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Capitolo 1: Caratteristiche e funzioni del diritto penale

Diritto penale: è quella parte del diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti reato.
Reato: si definisce così ogni fatto umano alla cui realizzazione la legge riconnette sanzioni
penali
Sono Sanzioni penali: la Pena e le Misure di Sicurezza
Ratio: entrambe tendono all’obiettivo di difendere la società dal delitto e di risocializzare il
delinquente. Sono definibili leggi penali quelle che riconnettono sanzioni penali alla commissione
di determinati fatti. Reato, pena e misura di sicurezza costituiscono, dunque, i tre pilastri su cui
poggia l’edificio del moderno diritto penale.
Il reato ruota su tre principi cardine del diritto penale:
1) Principio di materialità : non può esservi reato se la volontà criminosa non si materializza in un
comportamento esterno (cogitatio poenam nemo patitur).
2) Principio di necessaria lesività o offensività : è necessario che tale comportamento leda o ponga
in pericolo beni giuridici.
3) Principio di colpevolezza: il reato può essere penalmente attribuito all’autore soltanto a
condizione che gli si possa muovere un rimprovero per averlo commesso.
La necessità di ricorrere al diritto penale si spiega perché i mezzi di protezione predisposti dagli
altri settori dell’ordinamento non risultano altrettanto idonei a prevenire la commissione di fatti
socialmente dannosi, che è necessario impedire in vista della garanzia delle condizioni di una
pacifica convivenza. Peraltro, il ricorso alla sanzione penale per antonomasia – e cioè la pena
detentiva – risulta in taluni casi ancor oggi inevitabile per scoraggiare le azioni dannose di coloro i
quali non avvertirebbero, o perché “possono permettersi tutto” ovvero perché “non posseggono
nulla”, l’effetto di sanzioni pecuniarie come il risarcimento del danno e simili.
La spiccata attitudine preventiva del diritto penale si dispiega in una duplice forma:
- prevenzione c.d. generale: la minaccia della sanzione penale distoglie dal commettere reati
- prevenzione c.d. speciale: la concreta inflizione della pena tende a impedire che l’autore del reato
torni a delinquere.

FUNZIONI DI TUTELA DEL DIRITTO PENALE: LA PROTEZIONE DEI BENI


GIURIDICI.
Secondo la concezione dominante della scienza penalistica, il diritto penale assicura le condizioni
essenziali della convivenza predisponendo la sanzione più drastica a difesa dei beni giuridici.
Tali sono definiti i beni socialmente rilevanti meritevoli di protezione giuridico – penale.
tale definizione, ancorché assai diffusa, rimane per molti aspetti generica. I beni giuridici esistono
soltanto, se e nella misura in cui sono “in funzione”, cioè producono effetti utili nella vita sociale.
Da questo punto di vista, i beni non sono entità intangibili che pretendono una tutela assoluta, dal
momento che in determinati casi può risultare utile addirittura sacrificarne qualcuno, in vista del
perseguimento di altri vantaggi sociali (tutela penale spesso frammentaria). Carattere dinamico del
bene giuridico. Assurge a bene giuridico soltanto quell’interesse, o quell’accorpamento di interessi,
idonei a realizzare un determinato scopo utile per il sistema sociale o per una sua parte. Proteggere
quei beni o interessi, dalla cui tutela dipende la garanzia di una convivenza pacifica. Storicamente la
paternità del concetto di bene giuridico, quale nozione atta a designare l’oggetto della tutela penale,
si fa risalire a una presa di posizione del tedesco BIRNBAUM, in uno scritto del 1834. La
preoccupazione di escogitare una teoria del bene giuridico, idonea in qualche modo a limitare la
potestà punitiva dello Stato, emerge con particolare forza alla fine dell’800 nell’opera di Franz v.
Liszt. Si tratta del primo compiuto tentativo di concepire rigorosamente il diritto penale come
strumento di tutela di beni giuridici, ed è frutto di una concezione di fondo che valorizza l’idea di
scopo nel diritto penale più in generale teorizzata da Jhering; il diritto penale serve alla
soddisfazione di bisogni sociali che si impongono come dati preesistenti alla disciplina giuridica, e
con i quali il legislatore deve misurarsi. Il ricorso alla pena detentiva diventa inevitabile, poiché, se
si ammettesse per assurdo, l’uso delle
sole pene pecuniarie , potrebbero crearsi dei problemi per i soggetti che non possono materialmente
pagare la somma e si rischierebbe, pertanto, di emanare una pena senza effetti.

