Rallentai la sua circolazione.
Alleviai il dolore. Ma la ferita rifiutò di rimarginarsi. La sentivo che mi contrastava, squarciando tessuti
e capillari più in fretta di quanto io riuscissi ad aggiustarli, rodendo il corpo di Blitzen con una voracità
maligna.
Ricordai la profezia di Hearthstone: “Blitzen. Sangue versato. Non si può fermare”.
Era colpa mia. Avrei dovuto prevederlo. Avrei dovuto insistere affinché Blitzen rimanesse nel rifugio
segreto di Mimir a mangiare pizze a domicilio. Avrei dovuto ascoltare quello stupido capricida a Back
Bay.
«Te la caverai» dissi. «Resta con me.»
Gli occhi di Blitzen cominciavano ad annebbiarsi. «Ho… un kit da cucito nel taschino del gilè… se
può servire.»
Avrei voluto urlare. Meno male che Jack non era più nelle mie mani, perché avrei fatto una scenata in
pieno stile Kylo Ren.
Mi alzai ad affrontare Loki e Randolph. Dovevo avere una faccia piuttosto spaventosa. Randolph
arretrò fin dentro la nicchia di uno zombie, lasciandosi dietro una scia di sangue dalla mano ferita.
Probabilmente avrei potuto guarirlo, ma non fui nemmeno tentato di farlo.
«Loki, che cosa vuoi?» domandai. «Come faccio ad aiutare Blitzen?»
Il dio allargò le braccia. «Sono così felice che tu me lo abbia chiesto. Per fortuna, le due domande
hanno la stessa risposta!»
«La pietra» sussurrò Blitz, con un soffio di fiato. «Vuole… la pietra.»
«Esatto!» confermò Loki. «Vedi, Magnus, le ferite della Spada Skofnung non guariscono mai.
Continuano a sanguinare per sempre… o fino alla morte, una delle due. L’unico modo per chiudere quella
ferita è la Pietra Skofnung. Ecco perché la pietra e la spada sono un set così importante.»
Hearthstone si lanciò in una tirata di imprecazioni nella lingua dei segni così impressionante che non
avrebbe sfigurato come performance d’arte. Anche se non li capivi alla lettera, i suoi gesti trasmettevano
la rabbia molto meglio di una montagna di urla.
«Povero me!» commentò Loki. «Non mi rivolgevano alcuni di questi insulti dal mio ultimo scontro
diretto con gli Asi! Mi spiace che tu la prenda così, amico elfo, ma sei il solo che può recuperare la
pietra. Lo sai che è l’unica soluzione. Farai meglio a correre a casa!»
«A casa?» La mia mente si muoveva alla velocità di uno sciroppo freddo. «Vuoi dire… ad Alfheim?»
Blitzen emise un gemito. «Non farcelo andare, figliolo. Non ne vale la pena.»
Scoccai un’occhiataccia a zio Randolph, che si stava mettendo comodo nella sua nicchia da zombie.
Tra il vestito sudicio, il volto sfregiato, lo sguardo inespressivo per il dolore e la perdita di sangue, era
sulla strada giusta per diventare un non morto.
«Che sta cercando Loki?» gli chiesi. «Cosa c’entra tutto questo con il martello di Thor?»
Lo zio mi rivolse la stessa espressione desolata che aveva nel mio sogno, quando si era voltato verso
la sua famiglia sullo yacht battuto dalla tempesta e aveva detto: “Vi riporterò a casa”. «Magnus, mi
dispia…»
«Ti dispiace?» lo interruppe Loki. «Oh, sì, ti dispiace tanto, Randolph. Lo sappiamo. Ma davvero,
Magnus, non riesci a cogliere la connessione? Forse devo essere più chiaro. A volte dimentico quanto
possiate essere lenti voi mortali. Un – gigante – ha – il – martello.» Illustrò ogni parola gesticolando
esageratamente nella lingua dei segni. «Il – gigante – restituirà – il – martello – in – cambio – di –
Samirah. Ci – scambieremo – i – doni – al – matrimonio. Il – martello – in – cambio – di – S-K-O-F-N-
U-N-G.»
«Piantala!» ringhiai.
«Allora mi capisci?» Loki scrollò le mani. «Bene, perché le mie dita cominciavano a stancarsi. Ora,
non posso portare metà del prezzo della sposa, no? Thrym non lo accetterebbe. Mi servono la spada e la
pietra. Per fortuna, il tuo amico Hearthstone sa esattamente dove trovare la pietra!»
«Ed è per questo che hai organizzato tutto? È per questo che…?» Indicai Blitz, che giaceva in una
pozza di sangue sempre più larga.
«Consideralo un incentivo.» Loki annuì. «Non ero sicuro che mi avresti portato la pietra soltanto per il
matrimonio di Samirah, ma so che lo farai per salvare il tuo amico. E, ci tengo a ricordare, tutto questo è
solo perché io possa aiutare te a recuperare lo stupido martello di come accidenti si chiama. Ci
guadagniamo tutti. A meno che, certo, il tuo nano non muoia. Sono creaturine così penose. Randolph, su,
ora vieni!»
Mio zio strascicò i piedi verso Loki come un cane che aspetta il bastone. Non provavo molto affetto
per lui in quel momento, ma detestavo lo stesso il modo in cui Loki lo trattava. Ripensai alla connessione
che avevo provato con lo zio durante i miei sogni… la sensazione di dolore pressante che lo motivava.
«Non devi andare con lui» dissi.
Randolph mi lanciò uno sguardo, e capii quanto mi sbagliavo. Quando aveva colpito Blitzen, qualcosa
dentro di lui si era spezzato. Si era spinto così avanti in quel patto malvagio, aveva rinunciato a tanto per
riavere la moglie e le figlie morte, che non riusciva più a immaginare altre vie d’uscita.
Loki indicò Skofnung. «La spada, Randolph. Prendila.»
Le rune di Jack pulsarono di viola per la rabbia. «Provaci, bello, e perderai più di un paio di dita.»
Randolph esitò, come le persone tendono a fare quando sono minacciate da luminose spade parlanti.
La spavalderia di Loki vacillò. I suoi occhi si incupirono. Piegò le labbra sfregiate in una smorfia.
Capii quanto desiderava quella spada. Gli serviva per qualcosa di molto più importante di un dono di
nozze.
Misi un piede sopra Skofnung. «Jack ha ragione. La spada non va da nessuna parte.»
Le vene sul collo di Loki sembrarono sul punto di esplodere. Ebbi paura che potesse uccidere Samirah
e dipingere le pareti con chiazze astratte di nano, elfo e einherji.
Sostenni lo stesso il suo sguardo. Non capivo il suo piano, ma stavo cominciando a rendermi conto
che gli servivamo vivi… almeno per ora.
Nell’arco di un nanosecondo, il dio si ricompose. «E va bene, Magnus» disse in tono leggero. «Porta
la spada e la pietra con te quando porterai la sposa. Fra quattro giorni. Ti farò sapere dove. E procurati
uno smoking adeguato. Randolph, vieni, su. Da bravo. Zac-zac!»
Lo zio trasalì.
Loki rise. «Oh, chiedo scusa.» Agitò il mignolo e l’anulare. «Troppo presto?» Afferrò Randolph per
una manica, e insieme a lui sparì nel portale della bara come se fossero stati risucchiati fuori da un jet in
volo. Il sarcofago implose alle loro spalle.

Sam si riscosse. Si mise a sedere di scatto, quasi fosse partita la sveglia. Lo hijab le scivolò sopra
l’occhio destro come la benda di un pirata. «Che… che succede?»
Mi sentivo troppo stordito per rispondere. Ero inginocchiato accanto a Blitzen, e stavo facendo il
possibile per mantenerlo in condizioni stabili. Le mie mani rilucevano di così tanto potere di Freyr che
avrei potuto provocare una fusione nucleare, ma era inutile. Il mio amico se ne stava andando.
Gli occhi di Hearth traboccavano di lacrime. Si sedette accanto a Blitz, strusciando la sciarpa a
pallini nel sangue. Di tanto in tanto si dava una pacca sulla fronte, disegnandoci una V sopra: “Stupido.
Stupido”.
L’ombra di Sam cadde su di noi. «No! No, no, no. Che cos’è successo?»
Hearthstone si lanciò in un’altra tirata nella lingua dei segni: “Te l’avevo detto! Troppo pericoloso! È
colpa tua…”.
«Amico…» Blitzen tirò debolmente verso di sé le mani di Hearthstone. «Non è colpa di… di Sam. E
nemmeno tua. È stata una mia… mia idea.»
Hearthstone scosse la testa. “Stupida valchiria. E stupido io. Dev’esserci un modo per curarti.”
Mi guardò, sperando in un miracolo.
Detestavo essere un guaritore. Per le brache di Freyr, quanto avrei preferito essere un guerriero! O un
mutaforma come Alex Fierro, o un mago delle rune come Hearthstone, o perfino un berserker come
Halfborn, pronto a lanciarmi in battaglia in mutande. Sapere che la vita dei miei amici dipendeva dalle
mie abilità, osservare la luce che si affievoliva negli occhi di Blitzen e non poterci fare nulla… era
insopportabile.
«Loki non ci lascerebbe mai un’altra scelta» dissi. «Dobbiamo trovare la Pietra Skofnung.»
Hearthstone sbuffò per la frustrazione. “Lo farei. Per Blitz. Ma non c’è tempo. Ci vorrebbe almeno un
giorno. Morirà.”
Blitzen cercò di dire qualcosa. Ma non proferì parola. Ciondolò la testa di lato.
«No!» singhiozzò Sam. «No, non può morire. Dov’è questa pietra? Andrò a prenderla io!»
Perlustrai la tomba con lo sguardo, a caccia di idee. I miei occhi si fermarono sull’unica fonte di luce:
la lancia di Samirah, ancora a terra nella polvere.
La luce. La luce del sole.
C’era un ultimo miracolo che potevo tentare. Un miracolo poco convincente, l’ultimissima risorsa, ma
era tutto ciò che avevo.
«Ci serve più tempo» dissi. «E ce lo procureremo.» Non ero certo che Blitzen fosse ancora lucido, ma
gli strizzai una spalla. «Ti riporteremo in vita, amico. Promesso.»
Mi alzai. Sollevai il viso verso il soffitto a cupola e immaginai il sole sopra di noi. Mi rivolsi a mio
padre, il dio del calore e della fertilità, il dio delle creature viventi che si fanno strada nella terra per
raggiungere la luce.
La tomba tremò. Cominciò a piovere polvere. Sopra la mia testa, il soffitto a cupola si incrinò come il
guscio di un uovo e uno squarcio frastagliato di luce si riversò nel buio, illuminando il volto di Blitzen.
E, sotto il mio sguardo, uno dei miei migliori amici in tutti i Nove Mondi si trasformò in pietra.
19
IL PILOTA STA PREGANDO. DEVO PREOCCUPARMI?

L’aeroporto di Provincetown era il luogo più deprimente in cui fossi mai stato, anche se, a dire il vero,
forse dipendeva dalla compagnia: un nano pietrificato, un elfo dal cuore infranto, una valchiria furiosa e
una spada che non la finiva più di parlare.
Sam aveva chiamato una macchina Uber per venirci a prendere al monumento dei Pellegrini. Mi chiesi
se usasse lo stesso sistema come copertura per trasportare le anime nel Valhalla. Per tutta la strada verso
l’aeroporto, stretto sul sedile posteriore di una Ford Focus station wagon, non riuscivo a smettere di
canticchiare La cavalcata delle valchirie.
Accanto a me, Jack si prendeva tutta la cintura di sicurezza e mi tempestava di domande. «Possiamo
sguainare Skofnung un’altra volta, solo per un minuto? La voglio salutare.»
«Jack, no. Non si può sguainare alla luce del sole e alla presenza di una donna. E, anche se lo
facessimo, la spada poi dovrebbe uccidere qualcuno.»
«Sì, ma a parte questo, non sarebbe fantastico?» Jack sospirò, con le rune che illuminavano la lama.
«È talmente bella…»
«Per favore, diventa un ciondolo.»
«Secondo te, le piaccio? Non ho detto stupidaggini, giusto? Di’ la verità.»
Mi morsi la lingua per non dargli qualche rispostaccia. Non era colpa di Jack se eravamo in quella
brutta situazione. Però fui sollevato quando lo convinsi a ritrasformarsi in ciondolo. Gli dissi che aveva
bisogno del suo “riposino di bellezza” nel caso avessimo sguainato Skofnung più tardi.
Appena arrivammo all’aeroporto, aiutai Hearthstone a tirare fuori dall’auto il nostro nano di granito
mentre Sam andava al terminal.
L’aeroporto non era granché. C’era un unico capannone per gli arrivi e per le partenze, con un paio di
panchine sul davanti e, oltre la sbarra di sicurezza, due piste per piccoli velivoli.
Sam non mi aveva spiegato perché eravamo lì. Forse stava usando i suoi contatti nel settore per
procurarci un volo charter per Boston. Ovviamente, non poteva trasportarci lei tutti e quattro usando il
proprio potere, e Hearthstone non era nelle condizioni di lanciare altre rune.
Hearth aveva impiegato i suoi ultimi sprazzi di energia magica per evocare un grande foglio di
plastica a bolle e del nastro da pacchi, usando una runa che somigliava a una normalissima X. Forse era
l’antico simbolo vichingo per i materiali da imballaggio, forse era la runa dell’Alfheim Express.
Hearthstone era così triste e arrabbiato che non osai chiederglielo. Rimasi ad aspettare il ritorno di Sam
fuori dal terminal, mentre Hearth impacchettava con cura il proprio migliore amico.
Avevamo raggiunto una sorta di tregua mentre aspettavamo la macchina. Ci sentivamo tutti e tre come
cavi elettrici scoperti, sovraccarichi di sensi di colpa e risentimento, pronti a uccidere chiunque ci
toccasse, ma sapevamo che così non avremmo aiutato Blitzen. Non ne avevamo parlato, ma avevamo
stretto il tacito patto di non azzannarci a vicenda fino a che le cose non si fossero risolte. In quel
momento, avevamo un nano da guarire.
Finalmente, Sam riemerse dal terminal. Doveva essersi fermata in bagno, perché aveva ancora il viso
e le mani bagnate. «Il Cessna sta arrivando» disse.
«Il tuo istruttore di volo?»
Annuì. «Ho dovuto supplicare, ma Barry è davvero gentile. Ha capito che è un’emergenza.»
«Sa che…?» Feci un ampio gesto, alludendo con scarsa energia a tutto: i Nove Mondi, i nani
pietrificati, i guerrieri non morti, gli dei malvagi e ogni altro singolo casino della nostra vita.
«No» rispose Sam. «E vorrei che le cose restassero così. Non posso pilotare aeroplani se il mio
istruttore pensa che sia pazza.» Lanciò un’occhiata all’operazione di impacchettamento di Hearthstone.
«Nessun cambiamento in Blitzen? Non ha ancora cominciato a… sgretolarsi?»
Mi salì un groppo in gola, come un grosso e viscido lumacone. «Sgretolarsi? Ti prego, dimmi che non
succederà.»
«Spero di no. Ma a volte…» Sam chiuse gli occhi e si concesse un secondo per riprendersi. «A volte,
dopo qualche giorno…»
Come se mi servisse una ragione per sentirmi ancora di più in colpa. «Quando avremo trovato la
Pietra Skofnung… esiste un modo per depietrificare Blitz, giusto?»
Era il genere di domanda che avrei dovuto pormi prima di trasformare il mio amico in un blocco di
granito, ma… ehi, avevo agito sotto una pressione immensa.
«Spero… spero di sì» disse Sam.
Ora sì che mi sentivo sollevato.
Hearthstone ci lanciò uno sguardo. Si rivolse a Sam con una serie di piccoli gesti arrabbiati:
“L’aeroplano? Lancia me e Magnus. Tu non vieni”.
Sam sembrò ferita, ma si avvicinò la mano al viso, con l’indice puntato verso il cielo. “Capito.”
Hearthstone tornò a impacchettare il nostro nano.
«Dagli tempo» dissi a Sam. «Non è colpa tua.»
Lei studiò il manto della strada. «Quanto vorrei crederci.»
Avrei voluto approfondire la questione del controllo che Loki esercitava su di lei, dirle quanto mi
dispiaceva, promettere che avremmo trovato il modo di sconfiggere suo padre. Ma intuii che era troppo
presto per parlarne. La sua vergogna scottava ancora troppo.
«Che intendeva Hearthstone quando ha detto: “Lancia me e Magnus”?» chiesi.
«Te lo spiegherò durante il volo.» Sam tirò fuori il telefono e controllò l’ora. «È zuhr. Abbiamo una
ventina di minuti prima che l’aeroplano atterri. Magnus, puoi venire con me?»
Non sapevo cosa significasse zuhr, ma la seguii fino a un piccolo spiazzo verde al centro di una
rotonda.
Samirah frugò nel suo zaino. Tirò fuori un telo azzurro grande quanto una sciarpa extralarge e lo
allargò sull’erba.
Il mio primo pensiero fu: “Ci facciamo un picnic?”. Poi mi resi conto che stava disponendo il telo in
modo che puntasse verso sud-est. «È un tappeto da preghiera?»
«Sì» confermò lei. «È ora della preghiera di mezzogiorno. Faresti la guardia per me?»
«Io… aspetta… Cosa?» Mi sentivo come se mi avesse appena messo in mano un neonato e mi avesse
chiesto di occuparmene. Da quando la conoscevo, non l’avevo mai vista pregare. Mi ero immaginato che
non lo facesse molto spesso. Era quello che avrei fatto anch’io al posto suo: meno roba religiosa
possibile. «Come puoi pregare in un momento come questo?»
Sam rise senza entusiasmo. «La vera domanda è: come posso non pregare in un momento come
questo? Non ci vorrà molto. Tu pensa soltanto a fare la guardia nel caso… non lo so, ci attacchino dei
troll o roba del genere.»
«Perché non ti ho mai vista pregare prima d’ora?»
Sam fece spallucce. «Prego tutti i giorni. Cinque volte, come prescritto. Di solito mi allontano in un
posto tranquillo, anche se quando sono in viaggio o in una situazione pericolosa, a volte rimando le
preghiere finché non mi sento al sicuro. È permesso.»
«Come quando eravamo a Jotunheim?»
Annuì. «Quello è un buon esempio. E siccome al momento non siamo in pericolo, e tu sei qui, ed è
l’ora giusta… ti dispiace?»
«Ehm… no. Cioè, non c’è problema. Fa’ pure.»
Mi ero trovato in diverse situazioni piuttosto surreali. Avevo bevuto in un bicchiere chiamato Spacco
di Brutto in una taverna di nani. Ero scappato da uno scoiattolo gigante fra i rami dell’Albero del Mondo.
Mi ero calato a doppia corda lungo la tenda della sala da pranzo di un gigante. Ma fare la guardia a
Samirah al-Abbas mentre pregava nel parcheggio di un aeroporto… questa era nuova.
Sam si tolse le scarpe. Rimase immobile, ai piedi del tappeto, con le mani giunte all’altezza dello
stomaco, gli occhi socchiusi. Bisbigliò qualcosa. Si portò per un attimo le mani alle orecchie – lo stesso
gesto che nella lingua americana dei segni significa “ascolta attentamente” – poi cominciò le preghiere,
con una lieve cantilena in arabo simile a una poesia o a una canzone d’amore. Quindi si chinò, raddrizzò
la schiena, si inginocchiò con i piedi infilati sotto il corpo e appoggiò la fronte sul telo.
Non la stavo fissando, no. Non mi sembrava corretto. Ma continuai a guardare da quella che speravo
fosse una rispettosa distanza.
Devo ammettere che ne rimasi affascinato. Forse la invidiai anche un po’. Perfino dopo tutto quello
che le era capitato, dopo che era stata controllata e messa KO dal padre malvagio, Sam sembrava godersi
un attimo di pace. Stava generando la propria piccola bolla di serenità personale.
Io non prego mai, perché non credo in un unico Dio onnipotente. Ma mi piacerebbe avere lo stesso
livello di fede di Sam in qualcosa.
La preghiera non durò molto. Sam ripiegò il telo e si alzò. «Grazie, Magnus.»
Mi strinsi nelle spalle, sentendomi ancora un po’ un intruso. «Va meglio, ora?»
Lei fece una smorfia. «Non è magia.»
«Sì, ma… assistiamo di continuo a eventi magici. Non trovi difficile… ecco… credere che là fuori ci
sia qualcosa di più potente di queste creature norrene con cui abbiamo a che fare? Soprattutto quando –
senza offesa – il Pezzo Grosso non interviene a dare una mano?»
Sam infilò nello zaino il tappeto da preghiera. «Non intervenire, non immischiarsi, non obbligare… A
me sembra un comportamento molto più divino e misericordioso, non ti pare?»
Annuii. «Non hai tutti i torti.»
Non l’avevo mai vista piangere, ma mi accorsi che gli angoli degli occhi di Sam erano vagamente
arrossati. Mi chiesi se piangeva nello stesso modo in cui pregava, in privato, allontanandosi in qualche
angolino tranquillo per non farsi notare da noi.
Guardò verso il cielo. «E poi, chi dice che Allah non ci aiuta?» Indicò la sagoma bianca e scintillante
di un aereo in avvicinamento. «Andiamo incontro a Barry.»

Sorpresa! Non solo ricevemmo un aeroplano e un pilota, ma anche il fidanzato di Sam.


Sam stava attraversando la pista di corsa quando il portellone dell’aereo si aprì. E la prima persona a
scendere la scaletta fu Amir Fadlan, con un giubbotto di pelle marrone sopra la maglietta bianca di
Falafel Fadlan, i capelli pettinati all’indietro con il gel e un paio di occhiali da sole con la montatura
dorata: in pratica, un modello vestito da aviatore.
Sam rallentò quando lo vide, ma era troppo tardi per nascondersi. Si voltò a guardarmi con
un’espressione di panico sul viso, poi andò incontro al promesso sposo.
Mi persi la prima parte della loro conversazione. Ero troppo occupato ad aiutare Hearthstone a
trascinare un nano di pietra fino all’aereo. Sam e Amir erano ai piedi della scaletta, e gesticolavano
esasperati scambiandosi espressioni affrante.
Quando alla fine li raggiunsi, Amir camminava avanti e indietro come se stesse provando un discorso.
«Non dovrei nemmeno essere qui. Pensavo che tu fossi in pericolo. Pensavo che fosse una questione di
vita o di morte. Pensavo…» Si fermò di botto. «Magnus?» Mi guardò come se fossi appena caduto giù
dal cielo, e si sbagliava, visto che non cadevo giù dal cielo da ore.
«Ehilà, bello!» esclamai. «C’è un’ottima ragione per tutto questo, te l’assicuro. Un’ottima ragione.
Cioè, Samirah non ha fatto… nulla di sbagliato. Nulla. Non ha fatto niente.»
Sam mi guardò malissimo, come a dire: “Così non mi aiuti!”.
Lo sguardo di Amir si spostò su Hearthstone. «Ehi, conosco anche te. Ti ho visto un paio di mesi fa, al
centro commerciale. Il cosiddetto gruppo di studio di matematica di Sam…» Scosse la testa, incredulo.
«E così tu sei l’elfo di cui Sam stava parlando? E Magnus… tu sei… tu sei morto. Sam ha detto che ha
portato la tua anima nel Valhalla. E il nano…» Guardò con gli occhi sgranati il nostro Blitzen portatile
avvolto nel pluriball. «… è una statua?»
«Temporaneamente» risposi. «E neanche questo è colpa di Sam.»
Amir scoppiò in una di quelle risate folli che non si vorrebbero mai sentire, il sintomo che nel
cervello si sono aperte crepe che non si saneranno tanto facilmente. «Non so nemmeno da dove
cominciare. Sam, stai bene? Sei… sei nei guai?»
Le guance di Sam divennero paonazze come succo di mirtilli rossi. «È… complicato. Mi dispiace
tanto, Amir. Non mi aspettavo…»
«… di trovarlo qui?» concluse una nuova voce. «Tesoro, non ha voluto sentire ragioni.»
Sulla soglia dell’aeroplano era comparso un uomo magro e scuro, così ben vestito che Blitzen avrebbe
pianto di gioia: jeans stretti rosso borgogna, camicia verde pastello, gilè doppiopetto e stivali di pelle a
punta. Sul cartellino laminato che portava al collo e che lo identificava come pilota c’era scritto: BARRY
AL-JABBAR .
«Miei cari, se vogliamo attenerci al piano di volo, è meglio che saliate a bordo» disse Barry. «Il
tempo di fare rifornimento e avremo già decollato. Quanto a te, Samirah…» Inarcò un sopracciglio.
Aveva gli occhi dorati più caldi che avessi mai visto. «Perdonami se ho avvisato Amir ma, quando hai
chiamato, mi sono preoccupato da morire. Amir è un caro amico. E qualunque dramma sia in corso fra
voi, mi aspetto che sistemiate tutto! Non appena ha saputo che eri nei guai, ha insistito per
accompagnarmi. Perciò…» Barry si avvicinò una mano a coppa alla bocca e bisbigliò abbastanza forte
da farsi sentire. «Diremo soltanto che sono il tuo chaperon, eh? Ora tutti a bordo!» Poi fece dietrofront e
scomparve nell’aereo.
Hearthstone lo seguì, trascinandosi dietro Blitzen sulla scaletta.
Amir intrecciò le dita. «Sam, sto cercando di capire. Davvero.»
Lei si guardò la cintura, forse rendendosi conto solo in quel momento di indossare ancora l’ascia da
guerra. «Lo so.»
«Farò qualsiasi cosa per te» continuò Amir. «Solo… non smettere di parlare con me, okay? Parlami.
Non importa quanto sia folle, parla con me.»
Sam annuì. «Meglio che tu salga a bordo. Devo fare la mia ispezione.»
Amir mi lanciò un’ultima occhiata – come per cercare di capire dove fossero le mie ferite mortali –
poi salì la scaletta.
Io mi voltai verso Sam. «È venuto fin qui per te. Pensa solo al tuo bene.»
«Lo so.»
«È una cosa fantastica, Sam.»
«Non lo merito. Non sono stata onesta con lui. È solo che… non volevo contaminare l’unica parte
normale della mia vita.»
«Ti ricordo che la parte anormale della tua vita è qui davanti a te.»
Lei accennò un sorriso. «Scusa. So che stai cercando di aiutarmi. Non vorrei mai cancellarti dalla mia
vita, Magnus.»
«Be’, meno male. Perché c’è ancora una bella dose di follia in arrivo.»
Sam annuì. «A proposito, meglio che ti trovi un posto e allacci bene la cintura.»
«Perché? Barry non è un bravo pilota?»
«Oh, Barry è un ottimo pilota, ma non sarà lui a guidare. Lo farò io… e vi porterò dritti ad Alfheim.»
20
IN CASO DI POSSESSIONE DEMONIACA, SEGUITE LE INDICAZIONI LUMINOSE
FINO ALL’USCITA PIÙ VICINA

Barry era in piedi nel corridoio rivolto verso di noi, coi gomiti appoggiati sugli schienali dei due sedili
ai suoi fianchi. Grazie alla sua acqua di colonia, l’aereo profumava come il Boston Flower Exchange.
«Allora, miei cari, avete mai volato su un Citation XLS prima d’ora?»
«Ehm, no» risposi. «Credo che me lo ricorderei.»
La cabina non era grande, ma era tutta di pelle bianca con le rifiniture dorate, come una BMW con le
ali. Quattro sedili per passeggeri erano disposti l’uno di fronte all’altro in una sorta di piccola sala
riunioni. Io e Hearthstone eravamo seduti nella direzione di marcia; Amir sedeva davanti a me, il nostro
Blitzen di pietra era legato stretto di fronte a Hearth.
Sam era al posto di comando, fra quadranti e interruttori. Pensavo che tutti gli aerei avessero porte per
separare la cabina di pilotaggio dall’area passeggeri, ma non il Citation. Dalla mia posizione, riuscivo a
guardare perfettamente fuori dal parabrezza. Fui tentato di chiedere ad Amir di scambiarci di posto. La
veduta sul bagno sarebbe stata meno stressante.
«Bene, in qualità di vostro copilota durante questo volo, è mio compito darvi rapidamente tutte le
informazioni di sicurezza. L’uscita principale è qui.» Barry batté le nocche sul portellone della cabina dal
quale eravamo entrati. «In caso di emergenza, se io e Sam non siamo in grado di aprirlo per voi,
dovrete… AVRESTI DOVUTO ASCOLTARMI, MAGNUS CHASE!»
La voce di Barry divenne tutt’a un tratto più profonda, aumentando di tre volte il volume. Amir, che
era seduto sotto il suo gomito, mi saltò quasi in grembo.
Nella cabina di pilotaggio, Sam si voltò lentamente. «Barry?»
«TI AVEVO AVVISATO.» La nuova voce di Barry era distorta e crepitante, e si alzava e abbassava
continuamente di tono. «SEI CADUTO LO STESSO NELLA TRAPPOLA DI LOKI.»
«Che… che gli ha preso?» domandò Amir. «Questo non è Barry.»
«No» concordai, con la gola secca come quella di un berserker zombie. «Questo è il mio assassino
preferito.»
Hearthstone appariva perfino più confuso di Amir. Non poteva udire il cambiamento di voce di Barry,
ovviamente, ma capiva che il discorsetto sulla sicurezza aveva preso tutta un’altra piega.
«ORA NON C’È SCELTA» sentenziò Barry-non-Barry. «QUANDO AVRAI GUARITO IL TUO AMICO,
VIENI A TROVARMI A JOTUNHEIM. TI DIRÒ QUELLO DI CUI HAI BISOGNO PER VANIFICARE IL
PIANO DI LOKI.»
Studiai il volto del copilota. I suoi occhi dorati sembravano persi nel vuoto, ma per il resto non
riuscivo a scorgere nulla di diverso in lui.
«Tu sei il capricida» dissi. «Il tizio che mi osservava fra i rami dell’albero, al banchetto.»
Amir non riusciva a smettere di strizzare gli occhi, incredulo. «Capricida? Albero?»
«TROVA HEIMDALL» ordinò la voce distorta. «LUI TI INDICHERÀ LA DIREZIONE PER VENIRE
DA ME. PORTA L’ALTRA, ALEX FIERRO. ADESSO È LEI LA TUA UNICA SPERANZA DI
SUCCESSO… e con questo direi che è tutto. Ci sono domande?» La voce era tornata normale. Barry
sorrise soddisfatto, come se non riuscisse a immaginare un modo migliore per trascorrere quella giornata
che fare avanti e indietro da Cape Cod, aiutare i suoi amici e trasmettere le voci di ninja ultraterreni.
Io, Amir e Hearth scuotemmo tutti e tre la testa con forza.
«Nessuna domanda. Nemmeno una» dichiarai, incrociando lo sguardo di Sam.
Lei mi rivolse una scrollatina di spalle. Della serie: “Sì, ho sentito, il mio copilota ha subito una
piccola possessione. Che ci posso fare?”.
«Benissimo, allora.» Barry diede dei colpetti sulla zucca di granito di Blitzen. «Le cuffie sono nello
scomparto che avete accanto, se volete parlare con noi nella cabina di pilotaggio. Il volo per il Norwood
Memorial è molto breve. Mettetevi comodi e buon viaggio!»

“Buon viaggio” non è l’espressione che avrei usato.


Una piccola confessione: non solo non avevo mai volato su un Citation XLS, non avevo mai preso un
aeroplano. E la mia prima volta probabilmente non avrebbe dovuto essere su un Cessna a otto posti
pilotato da una ragazza della mia età che prendeva lezioni solo da pochi mesi.
Non era colpa di Sam. Non potevo fare confronti, ma il decollo mi parve andare liscio. Almeno ci
alzammo in volo senza incidenti. Le mie unghie, però, lasciarono lo stesso dei solchi permanenti sui
braccioli del sedile. Ogni minima turbolenza mi sballottava così forte che ebbi nostalgia del nostro
vecchio amico Stanley, il cavallo volante a otto zampe esperto di tuffi nei canyon. (Be’, quasi.)
Amir declinò l’offerta della cuffia, forse perché la sua mente era già sovraccarica di assurde
informazioni norrene. Sedeva con le braccia conserte, lo sguardo fisso e cupo fuori dal finestrino, quasi
si stesse chiedendo se saremmo mai atterrati di nuovo nel mondo reale.
La voce di Sam crepitò nelle cuffie. «Abbiamo raggiunto la quota di crociera. Ci restano trentadue
minuti di volo.»
«Tutto bene dalle tue parti?» domandai.
«Sì…» La connessione fece bip. «Tutto okay. Non c’è nessun altro su questo canale. Il nostro amico
sembra a posto, ora. E comunque, non c’è motivo di preoccuparsi. Ci sono io ai comandi.»
«Io preoccuparmi? Scherzi?»
Barry mi sembrava tranquillo al momento. Era seduto rilassato nel posto del copilota e guardava il
proprio iPad. Avrei tanto voluto credere che fosse assorto in importanti letture sull’aviazione, ma ero
piuttosto sicuro che stesse giocando a Candy Crush.
«Riflessioni?» chiesi a Sam. «Sul consiglio del capricida, intendo…»
Interferenze. Poi: «Ci ha detto di cercarlo a Jotunheim. Perciò è un gigante. Questo non significa
necessariamente che sia cattivo. Mio padre…». Sam esitò, probabilmente per provare a togliersi il
saporaccio di quella parola dalla bocca. «Ha un sacco di nemici. Chiunque sia questo capricida, la sua
magia è potente. Aveva ragione su Provincetown. Avremmo dovuto ascoltarlo. Io avrei dovuto
ascoltarlo.»
«Non farlo» dissi. «Non massacrarti così.»
Amir cercò di concentrarsi su di me. «Scusa, che hai detto?»
«Non parlavo con te.» Diedi dei colpetti alla cuffia. «Sto parlando con Sam.»
Amir mimò un “Ah” con le labbra e tornò a fissare il finestrino col suo sguardo infelice.
«Amir non è in linea?» chiese Sam.
«No.»
«Dopo che vi avrò lanciato, ragazzi, porterò la Spada Skofnung al sicuro nel Valhalla. Non posso far
entrare Amir nell’hotel, ma… cercherò di mostrargli quello che posso, di fargli vedere la mia vita.»
«Ottimo. È forte, Sam. Ce la può fare.»
Tre secondi di rumore bianco. «Spero che tu abbia ragione. Aggiornerò anche i ragazzi del
diciannovesimo piano.»
«E Alex Fierro?»
Sam si voltò a guardarmi. Era strano vederla a così poca distanza, ma sentire la sua voce direttamente
nelle mie orecchie. «Portarla con noi è una cattiva idea, Magnus. Hai visto quello che ha potuto farmi
Loki. Immagina cosa…»
Riuscivo a immaginarlo. Ma avevo anche la sensazione che il capricida non avesse tutti i torti.
Avremmo avuto bisogno di Alex Fierro. Il suo arrivo nel Valhalla non era una coincidenza. Le Norne, o
qualche altro assurdo dio della profezia, avevano intrecciato il suo destino con il nostro.
«Non credo che dovremmo sottovalutarla» osservai, ricordando come si era battuta contro quei lupi e
come aveva cavalcato il lindworm imbizzarrito. «E poi, mi fido di lei. Cioè, per quanto ci si possa fidare
di qualcuno che ti ha mozzato la testa. Hai idea di come possiamo fare a trovare il dio Heimdall?»
Le interferenze sembrarono più fitte, più arrabbiate. «Purtroppo, sì» rispose Sam. «Preparatevi. Siamo
quasi in posizione.»
«Per atterrare a Norwood? Non avevi detto che saremmo andati ad Alfheim?»
«Voi ci andrete. Io no. La rotta per Norwood ci porta proprio sopra la zona perfetta di lancio.»
«Zona di lancio?» Sperai tanto di aver capito male.
«Senti, devo concentrarmi sul volo. Chiedi a Hearthstone.» La mia cuffia si spense.
Hearthstone stava facendo una gara di sguardi con Blitzen. La faccia di granito del nano spuntava dal
bozzolo di pluriball, l’espressione immobilizzata nell’agonia della morte. Hearthstone non sembrava
molto più sereno; l’infelicità che gli aleggiava intorno saltava agli occhi quasi quanto la sua sciarpa a
pallini macchiata di sangue.
“Alfheim” dissi nella lingua dei segni. “Come ci arriviamo?”
“Saltiamo” mi rispose.
Lo stomaco mi abbandonò lanciandosi col paracadute. «Saltiamo? Saltiamo giù dall’aeroplano?»
Hearth puntò lo sguardo in lontananza, come fa quando deve trovare il modo di spiegarmi qualcosa di
complicato nella lingua dei segni… di solito è qualcosa che non mi piace. “Alfheim è il regno dell’aria,
della luce” disse. “Ci si può entrare soltanto così…” Mimò una caduta libera.
«Questo è un jet» obiettai. «Non possiamo saltare… Moriremo!»
“Non moriremo” promise Hearth. “E poi, non sarà proprio un salto. Solo…” Fece un gesto come per
mimare una sparizione – puf! – e la cosa non mi rassicurò per niente. “Non possiamo morire finché non
avremo salvato Blitzen.”
Per essere uno che raramente emetteva un suono, Hearthstone era bravissimo a gridare indispettito
quando voleva. Mi aveva appena impartito i miei ordini di marcia: sparire con un puf dall’aeroplano;
lanciarmi su Alfheim; salvare Blitzen. Dopo, potevo pure morire.
Amir si agitò sul sedile. «Magnus? Sembri nervoso.»
«Eh, già.» Fui tentato di inventarmi qualche spiegazione semplice, qualcosa che non avrebbe
procurato altre crepe al suo generoso cervello mortale. Ma ormai avevamo oltrepassato il limite. Amir
faceva totalmente parte della vita di Sam, nel bene e nel male, normale o anormale che fosse. Era sempre
stato gentile con me. Mi aveva dato da mangiare quando ero un senzatetto, mi aveva trattato come una
persona quando la maggior parte della gente fingeva che fossi invisibile. Era venuto in nostro soccorso
oggi senza sapere nulla di cosa lo aspettava, soltanto perché Sam era nei guai. Non potevo mentirgli.
«A quanto pare, io e Hearth stiamo per sparire.» Gli riferii i miei ordini di marcia.
Amir rimase così smarrito che avrei voluto consolarlo con un abbraccio.
«Fino alla scorsa settimana, la mia più grande preoccupazione era decidere dove espandere il nostro
franchise di falafel, se a Jamaica Plain o a Chestnut Hill» disse. «Ora non sono più nemmeno sicuro di
quale mondo stiamo attraversando.»
Controllai che il microfono della mia cuffia fosse spento. «Amir, Sam è la stessa ragazza di sempre. È
coraggiosa. È forte.»
«Lo so.»
«Ed è anche pazza di te» continuai. «Non ha chiesto lei di avere queste assurdità nella vita. La sua più
grande preoccupazione è che tutto questo possa compromettere il suo futuro con te. Credimi.»
Amir chinò il capo, come un cucciolo in un canile. «Ci… ci sto provando, Magnus. Solo che… è così
strano.»
«Eh, sì» concordai. «Ti do una dritta: sta per diventare ancora più strano.» Accesi il microfono della
cuffia. «Sam?»
«Ho sentito tutta la conversazione» mi annunciò.
«Ah.» A quanto pareva, non ci avevo capito nulla di quegli aggeggi. «Ehm…»
«Ti ucciderò più tardi» continuò lei. «In questo momento, si sta avvicinando la vostra uscita.»
«Aspetta. Barry non si accorgerà che siamo scomparsi?»
«È un mortale. La sua mente si calibrerà di conseguenza. Dopotutto, la gente non svanisce dai jet in
volo. Quando saremo atterrati a Norwood, probabilmente non si ricorderà più che eravate a bordo.»
Speravo di essere un tantino più memorabile di così, ma ero troppo nervoso per preoccuparmene.
Accanto a me, Hearthstone si slacciò la cintura di sicurezza. Si sfilò la sciarpa e la legò al collo di
Blitzen, come una sorta di imbracatura.
«Buona fortuna» mi disse Sam. «Ci rivediamo a Midgard, ammesso che… lo sai…»
“Ammesso che torniamo sani e salvi” pensai. “Ammesso che riusciamo a guarire Blitzen. Ammesso
che ci vada meglio di come ci è andata negli ultimi due giorni… o secoli.”
Da un secondo all’altro, il Cessna scomparve. Mi ritrovai a fluttuare nel cielo, con le cuffie collegate
al nulla.
E iniziai a precipitare.
21
I VAGABONDI SARANNO FUCILATI, ARRESTATI E FUCILATI DI NUOVO

Blitzen una volta mi aveva detto che i nani non escono mai di casa senza un paracadute.
Ora capivo la saggezza delle sue parole. Io e Hearthstone precipitavamo nell’aria gelida, io agitando
le braccia e urlando, Hearth in un tuffo perfetto con il Blitzen di granito legato alla schiena. Mi lanciò
un’occhiata rassicurante, come a dire: “Non temere. Il nano è imballato bene”.
La mia unica risposta fu un altro grido incontrollato, perché non conoscevo i segni per dire:
“PORCACCIA LA MISERIA… AAAARGHHH!”.
Attraversammo una nuvola, e tutto cambiò. Rallentammo la caduta. L’aria si fece tiepida e dolce. La
luce del sole si intensificò, accecandomi.
Cademmo a terra. Be’, più o meno. I miei piedi atterrarono su un prato falciato di fresco e rimbalzai,
con la sensazione di pesare un nonnulla. Continuai a saltellare come un astronauta sull’erba, finché non
trovai l’equilibrio.
Strizzai gli occhi alla luce accecante, cercando di orientarmi. C’erano ettari di giardini, alberi alti, una
grande casa in lontananza. Tutto sembrava circondato da un alone di fuoco. In qualunque direzione mi
voltassi, era come avere un faretto puntato in faccia.
Hearthstone mi prese per un braccio e mi premette qualcosa in mano: un paio di occhiali da sole scuri.
Li inforcai, e gli occhi cessarono di farmi male.
«Grazie» mormorai. «C’è sempre tutta questa luce?»
Hearthstone si accigliò. Forse avevo strascicato le parole e non era riuscito a leggermi le labbra.
Ripetei la domanda nella lingua dei segni.
“Sempre” rispose. “Ti ci abituerai.” Perlustrò i dintorni come se si aspettasse una minaccia.
Eravamo atterrati sul prato principale di una grande tenuta. Muretti di pietra circondavano la
proprietà: una distesa grande quanto un campo da golf, cosparsa di curatissime aiuole fiorite e alberi
sottili e sinuosi, che sembravano slanciarsi verso l’alto spinti dalla forza di gravità. La casa era una villa
in stile Tudor con le finestre di vetro piombato e le torrette coniche.
“Chi ci abita qui?” chiesi a Hearth. “Il presidente di Alfheim?”
“Solo una famiglia. I Makepieces.” Sillabò il nome.
“Devono essere importanti” osservai.
Hearth si strinse nelle spalle. “Normali. Classe media.”
Risi, poi mi accorsi che non stava scherzando. Se quella era una famiglia della classe media ad
Alfheim, non riuscivo neanche a immaginare come vivessero i ricconi del Paese.
“Meglio andare” disse Hearth. “I Makepieces non hanno simpatia per me.” Aggiustò la sciarpa-
imbracatura di Blitzen, che probabilmente non pesava più di un normalissimo zaino ad Alfheim, e ci
incamminammo verso la strada.
Devo ammetterlo, la gravità più leggera mi faceva sentire… be’, più leggero. Procedevo a saltelli,
coprendo un metro e mezzo di terreno ogni volta. Dovevo trattenermi per non allungare il passo. Con la
mia forza di einherji, se non facevo attenzione, mi sarei ritrovato a rimbalzare sui tetti delle ville della
classe media.
Da quanto potevo giudicare, Alfheim era una serie infinita di tenute come quella dei Makepieces,
ciascuna delle quali grande almeno diversi ettari, con il prato punteggiato di aiuole fiorite e siepi potate
in molte forme. Sui vialetti di ciottoli, scintillavano lussuosi SUV neri. L’aria profumava di ibisco e
banconote nuove di zecca.
Sam aveva detto che la rotta per Norwood ci avrebbe portato sopra la zona di lancio migliore. Adesso
capivo. Proprio come Nidavellir somigliava a Southie, Alfheim mi ricordava i quartieri di periferia snob
a ovest di Boston: Wellesley, forse, con le sue case enormi e i paesaggi pastorali, le stradine tortuose, i
ruscelli pittoreschi e l’aria sonnolenta della sicurezza più assoluta… se appartenevi a quel mondo.
Il lato negativo: la luce del sole era così forte che accentuava ogni imperfezione. Persino un filo
d’erba fuori posto o un fiore appassito in un giardino spiccavano come un problema lampante. I miei
stessi vestiti sembravano più sporchi. Riuscivo a scorgere ogni singolo poro sul dorso delle mie mani e
ogni vena sotto la pelle.
Capii anche perché Hearthstone aveva detto che Alfheim era fatto di aria e luce. Tutto sembrava
irreale, come se fosse di zucchero filato e potesse sciogliersi da un momento all’altro con uno schizzo
d’acqua. Attraversando il terreno spugnoso, cominciai a sentirmi a disagio e impaziente. Gli occhiali
scurissimi alleviavano soltanto un po’ il mio mal di testa.
Dopo qualche isolato, chiesi a Hearthstone: “Dove stiamo andando?”.
Lui storse le labbra. “A casa.”
Lo presi per un braccio e lo costrinsi a fermarsi. “A casa tua? Dove sei cresciuto tu?”
Hearth fissò lo sguardo sul muretto pittoresco dell’ennesimo giardino. A differenza di me, non
indossava occhiali da sole. Alla luce brillante, i suoi occhi scintillavano come formazioni cristalline.
“La Pietra Skofnung è a casa mia” rivelò. “Con… mio padre.”
Il segno per indicare la parola “padre” era una mano aperta, con il palmo rivolto all’esterno e il
pollice che scorreva sulla fronte. Mi ricordò la P di “perdente”. Considerato quello che sapevo
dell’infanzia di Hearth, mi sembrò appropriato.
Una volta, a Jotunheim, avevo praticato su di lui un po’ della mia magia di guarigione, e mi si era
aperto uno scorcio sul dolore che si portava dentro. Era stato maltrattato da piccolo, soprattutto per via
della sua sordità. Poi suo fratello era morto – non conoscevo i particolari – e i suoi genitori avevano
incolpato lui. Come poteva avere voglia di tornare in una casa del genere?
Ricordai con quanta convinzione Blitzen aveva protestato a quell’idea, benché sapesse di essere in fin
di vita: “Non farcelo andare, figliolo. Non ne vale la pena”.
Eppure eccoci qua.
“Perché?” chiesi. “Perché (quel perdente di) tuo padre ha la Spada Skofnung?”
Invece di rispondere, Hearthstone indicò con il mento la direzione da cui eravamo venuti. Era tutto
così luminoso nel mondo elfico, che non notai le luci lampeggianti finché l’elegante macchina nera non
accostò dietro di noi. Lungo la griglia anteriore della berlina pulsavano luci rosse e blu. Dietro il
parabrezza, due elfi in giacca e cravatta ci guardavano severi.
Il Dipartimento di Polizia di Alfheim era venuto a porgerci i suoi saluti.
«Possiamo aiutarvi?» chiese il primo poliziotto.
Fu allora che capii che eravamo nei guai. Secondo la mia esperienza, nessun poliziotto dice una cosa
del genere con l’intenzione di aiutarti davvero. Un altro indizio: la mano del poliziotto numero uno era
posata sul calcio di un’arma al suo fianco.
Il poliziotto numero due si avvicinò spostandosi lungo il lato del passeggero, anche lui pronto a
sfoderare un qualche aiuto letale.
Entrambi gli elfi erano vestiti come detective in borghese: completo scuro e cravatta di seta, con i
distintivi sulla cintura. I capelli molto corti erano biondi come quelli di Hearthstone. Avevano anche gli
stessi occhi chiarissimi e la stessa espressione di calma irreale.
Per il resto, non somigliavano affatto al mio amico. Sembravano più alti, più affusolati, più alieni.
Trasudavano un’aria di freddo disdegno, come se avessero un climatizzatore personale installato sotto il
colletto della camicia.
L’altra cosa che trovai strana: parlavano. Avevo trascorso così tanto tempo con Hearthstone, che
comunicava in un eloquente silenzio, che udire un elfo parlare mi confondeva. Sembrava sbagliato.
Tutti e due i poliziotti si concentrarono su Hearthstone. Mi oltrepassarono con lo sguardo come se non
esistessi.
«Ti ho fatto una domanda, amico» disse il primo. «C’è qualche problema?»
Hearthstone scosse la testa. Fece un passo indietro, ma io lo trattenni per un braccio. Ritrarsi non
avrebbe fatto altro che peggiorare le cose.
«Siamo a posto» dissi. «Grazie, agenti.»
I detective mi scrutarono come se venissi da un altro mondo, cosa per altro vera.
Sul distintivo attaccato alla cintura del primo c’era scritto: SUNSPOT, Raggiodisole. Non aveva molto
l’aria di un posto al sole. Ma, del resto, forse nemmeno io avevo l’aria di un Chase.
Sul distintivo del numero due c’era scritto: WILDFLOWER , Fioredicampo. Mi sarei aspettato almeno
una camicia hawaiana o una cravatta floreale, a quel punto, ma il suo look era noioso quanto quello del
suo collega.
Sunspot arricciò il naso come se avessi addosso l’odore del tumulo di uno spettro. «Dove hai
imparato l’elfico, villico? Hai un accento orribile.»
«Villico?» ribattei.
Wildflower sogghignò verso il collega. «Quanto ci scommettiamo che l’elfico non è la sua prima
lingua? Secondo me, è uno husvetter clandestino.»
Volevo fargli notare che ero un umano parlante inglese, che era la mia prima lingua. Nonché l’unica. A
quanto pareva, l’elfico e l’inglese erano identici, come la lingua dei segni di Hearth era identica alla
lingua americana dei segni.
Ma dubitai che ai poliziotti interessasse saperlo. Il modo in cui loro parlavano in effetti suonava un
po’ strano alle mie orecchie: una sorta di accento americano all’antica, un po’ aristocratico, che avevo
sentito nei cinegiornali e nei film degli anni Trenta.
«Sentite, ragazzi. Stiamo solo facendo una passeggiata» dissi.
«In un bel quartiere, che immagino non sia il vostro» osservò Sunspot. «I Makepieces in fondo alla
strada hanno sporto denuncia. Qualcuno ha violato la loro proprietà privata: vagabondi. Prendiamo
questo genere di cose molto seriamente, villico.»
Dovetti reprimere la rabbia. Da senzatetto, avevo spesso subito un trattamento brusco da parte delle
forze dell’ordine. Agli amici dalla pelle più scura della mia andava perfino peggio. Perciò, durante i due
anni che avevo trascorso in strada, avevo imparato tutto un nuovo livello di cautela quando avevo a che
fare con degli “amichevoli” agenti di quartiere.
Eppure… non mi piaceva essere chiamato villico. Qualunque cosa significasse.
«Sentite, agenti, stiamo camminando da più o meno cinque minuti per andare a casa del mio amico»
spiegai. «Come potrebbe essere vagabondaggio?»
Hearthstone mi fece segno: “Fa’ attenzione”.
Sunspot si accigliò. «E quello cos’era? Il segno in codice di una banda? Parla elfico.»
«È sordo» dissi.
«Sordo?» Wildflower fece una smorfia disgustata. «Che razza di elfo…?»
«Su, su, collega.» Sunspot deglutì. Si aggiustò il colletto come se il climatizzatore personale avesse
smesso di funzionare. «Non sarà mica…? Ma sì, è lui per forza… il figlio del signor Alderman.»
Il volto di Wildflower passò dal disprezzo alla paura. La cosa mi avrebbe dato una certa
soddisfazione, se non avessi saputo che un poliziotto spaventato è molto più pericoloso di un poliziotto
disgustato.
«Signor Hearthstone? È lei?» chiese Wildflower.
Hearthstone annuì cupamente.
Sunspot imprecò. «E va bene. Salite in macchina. Tutti e due.»
«Ehi, ma perché?» domandai. «Se ci arrestate, voglio sapere con quali accuse…»
«Non vi stiamo arrestando, villico» ringhiò Sunspot. «Vi portiamo dal signor Alderman.»
«Dopodiché non sarete più un nostro problema» aggiunse Wildflower.
Dal tono in cui l’aveva detto, sembrò che non saremmo stati più il problema di nessuno, perché ci
avrebbero sepolto sotto qualche graziosa aiuola fiorita, chissà dove. L’ultima cosa che desideravo era
salire su quella macchina, ma gli agenti presero a tamburellare le dita sulle loro armi da fuoco elfiche,
tanto per chiarire quanto fossero disponibili.
Ci accomodammo sul sedile posteriore della berlina.
22
IL PAPÀ DI HEARTHSTONE È UN ALIENO CHE RAPISCE MUCCHE

Era l’autopattuglia più bella in cui fossi mai stato, e ne avevo visitate parecchie. Gli interni di pelle nera
profumavano di vaniglia. Il divisorio in plexiglas era pulito come uno specchio. Il sedile era dotato di un
dispositivo per i massaggi, l’ideale per rilassarmi dopo una dura giornata di vagabondaggio.
Ovviamente, ad Alfheim hanno a che fare solo con i criminali più raffinati.
Dopo un breve e confortevole tratto di viaggio, accostammo lungo la strada principale e ci fermammo
di fronte a un grande cancello di ferro decorato con una A, l’elegante monogramma di Alderman. Ai due
lati del cancello si levava un muro di tre metri che culminava con acuminate punte ornamentali, per tenere
alla larga la plebaglia borghese che abitava in fondo alla strada. In cima ai pilastri del cancello, le
telecamere di sicurezza si mossero per esaminarci.
Il cancello si aprì. Mentre attraversavamo la tenuta di famiglia di Hearthstone, mi cadde letteralmente
la mascella. E dire che pensavo che la mia villa di famiglia fosse imbarazzante.
Il cortile d’ingresso era più grande del Boston Common. I cigni scivolavano su un lago bordato di
salici. Scavalcammo due ponticelli che attraversavano un ruscello tortuoso, superammo quattro diversi
giardini e oltrepassammo un ulteriore cancello prima di arrivare all’edificio principale, che somigliava a
una versione postmoderna del castello della Bella Addormentata a Disneyland: muri di pietra bianca e
grigia che sporgevano a strane angolature, torri slanciate simili a canne d’organo, enormi finestre di
cristallo e un portone d’acciaio brunito talmente grande che probabilmente si apriva soltanto con catene
tirate da troll.
Hearthstone giocherellava con il sacchetto di rune, lanciando di tanto in tanto un’occhiata al
bagagliaio, dove i poliziotti avevano caricato Blitzen.
Gli agenti non dissero nulla finché non parcheggiammo di fronte al portone.
«Fuori» ordinò Wildflower.
Non appena Hearthstone fu libero, raggiunse il retro della berlina e tamburellò sul bagagliaio.
«Sì, sì, va bene.» Sunspot fece scattare l’apertura del cofano. «Anche se non capisco perché te ne
importi tanto. Credo che sia il nano da giardino più brutto che io abbia mai visto.»
Hearthstone tirò delicatamente fuori Blitzen e si mise il nano di granito in spalla.
Wildflower mi spinse verso l’ingresso. «Muoviti, villico.»
«Ehi!» Stavo quasi per afferrare il mio ciondolo, ma mi trattenni. Almeno adesso i poliziotti trattavano
Hearthstone come se fosse intoccabile, anche se sembravano ancora del tutto a loro agio nello spintonare
me. «Qualunque cosa significhi “villico”, io non lo sono.»
Wildflower fece un verso di scherno. «Ti sei dato un’occhiata allo specchio, di recente?»
E ci arrivai: in confronto agli elfi, tutti flessuosi e delicati e belli, dovevo sembrare piuttosto rozzo e
goffo, un villico, appunto. Rendeva l’idea. Ebbi la sensazione che il termine implicasse anche una certa
lentezza mentale, tanto per non limitarsi a un solo livello di insulto.
Fui tentato di vendicarmi su quei due sguainando Jack e chiedendogli di cantare qualche hit. Ma, prima
che potessi farlo, Hearthstone mi prese per un braccio e mi accompagnò fino alle scale d’ingresso. I
poliziotti ci seguirono tenendosi a una certa distanza dal mio amico, come se temessero che la sordità
fosse contagiosa.
Quando arrivammo in cima alle scale, il portone d’acciaio si spalancò senza fare rumore. Una giovane
donna ci corse incontro. Era bassa quasi quanto Blitzen, ma aveva i capelli biondi e i lineamenti delicati
degli elfi. A giudicare dal semplice abito di lino e dalla cuffietta bianca, dedussi che fosse una cameriera.
«Hearth!» I suoi occhi si accesero di entusiasmo, che soffocò prontamente quando vide la nostra
scorta. «Cioè, signor Hearthstone.»
Hearth strizzò gli occhi come per scacciare le lacrime. Gesticolò rapidamente un: “Ciao/Scusa”,
fondendo le due parole in una sola.
L’agente Wildflower tossicchiò. «Il padrone è in casa, Inge?»
«Oh…» Inge trattenne il fiato. Guardò Hearthstone, poi i due poliziotti. «Sì, signore, ma…»
«Va’ a chiamarlo» ordinò brusco Sunspot.
Inge si voltò e volò dentro. Mentre si allontanava, notai qualcosa che le pendeva dietro la gonna del
vestito: un cordino di pelliccia bianca e marrone, sfrangiata all’estremità come la nappa di una cintura.
Poi la nappa si mosse, e io mi resi conto che era un’appendice viva.
«Ha la coda! La coda di una mucca!» mi uscì di bocca.
Sunspot rise. «Be’, è una huldra. Commetterebbe un reato se nascondesse la coda. Dovremmo
arrestarla con l’accusa di impersonare un elfo vero.»
Il poliziotto scoccò a Hearthstone un’occhiata di disprezzo, tanto per chiarire che la definizione di elfo
vero non includeva nemmeno il mio amico.
Wildflower sogghignò. «Non credo che il ragazzo abbia mai visto una huldra prima d’ora, Sunspot.
Che c’è, villico? Non ci sono gli spiriti della foresta domestici nel mondo da cui sei strisciato fuori?»
Non risposi, anche se dentro di me stavo immaginando Jack che ruttava l’ultimo singolo di Selena
Gomez nelle orecchie degli agenti. Quel pensiero mi consolò.
Scrutai l’ampio ingresso – con un colonnato di pietra bianca e lucernari di vetro – che in qualche
modo riusciva lo stesso a darmi la claustrofobia. Mi chiesi come si sentisse Inge a dover scoprire sempre
la coda. Era per lei una fonte di orgoglio mostrare la propria identità, o era più una punizione, il ricordo
costante del proprio stato di inferiorità? Decisi che la cosa più orribile era l’intreccio delle due opzioni:
“Mostraci chi sei; e ora sentiti inadeguata”. Non era tanto diverso dal saluto di Hearth, che fondeva
“Ciao” e “Scusa” in una parola sola.
Avvertii la presenza del signor Alderman prima ancora di vederlo. L’aria si fece più fredda e si tinse
di un vago sentore di menta. Le spalle di Hearthstone si abbassarono come se la gravità di Midgard
avesse ripreso il sopravvento. Spostò Blitzen al centro della schiena, come per cercare di nasconderlo. I
pallini sulla sua sciarpa sembrarono brulicare come insetti. Poi mi resi conto che Hearth stava tremando.
Dei passi riecheggiarono sul pavimento di marmo.
Il signor Alderman comparve, spuntando da dietro una colonna e venendo impettito verso di noi.
Facemmo tutti e quattro un passo indietro: io, Hearth, perfino i poliziotti. Il signor Alderman era alto
più di due metri, ed era così sottile che assomigliava a uno di quegli alieni di Roswell che conducevano
strani esperimenti e pilotavano UFO . Gli occhi erano troppo grandi. Le dita troppo delicate. Il mento era
così aguzzo che mi chiesi se il suo viso fosse montato su un triangolo isoscele perfetto.
Era vestito meglio della maggior parte degli alieni, tuttavia. Il suo completo grigio cadeva in modo
impeccabile, e il dolcevita verde faceva sembrare il suo collo ancora più lungo. I capelli biondo platino
erano a spazzola come quelli di Hearth. Coglievo qualche altra somiglianza nel naso e nella bocca, ma il
volto del signor Alderman era molto più espressivo. Sembrava severo, critico, insoddisfatto, come se
avesse appena consumato un pessimo pasto, vergognosamente caro, e si stesse apprestando a scrivere una
stroncatura del ristorante.
«Bene.» Puntò uno sguardo penetrante sul volto del figlio. «Sei tornato. Almeno hai avuto il buon
senso di portare con te il figlio di Freyr.»
Sunspot per poco non si strozzò per ricacciare indietro il ghigno spavaldo. «Chiedo scusa, signore.
Chi?»
«Questo giovanotto.» Il signor Alderman mi indicò. «Magnus Chase, figlio di Freyr, non è vero?»
«Esatto.» Riuscii a trattenere l’impulso di aggiungere “signore”. Per il momento, quel tizio non se
l’era guadagnato.
Non ero abituato a vedere che le persone restavano colpite quando scoprivano che mio padre era
Freyr. Di solito le reazioni andavano dal “Caspita, mi dispiace” a “Chi è Freyr?” fino alla risata isterica.
Perciò non voglio mentirvi. Apprezzai la velocità con cui le facce dei due poliziotti passarono dal
disprezzo al “Oh cacchio, abbiamo appena mancato di rispetto a un semidio”. Non lo capivo, ma mi
piaceva.
«Noi non… non lo sapevamo.» Wildflower mi tolse un pelucco dalla maglietta, come se servisse ad
aggiustare le cose. «Noi, ehm…»
«Grazie, agenti» intervenne il signor Alderman. «Ora me ne occupo io.»
Sunspot mi guardava a bocca aperta come se volesse chiedermi scusa, o magari offrirmi un coupon
con il cinquanta per cento di sconto sul mio prossimo arresto.
«Avete sentito» dissi. «Andate pure, agenti Sunspot e Wildflower. E non vi preoccupate. Mi ricorderò
di voi.»
Mi fecero un inchino… sul serio, un inchino, e batterono rapidamente la ritirata verso la macchina.
Il signor Alderman scrutò Hearthstone da cima a fondo, come se cercasse ogni difetto visibile. «Non
sei cambiato» decretò amareggiato. «Il nano, almeno, si è trasformato in pietra. È un miglioramento.»
Hearthstone strinse la mascella. Replicò con gesti bruschi e rabbiosi: “Si chiama B-L-I-T-Z-E-N”.
«Stop!» ordinò Alderman. «Basta con questi gesticolii ridicoli. Entrate.» Mi squadrò con la sua
espressione glaciale. «Dobbiamo accogliere il nostro ospite come si deve.»
23
EH, GIÀ. HA SICURAMENTE UN UFO IN GARAGE

Ci accompagnò nel salotto più gelido che avessi mai visto. La luce entrava da enormi finestre
panoramiche. Sul soffitto alto nove metri scintillava il mosaico d’argento di un vortice di nubi. Il
pavimento di marmo levigato era di un bianco accecante. Lungo le pareti, una serie di nicchie illuminate
ospitava vari minerali, fossili e pietre. Tutt’intorno alla stanza, altri manufatti erano esposti dentro
vetrinette appoggiate su piedistalli bianchi.
Per una sala da museo, sì, era uno spazio fantastico. Ma per una stanza dedicata al relax? No, grazie.
L’unico angolo in cui era possibile sedersi aveva due lunghe panchine di legno l’una di fronte all’altra,
con un tavolino d’acciaio nel mezzo. Sopra la mensola del caminetto spento, sorrideva il gigantesco
ritratto a olio di un bambino. Non somigliava a Hearthstone. Doveva essere Andiron, il fratello morto. Il
vestito bianco e il volto raggiante lo facevano assomigliare a un angelo. Mi chiesi se Hearthstone avesse
mai avuto un aspetto così felice da piccolo. Ne dubitavo. Il giovane elfo sorridente del quadro era l’unica
cosa lieta in tutta la stanza, ed era morto, fermo nel tempo come gli altri manufatti.
Fui tentato di mettermi sul pavimento anziché su quelle panchine, ma decisi di tentare con le buone
maniere. Nel mio caso non funzionano quasi mai, ma una volta ogni tanto ci provo lo stesso.
Hearthstone appoggiò delicatamente Blitzen a terra, poi si sistemò accanto a me.
Il signor Alderman si sedette rigidamente sulla panchina di fronte a noi. «Inge» chiamò. «I rinfreschi.»
La huldra si materializzò davanti alla soglia. «Subito, signore.» E corse di nuovo via, con la coda che
frusciava tra le pieghe della gonna.
Il signor Alderman scrutava Hearthstone con uno sguardo raggelante, o forse era la sua normale
espressione per dire: “Mi sei mancato”. «La tua stanza è come l’hai lasciata. Avete intenzione di
fermarvi?»
Hearthstone scosse la testa. “Ci serve il tuo aiuto. Poi ce ne andremo.”
«Usa la lavagna, figliolo.» Il signor Alderman indicò l’estremità del tavolo vicina a Hearth, dov’era
posata una lavagnetta bianca con un pennarello attaccato a un cordoncino. «La lavagna lo incoraggia a
pensare prima di parlare. Ammesso che quei gesti si possano definire “parlare”.»
Hearthstone incrociò le braccia e rivolse al padre uno sguardo ostile.
Decisi di fare da interprete prima che si ammazzassero a vicenda. «Signor Alderman, io e Hearth
abbiamo bisogno del suo aiuto. Il nostro amico Blitzen…»
«Si è trasformato in pietra» concluse lui. «Lo vedo. Un po’ di acqua corrente è sufficiente a rianimare
un nano pietrificato. Non capisco il problema.»
Bastò quella semplice informazione a giustificare tutto lo sgradevole viaggio ad Alfheim. Fu come se
mi avessero appena tolto il peso di un nano di granito dalle spalle. Purtroppo ci serviva anche altro.
«Ma, vede, ho trasformato Blitzen in pietra di proposito» continuai. «Era stato ferito da una spada. La
Spada Skofnung.»
La bocca del signor Alderman si contrasse in un mezzo sorriso. «Skofnung.»
«Sì. Lo trova divertente?»
Alderman mostrò la sua perfetta dentatura bianca. «Siete venuti a chiedere il mio aiuto. Per guarire
questo nano. Volete la Pietra Skofnung.»
«Sì. Ce l’ha lei?»
«Oh, certo.» Il signor Alderman accennò con la mano a uno dei piedistalli della sala. In una vetrinetta
c’era un disco di pietra grande quanto un piatto da dessert: grigio screziato d’azzurro, proprio come
aveva detto Loki. «Colleziono manufatti dei Nove Mondi. La Pietra Skofnung è stata una delle mie prime
acquisizioni. La cote è stata appositamente incantata per resistere al filo magico della Spada, per
affilarla, se necessario. E, naturalmente, garantisce un rimedio immediato nel caso qualche sciocco ci si
tagli da solo brandendola.»
«Fantastico!» dissi. «Come si usa, nel secondo caso?»
Alderman ridacchiò. «Oh, è molto semplice. Si avvicina la pietra alla ferita, e il taglio si chiude.»
«Quindi… ce la può prestare?»
«No.»
Perché non ero sorpreso?
Hearthstone mi lanciò un’occhiata della serie: “Sì, lo so. Il padre migliore dei Nove Mondi”.
Inge tornò con tre calici d’argento su un vassoio. Dopo aver servito il signor Alderman, ne posò uno
davanti a me e consegnò il terzo a Hearthstone con un sorriso. Quando le loro dita si sfiorarono, le
orecchie di Inge diventarono paonazze, e la ragazza scappò subito dove… dove doveva stare, invisibile
ma a portata di voce.
Il liquido nel mio calice somigliava a oro fuso. Non mangiavo né bevevo nulla dalla colazione, perciò
avevo sperato in un sandwich elfico e un bicchiere d’acqua frizzante. Mi chiesi se non dovessi
informarmi sulla fabbricazione del calice e sulle sue famose gesta prima di bere, come avrei fatto a
Nidavellir, il mondo dei nani. Ma qualcosa mi diceva di no. I nani trattano ogni oggetto che costruiscono
come un pezzo unico, meritevole di un nome. Da quanto avevo visto fino ad allora, gli elfi si
circondavano di manufatti inestimabili senza curarsi di loro più di quanto si curassero dei domestici.
Dubitai che dessero un nome ai calici.
Bevvi un sorso. Era senza dubbio la roba migliore che avessi mai assaggiato: dolce come il miele,
intensa come il cioccolato e fresca come il ghiaccio, senza avere il sapore di nessuno dei tre. Mi saziò
più di un pasto da tre portate, dissetandomi completamente. Al confronto della scossa che mi diede,
l’idromele del Valhalla sembrava la sottomarca di un bibitone energetico.
All’improvviso la stanza si tinse di luci caleidoscopiche. Guardai fuori dalla finestra il prato curato e
le siepi scolpite nel giardino. Avrei voluto strapparmi via gli occhiali da sole, saltare giù dalla finestra e
mettermi a saltellare per tutto Alfheim finché la luce non mi avesse accecato definitivamente.
Mi resi conto che il signor Alderman mi stava guardando, per vedere come avrei reagito a quello
stupido succo elfico. Strizzai più volte gli occhi per riordinare le idee.
«Signore» dissi poi, dato che le buone maniere stavano funzionando così bene. «Perché non vuole
aiutarci? Cioè, la pietra è laggiù, a un passo.»
«Non vi aiuterò perché non servirebbe al mio scopo.» Il signor Alderman sorseggiò la bevanda,
inarcando il mignolo per sfoggiare uno scintillante anello con ametista. «Mio… figlio… Hearthstone non
si merita alcun aiuto da me. Se n’è andato anni fa senza dire una parola.» Fece una pausa, poi scoppiò in
una brutta risata. «Senza dire una parola… be’, naturalmente. Ma hai compreso il senso.»
Avrei tanto voluto spaccargli con il calice quei denti immacolati, ma mi trattenni. «E così se n’è
andato di casa. È un crimine?»
«Dovrebbe esserlo.» Alderman si scurì in viso. «Così facendo, ha ucciso sua madre.»
Hearthstone rischiò di strozzarsi, e il calice gli sfuggì di mano. Per un attimo, si udì soltanto il rumore
del bicchiere che rotolava sul pavimento di marmo.
«Non lo sapevi?» chiese il signor Alderman. «No, naturalmente. Perché avrebbe dovuto importarti?
Dopo la tua partenza era sconvolta, non era più in sé. Non hai idea dell’imbarazzo che ci hai causato.
Tutte quelle chiacchiere su di te che studiavi la magia runica, addirittura, che frequentavi Mimir e la sua
gentaglia, che stringevi amicizia con un nano. Ebbene, un pomeriggio tua madre stava attraversando una
strada del villaggio, di ritorno dal country club e… aveva dovuto sopportare i commenti terribili delle
amiche a pranzo. Temeva che la sua reputazione fosse rovinata. Non guardava dove stava andando.
Quando un furgoncino è passato con il rosso…»
Alderman alzò lo sguardo verso il soffitto a mosaico. Per un secondo, riuscii perfino a immaginare che
provasse emozioni diverse dalla rabbia. Mi sembrò di intravedere un’ombra di tristezza nei suoi occhi.
Poi la disapprovazione si impossessò di nuovo del suo viso. «Come se aver provocato la morte di tuo
fratello non fosse già abbastanza.»
Hearthstone si chinò a raccogliere goffamente il calice. Le sue dita sembravano fatte di argilla. Solo al
terzo tentativo riuscì a metterlo dritto sul tavolo. Gocce di liquido dorato gli lasciarono una scia sul
dorso della mano.
«Hearth.» Gli toccai un braccio. “Sono qui” dissi nella lingua dei segni.
Non riuscii a trovare altro da dire. Volevo sapesse che non era solo, che qualcuno in quella stanza gli
voleva bene. Ripensai alla runa che mi aveva mostrato mesi prima: perthro, il simbolo della coppa
vuota. La sua preferita. Hearthstone era stato privato dell’infanzia. Aveva scelto di riempire la propria
vita con la magia runica e con una nuova famiglia, che includeva me. Avrei voluto gridare al signor
Alderman che Hearthstone era un elfo migliore di quanto i suoi genitori fossero mai stati.
Ma se c’era una cosa che avevo imparato come figlio di Freyr, era che non potevo sempre combattere
le battaglie dei miei amici. Il meglio che potessi fare era curare le loro ferite.
E poi, prendermela con quel gelido elfo non ci avrebbe aiutato a ottenere quello di cui avevamo
bisogno. Certo, avrei potuto evocare Jack, frantumare la vetrinetta e arraffare la pietra. Ma il signor
Alderman aveva misure di sicurezza di prim’ordine, c’era da scommetterci. E a Blitzen non sarebbe
servito a nulla guarire per essere ucciso subito dopo dall’Unità Speciale d’Assalto di Alfheim. Non ero
nemmeno sicuro che la pietra avrebbe funzionato a dovere se non ci fosse stata consegnata liberamente
dal suo proprietario. Gli oggetti magici hanno le loro regole assurde, soprattutto quelli di nome Skofnung.
«Signor Alderman» dissi, cercando di mantenere un tono calmo. «Che cosa vuole?»
L’elfo inarcò un sopracciglio biondo platino. «Prego?»
«A parte mortificare suo figlio, cosa che le riesce già benissimo» aggiunsi. «Ha detto che aiutare noi
non sarebbe servito al suo scopo. Cosa potrebbe convincerla?»
Alderman abbozzò un sorriso. «Ah, un giovane con il senso degli affari. A te, Magnus Chase, non
chiedo molto. Sai che i Vani sono le nostre divinità ancestrali, vero? Freyr in persona è nostro signore e
patrono. L’intero mondo di Alfheim gli fu donato da bambino per festeggiare i suoi primi denti.»
«Vuol dire che… vi ha masticati e risputati fuori?»
Il sorriso del signor Alderman scomparve. «Quello che intendo dire è che un figlio di Freyr sarebbe
un degno amico per la nostra famiglia. Ti chiederei solo di fermarti da noi per un po’, di partecipare a un
piccolo ricevimento, magari… con qualche centinaio dei nostri conoscenti più intimi. Ti fai vedere,
scattiamo qualche foto insieme per la stampa… cose così.»
La bevanda dorata cominciò a lasciarmi un retrogusto amaro. Le foto con Alderman sembravano
dolorose quanto la decapitazione con un cavo d’acciaio. «È preoccupato per la sua reputazione» dissi.
«Si vergogna di suo figlio, e vuole che io migliori la sua immagine pubblica.»
I grandi occhi alieni di Alderman si strinsero in una fessura, diventando quasi di dimensioni normali.
«Non capisco cosa intendi con “migliorare la mia immagine pubblica”, ma credo che ci siamo capiti.»
«Oh, io l’ho capita benissimo.» Cercai l’aiuto di Hearthstone con lo sguardo, ma era ancora
deconcentrato, affranto. «Perciò, signor Alderman, io faccio questo servizio fotografico con lei, e lei ci
dà la pietra?»
«Be’, non esageriamo…» Alderman bevve un lungo sorso dal proprio calice. «Vorrei qualcosa in
cambio anche da questo mio figlio testardo. Ha delle questioni in sospeso, qui. Deve fare ammenda. Deve
pagare il suo guidrigildo.»
«Che cos’è un guidrigildo?» domandai.
«Hearthstone sa di cosa sto parlando.» Alderman fissò il figlio. «Non si dovrà vedere un solo pelo.
Fa’ quello che va fatto, quello che avresti dovuto fare anni fa. E, mentre ti occuperai di questo, il tuo
amico sarà ospite a casa nostra. In bocca al lupo.»
Dentro di me pregai che per una volta non c’entrassero i lupi. «Aspetti, di quanto tempo stiamo
parlando?» chiesi. «Dobbiamo essere in un altro posto fra meno di quattro giorni, è importante.»
Il signor Alderman scoprì di nuovo la dentatura impeccabile. «Bene, allora sarà meglio che
Hearthstone si sbrighi.» Si alzò e gridò: «Inge!».
La huldra comparve di corsa, con uno strofinaccio in mano.
«Occupati di mio figlio e del suo ospite come si conviene» ordinò il signor Alderman. «Dormiranno
nella vecchia stanza di Hearthstone. E… Magnus Chase, non credere di potermi sfidare. A casa mia sono
io che comando. Cerca di prendere la pietra e, figlio di Freyr o meno, non farai una bella fine.» Gettò il
calice a terra, come per non lasciare a Hearthstone neppure il vantaggio del miglior rovesciamento di
bicchiere. «Pulisci» ordinò brusco a Inge. Poi uscì a grandi passi dalla stanza.
24
OH, VOLEVI RESPIRARE? FANNO TRE MONETE D’ORO IN PIÙ

La stanza di Hearthstone? Direi più la camera di isolamento di Hearthstone.


