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CONCETTO DI TRASCENDENTALE
E’ la sezione della critica in cui Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori.
Tuttavia la sensibilità non è soltanto ricettiva, ma anche attiva, poiché organizza il materiale
delle sensazioni tramite lo spazio ed il tempo.
Per Kant la realtà è fatta di sensi e noi collochiamo gli oggetti, i quali sono a priori, nella
realtà tramite il concetto di tempo e quello di spazio; un oggetto’ così, non può essere
pensato al di fuori di essi.
Noi li collochiamo in maniera involontaria.
Questa cosa, però, ci permette di capirci con gli altri.
Infatti, per Kant, questa realtà è quella che lui definisce fenomenica, cioè quella che tutti noi
vediamo davanti ai nostri occhi ed è percepita coi sensi ed è di tipo multifattoriale.
CATEGORIE
Fanno parte dell’analitica trascendentale, quella dimensione ulteriore che è simile alla nostra
mente che organizza i dati provenienti dalla realtà.
In merito a questo dobbiamo ricordare una della frasi più celebri di Kant: “senza sensibilità
nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I
pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.”
Le categorie sono in tutto quattro, in Aristotele queste erano sia ontologiche che
gnoseologiche, mentre per Kant queste sono solo gnoseologiche e corrispondono
all’intelletto, in quanto sono entrambi concetti puri.
Queste servono per unificare entro degli ambiti i dati che provengono dalle intuizioni
sensibili.
Se le intuizioni vengono definite affezioni, i concetti sono definiti funzioni, ovvero operazioni
attive che consistono nell’ordinare diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione
comune.
I concetti possono essere empirici, ossia ricavati da un’esperienza oppure possono essere
puri, se contenuti a priori nell’intelletto.
I concetti puri si identificano con le categorie, che sono concetti basilari della mente e che
formano le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto.
Esse coincidono con i predicati primi (caselle in cui rientrano tutti i predicati possibili).
Per Kant sono solo gnoseologiche-trascendentali e si trattano di cartelle entro cui collocare
le conoscenze sensibili.
La mente umana percepisce i dati esterni e li elabora, le categorie si suddividono in:
- QUANTITÀ
- QUALITÀ
- RELAZIONE
- MODALITÀ
In particolare, quella di relazione dice che si giudica che una certa proprietà appartiene a
una certa sostanza o che un certo fatto è causa di un altro fatto, o che due cose agiscono e
reagiscono l’una sull’altra; dunque, sottolinea il rapporto di causa-effetto.
DEDUZIONE TRASCENDENTALE
Il suo fine è arrivare a punti fermi universali che permettano all’uomo di intendersi con le
conoscenze acquisite.
Per lui la deduzione trascendentale è la questione più difficile da risolvere.
Il quesito che egli si pone è: “che cosa ci garantisce di diritto che la natura obbedirà alle
categorie, manifestandosi nell’esperienza, secondo nostre maniere di pensarla?”
La soluzione, secondo Kant, risiede in un’attività sintetica che ha sede nell’intelletto, è ciò
che ci permette di intenderci l’uno con l’altro.
La soluzione segue questi punti:
- l’unificazione del molteplice non deriva dalle molteplicità stesse, ma da un'attività
sintetica che ha la sua sede nell’intelletto,
- Kant identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza, ma con l’identica
struttura mentale che accomuna tutti gli uomini e denomina l’io-penso. Si tratta
dell’autocoscienza trascendentale.
L’io-penso è un principio formale che permette di unificare le conoscenze (la parola formale
equivale all’aggettivo trascendentale), si trova esso nella mente che permette di migliorare
l’organizzazione delle mie conoscenze.
Questo corrisponde all’essere coscienti e di metterci tutti noi stessi nel processo conoscitivo.
Il ragionamento kantiano consiste nel mostrare che ne segue che tutti gli oggetti pensati
presuppongono le categorie.
L’io-penso si configura come il principio supremo della conoscenza umana e rappresenta ciò
che rende possibile l’oggettività (principi di universalità e necessità) del sapere.
Senza di esso saremmo chiusi nella soggettività individuale, infatti, se si bastasse a noi
stessi il rapporto con la realtà non avrebbe senso.