Bene giuridico e Costituzione


L’approccio costituzionale al concetto di bene giuridico muove da una rilettura delle norme della
Costituzione dedicate al tema penale, norme basate sul principio che ammette il ricorso allo
strumento penale nei soli casi di stretta necessità. Si possono richiamare:
1) art. 25, comma. 2 Cost.: affida al parlamento o governo (nella forma del decreto legge o del
decreto legislativo) il potere di legiferare in materia penale.
2) art. 27, comma. 1 Cost.: sancisce il principio del carattere personale della responsabilità penale.
2) art. 27, comma 3 Cost.: attribuisce una funzione rieducativa della pena.
Il quadro di questi principi costituzionali si integra col riferimento all’art. 13 Cost. che sancisce il
carattere inviolabile della libertà personale. Il ricorso alla pena trova giustificazione soltanto se
diretto a tutelare beni socialmente apprezzabili con rilevanza costituzionale. Altre forme di
sanzione, in particolare pena pecuniaria, che se non intacca direttamente la libertà personale, non
solo sacrifica il patrimonio, ma influisce pur sempre negativamente sulla dignità sociale dell’autore
del reato. Beni di rilevanza costituzionale implicita, tutela penale estensibile anche a beni che
trovano nella Costituzione un riconoscimento soltanto implicito, ossia come strumentale rispetto
alla tutela di altri beni (esplicitamente) costituzionali, oppure che pur non menzionati dalla
Costituzione come testo scritto, rientrano nondimeno nel sistema sociale dei valori che fa da sfondo
alla dimensione effettuale dell’ordinamento costituzionale. Concezione costituzionalmente orientata
e nuove esigenze di tutela. Il catalogo degli oggetti di tutela recepiti nel sistema penale vigente è
ben lungi dal soddisfare le rigorose pretese della teoria costituzionale dei beni giuridici. Il problema
della compatibilità con la Cost. delle figure di reato può porsi sotto una duplice angolazione:
- verificando se le fattispecie di reato sono poste a difesa di un bene sufficientemente definito;
- controllando la conformità alla Cost. delle tecniche di tutela adottate dal legislatore per la
salvaguardia del bene stesso.

Reati privi di bene giuridico


Il problema riguarda il settore dei reati senza bene giuridico, come pornografia, giuoco d’azzardo,
bestemmia, violazione della disciplina di determinate attività. La moralità pubblica non rientra nella
nozione di bene giuridico. Lo Stato non può imporre ai cittadini adulti una determinata concezione
morale. Oppure fattispecie finalizzate alla protezione di interessi superindividuali e ad ampio
raggio, quali economia pubblica, ambiente, territorio, interessi diffusi, ecc. Con riferimenti ad essi,
l’oggetto della protezione penale perde in concretezza e afferrabilità: e cioè il diritto penale non
tutelerebbe più beni giuridici in senso tradizionale, ma funzioni amministrative o assetti di
disciplina volti a garantire il regolare esercizio di determinate attività, anche attraverso scelte che
mediano tra interessi configgenti.

Teorie incriminatrici costituzionalmente dubbie


Sollevano problemi di costituzionalità le suddette tipologie di reato :
a) Reati di sospetto : si discostano maggiormente dal principio di offensività, come nel caso del
possesso ingiustificato di chiavi false o di grimaldelli in cui il legislatore incrimina fatti che non
ledono né pongono in pericolo il bene protetto. Esiste una tutela accentuatamente preventiva sulla
presunta pericolosità dell’agente e non tanto sull’idoneità offensiva della condotta.
b) Reati ostativi : si parla di delitti – ostacolo in quanto la funzione delle relative norme è quella di
frapporre un impedimento al compimento dei fatti concretamente offensivi.
In altre parole il legislatore incrimina le condotte che preannunziano comportamenti che ledono o
pongono in pericolo il bene protetto (es. possesso di sostanze stupefacenti , quale momento
prodromico dello spaccio).
c) Reati di pericolo presunto: tale modello tipicizza fatti che, secondo una regola di esperienza, è
presumibile provochino una messa in pericolo del bene protetto.
d) Delitti di attentato: figura di reato tipica del diritto penale politico, l’attentato presenta in
origine caratteristiche fortemente illiberali, dal momento che colpisce già gli atti preparatori di
condotte destinate ad offendere interessi attinenti alla personalità dello Stato.
e) Reati a dolo specifico con condotta neutra: si tratta di illeciti imperniati su di una condotta che,
considerata in se stessa, può addirittura costituire esercizio di un diritto costituzionale, ma che
assume rilevanza penale in virtù del fine perseguito, come il reato di associazione sovversiva.