Dopo aver pulito a terra (insistemmo per aiutarla), Inge ci accompagnò su per un’ampia scalinata fino
al primo piano, lungo un corridoio tappezzato di arazzi e altre nicchie piene di manufatti, e infine davanti
a una semplice porta di metallo. La aprì con una grossa chiave, trasalendo come se la porta fosse stata
incandescente. «Chiedo scusa» ci disse. «Le serrature della casa sono tutte di ferro. Sono sgradevoli per
gli spiriti come me.»
A giudicare dal viso imperlato di sudore, più che “sgradevoli” avrei detto “atroci”. Forse il signor
Alderman non voleva che Inge aprisse molte porte, o forse semplicemente non gli importava che lei
stesse male.
Dentro, la stanza era grande quasi quanto la mia suite nel Valhalla, ma mentre la mia suite era
concepita per soddisfare ogni mio desiderio, quel posto era concepito per non somigliare a nulla che
Hearthstone avrebbe mai potuto desiderare. A differenza delle altre parti della casa che avevo visto, non
c’erano finestre. File di lampadine fluorescenti brillavano sul soffitto con una luce cruda, creando in tutto
e per tutto l’atmosfera confortevole di un discount di arredamento. Sul pavimento, in un angolo, c’era un
materasso con lenzuola bianche. Niente coperte, niente piumino, niente cuscini. A sinistra, una porta
conduceva a quello che immaginai fosse il bagno. A destra c’era un armadio a muro, aperto, che svelava
un solo cambio di vestiti: un completo bianco più o meno della taglia di Hearth, ma per il resto identico a
quello indossato da Andiron nel ritratto al piano di sotto.
Montate sulle pareti, lavagne bianche grandi come quelle di scuola mostravano liste di cose da fare
scritte in nitido stampatello maiuscolo.
Alcune liste erano in nero:

IL TUO BUCATO PERSONALE, DUE VOLTE LA SETTIMANA:


+ 2 MONETE D’ORO
SPAZZARE I PAVIMENTI, DUE PIANI: + 2 MONETE D’ORO
COMPITI MERITEVOLI: + 5 MONETE D’ORO

Altre erano in rosso:

OGNI PASTO: – 3 MONETE D’ORO


UN’ORA DI TEMPO LIBERO: – 3 MONETE D’ORO
FALLIMENTI IMBARAZZANTI: – 10 MONETE D’ORO

Contai forse una decina di liste come questa, insieme a centinaia di frasi motivazionali come: NON
DIMENTICARE MAI LA TUA RESPONSABILITÀ. SFORZATI DI VALERE. LA NORMALITÀ È LA CHIAVE DEL
SUCCESSO .
Mi sentii come se fossi circondato da adulti giganteschi che mi agitavano il dito contro, coprendomi di
insulti, facendomi sentire sempre più piccolo e insignificante. E mi trovavo lì solo da un minuto. Non
riuscivo neanche a immaginare cosa significasse viverci.
Le lavagne in stile Dieci Comandamenti, però, non erano la cosa più strana. Stesa sul pavimento c’era
la pelliccia azzurra di un grande animale. La testa era stata rimossa, ma le quattro zampe avevano ancora
gli artigli: barbigli d’avorio ricurvi che sarebbero stati ottimi ami da pesca per catturare uno squalo
bianco. Sparse sul tappeto c’erano parecchie monete d’oro, forse due o tre centinaia, che scintillavano
come isole in un folto mare di pelliccia azzurra.
Hearthstone posò delicatamente Blitzen ai piedi del materasso. Scrutò le lavagne, con una maschera
d’ansia sul viso, come se cercasse il proprio nome sul tabellone dei risultati d’esame.
«Hearth?» Ero così scioccato da quella stanza che non riuscivo neppure a formulare una domanda
sensata tipo: “Perché?” o “Posso dare un calcio sui denti a tuo padre, per favore?”.
Lui rispose con uno dei primi segni che avevo imparato quando vivevamo tutti e due in strada e lui mi
insegnava come evitare i guai con la polizia. Incrociò due dita e le fece scorrere lungo il palmo dell’altra
mano, come per scrivere un biglietto: “Regole”.
Le mie mani ci misero qualche attimo per ricordarsi come parlare. “I tuoi genitori hanno scritto tutto
questo per te?”
“Regole” ripeté lui. Il suo viso non lasciava trapelare molto.
Cominciai a chiedermi se in un’epoca precedente della sua vita Hearthstone avesse sorriso di più,
pianto di più, mostrato di più una qualsiasi emozione. Forse aveva imparato a essere così ermetico come
una forma di difesa.
«Ma perché i prezzi?» domandai. «Sembra quasi un menu…» Guardai le monete d’oro sparse sul
tappeto. «Aspetta… le monete erano la tua paghetta? O… il tuo compenso? Perché lanciarle sul
tappeto?»
Inge era rimasta in silenzio sulla soglia, con il volto chino. «È la pelliccia della bestia» disse, usando
anche la lingua dei segni. «Quella che ha ucciso suo fratello.»
Mi salì in bocca un saporaccio di ruggine. «Andiron?»
Inge annuì. Si lanciò un’occhiata alle spalle, probabilmente preoccupata che il padrone spuntasse fuori
all’improvviso. «Accadde quando Andiron aveva sette anni e Hearthstone otto.» Parlava e
contemporaneamente usava con molta fluidità la lingua dei segni, quasi quanto Hearth, come se si
esercitasse da anni. «Stavano giocando nel bosco dietro casa. C’è un vecchio pozzo…» Esitò e guardò
Hearthstone, per chiedergli il permesso di continuare.
Hearth alzò le spalle. “Andiron amava quel pozzo” disse. “Pensava che fosse un pozzo dei desideri.
Ma c’era uno spirito malvagio…” Fece una strana combinazione di segni: tre dita alla bocca, per l’acqua;
poi l’indice verso il basso, il simbolo del pozzo; poi una V sopra un occhio, il segno per “fare la pipì”.
(Anche questo lo usavamo parecchio in strada.) Visti tutti insieme, fu come se avesse chiamato quello
spirito cattivo “Piscianelpozzo”.
Guardai Inge accigliato. «Ha detto…?»
«Sì» confermò lei. «Si chiamava proprio così. Nell’antica lingua, è un brunnmigi. Saltò fuori dal
pozzo e attaccò Andiron sotto forma di… quello. Una grossa creatura bluastra, un miscuglio fra un orso e
un lupo.»
Ancora lupi. Quanto li odiavo.
«E lo uccise» tagliai corto.
Nella luce fluorescente, il volto di Hearthstone sembrò pietrificato come quello di Blitzen. “Io stavo
giocando con i sassi. Ero girato di schiena. Non ho sentito. Non ho potuto…” Fece il gesto di prendere
qualcosa nell’aria.
«Non è stata colpa tua, Hearth» disse Inge. Sembrava così giovane con quegli occhi celesti, le guance
paffute e rosate e i capelli biondi che si arricciavano ai bordi della cuffia, eppure parlava come se
avesse assistito all’aggressione in prima persona.
«Tu c’eri?» domandai.
Lei arrossì ancora di più. «Non proprio. Ero solo una bambina, ma mia madre era a servizio dal
signor Alderman. Ricordo che Hearthstone corse in casa piangendo e chiedendo aiuto con i segni. Lui e il
signor Alderman corsero di nuovo fuori. E poi, più tardi… il signor Alderman tornò, con il corpo di
Andiron fra le braccia.» Inge fece scattare la coda, che strusciò sullo stipite della porta. «Il signor
Alderman uccise il brunnmigi, ma obbligò Hearthstone a… scuoiare la creatura, tutto da solo. Non gli
permise di tornare in casa finché non ebbe finito. Quando la pelle fu conciata e trasformata in tappeto,
venne messa qui.»
«Oh, dei.» Mi aggirai per la stanza. Provai a cancellare alcune parole da una lavagna, ma erano scritte
con il pennarello indelebile. Ovviamente. «E le monete? Le… voci del menu?» Lo dissi con più durezza
di quanto avessi voluto.
Inge trasalì. «Sono il guidrigildo di Hearthstone. Il debito di sangue per la morte di suo fratello.»
“Devono coprire il tappeto” spiegò Hearthstone con gesti meccanici, come se citasse qualcosa che
aveva sentito un milione di volte. “Devo guadagnare monete finché non si vedrà più un solo pelo. Allora
avrò saldato il debito.”
Guardai il listino prezzi: le entrate e le uscite del libro mastro della colpa di Hearthstone. Scrutai le
monete scintillanti perse nella distesa di pelliccia azzurra. Immaginai il mio amico a otto anni mentre
cercava di guadagnare i soldi necessari a coprire anche la più piccola porzione di quell’enorme tappeto.
Rabbrividii, ma senza riuscire a scrollare via la rabbia. «Hearth, pensavo che i tuoi genitori ti
picchiassero o roba del genere. Ma questo è peggio.»
Inge si torse le mani per l’agitazione. «Oh, no, signore. Soltanto il personale di servizio viene
picchiato. Però ha ragione, la punizione del signor Hearthstone è molto più dura.» Parlava di punizioni e
botte come se facessero parte dei piccoli inconvenienti della vita, come i biscotti bruciati o un lavandino
intasato.
«Distruggerò questo posto» decisi. «Getterò tuo padre nel…»
Hearthstone mi guardò dritto negli occhi.
E ricacciai indietro la rabbia. Non spettava a me. Non era la mia storia. Però… «Hearth, non
possiamo prestarci al suo giochetto malato» dissi. «Vuole che completi il guidrigildo prima di aiutarci? È
impossibile! Sam sarà costretta a sposare un gigante fra quattro giorni. Non possiamo prendere la pietra e
basta? E andarcene in un altro mondo prima che tuo padre se ne accorga?»
Hearth scosse la testa. “La pietra dev’essere un dono. Funziona solo se viene data liberamente.”
«E ci sono le guardie» aggiunse Inge. «Spiriti della sicurezza che… è meglio non incontrare.»
Erano tutte cose che mi aspettavo, ma questo non mi impedì di imprecare finché Inge non arrossì fino
alla punta delle orecchie. «E la magia runica?» chiesi. «Non puoi evocare l’oro necessario a coprire la
pelliccia?»
“Non si può pagare il guidrigildo con l’inganno” rispose Hearth. “L’oro dev’essere guadagnato o
conquistato a caro prezzo.”
«Ci vorranno anni!»
«Forse no» mormorò Inge, come se parlasse al tappeto azzurro. «C’è un modo.»
“E come?” le domandò Hearth.
Inge strinse le mani, agitata. Chissà se si rendeva conto che quello era il segno per la parola
“matrimonio”. «Non voglio parlare a sproposito. Me c’è il Cauto.»
Hearth alzò le mani di scatto nel segno universale per: “Mi prendi in giro?”. E aggiunse: “Il Cauto è
una leggenda”.
«No» replicò Inge. «Io so dove si trova.»
Hearth la fissò sgomento. “Anche se fosse… no. È troppo pericoloso. Tutti quelli che provano a
derubarlo alla fine muoiono.”
«Non tutti» ribatté Inge. «Sarebbe pericoloso, ma tu puoi farcela, Hearth. Lo so.»
«Aspettate un attimo» intervenni. «Chi è il Cauto? Di cosa state parlando?»
«È un nano» spiegò Inge. «L’unico nano che si trova ad Alfheim, a parte…» Indicò col mento il nostro
amico pietrificato. «Il Cauto ha un mucchio di monete d’oro sufficienti a ricoprire questo tappeto. Potrei
dirvi come trovarlo… se non vi preoccupa la probabilità abbastanza alta di morire.»
25
MAGO DELLE RUNE O RE DI CUORI?

Non si dovrebbe mai parlare di morte imminente e poi dire: “Buonanotte! Ne parliamo domani”.
Ma Inge insistette perché non andassimo alla ricerca del nano prima del mattino: avevamo bisogno di
riposare. Ci portò dei vestiti di ricambio, qualcosa da bere e da mangiare e un paio di cuscini. Poi corse
via, forse per andare a pulire altre bevande rovesciate o a spolverare nicchie o a pagare cinque monete
d’oro al signor Alderman per il privilegio di essere al suo servizio.
Hearth non volle parlare del nano killer chiamato “il Cauto” né del suo oro. Non volle essere
consolato né per la madre morta né per il padre vivo. Dopo un rapido e malinconico pasto, mi disse
soltanto: “Devo dormire” e crollò sul materasso.
Decisi di dormire sul tappeto. Sì, certo, era un po’ raccapricciante, ma quando mi sarebbe ricapitata
l’occasione di stendermi su una pelliccia autentica al cento per cento di Piscianelpozzo?
Hearthstone mi aveva detto che il sole non tramonta mai ad Alfheim. Si tuffa appena all’orizzonte e
poi torna su, come d’estate nell’Artico. Mi ero chiesto se avrei faticato a dormire senza la notte. Ma era
stata una preoccupazione inutile: nella stanza senza finestre di Hearthstone, un semplice scatto
dell’interruttore della luce mi lasciò nel buio più totale.
Era stata una giornata lunga, fra il combattimento contro gli zombie democratici e il lancio
dall’aeroplano nei ricchi sobborghi di Snobheim. La pelliccia di quella creatura malvagia era
sorprendentemente calda e comoda. Prima che me ne rendessi conto, dormivo beato. O meglio, non
proprio beato.
Sul serio, non so se c’è una divinità norrena dei sogni; ma, se esiste, andrò a trovarla e prenderò ad
accettate il suo adorato materasso tecnologico.
Fui inondato da una serie di immagini confuse e inquietanti, nessuna delle quali aveva senso. Vidi la
nave di zio Randolph beccheggiare nella tempesta, udii le sue figlie gridare dentro la timoniera. Sam e
Amir – che lì non c’entravano proprio nulla – si aggrappavano ai due lati opposti del ponte, cercando di
raggiungere l’uno la mano dell’altra finché un’onda non li investì, trascinandoli in mare.
Poi il sogno cambiò. Vidi Alex Fierro nella sua suite del Valhalla, che lanciava vasi di ceramica
nell’atrio. C’era anche Loki, che si aggiustava il cravattino a motivi cachemire allo specchio come se
niente fosse, mentre i vasi lo attraversavano e si schiantavano sul muro.
«È una richiesta così semplice, Alex» stava dicendo. «L’alternativa sarà sgradevole. Pensi di non
avere niente da perdere solo perché sei morta? Ti sbagli di grosso.»
«Fuori!» strillò Alex.
Loki si voltò, ma non era più un lui. Si era trasformato in una giovane donna dai lunghi capelli rossi e
dagli occhi incantevoli, con un abito da sera verde smeraldo che ne esaltava la figura. «Su, su, calma,
tesoro» disse con voce suadente. «Ricordati da dove vieni.»
Quelle parole risuonarono come un rombo che fece tremare la scena, cambiandola di nuovo.
Mi ritrovai in una caverna che ribolliva di pozze sulfuree, irta di grosse stalagmiti. Il dio Loki, con
indosso solo un perizoma, giaceva a terra, legato con delle funi a tre colonne di roccia: aveva le braccia
spalancate, le gambe unite, le caviglie e i polsi stretti da corde scure e luccicanti fatte di viscere
calcificate. Attorcigliato intorno a una stalattite sopra la sua testa c’era un enorme serpente verde, con le
fauci spalancate e le zanne che colavano veleno negli occhi del dio. Ma, anziché urlare, Loki rideva
mentre il suo volto si ustionava. «A presto, Magnus!» gridò. «Non dimenticare il tuo invito al
matrimonio!»
Ancora un’altra scena: il fianco di una montagna di Jotunheim, nel bel mezzo di una tempesta di neve.
Sulla cima si ergeva il dio Thor, con la barba rossa e i capelli ispidi chiazzati di ghiaccio, gli occhi in
fiamme. Con il folto cappotto di pelliccia e i vestiti di cuoio spolverati di neve somigliava
all’Abominevole Uomo delle Nevi dai capelli rossi. Mille giganti risalivano il versante per ucciderlo: un
esercito gargantuesco fatto di muscoli e armature di lastre di pietra, con lance grosse come sequoie.
Protetto dai guanti, Thor sollevò il suo martello, il potente Mjolnir. La testa era un blocco di ferro
sbozzato grossolanamente come il tendone appiattito di un circo, arrotondato alle estremità e appuntito
nel mezzo. Disegni runici turbinavano per tutta la superficie del metallo. Nella presa a due mani del dio,
l’asta di Mjolnir era così tozza da risultare quasi comica, come se Thor fosse un bambino che cercava di
sollevare un’arma troppo pesante per lui. L’esercito di giganti rideva e lo scherniva.
Poi Thor calò il martello. Ai suoi piedi, il fianco della montagna esplose. I giganti volarono in aria in
un vortice di un milione di tonnellate di roccia e neve, mentre i fulmini crepitavano fra le loro schiere e
le saette fameliche li riducevano in cenere.
Il caos si placò.
Thor posò lo sguardo accigliato sull’immensa schiera di nemici morti che ora ingombrava il versante
della montagna. Poi si voltò a guardarmi negli occhi. «Pensi che io possa riuscirci con un bastone,
Magnus Chase?» tuonò. «SBRIGATI CON QUEL MARTELLO!»
Poi, siccome era pur sempre Thor, alzò la gamba destra e scoreggiò un rombo di tuono.

Il mattino dopo, Hearthstone mi svegliò con una scrollata.


Mi sentivo come se per tutta la notte avessi sollevato Mjolnir su una panca per gli addominali in
palestra, ma riuscii a trascinarmi in doccia, poi mi vestii con un paio di jeans e una camicia elfica.
Dovetti arrotolare le maniche e l’orlo dei pantaloni una quindicina di volte per farmeli stare.
Non ero sicuro di lasciare Blitzen a casa, ma Hearthstone decise che il nostro amico sarebbe stato più
al sicuro lì che nel posto in cui stavamo andando. Lo adagiammo sul materasso e rimboccammo le
coperte. Poi uscimmo di casa in punta di piedi, grazie al cielo senza imbatterci nel signor Alderman.
Eravamo d’accordo con Inge di incontrarci al confine posteriore della tenuta. La trovammo ad
aspettarci nel punto in cui il prato curatissimo terminava con una linea irregolare di alberi e sottobosco.
Il sole stava sorgendo di nuovo, tingendo il cielo di un arancione sanguigno. Nonostante gli occhiali da
sole, il dolore era lancinante. Stupide albe meravigliose nello stupido mondo degli elfi.
«Non ho molto tempo» esordì Inge. «Ho comprato una pausa di dieci minuti dal padrone.»
E così mi infuriai di nuovo. Avrei voluto chiedere quanto costassero dieci minuti di calci negli stinchi
del signor Alderman, ma pensai che fosse meglio non sprecare il tempo prezioso di Inge.
Indicò il bosco. «Il covo di Andvari è nel fiume. Seguite la corrente fino alla cascata. Abita nella
pozza d’acqua ai suoi piedi.»
«Andvari?» chiesi.
Lei annuì imbarazzata. «È questo il nome del Cauto nell’antica lingua.»
«E vive sott’acqua?»
«Sì, sotto forma di pesce.»
«Oh, naturalmente.»
“Tu come lo sai?” intervenne Hearthstone.
«Io… be’, padron Hearthstone, le huldre hanno ancora un po’ di magia. Non dobbiamo usarla, ma…
ho avvertito la presenza del nano l’ultima volta che sono stata nel bosco. Il signor Alderman tollera
questo tratto di natura incolta sulla sua proprietà soltanto perché… le huldre hanno bisogno di una foresta
nelle vicinanze per sopravvivere. E lui può sempre assumere altra servitù nel bosco.»
Lei disse “assumere”. Per me fu come se avesse detto “catturare”.
La sessione di dieci minuti di calci negli stinchi era un’idea sempre più attraente.
«Allora, questo nano… che ci fa ad Alfheim?» domandai. «La luce del sole non lo trasforma in
pietra?»
La coda di Inge scattò. «Secondo le voci che ho sentito, Andvari ha più di mille anni. Ha una magia
potente. La luce del sole lo infastidisce appena. E poi, resta nelle profondità più buie della pozza.
Secondo me, ha pensato che Alfheim fosse un posto sicuro in cui nascondersi. Il suo oro è già stato rubato
in passato, da nani, umani, perfino da dei. Ma chi verrebbe mai a cercare il nano e il suo tesoro qui?»
“Grazie, Inge” disse Hearth.
La huldra arrossì. «Sia prudente, padron Hearth. Andvari è furbo. Di sicuro il suo tesoro è nascosto e
protetto da ogni genere di incantesimi. Mi dispiace se riesco solo a dirvi dove trovarlo, e non come
sconfiggerlo.»
Hearthstone abbracciò Inge, e per un attimo ebbi paura che la cuffietta della povera ragazza saltasse
via come il tappo di una bottiglia.
«Io… per favore… buona fortuna!» La huldra si allontanò come un razzo.
Mi voltai verso il mio amico. «È innamorata di te da quando eravate piccoli?»
Hearth fece roteare un dito su una tempia. “Sei matto.”
«Se lo dici tu» commentai. «Però sono contento che tu non l’abbia baciata, altrimenti sarebbe svenuta
all’istante.»
Hearthstone mi rispose con un verso infastidito. “Muoviamoci. Abbiamo un nano da derubare.”
26
BOMBARDIAMO TUTTI I PESCI

Avevo attraversato a piedi le selve di Jotunheim. Avevo vissuto sulle strade di Boston. In qualche modo,
quel tratto di terra incolta dietro Casa Alderman sembrava perfino più pericoloso.
Guardandomi alle spalle, riuscivo ancora a scorgere le torrette della casa che spuntavano sopra il
bosco. Udivo il rumore del traffico sulla strada. Il sole brillava allegro e accecante come al solito. Ma,
sotto gli alberi contorti, l’oscurità era tenace. Le radici e le rocce sembravano decise a farmi inciampare.
Dai rami più alti, uccellini e scoiattoli mi guardavano con occhi cattivi. Era come se quel piccolo spazio
di natura si sforzasse doppiamente di restare selvaggio per non essere trasformato in un giardino
all’inglese.
“Se solo ti vediamo portare un set da croquet qui dentro, ti faremo ingoiare le mazze” sembravano dire
gli alberi.
Apprezzavo il piglio, ma rendeva la nostra passeggiata un tantino più snervante.
Hearthstone sembrava sapere dove stava andando. Il pensiero di Andiron e di lui che giocavano in
quel bosco da bambini rinnovò il mio rispetto per il loro coraggio. Dopo aver attraversato qualche acro
di rovi, sbucammo in una piccola radura con un cumulo di pietre al centro: un cairn.
«Che cos’è?» domandai.
Il volto di Hearthstone era teso e addolorato, come se stesse ancora avanzando fra i rovi. Rispose: “Il
pozzo”.
La malinconia di quel posto mi entrò dentro. Era lì che suo fratello era morto. Il signor Alderman
doveva aver riempito il pozzo, o forse aveva costretto Hearthstone a farlo dopo che aveva scuoiato
quella creatura malvagia. Un lavoro che probabilmente gli aveva fatto guadagnare un paio di monete
d’oro.
Mi roteai il pugno sul petto, il segno per dire: “Mi dispiace”.
Hearth mi fissò come se quel sentimento non avesse nessun senso. Si inginocchiò accanto al cairn e
raccolse dalla cima una piccola pietra piatta, sopra la quale era incisa una runa in rosso:

Othala. Eredità. Lo stesso simbolo che Emma, la figlia di Randolph, stringeva in mano nel mio sogno.
Vedendolo dal vivo mi tornò il mal di mare. Mi sentii scottare il viso al ricordo della cicatrice di
Randolph.
Ripensai a quello che Loki aveva detto nella tomba dello spettro: “Il sangue è una cosa potente. Posso
sempre trovarti grazie a lui”. Per un secondo mi chiesi se Loki non avesse in qualche modo messo lì la
runa come un messaggio per me, ma Hearthstone non sembrava sorpreso di trovarla.
Mi inginocchiai accanto a lui e chiesi: “Perché è qui?”.
Hearthstone indicò se stesso e posò di nuovo la pietra con delicatezza in cima al mucchio. “Significa
‘casa’. O ‘ciò che è importante’.”
«Eredità?»
Ci rifletté per un momento, poi annuì. “La misi qui quando me ne andai, anni fa. È una runa che non
userò. Appartiene a lui.”
Guardai il mucchio di sassi. Possibile che alcuni di essi fossero quelli con cui Hearthstone giocava a
otto anni quando il mostro aveva attaccato suo fratello? Quel posto era più che un memoriale di Andiron.
Anche una parte di Hearthstone era morta lì.
Io non ero un mago, ma mi sembrava sbagliato che in un set di rune mancasse un simbolo. Come si può
essere padroni di una lingua – tanto più se è la lingua dell’Universo – senza tutte le lettere?
Avrei voluto spronare Hearth a riprendersi la runa. Andiron sarebbe stato sicuramente d’accordo.
Hearth aveva una nuova famiglia adesso. Era un grande stregone. La sua coppa della vita era stata
colmata di nuovo.
Ma Hearthstone evitava il mio sguardo. È facile non prestare attenzione a qualcuno quando sei sordo.
Basta non guardarlo. Si alzò e riprese a camminare, facendomi cenno di seguirlo.
Qualche minuto dopo, trovammo il fiume. Non era affatto grande: solo un torrente paludoso come
quello che si snoda nell’area verde di Fenway, a Boston. Nugoli di zanzare sciamavano sopra l’erba che
cresceva nell’acqua stagnante. Il terreno era simile a un pudding spugnoso e tiepido. Seguimmo la
corrente attraversando fitti cespugli di rovi, con il fango sino alle ginocchia. Quel nano millenario aveva
scelto un luogo davvero ameno per ritirarsi.
Dopo i sogni della notte precedente, avevo i nervi tesi. Continuavo a pensare a Loki legato nella
caverna. E alla sua comparsa nella suite di Alex Fierro: “È una richiesta così semplice”. Se era successo
davvero, cosa voleva Loki?
Ricordai l’assassino, il capricida che si dilettava in possessioni di istruttori di volo. Mi aveva detto
di portare Alex a Jotunheim: “ADESSO È LEI LA TUA UNICA SPERANZA DI SUCCESSO”. La cosa non
prometteva niente di buono.
Di lì a tre giorni, il gigante Thrym si aspettava un matrimonio. E avrebbe voluto una moglie, oltre al
prezzo della sposa: la Spada e la Pietra Skofnung. In cambio, forse, avremmo ricevuto il martello di Thor
e impedito alle orde di Jotunheim di invadere Boston.
Ripensai ai mille giganti che avevo visto nel mio sogno marciare in battaglia per sfidare Thor. Non
morivo certo dalla voglia di affrontare un esercito del genere, soprattutto senza un grosso martello che
faceva saltare in aria le montagne e friggeva letteralmente gli invasori, dopo averli fatti a pezzettini.
Quello che io e Hearth stavamo facendo aveva senso, certo: scarpinare per Alfheim, cercando di
recuperare l’oro di un vecchio nano per ottenere la Pietra Skofnung e guarire Blitz. Eppure… avevo la
sensazione che Loki ci stesse depistando di proposito, per non darci il tempo di riflettere. Era come un
playmaker che ci agitava le mani in faccia, per impedirci di tirare a canestro. In quel patto matrimoniale
c’era in gioco qualcosa di più del martello di Thor. Loki aveva un piano nel piano. Aveva arruolato lo zio
Randolph per una ragione. Se solo avessi avuto un attimo per riordinare le idee senza essere trascinato da
una questione di vita o di morte all’altra…
“Già, bravo. Hai appena descritto la tua vita prima e dopo la morte, Magnus” pensai.
Cercai di convincermi che sarebbe andato tutto bene. Purtroppo il mio esofago non ci credeva.
Continuava a fare lo yo-yo dal petto fino ai denti, avanti e indietro.
La prima cascata che trovammo era un delicato rivoletto che si lanciava da una sporgenza, fra due
ampie rive erbose. L’acqua non era abbastanza profonda da nascondere un pesce. I prati intorno erano
troppo piatti per celare trappole efficaci come punte avvelenate, mine o cavi di innesco di catapulte che
lanciavano dinamite o roditori idrofobi. Nessun nano degno di questo nome avrebbe nascosto lì il suo
tesoro. Continuammo a camminare.
La seconda cascata aveva del potenziale. Il terreno era più roccioso, coperto di muschio viscido e
fessure infide su tutte e due le rive. I rami degli alberi circostanti ombreggiavano l’acqua offrendo molti
possibili nascondigli per balestre o lame di ghigliottina. Il fiume stesso ricadeva lungo una gradinata
naturale di roccia per poi gettarsi con un tuffo di tre metri in una pozza larga quanto un trampolino. Fra la
schiuma e le increspature dell’acqua, non riuscivo a scorgere nulla sotto la superficie, ma a giudicare dal
colore blu scuro, la pozza doveva essere profonda.
«Potrebbe esserci qualunque cosa là sotto» dissi a Hearth. «Che facciamo?»
Hearthstone indicò il mio ciondolo. “Tieniti pronto.”
«Oh, okay.» Staccai la runa ed evocai Jack.
«Ehi, ragazzi!» esclamò. «Caspita, siamo ad Alfheim! Avete portato degli occhiali da sole per me?»
«Jack, tu non hai gli occhi» gli ricordai.
«Vero, però gli occhiali scuri mi stanno benissimo! Che stiamo facendo?»
Lo aggiornai per sommi capi, mentre Hearthstone frugava nel sacchetto di rune cercando di decidere
quale tipo di magia usare su un nano/pesce.
«Andvari?» chiese Jack. «Oh, ho sentito parlare di lui. Potete rubargli l’oro, ma non dovete ucciderlo.
Porterebbe molta sfortuna.»
«Ovvero?»
Le spade non possono stringersi nelle spalle, ma Jack si inclinò prima da un lato e poi dall’altro, nel
gesto che più ci assomigliava. «Non so cosa succederebbe, di preciso. So soltanto che è nella lista delle
cose da non fare assolutamente, insieme a rompere gli specchi, farsi attraversare la strada da uno dei gatti
di Freya, cercare di baciare Frigg sotto il vischio. Cavoli, una volta ho commesso questo errore!»
Ebbi la terribile sensazione che Jack stesse per raccontarmi tutta la storia. Poi Hearthstone si portò
una runa sopra la testa. Feci appena in tempo a riconoscere il simbolo:

Thurisaz: la runa di Thor.


Hearthstone la sbatté nella pozza.
KA-BUM!
Mi si appannarono gli occhiali. L’atmosfera si riempì di puro vapore e ozono, così in fretta che mi si
gonfiarono le narici come airbag.
Pulii le lenti degli occhiali. Al posto della pozza c’era una fossa profonda quasi dieci metri. Sul
fondo, decine di pesci sbigottiti si dimenavano sbattendo le pinne.
«Accidenti!» esclamai. «Che fine ha fatto la casc…?» Sollevai lo sguardo: il fiume si inarcava sopra
le nostre teste come un arcobaleno liquido, superando la pozza e rituffandosi più avanti sul letto del
fiume. «Hearth, come diamine hai…?»
Si voltò a guardarmi, e indietreggiai intimorito. I suoi occhi fiammeggiavano di rabbia. Il suo viso era
più spaventoso e ancora meno “suo” di quando si era trasformato in Super Bue sotto l’effetto di uruz.
«Ehm, era tanto per dire, amico…» Alzai le mani. «Però hai appena bombardato una cinquantina di
pesci innocenti.»
“Uno di loro è un nano” ribatté Hearth. Poi saltò nella fossa, con gli stivali che sprofondavano nel
fango, e prese a cercare in giro, estraendo un piede alla volta dalla melma fra potenti rumori di risucchio.
Esaminò ogni pesce.
Sopra di me, il fiume continuava ad arcuarsi a mezz’aria, rombando e scintillando al sole.
«Jack, che cosa fa la runa thurisaz?» domandai.
«È la runa di Thor, señor. Ehi! Thor, señor. C’è la rima!»
«Sì, è fantastico. Ma perché la pozza è saltata in aria? Perché Hearthstone si comporta in modo così
strano?»
«Ah! Perché thurisaz è la runa della forza distruttiva. Come Thor. Fa esplodere le cose. E poi, quando
la invochi, puoi diventare un po’… thorico.»
Thorico. Proprio quello di cui avevo bisogno. Ora sì che non avevo più nessuna voglia di saltare in
quella fossa. Se Hearthstone avesse cominciato a scoreggiare come il dio del tuono, l’aria laggiù sarebbe
diventata tossica molto alla svelta.
D’altro canto, non potevo lasciare quei pesci alla mercé di un elfo furioso. Certo, erano soltanto pesci.
Ma non mi piaceva l’idea che ne morissero così tanti solo per permetterci di snidare un nano travestito.
La vita è vita. Credo che fosse una cosa di Freyr. E poi pensai che Hearthstone se ne sarebbe pentito, una
volta libero dall’influenza di thurisaz.
«Jack, resta qui» dissi. «Fai la guardia.»
«Cosa che mi riuscirebbe più facilmente e con molto più stile con un paio di occhiali da sole» si
lamentò.
Lo ignorai e saltai dentro.
Almeno, Hearth non provò a uccidermi quando atterrai accanto a lui. Guardai intorno, ma non trovai
tracce di nessun tesoro: nessuna X a indicare il punto in cui scavare, nessuna botola, solo un mucchio di
pesci che boccheggiavano.
“Come troviamo Andvari?” domandai. “Gli altri pesci hanno bisogno di acqua per respirare.”
“Aspettiamo” rispose Hearth. “Anche il nano soffocherà, se non cambia forma.”
Quella risposta non mi piacque. Mi accovacciai e posai le mani sul fango, rilasciando il potere di
Freyr nella melma e spandendolo intorno. So che sembra assurdo, ma pensai che se riuscivo a guarire le
persone con il tocco delle mie mani, intuendo cosa c’era che non andava all’interno del loro corpo, forse
potevo provare a estendere la mia percezione – un po’ come quando si socchiudono gli occhi per vedere
più lontano – e percepire tutte le forme di vita che mi circondavano.
Funzionò, più o meno. La mia mente sfiorò la coscienza fredda e terrorizzata di una trota che si
dimenava a pochi metri di distanza. Localizzai un’anguilla sepolta nel fango che stava prendendo in seria
considerazione l’idea di mordere il calcagno di Hearthstone (la convinsi a non farlo). Toccai le
minuscole menti dei pesciolini guppy, le cui uniche riflessioni consistevano in: “Iiih! Iiih! Iiih!”. Poi
avvertii qualcosa di diverso: una cernia, i cui pensieri viaggiavano un po’ troppo in fretta, come se stesse
progettando piani di fuga.
La acciuffai con i miei riflessi di einherji.
La cernia strillò: «AH!».
«Andvari, suppongo? Piacere di conoscerti.»
«Lasciami andare!» gemette il pesce. «Il mio tesoro non è in questa pozza. Anzi, non ho nessun tesoro!
Dimentica quello che ho detto!»
«Hearth, che ne dici di uscire fuori di qui?» proposi. «Lasciamo che la pozza si riempia di nuovo.»
Il fuoco tutt’a un tratto scomparve dagli occhi di Hearthstone, che barcollò.
Dall’alto, Jack gridò: «Forse fareste meglio a sbrigarvi».
La magia runica stava scemando. L’arco d’acqua cominciò a dissolversi, infrangendosi in migliaia di
gocce. Con la cernia prigioniera ben stretta in una mano, avvolsi l’altro braccio intorno alla vita di
Hearthstone e saltai verso l’alto con tutte le mie forze.
Ragazzi, non provate a rifarlo a casa. Io sono un einherji addestrato che ha avuto una morte atroce, è
finito nel Valhalla e ora passa la maggior parte del suo tempo a litigare con una spada. Sono un
professionista qualificato in grado di fare salti di dieci metri per tirarsi fuori da una fossa di fango. Voi
no, mi auguro.
Atterrai sulla riva nell’istante stesso in cui la cascata crollava di nuovo nella pozza, dispensando ai
poveri pesciolini un miracolo molto bagnato e una storia da raccontare ai nipotini.
La cernia cercò di divincolarsi. «Lasciami andare, canaglia!»
«Ti faccio una controproposta» dissi. «Andvari, ti presento il mio amico Jack, la Spada dell’Estate.
Può tagliare quasi qualunque cosa. Canta canzoni pop come un angelo rincitrullito. È anche capace di
sfilettare il pesce a una velocità da non credere. Sto per chiedergli di fare tutte queste cose in
contemporanea. Oppure puoi ritornare alla tua forma normale, lentamente, e possiamo fare due
chiacchiere.»
In un paio di secondi, invece di stringere un pesce, la mia mano si ritrovò avvolta intorno alla gola del
nano più vecchio e viscido che avessi mai visto. Era così disgustoso che il fatto che non mollai la presa
avrebbe dovuto essere visto come una prova del mio coraggio e spedirmi di nuovo nel Valhalla.
«Congratulazioni» gracidò il nano. «Mi hai preso. E ora patirai una tragica fine!»
27
LASCIAMI SUBITO ANDARE, O TI RENDERÒ MILIARDARIO

Oh, patire una tragica fine!


Di solito non mi minacciano di farmi patire una tragica fine. La maggior parte della gente dei Nove
Mondi non usa un linguaggio così forbito. Dicono soltanto: “ORA T’AMMAZZO!”. Oppure lasciano
parlare i pugni avvolti nella maglia di ferro.
Fui così colpito dal suo vocabolario, che strinsi ancora più forte la gola di Andvari.
«Aaah!» Il nano si divincolava, agitandosi a destra e a manca. Era scivoloso, ma non pesante. Perfino
per gli standard nanici era minuscolo. Indossava una tunica fatta di pelle di pesce, con mutande che in
pratica erano un pannolino di muschio. Era tutto ricoperto di melma. Cercava di scacciarmi colpendomi
con le braccia tozze, ma era come essere picchiati da mazze di gommapiuma. E la faccia… be’, avete
presente come si riduce un pollice dopo che è rimasto chiuso in un cerotto umido troppo a lungo? Un
affarino rugoso, scolorito e anche un po’ repellente? Ecco, immaginatevi una faccia così, con una traccia
di barba ispida e bianca e gli occhi verde muffa, e avrete il ritratto di Andvari.
«Dov’è l’oro?» domandai. «Non farmi scatenare la playlist della mia spada.»
Andvari sembrò avvizzire ancora di più. «Sciocchi, non vi conviene impossessarvi del mio oro! Non
sapete cosa capita a quelli che lo prendono?»
«Diventano ricchi?» tirai a indovinare.
«No! Be’, sì. Ma, dopo, muoiono! Oppure… come minimo desiderano di morire. Soffrono sempre.
Insieme a tutti quelli che li circondano!» Agitò le piccole dita come a dire: “Buuu! Che paura!”.
Hearthstone pendeva leggermente a babordo, ma si reggeva in piedi. Mi fece segno: “Uno solo ha
rubato l’oro senza conseguenze”. Poi fece il segno che odiavo più di tutti: l’indice e il pollice uniti sulla
tempia, una combinazione della lettera L con il segno per dire “demonio”, il modo perfetto per designare
Loki.
«Loki ha rubato il tuo oro una volta» tradussi ad alta voce. «E lui non è morto né ha sofferto nulla.»
«E va bene, è vero, ma lui è Loki!» ribatté Andvari. «Tutti quelli che hanno rubato l’oro dopo di lui
sono impazziti! Hanno avuto una vita tremenda, lasciandosi dietro una scia di morti! È questo che vuoi?
Vuoi essere come Fafnir? Sigurd? Come uno dei vincitori della lotteria di Capodanno?»
«Come chi?»
«Oh, e dai! Avrai sentito anche tu queste storie. Ogni volta che libero il mio anello, rimbalza in giro
per i Nove Mondi per un po’. Qualche sciocco se ne impadronisce. Vince la lotteria e fa i milioni. Ma
poi finisce sempre spiantato, divorziato, malato, infelice e/o morto. È questo che vuoi?»
“L’anello magico, sì” intervenne Hearth. “È questo il segreto della sua ricchezza. Ci serve.”
«Hai parlato di un anello» dissi al nano.
Andvari si immobilizzò. «Davvero? Nossignore. Mi sarò sbagliato. Non c’è nessun anello.»
«Jack, come ti sembrano i suoi piedi?»
«Sono messi molto male, señor. Hanno bisogno di una pedicure.»
«Pensaci tu.»
Jack volò in azione. Ci vuole una spada eccezionale per tagliare i calli, spuntare vecchie unghie
nodose e lasciare i piedi di un nano puliti e scintillanti senza: 1) uccidere il suddetto nano, 2) mozzare i
piedi agitati del suddetto nano, 3) mozzare le gambe dell’einherji che tiene fermo il suddetto nano… il
tutto cantando Can’t Feel My Face. Jack è davvero speciale.
«E va bene, va bene!» strillò Andvari. «Basta torture! Vi mostrerò dov’è il tesoro! È proprio sotto
quella roccia!» Indicò freneticamente dappertutto, finché il suo dito non si fermò davanti a un masso
vicino al bordo della cascata.
“Trappola” mi fece segno Hearth.
«Andvari, se sposto quel masso, che genere di trappola innescherò?» domandai.
«Nessuna!»
«E se lo spostassi usando la tua testa come leva?»
«E va bene, è una trappola! Fatture esplosive! Cavi che innescano catapulte!»
«Lo sapevo!» esclamai. «Come si disarmano? E intendo dire tutte.»
Il nano strinse gli occhi per la concentrazione. O, almeno, sperai che fosse per questo. Altrimenti stava
depositando qualcosa nel pannolino di muschio.
«Fatto.» Sospirò affranto. «Ho disinnescato tutte le trappole.»
Lanciai un’occhiata a Hearthstone.
Il mio amico elfo distese le mani, probabilmente per sondare la magia intorno come io riuscivo a
percepire le anguille e i pesciolini. (Ehi, ognuno ha i suoi talenti.)
Annuì. “Via libera.”
Con Andvari che ciondolava ancora nella mia mano, mi avvicinai al masso e lo rovesciai con un
piede. (Anche la forza degli einherjar è un talento niente male.)
Sotto la roccia, una buca rivestita di tela era piena di… Wow!
Di solito il denaro mi lascia indifferente. È una cosa che non mi interessa. Ma la salivazione mi andò
in tilt quando vidi quella quantità immensa d’oro: bracciali, collane, monete, pugnali, anelli, coppe,
gettoni del Monopoly. Non conoscevo la quotazione dell’oro in quel periodo, ma ciò che avevo di fronte
probabilmente valeva un fantastilione di dollari, se non un fantastiliardo.
Jack emise un gridolino acuto. «Oh, guarda quei pugnalini! Sono adorabili.»
Gli occhi di Hearthstone tornarono in allerta. Tutto quell’oro ebbe su di lui lo stesso effetto di una
tazza di caffè sventolata sotto il naso.
“Troppo facile” disse. “Dev’esserci un inghippo.”
«Andvari, se il tuo nome significa “il Cauto”, perché è così facile derubarti?» chiesi.
«Lo so» singhiozzò. «Non sono cauto! Mi derubano in continuazione! Penso che il nome sia ironico.
Mia madre era una donna crudele.»
«Quindi questo tesoro viene rubato di continuo, ma torna sempre da te? Per via di quell’anello di cui
parlavi?»
«Quale anello? Ci sono un sacco di anelli in quel mucchio. Prendili pure!»
«No. L’anello supermagico. Dov’è?»
«Ehm… probabilmente da qualche parte in mezzo al mucchio. Dai un’occhiata!» Andvari si sfilò
rapidamente un anello dal dito e se lo ficcò nel pannolino. Aveva le mani così sporche che probabilmente
non avrei notato l’anello se non avesse cercato di nasconderlo.
«Te lo sei appena infilato nei pantaloni» osservai.
«Non è vero!»
«Jack, credo che questo nano abbia bisogno di una ceretta alla brasiliana.»
«No!» gemette Andvari. «E va bene, sì, mi sono infilato l’anello magico nei pantaloni. Ma ti prego,
non prenderlo. Recuperarlo è sempre un tale lavoraccio. Te l’ho detto, è maledetto. Non vuoi fare la fine
di un vincitore della lotteria, vero?»
Mi rivolsi a Hearth. «Cosa ne pensi?»
«Diglielo tu, signor Elfo!» fece Andvari. «Si vede che sei un elfo che ha studiato, che sa lanciare le
sue rune. Scommetto che conosci la storia di Fafnir, eh? Di’ al tuo amico che l’anello non vi porterà altro
che guai.»
Hearth scrutò in lontananza come per leggere una lista su una lavagna celeste: PORTARE A CASA UN
ANELLO MALEDETTO: – 10 MONETE D’ORO. RUBARE UN FANTASTILIONE DI MONETE D’ORO: + 10
FANTASTILIONI DI MONETE D’ORO.
“L’anello è maledetto. Ma è anche la chiave del tesoro” spiegò. “Senza l’anello, il tesoro non basterà
mai. Ne mancherà sempre un po’.”
Guardai il mucchio d’oro che avevo davanti. Avrebbe riempito una Jacuzzi. «Non so, amico. Mi
sembra più che abbastanza per coprire il tappeto del tuo guidrigildo.»
Hearth scosse la testa. “No, non basta. L’anello è pericoloso. Ma dobbiamo prenderlo per ogni
evenienza. Se non lo usiamo, lo restituiremo.”
Costrinsi il nano a voltarsi verso di me. «Mi dispiace, Andvari.»
«Che ha detto l’elfo?» domandò. «Non so leggere tutte quelle mosse!» Agitò le mani sudicie, dicendo
senza rendersene conto qualcosa tipo: “Asino cameriere frittella”.
Stavo perdendo la pazienza con quel vecchio melmoso, ma feci del mio meglio per tradurre il
messaggio di Hearth.
Gli occhi color muschio di Andvari si incupirono. Scoprì i denti, che non vedevano il filo interdentale
dall’epoca in cui gli zombie avevano ispirato il Patto del Mayflower. «Allora sei uno sciocco, signor
Elfo» ringhiò. «L’anello alla fine tornerà da me. Lo fa sempre. Nel frattempo, causerà morte e sofferenze
a chiunque lo indossi. E non pensare che risolverà i tuoi problemi. Questa non sarà l’ultima volta che
sarai costretto a tornare a casa. Hai solo rimandato una resa dei conti molto più pericolosa.»
Il cambiamento nel tono di Andvari mi inquietò perfino più della sua trasformazione da cernia a nano.
Non c’erano più tracce di lamenti e piagnucolii. Aveva parlato con fredda certezza, come un impiccato
che spiega la meccanica di un cappio.
Hearthstone non sembrò scosso. Aveva la stessa espressione di quando era di fronte al cairn del
fratello, come se stesse rivivendo una tragedia accaduta molto tempo prima e che non poteva essere
modificata. “L’anello” ribadì.
Il gesto era così chiaro che perfino Andvari lo comprese. «E va bene.» Il nano mi guardò malevolo.
«Neanche tu sfuggirai alla maledizione, umano. Ben presto vedrai che cosa si ottiene dai doni rubati!»
Mi si accapponò la pelle. «Che vuoi dire?»
Andvari sogghignò malvagio. «Oh, nulla. Proprio nulla.» Poi si scosse tutto, e l’anello uscì dal buco
di una gamba del pannolino. «Un anello magico, con tanto di maledizione!» annunciò.
«Io non lo raccolgo!» esclamai. «Neanche per sogno.»
«Preso!» Jack si tuffò e recuperò l’anello nel fango con il piatto della lama, usandola come fosse una
spatola.
Andvari osservò con occhi pieni di malinconia la mia spada che giocava a rimpiattino con l’anello
facendolo saltare da un lato all’altro della lama. «Concludiamo come al solito?» chiese il nano. «Mi
risparmiate la vita e vi prendete tutti i miei averi in cambio?»
«Mi sembra ottimo» concordai. «E tutto quell’oro nella fossa? Come facciamo a trasportarlo?»
Andvari sbuffò. «Dilettanti! La tela che riveste la buca è un grosso sacco magico. Tirate il cordoncino
e voilà! Devo tenere il malloppo pronto per fuggire alla svelta, le rare volte in cui riesco a evitare di
farmi derubare.»
Hearthstone si accovacciò accanto alla fossa. Da un buco sull’orlo della tela spuntava un cordoncino
ad anello. Lo tirò e il sacco si chiuse di scatto, riducendosi alle dimensioni di uno zaino. Un fantastilione
d’oro in un pacco superconvenienza.
«Adesso onorate la vostra parte del patto!» ordinò Andvari.
Lo lasciai cadere.
«Umf!» Il vecchio nano si strofinò il collo. «Godetevi la vostra tragica morte, dilettanti. Vi auguro di
patire le pene dell’inferno e di vincere due lotterie!» Pronunciata la sua abietta maledizione, saltò nella
pozza e scomparve.
«Ehi, señor! In campana» gridò Jack.
«Non oserai…»
Mi lanciò l’anello.
Lo acchiappai di riflesso. «Oh, che schifo!»
Considerato che era un anello magico, mi sarei aspettato un momentone alla Signore degli Anelli
mentre mi atterrava in mano: gelidi e incomprensibili mormorii, un vortice di nebbia grigia, una fila di
Nazgûl che ballava I Watussi. Non accadde nulla di tutto questo. L’anello rimase fermo lì, in tutto e per
tutto un semplice anello d’oro, a parte il fatto che era appena caduto fuori dal pannolino di muschio di un
nano millenario.
Me lo infilai in tasca, poi studiai il cerchio di fango che mi aveva lasciato sul palmo. «Non mi sentirò
mai più la mano pulita.»
Hearthstone si mise in spalla il nuovo e preziosissimo zaino, come un Babbo Natale fantamilionario.
Lanciò un’occhiata al sole, che aveva già passato lo zenit. Non mi ero reso conto di quanto tempo
avevamo passato a scarpinare nella selva sul retro della tenuta del signor Alderman.
“Dovremmo andare” disse Hearth. “Mio padre ci starà aspettando.”
28
E, SE ORDINATE ORA, RICEVERETE IN OMAGGIO ANCHE QUESTO ANELLO
MALEDETTO!

Ebbene sì, suo padre ci stava aspettando. Camminava su e giù nel salotto, sorseggiando succo dorato da
un calice d’argento, mentre Inge vigilava nelle vicinanze, nel caso il padrone ne avesse versato un po’ a
terra.
Quando entrammo, il signor Alderman si voltò verso di noi; il suo volto era una maschera di gelida
rabbia. «Dove siete sta…?» Rimase con la bocca spalancata, mettendo ancora più in evidenza il triangolo
isoscele del viso.
Non si aspettava di vederci conciati in quel modo, suppongo: madidi di sudore, coperti di erba e
ramoscelli, e con le scarpe incrostate di fango che lasciavano una scia di melma sul pavimento di marmo
bianco. L’espressione del signor Alderman fu una delle migliori ricompense che avessi mai ricevuto,
quasi come finire nel Valhalla.
Hearthstone lasciò cadere la borsa di tela sul pavimento, con un clangore attutito. Con il palmo rivolto
verso l’alto, sfregò un dito in direzione del padre, come se gli stesse lanciando una moneta. Il segno per
dire: “Pagamento”. Da come lo eseguì, sembrò quasi un insulto, e la cosa mi piacque.
Il signor Alderman dimenticò che in teoria non comprendeva la lingua dei segni e chiese: «Pagamento?
Ma come…?».
“Se vieni di sopra, te lo facciamo vedere.”
Lanciai un’occhiata alle spalle di Alderman. Inge guardava la scena a occhi sgranati, mentre un grande
sorriso le illuminava a poco a poco il volto.
“Abbiamo un tappeto di pelle di demone da ricoprire.”
Ah, il suono dei gettoni del Monopoly che si riversano a cascata su un tappeto di pelliccia… Non c’è
niente di più dolce, ve lo garantisco.
Hearthstone rovesciò la borsa di tela e camminò intorno al tappeto, riempiendolo di una valanga di
beni preziosi. Il signor Alderman impallidì. Sulla soglia, Inge saltava su e giù battendo le mani entusiasta,
senza curarsi di non aver pagato il padrone per il privilegio di farlo.
Una volta versato l’ultimo pezzo d’oro, Hearthstone arretrò, gettò a terra la borsa vuota e disse:
“Guidrigildo pagato”.
Il signor Alderman era allibito. Non disse: “Bravo, figliolo!” né: “Oh, caspita, sono ancora più ricco!”
e neppure chiese: “Hai rapinato il Dipartimento del Tesoro degli Elfi?”. Si accovacciò ed esaminò il
mucchio di oggetti, una moneta dietro l’altra, un pugnale dietro l’altro. «Ci sono cani e treni a vapore in
miniatura» notò. «Perché?»
Tossii. «Credo che… ehm, al precedente proprietario piacessero i giochi da tavolo. Giochi da tavolo
d’oro massiccio.»
«Mmm…» Alderman continuò l’ispezione, per assicurarsi che tutto il tappeto fosse coperto. La sua
espressione si fece sempre più cupa. «Avete lasciato la tenuta per averlo? Perché io non vi ho dato il
permesso di…»
«No, no» risposi. «È lei il proprietario della selva dietro il giardino sul retro, giusto?»
«Sì, è lui!» intervenne Inge. Il padrone le lanciò un’occhiata torva, e lei si affrettò ad aggiungere:
«Perché, ehm… il signor Alderman è un uomo molto importante».
«Senta, signore, è evidente che Hearthstone ce l’ha fatta» dissi. «Il tappeto è tutto coperto. Lo
ammetta.»
«Spetta a me giudicarlo!» ringhiò Alderman. «È una questione di responsabilità, una cosa che voi
giovani non capite.»
«Lei vuole che Hearthstone fallisca, vero?»
Alderman aggrottò la fronte. «Non voglio, me lo aspetto. È una cosa diversa. Il ragazzo si è meritato
la punizione. Non credo che abbia la capacità di pagare il debito.»
Per poco non urlai: “Hearthstone lo sta pagando da tutta la vita!”. Avrei voluto cacciargli il tesoro di
Andvari dritto in gola, magari così si convinceva delle capacità del figlio.
Hearthstone mi sfiorò il braccio con le dita. Disse: “Calma. Pronto con l’anello”.
Cercai di controllare il respiro. Non capivo come Hearth potesse sopportare le offese del padre. Ci
era abituato, certo, ma il vecchio elfo era insopportabile. Per fortuna Jack si era di nuovo trasformato in
ciondolo, altrimenti gli avrei ordinato una ceretta brasiliana completa per il signor Alderman.
Nella tasca dei jeans, l’anello di Andvari era così leggero che quasi non lo sentivo. Dovevo
trattenermi dall’impulso di controllarlo ogni pochi secondi. Capii che era uno dei motivi per cui ero
furioso con il signor Alderman. Volevo sentirgli dire che il debito era estinto, senza dovergli consegnare
anche l’anello, come sosteneva Hearthstone.
Perché sì, ecco, volevo tenerlo io. No, un attimo. Mi sbagliavo. Volevo restituirlo ad Andvari, perché
così avremmo evitato la maledizione. Cominciavo ad avere le idee poco chiare sulla faccenda, come se
avessi la testa piena di fango di fiume.
«A-ha!» esclamò il signor Alderman, trionfante. Indicò la parte superiore del tappeto, sulla nuca della
bestia, dove la pelliccia era più folta. Un singolo pelo azzurro spuntava come un’erbaccia ostinata in
mezzo al tesoro.
«Oh, via!» dissi. «Basta un’aggiustatina.» Spostai il tesoro per coprire il pelo.
Ma, non appena lo feci, ne venne fuori un altro nel punto in cui avevo preso l’oro. Era come se quello
stupido pelo azzurro mi seguisse, vanificando i miei sforzi.
«Nessun problema» insistetti. «Tiro fuori la spada. Oppure, se ha un paio di forbici…»
«Il debito non è estinto!» si impuntò Alderman. «A meno che non riusciate a coprire subito
quell’ultimo pelo con altro oro, pagherete una multa per avermi deluso e fatto perdere tempo. Diciamo…
la metà del tesoro.»
Hearthstone mi guardò: non c’era la minima traccia di sorpresa sul suo viso, solo cupa rassegnazione.
“L’anello.”
Un’ondata di risentimento omicida mi travolse. Non volevo cedere l’anello. Ma poi guardai le lavagne
bianche intorno alla stanza: tutte le regole e le voci del menu, tutte le pretese che il signor Alderman si
aspettava non fossero soddisfatte da Hearthstone. La maledizione dell’anello di Andvari era forte, mi
sussurrava di tenerlo e diventare ricco sfondato. Ma il desiderio di vedere Hearthstone libero dal padre,
di nuovo insieme a Blitzen, e lontano da quella casa tossica… era ancora più forte.
Tirai fuori l’ultimo pezzo segreto del nostro tesoro.
Una luce famelica illuminò gli occhi alieni del signor Alderman. «Molto bene. Mettilo nel mucchio.»
“Padre, fa’ attenzione” disse Hearthstone. “L’anello è maledetto.”
«Figurati se do retta alle tue inutili mosse!»
«Lei capisce cosa sta dicendo Hearth.» Sollevai l’anello. «Questo oggetto contagia chiunque lo
possieda. La rovinerà. Caspita, io ce l’ho soltanto da pochi minuti e mi ha già confuso le idee. Prenda
l’oro che è già sul tappeto. Consideri estinto il debito. Dimostri un po’ di clemenza, e noi restituiremo
l’anello al suo precedente proprietario.»
Il signor Alderman scoppiò in una risata amara. «Clemenza? Cosa me ne faccio della clemenza? Mi
restituirà forse Andiron?»
Fosse stato per me, gli avrei mollato un pugno in faccia, ma Hearthstone si avvicinò al padre.
Sembrava sinceramente preoccupato. “La maledizione di F-A-F-N-I-R” disse. “Non farlo.”
Andvari aveva accennato a quel nome. Mi suonava vagamente familiare, ma non riuscivo a collocarlo.
Forse Fafnir aveva vinto la lotteria?
Hearth fece il segno che significa “per favore”: la mano piatta sul petto a formare un cerchio. Mi colpì
che “per favore” fosse solo una versione più rilassata e meno rabbiosa di “scusa”.
I due elfi si fissarono l’un l’altro sopra il mucchio d’oro. Mi sembrò quasi di percepire Alfheim che
dondolava sui rami dell’Albero del Mondo. Nonostante tutto quello che gli aveva combinato, Hearthstone
voleva ancora aiutare il padre… stava facendo un ultimo tentativo per tirarlo fuori da una fossa molto più
profonda di quella di Andvari.
«No» decise il signor Alderman. «Pagate il guidrigildo o rimarrete miei debitori, tutti e due.»
Hearthstone chinò la testa, vinto. Mi fece cenno di cedere l’anello.
«Prima la Pietra Skofnung» dissi. «Mi dimostri che onora la sua parte del patto.»
Alderman fece un verso di scherno. «Inge, prendi la Pietra Skofnung dalla custodia e portala qui. Il
codice di sicurezza è “Greta”.»
Hearthstone trasalì. Immaginai che Greta fosse il nome di sua madre.
La huldra corse via.
Per una manciata di secondi pieni di tensione, io, Hearthstone e Alderman rimanemmo intorno al
tappeto a guardarci. Nessuno propose una partita a Monopoly, nessuno gridò: “Yuppie!” e saltò sul
mucchio d’oro (anche se, lo ammetto, io ne fui tentato).
Finalmente Inge ritornò, stringendo la pietra grigiazzurra fra le mani a coppa. La porse al padrone, con
un inchino.
Alderman la prese e la consegnò al figlio. «Te la do spontaneamente, Hearthstone, puoi farne quello
che vuoi. Che i suoi poteri siano i tuoi.» Mi lanciò un’occhiataccia. «Ora, l’anello.»
Non avevo più scuse per tergiversare, ma fu comunque difficile. Con un respiro profondo, mi
inginocchiai e misi l’anello di Andvari insieme al resto del tesoro, coprendo l’ultimo pezzettino di
pelliccia. «L’affare è concluso» dissi.
«Eh?» Alderman teneva gli occhi puntati sul tesoro. «Sì, sì, tranne per una cosa. Mi hai promesso la
copertura dei media, Magnus Chase. Ho organizzato una festicciola per stasera. Inge!»
La huldra sussultò. «Sì, signore! I preparativi procedono. Tutti e quattrocento gli invitati hanno
risposto.»
«Quattrocento?» chiesi. «Come ha trovato il tempo per organizzarla? Come sapeva che ce l’avremmo
fatta?»
«Ah!» Il bagliore di follia negli occhi del signor Alderman non mi tranquillizzò. «Non lo sapevo, e
non mi importava. Progettavo di dare una festa tutte le sere durante la tua permanenza qui, Magnus,
magari per sempre. Ma, dato che avete pagato il guidrigildo tanto alla svelta, dobbiamo sfruttare al
massimo questa serata. Quanto al come ho fatto, io sono Alderman di Casa Alderman. Nessuno oserebbe
rifiutare un mio invito!»
Alle sue spalle, Inge mi guardò annuendo con energia e si fece scorrere un dito sul collo.
«E adesso…» Il signor Alderman raccolse l’anello maledetto. Se lo infilò al dito e stese la mano per
ammirarlo come se si fosse appena fidanzato. «Sì, starà benissimo con i miei abiti formali. Hearthstone,
aspetterò te e il tuo ospite… Hearthstone, dove stai andando?»
A quanto pare, Hearth ne aveva avuto abbastanza del padre. Tenendo la Pietra Skofnung in una mano,
afferrò il nodo della sciarpa di Blitzen con l’altra, raddrizzò il nostro amico nano e lo trascinò in bagno.
Un attimo dopo, sentii scorrere l’acqua.
«Ehm… dovrei andare ad aiutarli» dissi.
«Che cosa?» mi fulminò Alderman. «E va bene, sì. È un anello bellissimo. Inge, assicurati che le
nostre giovani canaglie siano vestite in modo appropriato per la festa, e manda qualcuno dello staff ad
aiutarmi con l’oro. Voglio che ogni pezzo del tesoro venga pesato e contato. E lucidato! Sarà
meraviglioso una volta lucidato. E già che ci sei…»
Non volevo lasciare Inge da sola con Mister Anello Pazzo, ma mi dava la nausea vedere Alderman
che si trastullava con quell’immensa “fortuna”. Corsi dai miei amici in bagno.