Esso sta sopra le categorie e permette di unificare il pensiero e ci permette di riconoscere e
avere autoconsapevolezza.
Kant insiste sul carattere formale e quindi, finito, dell’io-penso, il quale si limita a ordinare
una realtà che gli preesiste e senza la quale la conoscenza non avrebbe alcun senso.
NOUMENO
Per Kant esiste una realtà extra-fenomenica e questa prenderebbe il nome di noumeno.
Per Kant il conoscere umano non può estendersi al di là dell’esperienza, in quanto una
conoscenza che non si riferisca a un’esperienza possibile non è conoscenza, ma un vuoto
pensiero che non conosce nulla, un gioco di rappresentazioni.
Ciò postula una distinzione tra pensare e conoscere, implicando che le categorie non
abbiano un uso trascendentale, ma piuttosto deve essere empirico, ossia riferite ai soli
fenomeni.
La delimitazione della conoscenza al fenomeno comporta un rimando alla nozione di cosa
in sé che si staglia sulla gnoseologia criticista.
Kant non ha mai pensato di ridurre la realtà al fenomeno, egli afferma che se c’è un per-noi.
deve esserci per forza di cose un in-sé.
Kant ha espresso nel suo linguaggio tecnico a proposito del noumeno distinguendo un
significato positivo e uno negativo: in senso positivo il noumeno è l’oggetto di un intuizione
non sensibile, cioè di una conoscenza extra-fenomenica che a noi è preclusa e che potrebbe
invece essere propria di un ipotetico intelletto divino dotato di una intuizione intellettuale.
In senso negativo, il noumeno è inteso come concetto di una cosa in sé come di una x che
non può mai entrare in rapporto conoscitivo con noi ed essere quindi, oggetto della nostra
intuizione sensibile.
Quindi questo vuol dire che la conoscenza umana ha un limite e che essa si basa solamente
sull’esperienza e che quando l’uomo vuole filosofare, ricercando il principio, si spinge verso
orizzonti che non hanno una base sensibile, ossia incomprensibili alla mente umana.
La cosa in sé è per noi un concetto, precisamente un concetto-limite, che serve ad arginare
le nostre pretese conoscitive.
Dunque, l’idea in sé o noumeno, costituisce una specie di promemoria critico che da un lato
circoscrive le pretese della sensibilità, rammentandoci che ciò che ci viene dato
nell’intuizione spazio-temporale non è la realtà in assoluto, e dall’altro circoscrive le
arroganze dell’intelletto, ricordandoci che esso non può conoscere le cose in sé, ma solo
pensarle nella loro possibilità, sotto forma di x ignote.
Kant, quindi, paragona la conoscenza scientifica alla terraferma di un’isola, mentre il
desiderio di varcare le soglie dell’esperienza alle smanie di un navigante attratto dalla
scoperta di nuove terre, ma destinato a vagare per i flutti (concetto di metafisica come realtà
non conoscibile all’uomo).
DIALETTICA TRASCENDENTALE
Nella DIalettica trascendentale egli affronta la seconda parte di tale programma, ovvero il
problema se la metafisica possa anche costituirsi come scienza.
Per Kant dialettica trascendentale significa l’analisi e lo smascheramento dei ragionamenti
fallaci della metafisica.
Nonostante la sua infondatezza, quest’ultima rappresenta un’esigenza naturale e inevitabile
della mente umana, di cui la filosofia critica intende chiarire la genesi profonda.
La metafisica è un parto della ragione, questa a sua volta in partenza, non è altro che
l’intelletto stesso, il quale, essendo facoltà logica di unificare i dati sensibili tramite le
categorie, è inevitabilmente portato a voler pensare anche senza dati, simile in ciò a una
colomba che, presa dall’ebbrezza del volo e avvertendo l’impedimento dell’aria,
immaginasse di poter volare anche senza l’aria, non rendendosi conto che quest’ultima,
come osserva Kant, pur essendo un limite al suo volo, ne è anche la condizione immanente,
in mancanza della quale essa precipiterebbe a terra.
L’esperienza, per cui, è limitata e possibile per gli uomini, ma se essi vanno oltre di essa non
comprenderanno nulla, poiché tutto ciò che è oltre l’esperienza per gli uomini è
inconoscibile.