Sindacato di legittimità costituzionale


Il criterio della rilevanza costituzionale del bene non è di per sé così univoco e stringente da
consentire controlli sufficientemente rigorosi.
L’applicazione di questo modello ha dato luogo a pronunce inquadrabili sotto tre diverse tipologie:
- sentenze di rigetto: sono la maggior parte. Di non poche fattispecie di matrice autoritaria del
codice Rocco la Corte ha operato il salvataggio facendo leva sul rilievo che le fattispecie predette
sarebbero finalizzate alla tutela di beni dotati, a loro volta, di rango costituzionale.
- sentenze manipolative del bene protetto: la Corte ha in questi casi riformulato l’oggetto della
tutela, come nel caso delle norme penali a tutela della religione rimaste in vita ridefinendo l’oggetto
della tutela nel senso che nuovo bene protetto è il sentimento religioso quale espressione della
personalità del singolo credente, oppure in tema di norme penali riservate allo sciopero.
- sentenze di accoglimento: sono di gran lunga la minor parte, dipendente dalla compressione di
diritti costituzionalmente garantiti, vedi sentenza 269/86 di incostituzionalità del reato di
eccitamento alla immigrazione.

I principi di sussidiarietà e di meritevolezza di pena


La dottrina contemporanea è quasi unanime nel riconoscere che l’esistenza di un bene meritevole di
tutela non basta ancora a giustificare la creazione di una fattispecie penale finalizzata alla sua
salvaguardia. Vi sono ulteriori presupposti. Il principio di sussidiarietà (o di extrema ratio)
costituisce, nel campo del diritto penale, una specificazione del più generale principio di
proporzione: e, cioè, di un principio logico, immanente allo stato di diritto, che ammette il ricorso a
misure restrittive dei diritti dei singoli solo nei casi di stretta necessità, vale a dire quando queste
risultino indispensabili per la salvaguardia del bene comune. Il p. di suss. può essere concepito in
due accezioni diverse:
1) Concezione ristretta : ricorso dello strumento penale appare ingiustificato o superfluo quando la
salvaguardia del bene sia ottenibile mediante sanzioni di natura extra-penale. A parità di efficacia,
il legislatore dovrebbe optare per quello che comprime meno i diritti del singolo.
2) Concezione più ampia : la sanzione penale è da preferire anche nei casi di non strettissima
necessità tutte le volte in cui si ravvisa la necessità di una più forte riprovazione del comportamento
criminoso e, di conseguenza, di una più energica riaffermazione dell’importanza del bene tutelato.
La concezione ristretta è considerata come corrispondente a una visione più moderna.

Principio di meritevolezza della pena


Tale principio esprime l’idea che la sanzione deve essere applicata nei soli casi in cui l’aggressione
raggiunga un tale livello di gravità da risultare intollerabile. Il criterio è: più è alto il livello del bene
tutelato all’interno della scala gerarchica della costituzione, tanto più giustificato risulterà asserire la
meritevolezza di pena. Al contrario, più è basso il valore del bene, tanto più giustificato apparirà
limitare la reazione penale.

Principio di frammentarietà
Il principio di frammentarietà è, solitamente, considerato operante a tre livelli :
• Alcune fattispecie di reato tutelano il bene oggetto di protezione non contro ogni aggressione
proveniente da terzi, ma soltanto contro specifiche forme di aggressione.
• La sfera di ciò che rileva penalmente è molto più limitata rispetto alla sfera di ciò che è qualificato
antigiuridico alla stregua dell’intero ordinamento (es. la violazione di un contratto, non è un illecito
penale, ma solo civile).
• L’area del penalmente rilevante non coincide con quella di ciò che è moralmente riprovevole (si
pensi all’omosessualità ormai decriminalizzata).
Ma la framm. contrasta con la prospettiva della prevenzione generale , perché tende a lasciare delle
lacune. Per tale motivo, la giurisprudenza, non di rado, indulge verso interpretazioni estensive delle
fattispecie incriminatrici (ad es. l’estensione del significato del termine aiuto nel reato di
favoreggiamento personale a chi si rifiuta di fornire notizie utili per l’accertamento del reato
commesso da persona non ancora identificata). Dal punto di vista della prevenzione speciale la
framm. contrasta con l’esigenza di risocializzazione quale obiettivo dell’esecuzione della pena:
infatti se la pena deve tendere non solo ad impedire la recidiva, ma anche a riorientare il reo
secondo il sistema dei valori dominanti, sarebbe più coerente penalizzare tutte le condotte lesive dei
beni. A questo punto risulta chiaro che la framm. rappresenta un’ulteriore proiezione della
concezione dello strumento penale come ultima ratio.