L’unica cosa più inquietante della testa mozzata di un dio che galleggia nella vasca da bagno? Un nano di
granito che sanguina nella doccia.
Hearth sistemò Blitzen sotto il soffione. Non appena l’acqua iniziò a scorrergli sulla testa, cominciò
ad ammorbidirsi. Il volto grigio e freddo ritrovò l’incarnato marrone caldo. Il sangue riprese a sgorgare
dalla ferita nella pancia e si mise a vorticare nello scarico. A Blitz cedettero le ginocchia. Mi infilai
maldestramente nella cabina per sostenerlo.
Hearthstone armeggiava con la Pietra Skofnung. La premette sulla ferita zampillante, e Blitz restò
senza fiato. Il flusso di sangue si interruppe.
«Sono spacciato!» gracchiò Blitz. «Non preoccuparti per me, pazzo di un elfo! Solo…» Sputò
dell’acqua. «Perché piove?»
Hearthstone lo abbracciò forte, schiacciandogli la faccia sul petto.
«Ehi!» si lamentò Blitz. «Così non respiro!»
Ovviamente, Hearth non poteva sentirlo, né sembrava che la cosa gli importasse. Si dondolava avanti
e indietro con il nano fra le braccia.
«Okay, amico.» Blitz gli diede dei lievi colpetti sulle spalle. «Su, su!» Alzò gli occhi verso di me e in
silenzio mi fece diverse migliaia di domande con lo sguardo, incluso: “Perché stiamo facendo la doccia
insieme? Perché non sono morto? Perché puzzate di melma di palude? Che cos’è successo al mio elfo?”.
Quando fummo sicuri che fosse del tutto de-pietrificato, Hearth chiuse l’acqua. Blitz era troppo debole
per spostarsi, così lo mettemmo a sedere nella doccia.
Inge si precipitò in bagno con una pila di asciugamani e dei vestiti puliti. «Mi sa che vi conviene fare
con comodo qui» ci consigliò, lanciando un’occhiata nervosa alla porta. Dalla camera di Hearthstone
giungeva il rumore di una cascata di monete d’oro, come una decina di slot-machine in azione, intercalata
di tanto in tanto da una risata folle. «C’è un po’ di… caos là fuori.» Poi se ne andò, chiudendosi la porta
alle spalle.
Facemmo del nostro meglio per darci una ripulita. Utilizzando una cintura, mi fabbricai una sorta di
custodia per la Pietra Skofnung e me la legai alla vita, nascondendola sotto la maglietta, nell’eventualità
che al signor Alderman venisse improvvisamente voglia di riprendersela.
La ferita di Blitzen si era chiusa alla perfezione, lasciando solo una piccola cicatrice bianca, ma lui
era sconfortato per i danni subiti dall’abito: il taglio della spada sul panciotto e le grosse macchie di
sangue. «Il succo di limone non le eliminerà mai» si lamentava. «Quando la stoffa si trasforma in granito
e poi di nuovo in stoffa, lo scolorimento è permanente.»
Evitai di sottolineare che almeno era vivo. Sapevo che era in stato di shock, e lo affrontava
concentrandosi sulle cose che capiva e poteva rimediare, tipo il suo guardaroba.
Ci sedemmo tutti sul pavimento del bagno. Blitzen prese il kit da rammendo e si cucì con gli
asciugamani una protezione extra contro il sole di Alfheim, mentre io e Hearthstone lo aggiornavamo a
turno sugli ultimi avvenimenti.
Blitzen scosse la testa, sbigottito. «Avete fatto tutto questo per me? Pazzi e meravigliosi idioti che non
siete altro! Potevate rimetterci la pelle! E tu, Hearth, ti sei sottomesso a tuo padre? Non ti avrei mai
chiesto di fare una cosa del genere. Avevi giurato che non saresti mai tornato qui, e per un’ottima
ragione!»
“Avevo anche giurato di proteggerti” replicò Hearth. “È colpa mia se ti hanno pugnalato. E di
Samirah.”
«Piantala!» ribatté Blitz. «Non è stata colpa tua, né sua. Non si può eludere una profezia. Questa ferita
mortale era destino, ma ora che mi avete salvato possiamo smettere di preoccuparcene! E poi, se vuoi
dare la colpa a qualcuno, dai la colpa a quel pazzo di Randolph.» Mi lanciò un’occhiata. «Non ti
offendere, figliolo, ma ho una gran voglia di uccidere tuo zio.»
«Non mi offendo, anzi. Sono tentato di darti una mano.»
Eppure, mi tornò in mente l’urlo inorridito di Randolph mentre pugnalava Blitzen, e il modo in cui
aveva seguito Loki come un cane bastonato. Per quanto desiderassi odiare mio zio, non potevo fare a
meno di provare pena per lui. Dopo aver conosciuto il signor Alderman cominciavo a capire che, per
quanto sia messa male la tua famiglia, potrebbe sempre andarti peggio.
Hearth finì di aggiornare Blitzen, spiegandogli come avessimo derubato Andvari e fossimo stati
minacciati di diverse vincite alla lotteria.
«Dovevate proprio essere impazziti per affrontare quel nano» disse Blitzen. «È famigerato a
Nidavellir. È ancora più abile e avido di Eitri Junior.»
«Potremmo per cortesia evitare di nominarlo?» lo supplicai. Avevo ancora gli incubi sul vecchio nano
che aveva sfidato Blitz in una gara di abilità artigianale qualche mese prima. E mi auguravo di non
vedere più un deambulatore a razzo per il resto dei miei giorni.
Blitzen aggrottò la fronte e guardò Hearth. «E hai detto che l’anello adesso ce l’ha tuo padre?»
Hearthstone annuì. “Ho cercato di avvisarlo.”
«Sì, però… quell’affare può distorcere la mente di chi lo possiede, al di là di ogni immaginazione.
Dopo quello che è successo a Hreidmar, Fafnir, Regin e a tutti quei vincitori della lotteria… be’, c’è un
elenco infinito di persone distrutte dall’anello.»
«Chi sono?» domandai. «Voglio dire, le persone che hai appena nominato.»
Blitzen sollevò la sua ultimissima creazione: una sorta di burka di teli da bagno con gli occhiali da
sole attaccati col nastro adesivo davanti ai fori per gli occhi. «È una storia lunga e tragica, figliolo. Un
sacco di morti. La cosa importante è che dobbiamo convincere il signor Alderman a cedere l’anello
prima che sia troppo tardi. Dobbiamo rimanere per un po’ a questa sua festa, giusto? Potrebbe essere la
nostra occasione. Magari sarà di buon umore e possiamo farlo ragionare.»
Hearthstone fece un verso di scherno. “Mio padre? Ne dubito.”
«Se non ci riusciamo, che facciamo?» domandai.
«Allora scappiamo» rispose Blitz. «E speriamo che Alderman non…»
Dalla stanza accanto, Inge gridò: «Signor Hearthstone?». Il suo tono di voce rasentava il panico.
Uscimmo un po’ goffamente dal bagno e scoprimmo che la camera di Hearthstone era stata
completamente svuotata. Il materasso era sparito. Le lavagne erano state rimosse, lasciando ombre di un
bianco acceso sulle pareti appena un po’ meno bianche. Il tesoro e il tappeto di pelliccia azzurra erano
svaniti, come se il guidrigildo non fosse mai esistito.
Inge era sulla soglia, con la cuffietta di traverso. Era rossa in viso e si strappava nervosamente
ciuffetti di peli dalla coda. «Padron Hearth, gli… gli ospiti sono arrivati. La festa è cominciata. Suo
padre chiede di lei, ma…»
“Che c’è?” domandò Hearthstone.
Inge tentò di rispondere, ma non ci riuscì. Scrollò le spalle con un’espressione inerme, come se non
riuscisse a descrivere gli orrori di cui era stata testimone alla festicciola del signor Alderman. Alla fine
disse: «Probabilmente è… è meglio se lo vedete con i vostri occhi».
29
NØKK, NØKK

Alderman sapeva come dare il via a una festa. E sapeva anche come fare sfoggio di ricchezza.
Dalla cima delle scale, scrutammo il salotto gremito di elfi elegantissimi vestiti di bianco, oro e
argento. I loro occhi chiari, i capelli biondi e i costosi gioielli scintillavano alla luce della sera che
fluiva dalle finestre. Decine di huldre si muovevano tra la folla, offrendo bevande e antipasti. E in tutte le
vetrinette e le nicchie, dove un tempo erano esposti manufatti e minerali, sfolgoravano pile e pile del
tesoro di Andvari, tanto che la sala assomigliava al deposito di una gioielleria dopo un tornado.
Sopra la mensola del caminetto, alla base del ritratto di Andiron, era appeso uno striscione dorato con
una scritta rossa: BENVENUTO, MAGNUS CHASE, FIGLIO DI FREYR! SPONSOR: CASA ALDERMAN! E sotto, a
caratteri più piccoli: HEARTHSTONE È STATO RIPORTATO A CASA.
Non “è tornato”. È stato riportato. Come se la polizia elfica lo avesse arrestato e trascinato lì in
catene.
Alderman in persona saettava tra la folla, lanciando monete d’oro agli ospiti, abbordandoli con dei
gioielli in mano e borbottando: «Riesce a credere a un tesoro così grande? Straordinario, vero? Vuole un
trenino a vapore d’oro? Posso mostrarle un pugnale?».
Con lo smoking bianco, gli occhi stravolti e il sorriso scintillante, sembrava un diabolico maître
d’hotel che organizzava feste da Chez Massacre. Gli ospiti ridevano nervosamente mentre lui lanciava
tesori. Quando poi si allontanava, borbottavano fra loro, forse chiedendosi quando avrebbero potuto
filarsela senza fare le figura dei maleducati. Alderman serpeggiava nella sala distribuendo gingilli d’oro,
e la folla si scansava come gatti che fuggono davanti all’aspirapolvere.
Dietro di noi, Inge sussurrò: «Oh, santo cielo. Sta peggiorando».
“L’anello gli dà alla testa” commentò Hearthstone.
Io annuii, anche se mi domandavo fino a che punto la salute mentale del signor Alderman non fosse già
stata compromessa. Viveva di rancore da decenni, incolpando Hearthstone per la morte di Andiron. E
poi, all’improvviso, Hearthstone si era liberato del debito. L’anello di Andvari andava soltanto a
riempire quel vuoto con un mucchio di follie.
Blitzen si aggrappò alla balaustra delle scale, con le mani guantate. «Così non va.»
Indossava il burka di asciugamani per proteggersi dalla luce di Alfheim. Ci aveva spiegato che la rete
del caschetto coloniale e la crema che usava di solito non sarebbero bastate, perché era ancora debole
per via della pietrificazione. La sua mise però risultava un po’ inquietante. Sembrava una versione in
miniatura del cugino Itt della famiglia Addams.
«A-ha!» Il signor Alderman ci notò sulle scale e allargò ancora di più il suo sorriso. «Guardate, mio
figlio e i suoi compagni! Il nano… almeno presumo che ci sia il nano sotto quegli asciugamani. E Magnus
Chase, figlio di Freyr!»
La folla si girò a guardarci con un discreto numero di “oooh” e “aaah”. Non mi è mai piaciuto essere
al centro dell’attenzione. Lo detestavo a scuola, e anche dopo, nel Valhalla. E detestavo ancora di più che
quegli elfi superchic mi puntassero come se fossi una deliziosa fontana di cioccolata che aveva appena
aperto bottega.
«Sì, sì!» Il signor Alderman rideva come un pazzo. «Il tesoro che vedete, amici miei? Non è niente in
confronto a Magnus Chase! Mio figlio finalmente ne ha fatta una giusta. Mi ha portato un figlio di Freyr
come parte del pagamento del suo guidrigildo. E adesso questo giovane, Magnus Chase, sarà mio ospite
fisso! Per le fotografie potete cominciare a mettervi in fila al bar…»
«Aspetti un attimo» dissi. «Il patto non era questo, Alderman. Non resteremo qui dopo la festa.»
E Hearthstone aggiunse: “Padre, l’anello. È pericoloso. Toglitelo”.
La folla si agitò irrequieta, non sapendo come interpretare la cosa.
Il sorriso di Alderman svanì. Socchiuse gli occhi. «Mio figlio mi chiede di togliermi il mio nuovo
anello.» Sollevò la mano e agitò il dito, facendo scintillare l’oro alla luce. «Ora, perché me lo chiede? E
perché Magnus Chase minaccia di andarsene? Forse queste canaglie stanno progettando di rubarmi il
tesoro?»
Blitzen fece un verso di scherno. «Ma se te l’hanno appena portato, balordo di un elfo. Perché
dovrebbero rubartelo di nuovo?»
«Allora lo ammetti!» Alderman batté le mani.
Tutte le porte del salotto si chiusero all’istante. Intorno al perimetro della stanza, una decina di
colonne d’acqua sgorgarono dal pavimento formando sagome vagamente umanoidi, simili ad animali fatti
con i palloncini pieni d’acqua… ma senza i palloncini.
«Quelli sono nøkk di sicurezza» gridò Blitzen.
«Che sono?» domandai.
«Si chiamano anche nix» mi spiegò. «Spiriti dell’acqua. Brutta storia.»
Hearthstone afferrò Inge per un braccio. “Hai ancora parenti nel bosco?”
«S-sì» rispose lei.
“Allora vattene subito” le ordinò. “Non hai più l’obbligo di servire la mia famiglia, sei libera. Non
tornare. E chiama la polizia.”
Inge sembrava stupefatta e ferita, ma poi lanciò un’occhiata agli spiriti dell’acqua che circondavano la
folla ai piedi delle scale. Diede un bacio a Hearthstone, sulla guancia. «Io ti… ti amo.» E svanì in uno
sbuffo di vapore al profumo di bucato.
Blitzen inarcò un sopracciglio. «Mi sono perso qualcosa?»
Hearthstone gli lanciò un’occhiata stizzita, ma non ebbe tempo di spiegare niente.
Nel frattempo, giù in sala, un anziano elfo gridò: «Alderman, cosa significa tutto questo?».
«Cosa significa, signor sindaco?» Alderman sorrise con il fervore di un pazzo. «Ora capisco perché
siete venuti tutti qui. Volevate rubare il mio tesoro, ma vi ho preso con le mani nel sacco! Nøkk di
sicurezza, schiacciate questi ladri! Nessuno uscirà vivo da qui.»

Un piccolo consiglio di bon ton: se state cercando il momento più opportuno per andarvene da una festa,
quando l’ospite grida: “Nessuno uscirà vivo da qui” è il segnale.
Gli elfi urlarono e si precipitarono verso le uscite, ma le porte di vetro erano ben chiuse. I nix di
sicurezza si spostarono tra la folla trasformandosi da animaloidi in umanoidi e poi in onde massicce,
avvolgendo gli elfi uno a uno e lasciandoli svenuti sul pavimento, in mucchietti di eleganti panni bagnati.
Nel frattempo, Alderman rideva e danzava, recuperando i suoi gingilli d’oro dagli ospiti caduti.
«Dobbiamo andarcene subito» disse Blitzen.
«Ma dobbiamo aiutare gli elfi» obiettai.
Sì, è vero, con l’eccezione di Hearthstone, non avevo una grande opinione degli elfi che avevo
conosciuto. I pesciolini del lago di Andvari mi stavano più simpatici. Ma non sopportavo neanche l’idea
di lasciare quattrocento persone alla mercé del signor Alderman e di quei delinquenti dei suoi nix liquidi.
Mi strappai il ciondolo dal collo ed evocai Jack.
«Ehi, ragazzi!» disse Jack. «Che succede… ah, i nøkk! Hai voglia di scherzare? Non c’è niente da
tagliare con questi qua.»
«Fa’ quello che puoi!» gridai.
“Troppo tardi” disse Hearthstone. “I violini!”
Non ero sicuro di aver interpretato bene l’ultimo segno. Poi guardai giù. Molti nix si erano disposti in
forma umanoide intorno alla sala e stavano tirando fuori violini e archetti da… be’, da qualche parte
dentro le loro sagome liquide. Sembrava il posto peggiore possibile per custodire strumenti a corda, ma i
nix si portarono i violini di legno al mento acquoso.
«Le orecchie!» ci avvisò Blitz.
Mi schiacciai le mani sulle tempie proprio mentre i nøkk cominciavano a suonare. Non servì a molto.
Quella nenia era talmente triste e disarmonica che mi tremarono le ginocchia e gli occhi mi si riempirono
di lacrime. Tutt’intorno alla sala, altri elfi crollarono fra i singhiozzi, ma non il signor Alderman, che
sembrava immune. Il vecchio elfo continuava a ridere e a saltellare per la stanza, mollando di tanto in
tanto un calcio in faccia a uno dei suoi ospiti VIP .
Da sotto il cappuccio di spugna, Blitzen emise un grido smorzato. «Fateli smettere o moriremo di
crepacuore nel giro di pochi minuti!»
Non la presi come una metafora.
Per fortuna, Hearthstone era insensibile alla musica. Schioccò le dita per attirare l’attenzione e indicò
Jack: “Spada. Taglia i violini!”.
«L’hai sentito» dissi a Jack.
«No, non ho sentito niente!»
«Uccidi i violini!»
«Oh. Con piacere!» Jack volò in azione.
Nel frattempo, Hearthstone pescò una runa e la lanciò dalla cima delle scale. La pietra esplose a
mezz’aria formando un’enorme H scintillante sopra le teste degli elfi.

Fuori, il cielo si fece cupo. La pioggia prese a martellare sui cristalli delle finestre, soffocando il suono
dei violini.
“Seguitemi” ordinò Hearthstone. Scese le scale mentre il temporale aumentava.
Giganteschi chicchi di grandine sbattevano sulle finestre, incrinando i vetri e facendo tremare tutta la
casa. Portai una mano alla vita per accertarmi che la Pietra Skofnung fosse ancora lì al sicuro e mi
precipitai dietro Hearth.
Jack volava da un nøkk all’altro, spaccando i violini e facendo a pezzi i sogni e le speranze di svariati
nix di talento. Gli spiriti d’acqua menavano colpi alla cieca contro Jack. Non sembravano in grado di
ferirlo più di quanto lui potesse ferire loro, ma Jack li tenne occupati abbastanza a lungo da permetterci
di arrivare ai piedi delle scale.
Hearthstone si fermò e sollevò le braccia. Con un tremendo BOOM! tutte le finestre e le porte a vetro
della casa andarono in frantumi. La grandine entrò portata dal vento e colpì elfi, huldre e nix in ugual
misura.
«Andiamo!» gridai alla folla. «Forza!»
«Sciocchi!» strillò Alderman. «Vi tengo in pugno. Non potete fuggire!»
Facemmo del nostro meglio per radunare tutti nel cortile. Stare all’aperto era come correre in mezzo a
un uragano di palle da baseball, ma era sempre meglio che morire circondato da violinisti nøkk. Magari
avessi avuto il buonsenso di coprirmi di asciugamani come Blitzen.
Gli elfi si dispersero e fuggirono. I nix provarono a inseguirci, ma la grandine li rallentava,
penetrando nei loro corpi acquosi e sollevando spuma gelata, finché non furono simili a gigantesche
granite fuggite dai bicchieri.
Eravamo arrivati a metà del prato, in direzione della selva, quando udii le sirene. Con la coda
dell’occhio, scorsi i lampeggianti delle auto della polizia e delle ambulanze che imboccavano il vialetto
principale.
Sopra di noi, le nuvole scure cominciarono a disperdersi. La grandine scemò. Feci appena in tempo ad
afferrare Hearthstone prima che cadesse. Pensavo quasi che ce l’avremmo fatta a raggiungere il bosco
quando una voce alle nostre spalle gridò: «Fermi!».
A cinquanta metri di distanza, i nostri vecchi amici, Wildflower e Sunspot, avevano estratto le armi da
fuoco e si apprestavano a spararci per vagabondaggio, violazione di proprietà privata o fuga non
autorizzata.
«Jack!» gridai.
La mia spada li raggiunse in un lampo e tagliò le loro cinture di ordinanza. I due agenti si ritrovarono
con i pantaloni alle caviglie.
Gli elfi non dovrebbero mai indossare i pantaloncini corti, scoprii. Hanno gambe pallide e
dinoccolate che non sono per niente aggraziate né eleganti.
Mentre i poliziotti tentavano di recuperare la loro dignità, ci tuffammo nel bosco. Hearthstone aveva
quasi esaurito le forze; si appoggiava a me mentre correvamo, ma io ero allenato a sostenerlo.
Jack volò al mio fianco. «Che spasso!» esclamò. «Però temo di averli solo rallentati. Avverto un buon
punto per uno squarcio, poco più avanti.»
«Uno squarcio?» domandai.
«Vuole dire un varco fra i mondi!» spiegò Blitzen. «Non so tu, ma io in questo momento preferirei uno
qualsiasi degli altri otto.»
Raggiungemmo la radura dove un tempo sorgeva il vecchio pozzo.
Hearthstone scosse debolmente la testa e fece un gesto con una mano sola, indicando direzioni diverse.
“Ovunque tranne qui.”
Blitzen si girò verso di me. «Dove siamo?»
«Dove il fratello di Hearth…»
«Oh.» Blitzen sembrò rimpicciolire sotto il mucchio di asciugamani.
«È il punto migliore, ragazzi» insistette Jack. «C’è un portale davvero molto sottile fra i mondi
proprio in cima a quel cumulo di pietre. Posso…»
Alle nostre spalle, risuonò uno sparo. Trasalimmo tutti, tranne Hearthstone. Qualcosa mi sfrecciò
accanto a un orecchio ronzando come un insetto fastidioso.
«Fallo, Jack!» gridai.
Si precipitò verso il mucchio di pietre e fendette l’aria, aprendo uno squarcio nel buio più assoluto.
«Adoro il buio» disse Blitzen. «Forza!»
Insieme, trascinammo Hearthstone verso la vecchia tana di Piscianelpozzo e saltammo nello spazio fra
i mondi.
30
TUTTI INSIEME: OLTREEE L’ARCOBALENOOO…

Precipitammo giù per diversi gradini fino a un pianerottolo di cemento, dove restammo accasciati a terra,
l’uno sopra l’altro, senza fiato e storditi. A quanto pareva, ci trovavamo su una scala di emergenza: muri
di mattoni a vista, ringhiera industriale verde, estintori e cartelli illuminati che indicavano: USCITA .
Sopra di noi, sulla porta di metallo più vicina, c’era la scritta: SESTO PIANO.
Mi tastai la vita, preoccupato, ma la Pietra Skofnung era ancora lì, sana e salva. Jack invece era di
nuovo un ciondolo. Riposava comodamente appeso alla mia catenina mentre tutta l’energia che aveva
consumato combattendo contro i nix mi prosciugava l’anima. Mi sentivo le ossa di piombo. Non riuscivo
a mettere a fuoco. Chi se lo immaginava che tagliare violini a fette e lasciare agenti di polizia in mutande
costasse tanta fatica?
Hearthstone non era molto più in forma di me. Cercò di tirarsi su aggrappandosi alla ringhiera, ma non
gli reggevano le gambe. Avrei quasi pensato che fosse ubriaco, ma non lo avevo mai visto bere niente di
più forte di un chinotto a Nidavellir.
Blitzen si tirò via il burka di asciugamani. «Siamo a Midgard!» annunciò. «Riconoscerei questo odore
ovunque.»
Secondo me, le scale sapevano solo di elfo, di nano e di Magnus bagnati, ma mi fidai di lui.
Hearth inciampò. C’era una macchia rossa sulla sua camicia.
«Amico!» Blitz corse al suo fianco. «Cos’è successo?»
«Ehi, Hearth!» Lo feci sedere ed esaminai la ferita. «Colpo di arma da fuoco. I nostri amichevoli
poliziotti elfici gli hanno lasciato un regalino di addio.»
Blitz si tolse il cappello da Frank Sinatra e per poco non lo sfondò con un pugno. «Possiamo per
piacere passare ventiquattr’ore senza che nessuno di noi venga ferito a morte?»
«Rilassati» dissi. «Gli ha solo sfiorato le costole. Tienilo fermo.»
Con la lingua dei segni dissi a Hearth: “Niente di grave. Posso curarti”. Appoggiai la mano sulla
ferita, e il calore si irradiò sul suo fianco.
Hearthstone inspirò forte, poi cominciò a respirare a un ritmo quasi normale. Lo squarcio sulla sua
pelle si richiuse.
Finché non ritrassi la mano, non mi resi conto di quanto fossi stato preoccupato. Tremavo in tutto il
corpo. Non avevo usato i miei poteri di guarigione da quando Blitzen era stato ferito, e capii di aver
avuto paura che non funzionassero più.
«Visto?» Tentai di sfoggiare un sorriso fiducioso, anche se probabilmente somigliavo più a un
infartuato. «Va molto meglio.»
“Grazie” disse Hearth.
«Però sei ancora più debole di quanto vorrei» continuai. «Ci riposeremo qui un poco. Stasera avrai
bisogno di un buon pasto, tanti liquidi e una bella dormita.»
«Ha parlato il dottor Chase.» Blitz guardò torvo l’elfo. «E niente più proiettili vaganti, intesi?»
Hearth sollevò un angolo della bocca e abbozzò un sorriso. “Non ti sento. Sono sordo.”
«Scherza» notai. «Buon segno.»
Restammo seduti lì, a goderci il fatto che una volta tanto non eravamo inseguiti, feriti o terrorizzati.
Be’, a dire il vero, io ero ancora piuttosto terrorizzato, ma uno su tre non era male.
Tutto lo schifo delle nostre ultime trenta e passa ore trascorse ad Alfheim cominciò a farsi sentire.
Avrei tanto voluto credere che ci fossimo lasciati alle spalle quel posto assurdo per sempre: niente più
poliziotti dal grilletto facile, niente più giardini all’inglese, né sole accecante. Niente più signor
Alderman. Ma non riuscivo a dimenticare quello che Andvari ci aveva detto: ben presto io avrei
conosciuto il prezzo dei doni rubati, e Hearthstone era destinato a tornare a casa.
“Hai solo rimandato una resa dei conti molto più pericolosa.”
La runa othala si trovava ancora in cima al cairn dove Andiron era morto. Avevo la sensazione che
prima o poi Hearthstone dovesse recuperare la lettera mancante del proprio alfabeto cosmico, che lo
volesse o meno.
Fissai Hearth che sventolava la camicia per far asciugare il sangue. Quando finalmente incrociò il mio
sguardo, gli dissi: “Mi dispiace per tuo padre”.
Lui abbozzò un cenno del capo e una scrollata di spalle.
“La maledizione di Fafnir” continuai. “Posso chiederti di cosa si…?”
Blitzen si schiarì la voce. «Forse dovremmo aspettare che recuperi tutte le forze.»
“Non c’è problema” dichiarò Hearth. Si appoggiò con la schiena alla parete, in modo da avere tutte e
due le mani libere per parlare. “Fafnir era un nano. L’anello di Andvari lo fece impazzire. Uccise il
padre, prese il suo oro e nascose il tesoro in una grotta. Alla fine si trasformò in un drago.”
Deglutii. «L’anello è in grado di fare tutto questo?»
Blitzen si accarezzò la barba. «L’anello tira fuori il peggio delle persone, figliolo. Forse il signor
Alderman non ha tanta cattiveria dentro. Forse… resterà soltanto un elfo antipatico e vincerà la lotteria.»
Ripensai al padre di Hearth che rideva come un pazzo prendendo a calci gli ospiti e danzando per la
sala, mentre i nix attaccavano la folla. Qualunque cosa Alderman avesse dentro, dubitavo che fosse un
tenero e soffice gattino.
Guardai in cima alle scale, dove c’era un cartello con la scritta: ACCESSO AL TETTO. «Dovremmo
trovare Sam» dissi. «Dobbiamo parlare con il dio Heimdall e farci dare indicazioni per un posto a
Jotunheim…»
«Ehm, figliolo…» Uno degli occhi di Blitz ebbe un fremito. «Penso che a Hearth servirebbe ancora un
po’ di pace prima di incontrare Samirah e partire a razzo a combattere i giganti. Un po’ di riposo farebbe
bene anche a me.»
«Giusto.» Mi sentii in colpa per aver tirato fuori la nostra lista di cose da fare.
Troppe persone da incontrare, troppi mondi pericolosi da visitare. Ci restavano tre giorni per
recuperare il martello di Thor. E per il momento avevamo trovato una spada sexy e una pietra azzurra,
eravamo riusciti a malapena a non farci ammazzare e avevamo fatto pericolosamente impazzire il padre
di Hearthstone. Più o meno tutto nella norma.
«Volete passare la notte nel Valhalla?» domandai.
Blitzen sbuffò. «Ai capoclan non piace che i mortali si mescolino con i defunti eroici. Vai avanti tu. Io
porto Hearth a Nidavellir e lo faccio riposare a casa mia. Il suo lettino abbronzante è pronto.»
«Ma… ma come fate ad arrivare fin là?»
Blitz scrollò le spalle. «Come ti ho già detto, ci sono tonnellate di entrate per il Mondo dei Nani sotto
Midgard. Forse ce n’è una anche nel seminterrato di questo edificio. Altrimenti, troveremo la fogna più
vicina.»
“Sì” disse Hearth. “Ci piacciono tanto le fogne.”
«Non cominciare con il sarcasmo» commentò Blitz. «Figliolo, che ne dici se ci incontriamo domani
mattina al solito posto?»
Non potei fare a meno di sorridere al ricordo dei vecchi tempi, quando me ne andavo in giro con Blitz
e Hearth senza sapere come ci saremmo procurati il prossimo pasto, né quando saremmo stati rapinati. I
bei vecchi tempi erano uno schifo, ma erano uno schifo meno complicato del casino assoluto dei tempi
nuovi.
«Al solito posto, sì.» Li abbracciai. Non volevo che se ne andassero, ma non erano abbastanza in
forma da affrontare altri pericoli quella notte, e io non sapevo cos’avrei trovato sul tetto. Slacciai la
Pietra Skofnung dalla cintura e la porsi a Blitz. «Tienila stretta. E mettila al sicuro.»
«Certo» promise Blitz. «E grazie, figliolo.»
Scesero le scale barcollando e tenendosi a braccetto, sostenendosi l’un l’altro.
«Smettila di pestarmi i piedi» bofonchiò Blitz. «Di’ un po’, sei ingrassato? No, prima il piede sinistro,
sciocco di un elfo che non sei altro. Ecco, così.»
Io salii le scale, chiedendomi in quale punto di Midgard fossi finito.

Una seccatura di quando viaggi fra i mondi: spesso sbuchi esattamente dove è necessario, che tu lo voglia
o meno.
Sul tetto c’erano già quattro persone che conoscevo, anche se non avevo idea del motivo per cui erano
lì. Sam e Amir stavano litigando sottovoce ai piedi di un enorme tabellone. E non un tabellone qualsiasi,
mi resi conto. Sopra le nostre teste torreggiava il famoso cartellone luminoso della Citgo di Boston, un
quadrato di led di quasi venti metri che inondava il tetto di luce bianca, arancione e azzurra.
Seduti sul bordo del tetto, con l’aria molto annoiata, c’erano Halfborn Gunderson e Alex Fierro.
Sam e Amir erano troppo impegnati a litigare per accorgersi di me, ma Halfborn mi fece un cenno di
saluto con la testa. Non sembrava sorpreso di vedermi.
Mi avvicinai ai miei compagni einherjar. «Ehm… come va?»
Alex lanciò un sassolino sul tetto. «Oh, ci divertiamo un sacco. Samirah voleva portare Amir a vedere
il cartellone della Citgo. Per via di non so quale arcobaleno. Le serviva un parente maschio come
chaperon.»
Sbattei le palpebre. «Quindi tu…?»
Alex mi fece un inchino teatrale. «Il parente maschio è qui per servirla.»
Ebbi un attimo di vertigini da capovolgimento della realtà mentre realizzavo che, sì, era evidente,
Alex Fierro adesso era un lui. Non so come ci arrivai, a parte il fatto che me lo aveva detto. Non aveva
un abbigliamento di genere specifico. Indossava le sue solite sneaker rosa, i pantaloni aderenti verdi e
una maglietta a maniche lunghe rosa. I capelli, ancora verdi e con le radici nere, sembravano semmai un
po’ più lunghi, e adesso li portava pettinati da un lato a formare un’onda.
«Il pronome da usare per me è lui» confermò Alex. «E puoi anche smetterla di fissarmi.»
«Io non ti…» mi fermai. Inutile discutere. «Halfborn, tu che ci fai qui?»
Il berserker mi sorrise. Si era messo una T-shirt dei Boston Bruins e un paio di jeans, forse per
mescolarsi meglio con i mortali, anche se l’ascia da guerra a tracolla sulla schiena rovinava un po’
l’effetto. «Chi, io? Faccio da chaperon allo chaperon. E il mio genere è sempre lo stesso, grazie.»
Alex gli mollò uno schiaffo degno di Mallory Keen.
«Ahi!» si lamentò Halfborn. «Picchi duro per essere un argr.»
«Che cosa ti ho detto di questo termine?» domandò Alex. «Sono io a decidere cosa è virile e cosa è
femminile per me. Non farmi venire voglia di ucciderti di nuovo.»
Halfborn alzò gli occhi al cielo. «Mi hai ucciso una volta sola. E non è stato neanche un
combattimento leale. Mi sono vendicato a pranzo.»
«Se lo dici tu.»
Li fissai. Mi resi conto che nell’ultimo giorno e mezzo erano diventati amici… maltrattandosi e
ammazzandosi a vicenda nello stile tipico del diciannovesimo piano.
Alex si sfilò la garrota dai passanti della cintura. «Allora, Magnus, ce l’hai fatta a guarire il tuo
nano?»
«Ehm, sì. Come fai a saperlo?»
«Sam ci ha aggiornato.» Cominciò a intrecciare uno scoubidou con il cavo d’acciaio, riuscendo chissà
come a non mozzarsi le dita.
Mi domandai se fosse un buon segno che Samirah avesse condiviso delle informazioni con Alex.
Forse avevano cominciato a fidarsi l’una dell’altro. O forse Sam desiderava così tanto fermare Loki da
mettere da parte le proprie riserve. Avrei voluto chiedere ad Alex qualche chiarimento sul sogno che
avevo fatto: Loki che faceva una “richiesta semplice” nella sua suite, mentre Alex lo bersagliava di vasi.
Ma alla fine decisi che non era il momento adatto, soprattutto con la garrota così vicina al mio collo.
Alex indicò con il mento Sam e Amir. «Dovresti andare da loro. Ti stavano aspettando.»
La coppietta felice litigava ancora: Sam implorava con i palmi delle mani alzati, Amir si tirava i
capelli come se volesse strapparsi il cervello dalla testa.
Aggrottai la fronte e guardai Halfborn. «Come facevano a sapere che sarei stato qui? Non lo sapevo
neppure io.»
«I corvi di Odino» rispose Halfborn, come se fosse una spiegazione perfettamente plausibile. «E
comunque, ti prego, parla con loro e falli smettere. Così non si va da nessuna parte, e io mi annoio.»
La definizione di noia per Halfborn: “Non sto uccidendo nessuno al momento, né nessuno viene ucciso
sotto i miei occhi in un modo interessante”. Per questo non ero ansioso di alleviare la sua noia. Tuttavia
mi avvicinai a Sam e Amir.
Per fortuna, Samirah non mi impalò con l’ascia. Sembrò perfino sollevata di vedermi. «Magnus, meno
male.» Era inondata dalla luce del cartellone della Citgo, e il suo hijab era del colore della corteccia di
un albero. «Blitzen sta bene?»
«Sta meglio.» Le raccontai cos’era accaduto, anche se mi sembrò distratta: continuava a spostare lo
sguardo su Amir, che stava ancora tentando di tirarsi fuori il cervello dalla testa. «Voi invece che avete
combinato, ragazzi?»
Amir scoppiò a ridere. «Oh, sai, le solite cose.»
Sembrava che al povero ragazzo mancasse qualche runa. Controllai con un’occhiata se per caso non
stesse indossando un anello maledetto.
Sam unì la punta delle dita davanti alla bocca. Sperai che non avesse intenzione di pilotare un aereo
quel giorno, perché sembrava sfinita. «Magnus… Io e Amir abbiamo parlato a più riprese da quando te
ne sei andato. L’ho portato qui sperando di mostrargli le prove.»
«Le prove di che cosa?» domandai.
Amir allargò le braccia. «Degli dei, a quanto pare! Dei Nove Mondi! La prova che tutta la nostra vita
è una menzogna!»
«Amir, la nostra vita non è una menzogna.» A Sam tremava la voce. «È solo… più complicata di
quanto tu pensassi.»
Amir scosse la testa, i capelli dritti come la cresta di un gallo stizzito. «Sam, gestire un ristorante è
complicato. Compiacere mio padre e i nostri nonni è complicato. Aspettare altri due anni per sposarti
quando l’unica cosa che desidero è stare con te… queste sono cose complicate. Ma le valchirie? Gli dei?
Gli einher… non riesco neanche a pronunciarlo!»
Forse Samirah arrossì. Difficile dirlo con quelle luci. «Anch’io voglio stare con te» disse in tono
pacato ma deciso. «E sto cercando di dimostrartelo.»
In mezzo a quella conversazione, mi sentivo a disagio come un elfo in costume da bagno. E mi sentivo
anche in colpa, perché avevo incoraggiato Sam a essere sincera con lui. Le avevo detto che Amir era
abbastanza forte da sopportare la verità. Mi augurai di non essere smentito.
Li avrei lasciati da soli molto volentieri, ma ebbi la sensazione che Sam e Amir fossero così aperti
l’uno con l’altra soltanto perché avevano tre chaperon. Non capirò mai le giovani coppie di promessi
sposi moderni.
«Sam, se vuoi dargli una prova del nostro mondo assurdo, tira fuori la tua lancia luminosa» suggerii.
«Oppure vola sul tetto. Sai fare un milione di cose che…»
«… che i mortali non devono vedere» commentò Samirah con amarezza. «È paradossale, Magnus. Non
devo rivelare i miei poteri a un mortale, quindi se tento di fare qualcosa di proposito, i miei poteri non
funzionano. Se dico: “Ehi, guardami, sto volando!”, all’improvviso non ci riesco.»
«Ma non ha senso» replicai.
«Grazie» concordò Amir.
Sam batté un piede per terra. «Provaci tu, Magnus. Dimostra ad Amir che sei un einherji. Salta in cima
al tabellone della Citgo.»
Guardai in alto. Venti metri… difficile, ma fattibile. Eppure, al solo pensiero mi sentii debole. La
forza mi abbandonò. Sospettai che, se ci avessi provato, sarei arrivato non più in là di venti centimetri e
mi sarei reso ridicolo, senza dubbio con sommo divertimento di Halfborn e Alex.
«Io ti capisco» ammisi, rivolto ad Amir. «Ma che ne dici di me e Hearthstone scomparsi dall’aereo?
Te ne sei accorto, giusto?»
Amir sembrava smarrito. «Io… io credo di sì. Sam continua a ricordarmelo, ma è un’immagine
sempre più sfocata. Eri davvero su quel volo?»
Sam sospirò. «La sua mente sta cercando di farci i conti. Amir è più flessibile di Barry, che si è
dimenticato di voi non appena siamo atterrati. Eppure…»
Incrociai il suo sguardo, e capii perché era così preoccupata. Spiegando la sua vita ad Amir, stava
facendo molto di più che essere sincera. Stava letteralmente tentando di riconfigurare la mente del suo
fidanzato. Se ci fosse riuscita, avrebbe spalancato le sue capacità di percezione. Amir avrebbe visto i
Nove Mondi proprio come noi. Ma se avesse fallito… nel migliore dei casi, Amir alla fine avrebbe
dimenticato tutto. La sua mente avrebbe sorvolato su tutto quello che era accaduto. Nel peggiore scenario
possibile, invece, l’esperienza lo avrebbe segnato per sempre. Avrebbe rischiato di non riprendersi mai.
In entrambi i casi, come avrebbe potuto guardare Samirah con gli stessi occhi di prima? Sarebbe sempre
stato ossessionato dal dubbio che ci fosse qualcosa di strano, di storto.
«Okay, allora perché l’hai portato qui?» domandai.
«Perché la cosa sovrannaturale più semplice da vedere per i mortali è il ponte Bifrost» rispose Sam,
come se l’avesse già ripetuto venti volte quella sera. «Tanto dobbiamo trovare Heimdall, giusto? Ho
pensato che, se fossi riuscita a insegnare ad Amir a vedere il Bifrost, i suoi sensi si sarebbero espansi in
modo permanente.»
«Il Bifrost… Il ponte d’arcobaleno che porta ad Asgard.»
«Esatto.»
Sollevai lo sguardo verso il cartellone della Citgo, il tabellone illuminato più grande di tutto il New
England, che da quasi un secolo pubblicizzava la benzina su Kenmore Square. «Mi stai dicendo che…?»
«È il punto fermo più luminoso di Boston» concluse Sam. «Il ponte d’arcobaleno non è ancorato
sempre qui, ma la maggior parte delle volte…»
«Ragazzi, non dovete provarmi niente» la interruppe Amir. «Vi… vi credo sulla parola!» Scoppiò in
una risata nervosa. «Ti amo, Sam. Ti credo. Magari avrò un esaurimento nervoso, ma pazienza. Non c’è
problema, davvero. Andiamo a fare qualcos’altro!»
Capivo perché Amir volesse andarsene. Avevo visto parecchie cose strane – spade parlanti, zombie
che lavoravano ai ferri, la cernia d’acqua dolce più ricca del mondo – ma perfino io avevo difficoltà a
credere che il cartellone della Citgo fosse l’ingresso ad Asgard.
«Ascolta, amico.» Lo presi per le spalle. Pensai che il contatto fisico giocasse a mio vantaggio. A
Samirah era proibito toccare Amir finché non si fossero sposati, ma non c’è niente come una bella
scrollata di spalle per convincere un amico. «Provaci, okay? So che sei musulmano e che non credi
nell’esistenza di un manipolo di dei.»
«Non sono dei» precisò Sam. «Sono soltanto entità potenti.»
«Come vuoi.» Annuii. «Amico, io sono ateo. Non credo a niente. Eppure… questa roba è reale.
Incasinata, però reale.»
Amir si morse un labbro, in evidente difficoltà. «Io… io non lo so, Magnus. Queste cose mi mettono
molto a disagio.»
«Lo so, amico.» Intuivo che si stava sforzando di ascoltare, ma era come se gli avessi urlato contro
mentre lui indossava delle cuffie antirumore. «Mettono a disagio anche me. Alcune delle cose che ho
saputo…» Mi fermai. Non era il momento adatto per tirare fuori mia cugina Annabeth e gli dei
dell’Olimpo. Non volevo esasperare Amir. «Concentrati su di me» gli ordinai. «Guardami negli occhi.
Ce la fai?»
Una goccia di sudore gli scivolò su un lato del viso. Sforzandosi come un sollevatore di pesi, Amir
riuscì a incrociare il mio sguardo.
«Okay, adesso ascoltami» dissi. «Ripeti dopo di me: guarderemo insieme verso l’alto.»
«Gua-guarderemo insieme verso l’alto.»
«Vedremo il ponte d’arcobaleno.»
«Vedremo…» Gli si incrinò la voce. «Vedremo il ponte d’arcobaleno.»
«E il nostro cervello non esploderà.»
«… non esploderà.»
«Uno, due, tre.»
Guardammo verso l’alto.
E… caspita, il ponte era lì!
La prospettiva del mondo sembrò spostarsi, e ci ritrovammo a osservare il cartellone della Citgo da
un angolo di quarantacinque gradi invece che in perpendicolare. Dalla cima del tabellone, una lastra di
colori fiammeggianti si inarcava nel cielo notturno.
«Amir, lo vedi?» domandai.
«Non ci credo» mormorò, in un tono che non lasciava adito a dubbi: lo vedeva.
«Grazie ad Allah!» esclamò Sam, con il sorriso più bello che le avessi mai visto. «Il
compassionevole, il misericordioso.»
Poi dal cielo si udì una voce stridula e per niente divina: «Ehi, ragazzi! Salite!».
31
HEIMDALL SI FA UN SELFIE CON TUTTI, MA PROPRIO TUTTI

Amir per poco non fece una mossa da einherji. Avrebbe fatto un salto di venti metri se non lo avessi
trattenuto. «Cos’è stato?» domandò.
Samirah sorrise raggiante. «L’hai sentito? È fantastico! È Heimdall che ci invita a salire.»
«Salire, nel senso di… salire?» Amir arretrò lentamente dal cartellone della Citgo. «E come mai
sarebbe fantastico?»
Halfborn e Alex ci raggiunsero.
«Ma guarda un po’.» Alex non sembrava particolarmente colpito dal ponte cosmico che si inarcava
nel cielo. «È sicuro?»
Halfborn inclinò la testa. «Probabilmente sì, se Heimdall li ha invitati. Altrimenti saranno inceneriti
non appena metteranno piede sull’arcobaleno.»
«Che cosa?!» strillò Amir.
«Non saremo inceneriti.» Sam lanciò un’occhiata torva ad Halfborn. «Staremo benissimo.»
«Vengo anch’io» annunciò Alex. «Voi due, pazzi come siete, avete ancora bisogno di un
accompagnatore per non fare qualche gesto irresponsabile.»
«Irresponsabile?» Il tono di voce di Amir salì di un’altra mezza ottava. «Tipo salire in cielo su un
arcobaleno scintillante?»
«È tutto okay, amico» dissi, ma mi accorsi che la mia definizione di “okay” era diventata flessibile
negli ultimi mesi.
Halfborn incrociò le braccia. «Divertitevi, tutti quanti. Io rimango qui.»
«Perché?» domandò Alex. «Hai paura?»
Il berserker sorrise. «Ho già incontrato Heimdall. È un onore che mi basta aver avuto una volta sola.»
Non suonava tanto bene. «Perché? Com’è Heimdall?» chiesi.
«Lo vedrai.» Halfborn fece un sorrisetto ironico. «Ci vediamo nel Valhalla. Divertitevi a esplorare lo
spazio interdimensionale.»
Sam sorrise. «Amir, non vedo l’ora di mostrartelo. Andiamo!» Avanzò verso il cartellone della
Citgo… e si vaporizzò in una macchia di luce multicolore.
«Sam?» gridò Amir.
«Oh, figo!» Alex balzò in avanti e scomparve pure lui.
Diedi una pacca su una spalla ad Amir. «È tutto a posto. Forza, amico. Adesso ti ripago per tutti i
piatti di falafel che mi hai dato quando ero un senzatetto. Ti mostrerò i Nove Mondi!»
Amir trasse un respiro profondo. A suo merito, va detto che non svenne, non si raggomitolò in
posizione fetale, né si mise a urlare: tutte reazioni perfettamente comprensibili davanti alla scoperta
dell’esistenza di esseri dalla voce stridula che ti invitano a salire sul loro arcobaleno.
«Magnus?»
«Sì?»
«Ricordami di non darti più falafel.»
Ed entrammo insieme nel bagliore arancione.
Non c’era niente da vedere lì. Solo quattro ragazzi che si inerpicavano su un arcobaleno nucleare.
Un fulgore sfocato e caldo ci circondava. Più che di camminare su una superficie solida e liscia, mi
sembrava di attraversare un campo di grano alto fino alla vita… se il grano fosse stato di luce
radioattiva.
Non so come, avevo perso i miei occhiali da sole di Alfheim. Ma tanto mi sarebbero serviti a poco.
L’intensità di quella luce era diversa. I colori mi facevano palpitare gli occhi come cuori gemelli. Il
calore sembrava turbinare a un millimetro dalla mia pelle. Sotto i nostri piedi, il ponte produceva un
rimbombo profondo simile a un’esplosione registrata e ripetuta in loop. Mi sa che Halfborn Gunderson
aveva ragione: senza la benedizione di Heimdall, ci saremmo disintegrati non appena messo piede sul
Bifrost.
Alle nostre spalle, il paesaggio di Boston diventò una macchia indistinta. Il cielo si fece nero e pieno
di stelle come quello che vedevo da bambino durante le escursioni con mia madre. A quel ricordo, mi
salì un groppo in gola. Ripensai all’odore di fuoco da bivacco e di marshmallow tostati, alle storie che ci
raccontavamo con la mamma, inventando nuove costellazioni tipo la Fatina e il Vombato e ridendo come
pazzi.
Camminammo così a lungo che cominciai a domandarmi se ci fosse davvero qualcosa dall’altra parte
dell’arcobaleno. Ma quali pentoloni pieni d’oro e gnomi! Quale Asgard! Forse era tutto uno scherzo.
Heimdall avrebbe fatto scomparire il Bifrost e ci avrebbe lasciati a fluttuare nel vuoto. “Avete ragione”
avrebbe annunciato la sua voce stridula. “Noi non esistiamo. Ah, ah, ah!”
A poco a poco, però, l’oscurità diminuì. All’orizzonte comparve lo skyline di un’altra città: muri
scintillanti, cancelli dorati e, dietro, i pinnacoli e le cupole di tutti i palazzi degli dei. Avevo visto
Asgard soltanto una volta, dall’interno, guardando fuori da una finestra del Valhalla. Da lontano sembrava
ancora più impressionante. Immaginai di andare alla carica su quel ponte insieme a un esercito invasore
di giganti. Mi sarei scoraggiato di sicuro non appena avessi visto quella fortezza immensa.
Poi, finalmente, ad aspettarci là in piedi con le gambe divaricate e i piedi ben piantati sul ponte,
vedemmo un guerriero alto con una spada enorme.
Mi ero immaginato un dio affascinante, di classe, tipo una stella del cinema. Il vero Heimdall fu un po’
una delusione. Indossava una tunica imbottita e un paio di leggings di lana, entrambi beige, in modo da
assorbire i colori del Bifrost. Era una tenuta mimetica, mi resi conto, il modo perfetto per confondersi
con l’arcobaleno. Aveva i capelli biondo platino, gonfi e crespi come lana di ariete. Il viso era sorridente
e molto abbronzato, probabilmente per le migliaia di anni trascorsi su un ponte radioattivo. Mi augurai
che non avesse intenzione di avere figli.
In generale, sembrava il genere di tontolone accanto al quale eviti di sederti sullo scuolabus, tranne
che per due cose: la spada sguainata, che era alta quasi quanto lui, e l’enorme corno di ariete portato a
tracolla sulla spalla sinistra. Il corno e la spada erano imponenti, anche se erano talmente grossi che
continuavano a cozzare l’uno contro l’altra. Ebbi la sensazione che, se finivi ammazzato da Heimdall, era
solo perché il dio era inciampato per sbaglio.
Mentre ci avvicinavamo, si sbracciava per salutarci, facendo sbatacchiare il corno e la spada: clink,
donk, clink, donk. «Ehilà, ragazzi!»
Ci fermammo tutti e quattro.
Sam fece un inchino. «Lord Heimdall.»
Alex la guardò come per dire: “Lord?”.
Accanto a me, Amir si prese la radice del naso fra le dita. «Non credo ai miei occhi.»
Heimdall inarcò le sopracciglia cespugliose. Le sue iridi erano anelli di puro alabastro. «Perché, che
cosa vedi?» Fissò il vuoto alle nostre spalle. «Vuoi dire il tizio con la pistola a Cincinnati? Tranquillo, è
a posto. Sta andando al poligono di tiro. Oppure il gigante di fuoco di Muspellheim? In effetti, sta
venendo proprio in questa direzione… No, un attimo. È inciampato! Che spasso! Avrei voluto metterlo su
Vine.»
Tentai di seguire lo sguardo di Heimdall, ma non vidi altro che spazio vuoto e stelle. «Cosa stai…?»
«Ho una vista ottima» spiegò il dio. «Riesco a vedere tutti i Nove Mondi. E che udito! Vi ho sentito
litigare sul tetto da quassù, ragazzi. È per questo che ho deciso di lanciarvi un arcobaleno.»
Samirah restò senza fiato. «Tu… ehm, ci hai sentito litigare?»
Heimdall sorrise. «Ho sentito tutto. Voi due siete troppo carini. A proposito, potrei farmi un selfie con
voi prima di parlare di affari?»
Amir era sbalordito. «Ehm…»
«Fantastico!» Heimdall armeggiò con il corno e la spada.
«Ti serve aiuto?» gli chiesi.
«No, no, ce la faccio.»
Alex Fierro mi si accostò piano. «E poi non sarebbe divertente.»
«Ti ho sentito, Alex» lo ammonì il dio. «Riesco a sentire il grano che cresce a ottocento chilometri di
distanza e i giganti di ghiaccio che ruttano nei loro castelli a Jotunheim. Figurati se non sento te. Ma non
preoccuparti, scatto selfie di continuo. Ora, vediamo un po’…» Ispezionò l’enorme corno d’ariete, come
per cercare un pulsante. Nel frattempo, teneva la spada appoggiata precariamente nell’incavo del
braccio, con la lama di due metri puntata verso di noi.
Mi chiesi cosa ne avrebbe pensato Jack… se secondo lui era una spada sexy o un giocatore di rugby, o
magari entrambe le cose.
«Ah!» Heimdall doveva aver trovato il pulsante giusto. Il corno si rimpicciolì fino a trasformarsi nello
smartphone più grande che avessi mai visto, con lo schermo delle dimensioni di un grosso quadrato di
pizza e la custodia di corna d’ariete scintillanti.
«Il tuo telefono è un corno?» chiese Amir.
«Credo che tecnicamente si definisca un phablet» rispose Heimdall. «Ma sì, lui è Gjallar, il corno e/o
phablet del Giorno del Giudizio. Se suono questa bellezza una volta sola, gli dei capiscono che ci sono
guai ad Asgard e si precipitano qui di corsa. Se lo suono due volte, allora è il Ragnarok, baby!»
Sembrava entusiasta di poter segnalare l’inizio della battaglia finale che avrebbe distrutto i Nove Mondi.
«La maggior parte delle volte lo uso soltanto per le foto, i messaggi e roba del genere.»
«Non mi sembra tanto spaventoso» commentò Alex.
Heimdall rise. «Non puoi neanche immaginare quanto. Una volta, con le chiappe, ho digitato per
sbaglio l’apocalisse! Che figura! Mi è toccato scrivere a tutti i contatti della rubrica: FALSO ALLARME !
Un sacco di dei si sono precipitati comunque qui. Ho fatto una GIF mentre loro arrivavano alla carica sul
Bifrost prima che capissero che non c’era nessuna battaglia. Uno spasso!»
Amir continuava a sbattere le palpebre, forse perché Heimdall, parlando, sputacchiava. «Hai la
responsabilità del Giorno del Giudizio. Sei davvero un… un…»
«Un Asi?» concluse Heimdall. «Esatto, sono uno dei figli di Odino! Ma, detto fra noi, Amir, credo che
Samirah abbia ragione.» Si sporse in avanti per non farsi sentire dai contadini nei campi di grano a
ottocentomila chilometri di distanza. «Francamente, neanch’io considero noi Asi delle divinità. Cioè,
dopo che hai visto Thor svenuto per terra, oppure Odino in accappatoio che urla contro Frigg perché ha
usato il suo spazzolino da denti… è difficile scorgere molta divinità nella mia famiglia. Come dicevano
sempre le mie mamme…»
«Mamme? Al plurale?» domandò Amir.
«Sì. Sono nato da nove madri.»
«Com’è…?»
«Non chiedermelo. È una bella scocciatura per la Festa della Mamma. Nove telefonate diverse. Nove
mazzi di fiori. Da bambino, tentare di preparare nove colazioni da portare a letto… oh, dei! Ma va bene,
facciamoci questa foto.» Acchiappò Sam e Amir, allibiti di ritrovarsi con il faccione sorridente di un dio
in mezzo a loro. Heimdall sollevò il phablet in alto, ma non aveva il braccio abbastanza lungo.
Mi schiarii la voce. «Sei sicuro che non vuoi che io…?»
«No, no! Sono l’unico che può tenere in mano il potente phablet Gjallar. Ma non c’è problema! Time
out per un secondo, ragazzi.» Heimdall fece un passo indietro e armeggiò ancora un po’ con il phablet e
con la spada, nel chiaro tentativo di attaccarli l’uno all’altra. Dopo qualche goffa manovra (e
probabilmente diverse chiamate con le chiappe che annunciavano l’apocalisse), allungò la spada
trionfante, con il phablet agganciato alla punta. «Ta-da! La mia miglior invenzione, per il momento!»
«Hai inventato il bastoncino per i selfie» disse Alex. «Mi stavo giusto chiedendo di chi fosse la
colpa.»
«È una spada per i selfie, a dire il vero.» Heimdall infilò di nuovo il faccione tra Sam e Amir. «Dite
“gamalost”.»
Gjallar lampeggiò.
Ancora altre manovre mentre Heimdall recuperava il telefono dalla punta della spada e controllava la
foto. «Perfetta!» E ce la mostrò con orgoglio, come se non fossimo stati lì quando l’aveva scattata tre
secondi prima.
«Te l’ha mai detto nessuno che sei pazzo?» chiese Alex.
«Pazzo ma divertente!» replicò Heimdall. «Dai, guardate un po’ di queste foto.»
Ci riunì tutti e quattro intorno al phablet e cominciò a far scorrere gli scatti, anche se io ero parecchio
distratto dal puzzo di pecora bagnata che emanava dal dio.
Heimdall ci mostrò una maestosa immagine del Taj Mahal con la sua faccia che incombeva in primo
piano. Poi la sala da pranzo sfocata e indistinta del Valhalla, con il suo naso a mo’ di eclissi totale
perfettamente a fuoco. Infine, il discorso di fine anno del presidente degli Stati Uniti con Heimdall che
faceva photobombing.
Immagini di tutti i Nove Mondi, sempre e solo selfie.
«Wow!» dissi. «C’è… un filo conduttore.»
«Qui non mi piace la camicia che ho.» Ci mostrò una foto della polizia elfica che, con i manganelli,
picchiava un’huldra, mentre Heimdall sorrideva in primo piano, con una polo a strisce azzurre. «Da
qualche parte c’è una fotografia fantastica di Asgard, dove io faccio la faccia arrabbiata e fingo di
mangiare il palazzo di Odino!»
«Heimdall!» lo interruppe Samirah. «Sono davvero interessanti, ma noi speravamo di avere il tuo
aiuto.»
«Oh, volete una foto di noi cinque insieme? Magari con Asgard sullo sfondo? Certo!»
«A dire il vero, stiamo cercando il martello di Thor» riprese Sam.
Tutto l’entusiasmo svanì dagli occhi d’alabastro di Heimdall. «Oh, ancora? No!!! Ho già detto a Thor
che non sono riuscito a vedere niente. Mi chiama tutti i giorni, mi manda messaggi, mi invia foto delle sue
capre senza che io gliele abbia chieste. “Cerca meglio! Cerca meglio!” Ve lo dico io: non si trova da
nessuna parte. Guardate voi.» Fece scorrere altre foto. «Niente martello. Niente martello. Questo sono io
con Beyoncé, ma niente martello. Mmm… forse dovrei metterla come foto del mio profilo.»
«Sapete una cosa?» fece Alex. «Mi metto qui tranquillo e non uccido nessuno che sia indisponente,
okay?» Si distese a pancia in su sopra il Bifrost, allargò le braccia e le agitò lentamente nella luce,
creando angeli con i colori dell’arcobaleno.
«Ehm, Heimdall, okay» dissi. «So che è una scocciatura, ma credi di poter dare un’altra occhiata per
noi? Siamo convinti che Mjolnir sia nascosto sottoterra, quindi…»
«Be’, questo spiegherebbe tutto! Riesco a vedere attraverso la roccia solida, diciamo, al massimo per
un chilometro e mezzo. Se è più in profondità…»
«Giusto» intervenne Sam. «Il fatto è che noi sappiamo chi l’ha preso. Un gigante di nome Thrym.»
«Thrym!» Heimdall sembrò offeso, come se Thrym fosse uno con cui non si sarebbe mai degnato di
scattare un selfie. «Quell’orrendo, brutto…»
«Vuole sposare Sam» lo interruppe Amir.
«Ma non ci riuscirà» precisò Sam.
Heimdall si appoggiò alla spada. «Bene. Questa è una situazione imbarazzante. Posso dirvi senza
difficoltà dov’è Thrym. Ma non sarà così stupido da tenere il martello nella sua fortezza.»
«Lo sappiamo.» Sospettavo che fossimo quasi alla fine della sua curva dell’attenzione, ma gli
raccontai lo stesso degli scellerati progetti matrimoniali di Loki, della Spada e della Pietra Skofnung, dei
tre giorni che mancavano alla scadenza, e del capricida che ci aveva detto di andare a chiedergli
indicazioni, anche se non sapevamo se fidarci di lui. Di tanto in tanto buttavo lì la parola “selfie” per
mantenere vivo l’interesse del dio.
«Mmm…» commentò Heimdall. «In tal caso, sarò ben felice di scandagliare ancora i Nove Mondi e
trovare questo capricida. Fatemi preparare di nuovo la mia spada per i selfie.»
«E se tu guardassi semplicemente, senza usare il telefono?» suggerì Amir.
Heimdall fissò il nostro amico mortale.
Amir aveva detto quello che pensavamo tutti, e fu piuttosto coraggioso a farlo, considerato che era la
prima volta che si trovava nello spazio interstellare norreno. Ebbi paura che Heimdall usasse la spada
per qualcosa di diverso dalle foto a grandangolo.
Per fortuna, si limitò a dargli una pacca sulla spalla. «Nessun problema, Amir. Capisco che sei
confuso per i Nove Mondi e tutto il resto. Ma temo che tu stia dicendo parole prive di senso.»
«Per favore, Heimdall» intervenne Sam. «So che sembra… strano, ma se guardi direttamente i Nove
Mondi potresti avere una nuova prospettiva.»
Il dio pareva poco convinto. «Senza dubbio c’è un altro modo per trovare il vostro capricida. Magari
potrei suonare Gjallar e convocare gli dei. Potremmo chiedere se hanno visto…»
«No!» urlammo tutti all’unisono.
Alex si unì a noi un po’ in ritardo, dato che era ancora disteso sull’arcobaleno a creare angeli di luce.
Forse inserì qualche variazione colorita al suo “no”.
«Uff!» Heimdall aggrottò le sopracciglia. «E va bene. È una procedura molto poco ortodossa. Ma non
voglio che quel brutto gigante grande e grosso si metta in mezzo a una coppietta carina come voi.» Agitò
un dito verso me e Sam.
«Ehm… a dire il vero sono loro due la coppietta» lo corressi, indicando Amir.
Poco lontano sull’arcobaleno, Alex soffocò una risata.
«Certo, ovvio» disse Heimdall. «Scusate. Voi ragazzi avete un aspetto molto diverso quando non siete
sull’app per le foto. Forse non avete tutti i torti sull’idea di una nuova prospettiva! Vediamo cosa
possiamo trovare nei Nove Mondi!»
32
GODZILLA MI MANDA UN MESSAGGIO IMPORTANTE

Heimdall puntò lo sguardo in lontananza e subito arretrò barcollando. «Mamme mie!»


Alex Fierro si tirò su di scatto, incuriosito. «Che c’è?»
«Ehm…» Le guance di Heimdall stavano diventando dello stesso color pecora dei suoi capelli.
«Giganti. Un sacco di giganti. A… a quanto pare si stanno radunando ai confini di Midgard.»
Mi domandai quante altre minacce Heimdall non avesse notato mentre faceva photobombing con il
presidente. Fra lui e quello smartellato di Thor, non c’era da meravigliarsi che la sicurezza di Asgard
dipendesse da persone impreparate e prive di addestramento come… be’, come noi.
Sam riuscì a mantenere un tono di voce pacato. «Sappiamo dei giganti, Lord Heimdall. Sospettano che
Thor abbia perso il martello. E se non lo recuperiamo alla svelta…»
«Sì.» Heimdall si leccò le labbra. «Tu… tu avevi detto una cosa del genere, mi sa.» Portò una mano
dietro l’orecchio e si mise in ascolto. «Stanno parlando di… di un matrimonio. Il matrimonio di Thrym.
Uno dei generali dei giganti… si lamenta che devono aspettare che sia finito prima di invadere. A quanto
pare, Thrym ha promesso che ci saranno delle belle novità dopo la cerimonia che semplificheranno molto
l’invasione.»
«Un’alleanza con Loki?» tirai a indovinare, ma c’era qualcosa che non mi tornava. Doveva esserci
dell’altro.
«Anche» continuò Heimdall. «Thrym ha detto… sì, che le sue forze non si uniranno all’invasione fino
a dopo le nozze. Ha avvisato gli altri eserciti che sarebbe maleducato cominciare la guerra senza di lui.
Io… io non credo che i giganti abbiano paura di Thrym, ma da quello che sto sentendo adesso, sono
terrorizzati da sua sorella.»
Mi tornò in mente il sogno: la voce aspra della gigantessa che aveva scaraventato il mio barattolo di
cetrioli giù dal bancone. «Heimdall, riesci a vedere Thrym? Che sta facendo?»
Il dio socchiuse gli occhi e spinse più in profondità lo sguardo. «Sì, eccolo là, ai margini del mio
campo visivo, sotto un chilometro e mezzo di roccia o giù di lì. È seduto nella sua orrenda fortezza.
Chissà perché si ostina a vivere in una grotta arredata come un bar. Oh, quanto è brutto! Povera sposa,
che pena.»
«Fantastico» bofonchiò Sam. «Cosa sta facendo?»
«Beve» rispose Heimdall. «Adesso rutta. Adesso beve di nuovo. Sua sorella, Thrynga… oh, ha una
voce tremenda… tipo i remi che graffiano il ghiaccio! Continua a dirgli che è uno sciocco, che il
matrimonio è un’idea stupida e che dovrebbero uccidere la sposa non appena arriva!» Heimdall si fermò,
forse ricordandosi che Samirah era la poveretta in questione. «Ehm… scusa. Come supponevo, però, il
martello non è da nessuna parte. La cosa non mi sorprende. Questi giganti di terra riescono a seppellire le
cose nella…»
«Fammi indovinare» lo interruppi. «Nella terra?»
«Esatto!» Heimdall sembrò molto colpito dalla mia preparazione sull’argomento. «E poi, per
recuperare gli oggetti sepolti, non devono fare altro che chiamarli e gli tornano in mano. Immagino che
Thrym aspetterà fino alla fine delle nozze. Una volta che avrà la sua sposa e il prezzo della sposa,
evocherà il martello… sempre che voglia rispettare la sua parte del patto, certo.»
Amir sembrava messo peggio di come ero stato io a bordo del Citation. «Sam, non puoi farlo! È
troppo pericoloso.»
«Non lo farò.» Sam strinse i pugni. «Lord Heimdall, tu sei il custode del sacro talamo matrimoniale,
vero? Le storie antiche narrano che viaggiavi fra gli uomini dando consigli alle coppie, benedicendo i
loro figli e creando le varie classi della società vichinga, giusto?»
«Davvero?» Heimdall lanciò un’occhiata al cellulare, come se fosse tentato di controllare on-line.
«Ehm, cioè, sì. Certo!»
«Allora ascolta i miei sacri voti» continuò Sam. «Giuro sul Bifrost e su tutti i Nove Mondi che non
sposerò mai nessuno tranne quest’uomo, Amir Fadlan.» (Per fortuna, indicò nella direzione giusta e non
coinvolse me. Altrimenti, la situazione sarebbe potuta diventare imbarazzante.) «Non farò neanche finta
di sposare questo gigante, Thrym. Non succederà.»
Alex Fierro si alzò, storcendo la bocca. «Ehm… Sam?»
Immaginai che stesse pensando la stessa cosa che pensavo io: se Loki controllava le azioni della
figlia, forse Sam non sarebbe stata in grado di rispettare il voto.
Samirah gli lanciò un’occhiata di avvertimento, e Alex, sorprendentemente, tacque. «Ho fatto il mio
voto» annunciò poi. «Inshallah, lo rispetterò e sposerò Amir Fadlan in obbedienza agli insegnamenti del
Corano e del profeta Maometto. La pace sia con lui.»
Mi domandai se il Bifrost sarebbe crollato sotto il peso del sacro voto musulmano pronunciato da
Sam, ma tutto rimase come prima, a parte Amir, che sembrava fosse stato colpito in mezzo agli occhi da
un phablet.
«L-la pace sia con lui» balbettò.
Heimdall tirò su con il naso. «Ma che carini!» Una lacrima bianca come linfa vegetale gli rigò una
guancia. «Spero che ci riusciate, cari i miei folli ragazzi. Lo spero proprio. Vorrei…» Inclinò la testa per
ascoltare i lontani mormorii dell’Universo. «No, no, non sono nella lista degli invitati alle tue nozze con
Thrym, maledizione!»
Sam mi guardò come per dire: “Me li sono immaginati gli ultimi minuti?”. «Lord Heimdall, vuoi
dire… le nozze che ho appena giurato di non concludere?»
«Sì» confermò il dio. «Sono sicuro che saranno meravigliose, ma la tua futura cognata, Thrynga, non fa
che ripetere: “Nessun Asi, nessun Vani”. A quanto pare, hanno un ottimo servizio di sicurezza per filtrare
gli ospiti.»
«Non vogliono che entri Thor e si riprenda il martello» suppose Alex.
«Non fa una piega.» Heimdall guardava ancora l’orizzonte. «Il fatto è che questa loro fortezza-bar
sotterranea… ho visto come funziona. C’è solo un’entrata, e la galleria di accesso continua a spostarsi,
aprendosi in un posto diverso tutti i giorni. A volte spunta dietro una cascata, o in una grotta di Midgard,
o sotto le radici di un albero. Anche se Thor volesse programmare un attacco, non avrebbe idea da dove
cominciare. Non so proprio come potreste organizzare un agguato per rubare il martello.» Aggrottò la
fronte. «Thrym e Thrynga stanno ancora parlando della lista degli ospiti. Sono invitati solo i familiari e i
giganti, e… chi è Randolph?»
Fu come se qualcuno avesse alzato il termostato sul Bifrost. Mi sentii pizzicare la faccia, quasi mi si
stesse formando una bruciatura a forma di mano su una guancia. «Randolph è mio zio» dissi. «Lo vedi?»
Heimdall scosse la testa. «Non a Jotunheim, ma Thrym e Thrynga sono molto seccati di averlo nella
lista. Thrym sta dicendo: “Loki insiste”. Thrynga sta lanciando delle bottiglie.» Heimdall trasalì.
«Scusate, ho dovuto distogliere lo sguardo. Senza la videocamera, è tutto così tridimensionale!»
Amir mi guardò preoccupato. «Magnus, hai uno zio coinvolto in tutta questa faccenda?»
Non avevo voglia di affrontare la questione. Continuava a tornarmi in mente la scena sul tumulo degli
zombie: Randolph che piantava Skofnung nella pancia di Blitzen con un grido.
Per fortuna, Alex Fierro cambiò discorso. «Ehi, Lord Selfie, che ci dici del capricida? È lui che
dobbiamo trovare adesso.»
«Ah, sì.» Heimdall si portò la lama della spada sopra gli occhi come una visiera, e per poco non mi
decapitò. «Avete detto che è un tizio vestito di nero, con un elmo di metallo e una maschera da lupo
rabbioso?»
«È lui» confermai.
«Non lo vedo. Ma c’è qualcosa di strano. Ho detto niente videocamera, vero, ma… ehm, non so come
descrivere questa cosa.» Heimdall sollevò il phablet e scattò una foto. «Voi che ne dite?»
Ci avvicinammo tutti e quattro allo schermo.
Era difficile capire le proporzioni, dato che era una foto scattata dallo spazio interdimensionale, ma
sulla sommità di una scogliera si ergeva un enorme edificio simile a un magazzino. Lungo il tetto, una
serie di scintillanti lettere al neon vistose quasi come il cartellone della Citgo annunciava: UTGARD
LANES. Dietro, ancora più grande e maestoso, c’era un Godzilla gonfiabile, di quelli che si vedono dai
concessionari d’auto come pubblicità. Godzilla teneva fra le mani un cartello di cartone con la scritta:

EHI, MAGNUS
VIENI A TROVARMI!
HO INFO X TE. PORTA I TUOI AMICI !
L’UNICO MODO X BATTERE THRYM + BUON BOWLING.
TANTI BACI, BIG BOY.

