L’intervista
i al pianoforte (Ansa)
Lei pensa che davvero ci vedremo in un mondo migliore?
«Non lo so. Certo non nei Campi Elisi. Spero ci sia tanta luce; mi basta che non ci sia la
metempsicosi. Non ho voglia di rinascere, tanto meno ragno o topo, ma neanche leone. Una vita è
più che sufficiente».
Crede in Dio?
«Ho avuto una formazione cattolica. Ho ammirato molto papa Ratzinger, anche come magnifico
musicista. Non credo nei santini di Gesù biondo. Dentro di noi c’è un’energia cosmica che ci
sopravvive, perché è divina. Ricordo la morte di mia madre Gilda: ebbi netta la sensazione che il
suo corpo diventasse pesante come marmo, mentre si liberava un flusso, l’energia vitale. Sento che
l’universo è attraversato da raggi sonori che arrivano fino a noi; ed è la ragione per cui abbiamo la
musica. I raggi sonori che hanno attraversato Mozart sono infiniti».
Chi ha dato la migliore definizione della musica?
«Dante. Paradiso, canto XIV: “E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce
tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/ s’accogliea per la
croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno”. La musica è rapimento, non
comprensione. Critici musicali, tutti a casa! Non c’è niente da comprendere. Come diceva Mozart,
la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro le note».
Muti da bambino
Il compositore dei film di Fellini.
«Diedi con lui a Bari l’esame del quinto corso di pianoforte da privatista: mi diede 10 e lode in tutte
le prove. Così decisi di iscrivermi al conservatorio. La mattina andavo al liceo, il pomeriggio
prendevo la corriera per Bari».
Per essere stanco della vita, lei è sempre in giro.
«Credo nei viaggi dell’amicizia e della pace. Non lavori per il successo, la quantità di applausi e
articoli; lo fai perché capisci che la nostra professione è una missione. Ho diretto il primo concerto a
Sarajevo dopo i bombardamenti, il Va’ pensiero a New York nel buco lasciato dalle Torri Gemelle
abbattute. Una sera ho diretto a Erevan, in Armenia, e la sera dopo a Istanbul. Ricordo a Nairobi un
coro di bambini meraviglioso: avevano studiato il Va’ pensiero con una pronuncia assolutamente
perfetta, mi commuovo ancora se ci penso. Ma a volte mi sembra di parlare ai sordi. Muti che parla
ai sordi... Avvilente. Non è mancanza di volontà; è ignoranza atavica. E dire che le radici della
musica mondiale sono in Italia: Palestrina, Monteverdi, Frescobaldi, Luca Marenzio, Scarlatti...».
Il co
Ha paura della morte?
«No. Da ragazzo andavamo la sera al cimitero a vedere i fuochi fatui. Ho conosciuto l’ultima
prefica, Giustina: raccontava i pregi del morto, disteso sul letto nell’unica stanza della casa, la porta
aperta sulla strada, alle pareti la foto del fratello bersagliere e dello zio ardito… Un mondo semplice
e fantastico, che mi manca moltissimo. Per questo le dico che appartengo a un’altra epoca. Oggi il
mondo va così veloce, travolge tutto, anche queste cose semplici, che sono di una profonda
umanità...».
Quindi non teme la fine?
«Non in sé. Mi dispiace lasciare gli affetti. Mia moglie, i miei figli Francesco, Chiara e Domenico, i
nipoti. E gli animali».
Quali animali?
«Il cane Cooper, un maltese. In campagna abbiamo colombe, conigli, galline, galli, e due asini
sardi, Gaetano e Lampo: intelligentissimi. Si affezionano, ti guardano interrogativi con i loro occhi
rosa... E noi diamo del cane e dell’asino come se fossero insulti».
Muti, al
Come vorrebbe i suoi funerali?
«Scherzosamente dico che lascerò l’indicazione di brani musicali da eseguire in chiesa attraverso
incisioni, rigorosamente dirette da me».
Perché?
«Non perché le ritenga le migliori; voglio che si ricordino come dirigevo Mozart, Schubert,
Brahms. Se non sono io, me ne accorgo subito, e c’è la probabilità che si apra la bara... (Muti
sorride). C’è una cosa però su cui sono serissimo».
Quale?
«Ai miei funerali non voglio applausi. Sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c’era un
silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c’era la banda
che eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in Puglia. I primi
applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma erano riconoscimenti alla loro capacità di
interpretare l’anima di Napoli, di Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse
il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più
intimi».