Principio di autonomia
• Il Binding : attribuisce al diritto penale una funzione secondaria o accessoria e sanzionatoria. La
sua funzione specifica consisterebbe nel rafforzare con la propria sanzione i precetti e le sanzioni
degli altri rami del diritto.
• In Italia , il Grispigni : attribuisce al diritto penale un carattere ulteriormente sanzionatorio. In
altri termini, ogni condotta costituente reato sarebbe sempre vietata anche da un’altra norma di
diritto privato o di diritto pubblico e pertanto ogni reato integrerebbe un illecito di natura non penale
prima ancora di essere vietato dal diritto penale: “la sanzione penale serve così di completamento e
di rafforzamento all’altra sanzione non penale”. La tesi del carattere sanzionatorio del dir. pen. è
oggi quasi unanimemente respinta perché, se la sanzione penale deve costituire l’estrema ratio, ne
deriva logicamente che il diritto penale non può precedere, ma può soltanto intervenire
successivamente agli altri settori dell’ordinamento. Un dato è, comunque, inconfutabile: e, cioè, per
procedere all’applicazione delle tipiche sanzioni punitive, il giudice non è vincolato a precedenti
valutazioni di altri giudici o di autorità amministrative, per cui è indifferente che la sanzione penale
sia preceduta da altre sanzioni.

Partizione del diritto penale.


Il codice penale è costituito da una parte generale e da una parte speciale.
La parte generale ricomprende la disciplina dei criteri, oggettivi e soggettivi, di imputazione del
fatto delittuoso al suo autore, delle conseguenze giuridiche del reato e di ogni altro elemento
condizionante la punibilità.
La parte speciale contiene il catalogo delle fattispecie che descrivono i singoli comportamenti
illeciti ed è organizzata secondo un criterio sistematico che fa capo al concetto di bene giuridico di
categoria.

Caratteristiche del Codice Rocco.


Il codice penale vigente – c.d. codice Rocco – per quanto emanato in epoca fascista, non appare
tutto permeato dall’ideologia del regime. Le sue caratteristiche sono:
- rispecchia a grandi linee il catalogo delle fattispecie ereditato dalla tradizione penalistica liberale.
- Il legislatore del 1930 prevedeva, però, pene più aspre.
- la novità più importante, sul terreno delle conseguenze sanzionatorie, è rappresentata
dall’introduzione delle misure di sicurezza, in aggiunta o in sostituzione della pena (sistema del
doppio binario).
Codice Rocco, interventi riformatori e legislazione speciale
Si elencano alcuni elementi riformatori.
- Col D.L.L. 288/1944 è stata reintrodotta la scriminante della reazione legittima del cittadino agli
atti arbitrari del pubblico ufficiale.
- La c.d. exceptio veritatis in virtù del quale si attribuisce all’imputato il diritto di provare la verità
dell’addebito di fronte all’attribuzione di un fatto determinato, onde meglio garantire il diritto di
critica e di controllo del privato nei confronti della P.A. e, più in generale, nelle relazioni sociali.
- Le attenuanti generiche aventi la funzione di umanizzare la condanna, adeguandola il più possibile
alle peculiarità della vicenda concreta.
- Con D.L.L. 222/1944 è stata abolita la pena di morte, anticipando l’art. 27, comma 4, Cost.
- Con legge 127/1958 è stata riformata la disciplina penale dei reati a mezzo stampa.
- Leggi 191/62 e 1634/62 modificano gli istituti della sospensione condizionale della pena e della
liberazione condizionale in senso più favorevole al reo.
- Prime leggi (317/67 e 706/75) di depenalizzazione delle contravvenzioni, punite con la sola pena
dell’ammenda.
- Legge di depenalizzazione 689/81 che abrogando le precedenti leggi ha tentato di risolvere il
problema della depenalizzazione, ma la prospettiva della depenalizzazione dovrebbe essere
perseguita con maggiore ampiezza.
- La novella del 1974 (con legge 220/74) è il primo intervento di ampio respiro con la quale si
introducono la possibilità del giudizio di comparazione tra tutte le circostanze aggravanti e tutte le
circostanze attenuanti, il cumulo giuridico delle pene per il concorso formale di reati, estensione
della disciplina del reato continuato, la trasformazione dell’aggravante della recidiva da obbligatoria
in facoltativa, estensione dei limiti della sospensione condizionale della pena, anche per il caso di
seconda condanna.
- Il secondo intervento è la riforma dell’ordinamento penitenziario (legge 354/75) e l’introduzione
delle sanzioni c.d. alternative (affidamento in prova, semilibertà e liberazione anticipata).