Imprecai in norreno. Ebbi la tentazione di lanciare il phablet del Giorno del Giudizio giù dal Bifrost.
«Big Boy!» dissi. «Avrei dovuto capirlo.»
«Brutta storia» mormorò Sam. «Ti aveva detto che prima o poi avresti avuto bisogno del suo aiuto. Ma
se lui è la nostra unica speranza, siamo spacciati.»
«Perché?» domandò Amir.
«Chi è questo Big Boy che comunica con un Godzilla gonfiabile?» chiese Alex.
«Ah, questo lo conosco!» esultò Heimdall, contento. «È il gigante stregone più pericoloso e potente di
tutti i tempi! Il suo vero nome è Utgard-Loki.»
33
PAUSA FALAFEL? SÌ, GRAZIE

Un altro consiglio da vichingo professionista: se Heimdall vi suggerisce di fare un salto da qualche parte,
ditegli di NO!
L’idea di Heimdall di rispedirci a Midgard consisteva nel far dissolvere il Bifrost intorno ai nostri
piedi, facendoci letteralmente saltare nell’infinito. Quando smettemmo di urlare (o forse urlavo solo io…
di nuovo. Non mi giudicate), ci ritrovammo all’angolo fra Charles e Boylston, davanti alla statua di
Edgar Allan Poe. A quel punto, anche il mio era un “cuore rivelatore”, come il titolo del famoso racconto
di Poe. Batteva così forte che avreste potuto sentirlo dietro un muro di mattoni.
Eravamo tutti sfiniti, ma anche affamati ed eccitati dall’adrenalina post arcobaleno. E, cosa ancora più
importante, eravamo a un isolato di distanza dal centro commerciale del Transportation Building, dove i
Fadlan avevano uno dei loro ristoranti.
«Sapete…» Amir piegò le dita come per assicurarsi di averle ancora. «Potrei preparare qualcosa da
mangiare per tutti.»
«Non devi disturbarti» replicai, e mi sembrò un gesto piuttosto nobile da parte mia visto quanto
adoravo i falafel della sua famiglia (so che mi aveva chiesto di ricordargli di non darmene più, ma avevo
deciso di interpretare quella richiesta come una follia passeggera).
Amir scosse la testa. «No, mi… mi va di farlo.»
Capii cosa intendeva dire. Il suo mondo era appena andato in pezzi, e doveva fare qualcosa di
familiare per calmare i nervi. E se proprio moriva dalla voglia di friggere polpette di ceci, chi ero io per
impedirglielo?
Di notte la zona ristoranti del Transportation Building era chiusa, ma Amir aveva le chiavi. Ci fece
entrare, aprì il Falafel Fadlan e allestì la cucina in modo da prepararci un meraviglioso spuntino
notturno/colazione molto anticipata.
Nel frattempo, io, Alex e Sam ci sedemmo a un tavolo, con il suono argentino delle pentole e dei
cestelli per friggere che echeggiava nell’ampio spazio buio del centro commerciale, simile a uno stridio
di uccelli metallici.
Sam sembrava frastornata. Rovesciò una saliera e scrisse qualcosa nei granelli bianchi, se in norreno
o in arabo non saprei.
Alex allungò le gambe e piazzò le sue sneaker rosa su una sedia. Girando i pollici, si mise a scrutare
intorno con i suoi occhi a due colori. «Allora, questo gigante mago…»
«Utgard-Loki» dissi.
Un sacco di gente nei cosmi norreni mi aveva avvisato che i nomi sono potenti. Non bisogna
pronunciarli a meno che non sia proprio indispensabile. Io invece preferisco usarli come fossero vestiti
di seconda mano da consumare senza nessun riguardo. Mi sembra il modo migliore per indebolirli.
«Non è il mio gigante preferito.» Lanciai un’occhiata intorno, per assicurarmi che non ci fossero
piccioni parlanti nei paraggi. «Qualche mese fa, è spuntato proprio qui. Mi ha convinto con l’inganno a
dargli il mio falafel. Poi si è trasformato in un’aquila e mi ha trascinato in giro per i tetti di Boston.»
Alex tamburellò le dita sul tavolo. «E adesso vuole che tu vada a visitare la sua sala da bowling.»
«Sapete qual è la cosa più assurda? Che è la cosa meno folle che mi sia successa questa settimana.»
Alex fece un verso di scherno. «E perché si chiama Loki?» Guardò Sam. «Nessuna parentela con
noi?»
Sam scosse la testa. «Il suo nome significa “Loki dell’Esterno”. Nessun rapporto con… nostro padre.»
Era dalla Grande Catastrofe di Alderman di quel pomeriggio che la parola “padre” non suscitava
sentimenti tanto negativi in una conversazione. Guardando Alex e Sam seduti l’uno di fronte all’altra, non
riuscivo a immaginare due persone più diverse. Eppure avevano entrambi la stessa espressione:
rassegnata e amareggiata per il fatto di avere il dio dell’inganno come paparino.
«Considerando il lato positivo della faccenda, Utgard-Loki non mi è sembrato un grande fan dell’altro
Loki» ripresi. «Non ce li vedo a collaborare.»
«Sono entrambi giganti» sottolineò Alex.
«I giganti si fanno la guerra proprio come gli umani» disse Sam. «E, a giudicare da quello che
abbiamo saputo da Heimdall, riprendere il martello da Thrym non sarà facile. Ci servono tutti i consigli
possibili e immaginabili. Utgard-Loki è scaltro. Potrebbe essere la persona giusta per escogitare un
sistema capace di sventare i piani di papà.»
«Così combattiamo Loki con Loki» dissi.
Alex si passò una mano sulla zazzera di capelli verdi. «Non mi interessa quanto sia astuto e scaltro il
vostro amico gigante. Alla fine, ci toccherà comunque andare a quel matrimonio per prendere il martello.
E questo significa che saremo noi a dover affrontare Loki di persona.»
«Noi?» domandai.
«Vengo con voi» dichiarò Alex. «Ovviamente.»
Mi tornò in mente il sogno che avevo fatto su Loki nell’appartamento di Alex: “È una richiesta così
semplice”. Avere due figli di Loki alle nozze, entrambi i quali potevano essere controllati da ogni più
piccolo capriccio del dio… be’, non era quella che avrei definito una gioiosa occasione.
Samirah fece un altro disegno nel sale. «Alex, non posso chiederti di venire.»
«Non me lo stai chiedendo tu, lo sto dicendo io» ribatté Alex. «Tu mi hai portato nell’aldilà. Questa è
la mia occasione per farmi valere. Sai cosa dobbiamo fare.»
Sam scosse la testa «Continuo a pensare che non sia una buona idea.»
«Di’ un po’, ma siamo sicuri che siamo parenti? Che fine ha fatto la tua spericolatezza?» sbottò Alex.
«Certo che non è una buona idea, ma è l’unico modo.»
«Quale idea?» chiesi. «Quale modo?»
Evidentemente mi ero perso una conversazione fra i due, ma nessuno di loro sembrava ansioso di
aggiornarmi.
In quell’istante, Amir tornò con il cibo. Posò sul tavolo un vassoio pieno di kebab, dolma, falafel,
kibbeh e altre prelibatezze paradisiache, e ricordai le mie priorità.
«Tu sì che sei un’entità potente» commentai.
Amir quasi sorrise.
Fece per sedersi accanto a Sam, ma Alex schioccò le dita. «Eh, no, latin lover. Lo chaperon non
vuole.»
Amir sembrò mortificato. Si mise a sedere fra Alex e me.
Ci buttammo sul cibo (io un po’ più degli altri, a dire il vero).
Amir diede un morso a un triangolo di pita. «Non è possibile… il cibo ha lo stesso sapore. La
friggitrice frigge alla stessa temperatura. Le mie chiavi funzionano nelle stesse serrature. Eppure… tutto
l’Universo è cambiato.»
«Non tutto è cambiato» lo rassicurò Sam.
Amir aveva un’espressione malinconica, come se stesse ripensando a una bella esperienza avuta da
bambino e impossibile da ricreare. «Grazie, Sam. Capisco cosa intendi dire sulle divinità norrene. Non
sono dei. Chiunque si faccia così tanti selfie con una spada e un corno d’ariete…» Scosse la testa. «Allah
avrà anche novantanove nomi, ma di sicuro Heimdall non è uno di questi.»
Alex sorrise. «Il ragazzo mi piace.»
Amir sbatté le palpebre, non sapendo come reagire al complimento. «Allora… cosa facciamo adesso?
Qual è il coronamento di un viaggio sul Bifrost?»
Sam lo guardò accennando un sorriso. «Be’, stasera io dovrò spiegare a Jid e Bibi come mai sono
rimasta fuori fino a tardi.»
Amir annuì. «Cercherai di… di mostrargli i Nove Mondi, come hai fatto con me?»
«Non può.» Alex scosse il capo. «Sono troppo vecchi. Il loro cervello non è flessibile come il tuo.»
«Ehi, non c’è bisogno di offendere» dissi.
«Sono soltanto sincero.» Alex masticava un pezzo di agnello. «Più si è vecchi, più è difficile accettare
che il mondo non è come pensavi che fosse. È un miracolo che Amir sia riuscito a vedere attraverso la
foschia magica senza diventare pazzo.» Tenne gli occhi puntati su di me un attimo più del necessario.
«Sì» borbottò Amir. «Mi sento molto fortunato a non essere impazzito.»
«Alex ha ragione, però» intervenne Sam. «Quando ho parlato con i miei nonni stamattina, la
conversazione che avevano avuto con Loki era quasi svanita dalla loro memoria. Sapevano di dover
essere arrabbiati con me. Si ricordavano che tu e io avevamo litigato. Ma i particolari…» Fece un gesto
con la punta delle dita: puf!
Amir si strofinò il mento. «Per mio padre è stato lo stesso. Mi ha solo chiesto se avevamo fatto pace.
Secondo me… potremmo dirgli qualsiasi cosa su dove siamo stati stanotte, vero? Una scusa banale, e ci
crederanno più che se gli raccontassimo la verità.»
Alex gli diede una gomitata. «Non farti strane idee, latin lover. Sono ancora il vostro chaperon.»
«No! Volevo solo dire… Non vorrei mai…»
«Rilassati.» Alex sorrise. «Ti sto prendendo in giro.»
«Ah.» Amir non sembrava rilassato. «E dopo stasera? Che succederà?»
«Andiamo a Jotunheim» rispose Sam. «Dobbiamo interrogare un gigante.»
«Viaggerete in un altro mondo.» Amir scosse la testa, allibito. «Sai, quando ho prenotato quelle
lezioni di volo con Barry, io… io pensavo di allargare i tuoi orizzonti.» Rise senza allegria. «Che
sciocco!»
«Amir, è stato il più bel regalo…»
«Va tutto bene. Non mi sto lamentando. Solo che…» Amir sospirò. «Cosa posso fare per aiutarti?»
Sam appoggiò la mano sul tavolo, con le dita protese verso Amir come se lo tenesse per mano senza
toccarlo. «Fidati di me. Credi a quello che ho promesso.»
«Ci credo. Ma dev’esserci qualcos’altro che io possa fare. Ora che riesco a vedere tutto…» Amir
agitò una forchetta di plastica verso il soffitto. «Voglio aiutarti.»
«Lo fai già» lo rassicurò Sam. «Mi hai visto come una valchiria, e non sei scappato via urlando. Non
hai idea di quanto questo mi sia d’aiuto. Ti chiedo solo una cosa: resta al sicuro per me, ti prego, finché
non torniamo. Sii la mia ancora.»
«Volentieri. Anche se…» Amir sorrise imbarazzato. «Non ti ho realmente visto come una valchiria.
Credi che…?»
Sam si alzò. «Alex, Magnus, ci vediamo domani mattina?»
«Alla statua nel parco» dissi. «Ci vediamo là.»
Sam annuì. «Amir, fra due giorni sarà tutto finito. Te lo prometto.» Si librò in aria e scomparve in un
lampo dorato.
Ad Amir cadde di mano la forchetta di plastica. «È vero. Non riesco a crederci.»
Alex sorrise. «Be’, è piuttosto tardi. C’è un’altra cosa che potresti fare per noi, Amir, amico mio.»
«Certo. Qualsiasi cosa.»
«Che ne dici di metterci questi falafel in un sacchetto?»
34
FACCIAMO VISITA AL MIO MAUSOLEO PREFERITO

La mattina dopo, mi svegliai nel mio letto nel Valhalla, per niente riposato e sicuramente non pronto a
partire. Preparai il borsone con le attrezzature da campeggio e i falafel avanzati. Feci un salto dall’altra
parte del corridoio e parlai con T.J., che mi consegnò Skofnung e mi promise di rimanere a disposizione
nel caso avessi avuto bisogno della cavalleria di rinforzo o di un aiuto per attaccare le fortificazioni
nemiche. Dopodiché mi trovai con Alex Fierro nell’atrio, e partimmo alla volta di Midgard.
Alex accettò di fare una fermata prima di incontrare gli altri. In realtà, non ne avevo voglia, ma mi
sentivo obbligato a irrompere a casa di Randolph per vedere come stava lo zio traditore e omicida.
Perché, insomma, è a questo che serve la famiglia.
Non sapevo che cos’avrei fatto se lo avessi trovato lì. Forse avrei escogitato un sistema per liberarlo
dalle grinfie di Loki. Forse gli avrei tirato in faccia un sacchetto di kibbeh, anche se sarebbe stato uno
spreco.
Per fortuna sua e dei miei avanzi, lo zio non era in casa. Scassinai la porta sul retro come al solito –
Randolph non aveva recepito il messaggio di cambiare le serrature – poi io e Alex ci mettemmo a vagare
per la casa, intascando diverse scorte di cioccolato (ehi, il cioccolato è un bene di prima necessità) e
ridendo dei tendaggi e gingilli pacchiani, e alla fine ci ritrovammo nell’ufficio del vecchio.
Non era cambiato niente dalla mia ultima visita. Le mappe erano distese sulla scrivania. La grande
lapide vichinga si trovava in un angolo, con l’immagine del lupo che mi ringhiava ancora contro. Armi e
cianfrusaglie medievali erano disposte sugli scaffali insieme a libri rilegati in pelle e fotografie di
Randolph nei siti di scavo scandinavi.
Sulla catenina, Jack ronzava per la tensione. Non era mai stato a casa di Randolph prima di allora, e
mi sa che il posto non gli piaceva. O forse era soltanto su di giri perché portavo Skofnung a tracolla sulla
schiena.
Mi girai verso Alex. «Ehi, sei una femmina oggi?»
La domanda mi scappò di bocca prima che avessi il tempo di pensare se era strana, maleducata o se
mi avrebbe fatto decapitare.
Alex mi sorrise con quella che mi augurai fosse un’aria divertita, e non gioia omicida. «Perché me lo
chiedi?»
«Per Skofnung. Non può essere sguainata al cospetto di una donna. E direi che la preferisco quando è
così.»
«Ah. Aspetta.» Alex contrasse il viso in una smorfia di massima concentrazione. «Ecco qua! Ora sono
una femmina!»
Devo aver fatto una faccia…
Alex scoppiò a ridere. «Sto scherzando. Sì, oggi sono una femmina. Pronome da usare: lei.»
«Ma non hai appena…?»
«Cambiato genere con la forza di volontà? No, Magnus. Non funziona così.» Passò le dita sulla
scrivania di Randolph. La finestra di vetro istoriato gettò una luce colorata sul suo viso.
«Allora posso chiederti…?» Feci dei gesti vaghi. Non mi venivano le parole.
«Come funziona?» Alex abbozzò un sorriso ironico. «Basta che non mi prendi come il rappresentante
di ogni persona gender fluid, okay? Non sono un ambasciatore. Non sono un insegnante né un manifesto.
Sono soltanto…» Imitò i miei gesti vaghi. «Io. E cerco di esserlo nel modo migliore.»
Mi sembrò giusto. E comunque era sempre meglio di altre possibili risposte, tipo un pugno in faccia,
la garrota, o finire straziato sotto le sue zampe dopo che si era trasformata in ghepardo.
«Ma sei una mutaforma» osservai. «Non puoi… insomma, essere tutto quello che vuoi?»
Il suo occhio più scuro ebbe un fremito, come se avessi toccato un punto dolente. «È questa l’ironia
della cosa.» Alex prese un tagliacarte e lo girò sotto la luce del vetro istoriato. «Posso apparire come
preferisco. Ma il genere? No. Non posso cambiarlo a mio piacimento. È davvero fluido, nel senso che
non sono io a controllarlo. La maggior parte del tempo mi identifico in una femmina, ma ci sono giorni in
cui mi sento molto maschile. E, per favore, non chiedermi come faccio a sapere chi sono in quale
giorno.»
In effetti, sarebbe stata la mia prossima domanda. «Allora perché non usi la forma “loro”? Non
sarebbe meno disorientante che fare avanti e indietro fra i pronomi?»
«Meno disorientante per chi? Per te?»
Probabilmente ero rimasto con la bocca spalancata, perché Alex alzò gli occhi al cielo e mi guardò
come a dire: “Che idiota!”. Sperai che Heimdall non stesse registrando la conversazione per metterla su
Vine.
«Senti, alcune persone preferiscono utilizzare “loro”» disse Alex. «Sono persone non binarie, a metà
spettro, diciamo, e se vogliono che con loro si usi la terza persona plurale, è così che devi fare. Ma, per
quanto mi riguarda, non voglio utilizzare sempre lo stesso pronome, perché io non sono fatta così. Io
cambio molto. È questo il punto. Quando sono una lei, sono lei. Quando sono un lui, sono lui. Io non sono
“loro”. Hai capito?»
«Se ti dico di no mi fai male?»
«No.»
«Allora no, non esattamente.»
Alex scrollò le spalle. «Non devi capire. Basta solo, sai… un po’ di rispetto.»
«Per la ragazza con il cavo d’acciaio affilato? Nessun problema.»
Probabilmente le piacque la mia risposta. Mi rivolse un sorriso per niente disorientante, che fece
aumentare la temperatura dell’ufficio di quattro o cinque gradi.
Mi schiarii la voce. «Comunque, stiamo cercando qualunque cosa utile per capire che sta combinando
mio zio.»
Cominciai a controllare gli scaffali come se avessi idea di quello che stavo facendo. Non trovai
nessun messaggio, né nessuna leva nascosta che aprisse delle stanze segrete. Sembra sempre così facile
in Scooby-Doo.
Alex frugò nei cassetti della scrivania di Randolph. «Quindi tu vivevi in questo grande mausoleo?»
«Per fortuna, no. Io e mamma avevamo un appartamento ad Allston… prima che lei morisse. Poi ho
vissuto in strada.»
«Ma la tua famiglia era ricca.»
«Randolph sì.» Presi una vecchia foto dello zio con Caroline, Aubrey ed Emma. Era troppo doloroso
guardarla. La girai. «Vuoi chiedermi perché non sono venuto ad abitare con lui invece di vivere come un
senzatetto?»
Alex sbuffò. «Oh, dei, no. Non te lo chiederei mai.» Lo disse in tono amareggiato, come se i parenti
ricchi fossero una questione che conosceva bene.
«Vieni da… un posto come questo?» le domandai.
Alex chiuse un cassetto della scrivania. «La mia famiglia aveva tante cose, ma non quelle importanti…
tipo un figlio ed erede, ad esempio. O, per fare un altro esempio, i sentimenti.»
Tentai di immaginare Alex che viveva in una casa lussuosa come quella o che partecipava a una festa
elegante stile signor Alderman ad Alfheim. «I tuoi sapevano che eri un figlio di Loki?»
«Oh, Loki ha fatto in modo che lo sapessero. I miei genitori mortali incolpavano lui per come ero, per
la mia identità fluida. Dicevano che mi aveva corrotto, che mi aveva messo strane idee in testa e via
dicendo.»
«E i tuoi genitori non si sono… opportunamente dimenticati di Loki, come è successo ai nonni di
Sam?»
«Magari. Loki ha fatto sì che ricordassero. Ha aperto loro gli occhi in modo permanente, diciamo.
Come hai fatto tu per Amir, solo che le motivazioni di mio padre non erano altrettanto buone.»
«Io non ho fatto niente per Amir.»
Alex venne verso di me e incrociò le braccia. Quel giorno indossava una camicia a scacchi rosa e
verdi sopra un paio di normalissimi jeans blu. I suoi comodi scarponcini da trekking non avevano niente
di speciale, a parte i lacci glitterati rosa metallizzato.
I suoi occhi di colore diverso sembravano portare i miei pensieri in due direzioni opposte, in
contemporanea. «Pensi davvero di non aver fatto niente?» mi domandò. «Quando hai preso Amir per le
spalle? Quando le tue mani hanno cominciato a brillare?»
«Io… brillavo?» Non mi ricordavo di aver evocato il potere di Freyr. Non mi era neanche passato per
la testa che Amir dovesse essere guarito.
«Lo hai salvato, Magnus» disse Alex. «Me ne sono accorta anch’io. Sarebbe crollato per lo sforzo.
Gli hai trasmesso la forza necessaria ad aprire la mente senza che nulla si spezzasse. È solo grazie a te se
Amir è ancora integro, a livello mentale.»
Mi sembrava di essere tornato sul Bifrost: colori caldissimi mi consumavano dentro. Non sapevo
come prendere lo sguardo di approvazione di Alex, né l’idea che avrei guarito la mente di Amir senza
neanche rendermene conto.
Alex mi diede un pugno sul petto, abbastanza forte da farmi male. «Che ne dici di concludere?
Comincio a soffocare, qui dentro.»
«Sì, sì, certo.»
Anch’io facevo fatica a respirare, ma non per colpa della casa. L’approvazione di Alex, il modo in cui
parlava di me… mi avevano fatto scattare qualcosa dentro. Capii chi mi ricordava – l’energia
instancabile, il corpo minuto e i capelli scompigliati, la camicia di flanella a scacchi, i jeans e gli
scarponcini, il disinteresse per quello che gli altri pensavano di lei, perfino la sua risata – le rare volte in
cui rideva. Mi ricordava assurdamente mia madre.
Decisi di non soffermarmi troppo su quei pensieri, o presto mi sarei ritrovato a psicanalizzarmi più
della capra Otis.
Scrutai gli scaffali un’ultima volta, e mi cadde lo sguardo sull’unica foto incorniciata senza Randolph:
una cascata ghiacciata in mezzo alla natura selvaggia, strati di ghiaccio appesi alle cenge di una scogliera
grigia. Avrebbe potuto essere solo una bella foto di paesaggio scattata ovunque, ma mi sembrava
familiare. I colori erano più vividi che nelle altre fotografie, come se fosse più recente. La presi in mano.
Non c’era polvere nel punto in cui era stata appoggiata la cornice. Ma c’era qualcos’altro: l’invito a un
matrimonio, in cartoncino verde.
Alex osservò la foto. «Questo posto lo conosco.»
«Le Bridal Veil Falls, le cascate del velo della sposa» dissi. «Nel New Hampshire. Ci sono andato a
fare trekking.»
«Io pure.»
In circostanze diverse, ci saremmo scambiati le nostre esperienze di trekking. Era un’altra strana
somiglianza fra lei e mia madre, e forse era il motivo per cui Alex aveva un atrio all’aperto in mezzo alla
sua suite proprio come me.
Ma in quel momento la mia mente correva altrove. Ricordai quello che Heimdall aveva detto sulla
fortezza di Thrym, che la sua entrata cambiava di continuo, e quindi sarebbe stato impossibile prevedere
dove sarebbe stata il giorno delle nozze. “A volte spunta dietro una cascata” aveva detto il dio.
Scrutai l’invito, una copia esatta di quello che Sam aveva gettato via. La riga della data diceva: FRA
DUE GIORNI. In altre parole, dopodomani. Nella riga del luogo c’era ancora scritto: TE LO FAREMO
SAPERE .
Forse la foto delle Bridal Veil Falls era solo un caso, e il nome della località era una coincidenza. O
forse lo zio Randolph non era sotto il controllo assoluto di Loki. Forse mi aveva lasciato un indizio
degno di Scooby-Doo.
«È l’invito al matrimonio di Sam» disse Alex. «Credi che significhi qualcosa il fatto che fosse dietro
questa foto?»
«Potrebbe non significare niente» risposi. «Oppure potrebbe indicare il possibile ingresso per certi
imbucati alle nozze.»
35
ABBIAMO UN MINUSCOLO PROBLEMA

Punto di incontro: la statua di George Washington al Public Garden. Hearthstone, Blitzen e Samirah erano
già lì, insieme a un altro vecchio amico che casualmente era un cavallo a otto zampe.
«Stanley!» esclamai.
Lo stallone nitrì e mi strofinò il muso contro. Poi lo mosse in direzione della statua equestre di George
Washington, come a dire: “Riesci a crederci? Quel tizio non è poi così importante. Il suo cavallo ha solo
quattro zampe”.
La prima volta che avevo incontrato Stanley ci eravamo lanciati da una scogliera di Jotunheim diretti
verso la fortezza di un gigante. Ero felice di rivederlo, ma avevo la brutta sensazione che stessimo per
prendere parte al sequel: Lancio dalla scogliera II: l’ascesa di Big Boy.
Accarezzai il muso di Stanley. Avrei voluto offrirgli una carota, ma le uniche cose che avevo erano
cioccolato e kibbeh, e pensai che nessuna delle due fosse adatta a un cavallo a otto zampe.
«L’hai evocato tu?» domandai a Hearthstone. «Come mai non sei svenuto?»
La prima volta in cui Hearth aveva usato ehwaz, la runa del trasporto, non si reggeva più in piedi e
aveva riso per mezz’ora farneticando su una lavatrice.
Hearth fece spallucce, anche se io colsi un guizzo d’orgoglio sul suo viso. Sembrava stare meglio
dopo una notte nel lettino abbronzante. I jeans e il giubbotto neri erano freschi di bucato, e al collo
portava la sua famosa sciarpa a strisce bianche e rosse. “Adesso è più facile” rispose. “Posso usare due,
forse tre rune di fila prima di svenire.”
«Wow!»
«Che ha detto?» domandò Alex.
Glielo tradussi.
«Solo due o tre?» fece Alex. «Cioè, senza offesa, ma non mi sembrano tante.»
«Lo sono» ribattei. «Usare una sola runa è come fare l’allenamento più duro che tu abbia mai fatto.
Immagina un’ora di scatti senza fermarsi mai.»
«Già… solo che io non faccio molto sport, quindi…»
Blitzen tossicchiò. «Ehm, Magnus? Chi è la tua amica?»
«Scusate. Vi presento Alex Fierro. Blitzen, Hearthstone, Alex è la nostra ultima einherji.»
Blitzen indossava il caschetto coloniale, quindi non era facile capire che espressione avesse sotto la
rete di garza. Tuttavia ero abbastanza sicuro che non stesse sorridendo di contentezza.
«Sei l’altra figlia di Loki» commentò.
«Sì» disse Alex. «Prometto che non vi ucciderò.»
Era una concessione piuttosto grande, detta da lei, ma si capiva che Hearth e Blitz non sapevano come
prenderla.
Samirah mi rivolse un sorriso tirato.
«Che c’è?» domandai.
«Niente.» Indossava la divisa di scuola, e pensai che fosse una scelta piuttosto ottimista, della serie:
“Faccio un salto a Jotunheim e torno in tempo per la terza ora”. «Dove siete stati voi due? Non siete
arrivati dalla direzione del Valhalla» osservò.
Gli raccontai della nostra puntata a casa di Randolph, della foto e dell’invito al matrimonio che
adesso era nel mio zaino.
Sam aggrottò la fronte. «Credi che la cascata sia l’ingresso alla fortezza di Thrym?»
«Può darsi» risposi. «O almeno potrebbe esserlo fra due giorni. Sapendolo in anticipo, potremmo
sfruttare l’informazione.»
“E come?” chiese Hearth.
«Ehm… ancora non lo so.»
Blitzen grugnì. «Immagino che sia possibile. I giganti di terra sono capaci di manipolare la roccia
solida ancora meglio dei nani. Possono senz’altro spostare le porte di accesso.» Scosse la testa,
disgustato. «È praticamente impossibile entrare nelle loro fortezze. Aprire gallerie, usare detonatori,
esplosioni di forza divina… niente di tutto questo funzionerà. Credetemi, i C.I.N.A. ci hanno provato.»
«I che?» domandai.
Mi guardò come se fossi rincitrullito. «Il Corpo Ingegneri Nani Appiedati. Che altro potrebbe
significare? In ogni caso, con i giganti di terra bisogna per forza usare l’ingresso principale. Ma, anche
se tuo zio sapesse dove sarà l’entrata il giorno delle nozze, perché dovrebbe passarci l’informazione? Ti
ricordo che è stato lui a pugnalarmi allo stomaco.»
Non mi serviva un promemoria. Rivedevo quella scena tutte le volte che chiudevo gli occhi. E poi,
non avevo una risposta sensata da dargli.
Ma per fortuna intervenne Alex. «Non dovremmo darci una mossa?»
Sam annuì. «Hai ragione. Stanley rimarrà soltanto pochi minuti. Preferisce non avere più di tre
passeggeri, per cui ho deciso di trasportare io Hearthstone. Magnus, che ne dici se tu, Alex e Blitz
viaggiate sul nostro amico cavallo?»
Blitzen si agitò nel suo completo blu. Probabilmente pensava a quanto avrebbero cozzato il suo look e
quello di Alex visti l’uno accanto all’altro.
“Va tutto bene” gli disse Hearthstone. “Sii prudente!”
«Uff… Okay.» Blitz mi lanciò un’occhiata. «Io mi siedo davanti. Il posto della suocera lo lascio a
voi… sempre che si possa dire, su un cavallo.»
Stanley nitrì e batté gli zoccoli a terra. Probabilmente non aveva gradito l’espressione.
Consegnai Skofnung a Sam, e Blitzen le diede la Pietra. Dato che in teoria erano il prezzo della sposa,
pensammo che avesse il diritto di trasportarle lei. Non poteva brandire la spada per via dei suoi
incantesimi, ma con la pietra almeno poteva spaccare la testa alla gente in caso di bisogno.
Stanley ci fece salire a bordo: davanti Blitzen, Alex nel mezzo e io dietro, nel famigerato “posto della
suocera” o, come mi piaceva pensare, “nel posto da cui scivoli giù e muori in caso di rapida ascesa”.
Avevo un po’ paura ad aggrapparmi ad Alex: mi avrebbe mozzato la testa? Mi avrebbe morso dopo
essersi trasformata in lucertola?
Ma lei mi afferrò i polsi e se li mise intorno alla vita. «Non sono fragile. E non sono contagiosa.»
«Non ho detto nulla.»
«Stai zitto.»
«Sto zitto.»
Alex sapeva di argilla, come il laboratorio di ceramica nella sua suite. Aveva anche un minuscolo
tatuaggio sulla nuca, che non avevo notato prima: i doppi serpenti attorcigliati di Loki. Non appena capii
cosa stavo guardando, il mio stomaco fece un salto preventivo da una rupe, ma non ebbi molto tempo per
riflettere sul significato del tatuaggio.
«Ci vediamo a Jotunheim» disse Sam. Poi afferrò il braccio di Hearthstone, e insieme svanirono in un
lampo di luce dorata.
Stanley non fu altrettanto discreto. Partì al galoppo verso Arlington Street, saltò la siepe del parco e si
lanciò dritto verso l’Hotel Taj. Poi, un attimo prima di andare a sbattere contro il muro, si sollevò in aria.
La facciata di marmo dell’hotel si dissolse in un banco di nebbia, e Stanley l’attraversò con un
avvitamento di trecentosessanta gradi, riuscendo in qualche modo a non perderci. Quando i suoi zoccoli
toccarono di nuovo terra, ci ritrovammo lanciati al galoppo in un burrone, con le montagne che si
profilavano ai lati.
Pini innevati torreggiavano sopra di noi. Basse nuvole grigio piombo minacciavano tempesta. Il mio
alito usciva in nuvolette di vapore.
Ebbi il tempo di pensare: “Ehi, siamo a Jotunheim”, prima che Blitzen gridasse: «Giù!».
Il nanosecondo successivo fu la dimostrazione di quanto io fossi più rapido a pensare che a reagire.
All’inizio immaginai che Blitz mi dicesse di guardare giù, perché c’era qualcosa di interessante da
vedere. Poi capii che mi stava dicendo di abbassarmi, cosa piuttosto complicata da fare quando sei
l’ultimo in una fila di tre su un cavallo.
Poi vidi il grosso ramo che pendeva proprio sulla nostra rotta. Capii che Stanley stava per passarci
sotto a tutta birra. Anche se il ramo fosse stato segnalato da un cartello con la scritta ALTEZZA LIBERA
LIMITATA , Stanley non sapeva leggere.
SBAAAM!
Mi ritrovai disteso a pancia in su nella neve. Sopra di me, i pini dondolavano in un technicolor
sfocato. Mi facevano male i denti.
Riuscii a mettermi a sedere per terra. Quando mi si snebbiò la vista, scorsi Alex rannicchiata a
qualche metro di distanza che si lamentava su un mucchio di aghi di pino. Blitzen camminava barcollando
alla ricerca del caschetto coloniale. Per fortuna, la luce di Jotunheim non era abbastanza forte da
pietrificare i nani, altrimenti si sarebbe già trasformato in roccia.
Quanto al nostro intrepido destriero, Stanley, era sparito. Aveva lasciato una scia di impronte di
zoccoli sotto il ramo dell’albero, che proseguiva nel bosco fin dove riuscivo a spingere lo sguardo. Forse
aveva raggiunto il limite del suo tempo di evocazione ed era svanito. O forse era così contento di
galoppare da non accorgersi di averci lasciato trenta chilometri indietro.
Blitzen tirò fuori dalla neve il caschetto coloniale. «Stupido cavallo. Che maleducato!»
Aiutai Alex a rimettersi in piedi. Sulla fronte aveva un brutto taglio a zigzag che sembrava una bocca
rossa piena di ghirigori.
«Stai sanguinando» le dissi. «Posso curarti io.»
Scacciò la mia mano con un gesto brusco. «Sto bene, dottor House, ma grazie per la diagnosi.» Si
voltò, ancora un po’ barcollante, e scrutò la foresta. «Dove siamo?»
«E, soprattutto, dove sono gli altri?» aggiunse Blitzen.
Sam e Hearthstone non si vedevano da nessuna parte. Mi augurai soltanto che Sam fosse più brava di
Stanley a evitare gli ostacoli.
Lanciai un’occhiataccia al ramo contro cui eravamo andati a sbattere. Forse potevo convincere Jack a
tagliarlo prima che un altro gruppo di fessacchiotti passasse di lì a cavallo. Ma il ramo aveva una
consistenza un po’ strana. Al posto della normale corteccia c’era una fibra grigia con un tratteggio
incrociato sopra. Non si assottigliava a formare una punta, ma si curvava verso terra, dove si
attorcigliava sopra la neve. Non era un ramo, quindi… più un enorme cavo, la cui estremità superiore si
arrotolava in mezzo agli alberi e spariva fra le nuvole.
«Che cos’è questo coso?» domandai. «Non è un albero.»
Alla nostra sinistra, una sagoma scura e minacciosa che avevo preso per una montagna si spostò e
tuonò. Con l’assoluta certezza che mi diede l’improvvisa stretta alla vescica, compresi che non era una
montagna. Accanto a noi era seduto il più enorme gigante che avessi mai visto.
«No, infatti!» rimbombò la sua voce. «Quello è un laccio delle mie scarpe!»

Come avevo fatto a non notare un gigante così grosso? Be’, se non sapevi cosa stavi guardando, era
semplicemente troppo grande per risultare comprensibile. I suoi scarponi da trekking erano colline
pedemontane. Le ginocchia piegate erano cime di montagna. La camicia grigio scuro si confondeva con il
cielo, e la soffice barba bianca assomigliava a un banco di nuvole cariche di neve. Anche da seduto, gli
occhi scintillanti del gigante erano così in alto che avrebbero potuto essere dirigibili o lune.
«Salve, piccoletti!» La voce era così profonda da liquefare le sostanze molli, come i miei bulbi
oculari, per esempio. «Dovreste fare attenzione a dove andate!»
Tirò indietro il piede destro. Il ramo/laccio contro cui ci eravamo schiantati scivolò fra i pini,
sradicando cespugli, spezzando rami e mettendo in fuga le creature del bosco terrorizzate. Un cervo dalle
grandi corna ramificate balzò fuori dal nulla e per poco non schiacciò Blitzen.
Il gigante si chinò in avanti, ostruendo il passaggio della luce grigia. Si allacciò la scarpa
canticchiando, facendo passare un enorme cavo intorno all’altro, mentre i lacci sbattevano devastando
interi tratti di foresta.
Quando terminò con un bel doppio nodo, la terra smise di tremare.
Alex gridò: «Chi sei? E come mai non usi le strisce di velcro?».
Non so dove trovasse il coraggio di aprire bocca. Forse era colpa della ferita alla testa. Quanto a me,
stavo tentando di capire se Jack avrebbe avuto la forza di uccidere un gigante così grosso. Anche se Jack
fosse riuscito a volargli dentro il naso, probabilmente gli avrebbe provocato al massimo uno starnuto. E
noi non volevamo che accadesse.
Il gigante si raddrizzò e rise. Mi domandai se gli si tappavano le orecchie quando arrivava nella
stratosfera. «Oh, oh! Il moscerino dai capelli verdi è aggressivo. Mi chiamo Tiny, il Minuscolo!»
Guardando bene, vidi il nome ricamato sulla sua maglietta da bowling. Le lettere erano distanti come
quelle della scritta HOLLYWOOD sul Monte Lee.
«Tiny» ripetei.
Non pensavo che mi potesse sentire più di quanto io potessi sentire delle formiche che litigavano, ma
lui fece un gran sorriso e annuì. «Sì, nanerottolo. Gli altri giganti si divertono a prendermi in giro perché,
in confronto alla maggior parte di quelli che sono nel palazzo di Utgard-Loki, io sono piccolo.»
Blitzen si spazzolò via dei ramoscelli dalla giacca blu. «Deve trattarsi di un’illusione» ci sussurrò.
«Non può essere così grosso.»
Alex si toccò la fronte insanguinata. «Questa non è un’illusione. Il laccio della scarpa mi è sembrato
molto reale.»
Il gigante si stiracchiò. «Bene, meno male che avete interrotto il mio pisolino. Devo darmi una
mossa!»
«Aspetta un attimo!» gli gridai. «Hai detto che vieni dal palazzo di Utgard-Loki, giusto?»
«Eh? Oh, sì. Da Utgard Lanes! Andate da quelle parti?»
«Ehm, sì» risposi. «Dobbiamo vedere il re!»
Speravo che Tiny ci desse un passaggio, tirandoci su. Sembrava la cosa giusta da fare nei confronti di
viaggiatori che avevano appena avuto un incidente con un laccio da scarpe per colpa sua.
Quello ridacchiò. «Non so come ve la passereste a Utgard Lanes. Siamo un po’ impegnati a preparare
il torneo di bowling di domani. Se non riuscite neanche a scansare i nostri lacci, potreste essere
schiacciati per sbaglio.»
«Ce la caveremo!» disse Alex, ancora una volta con molta più sicurezza di quanta io sarei riuscito a
raggranellare. «Dov’è il palazzo?»
«Laggiù.» Tiny agitò un mano alla propria sinistra, provocando un nuovo fronte di bassa pressione.
«Due minuti di cammino, una passeggiata.»
Tentai di tradurlo dal gigantese. Probabilmente voleva dire che il palazzo si trovava a circa dieci
miliardi di chilometri di distanza.
«Non potresti per caso darci un passaggio?» Tentai di non sembrare troppo patetico.
«Oh, be’, non credo di dovervi nessun favore, giusto?» replicò Tiny. «Dovete arrivare alla soglia
della fortezza per rivendicare i privilegi dell’ospitalità. Allora dovremo trattarvi bene.»
«Ci risiamo» bofonchiò Blitzen.
Ricordavo come funzionano i diritti di ospitalità dall’ultima volta che eravamo stati a Jotunheim. Se
riesci a entrare e rivendichi di essere un ospite, a quanto pare il padrone di casa non può ucciderti.
Ovviamente, quando ci avevamo provato, avevamo finito per massacrare un’intera famiglia di giganti
dopo che avevano tentato di schiacciarci come cimici, ma il tutto era stato eseguito con la massima
cortesia.
«E poi, se non riuscite ad arrivare a Utgard Lanes da soli, non dovreste proprio andarci!» proseguì
Tiny. «La maggior parte dei giganti non è tranquilla come me. Dovete fare attenzione, piccoletti. I miei
parenti più grossi potrebbero scambiarvi per degli intrusi, delle termiti o roba del genere! Davvero, fossi
in voi me ne terrei alla larga.»
Ebbi una terribile visione di Sam e Hearthstone che volavano nella sala da bowling e rimanevano
intrappolati nel più grande acchiappamosche del mondo.
«Ma noi dobbiamo andarci per forza!» gridai. «Abbiamo un appuntamento con due amici.»
«Mmm…» Tiny sollevò l’avambraccio, rivelando un tatuaggio di Elvis Presley grande come il Monte
Rushmore. Si grattò la barba: un pelo bianco scese vorticando come un elicottero Apache e andò a
schiantarsi nelle vicinanze, sollevando una nube nucleare di neve. «Ve lo dico io, allora, come si fa. Voi
portate la mia borsa da bowling. Così tutti capiranno che siete amici. Fatemi questo piccolo favore, e io
garantisco per voi con Utgard-Loki. Cercate di tenere il passo! Ma, se rimanete indietro, assicuratevi di
raggiungere il castello entro domani mattina. È quando comincia il torneo!» Si alzò e si girò per
andarsene.
Ebbi il tempo di ammirare la sua ispida crocchia grigia e di leggere le gigantesche scritte gialle
ricamate sul retro della sua maglietta: I TACCHINI DI TINY. Mi domandai se fosse il nome della sua
squadra o della sua azienda di tacchini. Mi immaginai tacchini grossi quanto cattedrali, e capii che
avrebbero tormentato i miei sogni per l’eternità.
Poi, con due passi, Tiny scomparve all’orizzonte.
Guardai i miei amici. «In che storia ci siamo appena infilati?»
«Be’, ho una buona notizia: ho trovato la borsa» annunciò Blitzen. «Ma ho anche una cattiva notizia:
ho trovato la borsa.» E indicò una montagna lì vicino: una falesia scura alta centocinquanta metri che
culminava in un ampio altopiano.
Ma ovviamente non era una montagna. Era una borsa da bowling in pelle marrone.
36
RISOLVERE I PROBLEMI CON SCELTE DI STILE ESTREME

A questo punto, la maggior parte della gente si sarebbe buttata a terra, abbandonando ogni speranza. E
con “la maggior parte della gente” intendo dire me.
Mi sedetti sulla neve e fissai le rupi torreggianti del Monte Borsa da Bowling. Il nome della squadra
era inciso sulla pelle marrone in lettere nere talmente sbiadite da sembrare linee di faglia accidentali.
«Impossibile!» esclamai.
La fronte di Alex aveva smesso di sanguinare, ma la pelle intorno al taglio era diventata verde come i
suoi capelli, e non era un buon segno. «Detesto essere d’accordo con te, Maggie, ma devo darti ragione.
È impossibile.»
«Ti prego, non chiamarmi Maggie» ribattei. «Perfino Fagiolo sarebbe meglio.»
Mi sembrò che Alex archiviasse mentalmente l’informazione per poterla usare in seguito. «Quanto ci
scommetti che c’è una palla da bowling in quella borsa? Probabilmente pesa quanto una portaerei» disse.
«Che importa?» replicai. «Anche se fosse vuota, è troppo grande per essere spostata.»
Solo Blitzen non sembrava abbattuto. Camminava intorno alla base della borsa, passando le dita sulla
pelle e borbottando come se stesse facendo dei calcoli. «Dev’essere un’illusione. Nessuna borsa da
bowling può essere così grande. Nessun gigante è così grande.»
«Si chiamano giganti» sottolineai. «Forse, se ci fosse Hearthstone, potrebbe compiere qualche magia
con le rune, ma…»
«Figliolo, collabora» mi interruppe Blitz. «Sto cercando di risolvere un problema. È un accessorio di
moda. È una borsa. È la mia specialità.»
Avrei voluto dirgli che le borse da bowling e la moda sono due cose lontane come Boston e la Cina.
Non capivo come un nano, nonostante tutto il suo talento, potesse risolvere un problema grosso come una
montagna con qualche astuta scelta di stile. Ma non volevo sembrare negativo. «A cosa stai pensando?»
domandai.
«Be’, non si può dissipare subito l’illusione» bofonchiò Blitz. «Dobbiamo lavorare con quello che
abbiamo, non contro. Mi chiedo…» Appoggiò un orecchio sulla pelle, come se fosse in ascolto. Poi
cominciò a sorridere.
«Ehm… Blitz? Mi innervosisci quando sorridi in quel modo.»
«Questa borsa non è mai stata finita. Non ha un nome.»
«Un nome» commentò Alex. «Che vuoi dire? “Ciao, borsa! Io mi chiamo Alex. E tu?”»
Blitzen annuì. «Esatto. I nani danno sempre un nome alle loro creazioni. Nessun articolo è del tutto
finito finché non ha un nome.»
«Sì, ma… Blitz, questa è la borsa di un gigante. Non di un nano.»
«Sì, ma potrebbe diventarlo. Non capisci? Potrei finirla.»
Io e Alex lo fissammo.
Blitzen sospirò. «Sentite, mentre ero nel rifugio segreto con Hearthstone, mi annoiavo. Ho cominciato
a pensare a nuovi progetti. Uno di questi, be’… conoscete la runa personale di Hearthstone, giusto?
Perthro.»
«La coppa vuota» dissi. «Sì, me la ricordo.»
«La cosa?» domandò Alex.
Disegnai la runa per terra:

«Significa una coppa in attesa di essere riempita» spiegai. «O una persona che è stata svuotata, in attesa
che qualcosa renda significativa la sua vita.»
Alex aggrottò la fronte. «Oh, dei, che angoscia.»
«Il fatto è che ho pensato a una borsa tipo perthro, una borsa che non si può mai riempire» riprese
Blitz. «Una borsa che rimarrebbe sempre vuota e leggera. E, cosa ancora più importante, una borsa delle
dimensioni che si desidera.»
Guardai il Monte Borsa da Bowling. Il suo fianco si ergeva talmente alto che gli uccelli ci sbattevano
contro, sgomenti. O forse ne ammiravano la raffinata fattura.
«Blitz, apprezzo il tuo ottimismo. Ma devo sottolineare che questa borsa è grande quasi come
Nantucket.»
«Sì, sì. Non è l’ideale. Speravo di poter creare un prototipo, prima. Ma, se riesco a finirla e a darle un
nome, se le cucio un ricamino elegante sulla pelle e le do una parola di comando, potrei tentare di
canalizzare la sua magia.» Blitz si tastò le tasche finché non trovò il kit da cucito. «Mmm… mi serviranno
strumenti migliori.»
«Sì» disse Alex. «Quella pelle probabilmente ha un metro e mezzo di spessore.»
«Eh, ma noi abbiamo il miglior ago da cucito del mondo!» ribatté Blitz.
«Jack!» intuii.
A Blitz scintillarono gli occhi. Non lo vedevo così entusiasta da quando aveva creato la fascia da
smoking in cotta di maglia. «Avrò bisogno anche di alcuni ingredienti magici» aggiunse. «Voi, ragazzi,
dovrete darmi una mano. Dovrò tessere un filo con filamenti speciali, qualcosa che abbia potere,
resilienza e proprietà di crescita magiche. Per esempio, i capelli di un figlio di Freyr!»
Fu come se mi avesse colpito in faccia con una stringa da scarpe. «Che cosa?!»
Alex rise. «Mi piace questo piano. A Magnus serve davvero un bel taglio di capelli. Non siamo mica
nel 1993!»
«Aspetta un attimo…» protestai.
«E poi…» Blitz scrutò Alex. «Le dimensioni della borsa vanno modificate, e ciò significa che dovrò
tingere il filo con il sangue di un mutaforma.»
Il sorriso di Alex svanì. «Di quanto sangue stiamo parlando?»
«Non tanto.»
Alex esitò, forse domandandosi se doveva tirare fuori la garrota per usare il sangue di un nano o di un
einherji invece del suo. Alla fine sospirò e si arrotolò una manica della camicia. «E va bene, nano.
Facciamo una borsa da bowling magica.»
37
SPIEDINI DI CARNE INTORNO AL FUOCO

Non c’è niente di meglio che campeggiare in una desolata foresta di Jotunheim mentre i tuoi amici
cuciono delle rune su una borsa da bowling gigante.
«Tutto il giorno?» si lamentò Alex quando Blitz fece una stima di quanto gli ci voleva a finire. Era
decisamente un po’ scorbutica dopo essere stata scaraventata a terra da un laccio gigante, essersi fatta
tagliare con un pugnale e aver versato il sangue nel tappo di un thermos. «Abbiamo degli impegni, nano!»
«Lo so.» Blitzen parlò in tono pacato, come se si rivolgesse ai bambini della scuola materna di
Nidavellir. «So pure che siamo completamente esposti qui in mezzo al territorio dei giganti e che Sam e
Hearth sono dispersi, cosa che mi spezza il cuore. Però, se vogliamo trovarli e avere le informazioni che
ci servono, la nostra migliore opportunità è raggiungere il palazzo di Utgard-Loki. E il modo migliore per
farlo senza morire è lanciare un incantesimo su questa borsa. Quindi, a meno che tu non abbia un sistema
più rapido, sì, mi ci vorrà l’intera giornata. E magari dovrò lavorare anche tutta la notte.»
Alex si accigliò, ma mettere in discussione la logica di Blitzen era inutile quanto mettere in
discussione i suoi gusti in fatto di moda. «E allora noi cosa dobbiamo fare?»
«Portatemi del cibo e dell’acqua» rispose Blitz. «Montate la guardia, soprattutto di notte, per impedire
ai troll di divorarmi. Incrociate le dita perché Sam e Hearth si facciano vivi nel frattempo. E tu, Magnus,
prestami la spada.»
Evocai Jack, che fu felice di essere d’aiuto.
«Oh, c’è da cucire?» Le rune sulla sua lama scintillarono di entusiasmo. «Come nella Grande Gara di
Cucitura Islandese dell’886 e.v.! Io e Freyr stracciammo gli avversari. Un sacco di guerrieri andarono a
casa in lacrime, avevamo eclissato le loro abilità di rammendo e cucito alla grande.»
Decisi di non approfondire. Meno ne sapevo delle prodezze nel cucito di mio padre, meglio era.
Mentre Jack e Blitz parlavano di strategia, io e Alex allestimmo il campo. Lei aveva portato anche le
attrezzature, e così nel giro di poco tempo montammo un paio di tende canadesi e preparammo una buca
per il fuoco in un bell’angolo pianeggiante.
«È una cosa che hai fatto spesso» notai.
Alex scrollò le spalle, sistemando dei rametti per accendere il fuoco. «Mi piace stare all’aperto.
Insieme ad alcuni ragazzi del mio laboratorio di ceramica al Brookline Village, andavo spesso in
montagna per cambiare aria.» Pronunciò le ultime due parole con foga: cambiare aria.
«Un laboratorio di ceramica?»
Lei aggrottò la fronte, come se tentasse di scorgere del sarcasmo nelle mie parole. Forse le era toccato
di rispondere a domande stupide tipo: “Oh, fai ceramica? Che bello! Mi piaceva il pongo, da bambino!”.
«Il laboratorio era l’unico posto stabile della mia vita. Mi lasciavano passare la notte là quando le
cose si mettevano male a casa.» Dallo zaino, Alex estrasse una scatola di fiammiferi. Annaspò con le dita
mentre ne tirava fuori qualcuno. Il taglio sulla sua fronte era diventato di una tonalità di verde più scuro,
ma lei si rifiutava ancora di farselo curare. «La cosa bella dell’argilla è che può assumere qualsiasi
forma» continuò. «Devo decidere io cosa è meglio per ogni pezzo. È come se… mi mettessi in ascolto di
quello che l’argilla vuole. So che sembra una stupidaggine.»
«Lo dici a uno che ha una spada parlante.»
Si lasciò sfuggire una mezza risata. «Già, ma…» I fiammiferi le caddero di mano. Si mise a sedere di
botto, pallida in viso.
«Ehi!» Mi avvicinai piano. «Devi lasciarmi curare la ferita. Solo gli dei sanno che razza di batteri
c’erano sul laccio di Tiny, e il fatto che tu abbia donato il sangue per l’opera di Blitz certamente non
aiuta.»
«No, non voglio che tu…» Esitò. «C’è un kit di pronto soccorso nel mio zaino. Basterà che…»
«Un kit di pronto soccorso non è sufficiente. Cosa stavi per dire?»
Alex si toccò la fronte e sussultò. «Niente.»
«Hai detto: “Non voglio che…”.»
«E va bene! Non voglio che tu ficchi il naso negli affari miei, ecco cosa volevo dire! Samirah mi ha
raccontato che quando guarisci le persone… come quell’elfo, Hearthstone… entri nella loro mente, vedi
delle cose. E io non voglio!»
Distolsi lo sguardo.
Nella buca del fuoco, la piramide di rametti che Alex aveva preparato per accenderlo crollò. I
fiammiferi si sparpagliarono formando un disegno simile a una runa; ma, se pure aveva qualche
significato, io non sapevo decifrarlo.
Ripensai a una cosa che mi aveva detto una volta Halfborn Gunderson sui branchi di lupi: ogni lupo
misura i limiti all’interno del branco. Mette continuamente alla prova la posizione che occupa nella
gerarchia, dove può dormire, quanto gli è concesso di mangiare della preda appena ammazzata. Continua
a spingere finché il lupo alfa non lo maltratta e gli ricorda qual è il suo posto. Non mi ero reso conto di
misurare i limiti, ma avevo appena ricevuto un rimbrotto da un lupo alfa di prima categoria.
«Io… non controllo quello che succede quando guarisco qualcuno.» Fui sorpreso di avere ancora la
voce. «Con Hearth ho dovuto usare molto potere. Era quasi morto. Non credo di riuscire a leggere tante
cose dentro di te mentre sistemo un taglio infetto. Cercherò di non farlo, in ogni caso. Ma se non ti lasci
curare…»
Alex fissò la benda nel punto sul braccio da cui Blitzen le aveva tolto il sangue. «Sì. Sì, okay. Solo…
solo la fronte. Dentro la testa no, però.»
Le toccai la fronte. Scottava per la febbre. Evocai il potere di Freyr, e Alex trasalì. Immediatamente,
la ferita si chiuse. La pelle si raffreddò e tornò di un colore normale.
Le mie mani brillavano appena. In qualche modo, essere in un posto selvaggio, circondati dalla natura,
rese la guarigione più semplice.
«Non ho visto niente» la rassicurai. «Per me rimani sempre un mistero avvolto in un punto
interrogativo avvolto in una camicia di flanella a scacchi.»
Alex espirò, emettendo un suono che era una via di mezzo fra una risata e un sospiro di sollievo.
«Grazie, Magnus. Ora, che ne dici se accendiamo questo fuoco?»
Non mi chiamò Maggie né Fagiolo. Decisi di prenderla come un’offerta di pace.
Non appena riuscimmo a ottenere un bel fuoco, tentammo di trovare il modo migliore per riutilizzare i
falafel sulle fiamme. E imparammo una lezione importante: non si possono fare gli spiedini con il kebab
di agnello e le polpette di ceci. Mangiammo soprattutto il cioccolato preso a casa dello zio Randolph.
Blitz trascorse gran parte della mattinata a filare il filo magico sul fuso pieghevole da viaggio
(ovviamente ne aveva uno nel suo kit. Perché non avrebbe dovuto?). Nel frattempo, Jack volava su e giù
lungo il fianco della borsa da bowling praticando dei fori per creare il motivo che Blitz voleva fargli
cucire.
Io e Alex stavamo di guardia, ma non successe quasi nulla. Sam e Hearthstone non arrivarono. Nessun
gigante eclissò il sole, né distrusse la foresta con una stringa slacciata. La cosa più pericolosa che
avvistammo fu uno scoiattolo rosso su un ramo sopra il fuoco. Probabilmente non rappresentava una
minaccia, ma da quando avevo incontrato Ratatoskr non volevo correre rischi. Lo tenni d’occhio finché
non saltò su un altro albero.
Nel pomeriggio, la situazione si fece più elettrizzante. Dopo aver mangiato un boccone che gli
avevamo portato, Blitz si dedicò alla cucitura vera e propria insieme a Jack. In qualche modo – ehm,
forse con la magia? – aveva creato un mucchio di scintillante filato rosso con i miei capelli, il sangue di
Alex Fierro e il filo del proprio panciotto. Ne legò un capo al pomo di Jack, e Jack cominciò a volare
avanti e indietro lungo il fianco della borsa, tuffandosi dentro e fuori la pelle come un delfino e lasciando
una scia di punti scintillanti. Guardandolo, mi tornò in mente come avevamo legato Fenris il lupo… un
ricordo di cui avrei fatto volentieri a meno.
Blitzen gridava le istruzioni. «Alla tua sinistra, Jack! Salta quel punto. Okay, adesso un punto indietro!
Fai un foro tipo fustellatrice laggiù in fondo!»
Alex mangiucchiava una barretta di cioccolato. «Fustellatrice?»
Scossi la testa. «Non ne ho la minima idea.»
Forse ispirata da quell’esibizione, Alex si sfilò la garrota dai passanti della cintura e fece scorrere il
cavo di metallo sulla suola degli scarponcini per grattare via il fango ghiacciato.
«Perché hai scelto proprio quest’arma?» le domandai. «Puoi sempre dirmi di nuovo di stare zitto,
ovviamente.»
Alex mi fece un sorriso sghembo. «Tranquillo. All’inizio la usavo come tagliacreta.»
«Tagliacreta… Cioè il filo che si passa attraverso un pezzo di creta?»
«Ci sei arrivato tutto da solo?»
«Ah, ah. Suppongo che la maggior parte dei tagliacreta non abbia applicazioni da combattimento,
giusto?»
«Non tante. Mia m…» Alex esitò. «Loki è passato a trovarmi un giorno al laboratorio. Cercava di
stupire, di dimostrarmi quanto poteva fare per me. Mi ha insegnato un incantesimo per creare un’arma
magica. Non volevo dargli la soddisfazione di aiutarmi. Per cui ho provato l’incantesimo sulla cosa più
stupida e innocua che mi venisse in mente. Non immaginavo che un filo di ferro con due maniglie di legno
potesse essere un’arma.»
«E invece…»
Alex indicò un masso lì vicino, un pezzo di granito grande quasi come un pianoforte. Menò colpi alla
cieca con la garrota, tenendone un’estremità come fosse una frusta. Il cavo di ferro si allungò nell’aria e
andò ad avvolgersi stretto intorno al masso. Alex lo tirò con forza verso di sé. La parte superiore del
masso si staccò da quella inferiore e scivolò giù, con un suono stridulo simile a quello di un coperchio
che si sfila da un barattolo di biscotti di porcellana.
Il cavo di ferro tornò in mano ad Alex.
«Non male.» Tentai di non farmi schizzare gli occhi fuori dalle orbite. «Ma fa anche le patatine
fritte?»
Alex borbottò qualcosa sulla stupidità dei maschi, ma sono sicuro che non aveva niente a che vedere
con me.

La luce del pomeriggio svanì rapidamente. Alla borsa da bowling, Blitz e Jack continuavano a lavorare
per qualificarsi alla Grande Gara di Cucito di Jotunheim. Le ombre si allungarono. La temperatura crollò.
Me ne accorsi perché Blitz mi aveva fatto un taglio di capelli drastico e sentivo freddo alla nuca. Ero
contento che non ci fossero specchi per vedere gli orrori che il mio amico mi aveva fatto in testa.
Alex gettò un altro ramo nel fuoco. «Puoi anche chiedermelo.»
Mi scostai. «Come dici, scusa?»
«Vuoi chiedermi di Loki» mi suggerì Alex. «Perché metto il suo simbolo sulle mie ceramiche, perché
ho un tatuaggio… Vuoi sapere se lavoro per lui.»
Quelle domande in effetti si erano affacciate in un angolino della mia mente, ma non capivo come
Alex facesse a saperlo. Mi chiesi se il mio tocco da guaritore mi si fosse ritorto contro in qualche modo.
Forse avevo permesso ad Alex di dare un’occhiata dentro la mia testa.
«Suppongo che la cosa mi preoccupi» ammisi. «Ti comporti come se Loki non ti piacesse…»
«Infatti.»
«Allora perché usi il suo simbolo?»
Alex si mise le mani intorno alla nuca. «I due serpenti attorcigliati? Si chiamano i serpenti di Urnes,
dal nome di un luogo in Norvegia. E non sono necessariamente un simbolo di Loki.» Intrecciò le dita e le
agitò. «I serpenti significano cambiamento, flessibilità. Essere versatili. La gente ha cominciato a usarli
per rappresentare Loki, e a Loki è stato bene così. Ma io ho pensato… perché Loki deve prendersi questo
simbolo figo? Mi piace. Lo faccio diventare mio. Loki non possiede il simbolo del cambiamento più di
quanto possieda me. Chi se ne importa di cosa pensa la gente. Che se ne vadano a Helheim!»
Osservai le fiamme che consumavano un altro pezzo di legno: una miriade di scintille arancioni si alzò
dalla buca del fuoco. Mi tornò in mente il sogno che avevo fatto: la suite di Alex, con Loki che si
trasformava in una donna dai capelli rossi. Pensai all’esitazione nella voce di Alex quando parlava di
Loki come padre.
«Sei come il cavallo a otto zampe» realizzai.
Alex aggrottò la fronte. «Stanley?»
«No, il cavallo a otto zampe originale. Come si chiama? Sleipnir. Mallory Keen mi ha raccontato la
storia, una volta. Loki si era trasformato in una bella cavalla per attirare lo stallone di un gigante. Solo
che poi… rimase incinta. Lui… lei partorì Sleipnir.» Diedi un’occhiata ad Alex, consapevole della
garrota appoggiata sulla sua coscia. «Loki non è tuo padre, vero? È tua madre.»
Alex si limitò a fissarmi.
Pensai: “Bene, adesso arriva il cavo di ferro. Addio, gambe! Addio, testa!”.
Invece Alex mi sorprese con una risata amara. «Penso che il taglio di capelli abbia migliorato le tue
capacità mentali.»
Mi trattenni dal desiderio di toccarmi i riccioli tagliati con l’accetta. «Allora ho ragione?»
«Sì.» Alex tirò i lacci glitterati dei suoi scarponcini. «Avrei voluto vedere l’espressione di mio padre
quando l’ha scoperto. Da quanto ne so, Loki si era trasformato nel tipo di donna che piaceva a mio padre.
Lui era già sposato, ma non si è mai fatto problemi. Era abituato ad avere quello che voleva. Così ha
avuto una storia con questa conturbante donna dai capelli rossi. Nove mesi dopo, Loki si è presentato alla
sua porta con un neonato in dono.»
Tentai di immaginarmi Loki nella sua solita forma smagliante, magari con uno smoking verde, che
suonava il campanello di un’elegante casa di periferia: “Salve, sono la donna con cui hai avuto
un’avventura. Ecco nostro figlio”.
«Come ha reagito la tua mamma mortale?» domandai. «Insomma, la moglie di tuo padre… la tua
matrigna…»
«Si fa un po’ di confusione, eh?» Alex gettò un altro legnetto nel fuoco. «La mia matrigna non ha fatto
salti di gioia. Sono cresciuta con due genitori che non mi sopportavano e mi trovavano imbarazzante. E
poi c’era Loki, che continuava a presentarsi ogni tanto, tentando di educarmi.»
«Mamma mia» dissi.
«Mamma mia, vorrai dire» puntualizzò Alex.
«No, intendevo dire…» Mi fermai, rendendomi conto che mi stava prendendo in giro. «Cos’è
successo? Quando te ne sei andata di casa definitivamente?»
«Due anni fa, più o meno. Quello che è successo? Be’, un sacco di cose.»
Stavolta riconobbi un tono di ammonimento nella sua voce. Ero invitato a non chiederle altri dettagli.
Eppure… Alex era diventata una senzatetto più o meno nello stesso periodo in cui era morta mia
madre, lo stesso periodo in cui ero finito per strada anch’io. La coincidenza mi sembrava strana.
Prima che riuscissi a trattenermi, mi scappò detto: «Loki ti ha chiesto di venire con noi?».
Alex mi guardò negli occhi. «Che vuoi dire?»
Le raccontai il mio sogno: lei che lanciava dei vasi contro suo padre (madre), Loki che diceva: “È una
richiesta così semplice”.
Era buio pesto ormai, anche se non sapevo quando fosse calata la notte. Alla luce del fuoco, la faccia
di Alex sembrava spostarsi, saltare. Cercai di convincermi che non era la parte di Loki che era in lei a
rivelarsi. Era solo il cambiamento, la flessibilità. I serpenti attorcigliati sul suo collo erano del tutto
innocui.
«Hai capito male» affermò Alex. «Lui mi ha detto di non venire.»
Uno strano rumore pulsante mi invase le orecchie. Mi resi conto che era il battito del mio cuore.
«Perché ti avrebbe detto una cosa del genere? E… di che cosa parlavate tu e Sam ieri notte? Avete un
piano?»
Alex si arrotolò la garrota intorno alle mani. «Forse lo scoprirai, Magnus. E, a proposito, se ti azzardi
a spiarmi ancora nei tuoi sogni…»
«Ragazzi!» gridò Blitzen dal Monte Borsa da Bowling. «Venite a dare un’occhiata!»
38
NON INDOVINERETE MAI LA PASSWORD DI BLITZEN

Jack volteggiava orgogliosamente accanto al proprio manufatto.


Si può dire manufatto anche se non hai le mani?
Cucite sul fianco della borsa c’erano diverse nuove righe di scrittura runica in rosso scintillante.
«Cosa c’è scritto?» domandò Alex.
«Oh, solo qualche runa tecnica.» Blitz socchiuse gli occhi, soddisfatto. «Dadi e bulloni magici, termini
e condizioni, accordo con l’utilizzatore finale. Ma lì in fondo dice: PELLEVUOTA, borsa ultimata da
Blitzen, figlio di Freya, con la collaborazione di Jack.»
«L’ho scritto io!» disse orgogliosamente Jack. «Io ho collaborato!»
«Ottimo lavoro, amico» commentai. «Allora… funziona?»
«Lo scopriremo subito!» Blitzen si sfregò le mani, ansioso di cominciare. «Pronuncerò la parola di
comando segreta. Poi la borsa si restringerà diventando di una misura trasportabile, oppure… be’, sono
sicuro che si restringerà.»
«Torna indietro e riparti da “oppure”» intervenne Alex. «Cos’altro potrebbe succedere?»
Blitzen fece spallucce. «C’è un lieve rischio che la borsa si espanda fino a coprire quasi tutto il
continente. No, no. Sono sicuro di aver fatto ogni cosa nel modo giusto. Jack è stato molto attento a
impunturare le rune dove gli dicevo io.»
«Dovevo fare le impunture?» Jack si illuminò di giallo. «Scherzo. Sì, sì, le ho fatte.»
Non ero molto fiducioso. D’altro canto, se la borsa fosse diventata grande come un continente, non
sarei sopravvissuto abbastanza da preoccuparmene.
«Okay» dissi. «Qual è la password?»
«NO!» urlò Blitzen.
La borsa da bowling fu scossa da un fremito. Tutta la foresta tremò. Pellevuota crollò così
velocemente che mi venne la nausea per il cambiamento di prospettiva. La montagna di pelle era sparita.
Ai piedi di Blitzen c’era una borsa da bowling di dimensioni normali.
«Evvai!» Blitz la sollevò e sbirciò all’interno. «C’è una palla da bowling dentro, ma la borsa sembra
completamente vuota. Jack, ce l’abbiamo fatta!»
Batterono un cinque. O meglio, batterono un uno, dato che la lama di Jack non aveva dita.
«Aspetta un attimo» disse Alex. «Insomma, ottimo lavoro, certo. Ma hai davvero usato “password”
come password?»
«NO!» Blitz lanciò la borsa da bowling nel bosco come se fosse una bomba a mano.
Pellevuota ritornò subito delle dimensioni di una montagna, provocando una sorta di maremoto che si
trascinò dietro alberi schiantati e animali terrorizzati. Provai quasi pena per quegli infidi degli scoiattoli.
«Ero di fretta!» replicò Blitzen, piccato. «Posso resettare la pass… la parola di comando più tardi,
ma ci vorranno altro filo e altro tempo. Per il momento, potete per cortesia evitare di pronunciare…
avete capito, quella parola?»
Dopodiché pronunciò quella parola. La borsa tornò di piccole dimensioni.
«Sei stato grande, amico» dichiarai. «E tu, Jack, ehi, ottimo lavoro di cucito!»
«Grazie, señor! Anche a me piacciono molto i tuoi capelli tagliati con l’accetta. Non sembri più quel
tizio dei Nirvana. Assomigli più… al cantante dei Sex Pistols? Oppure a Joan Jett, ma bionda!»
Alex si sbellicò dalle risate. «Ma come fai a conoscerli? T.J. mi ha detto che hai passato mille anni
sul fondo di un fiume.»
«Sì, ma ho studiato tanto!»
Alex ridacchiò. «Joan Jett.»
«Piantatela, tutti e due!» bofonchiai. «Chi è pronto per giocare a bowling?»