Kant ritiene che questo voler procedere oltre i dati esperienziali derivi dalla nostra innata
tendenza all’incondizionato e alla totalità.
La nostra ragione, mai paga del mondo fenomenico, che è il campo del condizionato e del
relativo, è irresistibilmente attratta verso il regno dell’assoluto e quindi verso una
spiegazione globale e onnicomprensiva di ciò che esiste.
Una simile spiegazione fa leva su tre idee trascendentali che sono proprie della ragione,
ossia anima, mondo e Dio.
L’errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze di unificazione
dell’esperienza in altrettante realtà, dimenticando che noi non abbiamo mai a che fare con la
cosa in-sé, ma solo con la realtà non oltrepassabile del fenomeno.
Per questo i metafisici, secondo Kant, sono simili a quei già citati navigatori degli oceani
burrascosi che non contenti della loro isola, si spingono in alto mare con l’irrealizzabile
speranza di trovare nuovi insediamenti.
La dialettica trascendentale vuole appunto essere lo studio critico e la denuncia impietosa
delle peripezie e dei naufragi della metafisica, cioè della avventure e dei fallimenti del
pensiero quando procede oltre gli orizzonti dell’esperienza.
L’illusione strutturale che guida il pensiero non cessa neppure quando ci si rende conto di
tale illusorietà: come accade all’astronomo, il quale non può impedire che la luna gli appaia
più grande al suo levarsi, pur sapendo che ciò non è vero nella realtà.
Per dimostrare l’infondatezza della metafisica Kant prende in considerazione le tre pretese
scienze che da sempre ne costituiscono l’ossatura: la psicologia razionale, la cosmologia
razionale e la teologia razionale o naturale.
La cosmologia razionale, la quale pretende anch’essa di far uso della nozione di mondo,
inteso come la totalità assoluta dei fenomeni cosmici, è destinata, secondo Kant, a fallire.
Poiché la totalità dell’esperienza non è mai un’esperienza, in quanto noi possiamo
sperimentare questo o quel fenomeno, ma non la serie completa dei fenomeni, l’idea di
mondo cade, per definizione, al di fuori di ogni esperienza possibile.
Tant’è vero che quando i metafisici, dimentichi di ciò, pretendono di fare un discorso intorno
al mondo nella sua totalità, cadono inevitabilmente nei reticolati logici delle cosiddette
antinomie, veri e propri conflitti della ragione con sé stessa, che si concretizzano in coppie di
affermazioni opposte, dove l’una afferma (tesi) e l’altra nega (antitesi), ma tra le quali, in
assenza di un’esperienza corrispondente non è possibile decidere.
Tra la tesi e l’antitesi delle quattro antinomie che Kant divide in matematiche e dinamiche è
impossibile decidersi, perché entrambe possono essere razionalmente dimostrate.
Il difetto è nella stessa idea di mondo, la quale, essendo al di là di ogni esperienza possibile,
non può fornire alcun criterio atto a decidere per l’una o l’altra delle tesi in conflitto.
le antinomie dimostrano l’illegittimità dell’idea di mondo.
Quindi, nessuno è in grado di dire come e quando il mondo sia nato.
Anche la teologia razionale, che si occupa del più arduo problema della metafisica, cioè
della questione di Dio, risulta priva di valore conoscitivo, Dio, secondo Kant, rappresenta
l’ideale della ragion pura, cioè quel supremo modello personificato di ogni realtà e
perfezione che i filosofi hanno designato con il nome di ens realissimum, concependolo
come l’Essere da cui derivano e dipendono tutti gli esseri.
Ora, poiché tale ideale, che scaturisce dalla semplice ragione, ci lascia nella totale
ignoranza circa la sua effettiva realtà, la tradizione ha elaborato tutta una serie di prove
dell’esistenza di Dio, che Kant raggruppa in tre classi: prova ontologica, prova cosmologica
e prova fisico-teologica.
La prova ontologica viene assunta da Kant nella forma cartesiana, che pretende di ricavare
l’idea di Dio dal semplice concetto dell’attributo dell’esistenza.
Kant obietta che non è possibile saltare dal piano della possibilità logica a quello della realtà
ontologica, in quanto l’esistenza è qualcosa che possiamo constatare solo per via empirica,
e non già dedurre per via logico-intellettiva.