Nessuno era pronto per giocare a bowling.


Blitzen entrò carponi in una tenda canadese e crollò, sfinito. Dopodiché commisi l’errore di
trasformare Jack di nuovo in ciondolo e crollai anch’io, come se avessi passato tutto il giorno ad
arrampicarmi su delle scogliere.
Alex promise di montare la guardia. Almeno credo che abbia detto così. Avrebbe potuto anche
annunciare “Invito Loki al campeggio e vi uccido tutti nel sonno! AHAHAHAH!” e io sarei svenuto lo
stesso.
Sognai soltanto delfini che saltavano felici in un mare di pelle.
Mi svegliai mentre il cielo da nero si faceva color carbone. Insistetti affinché Alex chiudesse gli occhi
almeno per qualche ora. Dopo che tutti e tre ci fummo alzati, avemmo mangiato e levato le tende, il cielo
era una fitta coltre grigio sporco.
Quasi ventiquattr’ore gettate al vento. Samirah e Hearthstone erano ancora dispersi. Cercai di
immaginarmeli sani e salvi davanti al fuoco di casa Utgard-Loki, a raccontare storie e rimpinzarsi lo
stomaco. Ma riuscii solo a immaginarmi un gruppo di giganti davanti al fuoco che raccontavano storie sui
saporiti mortali che avevano divorato la sera prima.
“Smettila!” ordinai al mio cervello.
“E poi, le nozze sono domani” insistette lui.
“Esci dalla mia testa!” ribattei.
Il mio cervello si rifiutò di uscire dalla mia testa. Che sfacciato!
Camminammo lungo il crepaccio, cercando di mantenere la direzione che Tiny ci aveva indicato.
Forse penserete che sarebbe bastato seguire le sue impronte, ma non era facile distinguerle dalle valli e
dai canyon naturali.
Dopo circa un’ora, scorgemmo la meta. Su un’enorme rupe in lontananza si ergeva una struttura
squadrata simile a un magazzino. Il Godzilla gonfiabile era sparito (la somma giornaliera da pagare per il
noleggio di una cosa del genere doveva essere esorbitante), ma l’insegna al neon scintillava ancora:
UTGARD LANES. Le lettere lampeggiavano prima una alla volta, poi tutte insieme, e infine solo intorno ai
bordi: era impossibile non vedere l’unica insegna al neon sulla più grande rupe di Jotunheim.
Ci inerpicammo su per un sentiero tortuoso che era perfetto per muli mastodontici, ma non tanto per
piccoli mortali. Il vento freddo ci sballottava. Mi facevano male i piedi. Grazie al cielo avevamo la
borsa da bowling magica di Blitzen, perché trascinare la sua versione a grandezza naturale lungo quella
rupe sarebbe stato impossibile e per nulla divertente.
Una volta arrivati in cima, mi resi conto di quanto fosse grande Utgard Lanes. L’edificio stesso
avrebbe potuto ospitare quasi tutto il centro di Boston. Le porte a due battenti rivestite di rosso porpora
erano tempestate di chiodi d’ottone, ciascuno dei quali era grande come una casa media con tre camere
da letto. Sulle finestre luride scintillavano pubblicità al neon di bevande tipo Succo Jotun, Gran Birrino
Analcolico, Mega Idromele. Legati a pali esterni c’erano colossali bestie da soma: cavalli, arieti, yak e,
sì, muli, tutti più o meno delle dimensioni del Kilimangiaro.
«Niente paura» borbottò Blitzen. «È come un bar per nani. Solo… più grande.»
«Allora, come facciamo?» domandò Alex. «Attacco frontale diretto?»
«Ah, ah» commentai. «Sam e Hearthstone potrebbero essere qui dentro, quindi rispettiamo le regole.
Entriamo. Appelliamoci ai diritti di ospitalità. Tentiamo di negoziare.»
«E se non funziona, improvvisiamo» aggiunse Blitz.
Alex, fissata com’era con il cambiamento e la versatilità, disse: «Non mi piace per niente». Poi
aggrottò la fronte e mi guardò. «E tu, mi devi una bevuta per avermi sognato.» Andò spedita verso
l’ingresso.
Blitzen inarcò le sopracciglia. «Dovrei chiederti qualcosa?»
«No» gli risposi. «Certo che no.»
Varcare il portone non fu un problema. Ci passammo sotto senza neanche doverci acquattare.
All’interno c’era la sala da bowling più grande e gremita che avessi mai visto.
Alla sinistra, venti o trenta giganti grossi come la Statua della Libertà erano seduti intorno al bancone
su sgabelli che sarebbero stati dei bei palazzoni. I giganti indossavano maglie da bowling fluorescenti
che probabilmente erano state rubate all’Esercito della Salvezza all’epoca della disco music. Intorno alla
vita portavano un assortimento di pugnali, asce e mazze chiodate. Ridevano, si insultavano e si
lanciavano boccali di idromele che avrebbero potuto innaffiare tutti i campi della California per un anno.
Sembrava un po’ presto per bere, ma per quanto ne sapevo io quei tizi festeggiavano dal 1999. Le
casse sparavano un brano di Prince a tutto volume.
Alla nostra destra, c’era una sala giochi dove altri giganti giocavano a flipper e a Mega Pac-Man. In
fondo alla sala, alla distanza che c’è più o meno fra, che so, Boston e il New Hampshire, altri giganti
erano riuniti a gruppi di quattro o cinque davanti alle piste, con indosso uniformi dai colori fluo e scarpe
da bowling di camoscio. Sul fondo c’era uno striscione con la scritta: IL GRANDE TORNEO DI BOWLING DI
UTGARD! UN CALOROSO BENVENUTO A TUTTI I CONCORRENTI!
Uno dei giganti lanciò una boccia. Un tuono rimbombò, mentre la palla rotolava lungo la pista. Il
pavimento vibrò, facendomi balzare su e giù come un giocattolo a molla.
Scrutai la sala alla ricerca di Tiny e della sua maglia grigia dei Tacchini di Tiny. Non avrebbe dovuto
essere difficile vederlo, ma dal nostro punto di osservazione c’erano troppi ostacoli enormi nel mezzo.
Poi la folla si spostò. In fondo alla sala c’era un gigante che avevo voglia di vedere ancora meno di
Tiny, e guardava proprio verso di me. Era seduto su un’alta sedia di pelle sopra una pedana che dava
sulle piste, come se fosse l’arbitro o il maestro di cerimonie. La sua maglia da bowling era fatta di piume
d’aquila. I pantaloni erano di poliestere marrone. Gli scarponcini ferrati sembravano ricavati da un
cacciatorpediniere della Seconda guerra mondiale. Intorno all’avambraccio portava un cerchio d’oro da
capoclan tempestato di ematite.
Aveva il viso spigoloso, di una bellezza crudele. Capelli lisci e neri come la pece gli sfioravano le
spalle. Gli occhi scintillavano di divertimento e malizia. Avrebbe sicuramente fatto la sua bella figura
nella lista dei “Dieci assassini più affascinanti di Jotunheim”. Era una trentina di metri più alto
dell’ultima volta che lo avevo visto, ma lo riconobbi lo stesso.
«Big Boy» dissi.
Non sapevo come avesse fatto a udire la mia voce da mezza calzetta in tutto quel caos, ma il gigante
annuì in segno di riconoscimento.
«Magnus Chase!» gridò. «Sono così felice che tu ce l’abbia fatta!»
La musica si spense. Al bar, i giganti si girarono a guardarci.
Big Boy sollevò un pugno come se mi stesse offrendo un microfono. Stretti fra le sue dita, come action
figure di G.I. Joe, c’erano Samirah e Hearthstone.
39
ELVIS HA DIMENTICATO LA BORSA DA BOWLING

«Ci appelliamo ai diritti di ospitalità!» gridai. «Utgard-Loki, lascia andare i nostri amici!»
Pensai che fosse un gesto piuttosto coraggioso da parte mia, visto che ci trovavamo davanti a un
raduno di Statue della Libertà pesantemente armate e mal vestite.
I giganti risero. Al bar uno gridò: «Che hai detto? Parla più forte!».
«Ho detto…»
Il barista mise di nuovo il brano di Prince, soffocando la mia voce. I giganti strillarono di gioia.
Aggrottai la fronte e guardai Blitzen. «Se le canzoni di Taylor Swift sono musica nanica, come mi hai
detto tu… vuol dire che Prince era un gigante?»
«Eh?» Blitzen teneva gli occhi puntati su Hearthstone, che era ancora intrappolato e si dimenava nel
pugno di Utgard-Loki. «No, figliolo, significa che i giganti hanno buon gusto. Pensi che Jack potrebbe
liberare i nostri amici dal pugno del gigante?»
«Prima che Utgard-Loki li stritoli? Improbabile.»
Alex avvolse la garrota intorno alla mano. Non so a che pro, a meno che non intendesse dare una
passata di filo interdentale ai giganti. «Qual è il piano?»
«Ci sto lavorando.»
Utgard-Loki si passò un dito sulla gola (non il mio gesto preferito). La musica cessò di nuovo, e i
giganti si calmarono.
«Magnus Chase, ti stavamo aspettando!» disse Utgard-Loki con un gran sorriso. «Quanto ai tuoi amici,
non sono prigionieri. Li ho soltanto sollevati da terra per farli assistere al tuo arrivo! Sono sicuro che
sono contentissimi!»
Ma Sam non sembrava affatto contenta. Dimenava le spalle cercando di liberarsi. Dalla faccia che
aveva, sembrava pronta a uccidere chiunque indossasse una maglia da bowling, e forse anche diversi
altri senza.
Riguardo a Hearth, sapevo quanto detestava avere le mani immobilizzate. Non poteva comunicare, né
fare magie. La gelida furia nei suoi occhi mi ricordò suo padre, il signor Alderman, ed era una
somiglianza che non mi piaceva per niente.
«Allora mettili giù, se non sono prigionieri» replicai.
«Come vuoi!» Utgard-Loki posò Sam e Hearth sul tavolo. In piedi erano alti più o meno come la
coppa di idromele del gigante. «Li abbiamo messi a loro agio mentre aspettavamo il vostro arrivo. Tiny
ha accennato al fatto che avreste portato la sua borsa da bowling entro stamattina. Cominciavo a pensare
che non ce l’avreste fatta!»
Lo disse come se si trattasse di uno scambio di ostaggi. Una pesante sensazione di gelo mi invase lo
stomaco. Mi domandai cosa sarebbe accaduto a Sam e Hearth se non fossimo riusciti a presentarci con la
borsa. Li avevamo fatti aspettare per ventiquattr’ore, lì in trappola, probabilmente a domandarsi se
eravamo ancora vivi.
«Abbiamo la borsa!» dissi. «Nessun problema.» Diedi una gomitata a Blitz.
«Esatto!» Blitz fece un passo avanti e sollevò la sua creazione. «Ammirate Pellevuota, che presto
diventerà famosa tra le borse da bowling. È stata ultimata da Blitzen, figlio di Freya! Con la
collaborazione di Jack!»
Il nostro vecchio amico Tiny si fece largo a gomitate tra la folla. Aveva la maglia grigia macchiata di
idromele, la crocchia brizzolata disfatta. Proprio come ci aveva detto, in confronto agli altri giganti nella
sala era davvero minuscolo.
«Cos’avete combinato alla mia borsa?» gridò. «L’avete messa in lavatrice? È microscopica!»
«Come te!» gli urlò dietro un altro gigante.
«Sta’ zitto, Hugo!» strillò Tiny.
«Niente paura!» li rassicurò Blitzen, con un tono di voce che era il ritratto della paura. «Posso
riportare la borsa alle sue dimensioni originali! Ma prima voglio che il vostro re garantisca che ci
riconoscete i diritti di ospitalità, a noi tre e ai nostri due amici sul tavolo.»
Utgard-Loki ridacchiò. «Bene, Tiny, a quanto pare hanno fatto quello che gli hai chiesto. Ti hanno
portato la borsa.»
Tiny gesticolò con aria inerme verso la sua nuova minuscola borsa. «Ma…»
«Tiny…» lo ammonì il re, indurendo la voce.
Tiny ci guardò in cagnesco. Non sembrava più tanto tranquillo adesso. «Sì» disse a denti stretti.
«Hanno rispettato il patto. Garantisco per loro… molto, molto poco però.»
«Ecco fatto!» Utgard-Loki sorrise raggiante. «Siete tutti ufficialmente miei ospiti nella sala da
bowling!» Sollevò Sam e Hearth e li appoggiò sul pavimento. Per fortuna, la Spada e la Pietra Skofnung
erano ancora a tracolla sulla schiena di Sam.
Il re si girò e si rivolse ai giganti riuniti. «Amici miei, se intratteniamo questi ospiti nelle nostre attuali
dimensioni, ci affaticheremo la vista cercando di non calpestarli. Dovremo servirgli il cibo con le
pinzette e riempirgli i bicchieri con il contagocce. Non è divertente. Ridimensioniamo un po’ la festa,
eh?»
I giganti bofonchiarono e borbottarono, ma nessuno sembrò ansioso di contraddire il re. Utgard-Loki
schioccò le dita. La stanza ruotò. Mi si torse lo stomaco per il disorientamento.
La colossale sala da bowling rimpicciolì fino a diventare semplicemente ampia. In media, i giganti
erano alti poco più di due metri adesso. Riuscivo a guardarli senza allungare il collo o sbirciare nelle
loro narici cavernose.
Samirah e Hearthstone si affrettarono a raggiungerci.
“Stai bene?” domandò Blitz a Hearth nella lingua dei segni.
“Dove eravate finiti?” ribatté Hearth.
Samirah mi fece un sorriso sofferto, della serie: “Ti uccido dopo”. «Credevo che foste morti. E poi,
cos’è successo ai tuoi capelli?»
«È una lunga storia» risposi.
«Sì, scusateci per il ritardo» intervenne Alex. Le sue scuse furono la cosa che mi sorprese di più in
tutta la giornata. «Cosa ci siamo persi?»
Sam la fissò come a dire: “Se te lo dicessi, non mi crederesti”.
Non potevo immaginare che la sua storia fosse più strana della nostra ma, prima che riuscissimo a
confrontarci, Tiny si avvicinò a Blitzen barcollando. Afferrò la sua borsa da bowling, che adesso era
quasi della misura giusta per lui.
Aprì la cerniera e tirò un sospiro di sollievo. «Grazie al cielo! Elvis!» Prese la sua boccia da bowling
e la esaminò alla ricerca di eventuali danni. Aerografato sulla superficie c’era un Elvis Presley degli anni
Settanta, vestito con la sua tuta bianca con gli strass. «Oh, ti hanno fatto male, tesoro?» Tiny baciò la
palla e se la strinse forte al petto. Lanciò un’occhiataccia a Blitzen. «Sei fortunato a non avergli fatto del
male, nanerottolo!»
«Non mi interessa far del male a Elvis.» Blitzen strappò la borsa ormai vuota dalle mani di Tiny. «Ma
mi tengo Pellevuota per sicurezza! Potrai riaverla quando ce ne andremo da qui sani e salvi. Se tenti
qualsiasi cosa, ti avviso, la borsa cambia dimensioni solo con la parola di comando, e non la indovinerai
mai da solo.»
«Che cosa?!» urlò Tiny. «È Presley?»
«No.»
«È Graceland?»
«No.»
«Amici, amici!» Utgard-Loki ci venne incontro a braccia protese. «Oggi è il giorno del torneo!
Abbiamo degli ospiti speciali! Non sottilizziamo! Festeggiamo e gareggiamo. Che la musica abbia inizio!
Da bere per tutti!»
Le casse spararono Little Red Corvette. La maggior parte dei giganti si disperse e tornò alla
risciacquatura di idromele, al bowling o al Pac-Man, che adesso non era più mega. Sembrava che alcuni
jotnar, soprattutto quelli con la maglia grigia come Tiny, volessero ucciderci, diritti di ospitalità o meno,
ma mi consolai al pensiero che potevamo sempre giocarci l’opzione apocalisse. Alle brutte, potevamo
gridare “password” e distruggere l’intero edificio con una valanga di pelle ricamata da un nano.
Utgard-Loki diede una pacca sulla schiena a Tiny. «Coraggio, vai a berti un Succo Jotun!»
Tiny strinse Elvis fra le braccia e si diresse verso il bar, guardandoci in cagnesco da sopra le spalle.
«Utgard-Loki, ci servono delle informazioni» dissi.
«Adesso no, idiota.» Continuò a sorridere, ma il suo tono di voce era un ringhio disperato. «Fingi di
essere allegro. Fai finta che stiamo scherzando.»
«Che cosa?»
«Buona questa!» gridò il re dei giganti. «Ah, ah, ah!»
I miei amici cercarono di unirsi alla sceneggiata. «Sì, ah, ah!» disse Sam. Blitzen scoppiò in una
fragorosa risata nanica.
«Buffissimo!» aggiunse Alex senza che nessuno glielo avesse chiesto.
“A-H, A-H” concluse Hearth nella lingua dei segni.
Utgard-Loki continuò a sorridermi, ma i suoi occhi erano affilati come pugnali. «Nessun gigante tranne
me vuole aiutarvi» disse con un filo di voce. «Se non dimostrate il vostro valore, non lascerete mai
questa sala da bowling vivi.»
«Che cosa?!» sibilò Blitzen. «Ci hai promesso i diritti di ospitalità. Tu sei il re!»
«E ho utilizzato tutta la mia influenza e credibilità per cercare di aiutarvi. Altrimenti non ce l’avreste
mai fatta ad arrivare interi!»
«Aiutarci?» replicai. «Uccidendo la nostra capra?»
«E infiltrandoti nel Valhalla?» aggiunse Sam. «E possedendo un innocente istruttore di volo?»
«Tutto per dissuadere voi imbranati mortali dal cadere nella trappola di Loki. Cosa che, per il
momento, vi è riuscita.» Girò la testa e gridò a favore degli astanti. «Che arie, piccolo mortale! Ma i
giganti non li batterete mai!» Abbassò di nuovo il tono di voce. «Non tutti qui pensano che Loki debba
essere fermato. Vi dirò cosa vi serve sapere per contrastarlo, ma dovrete stare al gioco. Se non
dimostrate il vostro valore e non vi guadagnate il rispetto dei miei sudditi, io verrò detronizzato, e uno di
questi idioti diventerà il nuovo re. Dopodiché saremo tutti morti.»
Alex scrutò la folla come se tentasse di decidere quale idiota garrotare per primo. «Senti, Sua Maestà
Piumata, avresti potuto farci avere queste informazioni con un SMS o una telefonata giorni fa. Perché tutti
questi intrighi e il Godzilla gonfiabile?»
Utgard-Loki arricciò il naso e la guardò. «Non ti ho potuto mandare un messaggio, figlia di Loki, per
diverse ragioni. Ma soprattutto perché tuo padre ha i suoi modi per scoprire le cose. Non sei
d’accordo?»
Alex non rispose, il volto all’improvviso pieno di chiazze rosse.
«Unitevi alla festa» riprese il re. «Vi accompagno al vostro tavolo.»
«E poi?» domandai. «Come facciamo a dimostrare il nostro valore?»
Gli occhi di Utgard-Loki scintillarono in un modo che non mi piacque per niente. «Ci intratterrete con
gesta impressionanti. Ci batterete nella gara. Oppure morirete provandoci.»
40
LITTLE BILLY SE LO MERITAVA

La colazione dei campioni della sala da bowling: noccioline, hot dog tiepidi e triangolini di mais rancidi
con sopra una spruzzata di viscida sostanza arancione che non assomigliava per niente al formaggio.
L’idromele era svaporato e sapeva di dolcificante. Il lato positivo: le porzioni erano giganti. Non avevo
mandato giù quasi niente dal giorno prima, a parte qualche falafel e un po’ di cioccolato. Mi feci coraggio
e mangiai.
Davanti a ogni pista i giganti, seduti a squadre, si lanciavano il cibo, scherzavano e si vantavano di
quanto erano bravi ad abbattere i birilli.
Io, Sam, Hearthstone, Blitz e Alex eravamo seduti su una panca di plastica ad anello, pescando i pezzi
più commestibili nelle vaschette di cibo e osservando nervosamente la folla.
Utgard-Loki aveva insistito che ci mettessimo le scarpe da bowling, ma erano tutte troppo grandi e
arancioni e rosa fluorescenti. Quando Blitzen vide le sue, pensai che gli venisse uno shock anafilattico.
Ad Alex invece sembrava che piacessero. Almeno non ci toccò indossare maglie di squadra in tinta
coordinata.
Mentre mangiavamo, raccontammo a Sam e Hearth cosa ci era accaduto nel bosco.
Sam scosse la testa, contrariata. «Magnus, ti becchi sempre le imprese più semplici.»
Per poco non mi strozzai con una nocciolina. «Semplici?!»
«Io e Hearth siamo stati qui un giorno intero cercando di rimanere vivi. Siamo quasi morti sei volte.»
Hearth sollevò sette dita.
«Oh, giusto.» Sam annuì. «La storia dei bagni.»
Blitzen infilò i piedi sotto la panca, senz’altro per evitare di guardare le proprie orrende scarpe. «I
giganti non vi hanno concesso i diritti di ospitalità?»
«È la prima cosa che abbiamo chiesto» disse Sam. «Ma queste montagne umane… tentano sempre di
rigirare quello che dici e di ucciderti con gentilezza.»
«Come le sorelle che abbiamo incontrato a gennaio» ricordai. «Quelle che si sono offerte di sollevare
le nostre sedie all’altezza del tavolo e poi hanno cercato di schiacciarci contro il soffitto.»
Sam annuì. «Ieri ho chiesto da bere. E indovinate un po’? Il barista mi ha gettato in un boccale pieno
di birra. Innanzitutto, sono musulmana. Non bevo alcolici. E poi, le pareti del boccale erano talmente
scivolose che non riuscivo più a uscire. Se Hearth non avesse spaccato il bicchiere con una runa…»
“Dovevamo stare attenti a tutto quello che dicevamo” spiegò Hearth. “Ho chiesto un posto per
dormire…” Rabbrividì. “E per poco non sono morto stritolato nel macchinario che riporta le bocce.”
Sam tradusse per Alex.
«Ahi!» Alex trasalì. «Non c’è da meravigliarsi che abbiate questa brutta cera. Senza offesa.»
«E non è finita qui» continuò Sam. «Cercare di recitare le mie preghiere, con Hearth che montava la
guardia? Impossibile. E i giganti continuavano a sfidarci in imprese di abilità truccate.»
“Illusioni” precisò Hearthstone, roteando i palmi delle mani verso di noi a rappresentare due
immagini in movimento. “Niente qui è come sembra.”
«Esatto.» Blitz annuì con aria solenne. «Lo stesso con Tiny e la sua borsa da bowling. Utgard-Loki e
la sua gente sono famigerati per i loro poteri illusionistici.»
Mi guardai intorno, domandandomi quanto fossero effettivamente grandi i giganti e come sarebbero
apparsi senza incantesimi. Forse gli orrendi completi da bowling erano miraggi che servivano a
disorientarci. «Come si fa a sapere cosa è un’illusione e cosa è reale?»
«Ma soprattutto…» Alex sollevò un triangolino di mais intriso di un’appiccicosa sostanza arancione.
«Posso fare finta che sia un vero burrito della Taqueria di Anna?»
«Dobbiamo stare in campana» ci avvertì Sam. «Ieri sera, dopo aver formulato la nostra richiesta con
estrema attenzione, alla fine ci hanno dato dei sacchi a pelo, ma abbiamo dovuto “dimostrare la nostra
forza” aprendoli noi. Ci abbiamo provato per quasi un’ora. Non c’era verso di muoverli di un centimetro.
Utgard-Loki poi ha ammesso che erano fatti di trucioli di titanio. E tutti i giganti si sono fatti una bella
risata.»
Scossi la testa. «Non è neanche divertente!»
“Racconta del gatto” disse Hearth.
«Ah, sì!» concordò Sam. «E poi c’è la storia del gatto. Come “favore” prima di cena, dovevamo
prendere il gatto di Utgard-Loki e metterlo fuori.»
Diedi un’occhiata in giro, ma non vidi nessun gatto.
«È qui da qualche parte» mi assicurò Sam. «Peccato che non ci riuscisse di spostarlo, perché il gatto
in realtà era un elefante africano di quasi sei tonnellate. Non ce ne siamo neppure accorti finché non ce
l’hanno detto i giganti, dopo che ci abbiamo provato per ore e ci siamo persi la cena. Adorano umiliare i
loro ospiti facendoli sentire deboli e minuscoli.»
«Funziona» bofonchiò Blitz.
Immaginai di cercare di sollevare un elefante senza rendermi conto che era un elefante. Era il tipo di
cosa che di norma avrei notato.
«Come si combatte contro una cosa del genere?» domandai. «Dobbiamo impressionarli in una serie di
gare? Mi dispiace, non posso fare granché con i sacchi a pelo di titanio e gli elefanti africani della
savana.»
Sam si sporse sopra il tavolo. «Qualunque cosa vi sembri che stia succedendo, ricordatevi che è un
inganno. Uscite dai soliti schemi mentali. Fate cose impreviste. Infrangete le regole.»
«Come in qualsiasi altro giorno della mia vita» osservò Alex.
«Allora la tua esperienza tornerà utile» commentò Sam. «E poi, quello che Utgard-Loki ha detto a
proposito di volerci dare una mano? Non credo a una parola…»
«Salve, ospiti!» Per essere un tizio enorme con una maglietta da bowling di piume, il re dei giganti
riusciva a muoversi in modo davvero furtivo. Utgard-Loki si appoggiò sulla ringhiera dietro il nostro
tavolo, scrutandoci dall’alto in basso, con un corn dog in mano. «Abbiamo un minuto o poco più. Poi i
giochi devono cominciare.»
«I giochi…» disse Sam. «Come quelli a cui abbiamo partecipato ieri?»
Gli occhi di Utgard-Loki si intonavano alla maglia di piume d’aquila. Aveva uno sguardo da rapace,
come se stesse per scendere in picchiata e ghermire un roditore per cena, o forse un piccolo umano. «Su,
Samirah, devi essere comprensiva. I miei vassalli sono già sconvolti che vi abbia invitati qui. Dovete
prenderla sportivamente. Fateci divertire, dateci un grande spettacolo, dimostrate il vostro valore. Non vi
aspettate nessuna gentilezza da parte mia durante le gare. I miei uomini mi si rivolterebbero contro se
usassi un qualsiasi trattamento preferenziale.»
«Non vali molto come re, allora» notai.
Utgard-Loki sogghignò. A beneficio dei suoi sudditi, gridò: «E questo è tutto quello che riuscite a
mangiare, minuscoli mortali? Abbiamo bambini qui che mangiano più nachos di voi!». Poi mi puntò
contro il suo corn dog a mo’ di scettro e abbassò il tono della voce. «Ne sai davvero molto poco di
leadership, Magnus Chase. La regalità comporta la giusta combinazione di ferro e idromele, paura e
generosità. Per quanto la mia magia sia potente, non posso imporre la mia volontà ai miei giganti.
Saranno sempre in superiorità numerica. Devo guadagnarmi il loro rispetto tutti i giorni. E adesso dovete
farlo anche voi.»
Alex si scostò dal re. «Se per te è così pericoloso, perché dovresti aiutarci a recuperare Mjolnir?»
«Cosa vuoi che me ne importi del martello di Thor! Gli Asi hanno sempre fatto troppo affidamento sul
timore che incute. È un’arma potente, certo, ma, quando arriverà il Ragnarok, Thor sarà schiacciato dalla
superiorità numerica. Gli dei moriranno comunque. Il martello è un bluff, un’illusione di forza
travolgente.» Il gigante sorrise. «Credete a un grande mago: anche le migliori illusioni hanno i loro limiti.
Quello che mi importa non è il martello. Voglio fermare il piano di Loki.»
Blitzen si grattò la barba. «Le nozze fra Sam e Thrym? Temi questa alleanza?»
Utgard-Loki riprese a recitare, gridando per il suo pubblico: «Ah! Questi sono i più poderosi corn dog
di Jotunheim! Non hanno rivali!». Diede un violento morso e lanciò il bastoncino vuoto alle proprie
spalle. «Blitzen, figlio di Freya, usa la testa. Ovvio che temo un’alleanza. Quel brutto rospo di Thrym e
sua sorella Thrynga sarebbero ben contenti di portare Jotunheim in guerra. Con un’alleanza matrimoniale
con Loki e il martello di Thor in suo possesso, Thrym diventerebbe il capoclan dei capiclan.»
Sam strinse gli occhi. «“Con il martello di Thor in suo possesso?” Vuoi dire che se pure concludessi il
matrimonio – cosa che non farò – Thrym non restituirebbe Mjolnir?»
«Oh, lo scambio dei doni di nozze ci sarà! Ma forse non come lo immaginate voi.» Utgard-Loki si
allungò e diede un colpetto sul pomo di Skofnung, che era ancora a tracolla sulla schiena di Sam. «Su, su,
amici miei. Prima che possa darvi una soluzione, voi dovete comprendere il problema. Davvero non
capite qual è l’obiettivo di Loki?»
Dall’altra parte della sala, uno dei giganti mugghiò: «Nostro re, e le gare? Perché scherzate con quei
mortali?».
Altri giganti risero e ci subissarono di fischi.
A testa alta, Utgard-Loki sorrise ai sudditi come se fosse una cosa spassosissima. «Sì, certo! Signore e
signori di Jotunheim, diamo inizio al divertimento!» Ci guardò dall’alto in basso con occhi malvagi.
«Onorati ospiti, con quali straordinarie abilità ci impressionerete?»
Tutti i giganti si voltarono verso di noi, ansiosi di udire quale metodo avremmo scelto per fallire in
modo imbarazzante. I miei principali talenti erano fuggire e mangiare falafel, ma dopo un pesante pasto a
base di hot dog e nachos chimicamente modificati, dubitavo di poter vincere una medaglia d’oro in
nessuna delle due categorie.
«Non siate timidi!» Utgard-Loki allargò le braccia. «Chi desidera essere il primo? Vogliamo vedere di
cosa siete capaci voi campioni dei regni mortali! Ci batterete nel bere? Nella corsa? Nella lotta?»
Samirah si alzò.
In silenzio, recitai una preghiera di ringraziamento per le intrepide valchirie. Anche quando ero un
comune studente mortale, detestavo essere il primo. Il professore prometteva sempre di andarci piano con
il primo volontario o di dargli un voto in più. No, grazie. Non valeva il surplus d’ansia.
Sam trasse un profondo respiro e affrontò la folla. «Io sono abile con l’ascia» dichiarò. «Chi vuole
sfidarmi al lancio dell’ascia?»
I giganti esultarono e fischiarono.
«Bene, bene!» Utgard-Loki sembrava entusiasta. «È un’ascia molto piccola quella che hai, Samirah al-
Abbas, ma sono sicuro che la lanci bene. Mmm… Di norma, sceglierei Bjorn Cleaveskull come nostro
lanciatore d’ascia, ma non voglio che ti senta troppo inferiore. Che ne dici di gareggiare contro Little
Billy?»
Da un capannello di giganti all’estremità della sala, si alzò un bambino riccioluto di una decina
d’anni. Aveva la pancia grassottella infilata dentro una maglietta a strisce stile Dov’è Wally?, un paio di
bretelle gialle, i calzoni alla zuava e gli occhi strabici. Mentre si avvicinava, continuava a sbattere contro
i tavoli e a inciampare sulle borse da bowling, con gran divertimento degli altri giganti.
«Billy sta imparando adesso a lanciare» disse Utgard-Loki. «Ma dovrebbe essere un buon avversario
per te.»
Samirah strinse le mascelle. «Bene. Quali sono i bersagli?»
Utgard-Loki schioccò le dita. In fondo alle piste numero uno e numero tre si aprirono delle fessure nel
pavimento e schizzarono fuori due sagome di legno di Thor, con i capelli rossi arruffati e la barba fluente,
e la faccia contratta come quando ne sganciava una.
«Tre tiri a testa!» annunciò Utgard-Loki. «Samirah, vuoi cominciare tu?»
«Oh, no» rispose Sam. «Prima i bambini.»
Little Billy si avvicinò alla linea di tiro con un’andatura a papera. Accanto a lui, un altro gigante
appoggiò un fagotto di pelle per terra e lo aprì. Dentro c’erano tre tomahawk grandi quasi quanto Billy.
Il piccolo gigante sollevò a fatica la prima ascia. Con gli occhi socchiusi puntò il bersaglio lontano.
Feci in tempo a pensare: “Magari Sam se la caverà. Magari Utgard-Loki ci sta andando piano con lei,
dopotutto”. Poi Billy entrò in azione: lanciò un’ascia dietro l’altra a una velocità tale che a malapena
riuscii a seguire i suoi movimenti. Quando ebbe finito, un’ascia era conficcata nella fronte di Thor,
un’altra nel petto e la terza nel cavallo dei pantaloni del dio del tuono.
I giganti esultarono.
«Non male!» esclamò Utgard-Loki. «Adesso vediamo se Samirah, l’orgoglio delle valchirie, è capace
di battere un ragazzino strabico di dieci anni!»
Accanto a me, Alex borbottò: «È spacciata».
«Interveniamo?» chiese Blitzen, preoccupato. «Sam ci ha detto di uscire dai soliti schemi mentali.»
Mi ricordai il suo consiglio: “Fate cose impreviste”.
Strinsi le dita intorno al mio ciondolo. Mi domandai se dovessi saltare giù dalla sedia, evocare Jack e
creare un diversivo cantando un duetto di Love Never Felt So Good. Hearthstone mi salvò dall’imbarazzo
sollevando le dita: “Aspetta”.
Sam studiò l’avversario. Fissò le asce che Little Billy aveva piantato nel bersaglio e sembrò arrivare
a una conclusione. Si spostò sulla linea di tiro e sollevò l’ascia.
Un rispettoso silenzio calò nella sala. O forse i nostri ospiti stavano solo trattenendo il respiro per
scoppiare a ridere non appena Sam avesse sbagliato.
Con un unico movimento fluido, Sam si girò e tirò l’ascia contro Billy. I giganti rimasero a bocca
aperta.
Little Billy fissò l’ascia che gli spuntava dalla fronte, con gli occhi ancora più storti, poi cadde
all’indietro e si schiantò a terra.
I giganti ruggirono per l’indignazione. Alcuni si alzarono e misero mano alle armi.
«Un attimo!» mugghiò Utgard-Loki. Lanciò un’occhiata torva a Sam. «Dacci una spiegazione,
valchiria! Perché non dovremmo ucciderti per quello che hai appena fatto?»
«Perché era l’unico modo per vincere la gara» rispose Sam.
Considerato quello che aveva fatto, e considerato il numero di giganti pronti a farla a pezzi, Sam
sembrava notevolmente calma. Indicò il cadavere di Little Billy. «Lui non è un gigante bambino!»
Lo affermò con tutta l’autorità di un detective della TV , ma io notai una goccia di sudore che le
scendeva da sotto il bordo dello hijab. Riuscivo quasi a percepire i suoi pensieri: “Ti prego, fa’ che non
mi sbagli. Ti prego, fa’ che non mi sbagli”.
La folla di giganti fissò il cadavere di Little Billy: sembrava ancora un gigante bambino, morto e mal
vestito. Sapevo che da un momento all’altro la folla avrebbe attaccato Samirah e che noi avremmo dovuto
darcela a gambe.
Poi, lentamente, il gigante bambino cominciò a cambiare. La sua pelle avvizzì, finché Little Billy non
assomigliò a uno dei draugr del principe Gellir. Le labbra coriacee si arricciarono sopra i denti. Una
pellicola gialla gli coprì gli occhi. Le unghie si allungarono fino a formare delle luride falci. Lo zombie
di Little Billy si alzò in piedi a fatica e si strappò l’ascia dalla fronte. Sibilò verso Sam.
Un’ondata di terrore invase la sala. Alcuni giganti fecero cadere i boccali. Altri crollarono in
ginocchio e scoppiarono a piangere. Le budella mi si torsero in un nodo.
«S-sì» dichiarò Sam, con voce molto più esile, adesso. «Come potete vedere, non è Little Billy. È
Paura, che colpisce in fretta e fa sempre centro. E l’unico modo per sconfiggere Paura è l’attacco diretto.
Come ho fatto io. Ed è per questo che ho vinto la gara.»
Paura gettò a terra l’ascia di Sam e con un ultimo terrificante sibilo si dissolse in una nuvola di fumo
bianco.
Un sospiro di sollievo collettivo si diffuse nella sala. Diversi giganti si precipitarono al gabinetto,
probabilmente per vomitare o cambiarsi le mutande.
Sussurrai a Blitzen: «Come diavolo faceva a saperlo? Come poteva essere Paura, quel coso?».
Anche Blitzen aveva uno sguardo sospettoso. «Su-suppongo che Sam avesse già incontrato Paura. Ho
sentito dire che i giganti sono in buoni rapporti con un sacco di divinità minori: Rabbia, Fame, Malattia.
A quanto pare, Vecchiaia giocava a bowling con gli Ultras di Utgard, anche se non molto bene. Ma non
avrei mai pensato di incontrare Paura in persona…»
Alex rabbrividì. Hearthstone sembrava incupito, ma non sorpreso. Mi domandai se lui e Sam avessero
fatto la conoscenza di altre divinità minori durante le loro ventiquattr’ore di torture.
Ero contento che fosse stata Sam la prima, e non io. Con la fortuna che mi ritrovavo, mi avrebbero
fatto combattere contro Felicità e sarei stato costretto a colpirla con la spada fino a farla smettere di
sorridere.
Utgard-Loki si girò verso Sam, con un piccolo bagliore di ammirazione negli occhi. «Suppongo che
non ti uccideremo, allora, Samirah al-Abbas, dato che hai fatto quello che era necessario per vincere. Ti
aggiudichi il round!»
Il sollievo si dipinse sul volto di Sam. «Quindi abbiamo dimostrato il nostro valore? La gara è
finita?»
«Oh, non ancora!» Il re sgranò gli occhi. «E i nostri altri quattro ospiti? Dobbiamo vedere se sono
bravi come te!»
41
NEL DUBBIO, TRASFORMATI IN UN INSETTO CHE PUNGE

Cominciavo a detestare il Grande Torneo di Bowling di Utgard.


Fu il turno di Hearthstone. Nella lingua dei segni si rivolse alla sala giochi e, con me che traducevo,
sfidò i giganti a proporre contro di lui il loro giocatore più bravo in un gioco qualsiasi a scelta dei
concorrenti. La squadra degli Jotun Jammers di Hugo nominò un tizio di nome Kyle, che si diresse alla
pista di skee ball e fece un tiro perfetto da mille punti. Mentre i giganti esultavano, Hearthstone andò al
flipper di Starsky e Hutch e inserì una moneta rossa nella fessura.
«Aspetta!» protestò Hugo. «Non è neanche lo stesso gioco!»
«Non è obbligatorio» precisai. «Hearth ha detto “un gioco qualsiasi a scelta dei concorrenti”, al
plurale. Il vostro uomo ha scelto lo skee ball. Hearth sceglie il flipper.»
I giganti brontolarono, ma alla fine cedettero.
Blitzen mi fece un gran sorriso. «Ti meriti un premio, figliolo. Hearth è un mago.»
«Lo so.»
«No, intendo un mago del flipper.»
Hearthstone sparò la prima pallina. Non lo vidi usare nessuna magia, ma non ci mise molto a superare
di gran lunga il punteggio di Kyle, cosa che, lo ammetto, non era corretta, perché i flipper salgono molto
al di sopra dei mille punti. Anche dopo aver superato i cinquecento milioni, Hearth continuò a giocare.
Spingeva il flipper e colpiva i pulsanti con una tale concentrazione che mi domandai se stesse pensando a
suo padre e a tutte le monete che gli aveva fatto raccogliere in cambio di buone azioni. Con il flipper,
Hearth diventò rapidamente un finto miliardario.
«Basta!» gridò Utgard-Loki, staccando la presa alla macchina. «Hai dimostrato la tua bravura! Siamo
tutti d’accordo, credo, che questo elfo sordo giochi a flipper alla grande. Chi è il prossimo?»
Blitzen propose ai giganti una sfida di restyling totale. Assicurò che avrebbe potuto trasformare
qualsiasi gigante in una creatura più elegante e alla moda. I giganti elessero all’unanimità uno jotun di
nome Grum che, a quanto pareva, dormiva sotto il bancone da quarant’anni, accumulando sporco e
laniccio. Ero abbastanza sicuro che si trattasse della divinità minore Pessima Igiene.
Blitzen non si scoraggiò. Tirò fuori il kit da cucito e si mise al lavoro. Gli ci vollero diverse ore per
mettere insieme degli abiti nuovi con le cianfrusaglie scovate nel negozio di souvenir della sala da
bowling. Poi portò Grum in bagno per un vero e proprio trattamento di bellezza. Quando riemersero,
Grum aveva le sopracciglia depilate, un taglio di barba e capelli più curato di quello di un hipster
metrosexual e indossava una maglia da bowling color oro scintillante con la scritta GRUM cucita sul
davanti, pantaloni argentati e scarpe da bowling abbinate. Le gigantesse andarono in delirio. I giganti lo
lasciarono passare scostandosi lentamente, intimiditi dal suo carisma da star. Grum si infilò di nuovo
sotto il bancone e cominciò a russare.
«Non posso correggere le cattive abitudini» disse Blitzen. «Ma lo avete visto. Ho vinto la gara o no?»
Ci furono tanti borbottii, ma nessuno osò discutere. Nemmeno il livello più estremo di bruttezza
magica poteva reggere il confronto con una laurea nanica in fashion design.
Utgard-Loki si chinò verso di me e sussurrò: «Ve la state cavando alla grande! Dovrò aumentare le
probabilità di morte dell’ultima sfida, se voglio consolidare il rispetto dei miei vassalli».
«Aspetta, cosa?»
Il premuroso re sollevò le mani verso la folla. «Signore e signori di Jotunheim! Abbiamo degli ospiti
davvero notevoli, ma non temete. Avremo la nostra vendetta! Il destino vuole che ne rimangano due, il
numero perfetto per un doppio di bowling. E visto che il bowling è il motivo per cui siamo riuniti qui
oggi, che i nostri due ultimi visitatori affrontino i campioni in carica, i Tacchini di Tiny!»
I giganti levarono grida e schiamazzi festosi. Tiny mi guardò e si passò un dito sulla gola: quanto ero
stufo di vedere quel gesto!
«I vincitori riceveranno il solito premio» annunciò Utgard-Loki. «Ovviamente, la testa degli
sconfitti!»
Lanciai un’occhiata ad Alex Fierro e mi resi conto che ormai eravamo una quadra.
«Immagino sia un brutto momento per dirtelo, ma non ho mai giocato a bowling» confessò Alex.

I nostri avversari della squadra di Tiny erano due fratelli con nomi fantastici: Herg e Blerg. Difficile
distinguerli l’uno dall’altro. Oltre a essere gemelli identici, indossavano maglie grigie e caschi da
football americano coordinati, questi ultimi probabilmente per impedirci di lanciargli un’ascia in fronte.
Le uniche differenze che riuscii a scorgere erano le bocce da bowling. Su quella di Herg c’era
l’immagine aerografata di Prince (forse era stato lui a fornire la playlist del bar). Il fratello Blerg invece
ne aveva una rossa con sopra la faccia di Kurt Cobain. Continuava a guardare avanti e indietro fra me e
la sua boccia, come se cercasse di immaginarmi senza il mio nuovo taglio di capelli.
«Bene, amici miei!» annunciò Utgard-Loki. «Giocheremo una partita abbreviata di tre frame!»
Alex si chinò verso di me. «Che cos’è un frame?»
«Sssh» le dissi. In realtà, stavo tentando di ricordarmi le regole. Erano anni che non giocavo. C’era
una sala da bowling nel Valhalla ma, dato che gli einherjar facevano quasi tutto all’ultimo sangue, non
avevo avuto molta voglia di provare.
«Una gara molto semplice: il punteggio più alto vince» continuò Utgard-Loki. «La prima squadra a
giocare: gli Insignificanti Mortali!»
Mentre noi due “insignificanti mortali” ci incamminavamo verso la buca di recupero delle bocce,
nessuno esultò.
«Che te ne pare?» sussurrò Alex.
«Fondamentalmente, devi far rotolare la boccia lungo la pista e buttare giù i birilli» le dissi.
Mi guardò malissimo, l’occhio più chiaro due volte più acceso e arrabbiato di quello scuro. «Fin qui
ci arrivo. Ma dobbiamo infrangere le regole, giusto? Qual è l’illusione in questo caso? Pensi che Herg e
Blerg siano divinità minori?»
Lanciai un’occhiata a Sam, Blitz e Hearth, che erano stati costretti a guardare la partita da dietro la
ringhiera. Le loro facce non mi dissero niente di più di quello che già sapevo: eravamo nei guai fino al
collo. Strinsi le dita intorno al ciondolo e pensai: “Ehi, Jack, qualche consiglio?”.
Jack ronzò mezzo addormentato, come tende a fare quando è sotto forma di ciondolo. “No.”
“Grazie! Grande assist della spada magica!”
«Insignificanti Mortali!» gridò Utgard-Loki. «C’è qualche problema? Volete dare forfait?»
«No!» risposi. «No, tutto a posto.» Trassi un respiro profondo. «Okay, Alex, abbiamo tre frame. Ehm,
tre mani. Vediamo come va la prima. Magari ci verrà qualche idea. Guarda come lancio io.»
Era un’affermazione che mai avrei pensato di pronunciare. Il bowling non era uno dei miei
superpoteri. Ciononostante, entrai nell’area di approccio con la mia palla rosa decorata con un disegno di
dadi di peluche (ehi, era l’unica della misura giusta per le mie dita). Tentai di ricordare i suggerimenti
che ci aveva dato il signor Gent, il mio insegnante di educazione tecnica alle medie. Raggiunsi la linea di
fallo, mirai e lanciai con tutta la mia potenza di einherji.
La palla rotolò lentamente, con fiacchezza, e si fermò a metà pista.
I giganti si sbellicarono dalle risate.
Recuperai la boccia e tornai indietro, col viso in fiamme.
Mentre passavo davanti ad Alex, lei borbottò: «Grazie, è stato molto istruttivo».
Ritornai a sedere al mio posto. Dietro la ringhiera, Sam aveva un’espressione truce. Nella lingua dei
segni Hearthstone mi diede un consiglio utilissimo: “Tira meglio”. Blitzen sorrise e alzò i pollici, e io mi
domandai se conoscesse le regole del bowling.
Alex si avvicinò alla linea di tiro. Prese la boccia con entrambe le mani, la sollevò fra le gambe e la
gettò sulla pista. La sfera blu rimbalzò una, due volte, e poi rotolò un po’ più lontano di quanto avesse
fatto la mia prima di ruzzolare nel canale.
Altre risate della folla di jotun. Alcuni si scambiarono un cinque. Monete d’oro passavano di mano in
mano.
«È il momento dei Tacchini di Tiny!» gridò Utgard-Loki.
Si levò uno scroscio di applausi mentre Herg si dirigeva verso la pista accanto.
«Aspetta un attimo!» esclamai. «Non devono usare la nostra stessa pista?»
Tiny si fece largo tra la folla, con gli occhi sgranati falsamente innocenti. «Oh, ma il re non ha mica
detto niente al riguardo! Ha detto soltanto: “Il punteggio più alto vince”. Andate avanti, ragazzi!»
Herg tirò la testa di Prince. La boccia rotolò alla velocità di un lampo al centro della pista e si
schiantò sui birilli con un rumore simile a una marimba che esplode.
I giganti esultarono e agitarono i pugni.
Herg si girò, sorridendo dietro la maschera del casco da football. Diede una pacca sulla spalla a
Blerg e ci scambiò qualche parola.
«Devo scoprire cosa si stanno dicendo» disse Alex. «Torno subito.»
«Ma…»
«DEVO FARE PIPÌ!» gridò Alex.
Alcuni giganti non presero molto bene l’interruzione, ma in genere quando qualcuno grida: “Devo fare
pipì” in mezzo a una folla, la gente lo lascia passare. Le alternative non sono il massimo.
Alex scomparve nella toilette delle bambine dei giganti. Nel frattempo, Herg si avvicinò all’area di
approccio, sollevò la boccia con Kurt Cobain e la fece rotolare sulla pista. La faccia di Cobain
comparve e scomparve a intermittenza – hello, hello, hello – finché non andò a schiantarsi sui birilli
mandandoli per aria con spirito da vero rocker.
«Un altro strike!» gridò Tiny.
Grida di esultanza e idromele per tutti, tranne che per me e per i miei amici.
Blerg e Herg si incontrarono alla buca di recupero delle bocce, ridacchiando sotto i baffi e guardando
nella mia direzione.
Mentre la folla stava ancora festeggiando e facendo nuove scommesse, Alex ritornò dal bagno.
«HO FATTO PIPÌ!» annunciò. Poi corse da me e mi prese per un braccio, sussurrando: «Ho sentito
cosa si sono detti Herg e Blerg».
«Come hai fatto?»
«Ho origliato. Mi sono trasformata in un tafano. È una cosa che faccio spesso.»
«Oh.» Lanciai un’occhiata a Sam: era parecchio imbronciata. «Un tafano… sì, sì, ho presente.»
«La loro pista è una normale pista da bowling» proseguì Alex. «Ma la nostra… non so. Ho sentito
Herg che diceva: “Gli auguro buona fortuna, a colpire le White Mountains”.»
«Le White Mountains» ripetei. «Nel New Hampshire?»
Alex si strinse nelle spalle. «A meno che non esistano le White Mountains anche a Jotunheim. In
entrambi i casi, quelli non sono birilli.»
Con gli occhi socchiusi, scrutai in fondo alla nostra pista, ma i birilli sembravano ancora birilli, non
montagne. Del resto, però, neanche Little Billy sembrava Paura… finché non lo era diventato.
Scossi la testa. «Com’è possibile…?»
«Non ne ho la minima idea» rispose Alex. «Ma se le nostre bocce rotolano verso una catena montuosa
in un altro mondo…»
«Non arriveremo mai in fondo alla pista. E di sicuro non butteremo mai giù nessun birillo. Come
facciamo a spezzare l’incantesimo?»
«Forza, Insignificanti Mortali!» gridò Tiny. «Basta tergiversare!»
Era difficile pensare con una folla di giganti che mi urlava contro. «N-non ne sono sicuro» dissi ad
Alex. «Mi serve altro tempo. Ora come ora, la cosa migliore che mi viene in mente è sabotare la loro
pista.»
Era una soluzione impulsiva, lo ammetto. Ma mi lanciai verso la linea di fallo e con tutta la forza che
avevo tirai la mia palla rosa sulla pista di Herg e Blerg. La boccia atterrò con una potenza tale che
incrinò il pavimento di legno massello, rimbalzò all’indietro verso la folla e cadde su uno degli
spettatori, che schiamazzò come una gallina impaurita.
«Oooh!» esclamò il pubblico.
«Che è stato?» mugghiò Tiny. «Hai spaccato la testa a Eustis!»
Utgard-Loki si alzò dal trono, accigliato. «Tiny ha ragione, mortale. Non puoi lanciare la boccia dove
vuoi. Una volta scelta una pista, devi rimanere su quella.»
«Non l’aveva detto nessuno» protestai.
«Bene, lo dico io adesso! Proseguite il frame!»
Un gigante dal pubblico mi restituì la boccia rosa.
Guardai Alex, ma non avevo consigli da darle. Come si tira una palla quando l’obiettivo è una catena
montuosa?
Alex borbottò qualcosa sottovoce e, avvicinandosi alla pista, si trasformò in un grosso grizzly. Avanzò
barcollando sulle zampe posteriori, con la boccia da bowling stretta in quelle davanti. Raggiunta la linea
di fallo, si mise carponi e scagliò la boccia attingendo a centocinquanta chili di pura forza. La palla si
fermò a un soffio dal primo birillo.
I giganti esalarono un sospiro di sollievo collettivo.
«Adesso tocca a noi!» Tiny si strofinò i palmi delle mani con impazienza. «Forza, ragazzi!»
«Ma, capo!» esclamò Herg. «Sulla nostra pista c’è un’ammaccatura enorme.»
«Spostati sulla pista accanto» suggerì Tiny.
«Oh, no!» protestai io. «Hai sentito il re: una volta scelta una pista, devi rimanere su quella.»
Tiny ringhiò. Anche il tatuaggio di Elvis sul suo braccio sembrava arrabbiato. «Bene! Herg, Blerg,
fate del vostro meglio. Avete già un vantaggio imbattibile.»
Herg e Blerg non sembravano contenti, tuttavia giocarono il loro secondo frame. Riuscirono a evitare
l’ammaccatura sulla pista, però entrambi fecero finire le bocce nel canale, senza segnare altri punti.
«Va bene così!» li rassicurò Tiny. Guardò Alex e me con un sorriso di scherno. «Ero tentato di
calpestarvi nella foresta, ma sono contento di non averlo fatto. A meno che non giochiate un ultimo frame
perfetto, non riuscirete neanche a pareggiare. Vediamo come ve la cavate, mortali. Non vedo l’ora di
tagliarvi la testa!»
42
OPPURE BRILLA COME UNA LAMPADINA. ANCHE QUESTO FUNZIONA

Certe persone vanno pazze per le bevande energetiche. E io? Per quanto mi riguarda, trovo che la
minaccia di un’imminente decapitazione mi svegli altrettanto bene.
Preso dal panico, mi girai verso i miei amici. Nella lingua dei segni, Hearthstone mi disse: “F-R-E-Y-
R”.
“Sì, Hearth, è mio padre” pensai.
Ma non avevo idea di come la cosa potesse aiutarmi. Il dio dell’estate non sarebbe mica comparso in
tutta la sua gloria per buttare giù le White Mountains per me. Era il dio degli spazi aperti. Neanche morto
sarebbe venuto in una sala da bowling…
Un’idea cominciò a instillarsi nella mia mente come un rivolo di sciroppo d’acero. Gli spazi aperti.
Le White Mountains. Il potere di Freyr. Sumarbrander, la spada di Freyr, che apriva i varchi fra i mondi.
E una cosa che Utgard-Loki aveva detto: “Anche le migliori illusioni hanno i loro limiti”.
«Insignificanti Mortali!» gridò Utgard-Loki. «Rinunciate?»
«No!» replicai urlando. «Un attimo.»
«Devi fare pipì?»
«No! Devo solo… devo parlare con la mia compagna di squadra prima che ci decapitiate.»
Utgard-Loki scrollò le spalle. «Mi sembra giusto. Fa’ pure.»
Alex si avvicinò. «Ti prego, dimmi che hai un’idea.»
«Hai detto che sei stata alle Bridal Veil Falls. Sei stata spesso sulle White Mountains?»
«Sì, certo.»
«Secondo te, è in qualche modo possibile che quei birilli siano davvero le White Mountains?»
Alex aggrottò la fronte. «No. Non credo che esista qualcuno così potente da teletrasportare un’intera
catena montuosa in una sala da bowling.»
«Concordo. La mia teoria è che… quei birilli siano solo birilli. I giganti non possono trasportare una
catena montuosa in una sala da bowling, però possono spedire le nostre bocce da bowling fuori dalla
sala. C’è una specie di portale fra i mondi proprio in mezzo alla nostra pista. È nascosto dalle illusioni o
roba del genere, ma sta spedendo le nostre bocce nel New Hampshire.»
Alex fissò in fondo alla pista. «Be’, se fosse così, perché la mia palla è tornata dalla buca di
recupero?»
«Non lo so! Magari ci hanno messo una palla identica per non fartene accorgere.»
Alex strinse i denti. «Che razza di meinfretr imbroglioni. Che facciamo?»
«Tu conosci le White Mountains. Io pure. Voglio che guardi in fondo alla pista e ti concentri per
vedere quelle montagne. Se lo facciamo tutti e due insieme, magari riusciamo a rendere visibile il
portale. E poi, forse, io posso dissolverlo.»
«Vuoi dire… cambiando la nostra percezione?» domandò Alex. «Tipo… la guarigione mentale che hai
fatto ad Amir?»
«Qualcosa del genere.» Avrei voluto avere più fiducia nel mio piano. Dal modo in cui Alex lo aveva
descritto, sembravo un guru New Age. «Ma, senti, funzionerebbe meglio se io ti tenessi per mano. E…
non posso prometterti, ecco, che non percepirò niente della tua vita.»
La vidi vacillare mentre soppesava le alternative.
«Per cui o perdo letteralmente la testa o ti faccio entrare nella mia testa» borbottò. «Scelta difficile.»
Mi prese per mano. «Facciamolo!»
Studiai il fondo della pista. Immaginai un portale fra noi e i birilli: una finestra che si affacciava sulle
White Mountains. Ripensai alle gite che facevamo con la mamma nel fine settimana, all’entusiasmo che
mi prendeva quando lei scorgeva per la prima volta le montagne all’orizzonte: “Guarda, Magnus, siamo
vicini!”.
Attinsi al potere di Freyr. Irradiai calore. La mano che stringeva quella di Alex Fierro cominciò a
fumare. Una luce dorata e scintillante ci avvolse entrambi, come il sole di mezza estate che consuma la
nebbia e distrugge le ombre.
Con la coda dell’occhio, vidi i giganti che trasalivano e si coprivano la faccia. «Smettetela!» urlò
Tiny. «Ci accecate!»
Rimasi concentrato sui birilli. La luce si fece più brillante. Mi sfrecciarono per la testa dei pensieri di
Alex Fierro a caso: il suo combattimento fatale con i lupi; un uomo dai capelli scuri in tenuta da tennis
che le urlava di andarsene e di non tornare; Alex a dieci anni, con un gruppo di ragazzini intorno che la
prendevano a calci e le davano del fenomeno da baraccone, mentre lei se ne stava raggomitolata
cercando di proteggersi, troppo impaurita per mutare forma.
La rabbia mi bruciava nel petto. Non sapevo se fosse un’emozione mia o di Alex, ma entrambi ne
avevamo avuto abbastanza di illusioni e falsità.
«Laggiù!»
Al centro della pista comparve uno squarcio luccicante, come quelli che Jack praticava fra i mondi.
Dall’altro lato, in lontananza, si stagliava la cima innevata del Monte Washington. Poi il portale si
incenerì. La luce dorata intorno a noi si dissolse, lasciando una normale pista da bowling con i birilli in
fondo, identica a prima.
Alex tirò via la mano. Si asciugò rapidamente una lacrima. «Ce l’abbiamo fatta?»
Non sapevo cosa dire.
«Insignificanti Mortali!» intervenne Utgard-Loki. «Che è stato? Producete sempre una luce accecante
quando vi consultate?»
«Vi chiedo scusa!» gridai alla folla. «Ora siamo pronti!»
Almeno lo speravo. Forse eravamo riusciti a distruggere l’illusione e chiudere il portale. O forse
Utgard-Loki mi stava semplicemente facendo credere che avevo dissolto il suo inganno. Poteva essere
un’illusione dentro un’illusione. Decisi che non aveva senso chiedere troppo al mio cervello in quelli che
potevano essere i suoi ultimi minuti di vita attaccato al mio collo.
Sollevai la mia stupida boccia rosa con i dadi. Mi spostai sulla linea di fallo e la feci rotolare dritta al
centro della pista.
Devo dirvelo, il rumore dei birilli che cadevano fu la cosa più bella che udii in tutta la giornata
(scusa, Prince, sei arrivato secondo per un pelo).
Blitzen urlò: «Strike!».
Samirah e Hearthstone si abbracciarono, cosa che nessuno dei due tendeva a fare molto spesso.
Alex sgranò gli occhi. «Ha funzionato? Ha funzionato!»
Le sorrisi. «L’unica cosa che devi fare adesso è buttare giù tutti i tuoi birilli, così pareggiamo. Potresti
mutare forma in qualche…?»
«Oh, non preoccuparti.» Il sorriso malvagio che mi rivolse era al cento per cento eredità di sua madre,
Loki. «So come cavarmela.» Alex assunse dimensioni enormi, le sue braccia si trasformarono in grosse
zampe, la pelle diventò grigia e rugosa, il naso si allungò a formare una proboscide di sei metri.
Si era trasformata in un elefante africano, anche se un gigante spaesato in fondo alla sala gridò: «È un
gatto!».
Con la proboscide, Alex sollevò la boccia. Corse verso la linea di fallo e lanciò, battendo i piedi per
terra con tutto il proprio peso. La sala tremò. Alex non solo aveva abbattuto i birilli della nostra pista, ma
con la potenza dei suoi passi aveva fatto sparire i birilli di tutte le altre, diventando il primo elefante
della storia – almeno a quanto ne sapevo io – a segnare un colpo perfetto da trecento punti, ovvero dodici
strike, con un solo tiro.
Forse, e dico forse, mi misi a saltellare battendo le mani come una bambina di cinque anni che ha
appena ricevuto in regalo un pony (non vi avevo detto di non giudicare?).
Sam, Hearth e Blitz si precipitarono verso di noi e ci strinsero in un grande abbraccio di gruppo,
mentre la folla dei giganti ci guardava con aria stizzita.
Herg e Blerg gettarono a terra i loro caschi da football.
«Non batteremo mai questo punteggio!» mugolò Herg. «Prendete le nostre teste!»
«I mortali barano!» si lamentò Tiny. «Prima hanno rimpicciolito la mia borsa e hanno offeso Elvis!
Adesso hanno disonorato la mia squadra di bowling!»
I giganti cominciarono ad avanzare verso di noi.
«Fermi!» Utgard-Loki sollevò le braccia. «Questa è ancora la mia sala da bowling, e questi
concorrenti hanno vinto… ehm, in modo netto, anche se non leale.» Si girò verso di noi. «Il solito premio
è vostro. Volete le teste mozzate di Herg e Blerg?»
Alex e io ci scambiammo un’occhiata. Concordammo tacitamente che le teste mozzate non si
intonavano affatto con lo stile delle nostre stanze d’albergo.
«Utgard-Loki, l’unica cosa che vogliamo sono le informazioni che ci avevi promesso» dissi.
Il re si voltò verso la folla e allargò i palmi delle mani come per dire: “Cosa ci volete fare?”. «Amici
miei, dovete ammettere che questi mortali hanno fegato. Per quanto abbiamo cercato di umiliarli, sono
stati loro a umiliare noi. E c’è qualcosa che noi giganti della montagna rispettiamo più della capacità di
umiliare i propri nemici?»
Gli altri giganti bofonchiarono a malincuore che erano d’accordo.
«Desidero aiutarli!» annunciò Utgard-Loki. «Credo che abbiano dimostrato il loro valore. Quanto
tempo mi date?»
Non capii bene la domanda, ma i giganti borbottarono fra loro.
Tiny si fece avanti. «Direi cinque minuti. Siete tutti a favore?»
«Sììì!» gridò la folla.
Utgard-Loki si inchinò. «Più che giusto. Venite, miei ospiti, andiamo fuori a parlare.»
Mentre ci accompagnava fuori passando attraverso il bar, gli chiesi: «Ehm… Cosa succede fra cinque
minuti?».
Utgard-Loki sorrise. «Oh, a quel punto i miei vassalli saranno liberi di darvi la caccia e uccidervi. Li
avete umiliati, dopotutto.»
43
CONTINUI A USARE LA PAROLA “AIUTO”, MA CREDO ABBIA UN SIGNIFICATO
DIVERSO DA QUELLO CHE GLI DAI TU

Arrivati sul retro della sala da bowling, Utgard-Loki ci condusse lungo un sentiero ghiacciato e poi
dentro un ampio tratto di foresta, mentre io lo tempestavo di domande tipo: «Darci la caccia? Ucciderci?
Che cosa?!». Lui mi rispondeva con delle pacche sulle spalle e ridacchiava come se fosse uno scherzo
fra noi.
«Siete stati tutti molto bravi!» dichiarò mentre camminavamo. «Di solito abbiamo ospiti noiosi come
Thor. Io gli dico: “Thor, bevi tutto questo idromele”. E lui continua a provarci imperterrito! Non gli passa
neanche per la testa che il boccale sia collegato all’oceano e che non potrà mai finirlo.»
«Come si fa a collegare un boccale all’oceano?» chiese Sam. «Anzi no, lascia stare. Abbiamo
questioni più importanti da affrontare.»
«Cinque minuti?» gli domandai di nuovo.
Il gigante mi diede delle botte sulla schiena come se tentasse di liberarmi da qualcosa che mi era
andato di traverso, forse la gola o il cuore. «Ah, Magnus! Devo ammetterlo, quando hai tirato quel primo
frame mi sono innervosito. Poi il secondo… be’, la forza pura e semplice non avrebbe mai funzionato,
ma bel tentativo. Alex, la tua boccia è quasi arrivata al Taco Bell sulla I-93 di Manchester.»
«Grazie» disse Alex. «Era quello il mio obiettivo.»
«Poi però voi due avete spezzato l’illusione!» Utgard-Loki era raggiante. «È stata un’ottima idea. E,
certo, la bravura dell’elfo al flipper, gli accessori di moda del nano, Sam che tira l’ascia in faccia a
Paura… Bravissimi, tutti quanti! Sarà un onore massacrarvi al Ragnarok.»
Blitzen fece un verso di scherno. «Il sentimento è reciproco. Adesso credo che tu ci debba delle
informazioni.»
«Sì, certo.» Utgard-Loki mutò forma. All’improvviso ci ritrovammo davanti il capricida con le sue
pellicce nere, la cotta di maglia sporca di fuliggine e l’elmo di ferro, la faccia coperta da una visiera con
il muso di un lupo che ringhia.
«Potresti toglierti la maschera?» gli chiesi. «Per favore!»
Utgard-Loki alzò la visiera. Sotto, la faccia era la stessa di prima, con gli occhi scuri illuminati da un
bagliore omicida. «Ditemi, amici miei, avete scoperto il vero obiettivo di Loki?»
Hearthstone incrociò i palmi, chiuse le mani a pugno e poi le separò come se strappasse un foglio:
“Distruggere”.
Utgard-Loki ridacchiò. «Perfino io ho capito questo segno. Sì, mio caro mago del flipper, Loki vuole
distruggere i suoi nemici. Ma non è la sua più grande preoccupazione, al momento.» Si girò verso Sam e
Alex. «Voi due siete figli suoi. Sapete sicuramente di cosa sto parlando.»
Samirah e Alex si scambiarono un’occhiata imbarazzata. Ebbero la tipica conversazione muta tra
fratelli: “Tu lo sai? No, pensavo che lo sapessi tu! Invece no; pensavo che lo sapessi tu!”.
«Vi ha attirati nel tumulo dello spettro» ci incalzò Utgard-Loki. «Nonostante i miei migliori sforzi, ci
siete andati. E…?»
«Non c’era nessun martello» disse Blitzen. «Solo una spada. Una spada che io odio dal profondo del
cuore.»
«Esatto…» Il gigante aspettò che fossimo noi a rimettere insieme i vari pezzi. Detestavo quando lo
facevano gli insegnanti. Avrei voluto urlare: “Non mi piacciono i puzzle!”.
Tuttavia capii dove voleva andare a parare. L’idea aveva cominciato a prendere forma nella mia
mente da tempo, credo, ma l’inconscio aveva tentato di cancellarla. Ricordai la visione di Loki disteso
nella sua grotta, legato a due colonne di pietra con le viscere calcificate dei suoi figli assassinati.
Ricordai il serpente che colava veleno sulla faccia del dio, e il modo in cui Loki aveva giurato: “A
presto, Magnus!”.
«Loki vuole la libertà» dissi.
Utgard-Loki gettò la testa all’indietro e rise. «Esatto, Magnus Chase! Congratulazioni! È quello che
vuole da migliaia di anni.»
Samirah sollevò un palmo della mano come per scacciare quel pensiero. «No, questo non può
succedere.»
«Eppure, a tracolla sulla tua schiena, c’è proprio l’arma che potrebbe liberarlo» replicò Utgard-Loki.
«La Spada Skofnung!»
La catenina che avevo al collo cominciò a strangolarmi, con il ciondolo che tirava sulla clavicola
come se cercasse di avvicinarsi a Sam. Jack doveva essersi svegliato al nome “Skofnung”. Lo rimisi a
posto, e probabilmente sembrò che avessi una pulce nella camicia.
«Non si è mai trattato del martello di Thor» capii all’improvviso. «Loki vuole la spada.»
Utgard-Loki fece spallucce. «Be’, il furto del martello è stato un buon catalizzatore. Immagino che sia
stato Loki a sussurrare l’idea nell’orecchio di Thrym. Dopotutto, il nonno di Thrym una volta rubò il
martello di Thor, e non finì molto bene. È una vita che Thrym e sua sorella muoiono dalla voglia di
vendicarsi sul dio del tuono.»
«Il nonno di Thrym?» Mi tornò in mente la dicitura sull’invito al matrimonio: Thrym, figlio di Thrym,
figlio di Thrym.
«Potrai chiederlo a Thor quando lo vedrai, cosa che sono sicuro accadrà molto presto» tagliò corto
Utgard-Loki. «Ma il punto è che Loki ha consigliato il furto a Thrym, e poi ha predisposto le cose in
modo che un gruppo di eroi come voi non avesse altra scelta se non tentare di recuperare il martello… e,
così facendo, portasse a lui quello che vuole davvero.»
«Aspetta.» Alex mise le mani a coppa come se stesse lavorando un pezzo di argilla sul tornio. «Noi
dobbiamo consegnare la spada a Thrym. Come…?»
«Il prezzo della sposa.» Sam sembrò sentirsi male all’improvviso. «Oh, che idiota che sono!»
Blitz si accigliò. «Ehm… certo, io sono un nano. Non capisco le vostre tradizioni patriarcali, ma il
prezzo della sposa non è qualcosa che si dà allo sposo?»
Sam scosse la testa. «Ero così presa dal tentativo di rifiutare questo matrimonio, di scacciarlo dalla
mia mente, che non ho pensato a… alle antiche tradizioni matrimoniali norrene.»
«Che sono anche tradizioni jotun» concordò Utgard-Loki.
Hearthstone soffiò col naso come per scacciare qualcosa che gli era entrato nelle narici. Scandì: “M-
u-n-d-r?”.
«Sì, il mundr.» Sam annuì. «Il termine in antico norreno per il prezzo della sposa. Che non va allo
sposo. Va al padre della sposa.»
Ci fermammo in mezzo al bosco. Dietro di noi, Utgard Lanes era visibile a malapena, con l’insegna al
neon che inondava i tronchi degli alberi di luce rossa e oro.
«Vuoi dire che per tutto questo tempo, con la Spada e la Pietra Skofnung, non abbiamo fatto altro che
spezzarci la schiena per procurarci dei regali per Loki?» commentai.
Il re dei giganti ridacchiò. «È piuttosto divertente, in effetti, se non fosse che Loki vuole liberarsi per
uccidere tutti quanti.»
Sam si appoggiò all’albero più vicino. «E il martello… è il regalo del mattino?»
«Esatto» confermò il gigante. «Il morgen-gifu.»
Alex inclinò la testa. «Il tofu che?»
Hearthstone spiegò: “Il dono dello sposo alla sposa. Un dono che si consegna soltanto dopo che il
matrimonio è…”. Le sue dita esitarono. “Completo. La mattina dopo.”
«Mi viene da vomitare» disse Samirah.
Tradussi ad Alex quello che Hearth aveva detto.
«Quindi, il martello va a te…» Alex indicò Sam. «Ipoteticamente, se tu fossi la sposa, cosa che non
accadrà. Ma solo dopo la prima notte di nozze e… sì, sto per vomitare anch’io.»
«Oh, e questo è nulla!» commentò il gigante, con un po’ troppo entusiasmo. «Il regalo del mattino
appartiene alla sposa, ma è custodito dalla famiglia dello sposo. Perciò, anche se ti sposi e recuperi il
martello di Thor…»
«Lo tiene comunque Thrym» conclusi. «I giganti ottengono un’alleanza matrimoniale e il martello.»
«E Loki ottiene la Spada Skofnung.» Sam deglutì. «No, c’è ancora qualcosa che non torna. Loki non
può partecipare al matrimonio in carne e ossa. Al massimo può inviare una sua manifestazione. Il suo
corpo fisico sarà ancora bloccato nella grotta dov’è imprigionato.»
«Una grotta che è impossibile da trovare» disse Blitzen. «E dove è impossibile entrare.»
Utgard-Loki ci rivolse un sorriso sbilenco. «Come l’isola di Lyngvi?»
Purtroppo il gigante non aveva tutti i torti, e fui tentato di raggiungere Sam all’albero del vomito. Il
luogo di prigionia del lupo Fenris, in teoria, era un segreto custodito gelosamente dagli dei, ma questo
non ci aveva impedito di prendere parte a un piccolo convegno sull’isola, a gennaio.
«E la spada…» proseguì Blitzen. «Perché proprio Skofnung? Perché non Sumarbrander o qualche altra
arma magica?»
«Non lo so con certezza» ammise Utgard-Loki. «Né so come Loki potrebbe far arrivare la spada nella
sua grotta e usarla. Ma ho sentito dire che le catene di Loki sono molto difficili da spezzare. Sono viscere
temprate come il ferro, robuste, collose e corrosive. Spunterebbero qualsiasi spada, anche la più affilata.
Sumarbrander forse potrebbe tagliarne una, ma poi la lama sarebbe inutilizzabile.»
Il ciondolo di Jack ronzò scontento.
“Calmati, amico” pensai. “Nessuno ti farà tagliare delle viscere temprate come il ferro.”
«Lo stesso vale per Skofnung, ma…» Blitzen imprecò. «Certo! La lama ha la sua cote magica. Può
essere affilata tutte le volte che è necessario. È per questo che a Loki servono sia la spada sia la pietra.»
Il re dei giganti batté lentamente le mani. «Ah, e solo con un piccolo aiuto, avete rimesso insieme il
quadro. Bravi!»
Blitz e Hearth si lanciarono un’occhiata, come a dire: “E adesso che lo abbiamo rimesso insieme, per
favore possiamo romperlo di nuovo?”.
«Perciò dobbiamo trovare un altro sistema per recuperare il martello» dissi.
Il gigante ridacchiò. «Buona fortuna. È sepolto chissà dove a dodici chilometri sotto terra, dove
neanche Thor può arrivare. L’unico modo per recuperarlo è convincere Thrym a farlo.»
Alex si mise a braccia conserte. «Ci hai dato un sacco di cattive notizie, gigante. Non ti ho ancora
sentito dire niente che si possa definire un aiuto.»
«La conoscenza è sempre un aiuto!» ribatté Utgard-Loki. «Ma, per come la vedo io, ci sono due
opzioni per sventare i piani di Loki. La prima: vi uccido tutti e prendo io Skofnung, impedendo così che
finisca nelle sue mani.»
Sam avvicinò furtivamente la mano all’ascia. «Non mi piace la prima opzione.»
Il gigante alzò le spalle. «Be’, è semplice, efficace e relativamente infallibile. Non vi permette di
recuperare il martello, ma, come ho detto, la cosa non mi interessa. La mia preoccupazione più grande è
tenere Loki imprigionato. Se si libera, darà subito inizio al Ragnarok, e io, per esempio, non sono pronto.
Venerdì c’è la serata delle signore, al bowling. Il Giorno del Giudizio manderebbe tutto all’aria.»
«Se tu avessi voluto ucciderci, avresti potuto già farlo» osservai.
Utgard-Loki sorrise. «Lo so! E non immagini quanto mi prudevano le mani! Ma, miei minuscoli amici,
c’è un’opzione più rischiosa, però in grado di dare un risultato migliore. E volevo capire se eravate
capaci di metterla in pratica. Dopo le vostre performance nelle gare, credo di sì.»
«Tutte quelle sfide…» disse Sam. «Ci hai messo alla prova per capire se valeva la pena tenerci in
vita?»
Hearthstone fece qualche gesto con le mani che decisi di non tradurre, anche se il significato apparve
piuttosto chiaro a Utgard-Loki.
«Su, su, mago del flipper. Non fare il permaloso» disse il gigante. «Se vi lascio andare, e se riuscite a
battere Loki nel suo stesso gioco, io avrò le medesime ricompense, oltre alla soddisfazione di sapere che
quel villano del dio dell’inganno è stato umiliato con il mio aiuto. Come forse ho già detto, a noi giganti
di montagna piace umiliare i nostri nemici.»
«E, per aver architettato l’umiliazione, conquisterai il rispetto dei tuoi seguaci» aggiunse Alex.
Utgard-Loki si chinò con modestia. «Mentre voi, forse, recupererete il martello di Thor. O forse no. La
cosa non mi interessa. A mio parere, il martello di Thor non è altro che un inutile ammennicolo
asgardiano, e potete tranquillamente riferirlo a Thor.»
«Non lo farei mai, neanche se sapessi cosa significa» replicai.
«Rendetemi fiero di voi!» esclamò Utgard-Loki. «Trovate un modo per cambiare le regole del gioco
di Loki, come avete fatto oggi al nostro torneo. Sono certo che riuscirete a escogitare un piano.»
«Questa sarebbe la seconda opzione?» domandò Alex. «“Pensateci voi?” Sarebbe questo il tuo grande
aiuto?»
Utgard-Loki si portò le mani al petto. «Così mi offendi. Vi ho dato tanto! E poi, i nostri cinque minuti
sono finiti.»
Un BOOM riverberò nel bosco – il rumore delle porte di un bar che si spalancavano – seguito dal
ruggito di giganti infuriati.
«Sbrigatevi, piccoletti!» ci spronò Utgard-Loki. «Trovate Thor e ditegli cosa avete saputo. Se i miei
sudditi vi prendono… be’, temo che loro siano dei grandi sostenitori della prima opzione!»
44
RUNE E COUPON IN OMAGGIO, CHE ONORE!

Ero stato inseguito da valchirie, da elfi con la pistola e da nani con il carro armato. Adesso, per
completare la mia fortuna, ero inseguito da giganti armati di enormi palle da bowling.
Un giorno mi piacerebbe tanto andarmene da un mondo senza lasciarmi dietro una folla inferocita.
«Correte!» gridò Blitzen, come se noi non ci avessimo pensato.
Tutti e cinque sfrecciammo nel bosco, scavalcando alberi caduti e radici aggrovigliate. Alle nostre
spalle, i giganti diventavano più grandi a ogni passo. Un attimo prima erano alti tre metri e mezzo, un
attimo dopo sei metri.
Era come essere incalzati da un’onda di maremoto. Le ombre dei giganti ci raggiunsero, e capii che
eravamo spacciati.
Blitzen ci fece guadagnare una manciata di secondi. Con un’imprecazione, lanciò dietro di noi
Pellevuota e gridò: «Password!».
I giganti si ritrovarono la strada bloccata dal Monte Borsa da Bowling, ma diventarono rapidamente
abbastanza alti da scavalcarla. Presto ci avrebbero calpestato. Neanche Jack poteva fare niente contro
tanti avversari.
Hearthstone schizzò alla testa del gruppo, gesticolando come un pazzo: “Forza!”. Indicò un albero dai
rami sottili, con grappoli di bacche rosse che maturavano tra le foglie verdi. Il terreno ai suoi piedi era
cosparso di petali bianchi. Certo, quell’albero spiccava tra gli enormi pini di Jotunheim, ma non capivo
perché Hearth ci tenesse tanto a morire proprio in quel punto.
Poi il tronco dell’albero si aprì come una porta e ne uscì una donna, che gridò: «Ecco i miei eroi!».
Aveva i raffinati lineamenti degli elfi e una lunga chioma d’oro rosso, lucida e calda. Indossava un abito
rosso e arancione, fermato da una spilla verde e argento su una spalla.
Il mio primo pensiero fu: “È una trappola”. Dopo la mia esperienza con Yggdrasil, avevo sviluppato
una sana paura dei salti nelle porte degli alberi. Il secondo pensiero: la donna assomigliava a una delle
driadi descritte da mia cugina Annabeth, anche se non capivo cosa ci facesse uno spirito degli alberi a
Jotunheim.
Senza esitare, Sam si precipitò dietro Hearthstone mentre la donna dai capelli d’oro rosso allungava
una mano e gridava: «Presto, presto!».
Anche questo mi sembrò un consiglio piuttosto ovvio.
Il cielo si fece nero come a mezzanotte. Guardai in alto e vidi la suola di una scarpa da bowling
grande come uno yacht pronta a calpestarci. La donna dai capelli d’oro rosso tirò Hearthstone dentro
l’albero. Sam si lanciò dietro di lui, seguita a ruota da Alex. Blitz arrancava con le sue gambette, per cui
lo afferrai e saltai insieme a lui. Proprio nell’istante in cui la scarpa si abbassava, il mondo scomparve,
avvolto nell’oscurità e nel silenzio più assoluti.
Sbattei le palpebre. Non sembravo morto. Blitzen si dimenava per liberarsi dal mio braccio, quindi
non era morto neanche lui.
Poi, all’improvviso, fui accecato da una luce abbagliante. Blitzen trasalì, impaurito. Lo rimisi in piedi
mentre si infilava al volo il caschetto coloniale. Quando lo vidi coperto e al sicuro, scrutai i dintorni.
Eravamo in una stanza sontuosa che decisamente non era una sala da bowling. Sopra di noi, la luce
filtrava da una piramide di vetro a nove lati. Ampie vetrate circondavano la sala, offrendoci una vista
esclusiva sui tetti di Asgard. In lontananza, scorsi la cupola principale del Valhalla. Costruita con
centomila scudi d’oro battuto, sembrava il carapace dell’armadillo più elegante del mondo.
La sala in cui ci trovavamo somigliava a una sorta di atrio chiuso. Intorno alla sua circonferenza si
ergevano nove alberi uguali a quello attraverso il quale eravamo passati a Jotunheim. Al centro, davanti a
una pedana rialzata, un fuoco crepitava allegramente nel camino, senza tracce di fumo. Sulla pedana c’era
un seggio di legno bianco riccamente scolpito.
La donna dai capelli d’oro rosso salì i gradini e si sedette sul trono. Come la sua chioma, tutto in lei
era aggraziato, fluente e luminoso. Il suo vestito ondeggiava come un campo di papaveri rossi allo spirare
di una tiepida brezza estiva. «Benvenuti, eroi» disse la dea. (Oh, giusto. SPOILER. Ma ormai ero sicuro
che fosse una dea.)
Hearthstone corse a inginocchiarsi ai piedi del trono. Non l’avevo visto tanto impressionato da… be’,
non l’avevo mai visto così, neppure davanti a Odino in persona. Con le dita, scandì: “S-I-F”.
«Sì, mio caro Hearthstone» confermò la dea. «Sono Sif.»
Blitz scattò al fianco di Hearth e si inginocchiò pure lui. Io non ero abituato a genuflettermi molto, ma
le rivolsi un inchino, riuscendo addirittura a non cadere. Alex e Sam rimasero ferme dov’erano, con
un’espressione lievemente corrucciata in viso.
«Mia signora» esordì Sam, con evidente riluttanza. «Perché ci ha portato ad Asgard?»
Sif storse il nasino delicato. «Samirah al-Abbas, la valchiria. E Alex Fierro, la… nuova einherji.»
Perfino gli agenti Sunspot e Wildflower avrebbero approvato la sua aria disgustata. «Vi ho salvato la
vita. Non è un motivo valido per dimostrare gratitudine?»
Blitz si schiarì la voce. «Mia signora, Sam voleva dire…»
«Posso parlare da sola» lo interruppe lei. «Sì, apprezzo il salvataggio, ma è stato di un tempismo
incredibile. Ci stava osservando?»
Gli occhi della dea scintillarono come monete sott’acqua. «Certo che sì, Samirah. Ma ovviamente non
potevo salvarvi finché non avevate le informazioni necessarie per aiutare mio marito.»
Mi guardai intorno. «Suo marito… è Thor?»
Non riuscivo a immaginare il dio del tuono che viveva in un posto così pulito e bello, con un soffitto
di vetro integro e ampie finestre. Sif sembrava talmente raffinata e piena di grazia, non ce la vedevo a
ruttare o scoreggiare in pubblico.
«Sì, Magnus Chase.» Sif allargò le braccia. «Benvenuti nella nostra dimora, Bilskirnir! Il famoso
castello Lampo di Luce!»
Tutt’intorno a noi, un coro celestiale intonò un «Ahhhhh!» che si interruppe bruscamente come era
iniziato.
Blitzen aiutò Hearthstone a mettersi in piedi. Non conoscevo il bon ton divino, ma immaginai che dopo
il coro celestiale fosse concesso alzarsi.
«Il più grande palazzo di Asgard!» esclamò Blitzen, meravigliato. «Ho sentito molte storie su questo
posto. E ha un nome così bello, Bilskirnir!»
Un altro coro risuonò: «Ahhhhh!».
«Lampo di Luce?» Alex non aspettò neppure che gli angeli avessero finito di cantare prima di
chiedere: «Siete vicini di casa di Lampo Aperta?».
Sif aggrottò la fronte. «Non mi piace questo… coso. Potrei rispedirlo a Jotunheim.»
«Chiamami di nuovo coso, coraggio» ringhiò Alex. «Provaci.»
Misi un braccio davanti ad Alex a mo’ di guardrail, anche se sapevo di rischiare l’amputazione con il
tagliacreta. «Ehm, Sif, allora forse potrebbe dirci perché siamo qui?»
La dea mi puntò gli occhi addosso. «Sì, certo, figlio di Freyr. Mi è sempre piaciuto Freyr. È così
bello.» La dea si aggiustò i capelli.
Non so perché, ma ebbi la sensazione che per “bello” intendesse “capace di far ingelosire mio
marito”.
«Come ho detto, sono la moglie di Thor» proseguì Sif. «Questa è l’unica cosa che la maggior parte
della gente sa di me, purtroppo, ma io sono anche una dea della terra. È stato facile per me seguire i
vostri spostamenti nei Nove Mondi quando attraversavate una foresta o camminavate sull’erba o il
muschio.»
«Muschio?» domandai.
«Sì, mio caro. C’è perfino un muschio detto “chioma di Sif” in onore dei miei magnifici boccoli
dorati.»
Sembrava compiaciuta della cosa. Io non so se sarei stato così entusiasta di avere un muschio con il
mio nome.
Hearth indicò gli alberi intorno al cortile e scandì: “S-o-r-b-o”.
Sif si illuminò. «Sai tante cose, Hearthstone! Il sorbo in effetti è il mio albero sacro. Posso passare da
un sorbo all’altro attraverso i Nove Mondi, ed è così che vi ho portato nella mia reggia. Il sorbo è fonte
di tantissime benedizioni. Sapevate che mio figlio Uller ha creato il primo arco e i primi sci con il legno
di sorbo? Ne andavo così fiera.»
«Oh, sì.» Ripensai a una conversazione che avevo avuto con una capra a Jotunheim. (È deprimente che
possa anche solo pensare una frase del genere.) «Otis ha accennato a Uller. Non sapevo che fosse figlio
di Thor.»
Sif si portò un dito alle labbra. «In realtà, Uller è figlio del mio primo marito. Thor è un po’
suscettibile al riguardo.» La cosa sembrava divertirla. «Ma, a proposito di sorbo, ho un regalo per il
nostro mago elfo!» Dalle maniche del suo elegante vestito tirò fuori una borsa di pelle.
Hearth per poco non cadde a terra. Gesticolò come un pazzo facendo dei segni che in realtà non
volevano dire niente, ma che sembravano trasmettere un’idea precisa: GASP!
Blitzen dovette prenderlo per un braccio per fermarlo. «È… è una borsa di rune, mia signora?»
Sif sorrise. «Esatto, mio distinto amico nano. Le rune incise sul legno hanno un potere molto diverso
da quelle scolpite sulla pietra. Sono piene di vita, piene di flessibilità. La loro magia è più morbida e
malleabile. E il sorbo è il legno migliore per le rune.» Invitò Hearth ad avvicinarsi e gli consegnò la
borsa; all’elfo tremavano le mani. «Ti serviranno nel combattimento a venire» gli disse. «Ma ti avverto:
manca una runa, proprio come nel tuo sacchetto. E, quando manca una lettera, l’intera lingua della magia
è indebolita. Un giorno dovrai reclamare quel simbolo per raggiungere il tuo pieno potenziale. Quando lo
farai, vieni a trovarmi di nuovo.»
Ripensai alla runa dell’eredità che Hearthstone aveva lasciato sul cairn del fratello. Se Sif saltava da
un albero all’altro e comunicava telepaticamente con il muschio, non capivo perché non poteva
semplicemente consegnare a Hearthstone una nuova othala. Ma, del resto, non avevo seguito il seminario
“Magia Runica con il Padre Universale: tutto ciò che ti serve sapere in un fine settimana”.
Hearthstone chinò la testa in segno di gratitudine e si allontanò dalla pedana, cullando la sua nuova
borsa di potere come se fosse un neonato in fasce.
Sam era irrequieta, con la mano sull’ascia. Guardò Sif come se potesse essere Little Billy sotto
mentite spoglie. «Sif, mia signora, è gentilissimo da parte sua. Ma stava per dirci perché ci ha portati
qui.»
«Per aiutare mio marito!» rispose la dea. «Presumo che adesso abbiate le informazioni necessarie per
trovare e recuperare il suo martello, vero?»
Lanciai un’occhiata ai miei amici. Chissà se qualcuno di loro aveva un modo diplomatico per dire:
“Quasi, più o meno, non proprio”.
Sif sospirò, con una punta di sdegno. «Oh, sì, capisco. Prima volete affrontare la questione del
pagamento.»
«Ehm, no, in realtà non era questo…» protestai.
«Un attimo.» Sif si passò le dita fra i lunghi capelli come se lavorasse a un telaio. Alcuni fili tra il
rosso e il giallo le caddero in grembo e cominciarono a tessere delle forme, come una stampante 3D che
sputi fuori oro massiccio.
Mi girai verso Sam e sussurrai: «È come Raperonzolo?».
Sam inarcò un sopracciglio. «Da dove credi che provenga quella fiaba?»
In pochi secondi, senza che l’acconciatura di Sif ne venisse visibilmente intaccata, la dea strinse fra le
mani un piccolo trofeo d’oro. Lo sollevò con orgoglio. «Ciascuno di voi ne avrà uno!»
In cima al trofeo c’era una minuscola replica del martello Mjolnir. Sul piedistallo c’era scritto:
RICOMPENSA AL VALORE PER IL RECUPERO DEL MARTELLO DI THOR. E, a lettere più piccole, tanto che
dovetti stringere gli occhi per leggerle: IL LATORE DI QUESTO TROFEO HA DIRITTO A UN ANTIPASTO
GRATUITO CON L’ACQUISTO DI UN ANTIPASTO DI PARI VALORE NEI RISTORANTI DI ASGARD CHE
PARTECIPANO ALL’INIZIATIVA .
Blitzen emise un pigolio. «È straordinario! Che maestria di esecuzione! Come…?»
Sif sorrise, palesemente compiaciuta. «Be’, da quando i miei capelli originali sono stati sostituiti da
capelli magici in oro massiccio dopo quel bruttissimo tiro che mi ha fatto Loki…» Il suo sorriso si
inasprì mentre guardava Alex e Sam. «Uno dei vantaggi è che posso tessere un’infinità di oggetti d’oro
massiccio coi miei capelli in più. Sono io a pagare il personale di casa, inclusi gli eroi come voi, con
omaggi del genere. Thor è dolcissimo. Apprezza le mie capacità a tal punto da chiamarmi il suo
“trofeo”.»
Sbattei le palpebre. «Wow!»
«Lo so!» Sif arrossì. Davvero. «In ogni caso, quando avrete concluso l’incarico, ve ne toccherà uno a
testa.»
Blitzen tese le braccia verso il trofeo. Se lo mangiava con gli occhi. «Un antipasto gratis in… in
qualsiasi ristorante che partecipa all’iniziativa?» Temetti che si mettesse a piangere dalla gioia.
«Sì, mio caro» confermò la dea. «Ora, come farete a recuperare il martello?»
Alex tossì. «Ehm, in effetti…»
«Non importa, non dirmelo!» Sif sollevò una mano come se volesse coprire la faccia di Alex.
«Preferisco lasciare i dettagli all’aiuto.»
«L’aiuto» ripeté Alex.
«Sì. Ora, il vostro primo compito sarà complicato. Dovete dare a mio marito tutte le notizie che avete.
L’ascensore è là. Troverete mio marito nella sua – come la chiama? – nella sua tana privata. Vi avviso: è
di pessimo umore ultimamente.»
Sam tamburellò le dita sulla testa della sua ascia. «Immagino che lei non possa portargli un messaggio
per noi.»
Il sorriso della dea si indurì. «Be’, no, non posso. Filate via, su. E cercate di non fargli venire un
attacco di furia omicida. Non ho tempo di assumere un altro gruppo di eroi.»
45
LE TRECCE NON SONO MAI STATE COSÌ SPAVENTOSE

«Sif è tremenda» bofonchiò Alex non appena si chiusero le porte dell’ascensore.


«Forse non è il momento per dirlo, visto che siamo nel suo ascensore» suggerii.
«Se le leggende sono vere, questo castello ha più di seicento piani» aggiunse Blitz. «Preferirei non
precipitare nel sottosuolo da questa altezza.»
«E va bene!» borbottò Alex. «Però che razza di nome è Lampo di Luce?»
Un coro di beatitudine celestiale si levò dalle casse.
«È una metafora!» spiegò Blitzen. «Sai, tipo Fiume di Sangue per il tizio della Spada Skofnung.
Lampo di Luce…»
“Ahhhhhhhh!”
«… è solo un modo poetico di dire “fulmine”, dato che Thor è il dio del tuono e via dicendo.»
«Mah…» Alex scosse la testa. «Non c’è niente di poetico in Lampo di Luce.»
“Ahhhhhhhh!”
Da quando aveva ricevuto la nuova borsa di rune, Hearthstone se ne stava sulle sue ancora più del
solito. Appoggiato in un angolo dell’ascensore, tirava la cordicella della borsa di pelle. Cercai di
attirare la sua attenzione per chiedergli se stesse bene, ma lui non incrociò il mio sguardo.
Quanto a Sam, continuava a passare i polpastrelli sul bordo dell’ascia, come se prevedesse di usarla
presto.
«Sif non sta simpatica neanche a te» notai.
Sam si strinse nelle spalle. «E perché dovrebbe? È una dea vanitosa. Non mi piacciono quasi mai gli
scherzi di mio padre, ma tagliare i capelli d’oro originali di Sif… be’, lo capisco. Non aveva tutti i torti.
A Sif interessa il suo aspetto più di ogni altra cosa. La capacità di tessere oggetti con la sua nuova chioma
di metallo prezioso, tutta la faccenda della moglie trofeo… Sono sicura che mio padre aveva progettato
anche questo. È così che concepisce gli scherzi. Sif e Thor sono troppo ottusi per accorgersene.»
Hearthstone, a quanto pare, capì. Infilò la borsa di rune in tasca e nella lingua dei segni disse: “Sif è
saggia e buona. La dea delle cose che crescono. Tu…”. Indicò Sam, poi fece due okay con le mani e finse
di strappare un foglio di carta. Era il segno per “sleale”.
«Ehi, elfo!» intervenne Alex. «Intuisco quello che vuoi dire, ma se tu difendi Sif, io stavolta sono
dalla parte di Samirah.»
«Grazie» commentò Sam.
Hearth si accigliò e si mise a braccia conserte, che nella lingua dei segni equivaleva a: “Con te non ci
parlo”.
Blitzen sbuffò. «Be’, credo che siate pazze a parlare male della moglie di Thor a casa di Thor quando
stiamo andando a trovare…»
Ding.
Le porte dell’ascensore si aprirono.
«Alla faccia della tana!» esclamai.
Usciti dall’ascensore, ci ritrovammo in una sorta di garage. Sospeso su un sollevatore idraulico c’era
il carro di Thor, con le ruote smontate e quello che sembrava un cambio differenziale rotto che pendeva
sotto il telaio. A rivestire un pannello forato su una parete c’erano decine di chiavi inglesi, seghe,
cacciaviti e mazzuoli di gomma. Per un attimo presi in considerazione l’idea di agguantare uno dei
mazzuoli e gridare: “Ho trovato il tuo martello!”. Poi pensai che forse non avrebbe gradito lo scherzo.
Superato il garage, il sottosuolo si apriva in un vero e proprio “rifugio da maschio”. Le stalattiti del
soffitto inondavano lo spazio del bagliore tipico di Nidavellir. La metà posteriore della grotta era un
cinema IMAX con due grandi schermi e una fila di monitor al plasma più piccoli in fondo, per permettere
a Thor di guardare due film e tenere sott’occhio una decina di eventi sportivi in contemporanea. Perché,
sapete, è rilassante. Le poltroncine reclinabili erano rivestite di pelli e pellicce e munite di tavolini
ricavati da corna di alce.
Alla nostra sinistra c’era una cucina su due pareti: cinque freezer di acciaio inossidabile, un forno, tre
microonde, una serie di frullatori di lusso e un’area macellazione che probabilmente non era il posto
preferito delle capre di Thor. In fondo a un breve corridoio, la testa impagliata di un ariete indicava i
gabinetti con una targa appesa su ciascun corno:

VALCHIRIE

BERSERKER

Nella metà destra della grotta c’erano per lo più videogiochi, ovvero l’ultima cosa che avrei voluto
vedere, dopo Utgard Lanes. Per fortuna, però, non c’era una sala da bowling. A giudicare dall’enorme
tavolo che occupava il posto d’onore al centro della grotta, Thor era più un giocatore di air hockey.
La stanza era talmente grande che non vidi Thor finché non sbucò da dietro la macchina di Dance
Dance Revolution. Assorto nei suoi pensieri, camminava su e giù borbottando e sbattendo insieme due
racchette da air hockey, come per prepararsi a una defibrillazione. Lo seguivano le sue capre, Otis e
Marvin, ma non erano molto agili sugli zoccoli. Ogni volta che Thor girava, andava a sbatterci contro e
doveva spingerle via.
«Martelli» bofonchiava. «Stupidi, stupidissimi martelli. Martelli.» Alla fine si accorse di noi. «Ah-
ah!» Ci venne incontro in un lampo, con gli occhi furiosi iniettati di sangue, la faccia rossa come la barba
cespugliosa.
La sua armatura da combattimento era costituita da una maglietta dei Metallica a brandelli e
pantaloncini da ginnastica che mettevano in mostra le gambe bianche e pelose. Era scalzo, e aveva
decisamente bisogno di una pedicure. Per qualche motivo, si era legato gli ispidi capelli scarlatti in due
trecce, solo che su di lui avevano un’aria molto più spaventosa che simpatica. Come se volesse dirci:
“Posso pettinarmi i capelli come una bambina di sei anni e uccidervi lo stesso!”.
«Novità?» domandò.
«Ehilà, Thor» esordii, con un tono di voce virile quasi quanto le sue trecce. «Ehm… Sumarbrander ha
qualcosa da dirti.»
Mi tolsi il ciondolo ed evocai Jack. Dite che fui vigliacco a nascondermi dietro una spada magica
parlante? Io preferisco considerarla una saggia mossa strategica. Non sarei stato in grado di fare nessun
favore a Thor se mi avesse spiaccicato la faccia con una racchetta da air hockey.
«Ciao, Thor!» Jack scintillò allegramente. «Ehilà, caprette! Oh, l’air hockey! Uh, che bella tana,
Tuono Man!»
Thor si grattò la barba con una racchetta. Si era tatuato il nome di suo figlio Modi sulle nocche, in blu:
mi augurai di non doverlo leggere più da vicino. «Sì, sì, ciao, Sumarbrander» borbottò. «Ma dov’è il mio
martello? Dov’è Mjolnir?»
«Oh.» Jack scintillò con una tonalità di arancione più scuro. Non poteva lanciare occhiatacce, ma mi
mostrò il suo lato tagliente. «Allora… buone notizie. Sappiamo chi ha il martello, e sappiamo dove lo
tiene.»
«Magnifico!»
Jack fluttuò qualche centimetro indietro. «Ma ci sono anche delle cattive notizie…»
Otis sospirò e guardò suo fratello Marvin. «Ho la sensazione che saremo uccisi entro breve.»
«Smettila!» ribatté secco Marvin. «Non far venire strane idee al capo!»
«Il martello è stato rubato da un gigante di nome Thrym» continuò Jack. «Ed è sepolto dodici
chilometri sotto terra.»
«Magnifico un corno!» Thor sbatté assieme le racchette da air hockey.
Un tuono scosse la stanza. Gli schermi dei televisori al plasma vacillarono. I forni a microonde
tremolarono. Le capre barcollarono come sul ponte di una nave.
«Odio Thrym!» ruggì il dio. «Odio i giganti di terra!»
«Anche noi!» concordò Jack. «E Magnus adesso ti spiegherà il nostro favoloso piano per recuperare il
martello!» Jack fluttuò dietro di me e rimase fermo a mezz’aria, dimostrando grande saggezza strategica.
Otis e Marvin si allontanarono dal padrone e si ripararono dietro Dance Dance Revolution. Almeno
Alex, Sam, Blitz e Hearth non si nascosero, ma Alex mi lanciò un’occhiata della serie: “Ehi, è il tuo dio
del tuono”.
Così raccontai a Thor tutta la storia: eravamo stati convinti con l’inganno ad andare al tumulo dello
spettro per la Spada Skofnung, poi eravamo corsi ad Alfheim per la Pietra, avevamo attraversato il
Bifrost per un selfie con Heimdall e avevamo giocato a bowling con Utgard-Loki per strappargli qualche
informazione. Gli spiegai di Thrym e dell’alleanza matrimoniale con Loki.
Di tanto in tanto dovevo fermarmi per permettere al dio di comprendere a fondo le notizie, e lui dava
in escandescenze, lanciava utensili elettrici e prendeva a pugni le pareti. Ci metteva un po’ a capire le
cose. Ognuno ha i suoi tempi.
Quando ebbi finito, Thor annunciò la sua ben ponderata conclusione. «Dobbiamo ucciderli tutti!»
Blitz alzò una mano. «Ehm… Thor, anche se riuscissimo a portarti da Thrym, ucciderlo non servirebbe
a niente. È l’unico che sa dove si trova il martello.»
«Allora lo torturiamo finché non ce lo dice, e poi lo uccidiamo! Dopodiché sarò io stesso a recuperare
il martello!»
Alex borbottò: «Che carino».
«Thor, anche se facessimo così – e la tortura non è molto efficace, né, insomma… etica – anche se
Thrym ti dicesse esattamente dove si trova il martello, come faresti a recuperarlo da dodici chilometri
sotto terra?» domandò Sam.
«Sfonderei la terra! Con il mio martello!»
Aspettammo che gli si mettessero in moto le rotelle.
«Oh… capisco il problema» disse il dio, dopo un po’. «Maledizione! Seguitemi!» Entrò a grandi passi
nel garage, gettò via le racchette da hockey e cominciò a rovistare fra gli attrezzi. «Ci dev’essere
qualcosa qui capace di perforare dodici chilometri di pietra massiccia.» Prese in considerazione un
trapano a mano, un metro a nastro, un cavatappi e il bastone di ferro che avevamo recuperato nella
fortezza di Geirrod, salvando la pelle per un pelo. «Niente!» disse, innervosito. «Inutili cianfrusaglie!»
“Forse potresti usare la testa” suggerì Hearthstone. “È molto dura.”
«Oh, non cercare di consolarmi, elfo» disse Thor. «È un caso disperato, vero? Ci vuole per forza un
martello per recuperare un martello. E questo…» Tirò su un mazzuolo di gomma e sospirò. «Questo non
funzionerà. Sono spacciato! Tutti i giganti si accorgeranno presto che sono indifeso. Invaderanno
Midgard, distruggeranno l’industria televisiva, e io non potrò mai più guardare le mie serie TV !»
«Ci sarebbe un modo per recuperare il martello.» Le parole mi uscirono di bocca prima che pensassi
a quello che stavo dicendo.
A Thor si illuminarono gli occhi. «Una grossa bomba?»
«Ehm… no. Ma Thrym si aspetta di sposare qualcuno domani, giusto? Potremmo fingere di stare al
gioco e…»
«Scordatelo!» ringhiò Thor. «So che cosa stai per proporre. Neanche per sogno! Il nonno di Thrym mi
umiliò già abbastanza quando mi rubò il martello. Non lo farò di nuovo!»
«Non farai cosa?» domandai.
«Non mi metterò un vestito da sposa!» rispose Thor. «Non farò finta di essere la sposa del gigante,
Freya, che si rifiutò di sposare Thrym. Che donna egoista! Fui disonorato, umiliato e… e tu che hai da
ridere?»
Quest’ultima frase era rivolta ad Alex, che tornò subito seria. «No, nulla» rispose. «Solo che tu…
vestito da sposa…»
Fluttuando alle mie spalle, Jack sussurrò: «Era stre-pi-to-so!».
Thor grugnì. «Fu tutta un’idea di Loki, naturalmente. E funzionò. Mi imbucai alle nozze, recuperai il
martello e uccisi i giganti… be’, tutti tranne i bambini, Thrym III e Thrynga. Ma, quando tornai ad
Asgard, Loki mi rese lo zimbello di tutti a furia di raccontare questa storia. Nessuno mi prese più sul
serio per secoli!» Thor aggrottò la fronte come se il suo cervello fosse appena stato attraversato da un
pensiero. Doveva essere un’esperienza penosa per lui. «Sapete, scommetto che era sempre stato questo il
piano di Loki. Scommetto che aveva organizzato il furto e la sua soluzione soltanto per farmi fare brutta
figura!»
«È terribile» commentò Alex. «Com’era il tuo abito da sposa?»
«Oh, era bianco con un’applicazione di pizzo sul décolleté e dei merletti adorabili sul…» La barba di
Thor mandò scintille elettriche. «QUESTO NON È IMPORTANTE!»
«In ogni caso…» intervenni. «Questo Thrym… Thrym III o quello che è… si aspetta che tu tenti di
nuovo lo stesso trucco. Ha preso delle misure di sicurezza. Nessuna divinità può varcare il portone
inosservata. Ci servirà una sposa diversa.»
«Ah, che sollievo!» Thor sorrise a Samirah. «E io ti ringrazio per esserti offerta volontaria, ragazza!
Sono felice che tu non sia egoista come Freya. Ti devo un regalo. Chiederò a Sif di prepararti un trofeo.
O forse preferiresti una pizza? Dovrei averne qualcuna nel freezer…»
«No, divino Thor» replicò Sam. «Non sposerò un gigante per te.»
Thor ammiccò con aria scaltra. «Giusto… Farai solo finta di sposarlo. Poi quando lui tirerà fuori il
martello…»
«No! Io non farò nemmeno finta» lo interruppe Sam.
«Io invece sì» dichiarò Alex.
46
ARRIVA LA SPOSA E/O L’ASSASSINO

Alex sapeva come attirare la nostra attenzione. Hearth e Blitz la fissarono a bocca aperta. Jack rimase
senza fiato e mandò riflessi di luce giallo brillante. Thor aggrottò le sopracciglia, che scintillarono come
cavetti di avviamento. Perfino le capre si avvicinarono trotterellando per guardare la folle ragazza più da
vicino.
«Che c’è?» domandò Alex. «Io e Sam ne abbiamo parlato. Lei ha giurato ad Amir che non avrebbe
neppure fatto finta di sposare il gigante, giusto? A me invece questa messinscena non preoccupa
minimamente. Mi vestirò da sposa, pronuncerò i voti, ucciderò il mio novello sposo e tanti saluti. Io e
Sam abbiamo più o meno la stessa taglia. Siamo tutte e due figlie di Loki. Lei può farmi da damigella
d’onore. È la nostra alternativa migliore.»
Fissai Sam. «È di questo che stavate parlando, tu e Alex?»
Samirah sfiorò le chiavi appese ai passanti della sua cintura. «Alex è convinta di poter resistere a
Loki… a differenza di quello che è accaduto a me, a Provincetown.»
Era la prima volta che parlava apertamente di quell’episodio. Mi tornò in mente tutta la scena: Loki
che schioccava le dita, Sam che cadeva di botto senza più aria nei polmoni. Sam era una valchiria. Fra
tutte le persone che conoscevo, non c’era nessuno che avesse una forza di volontà e una disciplina pari
alle sue. Se lei non riusciva a resistere al controllo di Loki…
«Alex, sei sicura?» Cercai di non far trapelare troppo la perplessità nella voce. «Cioè, hai mai
provato a resistere a Loki prima d’ora?»
L’espressione di Alex si indurì. «E questo cosa vorrebbe dire?»
«Niente» mi affrettai a rispondere. «Volevo solo…»
«La cosa più importante è che non sei neanche una ragazza vera e propria» si intromise Thor. «Sei un
argr!»
L’aria si fece immobile, come l’attimo che precede un tuono. Non sapevo quale alternativa mi
spaventasse di più, se Thor che attaccava Alex o Alex che attaccava Thor. Notando l’espressione che
aveva negli occhi, mi domandai se non avremmo fatto prima a piazzare lei ai confini di Jotunheim per
spaventare i giganti, invece di preoccuparci di Thor e del suo martello.
«Sono una figlia di Loki» ribadì Alex, in tono pacato. «È quello che si aspetta Thrym. Come Loki,
anch’io sono di genere fluido. E, quando sono una femmina, sono una femmina. E di sicuro so togliermi
un abito da sposa con le applicazioni di pizzo meglio di te!»
Thor fumava di rabbia. «Be’, non c’è bisogno di essere cattivi.»
«E poi, non permetterò a Loki di controllarmi» riprese Alex. «Non l’ho mai fatto. Né mai lo farò. E
non vedo nessun altro volontario per questa speciale missione suicida nuziale.»
«Speciale… nuziale» osservò Jack. «Ehi, c’è la rima!»
Otis si fece avanti e sospirò. «Be’, se vi serve un volontario suicida, posso farlo io, credo. Mi sono
sempre piaciuti i matrimoni…»
«Stai zitto, scemo!» lo interruppe Marvin. «Sei una capra!»
Thor sollevò il bastone di ferro. Ci si appoggiò meditabondo, tamburellando le dita e facendo
baluginare diverse immagini sulla sua superficie: una partita di calcio, un canale televisivo di shopping,
un cartone animato… «E va bene» disse dopo un po’. «Continuo a non fidarmi di un argr per questo
incarico…»
«Una persona di genere fluido» precisò Alex.
«Una persona di… come hai detto tu» si corresse Thor. «Ma immagino che, sul fronte rispetto, tu
abbia ben poco da perdere.»
Alex scoprì i denti. «Ora capisco perché Loki ti ama tanto.»
«Ragazzi, abbiamo altri problemi di cui discutere, e poco tempo» feci notare. «Thrym si aspetta che la
sposa arrivi domani.»
Alex incrociò le braccia. «Allora siamo d’accordo. Sposerò io il brutto ceffo.»
“Sì, lo sposerai tu” disse Hearth. “Felicitazioni.”
Alex strinse gli occhi. «Mi sa che dovrò imparare la lingua dei segni. Nel frattempo, immagino che tu
abbia detto: “Sì, Alex. Grazie, Alex, per il tuo eroismo e per il tuo coraggio”.»
“Quasi” commentò Hearth.
Continuava a non piacermi l’idea di Alex come finta sposa, ma pensai che fosse meglio procedere.
Mantenere la concentrazione di quel gruppo era come guidare un carro senza le capre e con il cambio
rotto.
«In ogni caso, suppongo che non possiamo far entrare Thor di nascosto insieme al corteo nuziale»
dissi.
«E lui non può fare un’incursione nel covo di un gigante di terra» aggiunse Blitz.
Thor sbuffò scontento. «Ci ho provato, credetemi. Quegli stupidi giganti sono sepolti troppo in
profondità, le rocce sono troppo dure.»
«Detto da una testa dura come te…» commentò Alex.
Le lanciai un’occhiata di ammonimento. «Quindi dovremo usare l’ingresso principale. E immagino che
non ci diranno dov’è fino all’ultimo momento, per evitare agguati… e imbucati.»
«Cosa dice l’invito?» chiese Sam.
Lo tirai fuori e lo mostrai a tutti. Nella riga della data adesso c’era scritto: DOMANI MATTINA!!! In
quella del luogo invece: TE LO FAREMO SAPERE.
«Tuttavia ho un’idea di dove comparirà l’entrata» dissi. E raccontai a Thor della foto raffigurante le
Bridal Veil Falls.
Il dio del tuono non sembrò entusiasta. «Perciò o ti sbagli e quella era solo una foto qualunque, oppure
hai ragione e credi alle informazioni che arrivano dal tuo perfido zio, giusto?»
«Be’… sì. Ma se l’entrata è quella…»
«Potrei individuarla» propose Thor. «Potrei mettere su una squadra di dei, in incognito, pronti a
seguire furtivamente il corteo nuziale all’interno.»
«Una squadra di dei mi sembra un’ottima idea» concordai.
«Dipende da quali dei» bisbigliò Blitz.
«Abbiamo anche alcuni einherjar pronti a intervenire» suggerì Sam. «Bravi guerrieri. Affidabili.»
Disse “affidabili” come se fosse una parola che Thor poteva non aver mai sentito prima.
«Mmm…» Thor giocherellò con una delle sue trecce. «Potrebbe funzionare, suppongo. E quando
Thrym evocherà il martello…»
«Se lo evocherà» lo corresse Alex. «In realtà intende usarlo come… ehm… dono del mattino dopo.»
Thor rimase sgomento. «Ma dovrà comunque evocarlo per la cerimonia! La sposa ha il diritto di
insistere. Il simbolo del mio martello viene sempre usato per benedire le nozze. Se Thrym ha quello vero,
deve usarlo se tu glielo chiedi. E, a quel punto, interverremo noi e uccideremo tutti!»
“Tutti tranne noi” precisò Hearth.
«Esatto, elfo! Sarà un glorioso bagno di sangue!»
«Lord Thor, come saprai quando è il momento di andare all’attacco?» domandò Sam.
«Facile.» Thor si girò e accarezzò Marvin e Otis sulla testa. «Voi guiderete il mio carro nella sala del
banchetto. È un’usanza piuttosto comune fra i lord e le loro signore. Con un po’ di concentrazione, riesco
a vedere e udire quello che vedono e odono le mie capre.»
«Sì» confermò Otis. «Anche se mi provoca un pizzicorino proprio dietro il bulbo oculare.»
«Piantala!» lo rimbrottò Marvin. «A nessuno interessano i pizzicorini dei tuoi bulbi oculari.»
«Quando comparirà il martello attaccheremo, dei ed einherjar insieme.» Thor sorrise. «Massacreremo
i giganti, e andrà tutto bene. Mi sento già meglio!»
«Evviva!» esultò Jack, e fece tintinnare il bastone di Thor battendo un cinque… o meglio, battendo un
uno.
Samirah sollevò l’indice, come per dire: “Un momento”. «C’è un’altra cosa. Loki vuole la Spada
Skofnung per potersi liberare. Come facciamo ad assicurarci che non la prenda?»
«Questo non succederà mai!» dichiarò Thor. «Loki è rinchiuso da tutt’altra parte, in un posto sigillato
tanto tempo fa dagli dei. Ed è legato ancora meglio di Fenris il lupo.»
“Già. E abbiamo visto tutti com’è andata” commentò Hearth.
«L’elfo dice parole sagge» concordò Thor. «Non c’è niente di cui preoccuparsi. Loki non può
partecipare al matrimonio in carne e ossa. Se anche quel bisonte di Thrym entrasse in possesso della
Spada Skofnung, non avrebbe il tempo di trovare Loki né di liberarlo. Non prima che noi piombiamo
dentro e lo uccidiamo!» Thor fece roteare il bastone di ferro per sfoggiare le sue mosse da ninja. La
treccia sinistra si sciolse, e il risultato fu ancora più minaccioso.
Una sensazione di gelo mi invase lo stomaco. «Non sono convintissimo di questo piano. Mi sembra
che ci sfugga qualcosa di importante.»
«Il mio martello!» rispose Thor. «Ma lo recupereremo presto! Elfo, nano, perché non andate nel
Valhalla ad allertare gli einherjar?»
«Signore, ci piacerebbe ma…» Blitzen si sistemò il caschetto coloniale. «Non siamo ammessi nel
Valhalla per un problemino tecnico, non essendo, ecco… morti.»
«Ci penso io!»
«Non ci uccidere!» gridò Blitz.
Thor frugò sul tavolo da lavoro finché non trovò un pezzetto di legno con una chiave attaccata a
un’estremità. Sopra, inciso col fuoco, c’era scritto: LASCIAPASSARE DI THOR. «Con questo potrete entrare
nel Valhalla» li rassicurò. «Basta che me lo restituiate. Ora sistemo il carro, così la nostra sposa argr
potrà usarlo domani. Poi radunerò la mia squadra d’assalto e scoverò questo posto, le Bridal Veil Falls.»
«E noi che facciamo?» domandai con una certa riluttanza.
«Tu e le due figlie di Loki sarete nostri ospiti stasera!» annunciò Thor. «Andate a cercare Sif al piano
di sopra. Sarà lei a sistemarvi. Al mattino, partirete alla volta di un glorioso massacro matrimoniale!»
«Oh…» Otis sospirò. «Adoro i matrimoni.»
47
MI PREPARO PER UNA BATTAGLIA IN DISCOTECA

Forse penserete che la notte prima di un massacro mi sarei rigirato nel letto, senza chiudere occhio.
E invece no. Dormii come un sasso, anzi di più, come un gigante di roccia.
Sif assegnò a ciascuno di noi una camera degli ospiti ai piani superiori di Lampo di Luce. Crollai sul
letto in legno di sorbo con le lenzuola d’oro e non mi mossi fino al mattino, quando sentii la sveglia: un
piccolo trofeo d’oro di Mjolnir che non smise di cantare un divino coro di Ahhhhhhhh! Ahhhhhhhh!
Ahhhhhhhh! finché non lo lanciai contro il muro. Un risveglio che mi diede una certa soddisfazione, devo
ammetterlo.
Non credo che Sam e Alex avessero dormito altrettanto bene. Quando le incontrai nell’atrio di Sif,
avevano entrambe le occhiaie. Alex aveva in grembo un piatto di quelle che un tempo dovevano essere
ciambelle, ma che lei aveva spezzettato e usato per disegnarci una faccia corrucciata. Aveva le dita
imbrattate di zucchero.
Sam reggeva una tazza di caffè davanti alle labbra, come se le piacesse l’aroma ma non si ricordasse
come si fa a bere; la Spada Skofnung era a tracolla sulla sua schiena. Alzò gli occhi su di me e mi
domandò: «Dove?».
Sulle prime non afferrai la domanda. Poi capii che mi stava chiedendo se sapevo dove saremmo
andati.
Frugai nelle tasche per cercare l’invito al matrimonio. Nello spazio destinato alla data adesso c’era
scritto: OGGI! ALLE 10. SEI EMOZIONATO?!?
Nello spazio destinato al luogo c’era scritto: RECATI AL TACO BELL SULLA I-93 SUD DI MANCHESTER,
NEW HAMPSHIRE. ATTENDI ULTERIORI INDICAZIONI.
NIENTE ASI, O TANTI SALUTI AL MARTELLO!
Lo mostrai ad Alex e Sam.
«Taco Bell?» bofonchiò Alex. «Quei mostri.»
«C’è qualcosa che non torna.» Sam bevve un sorso di caffè. La tazza le tremava in mano. «Magnus, ho
pensato tutta la notte a quello che hai detto. Ci sfugge qualcosa di importante, e non si tratta del martello.»
«Secondo me, quello che vi sfugge è che vi mancano i vestiti adatti» disse la nostra padrona di casa.
Sif era apparsa davanti a noi all’improvviso, come tendono a fare le dee. Aveva lo stesso abito rosso-
arancio, la stessa spilla verde e argento e lo stesso sorriso imbarazzato del giorno prima, un sorriso che
diceva: “Credo che siate i miei domestici, ma non ricordo i vostri nomi”. «Mio marito mi ha detto che
vuoi giocare a travestirti.» Squadrò Alex dall’alto in basso. «Immagino che sarà più semplice che infilare
Thor in un abito da sposa, ma abbiamo tanto lavoro da sbrigare. Vieni.» Si diresse verso un corridoio in
fondo all’atrio, invitando Alex a seguirla con un dito, senza neanche voltarsi.
«Se non torno entro un’ora, significa che ho strangolato Sif e che sto nascondendo il suo cadavere»
disse Alex. Non sembrava che scherzasse. Se ne andò con passo ondeggiante, imitando così bene
l’andatura di Sif che le avrei dato un premio.
Sam si alzò. Con la tazza di caffè in mano, si avvicinò a una finestra e si mise a fissare i tetti di
Asgard. Mi sembrò che avesse lo sguardo puntato sulla cupola di scudi dorati del Valhalla. «Alex non è
pronta» osservò.
La raggiunsi alla finestra. Un ciuffo di capelli neri le era sfuggito dallo hijab, vicino alla tempia
sinistra. Ebbi l’istinto protettivo di rimetterlo a posto. Ma, dato che ci tenevo alla mia mano, mi trattenni.
«Pensi che abbia ragione?» le chiesi. «È… insomma, è in grado di resistere a vostro padre?»
«Lei pensa di avere ragione» disse Sam. «Ha una teoria su come rivendicare i propri poteri, senza
permettere a Loki di impossessarsi di lei. Si è anche offerta di insegnarmela. Ma non penso che si sia mai
messa alla prova contro nostro padre. Non sul serio.»
Ripensai alla conversazione che avevo avuto con Alex nel bosco di Jotunheim, alla sicurezza con cui
aveva detto di voler utilizzare l’immagine dei serpenti di Urnes per se stessa, uscendo dall’ombra
velenosa del padre. Era una bella idea. Purtroppo, però, avevo visto con quanta facilità Loki manipolava
le persone. Avevo visto quello che aveva fatto a mio zio Randolph.
«Almeno non saremo soli.» Osservai il Valhalla in lontananza, e per la prima volta provai una fitta di
nostalgia. Sperai che Blitz e Hearth fossero arrivati là sani e salvi. Li immaginai con la banda del
diciannovesimo piano che preparavano le armi e si vestivano da cerimonia, pronti a lanciarsi in un
intrepido raid che ci avrebbe salvato le chiappe.
Quanto a Thor… non nutrivo molta fiducia in lui. Ma con un po’ di fortuna, lui e un manipolo di altri
Asi si sarebbero trincerati intorno alle Bridal Veil Falls, con la mimetica, le catapulte a mano ad alta
potenza, le lance a razzo o qualsiasi altra arma brandisse un commando di guerrieri divini di questi
tempi.
Sam scosse la testa. «Al di là di questo… Alex non sa cosa abbiamo passato nel tumulo dello spettro.
Non è del tutto consapevole di quello di cui è capace Loki, con quanta facilità è in grado di…» Schioccò
le dita.
Non sapevo cosa dire. “Tranquilla, non potevi farci niente” non mi sembrava molto utile.
Sam sorseggiò il caffè. «Dovrei essere io quella in abito da sposa. Sono una valchiria. Ho poteri che
Alex non ha. Ho più esperienza di combattimento. Ho…»
«Hai fatto una promessa ad Amir. Ci sono limiti che non puoi oltrepassare. Non è una debolezza. È
uno dei tuoi punti di forza.»
Lei mi scrutò, forse per capire quanto fossi serio. «A volte non mi sembra un punto di forza.»
«Dopo quello che è successo in quella tomba a Provincetown?» replicai. «Sapendo cosa può fare Loki
e non sapendo se sei in grado di resistergli, torni lo stesso a combattere contro di lui. Se vuoi il mio
parere, tutto questo è molto al di sopra del livello di coraggio del Valhalla.»
Sam posò la tazza sul davanzale. «Grazie, Magnus. Ma oggi, se ti trovassi nella situazione di dover
scegliere… se Loki dovesse cercare di usare Alex e me come ostaggi, o…»
«Sam, no.»
«Qualunque cosa stia progettando, Magnus, devi fermarlo. Se noi siamo neutralizzate, tu potresti
essere l’unico che può farlo.» Sam si sfilò Skofnung dalle spalle e me la porse. «Tieni. Non perderla di
vista.»
Anche nella luce mattutina di Asgard, nel calore dell’atrio di Sif, il fodero di pelle della spada era
freddo come lo sportello di un freezer. La Pietra Skofnung era appesa al pomo. Quando mi misi il set a
tracolla sulla schiena, la cote mi si piantò contro la scapola.
«Non ci sarà nessuna scelta da fare» dichiarai. «Non permetterò a Loki di uccidere i miei amici. Né
gli permetterò di avvicinarsi a questa spada. A meno che non se la voglia ficcare in gola. Su questo non
avrei nulla da ridire.»
Sam accennò quasi un sorriso. «Sono felice di averti al mio fianco in questa cosa, Magnus. Spero che
un giorno, quando mi sposerò sul serio, ci sarai.»
Era la cosa più carina che mi avessero detto da un bel po’ di tempo. Certo, visto il livello di casino
degli ultimi giorni, non c’era da stupirsi.
«Ci sarò» le promisi. «E non soltanto per il fantastico catering di Falafel Fadlan.»
Sam mi diede una pacca sulla spalla, e io lo presi come un complimento. Di solito evitava ogni tipo di
contatto fisico. Suppongo che picchiare un amico stupido di tanto in tanto fosse concesso.
Per un po’ rimanemmo a guardare il sole che sorgeva su Asgard. Eravamo molto in alto ma, come
quella volta in cui avevo visto Asgard dal Valhalla, non notai nessuno in strada. Osservai le finestre buie
e i cortili silenziosi, i giardini lasciati incolti: quali dei avevano vissuto in quelle ville? Dov’erano finiti
tutti? Forse si erano stufati delle falle nella sicurezza e si erano trasferiti in una comunità protetta, dove il
guardiano non trascorreva tutto il tempo a farsi selfie.
Non so quanto rimanemmo ad aspettare Alex. Abbastanza da bere un caffè e mangiare una faccina
corrucciata fatta con pezzi di ciambella. Abbastanza da iniziare a domandarci perché Alex ci mettesse
tanto a nascondere il cadavere di Sif.
Finalmente, la dea e la futura sposa emersero dall’atrio. Mi si seccò la lingua. I pori del mio cuoio
capelluto furono attraversati da scariche elettriche.
L’abito di seta bianca di Alex scintillava di ricami d’oro, dai fiocchi che ornavano le maniche ai
riccioli serpentini che ricadevano sull’orlo della gonna, lunga fino ai piedi. Una collana di archi dorati le
cingeva il collo come un arcobaleno rovesciato. Sui boccoli verdi e neri era appuntato un velo bianco,
che le lasciava il viso scoperto: gli occhi di due colori erano truccati solo con un po’ di mascara, le
labbra dipinte di una calda tonalità di rosso.
«Sorella, sei bellissima!» esclamò Sam.
Meno male che lo disse lei. Io avevo la lingua appallottolata come un sacco a pelo di titanio.
Alex mi lanciò un’occhiataccia. «Magnus, potresti smetterla di fissarmi come se io stessi per
ucciderti?»
«Io non…»
«Altrimenti ti uccido davvero.»
«Okay.» Era difficile guardare altrove, ma ci provai.
Gli occhi di Sif brillavano di soddisfazione. «A giudicare dalla reazione della nostra cavia di sesso
maschile, credo che il mio lavoro sia concluso. Tranne per una cosa…» Dalla vita, la dea estrasse un
lungo filo d’oro talmente sottile e delicato che facevo fatica a vederlo. Alle due estremità c’era una
maniglia d’oro a forma di S. Era una garrota come quella di Alex, mi resi conto, ma d’oro. Sif gliela legò
intorno, allacciando le S a formare i serpenti di Urnes. «Ecco» disse la dea. «Quest’arma, forgiata dai
miei capelli, ha le stesse proprietà della tua garrota, ma si abbina all’abito, e non è di Loki. Che ti sia
utile, Alex Fierro.»
Alex reagì come se le avessero appena consegnato un trofeo che la autorizzava a fare praticamente
tutto. «Non… non so come ringraziarla, Sif.»
La dea inclinò la testa. «Forse entrambe potremmo sforzarci di non giudicare il prossimo basandoci
sulla prima impressione, eh?»
«Ah… sì. D’accordo.»
«E, se tu dovessi averne l’occasione, strangolare tuo padre con una garrota fatta con la mia chioma
magica sarebbe alquanto opportuno» aggiunse Sif.
Alex fece un inchino.
La dea si rivolse a Sam. «Ora, mia cara, vediamo cosa possiamo fare per la damigella d’onore.»
Dopo che Sif ebbe accompagnato Samirah nella Sala dei Rifacimenti Magici, mi girai verso Alex,
facendo del mio meglio per non guardarla come un ebete. «Io… ehm…» La mia lingua cominciò ad
appallottolarsi di nuovo. «Cos’hai detto a Sif? Sembra che tu le stia simpatica, adesso.»
«So essere molto affascinante» replicò Alex. «E non preoccuparti. Presto sarà il tuo turno.»
«Di… di essere affascinante?»
«Questo sarebbe impossibile.» Alex storse il naso in una piccola smorfia degna di Sif. «Ma almeno
puoi darti una ripulita. Il mio chaperon dev’essere molto più in tiro.»

Non so se fossi più in tiro. Però più tirato di sicuro.