Dunque, la prova ontologica o è impossibile o è contraddittoria: impossibile se vuol derivare
da un’idea una realtà, contraddittoria se nell’idea del perfettissimo assume già
quell’esistenza che vorrebbe dimostrare.
In entrambi i casi questa prova risulta fallace in maniera palese.
La prova cosmologica che Kant riprende dalla filosofia del suo tempo, gioca sulla distinzione
tra contingente e necessario, affermando che se qualcosa esiste deve anche essere
assolutamente necessario.
Secondo Kant, il primo limite di questo argomento consiste in un uso illegittimo del principio
di causa, in quanto esso, partendo dall’esperienza della catena degli enti etero causati,
pretende di innalzarsi, oltre l’esperienza, a un primo anello incausato.
Ma il principio di causa, è una regola con cui connettiamo i fenomeni tra loro e che non può
affatto servire a connettere i fenomeni con qualcosa di trans-fenomenico.
Anche la prova cosmologica finisce per implicare la struttura logica di quella ontologica, che
da puri concetti vuol far scaturire delle esistenze.
La prova fisico-teologica fa leva sull’ordine, sulla finalità e sulla bellezza del mondo per
innalzarsi a una Mente ordinatrice, identificata con un Dio creatore perfetto e infinito.
Essa rileva Kant è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione, tant’è che
ha trovato fortuna anche presto i critici ostili alla teologia tradizionale.
Anche questa prova per Kant risulta internamente minata da una serie di forzature logiche e
dall’utilizzo mascherato dell’argomento ontologico.
Con tali critiche Kant non ha voluto negare l’esistenza di Dio, ma al contrario mettere in
discussione la dimostrabilità razionale e metafisica della sua esistenza.
In sede teorica, Kant non è ateo, ma agnostico, in quanto ritiene che la ragione umana non
possa dimostrare nè l’esistenza di Dio, nè la sua non-esistenza.
Nella prima critica che abbiamo analizzato l’esperienza aveva un ruolo fondamentale e
positivo, mentre nella critica della ragion pratica essa diventa un limite perché l’azione
morale non può partire dalla semplice esperienza, in quanto se fosse così essa dovrebbe
diventare un principio universale valido per tutti; ed è per questo che i principi morali, che
devono essere universali, bisogna che prescindano dall’esperienza.
Questa parte della critica si occupa del nostro agire, del nostro comportamento e
dell’aspetto etico-morale della vita.
La ragione serve a dirigere non solo la conoscenza, ma anche l’azione.
Accanto alla ragione teoretica abbiamo quindi una ragione pratica.
In questa critica si svilupperà il concetto di fare il dovere per il dovere, ossia svolgere
determinate azioni e fare determinate cose per un qualcosa che è definito come il principio
basilare.
Quest’affermazione è di carattere universale e atemporale e viene declinata da ciascun
uomo in base alle proprie necessità e alla propria realtà.
Il fatto che la ragion pratica non debba venir criticata, ma semplicemente illustrata non
significa tuttavia che essa sia priva di limiti, infatti, la morale secondo Kant risulta
profondamente segnata dalla finitudine dell’uomo e necessita di essere salvaguardata dal
fanatismo, cioè dalla presunzione di identificarsi con l’attività di un essere infinito.
Articolando l’interpretazione di Kant come filosofo del finito, Pietro Chiodi scrive: “il mondo
morale non obbedisce allo stesso genere di restrizioni del mondo della conoscenza. nel
campo morale la ragione umana non è condizionata dai fenomeni come nel mondo della
conoscenza; ma è un errore credere che Kant restauri nel campo morale l’assolutezza della
metafisica. La ragione morale è pur sempre la ragione di un essere pensante finito e quindi
condizionato. Il condizionamento che la finitudine umana introduce nel campo morale è
costituito dal fatto che la ragione vi incontra costantemente ed ineliminabilmente la
resistenza della natura sensibile dell’uomo.”
La finitudine dell’uomo è fondamentale, perché anche in campo morale l’uomo rimane finito.
Alla base della critica della ragion pratica si trova la persuasione che esista, innata
nell’uomo, una legge morale a priori, valida per tutti e per sempre.
Da questa teoria nasce una forte convinzione di Kant che si traduce nella frase: “la legge
morale dentro di noi, il cielo stellato sopra di noi”.