Mentre Samirah si stava ancora vestendo, Sif tornò e mi accompagnò nel camerino degli uomini. Non
ho idea del perché ne avesse uno, ma credo che Thor non ci trascorresse molto tempo. Non c’era nessuna
traccia di pantaloncini da ginnastica né di magliette dei Metallica.
La dea mi rivestì con uno smoking oro e bianco, con la fodera in cotta di maglia alla Blitzen.
Jack fluttuava nei paraggi, ronzando entusiasta. Gli piacevano soprattutto il cravattino di capelli d’oro
di Sif e la camicia con le gale. «Oh, sì!» esclamò. «L’unica cosa che ti manca adesso è la runa giusta per
un look così sexy.»
Non lo avevo mai visto tanto ansioso di trasformarsi in un ciondolo muto. La runa di Freyr trovò posto
proprio sotto il cravattino, nascosta fra le gale come un uovo di Pasqua in pietra. Con Skofnung a tracolla
sulla schiena, sembravo pronto a combattere contro i miei parenti più stretti a ritmo di disco music. Una
descrizione piuttosto accurata, purtroppo.
Non appena tornai nell’atrio, Alex si piegò in due dalle risate. C’era un non so che di profondamente
umiliante nell’essere deriso da una ragazza in abito da sposa, soprattutto da una ragazza che stava
benissimo in abito da sposa.
«Oh, dei!» Fece un verso di scherno. «Sembri pronto per un matrimonio a Las Vegas nel 1987.»
«Per dirlo con parole tue, piantala!» replicai.
Alex si avvicinò e mi raddrizzò il farfallino. Una luce divertita le brillava negli occhi. Sapeva di fumo
di legna; come mai sapeva ancora di fuoco di bivacco? Arretrò e fece lo stesso verso di prima. «Sì.
Molto meglio. Adesso manca solo Sam… Oh, wow!»
Seguii la direzione del suo sguardo.
Samirah era emersa dal corridoio. Indossava un elegante abito verde con ricami neri che erano
l’immagine speculare di quelli di Alex: ghirigori serpentini dalle maniche fino all’orlo. Al posto del
solito hijab, indossava un cappuccio di seta verde con una sorta di velo da bandito a coprirla fino alla
radice del naso. Le si vedevano solo gli occhi, anche se erano parecchio in ombra.
«Stai benissimo» le dissi. «E poi, ti adoravo in Assassin’s Creed.»
«Ah, ah» commentò Sam. «Vedo che sei pronto per il ballo di fine anno. Alex, hai già provato il
velo?»
Con l’aiuto di Sam, Alex si mise il velo di tulle bianco sul viso. Aveva un che di spettrale adesso,
come se potesse fluttuare via da un momento all’altro. Si vedeva che aveva una faccia, certo, ma i
lineamenti erano del tutto oscurati. Se non l’avessi saputo, avrei potuto scambiarla per Sam. Solo le mani
la tradivano. Alex aveva la carnagione molto più chiara di quella di Sam, ma rimediò infilandosi guanti
di pizzo. Avrei tanto voluto che Blitzen fosse stato con noi! Avrebbe apprezzato molto la nostra eleganza.
«Miei eroi.» Sif era accanto a uno dei suoi sorbi. «È giunto il momento.»
Il tronco dell’albero si spaccò, rivelando una fenditura di luce purpurea dello stesso identico colore
dell’insegna del Taco Bell.
«Dov’è il cocchio?» domandò Alex.
«Ad attendervi dall’altro lato» rispose Sif. «Partite, amici miei, e uccidete tanti giganti.»
“Amici”, notai, non “domestici”.
Forse avevamo fatto davvero colpo sulla dea. O forse pensava che stessimo per morire, e un briciolo
di gentilezza non guastava.
Alex si girò verso di me. «Prima tu, Magnus. Se ci sono nemici, il tuo smoking li accecherà.»
Sam rise.
Più che altro per superare l’imbarazzo, attraversai il varco nel sorbo, e mi ritrovai in un mondo
diverso.
48
TUTTI A BORDO DEL TACO EXPRESS

L’unica presenza ostile nel parcheggio del Taco Bell era Marvin, che stava dando una bella ripassata a
suo fratello Otis.
«Grazie mille per averci fatto trasformare in calzoni farciti, idiota che non sei altro!» gridò Marvin.
«Hai idea di quanto si debba irritare Thor prima che scelga di mangiarci in quella forma?»
«Oh, guarda.» Otis puntò le corna nella nostra direzione. «I nostri passeggeri!»
Disse “passeggeri” come se avesse detto “carnefici”. Immagino che per Otis le due parole fossero
spesso sinonimi.
Le capre erano attaccate al carro, che era parcheggiato accanto al vialetto del ristorante. I collari
addobbati di campanelli tintinnavano allegramente ogni volta che scuotevano la testa. Anche la cassetta
del carro era tutta inghirlandata di fiori gialli e bianchi, che però non coprivano affatto la persistente
puzza di sudore del dio del tuono.
«Ehi, ragazzi!» dissi alle capre. «Che aria festosa avete!»
«Sì, mi sento proprio festoso» brontolò Marvin. «Sai già dove stiamo andando, umano? L’odore di
burrito alla salsiccia mi dà la nausea.»
Controllai l’invito. Sulla riga del dove adesso c’era scritto: VAI ALLE BRIDAL VEIL FALLS. HAI SOLO
CINQUE MINUTI.
Lo lessi due volte per assicurarmi di non essermelo immaginato. Avevo indovinato, allora. Forse lo
zio Randolph voleva aiutarmi davvero. E adesso avevamo l’occasione di far entrare degli imbucati divini
alle nozze.
In compenso, però, non era più possibile evitare il matrimonio. Avevo vinto una lotteria in cui il primo
premio era un viaggio di sola andata nel covo di un malvagio gigante di terra, un covo pieno di barattoli
di cetriolini, bottiglie di birra e morte. Dubitai che il gigante accettasse i coupon di Sif.
Mostrai l’invito alle capre e alle ragazze.
«Allora avevi ragione» disse Sam. «Forse Thor…»
«Sssh» l’ammonì Alex. «Da qui in poi, dobbiamo supporre che Loki abbia occhi e orecchie
dappertutto.»
Ecco un altro pensiero allegro. Le capre si guardarono intorno come se Loki potesse essere nascosto
nei paraggi, magari travestito da burrito alla salsiccia.
«Sì, forse Thor… sarà triste perché non riuscirà mai ad arrivare alle Bridal Veil Falls con una squadra
d’assalto in cinque minuti» commentò Marvin, con un tono di voce un po’ troppo alto. «Purtroppo
abbiamo appena ricevuto questa informazione e siamo in enorme svantaggio. Peccato!»
Le sue abilità di spionaggio erano raffinate quasi quanto quelle di Otis. Mi domandai se le due capre
avessero trench, cappelli e occhiali da sole abbinati.
Otis fece tintinnare allegramente i campanelli. «Sarà meglio che ci sbrighiamo ad andare incontro alla
morte. Cinque minuti non sono molti, neanche per il carro di Thor. Saltate su!»
Sam e Alex non potevano certo saltare vestite da sposa e da damigella com’erano. Dovetti issarle io,
ma nessuna delle due apprezzò il mio gesto, a giudicare dai borbottii e dalle imprecazioni dietro i veli.
Le capre partirono a spron battuto… o quel che è, trattandosi di capre. Si dice “galoppano”?
“Trotterellano”? “Sgroppano”? Arrivato in fondo al parcheggio, il carro si librò in aria. Volammo via dal
ristorante scampanellando, come una slitta di Babbo Natale carica di tacos al formaggio per tutti i bravi
bambini e i bravi giganti del mondo.
Le capre presero velocità. Attraversammo un banco di nuvole a millecinquecento chilometri all’ora,
con la nebbia gelida che mi lisciava i capelli e mi afflosciava le gale della camicia. Avrei voluto avere
un velo come Sam e Alex, o almeno un paio di occhiali da motociclista. Mi domandai se Jack potesse
fare da tergicristallo.
Poi, altrettanto rapidamente, cominciammo a scendere. Sotto di noi si stendevano le White Mountains,
creste grigie ondulate e venate di bianco nei punti in cui la neve si aggrappava alle crepe.
Otis e Marvin si tuffarono in picchiata in una delle valli, lasciando i miei organi interni sulle nuvole.
Stanley, il cavallo, avrebbe approvato.
Sam no. Si attaccò alla sbarra e borbottò: «Ragazzi, attenzione alla velocità di avvicinamento».
Alex ridacchiò. «Non fare il pilota in seconda.»
Atterrammo in una gola imboschita. Le capre si misero a trottare, con la neve che frullava intorno alle
ruote del carro come un gelato che si addensa. Otis e Marvin non ci badarono. Procedettero a tutta
velocità, scampanellando ed esalando vapore, addentrandosi sempre di più all’ombra delle montagne.
Continuai a guardare le creste sopra di noi, con la speranza di scorgere qualcuno degli Asi o un po’ di
einherjar nascosti nella boscaglia, pronti a darci una mano nel caso qualcosa fosse andato storto. Avrei
tanto voluto vedere lo scintillio della baionetta di T.J. o la faccia dipinta da berserker di Halfborn, o
magari sentire qualche imprecazione in gaelico di Mallory. Ma il bosco sembrava vuoto.
Mi ricordai quello che Utgard-Loki aveva detto: ucciderci e prendere Skofnung sarebbe stato molto
più semplice che lasciarci portare a termine il piano matrimoniale.
«Ehi, ragazzi… come facciamo a sapere che Thrym non è un fan… ehm… dell’opzione numero uno?»
«Non ci ucciderà» disse Sam. «A meno che non sia costretto a farlo. Lui vuole questa alleanza
matrimoniale con Loki, e ciò significa che ha bisogno di me, volevo dire di lei, Samirah.» Indicò Alex.
Marvin agitò le corna come se volesse staccarsi i campanelli dal collo. «Ragazzi, avete paura di un
agguato? Non vi preoccupate! Alle feste di nozze è garantito un passaggio sicuro.»
«Vero» confermò Otis. «Anche se i giganti potrebbero sempre ucciderci dopo la cerimonia, spero.»
«Vuoi dire “immagino”» lo corresse Marvin. «Non “spero”.»
«Come? Ah, sì, giusto.»
«Stiamo zitti, adesso» disse Marvin. «Non vorremo mica provocare una valanga.»
Una valanga in primavera sembrava improbabile. Non c’era tanta neve sui fianchi delle montagne. E
poi, dopo tutto quello che avevamo passato, sarebbe stato da stupidi farsi seppellire da una tonnellata di
detriti ghiacciati vestito con quello smoking elegante.
Finalmente, il carro si arrestò davanti alla parete di un dirupo alto quasi quanto un palazzo di dieci
piani. Lastre di ghiaccio ricoprivano le rocce come una cortina di zucchero. Sotto, le cascate
riprendevano lentamente vita, gorgogliavano e pulsavano di luce.
«Le Bridal Veil Falls» disse Alex. «Ci sono venuta a fare arrampicate un paio di volte.»
«Ma non vestita da sposa, immagino. O spero?» Otis mi aveva confuso.
«Cosa facciamo adesso?» domandò Sam.
«Be’, sono passati quattro minuti» affermò Marvin. «Non siamo in ritardo.»
«Sarebbe un peccato non trovare l’ingresso» dissi (stavolta lo speravo, ne ero sicuro).
In quel preciso istante, la terra rimbombò. Le cascate sembrarono stirarsi, svegliandosi dal sonno
invernale, e si sbarazzarono delle lastre di ghiaccio, che caddero e si frantumarono nel torrente. La parete
del dirupo si spaccò proprio al centro, e l’acqua sgorgò da entrambi i lati, rivelando la bocca di una
grossa caverna.
Dall’oscurità emerse una gigantessa alta più di due metri – minuta per essere del popolo dei giganti –
con indosso un abito fatto interamente di pelliccia bianca. Mi rattristai al pensiero degli animali – orsi
polari, molto probabilmente – che avevano dato la vita per confezionarlo. La donna portava i capelli
bianchissimi pettinati in due trecce ai lati del viso, e io avrei tanto voluto che avesse un velo, perché…
argh, aveva gli occhi sporgenti grossi come arance, e un naso che sembrava aver subito diverse rotture.
Quando sorrideva, le labbra e i denti erano macchiati di nero.
«Ehilà!» Aveva lo stesso tono di voce roca che mi ricordavo dal sogno.
Trasalii mio malgrado, come se potesse colpire di nuovo il mio barattolo di cetriolini.
«Sono Thrynga, principessa dei giganti di terra, sorella di Thrym, figlio di Thrym, figlio di Thrym» si
presentò. «Sono qui per dare il benvenuto a mia cognata.»
Alex si girò verso di me. Non riuscivo a vederle il viso, ma il lieve gemito che le si formò in gola
sembrava dire: “Annullare l’operazione! Annullare l’operazione!”.
Sam fece un inchino. Parlò con un tono di voce più alto del solito. «Grazie, Thrynga! Lady Samirah è
felice di essere qui. Io sono la sua damigella d’onore…»
«Prudenza» suggerii.
Sam mi guardò, con un lieve tic nervoso in un occhio. «Sì… mi chiamo Prudenza. E lui è…»
Prima che si vendicasse chiamandomi Orazio o Clarabella, dissi: «Magnus Chase! Figlio di Freyr e
latore del prezzo della sposa. Piacere!».
Thrynga si leccò le labbra macchiate di nero. Mi domandai se succhiasse le penne a sfera nel tempo
libero.
«Oh, sì» disse la gigantessa. «Sei nella lista degli invitati, figlio di Freyr. È Skofnung la spada che hai
indosso? Benissimo. La prendo io.»
«Non finché i doni non saranno scambiati durante la cerimonia» replicai. «Vogliamo rispettare la
tradizione, giusto?»
Gli occhi di Thrynga si illuminarono di un bagliore pericoloso e famelico. «Certo. La tradizione. E a
proposito…» Dalle maniche di pelliccia di orso polare, estrasse una grossa paletta di pietra.
Ebbi un momento di terrore, domandandomi se i giganti per tradizione prendessero a palettate gli
invitati a nozze.
«Vi dispiace se faccio un rapido controllo di sicurezza?» Thrynga sventolò la paletta sulle capre. Poi
ispezionò il carro, e infine noi. «Bene» disse. «Nessun Asi nei paraggi.»
«Il mio terapeuta dice che Marvin ha il complesso della divinità» intervenne Otis, senza che nessuno
gli chiedesse niente. «Ma non credo che conti.»
«Zitto o ti distruggo» bofonchiò Marvin.
Osservando il nostro carro, Thrynga aggrottò la fronte. «Questo veicolo mi sembra familiare. Ha
anche un odore familiare.»
«Be’, i lord e le loro signore usano spesso i carri per le nozze» osservai. «Lo abbiamo preso a
noleggio.»
«Mmm…» Thrynga si tirò i peli bianchi che aveva sul mento. «Va bene.» Lanciò di nuovo un’occhiata
a Skofnung sulla mia schiena, con una luce avida negli occhi. Si spostò verso l’ingresso della grotta. «Di
qua, piccoli umani.»
Non mi sembrò giusto che ci chiamasse “piccoli”; dopotutto, era una tappetta di poco più di due metri.
Thrynga entrò a grandi falcate nella grotta, seguita dalle nostre capre, che trainarono il carro al centro
dell’apertura nella cascata.
La galleria era liscia come una canna di fucile e ci passavamo a malapena. Il pavimento ghiacciato
digradava con un angolo talmente pericoloso da farmi temere che Marvin e Otis scivolassero,
trascinandoci nell’oblio. Thrynga, però, sembrava non avere problemi a reggersi in piedi.
Avevamo percorso una quindicina di metri quando sentii l’ingresso della grotta chiudersi alle nostre
spalle.
«Ehi, Thrynga, non dovremmo lasciare aperta la cascata?» domandai. «Come facciamo a uscire dopo
la cerimonia?»
La gigantessa mi fece un sorriso all’inchiostro. «Uscire? Oh, non me ne preoccuperei. E poi, l’entrata
deve restare chiusa e la galleria deve continuare a spostarsi. Non vogliamo mica che qualcuno si
immischi in questa giornata di festa, vero?»
Il bavero del mio smoking si impregnò di sudore. Per quanto tempo era rimasta aperta l’entrata della
galleria dopo il nostro passaggio? Un minuto? Due? Thor e la sua squadra erano riusciti a entrare? Chissà
se erano arrivati davvero… Non udivo niente alle nostre spalle, neanche una scoreggia delicata, per cui
era impossibile capirlo.
Avevo la sensazione che gli occhi mi ballassero nelle orbite. Non riuscivo a tenere ferme le dita.
Avrei voluto parlare con Alex e Sam, escogitare un piano d’emergenza nel caso le cose fossero andate
storte, ma non potevo farlo con la gigantessa bianca davanti a noi.
Camminando, Thrynga si tirò fuori una castagna da una tasca dell’abito. Cominciò distrattamente a
lanciarla per aria e a riprenderla. Sembrava uno strano portafortuna per un gigante. Ma, del resto, io
avevo una runa che si trasformava in una spada, per cui non potevo permettermi di criticarla.
L’aria si fece più fredda e densa. Il soffitto di pietra sembrava venirci addosso. Ebbi la sensazione di
scivolare da una parte, ma non capii se dipendeva dalle ruote sul ghiaccio, dalla galleria che si spostava
o dalla milza che mi sbatteva sul fianco per provare a uscire.
«Quanto scende in profondità questa galleria?» La mia voce riecheggiò sulle pareti di pietra.
Thrynga ridacchiò, rigirandosi la castagna fra le dita. «Hai paura dei luoghi profondi, figlio di Freyr?
Non preoccuparti. Scendiamo solo ancora un pochettino. Certo, la strada arriva fino a Helheim. Come
quasi tutte le gallerie sotterranee, alla fine.» Si fermò per mostrarmi la suola delle sue scarpe, che erano
dotate di punte di ferro. «Giganti e capre sono i più attrezzati per una strada come questa. Voi piccoletti
perdereste l’equilibrio e scivolereste fino al Muro dei Cadaveri. Non possiamo permetterlo.»
Una volta tanto, fui d’accordo con la gigantessa.
Il carro viaggiava spedito. L’odore delle ghirlande di fiori diventava sempre più dolce e forte, e mi
ricordò l’impresa di pompe funebri dove il mio corpo mortale era stato esposto in una bara. Mi augurai
di non aver bisogno di un secondo funerale. Chissà se mi avrebbero sepolto accanto a me stesso.
“Ancora un pochettino” per Thrynga significava altre quattro ore di viaggio. Le capre non sembravano
preoccupate, ma io stavo impazzendo per il freddo, l’ansia e la noia. Quella mattina, avevo bevuto
soltanto una tazza di caffè e mangiato qualche pezzetto di ciambella nel castello di Sif. Ero affamato e
stressato. Ero ridotto a uno stomaco vuoto, un fascio di nervi logori e una vescica piena. Non trovammo
nessuna stazione di servizio né piazzola di sosta lungo la strada. Neppure un cespuglio accogliente.
Anche le ragazze dovevano essere a disagio. Continuavano a spostare il peso da un piede all’altro.
Finalmente arrivammo a un bivio. La strada principale proseguiva sprofondando nell’oscurità di
ghiaccio. A destra, invece, un breve sentiero terminava davanti a un portone chiodato in rovere con i
battenti a forma di testa di drago. Sul tappetino di benvenuto c’era scritto: BENEDICI QUESTA GROTTA!
Thrynga sorrise. «Eccoci arrivati, piccoletti. Siete emozionati, spero.» Spalancò la porta, e il nostro
carro finì dritto… nella sala di Cin Cin.
49
THRYM!

All’improvviso, imboccare la strada per Helheim non sembrò più un’idea così brutta.
Non c’era da meravigliarsi che il rifugio di Thrym mi fosse sembrato così familiare quando lo avevo
visto dal barattolo di cetriolini nel mio sogno. Era una copia quasi perfetta di Bull & Finch, il pub che
aveva ispirato Cin Cin, un vecchio telefilm.
Dato che si trovava dall’altra parte del Public Garden, ci ero stato diverse volte quando ero un
senzatetto, per riscaldarmi in una gelida giornata d’inverno o per elemosinare un hamburger dai clienti
abituali. Il locale era sempre gremito e turbolento e, non so perché, mi sembrò perfettamente plausibile
che ne esistesse uno analogo per i giganti di terra.
Quando entrammo, una decina di giganti al bancone si girò verso di noi e sollevò i bicchieri di
idromele. «Samirah!» gridarono all’unisono.
Altri giganti erano seduti ai tavoli a mangiare hamburger e trangugiare idromele.
La maggior parte dei clienti era un po’ più grande di Thrynga. Indossavano un’accozzaglia di smoking,
pellicce e armature che faceva sembrare il mio look decisamente scialbo.
Scrutai la sala, ma non vidi tracce di Loki né di mio zio Randolph. Non sapevo se essere sollevato o
preoccupato.
In fondo al bar, su un semplice trono di legno sotto un televisore a grande schermo, era seduto il re dei
giganti di terra in persona: Thrym, figlio di Thrym, figlio di Thrym. «Finalmente!» mugghiò con la sua
voce da tricheco e si alzò vacillando.
Somigliava così tanto a Norm di Cin Cin che mi domandai se gli pagassero le royalty per le repliche.
Aveva un corpo perfettamente tondo, infilato dentro pantaloni neri di poliestere e una maglietta rossa con
un cravattone nero. Capelli scuri, gonfi e increspati gli incorniciavano la faccia da luna piena. Era il
primo gigante che vedevo senza peli sul viso, e mi sarebbe davvero piaciuto che se ne facesse crescere
un po’. Aveva la bocca umida e rosa, e il mento praticamente inesistente. Puntava i suoi occhi voraci
addosso ad Alex, come se fosse un delizioso piatto di cheeseburger.
«La mia regina è arrivata!» Thrym si diede una pacca sul pancione. «Che i festeggiamenti abbiano
inizio!»
«Fratello, non ti sei neppure cambiato!» gridò Thrynga. «E come mai questo locale è così sporco? Ti
avevo detto di dare una ripulita mentre ero via.»
Thrym aggrottò la fronte. «Che vuoi dire? L’abbiamo fatto. Ci siamo messi la cravatta!»
«La cravatta!» urlò la folla di giganti.
«Inutili mascalzoni che non siete altro!» Thrynga sollevò lo sgabello più vicino e lo spaccò sulla testa
di un gigante a caso, che crollò a terra. «Spegnete la TV . Pulite il bancone! Spazzate il pavimento!
Lavatevi il viso!» Si girò di scatto verso di noi. «Mi dispiace per questi idioti. Saranno pronti in un
baleno, ve lo prometto.»
«Ehm… nessun problema» dissi, danzando il balletto del devo-assolutamente-fare-pipì. «Anzi… il
bagno?»
«Là in fondo alla sala.» Thrynga indicò. «Lasciate il carro. Vi assicuro che nessuno mangerà le vostre
capre.»
Aiutai Sam e Alex a scendere, poi ci trascinammo in mezzo a tutto quel caos, schivando stracci, scope
e giganti puzzolenti, mentre Thrynga si spostava tra la folla urlando ai clienti di prepararsi per il lieto
evento del giorno, altrimenti gli avrebbe staccato la testa.
I gabinetti si trovavano nel retro, proprio dove ci sarebbero stati quelli di Cin Cin. Per fortuna, non
c’era nessuno nei paraggi tranne un gigante svenuto che russava a un tavolo in un angolo, con la faccia
appoggiata su un vassoio di nachos.
«Non capisco» disse Alex. «Perché è uguale identico a Cin Cin?»
«Un sacco di cose sono filtrate negli altri mondi da Boston» le spiegò Sam.
«Come Nidavellir che assomiglia a Southie» aggiunsi. «E Alfheim a Wellesley.»
Alex rabbrividì. «Okay, ma mi devo proprio sposare dentro Cin Cin?»
«Ne parliamo dopo» risposi. «Adesso, pipì.»
«Sì» concordarono le ragazze all’unisono.
Essendo un maschio e non in abito da sposa, finii per primo. Qualche minuto dopo, le ragazze
ricomparvero, con uno strascico di carta igienica che spuntava dall’orlo dell’abito di Alex. Dubito che
qualcuno dei giganti se ne sarebbe accorto o preoccupato, ma Sam glielo tolse.
«Secondo voi, i nostri amici sono riusciti a entrare?» domandai.
«Spero di sì» rispose Alex. «Sono talmente nervosa che… ARF!»
L’ultima sillaba l’aveva pronunciata come un orso che si strangola con una merendina. Controllai il
tavolo all’angolo per assicurarmi che il gigante non l’avesse sentita. Il bestione borbottò nel sonno e girò
la testa sul suo cuscino di triangolini di mais.
Sam rassicurò Alex dandole una pacca sulle spalle. «Va tutto bene.» Si voltò verso di me. «Alex si è
trasformata in un gorilla, in bagno. Se la caverà.»
«Che cosa?!»
«Capita» spiegò Sam. «Quando sei un mutaforma, se ti innervosisci e perdi la concentrazione…»
Alex ruttò. «Ora sto meglio. Credo di essere di nuovo umana. Aspettate…» Si dimenò nel vestito
come per cercare di scrollarsi di dosso un sassolino. «Sì. Tutto bene.»
Non capivo se fosse seria o meno. E non ero sicuro di volerlo sapere. «Alex, se cambi
accidentalmente forma mentre sei tra i giganti…»
«Non accadrà» mi promise.
«In ogni caso, non aprire bocca. Sei la sposina timida che arrossisce per un nonnulla. Parlerò io» le
disse Sam. «Seguitemi. Meniamo il can per l’aia il più possibile, augurandoci di dare a Tho… ai nostri
amici abbastanza tempo per mettersi in postazione.»
«Ma dov’è Loki?» chiesi. «E mio zio?»
Sam rimase zitta per qualche secondo. «Non lo so. Ma dobbiamo tenere gli occhi aperti. Quando
vedremo il mar…»
«Eccovi qua!» Thrynga emerse dal corridoio. «Stiamo aspettando voi.»
«Certo!» disse Sam. «Stavamo solo parlando, ehm, di quanto ci piace il mare. Spero che si veda da
quassù!»
Le feci l’occhiolino, con il messaggio implicito: “Non male. Quasi come Otis”.
Thrynga ci accompagnò di nuovo dentro il bar. Qualcuno aveva spruzzato una bella dose di deodorante
per ambienti al limone. Quasi tutti i vetri rotti e i pezzi di cibo sparsi per terra erano stati spazzati. Il
televisore era spento, e i giganti erano allineati sulla parete in fondo: i capelli pettinati, le cravatte
raddrizzate, le magliette infilate nei pantaloni.
All’unisono, cantilenarono: «Buon pomeriggio, signorina Samirah».
Alex fece un inchino.
La vera Samirah disse: «Buon pomeriggio… ehm, ragazzi. Lady Samirah è troppo sopraffatta
dall’emozione per parlare, ma è felicissima di essere qui».
Alex ragliò come un asino. I giganti lanciarono un’occhiata esitante a Thrynga, incerti sulle regole
dell’etichetta in questi casi.
Il re aggrottò la fronte. Si era messo una giacca da smoking nera con un garofano rosa appuntato sul
bavero, e così era sempre brutto ma un po’ più elegante. «Come mai la mia sposa raglia come un asino?»
«Piange di gioia perché ha finalmente visto il suo splendido sposo» si affrettò a rispondere Sam.
«Mmm…» Thrym si passò un dito sopra i suoi tanti menti. «Non fa una piega. Vieni, dolce Samirah!
Siediti accanto a me, e diamo inizio alla festa!»
Alex si accomodò sulla sedia accanto al trono di Thrym.
Thrynga affiancò il fratello come una guardia del corpo, così io e Sam ci mettemmo dall’altra parte
accanto ad Alex, tentando di assumere un’aria formale. Il nostro compito consisteva in poche, piccole
cose: non mangiare, respingere i calici di idromele che di tanto in tanto volavano accidentalmente in
direzione della sposa e ascoltare i gorgoglii del nostro stomaco.
La prima portata furono i nachos. Perché i giganti impazziscono per i nachos?
Thrynga continuava a sorridermi e a tenere d’occhio Skofnung, che era ancora a tracolla sulla mia
schiena. Agognava la spada, era ovvio. Mi chiesi se qualcuno le avesse detto che non poteva essere
sguainata alla presenza di una donna. Pensavo che le gigantesse contassero come tali. Non sapevo cosa
sarebbe accaduto se qualcuno avesse cercato di sfoderare Skofnung nonostante le sue restrizioni, ma
dubitavo che fosse una cosa positiva.
“Provaci.” La voce di Jack mi ronzò in testa come se stesse facendo un bel sogno. “Oh, amico, è
bellissima!”
“Torna a dormire, Jack” gli dissi.
I giganti ridevano e trangugiavano nachos, tenendo sempre d’occhio Thrynga per assicurarsi che non li
avrebbe colpiti con uno sgabello, per la maleducazione. Otis e Marvin erano ancora imbrigliati nel punto
esatto in cui li avevamo lasciati. Di tanto in tanto, un nacho vagante schizzava nella loro direzione, e una
delle capre lo afferrava al volo.
Thrym faceva del proprio meglio per fare conversazione con Alex. Lei si schermiva e non rispondeva.
Per non essere maleducata, ogni tanto infilava un triangolino di mais sotto il velo.
«Mangia pochissimo!» si preoccupò Thrym. «Sta bene?»
«Oh, sì» rispose Sam. «È troppo emozionata per avere appetito, Maestà.»
Thrym si strinse nelle spalle. «Be’, almeno adesso so che non è Thor.»
«Certo che no!» Il tono di voce di Sam salì di un’ottava. «Come le è saltato in mente?»
«Secoli fa, quando il martello di Thor fu rubato per la prima volta da mio nonno…»
«Nostro nonno» lo corresse Thrynga, esaminando i rilievi della sua castagna portafortuna.
«Thor si presentò travestito da sposa per recuperarlo.» Thrym tirò all’indietro le labbra umide come
se cercasse di localizzare i molari. «Me lo ricordo, anche se ero solo un bambino. La finta sposa mangiò
un bue intero e bevve due casse di idromele!»
«Tre casse» precisò Thrynga.
«Thor poteva nascondere il proprio corpo sotto un abito da sposa, ma non il suo appetito.» Thrym
sorrise ad Alex. «Ma non preoccuparti, Samirah, amore mio! So che non sei una dea. Io sono più furbo di
mio nonno!»
Thrynga stralunò gli enormi occhi. «È il mio sistema di sicurezza a tenere alla larga gli Asi, fratello.
Nessuna divinità potrebbe varcare le nostre porte senza far scattare gli allarmi!»
«Certo, certo» commentò Thrym. «In ogni caso, Samirah, sei stata sottoposta a scansione magica non
appena sei entrata. Sei, come dovevi essere, una figlia di Loki.» Aggrottò le sopracciglia. «Anche se lo è
pure la tua damigella d’onore.»
«Siamo parenti!» esclamò la vera Sam. «C’era da immaginarselo, no? Spesso sono le parenti più
strette a fare da damigella d’onore.»
Thrym annuì. «È vero. In ogni caso, quando il matrimonio sarà concluso, Casa Thrym riconquisterà la
sua antica statura! Il fallimento di mio nonno finirà nel dimenticatoio. Avremo un’alleanza matrimoniale
con Casa Loki.» Il gigante si colpì il petto, facendo ondeggiare il pancione e provocando senza dubbio
l’annegamento di intere nazioni di batteri che vivevano nelle sue viscere. «Finalmente avrò la mia
vendetta!»
Thrynga girò la testa e borbottò fra i denti: «Io avrò la mia vendetta».
«Che cosa, sorella? Non ho sentito» chiese Thrym.
«Niente.» Thrynga scoprì i denti neri. «Passiamo alla seconda portata, che ne dici?»
Come seconda portata c’erano gli hamburger. Una vera ingiustizia. Avevano un profumo così buono
che il mio stomaco cominciò a fare le capriole.
Tentai di distrarmi pensando alla battaglia imminente. Thrym sembrava abbastanza scemo. Forse
avremmo potuto sconfiggerlo. Purtroppo, però, era spalleggiato da diverse decine di giganti di terra, e
sua sorella mi preoccupava. Si intuiva che aveva secondi fini. Anche se tentava di nasconderlo, di tanto
in tanto lanciava un’occhiata carica di odio omicida ad Alex. Mi tornò in mente una cosa che Heimdall le
aveva sentito dire… che avrebbero subito ucciso la sposa. Mi domandai quanto ci avrebbero messo gli
Asi ad arrivare una volta che il martello fosse stato scoperto. Sarei riuscito a tenere in vita Alex così a
lungo? E che fine avevano fatto Loki e lo zio Randolph?
Infine i giganti conclusero il banchetto.
Thrym fece un sonoro rutto e si girò verso la futura sposa. «Finalmente, è ora di dare inizio alla
cerimonia!» esclamò. «Ci avviamo?»
Mi si strinsero le budella. «Ci avviamo? Che vuol dire?»
Thrym ridacchiò. «Be’, la cerimonia non si terrà qui. Sarebbe maleducato! Non c’è nessuno degli
invitati!» Si alzò e si diresse verso la parete opposta al bancone.
I giganti si tolsero velocemente di mezzo, spostando i tavoli e le sedie.
Thrym stese una mano. La parete si squarciò, e una nuova galleria si formò nella terra. L’aria
sgradevole e umida che proveniva dall’interno mi ricordò qualcosa che non riuscivo a collocare bene…
qualcosa di brutto.
«No.» Sam aveva la gola strozzata. «No, non possiamo andare lì.»
«Ma non possiamo celebrare il matrimonio senza il padre della sposa!» annunciò allegramente Thrym.
«Venite, amici miei! Io e la mia sposa pronunceremo i nostri voti nella grotta di Loki!»
50
UN PO’ DI VELENO RINFRESCANTE SUL VISO, SIGNORE?

Odio i puzzle. Ve l’avevo detto?


Soprattutto odio quando me ne sto a fissare una tessera per ore, chiedendomi dove va, e poi arriva
qualcuno, la schiaffa nel posto giusto e dice: “Va qui, scemo!”.
È così che mi sentii quando finalmente compresi il piano di Loki.
Mi tornarono in mente le mappe sparse sulla scrivania di zio Randolph che io e Alex avevamo trovato
quando eravamo stati a casa sua. Forse, in un angolino della mia mente, mi ero reso conto di quanto fosse
strano. Zio Randolph aveva smesso di cercare la Spada dell’Estate. Perché avrebbe dovuto studiare
ancora delle mappe? Ma non l’avevo domandato ad Alex, né a me stesso. Ero troppo distratto.
Adesso ero pronto a scommettere che Randolph si era messo a studiare le mappe topografiche del
New England, confrontandole con le antiche carte e leggende norrene, per condurre una ricerca diversa,
una ricerca che gli era stata ordinata: trovare le coordinate della grotta di Loki in rapporto alla fortezza
di Thrym. Se c’era qualcuno in grado di farlo, quello era mio zio. Ecco perché Loki gli aveva risparmiato
la vita.
Non c’era da stupirsi che Loki e Randolph non fossero al bar. Ci aspettavano all’altro capo della
galleria.
«Ci servono le nostre capre!» gridai. Mi feci largo tra la folla e raggiunsi il carro. Afferrai il muso di
Otis e appoggiai la mia fronte alla sua. «Prova, prova…» bisbigliai. «La capra è accesa? Thor, mi
senti?»
«Hai degli occhi stupendi» commentò Otis.
«Thor, allarme rosso» continuai. «Ci stiamo spostando. Ci portano alla grotta di Loki. Non… non so
dove sia. La galleria è sulla parete a destra e svolta in basso. Trovaci! Otis, Thor ha ricevuto il
messaggio?»
«Quale messaggio?» chiese la capra, con aria sognante.
«Magnus Chase!» gridò il re dei giganti. «Sei pronto?»
«Ah, certo!» risposi, urlando anch’io. «Dobbiamo solo viaggiare con il carro per… rispettare le
tradizioni nuziali.»
Gli altri giganti alzarono le spalle e annuirono come se fosse una cosa perfettamente sensata. Solo
Thrynga sembrò sospettosa. Forse cominciava a dubitare che avessimo noleggiato il carro.
All’improvviso il bar sembrò troppo piccolo, con tutti quei giganti che si infilavano il cappotto, si
raddrizzavano la cravatta, tracannavano l’ultimo goccio di idromele e tentavano di capire quale fosse il
loro posto nel corteo nuziale.
Samirah e Alex si avviarono verso il carro.
«Che facciamo?» sibilò Alex.
«Non lo so» rispose Sam. «Dove sono i rinforzi?»
«Stiamo andando nel posto sbagliato» dissi. «Come faranno a trovarci?»
Fu tutto quello che riuscimmo a dirci prima che Thrym ci raggiungesse e prendesse le redini delle
nostre capre. Portò il carro nella galleria, con la sorella al fianco e il resto dei giganti in fila per due
dietro di noi.
Non appena gli ultimi giganti furono entrati, l’ingresso della galleria si richiuse alle nostre spalle.
«Ehi, Thrym?» La mia voce aveva un’infelice somiglianza con quella di Topolino. Mi domandai che
strani gas ci fossero lì dentro. «Sicuro che sia una buona idea fidarsi di Loki? Voglio dire… non fu lui ad
avere l’idea di imbucare Thor al matrimonio di tuo nonno? Non fu lui ad aiutare Thor a uccidere la tua
famiglia?»
Il re dei giganti si fermò così bruscamente che Marvin andò a sbatterci contro. Sapevo che le mie
erano domande scortesi, soprattutto nel giorno delle sue nozze, ma mi attaccavo a qualsiasi cosa pur di
rallentare il corteo.
Thrym si girò, con gli occhi come diamanti rosa nell’oscurità. «Credi che non lo sappia, umano? Loki
è un imbroglione. È la sua natura. Ma fu Thor a uccidere mio nonno, mio padre, mia madre e tutta la mia
famiglia!»
«Tranne me» borbottò Thrynga. Nell’oscurità emetteva un lieve bagliore, come uno spettro di
tremenda bruttezza alto più di due metri. Non me n’ero accorto prima. Forse era un’abilità che i giganti di
terra possono accendere e spegnere a loro piacimento.
Thrym la ignorò. «Questa alleanza matrimoniale è il modo di Loki per chiedere scusa, non capisci?
Adesso si rende conto che gli dei sono sempre stati suoi nemici. Si pente di aver tradito mio nonno.
Uniremo le forze, conquisteremo Midgard e poi prenderemo d’assalto la città degli dei!»
Alle nostre spalle, i giganti si scatenarono in un assordante grido collettivo: «A morte gli umani!».
«Zitti!» urlò Thrynga. «Ci sono degli umani con noi!»
I giganti borbottarono. Qualcuno in fondo disse: «Presenti esclusi».
«Ma, grande re Thrym, ti fidi davvero di Loki?» domandò Sam.
Thrym rise. Per essere così grosso, aveva denti minuscoli. «Nella sua grotta, Loki è un prigioniero
indifeso! È stato lui a invitarmi lì. È stato lui a rivelarmi dove si trova. Perché compirebbe un gesto di
fiducia del genere?»
Sua sorella fece un verso di scherno. «Caspita, non lo so, fratello. Forse perché ha bisogno di un
gigante di terra che scavi una galleria che raggiunga la sua prigione? Forse perché vuole essere
liberato?»
Quasi mi augurai che Thrynga fosse dalla nostra parte, tralasciando il fatto che era una gigantessa
assetata di potere, incline alla vendetta e decisa a uccidere tutti gli umani.
«Noi abbiamo il potere» insistette Thrym. «Loki non oserebbe mai tradirci. E poi, sono io quello che
aprirà la sua grotta! Me ne sarà grato! Fintantoché onorerà la sua parte del patto, sarò felice di lasciarlo
libero.» Thrym lanciò un’occhiata maliziosa ad Alex. «E, per la bella Samirah, vale la pena correre il
rischio.»
Sotto il velo, Alex starnazzò come un pappagallo.
Fu un rumore così forte che per poco Thrynga non sbatté la testa contro il soffitto. «Cos’è stato?»
domandò. «La sposa sta soffocando?»
«No, no!» Sam diede una pacca sulla schiena ad Alex. «Era solo una risata nervosa. Samirah si
imbarazza quando le fanno un complimento.»
Thrym ridacchiò. «Allora si sentirà spesso in imbarazzo quando sarà mia moglie.»
«Oh, Maestà!» commentò Sam. «Mai furono dette parole più vere!»
«Avanti!» Thrym procedette lungo il sentiero ghiacciato.
Mi domandai se i rinforzi avessero guadagnato un po’ di tempo grazie ai nostri indugi. Ammesso che
ci fossero dei rinforzi. Thor riusciva ancora a seguire i nostri spostamenti attraverso gli occhi e le
orecchie delle capre? Aveva modo di mandare un messaggio a Blitz e a Hearth e ai miei amici einherjar
del diciannovesimo piano?
Man mano che scendevamo, la galleria si chiudeva alle nostre spalle. Ebbi l’orrenda visione di Thor
nel bar dei giganti che tentava di entrare nel muro con un cavatappi e un trapano a mano.
Dopo qualche minuto, la galleria cominciò a restringersi. Thrym rallentò. Ebbi la sensazione che la
terra stessa lo contrastasse, che cercasse di respingerlo. Forse gli Asi avevano messo una specie di
barriera magica intorno alla tomba di Loki.
In quel caso, non era sufficiente. Continuavamo a scendere, anche se l’asse del carro adesso sfregava
contro le pareti di roccia. Dietro di noi, i giganti camminavano in fila indiana. Accanto a me, Sam
mormorava piano un canto arabo che avevo già sentito durante le sue preghiere.
D’un tratto un odore tremendo salì dalle profondità, come latte inacidito, uova marce e carne bruciata.
Temevo che non fosse Thor.
«Riesco a sentirlo» bisbigliò Alex. Era la prima cosa che diceva in quasi un’ora. «Oh, no, no, no…»
La galleria all’improvviso si allargò, come se finalmente Thrym avesse sfondato le barriere della
terra. Il nostro corteo entrò nella grotta di Loki.

L’avevo vista in sogno, ma questo non mi aveva preparato alla realtà. La grotta era grande quasi come un
campo da tennis, con un alto soffitto a cupola e stalattiti spezzate, i cui resti ingombravano il pavimento.
Non vidi altre uscite. L’aria era rancida e dolciastra, impregnata com’era dalla puzza di carne marcia e
bruciata. Tutt’intorno, enormi stalagmiti si ergevano dal pavimento. Qua e là, crateri di liquido viscoso
gorgogliavano ed emanavano vapore, riempiendo la grotta di gas nocivi. La temperatura si aggirava sui
cento gradi. Con tutti i giganti della terra che entravano a passo pesante, l’odore certo non migliorò.
Al centro, proprio come nel mio sogno, Loki era disteso per terra: le caviglie unite e legate a una
stalagmite, le braccia spalancate e incatenate ad altre due stalagmiti.
A differenza delle manifestazioni che avevo già visto di lui, il vero Loki non era né bello né elegante.
Indossava solo un perizoma a brandelli. Il corpo era emaciato, sporco e coperto di cicatrici. Forse in
passato i suoi lunghi capelli stopposi avevano avuto un bel colore castano rossastro, ma ormai erano
bruciati e sbiaditi da secoli di permanenza in quella grotta tossica. E il viso – o quello che ne era rimasto
– era una maschera di tessuto cicatriziale semidisciolto.
Attorcigliato intorno alla stalattite sopra la testa di Loki, un enorme serpente fissava il prigioniero
dall’alto in basso, con le zanne che stillavano veleno giallo.
A fianco di Loki era inginocchiata una donna con una veste bianca, incappucciata. Teneva una ciotola
di metallo sopra il viso del dio per raccogliere il veleno. Il serpente però ne produceva in quantità. Il
veleno gocciolava dalle sue fauci come il sifone chiuso male di una doccia. La ciotola della donna era
troppo piccola.
In quello stesso istante, la ciotola si riempì di veleno fino all’orlo. La donna la svuotò e ne gettò il
contenuto in una delle pozze fumanti alle proprie spalle. Nonostante la rapidità dei movimenti, il veleno
schizzò comunque sulla faccia di Loki. Il dio si dimenò e urlò. La grotta tremò.
Pensai che il soffitto ci sarebbe crollato sulla testa, ma in qualche modo resse. Forse gli dei avevano
costruito la grotta in modo che resistesse alle scosse, proprio come avevano costruito le catene di Loki in
modo che non si rompessero mai, il serpente in modo che non rimanesse mai a secco e la ciotola in modo
che non fosse mai abbastanza grande.
Non sono religioso, ma tutta la scena mi ricordò il crocifisso: un uomo che soffriva in maniera
straziante, con le braccia spalancate. Certo, Loki non rappresentava per nessuno l’idea di un salvatore.
Non era buono. Non si sacrificava per una nobile causa. Era un immortale malvagio che scontava i propri
misfatti. Eppure, vedendolo lì di persona – avvilito, sporco e agonizzante – non potei fare a meno di
provare pietà. Nessuno si merita una punizione simile, neanche un assassino e un bugiardo.
La donna in bianco sollevò di nuovo la coppa per proteggere la faccia del dio.
Loki si scrollò il veleno dagli occhi, trasse un respiro spezzato e lanciò un’occhiata verso di noi.
«Benvenuto, Magnus Chase!» Mi fece un sorriso rivoltante. «Spero che mi scuserai se non mi alzo.»
«Oh, dei» mormorai fra i denti.
«Oh, no. Niente dei qui!» replicò Loki. «Non vengono mai a trovarci. Ci hanno chiuso dentro e
abbandonato. Siamo solo io e la mia adorabile moglie, Sigyn. Saluta, Sigyn.»
La donna vestita di bianco alzò gli occhi. Sotto il cappuccio, il suo volto era così emaciato che
avrebbe potuto essere un draugr. Gli occhi erano completamente rossi, l’espressione vacua. Lacrime
rosso sangue le rigavano il viso coriaceo.
«Oh, giusto.» Il tono di voce di Loki era perfino più acido dell’aria. «Sigyn non parla da mille anni.
Da quando gli Asi, nella loro infinita saggezza, hanno massacrato i nostri figli e ci hanno lasciato qui a
soffrire per l’eternità. Ma che fine hanno fatto le mie buone maniere? Abbiamo un lieto evento da
festeggiare! Come stai, Thrym, figlio di Thrym, figlio di Thrym, figlio di Thrym?»
Il re dei giganti non sembrava in grande forma. Continuava a deglutire, come se i nachos gli stessero
tornando in gola. «S-salve, Loki. In… in realtà, sono solo tre Thrym. E io sono pronto a siglare la nostra
alleanza con un matrimonio.»
«Sì, certo! Magnus, hai portato la Spada Skofnung.»
Era un’affermazione, non una domanda. Parlava con una tale autorità che dovetti resistere all’impulso
di sfilarmi la lama dalle spalle e mostrargliela.
«Ce l’abbiamo» confermai. «Ma prima le cose più importanti. Vogliamo vedere il martello.»
Loki scoppiò a ridere: una risata grassa, gorgogliante. «Prima, assicuriamoci che la sposa sia
effettivamente la sposa. Vieni qui, mia cara Samirah. Fammi vedere il viso.»
Entrambe le ragazze avanzarono verso Loki come se fossero tirate da una corda.
Il cuore mi pulsava sul colletto della camicia. Avrei dovuto prevedere che Loki avrebbe controllato
sotto il velo delle ragazze. Dopotutto, era il dio dell’inganno. Nonostante le sue rassicurazioni, Alex
avanzava barcollando verso il padre proprio come Samirah.
Mi domandai con quanta rapidità avrei potuto sguainare la spada, quanti giganti avrei ucciso. Chissà
se Otis e Marvin sarebbero stati utili in un combattimento. Forse era troppo sperare che fossero stati
addestrati in kapra-fu.
«Eccoci qua» disse Loki. «Ora la sposa alzerà il velo, va bene? Tanto per essere certi che tutti si
stanno comportando con lealtà.»
Le mani di Alex schizzarono verso l’alto come se fossero attaccate ai fili di una marionetta. Cominciò
a sollevare il velo. Nella grotta era calato il silenzio, tranne per il gorgoglio delle sorgenti calde e il
gocciolio costante del veleno nella coppa di Sigyn.
Alex scostò il velo, scoprendo… la faccia di Samirah.
Per un attimo fui colto dal panico. Le ragazze erano riuscite in qualche modo a scambiarsi? Poi mi resi
conto – non so come, forse da qualcosa nel suo sguardo – che Alex era ancora Alex. Aveva mutato forma
per assomigliare a Sam, ma avrebbe ingannato Loki?
Strinsi le dita intorno al ciondolo. Il silenzio durò così a lungo che cominciai a redigere mentalmente
il mio testamento.
«Bene» disse infine Loki. «Devo ammettere che sono sorpreso. Hai effettivamente eseguito gli ordini.
Brava! Immagino che questo significhi che la tua damigella d’onore è…»
La coppa di Sigyn scivolò, spruzzando un po’ di veleno in faccia a Loki. Il dio urlò e si dimenò nelle
sue catene. Le ragazze arretrarono svelte.
Sigyn raddrizzò la coppa. Con una manica, cercò di asciugare il veleno dagli occhi di Loki, ma così lo
fece urlare ancora di più. Quando allontanò il braccio, il bordo della sua manica fumava ed era pieno di
buchi.
«Stupida!» gemette Loki.
Per un attimo Sigyn sembrò incrociare il mio sguardo, anche se era difficile esserne certi con quegli
occhi rossi. La donna non cambiò espressione. Le lacrime continuavano a scorrere. Io però mi domandai
se avesse versato il veleno di proposito. Non capivo perché. Per quanto ne sapevo, se ne stava
inginocchiata fedelmente al fianco del marito da secoli. Eppure… sembrava un errore di un tempismo
stranamente perfetto.
Thrynga si schiarì la voce: un suono meraviglioso, tipo una motosega azionata nel fango. «Hai chiesto
della damigella d’onore, divino Loki. Dice di chiamarsi Prudenza.»
Loki ridacchiò, sbattendo ancora le ciglia per togliersi il veleno dagli occhi. «Ah, non ne dubito. Ma il
suo vero nome è Alex Fierro, e io le avevo ordinato di non venire oggi, ma non importa! Procediamo.
Thrynga, hai portato l’ospite speciale che ti avevo chiesto?»
La gigantessa storse le labbra macchiate di inchiostro e tirò fuori la castagna che prima aveva lanciato
in aria.
«Il tuo ospite speciale è una castagna?» domandai.
Loki fece una risata rauca. «Puoi ben dirlo. Vai avanti, Thrynga.»
La gigantessa infilò l’unghia del pollice nel guscio, lo aprì e gettò la castagna per terra. Una cosa
piccola e scura ne rotolò fuori: non la polpa di una castagna, ma una minuscola forma umana che si
ingrandì finché non mi si parò davanti un vecchio corpulento, con lo smoking nero spiegazzato cosparso
di paglia e la guancia marchiata da una spettrale bruciatura a forma di mano.
Tutto l’ottimismo a cui mi ero aggrappato fino a quel momento scomparve più velocemente della
chioma dorata di Sif.
«Zio Randolph.»
«Ciao, Magnus» disse, con la faccia stravolta dalla pena. «Per favore, ragazzo mio… consegnami
Skofnung.»
51
CIAO, PARANOIA! CHI SI RIVEDE, EH?

Ecco perché detesto le riunioni di famiglia.


Ti ritrovi sempre davanti quell’unico zio che non ti va di vedere. Avete presente, quello che salta fuori
da una castagna e pretende che tu gli dia una spada?
Una parte di me era tentata di dargli una botta in testa con la Pietra Skofnung. Un’altra avrebbe voluto
ricacciarlo dentro la castagna, infilarselo in tasca e portarlo lontano da Loki. Nessuna parte di me però
ebbe la minima tentazione di consegnargli la spada per liberare Loki.
«Non posso farlo, Randolph» risposi.
Mio zio trasalì. Aveva la mano destra ancora fasciata nel punto in cui gli avevo mozzato due dita. Se
la portò sul petto e allungò la mano sinistra, con occhi disperati e pesti. Mi salì un saporaccio di rame in
bocca. Il mio famigerato zio ricco adesso sembrava un mendicante più di quanto lo fossi mai sembrato io
nei due anni che avevo vissuto in strada.
«Per favore» disse. «Dovevo portarla qui oggi, ma poi l’hai presa tu. Mi… mi serve.»
Era questo il suo compito, mi resi conto. Oltre a localizzare la grotta, doveva liberare Loki, brandendo
Skofnung come solo un uomo di sangue nobile poteva fare.
«Loki non ti darà quello che vuoi» gli dissi. «La tua famiglia non c’è più.»
Randolph sbatté le palpebre come se gli avessi gettato della sabbia negli occhi. «Magnus, tu non
capisci…»
«Niente spada» lo interruppi. «Non finché non avremo visto il martello di Thor.»
Il re dei giganti fece un verso di scherno. «Il martello è il morgen-gifu, sciocco umano che non sei
altro! Verrà donato soltanto dopo la prima notte di nozze!»
Accanto a me, Alex rabbrividì. Gli archi d’oro della sua collana mi ricordarono il ponte
d’arcobaleno, il modo in cui si era distesa tranquilla e rilassata sul Bifrost creando degli angeli nella
luce. Non potevo permettere che fosse costretta a sposare un gigante. Solo che avrei tanto voluto sapere
come impedirlo.
«Ci serve il martello per benedire le nozze» dissi. «È un diritto della sposa. Permettici di vederlo e di
usarlo durante la cerimonia. Poi potrai riportarlo indietro fino… fino a domani.»
Loki rise. «Non credo proprio, Magnus Chase. Bel tentativo, però. Adesso la Spada…»
«Aspetta un attimo.» Thrynga guardò Loki con la sua espressione da “ti spacco uno sgabello in testa”.
«La ragazza reclama un suo diritto. Se vuole la benedizione del martello, deve averla. O mio fratello
vuole infrangere le nostre sacre tradizioni?»
Thrym sussultò. Guardò prima la sorella, poi gli altri giganti e infine Loki. «Io… ehm… no. Cioè, sì.
La mia sposa, Samirah, può ricevere la benedizione. Al momento opportuno, durante la cerimonia, tirerò
fuori Mjolnir. Ora cominciamo?»
Gli occhi di Thrynga scintillarono malvagi. Non capivo quale fosse il suo piano, né perché volesse
tirare fuori il martello in anticipo, ma non avevo intenzione di discutere.
Thrym batté le mani. Non l’avevo notato prima, ma alcuni giganti in fondo al corteo si erano portati
dietro qualche mobile del bar. Alla sinistra del punto in cui era legato Loki appoggiarono una panca di
legno e la coprirono con delle pellicce. Ai due lati della panca, collocarono dei pali simili a totem
scolpiti con musi di animali feroci e iscrizioni runiche.
Thrym si sedette. La panca scricchiolò sotto il suo peso. Uno dei giganti cinse la testa del re con una
corona di pietra, un cerchietto ricavato da un unico pezzo di granito scuro.
«Ragazza, tu mettiti in piedi lì, fra tuo padre e il tuo futuro marito» disse la gigantessa alla sposa.
Alex esitò.
Loki schioccò la lingua in segno di disapprovazione. «Forza, figliola. Non essere timida. Mettiti
accanto a me.»
Alex fece quello che le era stato chiesto. Volevo credere che fosse perché stava al gioco e non perché
vi fosse costretta, ma ripensai a come poco prima sembrasse tirata da una corda mentre si muoveva per
ordine di Loki.
Sam era in piedi alla mia destra, con le mani giunte per l’ansia. Randolph si trascinò ai piedi di Loki e
lì rimase a testa china, in attesa, come un mastino mortificato perché è appena tornato dalla caccia senza
un animale morto per il suo padrone.
«Il calice!» ordinò Thrym.
Uno dei giganti gli mise una coppa adorna di gemme fra le dita. Un liquido rosso schizzò fuori dal
bordo.
Thrym ne bevve un gran sorso e porse il calice ad Alex. «Samirah al-Abbas Bint Loki, ti offro da
bere, e con ciò la promessa vincolante del mio amore. Sul mio onore, tu sarai mia moglie.»
Alex prese la coppa fra le dita coperte di pizzo. Si guardò intorno, come se cercasse indicazioni. Mi
balenò per la mente che forse non sarebbe riuscita a imitare la voce di Sam come il suo aspetto.
«Non occorre che tu dica niente, ragazza» intervenne Thrynga. «Bevi e basta!»
Al posto suo, mi sarei preoccupato di bere da dove aveva bevuto Thrym, ma Alex sollevò il velo e
bevve un sorso.
«Eccellente.» Thrynga si rivolse a me, coi muscoli del viso contratti per l’impazienza. «Adesso,
finalmente, il mundr. Dammi la spada, ragazzo.»
«Sorella, no» tuonò Thrym. «Non va a te.»
Thrynga si scagliò contro il fratello. «Che cosa?! Sono la tua unica parente. Il prezzo della sposa deve
passare dalle mie mani!»
«Ho un accordo con Loki.» Thrym sembrava più sicuro adesso, quasi spavaldo, con Alex così vicina.
Ebbi l’orribile sensazione che stesse già sognando la fine della cerimonia, il momento in cui avrebbe
potuto baciare la sposa. «Ragazzo, dai la spada a tuo zio. La terrà lui.»
Thrynga mi lanciò un’occhiata torva. Guardandola negli occhi, capii cosa voleva. Intendeva reclamare
Skofnung per sé, e probabilmente anche Mjolnir. Non le interessava un’alleanza matrimoniale con Loki.
Considerava questo matrimonio un’occasione per strappare il trono al fratello. Avrebbe ucciso chiunque
glielo avesse impedito. Forse non sapeva che Skofnung non poteva essere sguainata alla presenza di una
donna. Forse pensava che avrebbe potuto usarla comunque. O forse si sarebbe accontentata di brandire
uno sgabello purché le altre due armi fossero al sicuro in suo possesso.
In altre circostanze, le avrei augurato buona fortuna per l’assassinio di suo fratello. Caspita, le avrei
perfino dato un coupon per un piatto di antipasti a metà prezzo ad Asgard. Purtroppo, però, avevo la
sensazione che il piano di Thrynga prevedesse anche l’uccisione mia, di Sam, di Alex e probabilmente
anche dello zio Randolph.
Arretrai di un passo. «Te l’ho detto, Thrym. Niente martello, niente spada.»
Randolph si trascinò verso di me, con la mano bendata appoggiata sulla fascia dello smoking.
«Magnus, non hai scelta. È questo l’ordine in cui si svolge la cerimonia. Il mundr viene dato per primo, e
per ogni matrimonio è necessaria una spada avita su cui posare gli anelli. La benedizione del martello
viene dopo.»
Jack ronzò sulla mia clavicola. Forse cercava di avvisarmi. Forse voleva solo ammirare ancora una
volta quello schianto di Skofnung. O forse era soltanto geloso perché voleva essere lui la spada della
cerimonia.
«Che c’è, ragazzo?» brontolò Thrym. «Ho già promesso che rispetteremo i diritti tradizionali. Non ti
fidi di noi?»
Per poco non scoppiai a ridere.
Guardai Sam. Con quanta più discrezione possibile, lei mi disse nella lingua dei segni: “Non c’è
scelta. Ma tienilo d’occhio”.
All’improvviso mi sentii un vero stupido. Per tutto questo tempo avremmo potuto usare la lingua dei
segni per scambiarci messaggi segreti.
D’altro canto, forse Loki controllava Sam e l’aveva costretta a dirlo. Possibile che riuscisse a entrare
nella sua mente senza proferire parola, senza neanche schioccare le dita? Ripensai a quello che Sam mi
aveva detto nell’atrio di Sif: “Devi fermarlo. Se noi siamo neutralizzate, tu potresti essere l’unico che
può farlo”. Per quanto mi era dato sapere, ero l’unico lì a non essere sotto il controllo di Loki.
Wow! Ciao, paranoia.
Una ventina di giganti mi osservava. Mio zio tese la mano buona.
Incrociai gli occhi rossi e vuoti di Sigyn: la dea inclinò la testa in modo impercettibile. Non so perché
quel gesto mi convinse, ma mi sfilai la spada e la consegnai a Randolph, con la pietra appesa al pomo.
«Sei sempre un Chase» gli dissi sottovoce. «Hai sempre una famiglia viva.»
Randolph contrasse un occhio. Prese la spada, in silenzio. Si inginocchiò davanti alla panca del re.
Annaspando un po’ per via della mano fasciata, tenne il fodero in orizzontale come se fosse un vassoio.
Thrym appoggiò due fedi d’oro al centro della lama e ci mise una mano sopra in segno di benedizione.
«Ymir, antenato degli dei e dei giganti, ascolta le mie parole. Questi anelli simboleggiano il nostro
matrimonio.» Si infilò un anello al dito e mise l’altro al dito di Alex. Poi allontanò Randolph.
Mio zio indietreggiò con la spada in mano. Io e Sam ci spostammo per fermarlo, impedendogli di
avvicinarsi di più a Loki.
Stavo per insistere sul martello, ma Thrynga mi anticipò. «Fratello, mantieni la tua promessa.»
«Sì, sì» disse Thrym. «Samirah, mia cara, siediti, per favore.»
Alex fece un passo avanti, come se fosse in trance, e si sedette al fianco del gigante. Non era facile
scorgere qualcosa sotto il velo, ma sembrava fissare l’anello sulla sua mano come se fosse un ragno
velenoso.
«Giganti, preparatevi» avvisò Thrym. «Circonderete il martello e lo porterete qui. Lo terrete sopra la
sposa, con estrema cautela, mentre noi pronunceremo la benedizione. Poi lo rispedirò subito
sottoterra…» Si girò verso Alex. «Fino a domani mattina, tesoro mio, quando sarà ufficialmente il tuo
morgen-gifu. Dopodiché, mi occuperò io di tenerlo al sicuro per te.» Le diede una pacca su un ginocchio,
che lei sembrò gradire quasi quanto la fede nuziale velenosa. Poi Thrym allungò una mano e si concentrò,
col volto paonazzo come marmellata di gelso.
La grotta rimbombò. A circa sei metri di distanza, il pavimento si aprì, e ghiaia e fango schizzarono
verso l’alto come se un enorme insetto stesse scavando una galleria per uscire allo scoperto. Il martello
di Thor affiorò in superficie e si posò in una caldera di detriti.
Era proprio come l’avevo visto in sogno: una grande testa trapezoidale di metallo, scolpita di motivi
runici, con un manico spesso e corto rivestito di pelle. La sua presenza riempì la stanza di un odore di
tuono.
Mentre i giganti correvano a circondare il martello, nella lingua dei segni dissi a Sam: “Tieni d’occhio
Randolph”. Poi sgattaiolai nell’altra direzione, verso il nostro carro. Presi il muso di Otis fra le mani e ci
premetti sopra il viso. «Siamo pronti a partire» bisbigliai. «Il martello è nella grotta. Ripeto: il martello
è nella grotta. Ottobre Rosso. L’aquila è atterrata. Schema di difesa Omega!»
Non so da dove mi venisse quella specie di gergo militare. Forse pensai che fosse adatto per spingere
Thor ad agire. E poi, ehi, ero nervoso.
«Hai dei begli occhi» sussurrò Otis.
«Portate qui il martello!» ordinò Thrym ai giganti. «Svelti!»
«Sì» concordò Loki, scuotendosi un ciuffo di capelli impregnati di veleno dagli occhi. «E già che ci
siamo… Randolph, liberami.»
Fu a quel punto che Alex scattò.
52
ZIO RANDOLPH METTE SU UN GRUPPO DI CORISTI

Alex si strappò il velo di dosso, si sfilò la nuova garrota d’oro dalla vita e la legò al collo di Thrym. Il re
dei giganti si alzò, mugghiando oltraggiato, mentre Alex gli si arrampicava sulla schiena e cominciava a
strozzarlo come aveva fatto con il lindworm nel Valhalla.
«Voglio il divorzio!» gridò lei.
La faccia di Thrym si fece di un viola ancora più scuro. Strabuzzò gli occhi. La gola gli si sarebbe
dovuta staccare di netto, ma la pelle intorno alla garrota si trasformò in roccia grigia e scintillante. Questi
stupidi giganti di terra e la loro stupida magia!
«Tradimento!» Gli occhi di Thrynga brillavano di entusiasmo, come se finalmente avesse scorto
l’occasione per perpetrare un bel tradimento anche lei. «Portatemi il martello!» Si lanciò su Mjolnir, ma
l’ascia di Samirah volò attraverso la stanza e le si conficcò in un fianco. La gigantessa cadde in avanti.
Evocai Jack. Zio Randolph era quasi accanto a Loki, ma prima che riuscissi a raggiungerlo i giganti mi
circondarono.
Io e Jack entrammo in azione, una volta tanto collaborando in modo efficace, e infilzammo un gigante
di terra dietro l’altro. Ma loro erano molto più numerosi (ATTENZIONE: OVVIETÀ IN ARRIVO) e
molto, ma molto grossi. Con la coda dell’occhio vidi Thrynga strisciare a terra per raggiungere il
martello incustodito. Thrym invece barcollava e sbatteva la schiena contro la parete della grotta,
cercando di staccarsi di dosso Alex, ma lei si era trasformata in gorilla, cosa che le permetteva di
strangolarlo meglio. La lingua del gigante aveva le dimensioni e il colore di una banana verde. Thrym
allungò una mano verso il martello di Thor, probabilmente con l’intenzione di rispedirlo sottoterra, ma
Alex strinse la garrota e gli fece perdere la concentrazione.
Nel frattempo, anche Sam si strappò il velo di dosso. La lancia da valchiria le comparve in una mano,
inondando la stanza di un fulgore bianco. Altri due giganti si scagliarono verso di lei, bloccandomi la
visuale.
Da qualche parte alle mie spalle, Loki strillò: «Adesso, sciocco!».
«Non… non posso!» gemette Randolph. «Ci sono delle donne!»
Il dio ringhiò. Forse avrebbe potuto costringere Alex e Sam a svenire, ma questo non avrebbe risolto
il problema della presenza di Thrynga e Sigyn. «Sguainala comunque» gli ordinò. «Al diavolo le
conseguenze!»
«Ma…»
«FALLO!»
Ero troppo impegnato a schivare mazze e infilzare giganti per vedere quello che stava capitando, ma
udii sguainare Skofnung. La spada liberò un ululato spettrale: un coro indignato di dodici spiriti di
berserker liberati contro la loro volontà e in violazione del loro antico tabù.
Il suono fu così forte che cominciai a vederci doppio. Diversi giganti vacillarono. Purtroppo anche
Jack ne subì le conseguenze e divenne come un peso morto nelle mie mani, proprio mentre uno dei giganti
mi dava un manrovescio, spedendomi dall’altra parte della grotta.
Mi schiantai contro una stalagmite. Qualcosa nel mio torace fece crac. Probabilmente non era un buon
segno. Mi rimisi in piedi a fatica, tentando di ignorare l’acido che sciabordava nella mia cassa toracica.
Le immagini mi ballavano davanti agli occhi. Zio Randolph urlava, e la sua voce si mescolava
all’ululato degli spiriti di Skofnung. Era avvolto in un vortice di foschia, che scaturiva a fiotti dalla lama
come se la spada si fosse trasformata in ghiaccio secco.
«Sbrigati, sciocco!» gridò Loki. «Prima che la spada si dissolva!»
Singhiozzando, Randolph colpì le catene ai piedi di Loki, che si infransero con un rumore simile a
quello di un cavo dell’alta tensione che si spezza.
«No!» gridò Sam, balzando in avanti.
Ma il danno era già stato fatto. Loki si portò le ginocchia al petto per la prima volta dopo mille anni.
Sigyn arretrò verso la parete più lontana, lasciando sgorgare liberamente il veleno del serpente in faccia
al marito. Loki urlò e si dimenò.
Sam fece per scagliare la lancia contro mio zio, ma il dio ebbe abbastanza presenza di spirito da
gridare: «Samirah, bloccati!».
Sam ubbidì, i denti serrati per lo sforzo, gli occhi ardenti di rabbia. Lanciò un urlo gutturale quasi più
terribile di quello di Skofnung, ma non riuscì ad annullare l’ordine di Loki.
Randolph vacillò e fissò la spada fumante. Il bordo si stava corrodendo, la viscida sostanza nera delle
catene di Loki consumava la lama magica.
«La pietra, idiota!» Loki lo prese a calci inutilmente, scostando la faccia dal rivolo di veleno. «Affila
la lama e continua! Ti rimangono pochi minuti!»
Il fumo continuava a vorticare intorno a Randolph, e la pelle cominciò a diventargli azzurra. Mi resi
conto che non si stava dissolvendo soltanto la spada. Continuando a ululare, gli spiriti infuriati di
Skofnung sfogavano la loro rabbia su mio zio.
Un gigante mi attaccò con un totem cerimoniale, ma io riuscii a rotolare via – mentre le costole rotte
pulsavano per protesta – e lo azzoppai ferendolo alle caviglie.
Alex stava ancora tentando di strangolare il re dei giganti. Sembravano tutti e due messi piuttosto
male. Thrym incespicava, con le mani che tentavano fiaccamente di afferrare la novella sposa. Alex
perdeva sangue da un orecchio, imbrattandosi l’abito bianco. Mi augurai che Sif non si aspettasse che
glielo restituissimo fresco di lavanderia.
Tre dei giganti avevano circondato di nuovo il martello di Thor. Lo sollevarono, vacillando sotto il
suo peso.
«Cosa ci facciamo?» mugolò uno di loro. «Lo rispediamo sottoterra?»
«Non vi azzardate!» gridò Thrynga. Si era rimessa in piedi e stringeva l’ascia ancora conficcata nel
suo fianco. «Quel martello è mio!»
Sì, certo, non conoscevo le regole della magia di terra ma, a giudicare dallo sforzo compiuto da
Thrym per recuperare il martello, dubitai che qualcuno dei giganti fosse in grado di seppellirlo di nuovo
dodici chilometri sottoterra, non nel bel mezzo di una battaglia con tanto di armi volanti e spiriti di
berserker infuriati. Mi preoccupavo di più della spada.
Randolph aveva già riaffilato la lama. Mentre Sam gli urlava di fermarsi, lui si spostò verso la mano
destra di Loki.
«Thrynga!» gridai.
La gigantessa bianca mi lanciò un’occhiata torva, con le labbra color inchiostro atteggiate in un
ringhio.
«Vuoi la spada?» dissi, indicando mio zio. «Sarà meglio che ti sbrighi.»
Mi era sembrata una buona idea aizzare una gigantessa omicida contro Loki.
Purtroppo Thrynga detestava anche me. «Quella spada è finita, sciocco. Si sta già dissolvendo. Ma
forse prenderò la tua!» E si scagliò contro di me.
Io tentai di brandire Jack, ma lui era ancora un peso morto nella mia mano. Thrynga mi si gettò
addosso, ed entrambi scivolammo a terra, finendo dritti in una delle fosse gorgoglianti.
Edizione straordinaria: le fosse di liquido bollente sono calde.
Se fossi stato un comune mortale, sarei morto nel giro di pochi secondi. Essendo un einherji, invece,
avevo un paio di minuti di tempo prima che il calore mi uccidesse. Urrà!
Il mio mondo si ridusse a un ruggito bollente, una foschia gialla sulfurea e alla sagoma bianca di una
gigantessa che mi conficcava le dita in gola.
Impugnavo ancora Jack, ma mi sentivo il braccio pesante e inutilizzabile. Con la mano libera,
artigliavo alla cieca Thrynga, cercando di liberarmi dalla sua stretta.
Per caso, sfiorai con le dita l’asta dell’ascia di Sam, ancora piantata nel fianco della gigantessa. La
levai con forza e cercai di farla roteare dalle parti della testa di Thrynga.
Tutt’a un tratto, la pressione sulla mia gola diminuì. Mi scostai la gigantessa di dosso e tornai
annaspando in superficie. In qualche modo riuscii a tirarmi fuori dalla pozza, fumante e rosso come
un’aragosta.
Ancora rumori di battaglia. Lame contro lame. Rocce che si frantumavano. Giganti che ruggivano. Gli
spiriti di Skofnung che continuavano a ululare accaniti.
Tentai di alzarmi, ma mi sentivo la pelle come il rivestimento di una salsiccia bollita. Se mi fossi
mosso troppo in fretta, temevo di poter esplodere, letteralmente. «Jack» gracidai. «Tocca a te.»
Jack lasciò la mia presa, ma si muoveva molto piano. Forse era ancora stordito dall’ululato degli
spiriti, forse le mie condizioni lo indebolivano. Con uno sforzo enorme, riuscì a impedire ai giganti di
finirmi.
Vedevo tutto bianco, con qualche grumo giallo qua e là, come se le mie pupille si fossero trasformate
in uova sode. Scorsi Thrym che barcollava verso la panca nuziale, l’afferrava con entrambe le mani, la
sollevava sopra la testa e con un ultimo impeto di energia colpiva la sposa. La panca si schiantò sulla
testa di Alex, scaraventandola giù dalla schiena del gigante.
Poi, poco lontano, udii un altro SNAP, simile a un cavo dell’alta tensione che si spezzi. La mano destra
di Loki era libera.
«Sì!» urlò il dio, rotolando su un lato, fuori dalla portata del serpente. «L’ultimo, Randolph, e la tua
famiglia ti sarà restituita!»
Sam era ancora immobile. Lottava contro la volontà di Loki con una forza tale che le era scoppiato un
capillare sulla fronte, lasciandole una scia di puntini rossi in ricordo. Alla luce della sua lancia, la faccia
di Randolph sembrava più azzurra che mai. Stava diventando traslucido, e la struttura del cranio
cominciava a trasparire sotto la pelle, mentre lui affilava la lama di Skofnung in fretta e furia per sferrare
un ultimo colpo.
Tre giganti barcollavano per la grotta con il martello di Thor in mano, senza sapere cosa farne. Thrym
si voltò verso Alex, che adesso giaceva stordita per terra. Un altro gigante si avvicinò a Sam con cautela,
tenendo d’occhio la sua lancia scintillante, con l’aria di chiedersi se la ragazza fosse davvero inerme
come sembrava.
«Jack» mormorai, con la voce che era come sabbia bagnata. Ma non sapevo cosa dirgli. Ero a
malapena capace di muovermi.
Una decina di giganti era ancora in grado di combattere. Loki era quasi libero. Non potevo salvare
Alex e Sam e contemporaneamente fermare mio zio. Era la fine.
Poi la caverna tremò. Il soffitto si squarciò come spaccato dalle pinze di un braccio meccanico,
sputando fuori un nano, un elfo e diversi einherjar.
Blitz colpì per primo. Mentre Thrym guardava in alto, momentaneamente distratto dalla voglia di
uccidere la sposa, un nano in cotta di maglia a fantasia cachemire gli atterrò sulla faccia. Blitz non era
pesante, ma aveva la forza di gravità e il fattore sorpresa dalla sua. Il re dei giganti si accasciò sotto di
lui come una torre di mattoncini giocattolo.
Hearthstone atterrò sul pavimento della caverna con la consueta grazia elfica e lanciò immediatamente
una runa contro Loki:

Immagino che la I indicasse un’antica parola norrena per dire “ghiaccio”, perché all’improvviso il dio
del male ne fu ricoperto, gli occhi sgranati per lo shock, il braccio sinistro ancora legato all’ultima
stalagmite, trasformato nel ghiacciolo più brutto che avessi mai visto.
I miei compagni del diciannovesimo piano si lanciarono entusiasti in battaglia.
«Morte e gloria!» ruggì Halfborn.
«Uccidiamoli tutti!» gli fece eco Mallory.
«Alla carica» gridò T.J. conficcando la baionetta nel gigante più vicino.
I pugnali di Mallory sfolgorarono, mentre lei faceva fuori altri due giganti con un paio di colpi bene
assestati sul cavallo dei pantaloni. (Consiglio: non combattere mai contro Mallory senza proteggere le
parti sensibili con un’armatura in titanio.)
Come suo solito, Halfborn Gunderson, la nostra personale versione di gigante, si gettò in battaglia a
petto nudo, con delle faccine sorridenti rosso sangue dipinte sul torace (probabilmente Mallory si era
annoiata durante il viaggio in galleria). Ridendo come un pazzo, afferrò la testa di un gigante e la presentò
al suo ginocchio sinistro.
Con Loki congelato, Samirah riuscì a sottrarsi al suo controllo. Mise subito in azione la lancia,
impalando un gigante che avanzava verso di lei e minacciando Randolph. «Togliti di mezzo!» ringhiò.
Per un attimo, pensai che il vento fosse cambiato. I giganti cadevano l’uno dietro l’altro. Richiamai
Jack, che mi volò in mano, e sebbene fossi stracotto, sebbene fossi sfinito, riuscii a rimettermi in piedi.
La presenza dei miei amici mi ricaricava. Barcollando, raggiunsi Alex e l’aiutai ad alzarsi.
«Sto bene» mormorò lei, anche se era disorientata e sanguinante. Come fosse sopravvissuta allo
schianto di quella panca superava le mie capacità di comprensione. Aveva davvero la testa dura. «Lui
non… lui non mi controllava. Loki, intendo. Io… facevo finta.» Mi afferrò una mano. Era preoccupata
che non le credessi.
«Lo so, Alex.» Le strinsi forte la mano. «Sei stata grande.»
Nel frattempo, Blitzen colpì a più riprese Thrym in faccia con il cravattino in cotta di maglia. A ogni
colpo si voltava e mi sorrideva. «Thor si è messo in contatto con noi, figliolo. Ottimo lavoro! In effetti, è
stato più semplice per me scavare una galleria una volta saputa la posizione. Gli dei si stanno ancora
aprendo la strada nel covo di questo idiota.» Tirò un altro pugno in faccia a Thrym. «Questo qui indurisce
la roccia con la magia, ma ce la faranno.»
I corpi dei giganti caduti giacevano sparsi per la grotta. Gli ultimi tre rimasti in piedi erano quelli che
proteggevano il martello di Thor, ma si portavano dietro Mjolnir da così tanto, facendo avanti e indietro
fra Thrym e Thrynga come facchini con un divano, che ormai erano stremati.
Con la sua ascia da guerra, Halfborn Gunderson li fece fuori in un lampo. Poi gli montò sulla schiena
in trionfo, sfregandosi le mani con entusiasmo. «Avevo sempre desiderato farlo!» Si sforzò di sollevare
Mjolnir, ma il martello testardamente non si mosse.
Mallory fece un verso di scherno. «Come ti dico sempre, non hai la forza di tre giganti. Adesso dammi
una mano a…»
«Attenti!» gridò Alex.
Il tentativo di Halfborn con il martello ci aveva distratto da zio Randolph e Loki. Mi girai proprio
mentre il blocco di ghiaccio si frantumava, sventagliandoci contro le schegge congelate.
Non appena fummo accecati, mio zio si lanciò in avanti con Skofnung. Colpì l’ultimo vincolo intorno
al polso sinistro di Loki, facendo saltare le catene.
La spada si dissolse in uno sbuffo di fumo. Il coro di berserker inferociti ammutolì. Mio zio cadde in
ginocchio urlando, col braccio che cominciava a sciogliersi in un vapore azzurro.
In fondo alla grotta, Sigyn si fece piccola piccola, mentre suo marito si alzava.
«Libero!» esclamò Loki. Il suo corpo era emaciato e fumante, il volto una landa di carne sfregiata.
«Adesso comincia il divertimento.»
53
DATEMI UN MARTELLO! (QUALCUNO DOVEVA PUR DIRLO)

Tempismo.
Gli Asi avevano molto da migliorare in questo campo.
Non avevamo ancora nessun rinforzo divino. Avevamo un martello, ma nessuno che lo brandisse. E
Loki si ergeva senza catene davanti a noi in tutta la sua mutilata gloria, i capelli incrostati di ghiaccio, il
veleno che gli gocciolava dal viso.
«Ah, sì.» Sorrise. «Innanzitutto…»
Attaccò con più rapidità e forza di quanto avrebbe dovuto essere possibile per uno che era stato
incatenato mille anni. Afferrò il serpente che gli aveva versato addosso il veleno fino ad allora, lo
strappò dalla stalattite e lo fece schioccare come una frusta. La spina dell’animale si spezzò con un
rumore simile alle bolle del pluriball schiacciate fra le dita.
Loki lasciò cadere il serpente, ormai inerte come un tubo di gomma, e si girò verso di noi. «Quanto lo
odiavo» commentò. «Chi è il prossimo?»
Jack giaceva come un peso morto nella mia mano. Alex riusciva a malapena a stare in piedi. Sam
aveva la lancia pronta, ma sembrava riluttante ad attaccare, probabilmente perché non voleva essere di
nuovo immobilizzata dal padre… o peggio.
Gli altri miei amici serrarono i ranghi intorno a me: tre vigorosi einherjar, Blitzen con la sua cotta di
maglia alla moda e Hearthstone con le sue nuove rune di sorbo che ticchettavano nella borsa mentre le
rimescolava con le dita.
«Possiamo prenderlo» disse T.J. «Tutti insieme. Pronti?»
Loki spalancò le braccia in un gesto accogliente. Randolph si inginocchiò ai suoi piedi, ammutolito
per il dolore straziante, mentre il vapore azzurro continuava a diffondersi sul suo braccio, corrodendo la
carne. Sulla parete in fondo, Sigyn era immobile, gli occhi rossi indecifrabili, la ciotola del veleno vuota
stretta al petto.
«Su, su, forza, guerrieri di Odino» ci punzecchiò Loki. «Sono debole e disarmato. Potete farcela!»
Fu allora che nel profondo del cuore capii che non ce l’avremmo fatta. Avremmo attaccato e saremmo
morti. Con la spina dorsale spezzata come quella del serpente.
Ma non avevamo scelta. Dovevamo tentare.
Poi, dalla parete alle nostre spalle arrivò una specie di crepitio, seguito da una voce familiare. «Ci
siamo! Sì, Heimdall. Sono sicuro stavolta. Probabilmente.»
L’estremità di un bastone di ferro fece capolino nella roccia, sondando il terreno intorno. La parete
cominciò a sgretolarsi.
Loki abbassò le braccia e sospirò. Sembrava più infastidito che terrorizzato.
«Ah, be’.» Mi fece l’occhiolino, o forse era un tic che gli era rimasto dopo secoli di veleno. «La
prossima volta?»
Il terreno si sgretolò sotto i suoi piedi. La metà posteriore della caverna si staccò. Stalagmiti e
stalattiti implosero. Pozze di liquido bollente si trasformarono in cascate fumanti prima di scomparire nel
vuoto. Loki e Sigyn precipitarono nel nulla. Anche mio zio, inginocchiato sul bordo del crepaccio,
scivolò nella voragine.
«Randolph!» Corsi verso il margine dell’abisso.
Una quindicina di metri sotto, Randolph, accovacciato su un declivio di roccia bagnata e fumante,
tentava di non perdere l’equilibrio. Il suo braccio destro era sparito ormai, e il vapore azzurro continuava
a salirgli lentamente verso la spalla. Lo zio sollevò gli occhi e mi guardò, col teschio che mi sorrideva
attraverso la faccia traslucida.
«Randolph, tieniti forte!» dissi.
«No, Magnus.» Parlò a bassa voce, come se non volesse svegliare nessuno. «La mia famiglia…»
«Sono io la tua famiglia, vecchio idiota che non sei altro!»
Forse non era la cosa più affettuosa da dire. Forse avrei dovuto pensare “Che liberazione” e lasciarlo
cadere. Ma aveva ragione Annabeth. Randolph era la nostra famiglia. L’intero clan dei Chase attirava
l’attenzione degli dei, e Randolph aveva sopportato questa maledizione più della maggior parte di noi.
Nonostante tutto, io avevo ancora voglia di aiutarlo.
Randolph scosse la testa, con lo sguardo combattuto fra il dolore e la tristezza. «Mi dispiace. Voglio
vederle.»
Scivolò nell’oscurità senza emettere un suono.
Non ebbi tempo di rattristarmi, né di elaborare quello che era accaduto. Un attimo dopo, tre dei in
armatura tattica fecero irruzione nella grotta.
Tutti indossavano elmetti, occhiali a raggi infrarossi, anfibi e un’armatura di kevlar con le lettere
F.D.M.R.R. sul petto. Una vera e propria unità speciale d’assalto, se non fosse stato per l’eccessiva
quantità di peli sul viso e le armi non standard.
Thor fu il primo a precipitarsi dentro, impugnando il bastone di ferro come un fucile e puntandolo in
ogni direzione. «Occhio agli angoli!» gridò.
A entrare subito dopo fu Heimdall, che sorrideva come se si divertisse un mondo. Anche lui teneva
l’enorme spada come un fucile, con il phablet del Giorno del Giudizio attaccato in cima. Percorse tutta la
stanza con lo sguardo, scattando selfie da ogni angolatura.
Il terzo non lo riconobbi. Varcò la soglia della grotta con un CLANG, perché aveva il piede destro
infilato nella scarpa extralarge più grottesca che avessi mai visto. Era stata rattoppata con brandelli di
pelle e metallo, pezzi di scarpe da ginnastica dai colori fluo, strisce di velcro e vecchie fibbie d’ottone.
Aveva anche una mezza decina di tacchi a spillo che sbucavano come aculei di porcospino dalla punta.
I tre dei scorrazzarono nella grotta alla ricerca di minacce.
Con un tempismo incredibilmente pessimo, il re dei giganti cominciò a riprendere coscienza. Il dio
con la scarpa strana corse da lui e sollevò il piede destro. L’anfibio divenne grande come una limousine,
un parallelepipedo da sfasciacarrozze fatto di pezzi di vecchie scarpe e frammenti di metallo compattati
in un piedone letale. Thrym non fece neanche in tempo a urlare prima di essere calpestato.
SPLAT! Fine delle minacce.
«Bravo, Vidar!» gridò Heimdall. «Potresti rifarlo, così scatto una foto?»
Vidar aggrottò la fronte e indicò il caos. Usando alla perfezione la lingua dei segni disse: “Ormai è
spiaccicato”.
Dall’altra parte della stanza, Thor restò senza fiato. «Il mio piccolino!» Passò di corsa davanti alle
capre e afferrò Mjolnir. «Finalmente! Stai bene, Mjmj? Questi perfidi giganti ti hanno riprogrammato i
canali?»
Marvin fece tintinnare i campanelli del collare. «Stiamo bene, capo» borbottò. «Grazie per averlo
chiesto.»
Guardai Sam. «Ha chiamato il suo martello Mjmj, o mi sbaglio?»
Alex ringhiò: «Ehi, Asi, idioti che non siete altro!». Indicò l’abisso che si era appena formato. «Loki è
andato di là.»
«Loki?» Thor si voltò. «Dove?» La folgore gli baluginò nella barba, rendendo probabilmente inutili
gli occhiali a infrarossi.
Con un tempismo perfino peggiore di Thrym, la gigantessa Thrynga scelse proprio quel momento per
dimostrare di essere ancora viva. Come una balena che salta fuori dall’acqua, si lanciò dalla cloaca più
vicina e atterrò boccheggiante e fumante ai piedi di Heimdall. «Vi uccido tutti!» gracidò. Non era certo la
cosa più furba da dire davanti a tre Asi in armatura tattica.
Con aria indifferente, Thor puntò il martello contro Thrynga come se stesse facendo zapping. Cirri di
folgore schizzarono dalle rune incise sul metallo. La gigantessa esplose in un milione di frammenti.
«Ehi!» si lamentò Heimdall. «Che ti avevo detto? Non puoi usare la folgore così vicino al mio
phablet! Mi vuoi friggere la scheda madre?»
Thor grugnì. «Bene, mortali. Per fortuna siamo arrivati quando siamo arrivati, altrimenti la gigantessa
avrebbe potuto fare del male a qualcuno! Ora, cosa stavate dicendo di Loki?»