Così come nella critica della ragion pura Kant muoveva dall’idea dell’esistenza di
conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella critica della ragion pratica egli muove
dall’analogo convincimento dell’esistenza di una legge etica assoluta.
Legge che il filosofo non ha il compito di dedurre e di inventare, ma unicamente di
constatare.
Che esista una legge morale assoluta o incondizionata è dunque un qualcosa su cui il
filosofo non ha dubbi.
Per lui, infatti, o la morale è una chimera, in quanto l’uomo agisce in virtù delle sole
inclinazioni naturali, oppure, se esiste, deve per forza essere incondizionata, cioè
presupporre una ragion pratica pura, capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di
guidare la condotta in modo stabile.
La tesi dell’assolutezza o incondizionatezza kantiana della morale implica poi due
convinzioni di fondo strettamente legate fra loro: la libertà dell’agire umano e la validità
universale e necessaria della legge.
Per quanto riguarda la libertà dell’agire, la morale implica la possibilità umana di
autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri
come il primo presupposto della vita etica.
Di conseguenza, essendo indipendente da ogni impulso contingente e da ogni condizione
particolare, la legge morale risulterà anche universale e necessaria, ossia immutabilmente
uguale a se stessa in ogni tempo e in ogni luogo.
L’equazione moralità=incondizionatezza=libertà=universalità e necessità rappresenta il fulcro
dell’analisi etica di Kant e la chiave di volta, sono le caratteristiche essenziali che il filosofo
riferisce alla legge morale: categoricità, formalità e autonomia.
Se l’uomo fosse solo sensibilità, ossia istintività, è ovvio che essa non esisterebbe, perché
l’individuo agirebbe sempre per istinto.
Ma anche se l’uomo fosse ragione pura, la morale non esisterebbe, in quanto l’individuo
sarebbe sempre in quella situazione che Kant chiama santità etica, cioè una situazione di
perfetta adeguatezza alla legge.
E’ proprio la bidimensionalità dell’essere umano a far sì che l’agire morale si concretizzi in
una lotta permanente tra la ragione e gli impulsi egoistici.
Tra legge morale e volontà, infatti, non c’è una spontanea coincidenza: ecco perché la prima
si presenta all’uomo nella forma dell’imperativo, cioè di un comando che richiede di
sacrificare le proprie inclinazioni sensibili e che l’uomo, per la sua natura limitata e
imperfetta, può anche trasgredire.
L’agire in modo moralmente corretto non è immediato e nemmeno facile, bisogna andare
quindi al di là del proprio egoismo.
In questo senso quella di Kant è un’etica prescrittiva o deontologica e non descrittiva: essa
non concerne l’essere (ossia come di fatto gli uomini si comportano), ma il dover-essere,
cioè come dovrebbero comportarsi (formano l’uomo moralmente corretto).
La morale kantiana non riguarda la materia o il contenuto del volere, ma la sua forma.
Si tratta del massimo imperativo kantiano, agisci comprendendo il dovere per il dovere; esso
è di carattere formale e ognuno di noi lo declinerà a seconda della propria condizione.
La formalità, sta nel fatto che lui ci dà questi imperativi e poi ciascuno di noi li applica in
maniera adeguata.
L’opera si può fondamentalmente suddividere in due parti, la prima la dottrina degli elementi
e la seconda la dottrina del metodo, in maniera analoga alla prima critica.
Kant distingue i principi pratici, cioè quelli legati all’agire e che sono definiti come regole
generali che disciplinano la nostra volontà, in massime e imperativi:
- la massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida
esclusivamente per l’individuo che la fa propria.
- l’imperativo è una prescrizione di valore oggettivo, ossia che vale per chiunque.
Gli imperativi si dividono a loro volta in imperativi ipotetici e imperativi categorici.
Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini e hanno la forma del
“se devi”.
Questi si specificano in: regole dell’abilità e in consigli della prudenza.
L’imperativo categorico, invece, ordina il dovere in modo incondizionato, cioè a prescindere
da qualunque scopo e non ha la forma del “se devi”, ma del “devi puro e semplice”.
Per Kant la legge morale non può dipendere da impulsi sensibili soggettivi e da circostanze
mutevoli: essa pertanto non può risiedere negli imperativi ipotetici, ma solo in un imperativo
categorico, che si imponga indipendentemente dalla persona alla quale si rivolge,
dall’obiettivo che si prefigge, dalla circostanza in cui si agisce.
Solo un tale imperativo, in quanto totalmente incondizionato, ha le caratteristiche della legge
ovvero di un comando che vale in modo che sia perentorio per tutte le persone e per tutte le
circostanze.
In conclusione, solo l’imperativo categorico ha in se stesso i contrassegni della moralità.
Il dovere per il dovere indica il comportarsi in modo da fare il proprio dovere in quanto giusto
svolgerlo.
Posto che la legge etica assuma la forma di un imperativo categorico, quale sarà il suo
contenuto?
Kant risponde che esso consiste nell’elevare a legge l’esigenza stessa di una legge.
Esso si concretizza nella prescrizione dell'agire secondo una massima che può valere per
tutti; da questo nasce la formula alla base dell’imperativo categorico che si sintetizza nella
celebre frase: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello
stesso tempo come principio di una legislazione universale.”
La seconda formula dell’imperativo categorico è: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia
nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente
come mezzo.”
Quest’affermazione vuol dire rispetta la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di
ridurre il prossimo o te medesimo a semplice mezzo del tuo egoismo e delle tue passioni.
La terza formula dell’imperativo categorico, infine, prescrive di agire in modo tale che: “la
volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come
universalmente legislatrice.”
Con questo Kant vuole dirci, riprendendo in parte la prima, che essa sottolinea in modo
particolare l’autonomia della volontà, mettendo in evidenza come il comando morale non
debba essere un imperativo esterno e schiavizzante, ma il frutto spontaneo della volontà
razionale.
Le varie determinazione della legge etica che abbiamo esaminato convergono in quella
dell’autonomia, che tutte le implica e riassume.
Il senso profondo dell’etica kantiana consiste nell’aver posto nell’uomo e nella sua ragione il
fondamento dell’etica.
Questo è il significato della cosiddetta rivoluzione copernicana morale compiuta da Kant, il
quale colloca l’uomo al centro dell’universo morale, così come in campo gnoseologico lo
aveva posto al centro della natura, facendone diventare il legislatore.
Per questo Kant polemizza aspramente contro tutte le morali eteronome, cioè contro tutti
quei sistemi che pongono il fondamento del dovere in forze esterne all’uomo o alla sua
ragione.
I postulati della ragion pratica di Kant sono quelle proposizioni non dimostrabili che
inseriscono alla legge morale come condizioni della sua stessa esistenza e pensabilità,
ovvero quelle esigenze interne della morale che vengono ammesse per rendere possibile la
realtà della morale stessa.
I postulati non sono dogmi teoretici, ma presupposizioni necessarie dal punto di vista
pratico.
I primi due postulati kantiani sono l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio.
Per quanto concerne il postulato dell’immortalità dell’anima:
- poiché solo la santità rende degni del sommo bene,
- e poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo,
- si deve per forza ammettere che l’uomo, possa disporre di un tempo infinito grazie a
cui progredire all’infinito verso la santità.
Quello dell’esistenza di Dio è una credenza in una volontà santa e onnipotente che faccia
corrispondere la felicità al merito.
Accanto a questi due postulati abbiamo il postulato della libertà.
Questa è la condizione stessa dell’etica, la quale, nel momento in cui prescrive il dovere,
presuppone anche che si possa agire o meno in conformità a esso e che quindi si sia
sostanzialmente liberi.
Se c’è la legge morale che prescrive il dovere, deve per forza esserci la libertà.
Pur aprendo uno squarcio sul trans-fenomenico e sul metafisico, i postulati pratici kantiani
non possono affatto valere come conoscenze certe.
Come scrive Pietro Chiodi, il primato della ragion pratica sulla ragione speculativa non
significa che essa ci può dare ciò che questa ci nega, ma semplicemente che le sue
condizioni di validità comportano la ragionevole speranza dell’esistenza di Dio e
dell’immortalità dell’anima: ma se questa ragionevole speranza fosse intesa come certezza
razionale, non solo il mondo morale non ne uscirebbe rafforzato ma totalmente distrutto.