Il problema con gli dei è che non puoi tirargli un ceffone quando si comportano da idioti.
Te lo restituirebbero e ci rimetteresti la pelle.
E poi, ero troppo esausto, scioccato, bollito e sconfortato per lamentarmi tanto, anche se gli Asi
avevano fatto fuggire Loki.
“No” mi corressi. “Noi abbiamo fatto fuggire Loki.”
Mentre Thor sussurrava paroline dolci al martello, Heimdall, sull’orlo dell’abisso, scrutava
l’oscurità. «Arriva fino a Helheim. Non c’è traccia di Loki.»
«E di mio zio?» chiesi.
Heimdall voltò le bianche iridi verso di me. Una volta tanto, non sorrideva. «Sai, Magnus, a volte è
meglio non guardare fin dove puoi guardare, né ascoltare tutto quello che riesci a sentire.» Mi diede una
pacca sulla spalla e si allontanò, lasciandomi lì a domandarmi cosa cavolo avesse voluto dire.
Vidar, il dio con la scarpa, controllò se ci fossero feriti, ma stavano tutti più o meno bene, tranne i
giganti, cioè. Loro erano tutti morti.
Halfborn si era stirato l’inguine cercando di sollevare il martello di Thor. Mallory si era fatta venire il
mal di stomaco a furia di ridere e prenderlo in giro, ma entrambi questi problemi furono risolti
facilmente. T.J. era uscito dalla battaglia senza un graffio, anche se era preoccupato di come fare a
togliere il sangue di gigante dal calcio del fucile.
Hearthstone stava bene, pur continuando a ripetere il segno per othala, la sua runa mancante. Disse a
Blitz che avrebbe potuto fermare Loki se l’avesse avuta. Sospettai che fosse troppo duro con se stesso,
ma non ne ero sicuro. Quanto a Blitz, se ne stava appoggiato a una parete della caverna e beveva da una
borraccia, stanco dopo aver scavato nella pietra fino alla grotta di Loki.
Subito dopo l’arrivo degli dei, Jack si era trasformato in ciondolo, borbottando che non voleva vedere
quella diva della spada di Heimdall. A dire il vero, credo che si sentisse soprattutto in colpa per non
esserci stato di grande aiuto, oltre che dispiaciuto perché Skofnung non si era rivelata la spada dei suoi
sogni. Adesso sonnecchiava di nuovo appeso al mio collo. Per fortuna, non aveva subito nessun danno.
Ed era stato così imbambolato per la maggior parte del combattimento da non trasmettermi quasi nessuna
stanchezza. Avrebbe combattuto e vinto (oltre che cantato i brani della Top Ten) un altro giorno.
Io, Sam e Alex eravamo seduti sull’orlo dell’abisso ad ascoltare l’eco nell’oscurità. Vidar mi fasciò
le costole, poi mi passò un po’ di pomata sulle braccia e sul viso, e nella lingua dei segni mi comunicò
che non sarei morto. Bendò anche l’orecchio di Alex e le disse: “Lieve commozione cerebrale. Resta
sveglia”.
Sam non aveva subito grandi danni fisici, ma percepivo il dolore emotivo che irradiava. Teneva la
lancia in grembo come una pagaia da kayak, quasi fosse pronta a navigare dritta verso Helheim. Io e Alex
capimmo d’istinto di non doverla lasciare sola.
«Ero di nuovo inerme» mormorò sconsolata. «Lui… lui mi controllava.»
Alex le diede una pacca su una gamba. «Non è del tutto vero. Sei viva.»
Guardai più volte prima l’una e poi l’altra. «Che vuoi dire?»
L’occhio più scuro di Alex era più dilatato dell’altro – probabilmente per via della commozione
cerebrale – e rendeva il suo sguardo ancora più vuoto e traumatizzato. «Quando le cose si sono messe
male durante il combattimento, Loki ci ha… ordinato di morire. Ha detto al mio cuore di smettere di
battere, ai miei polmoni di smettere di respirare. Presumo che abbia fatto lo stesso con Sam.»
Samirah annuì. Le sue nocche si sbiancavano sull’asta della lancia.
«Oh, dei!» Mi montò dentro talmente tanta rabbia che non sapevo cosa farne. Il mio petto ribolliva alla
stessa temperatura della cloaca. Come se non odiassi Loki già abbastanza! Avrei voluto seguirlo in capo
ai Nove Mondi per… fargli qualcosa di molto, molto brutto.
“Tipo legarlo con le viscere dei figli?” chiese una vocina nella mia testa. “Mettergli un serpente
velenoso sopra la faccia? Che risultato hanno ottenuto gli Asi con questo genere di giustizia?”
«Allora gli avete opposto resistenza, ce l’avete fatta» dissi alla ragazze. «Brave!»
Alex scrollò le spalle. «Te l’ho detto, Loki non mi può controllare. Prima, recitavo solo per non farlo
insospettire. Ma, Sam, sì… è stato un buon inizio. Sei rimasta viva. Non puoi aspettarti di resistergli
totalmente subito. Possiamo lavorarci insieme…»
«È libero, Alex!» sbottò Sam. «Abbiamo fallito. Io ho fallito. Se fossi stata più veloce, se avessi
capito che…»
«Fallito?» Il dio del tuono comparve all’improvviso accanto a noi. «Sciocchezze, ragazza! Avete
recuperato il mio martello! Voi siete degli eroi e riceverete tutti un bel trofeo!»
Vidi che Sam digrignava i denti per lo sforzo di non urlargli una rispostaccia. Ebbi paura che le
scoppiasse un altro capillare.
«Te ne sono grata, Thor» disse infine Sam. «Ma a Loki non è mai interessato il martello. Era tutta una
copertura per farsi liberare.»
Thor aggrottò la fronte e sollevò Mjolnir. «Oh, non preoccuparti, cara. Rimetteremo Loki in catene. E,
te lo prometto, questo martello gli interesserà quando glielo pianterò in gola!»
Parole coraggiose, certo, ma quando guardai i miei amici intuii che nessuno si sentiva rassicurato.
Fissai le lettere sul gilè in kevlar di Thor. «Cosa vuol dire F.D.M.R.R. , a proposito?»
«È un acronimo per Forza Divina di Mobilitazione e Reazione Rapida» spiegò Thor.
«Rapida?» ringhiò Alex. «Mi prendi in giro? Ci avete messo un’eternità!»
«Non esageriamo» intervenne Heimdall. «Eravate un bersaglio mobile, no? Siamo entrati in galleria
alle Bridal Veil Falls senza nessunissimo problema. Ma poi tutto il trasferimento al covo di Loki… be’,
ci ha colti alla sprovvista. Entrambe le estremità del tunnel erano sigillate con pietra indurita dai giganti
di terra, e noi eravamo bloccati dentro. Scavare per cercarvi… be’, perfino per tre dei è stato difficile.»
“Soprattutto se qualcuno scatta foto di continuo e non dà una mano” aggiunse Vidar.
Gli altri due lo ignorarono, ma Hearthstone replicò: “Fanno sempre finta di non sentire, vero?”.
“Eh, sì” concordò il dio. “Ascoltare gli altri? Da sciocchi!”
Decisi che Vidar mi stava simpatico. Accompagnando le mie parole con la lingua dei segni, gli
domandai: «Sei il dio delle scarpe? Della guarigione?».
Vidar fece un verso di scherno. Piegò gli indici, ne avvicinò uno a un occhio e poi diede un colpetto
con l’altro curvato a uncino. Non avevo mai visto quel segno, ma lo capii: “Occhio per occhio. Artigli e
uncini”. «Sei il dio della vendetta.»
Mi parve strano, perché sembrava gentilissimo ed era muto. Ma, del resto, indossava una scarpa
espansibile capace di spiaccicare il re dei giganti con un colpo solo.
«Oh, Vidar è quello a cui ci rivolgiamo per le emergenze!» intervenne Heimdall. «Il suo scarponcino è
fatto con tutti i pezzi di scarpe gettate via! Può…, be’, avete visto cosa può fare. Ehi, che ne dite di
scattare una foto di gruppo?»
«No» rispondemmo tutti all’unisono.
Thor lanciò un’occhiata torva al guardiano del ponte. «Vidar è detto anche “il Silenzioso”, il che
significa che non parla. E non si fa selfie di continuo, il che lo rende una compagnia piacevole.»
Mallory Keen rinfoderò i pugnali gemelli. «Be’, affascinante, certo. Ma voi Asi non dovreste fare
qualcosa di produttivo adesso, tipo… che ne so? Trovare Loki e legarlo di nuovo?»
“La ragazza ha ragione” disse Vidar. “Stiamo perdendo tempo.”
«Ascolta il valoroso Vidar, ragazza» commentò Thor. «La cattura di Loki può aspettare un altro
giorno. Adesso dovremmo celebrare il ritrovamento del mio martello!»
“Non è quello che ho detto” precisò Vidar.
«E poi, non c’è bisogno che io cerchi quel mascalzone» aggiunse Thor. «So esattamente dove sta
andando.»
«Davvero?» domandai. «E dove?»
Thor mi diede una pacca sulla schiena, per fortuna con la mano, non con il martello. «Ne riparleremo
nel Valhalla. Offro io la cena!»
54
GLI SCOIATTOLI ALLA FINESTRA POSSONO ESSERE PIÙ GRANDI DI COME
SEMBRANO

Adoro gli dei che si offrono di pagare una cena che è già gratis.
Quasi quanto adoro le squadre d’assalto che arrivano dopo l’assalto.
Non ebbi mai l’occasione di lamentarmene, però. Quando tornammo nel Valhalla – grazie a un
affollatissimo carro di Thor – ci fu una festa in nostro onore che si rivelò scatenata anche per gli standard
vichinghi. Thor sfilò nella sala dei banchetti con il martello alzato, sorridendo e gridando: «A morte i
nemici!» e provocando un trambusto generale. I corni suonarono a festa. Furono tracannati litri e litri di
idromele. Il possente Mjolnir spaccò molte pignatte e si mangiarono caramelle a volontà.
Solo noi ce ne stavamo in disparte, seduti intorno al nostro tavolo con la faccia scura, a ricevere
svogliatamente le pacche sulla schiena e i complimenti degli altri einherjar. Tutti ci ripetevano che
eravamo degli eroi. Non solo avevamo recuperato il martello di Thor, ma avevamo anche sbaragliato un
intero corteo nuziale di giganti malvagi e mal vestiti!
Nessuno si lamentò della presenza di Blitz e Hearth. Nessuno prestò molta attenzione al nostro nuovo
amico Vidar, nonostante la sua strana scarpa. Degno del nome che portava, il Silenzioso rimase seduto
insieme a noi in silenzio, facendo di tanto in tanto qualche domanda a Hearthstone in una lingua dei segni
che io non conoscevo.
Heimdall se ne andò presto per tornare sul Bifrost. Aveva alcuni selfie importanti da scattare. Nel
frattempo, Thor festeggiava come un pazzo, facendo body surf sulla folla di einherjar e valchirie.
Qualunque cosa avesse voluto dirci su dove si trovava Loki, se l’era dimenticato, e io non avevo la
minima intenzione di avvicinarlo in quella bolgia.
La mia unica consolazione: alcuni dei lord che sedevano al tavolo dei capi sembravano a disagio.
Ogni tanto Helgi, il direttore, scrutava la folla con sguardo ostile, come se volesse gridare quello che
pensavo anch’io: “SMETTETELA DI FESTEGGIARE, IDIOTI! LOKI È LIBERO!”.
Forse gli einherjar avevano deciso di non preoccuparsene. Forse Thor li aveva rassicurati che era un
problema facilmente risolvibile. O forse festeggiavano proprio perché il Ragnarok era imminente. Era
questa l’idea che mi spaventava di più.
Quando la cena si concluse, Thor se ne andò sul suo carro senza neanche salutarci. Gridò alla folla
che doveva correre ai confini di Midgard per dimostrare la potenza del martello riducendo a pezzettini
alcuni eserciti di giganti. Gli einherjar esultarono e cominciarono a sciamare fuori dalla sala dei
banchetti, diretti senz’altro a feste più piccole ma perfino più scatenate.
Vidar ci salutò dopo una breve conversazione con Hearthstone. Qualunque cosa gli avesse detto, l’elfo
decise di non condividerla con noi. I miei vicini di stanza si offrirono di restare con me, ma erano stati
invitati al dopo-festa di un dopo-festa, e io li pregai di andare. Si meritavano un po’ di divertimento dopo
il tedio della galleria scavata per raggiungere la grotta di Loki.
Sam, Alex, Blitz e Hearth mi accompagnarono agli ascensori.
Prima che ci arrivassimo, Helgi comparve e mi afferrò per un braccio. «Tu e i tuoi amici dovete
venire con me.» Aveva un tono di voce cupo.
Ebbi la sensazione che non avremmo ricevuto trofei e coupon per le nostre intrepide gesta.
Helgi ci condusse attraverso corridoi che non avevo mai visto prima, lungo scale che salivano verso
gli angoli più remoti dell’hotel. Sapevo che il Valhalla era grande, ma ogni volta che andavo in
esplorazione, rimanevo allibito lo stesso. Quel posto non finiva mai, come un centro commerciale o una
lezione di chimica.
Alla fine arrivammo davanti a una pesante porta di quercia con una targa di ottone che annunciava:
DIRETTORE .
Helgi l’aprì, e noi lo seguimmo nell’ufficio.
Tre delle pareti e il soffitto erano rivestiti di lance: aste di rovere levigato sormontate da scintillanti
punte d’argento. La parete dietro la scrivania di Helgi era un’enorme vetrata che si affacciava sugli
infiniti rami ondeggianti dell’Albero del Mondo.
Avevo visto tanti panorami diversi dalle finestre del Valhalla. L’hotel aveva accesso a ciascuno dei
Nove Mondi. Ma non avevo mai avuto una visione diretta dell’albero. Mi disorientò, come se stessimo
fluttuando sui suoi rami, cosa che, cosmicamente parlando, in effetti stavamo davvero facendo.
«Sedetevi.» Helgi indicò una serie di sedie disposte a semicerchio di fronte alla scrivania.
Io, Sam, Alex, Blitz e Hearth ci accomodammo fra cigolii di pelle e scricchiolii di legno. Helgi si
mise a sedere con un tonfo dietro l’enorme scrivania di mogano. Il ripiano era vuoto, a parte uno di quei
gadget da ufficio con i cuscinetti a sfera che si colpiscono all’infinito, avanti e indietro.
Oh… e poi c’erano i corvi. Sul bordo della scrivania, ai due angoli, erano appollaiati i due corvi
gemelli di Odino, ed entrambi mi guardavano di traverso, come se cercassero di stabilire se mandarmi in
punizione o gettarmi in pasto ai troll.
Helgi si appoggiò allo schienale e unì i polpastrelli. Avrebbe avuto un’aria intimidatoria, se non fosse
stato per la zazzera di capelli – simile a un animale schiacciato sull’autostrada – e per gli avanzi del
banchetto sulla barba.
Sam giocherellava nervosamente con l’anello delle sue chiavi. «Signore, quello che è successo nella
grotta di Loki… non è colpa dei miei amici. Me ne assumo la piena responsabilità…»
«Eh no, scordatelo!» sbottò Alex. Poi rivolgendosi al direttore aggiunse: «Sam non ha fatto niente di
male. Se deve punire qualcuno…».
«Basta!» ordinò Helgi. «Nessuno sarà punito.»
Blitzen fece un sospiro di sollievo. «Be’, meno male. Perché non abbiamo avuto il tempo per restituire
questo a Thor, ma volevamo farlo, davvero.»
Hearthstone tirò fuori il lasciapassare di Thor e lo posò sulla scrivania del direttore.
Helgi aggrottò la fronte e lo infilò nel cassetto. Mi domandai quanti altri ne avesse lì dentro.
«Siete qui perché i corvi di Odino hanno chiesto di voi» disse il direttore.
«Huginn e Muninn?» “Pensiero” e “Memoria”, mi ricordai dalla Guida dell’Hotel Valhalla.
Gli uccelli emisero quello strano verso gracchiante tipico dei corvi, come se stessero vomitando le
anime di tutti i rospi che avevano ingurgitato nel corso dei secoli.
Erano molto più grossi dei corvi normali, e più raccapriccianti. I loro occhi erano come porte
spalancate sull’abisso. Le piume erano di migliaia di sfumature diverse di ebano e, quando la luce le
colpiva, sembravano attraversate da rune scintillanti: parole oscure che spuntavano da un mare di
inchiostro nero.
Helgi diede un colpetto al gadget che aveva sulla scrivania. Le sfere cominciarono a dondolare e a
colpirsi l’una con l’altra con un fastidioso clic, clic, clic…
«Odino voleva essere qui, ma si sta occupando di altre faccende. Huginn e Muninn lo rappresentano.»
Helgi si sporse in avanti e abbassò il tono di voce. «E, per di più, i corvi non usano le slide
motivazionali in PowerPoint.»
Gli uccelli confermarono gracchiando.
«Ma passiamo agli affari» proseguì Helgi. «Loki è fuggito, ma sappiamo dov’è. Samirah al-Abbas…
la tua prossima missione come valchiria di Odino responsabile delle operazioni speciali sarà trovare tuo
padre e rimetterlo in catene.»
Samirah chinò il capo. Non sembrava sorpresa; aveva più l’aria di un condannato a morte che ha perso
l’ultimo appello, dopo aver combattuto per tutta la vita contro quella sentenza. «Signore, eseguirò gli
ordini. Ma, dopo quello che è successo le ultime due volte che ho affrontato mio padre, la facilità con cui
mi ha controllato…»
«Puoi imparare a opporti» la interruppe Alex. «Posso aiutar…»
«Io non sono come te, Alex! Non riesco a…» Sam gesticolò vagamente in direzione della sorella,
quasi per indicare tutte le cose che Alex era e che Sam non avrebbe mai potuto essere.
Helgi si spazzolò via un po’ di avanzi di cibo dalla barba. «Samirah, non ho detto che sarebbe stato
facile. Ma i corvi sostengono che puoi farcela. Devi farlo. E quindi lo farai.»
Sam fissò i cuscinetti a sfera che ondeggiavano avanti e indietro. Clic, clic, clic… «Questo posto
dov’è andato mio padre… dove si trova?»
«Le Eastern Shores» rispose Helgi. «Proprio come raccontano le antiche storie. Adesso che Loki è
libero, è andato al porto, dove spera di completare la costruzione di Naglfar.»
“La Nave di Unghie. Male” commentò Hearthstone.
Mi sentii gelare… ed ebbi un improvviso attacco di mal di mare.
Ricordai di aver visitato quella nave in sogno, di essere stato sul ponte di un’imbarcazione vichinga
grande come una portaerei e fatta interamente con le unghie dei morti. Loki mi aveva avvisato che, non
appena il Ragnarok avesse avuto inizio, avrebbe portato la nave ad Asgard, distrutto gli dei, rubato le
loro merendine e provocato il caos generale in ogni altro modo possibile.
«Se Loki è libero, non è già troppo tardi?» chiesi. «La sua liberazione non è una delle cose che
segnala l’inizio del Ragnarok?»
«Sì e no» rispose Helgi.
«Devo scegliere io una delle due ipotesi?»
«La liberazione di Loki favorisce senz’altro l’inizio del Ragnarok» riprese Helgi. «Ma niente dice che
questa sia la sua ultima e definitiva fuga. È concepibile che voi possiate catturarlo di nuovo e rimetterlo
dov’era, ritardando così il Giorno del Giudizio.»
«Come in effetti abbiamo fatto con Fenris il Lupo» brontolò Blitz. «Una passeggiata.»
«Esatto.» Helgi annuì, entusiasta. «Un’altra passeggiata.»
«Stavo facendo del sarcasmo» precisò Blitz. «Ma suppongo che sia una rarità nel Valhalla, come i
barbieri decenti.»
Helgi arrossì. «Senti un po’, nano…»
Fu interrotto da una grossa sagoma marrone-arancio che sbatté contro la vetrata dell’ufficio.
Blitz cadde dalla sedia. Alex balzò dritta verso l’alto e si attaccò al soffitto, trasformata in un petauro
dello zucchero. Sam si alzò con l’ascia stretta in mano, pronta a combattere. Io mi acquattai
coraggiosamente davanti alla scrivania di Helgi.
Hearthstone invece non si mosse. Il suo sguardo torvo era puntato sullo scoiattolo gigante. “Perché?”
domandò nella lingua dei segni.
«Va tutto bene, tranquilli» ci rassicurò Helgi. «È soltanto Ratatoskr.»
L’espressione “soltanto Ratatoskr” non mi convinceva per niente. Quel mostruoso roditore mi aveva
inseguito sull’Albero del Mondo. Avevo udito la sua voce, i rimproveri e le accuse che squarciavano
l’anima. Non andava mai “tutto bene” quando compariva lui.
«No, davvero» insistette Helgi. «La vetrata è fonoisolante e scoiattolo-isolante. Gli piace fare un salto
qui da me e provocarmi, di tanto in tanto.»
Sbirciai sopra il ripiano della scrivania. Ratatoskr stava sbraitando e squittendo, ma dalla vetrata
arrivava solo un lievissimo bisbiglio. Ci fissava digrignando i denti, con una guancia schiacciata sulla
finestra.
I corvi non sembravano preoccupati. Gli lanciarono un’occhiata come a dire: “Oh, sei tu”, e ripresero
a lisciarsi le piume.
«Come fai a sopportarlo?» domandò Blitzen. «Quel… quel coso è micidiale!»
Lo scoiattolo gonfiò le labbra contro il vetro, mostrandoci denti e gengive, poi leccò la finestra.
«Preferisco sapere dov’è» spiegò Helgi. «A volte mi basta osservare il livello di agitazione dello
scoiattolo per capire cosa succede nei Nove Mondi.»
A giudicare dal suo stato attuale, probabilmente stava accadendo di tutto.
Per alleviare la nostra ansia, Helgi si alzò, abbassò le tapparelle e si rimise a sedere. «Dove eravamo
rimasti? Ah, sì, alla passeggiata e al sarcasmo.»
Alex si lasciò cadere dal soffitto e recuperò la propria forma normale. Si era tolta l’abito da sposa e
indossava di nuovo il vecchio gilè a rombi. Se lo aggiustò come se niente fosse, come a dire: “Sì, volevo
proprio trasformarmi in un petauro dello zucchero”.
Sam abbassò l’ascia. «Helgi, a proposito di questa missione… non saprei proprio da dove
cominciare. Dov’è ancorata la nave? Le Eastern Shores potrebbero essere in un mondo qualsiasi.»
Il direttore allargò le mani. «Queste risposte non le ho, Samirah, ma Huginn e Muninn ti daranno
istruzioni in privato. Sali con loro nei luoghi elevati del Valhalla. Ti mostreranno pensieri e ricordi.»
Detto così, sembrava un viaggio allucinogeno con Dart Fener che appariva in una caverna nebbiosa.
Neppure Samirah sembrava troppo entusiasta. «Ma, Helgi…»
«Niente discussioni» insistette il direttore. «Odino ha scelto te. Ha scelto questo gruppo perché…» Si
fermò all’improvviso e si portò un dito all’orecchio. Non mi ero mai accorto che portasse un auricolare,
ma stava ovviamente ascoltando qualcosa. Dopo qualche istante alzò gli occhi e ci guardò. «Scusate.
Dov’ero rimasto? Ah, sì. Tutti e cinque eravate presenti quando Loki è fuggito. Perciò tutti e cinque
avrete un ruolo da svolgere per catturare di nuovo quel criminale.»
«Chi rompe, paga» borbottai.
«Esatto!» Helgi sorrise. «Ora che questa faccenda è sistemata, dovete scusarmi. C’è stato un massacro
in sala yoga, e servono tappetini puliti.»
55
MARGHERITE A FORMA DI ELFO

Non appena lasciammo l’ufficio di Helgi, i corvi accompagnarono Sam lungo un’altra scalinata. Lei gettò
uno sguardo inquieto verso di noi, ma Helgi era stato molto chiaro: nessun altro era stato invitato.
Alex girò sui tacchi e se ne andò nella direzione opposta.
«Ehi!» gridai «Dove…?»
Si voltò a guardarmi, con un’espressione così arrabbiata negli occhi che non riuscii a finire la
domanda. «A dopo, Magnus. Devo…» Fece un gesto con le mani come se volesse strangolare qualcuno.
«A dopo.»
E così rimasi da solo con Blitzen e Hearthstone, che si reggevano in piedi a stento. «Ragazzi,
volete…?»
«Dormire» disse Blitzen. «Per favore. Subito.»
Li riaccompagnai in camera mia, e ci accampammo tutti e tre sull’erba in mezzo all’atrio. Mi
tornarono in mente i vecchi tempi, quando dormivo al Public Garden, ma non vi dirò che provavo
nostalgia per quando ero un senzatetto. Non è il genere di vita per la quale si prova nostalgia, se sei sano
di mente. Eppure, come ho già detto, tutto era molto più semplice allora rispetto all’esistenza di guerriero
non morto che insegue divinità evase per tutti i Nove Mondi e cerca di avere una conversazione seria
mentre uno scoiattolo mostruoso gli fa le smorfie alla finestra.
Hearthstone fu il primo a crollare. Si raggomitolò, sospirò piano e si addormentò all’istante. Da
fermo, nonostante i vestiti neri, sembrava confondersi con le ombre sull’erba. Forse era la capacità
mimetica tipica degli elfi, una traccia dell’epoca in cui erano tutt’uno con la natura.
Blitz appoggiò la schiena a un albero e lo guardò preoccupato. «Domani andiamo da Blitzen’s Best e
riapriamo il negozio. Ci vorrà qualche settimana per riorganizzarci e tornare a… qualunque cosa sia la
normalità. Prima di ripartire per cercare…» La prospettiva di affrontare di nuovo Loki era così
spaventosa che non riuscì a concludere la frase.
Mi sentii in colpa per aver ignorato la sofferenza di Hearthstone negli ultimi giorni. Ero stato troppo
preso da quello stupido martello televisivo di Thor. «Buona idea» commentai. «È stata dura per lui ad
Alfheim.»
Blitz si portò le mani sul punto in cui Skofnung lo aveva trafitto. «Già. Sono preoccupato per la
questione che ha lasciato in sospeso.»
«Avrei dovuto fare di più per lui. Anzi, per entrambi.»
«Macché, figliolo. Certe volte devi aiutarti da solo. Hearth… ha un buco a forma di padre nel cuore.
Tu non puoi farci niente.»
«Suo padre non sarà mai una bella persona.»
«Eh, no. Ma Hearth deve farci i conti. Prima o poi, dovrà tornare ad affrontarlo… e dovrà riprendersi
la runa dell’eredità, in un modo o nell’altro. Quando e come succederà, però…» Blitz scrollò le spalle
con aria inerme.
Ripensai a mio zio Randolph. Come si fa a stabilire quando qualcuno è irrimediabilmente perduto?
Quand’è che diventano troppo malvagi o pericolosi o attaccati al proprio modo di essere da
costringerti ad accettare il fatto che non cambieranno mai? Per quanto tempo puoi continuare a tentare di
salvarli, e quand’è che invece devi rinunciare e piangere per loro come se fossero morti?
Era facile per me dare consigli a Hearthstone su suo padre. Quel tizio era a dir poco orribile. Ma mio
zio, l’uomo che aveva causato la mia morte, che aveva quasi ucciso un mio amico e aveva liberato il dio
del male… non riuscivo ancora a cancellarlo.
Blitzen mi diede dei colpetti affettuosi su una mano. «Qualunque cosa accada, figliolo, ci saremo
quando avrai bisogno di noi. Porteremo a termine questa faccenda e incateneremo di nuovo Loki, dovessi
costruire io stesso quelle catene.»
«Le tue sarebbero molto più eleganti» dichiarai.
«Ah, sì. È vero.» Blitz fece un mezzo sorriso. «E non sentirti in colpa, figliolo. Sei stato bravo.»
Io non ne ero così sicuro. Cos’avevo concluso? Negli ultimi sei giorni, mi sembrava di non aver fatto
altro che correre per limitare i danni, evitando il più possibile che i miei amici morissero e cercando di
arginare le conseguenze del piano di Loki.
Immaginai quello che Samirah avrebbe detto: “Mi sembra sufficiente, Magnus”. Probabilmente
avrebbe sottolineato che avevo aiutato Amir. Ero riuscito a curare Blitzen. Avevo fatto arrivare la
squadra d’assalto di Thor nella tana dei giganti per recuperare il martello. Avevo vinto un’incredibile
partita a bowling insieme al mio compagno di squadra, un elefante africano.
Però… Loki era libero. Aveva ferito Sam. Aveva minato profondamente la sua fiducia. E poi c’era
quel piccolo particolare, il fatto che tutti i Nove Mondi adesso rischiavano di precipitare nel caos.
«Mi sento malissimo» ammisi. «Più mi addestro, più poteri ho… più sembra che i problemi diventino
dieci volte più grandi di quanto io riesca a gestire. Finirà mai?»
Blitz non rispose. Aveva il mento appoggiato sul petto. Stava russando sommessamente.
Gli misi una coperta sopra. Rimasi a lungo a guardare le stelle fra i rami dell’albero, pensando ai
buchi nel cuore delle persone.
Mi domandai cosa stesse facendo Loki in quel preciso istante. Se fossi stato in lui, avrei architettato la
vendetta più clamorosa che i Nove Mondi avessero mai visto. Forse era per questo che Vidar, il dio della
vendetta, era così gentile e tranquillo. Sapeva che non ci vuole molto a innescare una sequela di violenze
e morti. Un’offesa. Un furto. Una catena spezzata. Thrym e Thrynga avevano nutrito risentimento per
generazioni. Erano stati usati da Loki non una, ma due volte. E adesso erano morti.
Non ricordo di essermi addormentato. Quando mi svegliai, la mattina dopo, Blitz e Hearth erano
spariti. Un letto di margherite era sbocciato nel punto in cui aveva dormito Hearthstone; forse era il suo
modo di dire: “Addio, grazie, a presto”.
Io ero ancora depresso.
Mi feci la doccia e mi vestii. Anche solo lavarmi i denti mi sembrava di una normalità assurda dopo
gli ultimi giorni. Stavo per andare a fare colazione quando notai un biglietto infilato sotto la mia porta,
scritto con l’elegante calligrafia di Samirah:

Ho qualche idea. Ci vediamo al Thinking Cup?


Sarò lì tutta la mattina.

Uscii in corridoio. Mi piaceva la prospettiva di andarmene dal Valhalla per un po’. Avevo voglia di
parlare con Sam. Avevo voglia di un buon caffè mortale. Avevo voglia di sedermi al sole a mangiare un
muffin ai semi di papavero facendo finta di non essere un einherji che doveva catturare un dio evaso.
Poi guardai dall’altra parte del corridoio.
Prima dovevo fare un’altra cosa più difficile e pericolosa. Dovevo andare a trovare Alex Fierro.
Alex aprì la porta e mi salutò con un allegro: «Sparisci!». Aveva la faccia e le mani imbrattate di creta
bagnata.
Gettai un’occhiata dentro e vidi l’oggetto a cui lavorava posato sul tornio. «Ehi, amico…» Entrai. Per
qualche ragione, Alex me lo permise.
Tutti i pezzi di ceramica andati in frantumi erano spariti dal pavimento. Gli scaffali erano pieni di
nuovi vasi e tazze che stavano ancora seccando prima della lucidatura. Sul tornio c’era un enorme vaso a
forma di trofeo, alto quasi un metro.
Sorrisi. «Per Sif?»
Alex scrollò le spalle. «Sì. Se viene bene.»
«È un regalo ironico o serio?»
«Vuoi che decida io? Non lo so… so solo che mi è sembrata la cosa giusta da fare. All’inizio la
odiavo. Mi ricordava la moglie di mio padre, così rigida e sempre in ghingheri. Ma… forse non se lo
merita.»
Dall’altra parte della stanza, sul letto, era steso l’abito da sposa bianco e oro, ancora sporco di
sangue, con l’orlo incrostato di polvere e imbrattato di macchie di acido. Alex però lo aveva lisciato con
molta cura, come se fosse un oggetto che valeva la pena conservare.
«Ehm… Magnus, sei passato a trovarmi per un motivo?»
«Sì…» Faticavo a concentrarmi. Fissai le file di vasi, modellati alla perfezione. «Li hai fatti tutti ieri
notte?»
Ne presi uno.
Alex me lo sfilò di mano. «No, non puoi toccarlo, Magnus. Grazie per la domanda, Magnus. Sì, la
maggior parte li ho fatti ieri notte. Non riuscivo a dormire. La ceramica… mi fa stare meglio. Stavi per
dire perché sei passato, e poi ti levi di torno alla svelta, vero?»
«Vado a Boston a incontrare Sam. Pensavo…»
«Che volessi venire anch’io? No, grazie. Quando Sam se la sentirà di parlarmi, sa dove sono.» Alex si
rimise al tornio, prese un raschietto e cominciò a levigare i bordi del trofeo.
«Ce l’hai con lei.»
Alex continuò a grattare.
«È un vaso molto bello» proseguii. «Non so come fai a modellare un oggetto così grosso senza che si
sfasci. Una volta ho provato a usare il tornio… in quinta elementare, mi sembra. E ho ottenuto soltanto un
bel grumo di argilla asimmetrico.»
«Un autoritratto?»
«Ah, ah. Dico solo che mi piacerebbe esserne capace.»
Nessuna risposta istintiva. Forse perché non avevo lasciato spazio a sufficienza per un’offesa arguta.
Alla fine, Alex sollevò gli occhi e mi guardò. «Tu curi la gente, Magnus. Tuo padre è un dio realmente
utile. Hai quest’aria… gioiosa, calorosa, cordiale. Non ti sembra abbastanza?»
«Gioioso non me l’aveva mai detto nessuno.»
«Oh, smettila. Fingi di essere un duro, ti nascondi dietro il sarcasmo, ma sei un gran tenerone. E per
rispondere alla tua domanda, sì, sono arrabbiata con Sam. A meno che lei non cambi atteggiamento, non
so se riuscirò a insegnarle come fare per…»
«… resistere a Loki» conclusi.
Alex prese un grumo di argilla e lo strizzò. «Il segreto è sentirsi a proprio agio nel cambiamento.
Sempre. Devi trasformare il potere di Loki nel tuo potere.»
«Come il tuo tatuaggio.»
Alex si strinse nelle spalle. «L’argilla può essere lavorata e rilavorata, in continuazione, ma se
diventa troppo secca, se si solidifica… allora non puoi farci granché. A quel punto, è meglio assicurarsi
che abbia la forma che desideri abbia per sempre.»
«Stai dicendo che Sam non è in grado di cambiare.»
«Non so se è in grado, né se vuole farlo. Ma una cosa la so: se non mi permetterà di insegnarle come
faccio a resistere a Loki, se non ci proverà neanche… la prossima volta che combatteremo contro di lui,
moriremo tutti.»
Trassi un respiro tremante. «Okay, ora sì che mi sento meglio. Suppongo che ci vedremo stasera a
cena.»
Quando arrivai alla porta, Alex mi chiese: «Come facevi a saperlo?».
«A sapere cosa?»
«Quando sei entrato, hai detto: “Ehi, amico”. Come facevi a sapere che ero un maschio?»
Riflettei. Non so come avessi fatto, ma più ci pensavo, più mi rendevo conto che avevo capito subito
che Alex era un maschio, l’avevo percepito. O meglio, avevo percepito che al mio arrivo Alex era un
maschio. Adesso, dopo aver parlato con me una manciata di minuti, era sicuramente una lei. Ma non
avevo idea di come avessi fatto a capirlo.
«Il mio spirito di osservazione, immagino.»
Alex fece un verso di scherno. «Giusto.»
«Ma adesso sei una ragazza.»
Esitò. «Sì.»
«Interessante.»
«Ora puoi andartene.»
«Mi farai un trofeo per premiare il mio spirito di osservazione?»
Alex prese un frammento di ceramica e me lo tirò dietro.
Chiusi la porta nel preciso istante in cui il coccio la colpiva, andando in mille pezzi.
56
UN CAFFÈ CON UNA VALCHIRIA… RIPROVIAMOCI!

A giudicare dalla serie di tazze vuote, Sam era al suo terzo caffè.
Avvicinare una valchiria, armata e con tre caffè in corpo, di solito non è consigliabile, tuttavia mi
avvicinai lentamente e mi sedetti di fronte a lei. Sam non mi guardò. Era concentrata sulle due piume di
corvo che aveva davanti. Era una mattina ventosa. Lo hijab verde le si increspava intorno al viso come
onde su una spiaggia, ma le due piume di corvo non si muovevano.
«Ehi» mi disse.
Era un saluto molto più cordiale di: “Sparisci”. Sam e Alex erano molto diverse, ma avevano un non
so che di simile nello sguardo, un senso di urgenza che ribolliva sotto la superficie. Non era facile
pensare al retaggio di Loki che combatteva all’interno delle mie due amiche tentando di prendere il
controllo.
«Hai delle piume» notai.
Sam toccò quella a sinistra. «Un ricordo.» Poi diede un colpetto a quella sulla destra. «E questa è un
pensiero. I corvi non parlano. Ti fissano e si lasciano accarezzare finché non gli cadono le piume giuste.»
«Cosa significano allora?»
«Questa, il ricordo…» Sam passò un dito lungo le barbe della piuma. «È ancestrale. Riguarda un mio
lontano avo, Ahmad Ibn Fadlan Ibn al-Abbas.»
«Il tizio che viaggiava con i Vichinghi?»
Sam annuì. «Quando ho preso la piuma, ho visto il suo viaggio come se fossi lì. Ho saputo un sacco di
cose sulle quali non ha lasciato scritto niente, cose che secondo lui non avrebbero fatto una buona
impressione alla corte del califfo di Baghdad.»
«Ha visto gli dei norreni?» domandai. «Le valchirie? I giganti?»
«E non solo. Conosceva anche le leggende sulla nave Naglfar. Il punto in cui è ormeggiata, le Eastern
Shores, si trova al confine fra Jotunheim e Niflheim, la zona più selvaggia e remota di entrambi i mondi.
È inaccessibile, ed è circondata tutto l’anno dal ghiaccio, tranne un solo giorno: il solstizio d’estate.»
«Perciò è questo il giorno in cui Loki progetta di salpare.»
«Sì. Ed è anche il giorno in cui noi dovremo essere lì per fermarlo.»
Mi andava moltissimo un caffè, ma avevo il battito del cuore così accelerato che non mi avrebbe fatto
bene. «E adesso che facciamo? Aspettiamo l’estate e basta?»
«Ci vorrà un po’ per capire dove si trova Loki esattamente. E prima di partire ci dobbiamo preparare
e addestrare, dobbiamo assicurarci di poterlo sconfiggere.»
Mi tornò in mente cos’aveva detto Alex: “Non so se riuscirò a insegnarle come fare per resistere a
Loki”.
«Ce la faremo.» Cercai di sembrare fiducioso. «Cosa ti ha detto la seconda piuma?»
«Questa? È un pensiero. Un piano per andare avanti» rispose Samirah. «Per raggiungere le Eastern
Shores dovremo navigare per i rami più lontani dell’Albero del Mondo, attraverso le antiche terre
vichinghe. È lì che la magia dei giganti è più forte, ed è lì che troveremo il passaggio per raggiungere via
mare il molo di Naglfar.»
«Le antiche terre vichinghe.» Mi sentii formicolare le dita. Era emozione o paura? «Vuoi dire la
Scandinavia? Sono sicuro che ci sono dei voli da Logan.»
Sam scosse la testa. «Dovremo andare via mare, Magnus. Come fecero i Vichinghi per arrivare qui.
Proprio come si può entrare ad Alfheim solo per via aerea, si possono raggiungere i confini selvaggi
delle Eastern Shores solo attraverso il mare e il ghiaccio.»
«Giusto. Perché niente è mai facile» commentai.
«No, mai.» Il suo tono di voce era distratto, malinconico.
Capii che mi stavo comportando in modo un po’ insensibile. Sam aveva un sacco di altri problemi
oltre a un padre malvagio.
«Come sta Amir?» domandai.
Sam sorrise. Nel vento, il suo hijab sembrò mutare forma, passando dalle onde ai prati e al vetro
levigato. «È bravissimo. Mi accetta così come sono. Non vuole annullare il nostro fidanzamento. Avevi
ragione tu, Magnus. È molto più forte di quanto pensassi.»
«Fantastico. E i tuoi nonni che dicono? E suo padre?»
Samirah fece una risata amara. «Be’, non si può avere tutto. Non ricordano niente delle visite di Loki.
Sanno che io e Amir abbiamo fatto pace. E, per il momento, va bene così. Ho ricominciato a inventare
scuse per spiegare perché devo scappare a metà di una lezione o dopo la scuola. Do un sacco di “lezioni
private”.» Fece le virgolette in aria con le dita.
Mi tornò in mente l’espressione esausta che aveva quando l’avevo incontrata sei giorni prima. Se
possibile, sembrava ancora più stanca, adesso.
«Qualcosa dovrà cambiare, Sam» le dissi. «Ti stai sfinendo.»
«Lo so.» Posò una mano sopra la piuma del pensiero. «Ho promesso ad Amir che quando avremo
catturato di nuovo Loki, quando sarò sicura che il Ragnarok sarà stato sventato, almeno per il momento, a
quel punto avrò chiuso.»
«Chiuso?»
«Mi ritiro dalle valchirie. Mi dedicherò al college, finirò l’addestramento da pilota e… mi sposerò,
ovviamente. Quando avrò diciotto anni, come abbiamo programmato.»
Arrossì come… be’, come una sposa.
Cercai di ignorare la sensazione di vuoto che mi si aprì nel petto. «È quello che vuoi?»
«È una scelta totalmente mia. Amir la appoggia.»
«Le valchirie possono dimettersi?»
«Certo. Non è come essere… ehm…»
Un einherji.
Già. Io ero uno dei rinati. Potevo viaggiare fra i mondi. Avevo una forza e una resistenza straordinarie.
Ma non sarei mai più stato un comune essere umano. Sarei rimasto com’ero, della stessa età per sempre,
o fino al Ragnarok, una delle due. (L’offerta potrebbe essere limitata da certe restrizioni. Leggere il
contratto di assistenza per ulteriori dettagli.)
«Magnus, so che sono stata io a portarti in questo assurdo oltretomba» disse Sam. «Non è leale da
parte mia abbandonarti, ma…»
«Ehi…» Le sfiorai la mano, solo per un attimo. Sapevo che non apprezzava il contatto fisico, ma lei e
mia cugina Annabeth erano la cosa più simile a una sorella che avevo, e che avrei mai avuto. «Samirah,
voglio solo che tu sia felice. E se riuscissimo a evitare che i Nove Mondi si inceneriscano prima che tu te
ne vada, sarebbe bello.»
Sam rise. «E va bene, Magnus. Affare fatto. Ci servirà una nave. Ci serviranno tante cose, a dire il
vero.»
«Sì.» Già mi sentivo la salsedine e il gelo nella gola. Mi tornò in mente l’incontro che avevamo avuto
a gennaio con la dea del mare, Ran: mi aveva avvisato che mi sarei cacciato nei guai se avessi mai
tentato di solcare di nuovo i mari. «Ci serviranno dei buoni consigli per navigare in acque magiche,
combattere contro i mostri marini e non farci ammazzare dalle divinità acquatiche inferocite» osservai.
«Stranamente, conosco proprio la persona che fa al caso nostro.»
«Tua cugina» tirò a indovinare Sam.
«Esatto. Annabeth.»
57
RISCUOTO DEI FAVORI

Telefonate e SMS non funzionarono, così decisi di mandare un corvo.


Quando avevo detto a T.J. che avevo difficoltà a mettermi in contatto con mia cugina, mi aveva
guardato come se fossi lento di comprendonio. «Mandale un uccello, Magnus.»
Che scemo. Tutti quei mesi nel Valhalla, e ancora non mi ero reso conto che potevo prendere un corvo
a noleggio, legare un messaggio sulla sua zampa e mandarlo a cercare chiunque nei Nove Mondi. Mi
sembrava una cosa un po’ troppo alla Game of Thrones, ma pazienza. Funzionò.
Il corvo tornò prontamente con la risposta di Annabeth.
Coordinammo i nostri viaggi in treno e ci incontrammo a metà strada fra Boston e Manhattan, a New
London, nel Connecticut.
Annabeth era arrivata prima di me e mi aspettava sulla banchina. Indossava un paio di jeans, sandali e
una maglietta viola a maniche lunghe, con una corona d’alloro disegnata sopra e la scritta: SPQR: UNR. Mi
stritolò in un abbraccio, facendomi strabuzzare gli occhi come quelli di Thrynga. «Non sai che sollievo»
esordì. «Non avrei mai pensato che sarei stata contenta di vedere un corvo sul davanzale della finestra,
ma… tutto okay?»
«Sì, sì.»
Dovetti soffocare una risata nervosa, perché “tutto okay” era un’espressione stupida per descrivere
come mi sentivo. E poi, era evidente che nemmeno per Annabeth era tutto okay. I suoi occhi grigi erano
molto stanchi, più simili a banchi ostinati di nebbia che a nuvole temporalesche.
«Abbiamo un sacco di cose di cui parlare» dissi. «Andiamo a mangiare un boccone.»
Prendemmo un tavolo sulla terrazza del Muddy Waters. “Acque torbide”? Mmm… Immaginai che il
locale si chiamasse così in onore del musicista di blues, ma mi sembrò un brutto segno visto le acque che
mi apprestavo a solcare. Ci sedemmo al sole, ordinammo Coca e cheeseburger e restammo a guardare le
barche a vela che si dirigevano verso la baia di Long Island.
«C’è un casino pazzesco a New York» disse Annabeth. «Credevo che le comunicazioni non
funzionassero solo fra i semidei… voglio dire, fra i miei semidei, greci e romani, ma poi mi sono accorta
che non avevo più neanche tue notizie. Mi dispiace non averci fatto caso prima.»
«Aspetta, perché le comunicazioni non funzionano?»
Annabeth punzecchiò il tavolo con i rebbi della forchetta. Portava i capelli sciolti sulle spalle. Forse
voleva farli allungare. Catturavano la luce in un modo che mi ricordò Sif… ma cercai di scacciare
quell’idea dalla mente. Sapevo che Annabeth avrebbe distrutto chiunque avesse osato definirla un
“trofeo”.
«C’è una crisi in corso» riferì. «Un dio è caduto sulla terra, e ora è un umano. E certi imperatori
romani malvagi sono tornati e stanno combinando un sacco di guai.»
«Oh, niente di nuovo, quindi.»
Rise. «Già. Non so come abbiano fatto, ma questi perfidi imperatori hanno trovato un sistema per
mettere sottosopra le comunicazioni fra i semidei. Non soltanto i soliti mezzi magici, ma anche i cellulari,
il wi-fi, tutto. Mi ha sorpreso che il tuo corvo ce l’abbia fatta a raggiungermi. Sarei venuta a cercarti a
Boston prima, ma…» Scrollò le spalle. «Ho troppa carne al fuoco.»
«Ti capisco» la rassicurai. «Forse non dovrei distrarti. Hai già abbastanza cose da gestire…»
Annabeth allungò le braccia sul tavolo e mi strinse una mano. «Stai scherzando? Voglio aiutarti. Che
succede?»
Fu bello raccontarle tutto. Ripensai alla prima volta che avevamo parlato, a quanto era sembrato
assurdo: lei con gli dei della Grecia, io con quelli norreni. Quel giorno ci eravamo lasciati con la
sensazione di avere le batterie sovraccariche e il cervello fuso.
Adesso, almeno, avevamo una specie di quadro generale da cui partire. Certo, tutto era sempre folle,
per non dire ridicolo. Se mi fossi fermato a pensarci troppo, mi sarei messo a ridere come un pazzo. Ma
potevo raccontare i miei problemi a mia cugina senza preoccuparmi del fatto che potesse non credermi.
Capii quanto Sam fosse felice di poter essere totalmente sincera con Amir.
Dissi ad Annabeth della fuga di Loki e dell’idea di Sam per riuscire a scovarlo: il porto ghiacciato
agli estremi confini fra Jotunheim e Niflheim (o della Scandinavia, fate voi).
«Un viaggio in nave» disse. «Oh, dei. Mi tornano certi ricordi…»
«Sì. Ho ripensato a quello che mi hai detto del tuo viaggio in Grecia e…»
Non volevo tirare di nuovo fuori quella brutta storia. Annabeth aveva pianto quando mi aveva
raccontato le cose che le erano accadute durante il viaggio, soprattutto di quando lei e il suo ragazzo,
Percy, erano precipitati in un luogo degli inferi chiamato Tartaro.
«Senti, non voglio farti pressione» ripresi. «Pensavo soltanto… non so… che magari avevi qualche
suggerimento da darmi.»
Un treno attraversò la stazione, facendo un gran fracasso. La vista sulla baia tremolò fra i vagoni come
la pellicola di un vecchio film allineata male.
«Hai detto che hai qualche problema con gli dei del mare» disse Annabeth.
«Sì, con Ran. È una specie di clochard con una rete da pesca. E immagino che pure suo marito mi odi,
adesso. Si chiama Aegir.»
Annabeth si diede dei colpetti sulla fronte. «Mi serve più memoria per archiviare i nomi. Okay, non so
come funziona con tutti questi dei del mare. Quelli norreni stanno a nord e Poseidone a sud, oppure, che
so, hanno una specie di multiproprietà…?»
Mi tornò in mente un vecchio cartone animato, con i cani pastore che timbravano il cartellino per fare
la guardia alle greggi e tenere alla larga i lupi. Mi domandai se gli dei avessero un sistema del genere, o
se invece lavorassero da casa. Gli dei del mare si spostavano con il teletrasporto?
«Non lo so» ammisi. «Ma mi piacerebbe evitare che tutti i miei amici affogassero in uno tsunami non
appena lasciamo Boston.»
«Avete un po’ di tempo a disposizione?»
«Fino all’estate» risposi. «Non possiamo partire finché i mari sono ghiacciati.»
«Bene. Per allora la scuola sarà finita, e avremo già il diploma. Finalmente.»
«Io non vado a scuola. Oh… per noi intendevi tu e il tuo ragazzo?»
«Esatto. Sempre che lui superi il semestre e passi gli esami, sempre che questi imperatori malvagi non
ci uccidano né distruggano il mondo…»
Sorrisi. «Loki andrà su tutte le furie se gli imperatori romani distruggeranno il mondo prima che lui
dia inizio al Ragnarok.»
«Dovremmo avere abbastanza tempo per aiutarvi, o almeno per scambiarci le idee, e magari
riscuotere qualche favore.»
«Ehm… quale favore?»
Annabeth sorrise. «Non conosco molto bene l’oceano, ma il mio ragazzo sì. Credo che sia arrivato il
momento che tu conosca Percy.»
GLOSSARIO

AEGIR – signore del mare.

ALBERO LAERADR – albero al centro della sala banchetti dei Caduti del Valhalla; ospita animali immortali, ciascuno dei quali ha un compito
specifico.

ALICARL – “ciccione” in norreno.

ARGR – “poco virile” in norreno.

AS I – dei della guerra; vicini agli umani.

AVENTAIL – striscia in cotta di maglia intorno alla base di un elmo, serve a proteggere il collo.

BERS ERKER – guerriero norreno furioso in battaglia e ritenuto invulnerabile.

BIFRO S T – il ponte d’arcobaleno che collega Asgard a Midgard.

BILS KIRNIR – Lampo di Luce, la reggia di Thor e Sif.

BINT – “figlia” in arabo.

BRUNNMIGI – creatura che urina nei pozzi.

CAPO CLAN – signore del Valhalla.

DRAUGR – zombie norreni.

EINHERJAR (sing. EINHERJI) – grandi eroi morti valorosamente sulla Terra; soldati dell’esercito eterno di Odino. Si addestrano nel Valhalla
per il Ragnarok, quando i più coraggiosi di loro si uniranno a Odino per combattere contro Loki e i giganti nella battaglia della fine del
mondo.

FENRIS IL LUPO – lupo invulnerabile nato da una relazione di Loki con una gigantessa. La sua forza poderosa impaurisce perfino gli dei, che
lo tengono legato a una roccia su un’isola. È destinato a liberarsi il giorno del Ragnarok.

FO LKVANGER – l’aldilà dei Vani per gli eroi caduti, governato dalla dea Freya.

FREYA – la dea dell’amore; sorella gemella di Freyr; governa il Folkvanger.

FREYR – dio della primavera e dell’estate; del sole, della pioggia e del raccolto; dell’abbondanza e della fertilità, della crescita e della vitalità.
Freyr è il fratello gemello di Freya e, come la sorella, è associato a grande bellezza. È il signore di Alfheim.

FRIGG – dea del matrimonio e della maternità; moglie di Odino e regina di Asgard; madre di Balder e Hod.

GAMALO S T – formaggio vecchio.

GINNUNGAGAP – il vuoto primordiale; una foschia che maschera l’aspetto delle cose.

GJALLAR – il corno di Heimdall.

GUIDRIGILDO – debito di sangue.


HEIMDALL – dio della sorveglianza e guardiano del Bifrost, il ponte d’arcobaleno.

HEL – dea dei morti con disonore; nata dalla relazione di Loki con una gigantessa.

HELHEIM – gli inferi, governati da Hel e abitati da coloro che sono morti con disonore, di vecchiaia o di malattia.

HUGINN E MUNINN – i corvi di Odino, i cui nomi significano rispettivamente “pensiero” e “memoria”.

HULDRA – spirito della foresta addomesticato.

HUS VETTER – spirito di una casa.

JO RMUNGAND – il Serpente del Mondo, nato dalla relazione di Loki con una gigantessa. Il suo corpo è così lungo che avvolge tutta la Terra.

JO TUN – gigante.

KENNING – soprannome vichingo.

LINDWO RM – terribile drago, grosso e lungo come un T IR , dotato soltanto di due zampe anteriori e di ali coriacee simili a quelle dei pipistrelli,
troppo piccole per permettergli di volare bene.

LO KI – dio dell’inganno, della magia e dell’artificio; figlio di due giganti; esperto di magia e abile mutaforma. Alterna malvagità ed eroismo nei
confronti degli dei di Asgard e del genere umano. Per via del ruolo avuto nella morte di Balder, Loki è stato incatenato da Odino a tre
enormi massi, con un serpente velenoso arrotolato sopra la testa. Il veleno del serpente di tanto in tanto gli deturpa il volto, e i suoi
contorcimenti sono la causa dei terremoti.

MAGNI E MO DI – i figli preferiti di Thor, destinati a sopravvivere al Ragnarok.

MEINFRETR – “scoreggia puzzolente” in norreno.

MIMIR – dio degli Asi che, insieme a Honir, fu scambiato come ostaggio con Freyr e Njord alla fine della guerra fra gli Asi e i Vani. Quando i
Vani non gradirono i suoi consigli, gli mozzarono la testa e la mandarono a Odino. Il Padre Universale la mise in una fonte magica, l’acqua la
riportò in vita e Mimir risucchiò tutta la conoscenza dell’Albero del Mondo.

MJO LNIR – il martello di Thor.

MO RGEN-GIFU – dono del mattino: regalo dello sposo alla sposa, dato la mattina dopo che il matrimonio è stato consumato. Appartiene alla
sposa, ma è custodito dalla famiglia dello sposo.

MUNDR – il prezzo della sposa: dono dello sposo al padre della sposa.

MUS PELL – fuoco.

NAGLFAR – la Nave di Unghie.

NJO RD – dio delle navi, dei marinai e dei pescatori; padre di Freyr e Freya.

NØKK – spiriti dell’acqua. Chiamati anche “nix”.

NO RNE – tre sorelle che controllano i destini degli dei e degli umani.

O DINO – “Padre Universale” e re degli dei; dio della guerra e della morte, ma anche della poesia e della saggezza. Scambiando un occhio per
un sorso d’acqua della Fonte della Saggezza, Odino ottenne una sapienza senza pari. Ha la capacità di osservare i Nove Mondi dal suo
trono di Asgard; oltre che nella sua grande dimora, risiede nel Valhalla insieme ai caduti in battaglia più valorosi.

O RO RO S S O – la moneta di Asgard e del Valhalla.

O S TARA – il primo giorno di primavera.


RAGNARO K – il Giorno del Giudizio, in cui gli einherjar più valorosi si uniranno a Odino contro Loki e i giganti nella battaglia della fine del
mondo.

RAN – dea del mare; moglie di Aegir.

RATATO S KR – scoiattolo invulnerabile che corre di continuo su e giù per l’Albero della Vita comunicando insulti fra l’aquila che vive sulla
cima e Nidhoggr, il drago che vive alle sue radici.

S AEHRIMNIR – bestia magica del Valhalla; ogni giorno viene macellata e cucinata per cena, per poi risorgere ogni mattina. La sua carne ha il
sapore di qualunque cosa desideri il commensale.

S ERPENTI DI URNES – due serpenti attorcigliati che simboleggiano cambiamento e flessibilità; talvolta sono simbolo di Loki.

S IF – dea della terra, madre di Uller, avuto dal primo marito. Thor è il suo secondo marito. Il sorbo è il suo albero sacro.

S LEIPNIR – il destriero a otto zampe di Odino; risponde solo alla chiamata di Odino; uno dei figli di Loki.

S UMARBRANDER – la Spada dell’Estate.

THINGVELLIR – campo dell’assemblea.

THO R – dio del tuono; figlio di Odino. I temporali sono l’effetto terreno delle corse del possente carro di Thor nel cielo, e i lampi sono causati
dal lancio del suo grande martello, Mjolnir.

THRYM – re degli jotun.

TUMULO – la tomba di uno spettro.

TYR – dio del coraggio, della legge e dei duelli. Perse una mano per il morso di Fenris, quando gli dei legarono il lupo.

ULLER – dio delle racchette da neve e del tiro con l’arco.

UTGARD-LO KI – il mago più potente di Jotunheim; re dei giganti di montagna.

VALA – veggente.

VALCHIRIE – ancelle di Odino che scelgono gli eroi caduti da portare nel Valhalla.

VALHALLA – paradiso per i guerrieri al servizio di Odino.

VANI – dei della natura; vicini agli elfi.

VIDAR – dio della vendetta, detto anche “il Silenzioso”.

YGGDRAS IL – l’Albero del Mondo.

ZUHR – “preghiera di mezzogiorno” in arabo.


I NOVE MONDI

AS GARD – la casa degli Asi

VANAHEIM – la casa dei Vani

ALFHEIM – la casa degli elfi della luce

MIDGARD – la casa degli umani

JO TUNHEIM – la casa dei giganti

NIDAVELLIR – la casa dei nani

NIFLHEIM – il mondo di ghiaccio, nebbia e foschia

MUS PELLHEIM – la casa dei giganti di fuoco e dei demoni

HELHEIM – la casa di Hel e dei morti con disonore


RUNE

FEHU – la runa di Freyr

OTHALA – eredità

DAGAZ – nuovi inizi, trasformazione

URUZ – bue

GEBO – dono

THURISAZ – la runa di Thor

PERTHRO – il calice vuoto

HAGALAZ – grandine

EHWAZ – cavallo, trasporto

ISA – ghiaccio
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Magnus Chase 2. Il martello di Thor


di Rick Riordan
Per il fregio: symbol art © 2016 M ichelle Gengaro-Kokmen
© 2016 Rick Riordan
© 2016 M ondadori Libri S.p.A., M ilano, per l’edizione italiana
Pubblicato per accordo con Nancy Gallt Literary Agency
Titolo dell’opera originale: Magnus Chase and the Gods of Asgard. The Hammer of Thor
Ebook ISBN 9788852077715

COPERTINA || ART DIRECTOR: FERNANDO AMBROSI | GRAPHIC DESIGNER: DANIELE GASPARI | LOGO TITOLO © 2015 BY DISNEY ENTERPRISES, INC. DESIGNED
BY SJI ASSOCIATES, INC., SU LICENZA DI DISNEY • HYPERION BOOKS. ALL RIGHTS RESERVED. | ILLUSTRAZIONE DI DANIELE GASPARI
« L’AUTORE» || © MARTY UMANS

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