CAPITOLO 2. LA FUNZIONE DI GARANZIA DELLA LEGGE PENALE

Caso 1: in una giornata molto calda, un uomo per ricevere refrigerio, si immerge nudo in una
fontana di Hyde Park. Denunciato, è chiamato a rispondere penalmente per la violazione delle
norme che proibiscono di indossare abbigliamenti contrari ai buoni costumi.
Principio di legalità
Ha una genesi non strettamente penalistica, ma squisitamente politica. La sua matrice risale alla
dottrina del:
- contratto sociale;
- si giustifica con la conseguente esigenza di vincolare l’esercizio di ogni potere dello Stato alla
legge.
Il pensiero illuministico, proteso ad eliminare gli arbitri ed i soprusi dello Stato assoluto, si fa
assertore in chiave garantistica del vincolo del giudice alla legge, quale corollario del principio
della divisione dei poteri. L’idea della tutela dei diritti di libertà del cittadino nei confronti del
potere statuale si esprime, fondamentalmente, nel divieto di retroattività della legge penale
(riconoscimento oltre che nelle Cost. anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789). La traduzione in termini giuridico - penali della base politica del principio di legalità,
avviene nell’800, ad opera di Anselm Feuerbach , il quale lo canonizza nella frase “nulla poena,
sine lege“, e lo raccorda concettualmente al problema del fondamento della pena, visto come
prevenzione generale, attuata mediante coazione psicologica. Cioè,se la minaccia della pena deve
funzionare da deterrente psicologico nel distogliere dal commettere reati, è necessario che i cittadini
conoscano prima quali sono i fatti, la cui realizzazione comporta l’inflizione della sanzione. La
migliore riprova del fondamento del principio di legalità sta nel fatto che esso ha trovato espresso
riconoscimento nell’art. 25 c. 2 / Cost. e nell’art. 7 della CEDU del 4 novembre 1950. L’art. 25 c. 2
della Cost. dispone che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso”. A sua volta, l’art. 1 del c.p. statuisce: “Nessuno può essere
punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che
non siano da essa stabilite”. Il significato di garanzia del principio di legalità sono evidenziate dal
caso 1. Risoluzione caso 1: il comportamento dell’uomo rientra, ad una considerazione basata sulla
ratio della tutela, tra le condotte da reprimere, ma l’essere nudi non è in nessun modo assimilabile
all’essere vestiti. Il principio di legalità ha come destinatari sia il legislatore sia il giudice e si
articola in 4 sottoprincipi quali:
1) Riserva di legge
2) Tassatività (o sufficiente determinatezza della fattispecie penale)
3) Irretroattività della legge penale
4) Divieto di analogia in materia penale

La riserva di legge
- Esprime il divieto di punire un determinato fatto in assenza di una legge preesistente che lo
configuri come reato. Esso tende a sottrarre la competenza in materia penale al potere esecutivo. Il
procedimento legislativo (competenza esclusiva del legislatore per esigenze di garanzia) appare lo
strumento più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale: esso consente di tutelare i
diritti delle minoranze e delle forze politiche dell’opposizione che sono così poste in condizione di
esercitare un sindacato sulle scelte penali, ma, soprattutto, perché la legge è espressione della
volontà popolare e, se ricorre alla coercizione penale, significa che intende difendere interessi
rilevanti della collettività. In Italia, si è tentato di ridimensionare il valore della riserva di legge,
degradandola a relativa: in questo senso, si è ritenuta ammissibile e legittima la partecipazione di
fonti normative secondarie, come i regolamenti, alla creazione della fattispecie penale. Questa
concezione non può essere accolta perché finisce con l’eludere le esigenze di garanzia cui il
principio di legalità deve soddisfare. La riserva deve essere intesa come assoluta perché esclude
che il legislatore possa attribuire il potere normativo ad una fonte di grado inferiore. Ma su questo
punto esistono divergenze. Secondo una prima formulazione elastica, il carattere assoluto della
riserva di legge non implica necessariamente l’esclusione del concorso del potere normativo
secondario nella configurazione del modello di reato. Se un elemento della fattispecie è determinato
tramite il rinvio a un regolamento, questa fonte degrada a mero presupposto di fatto, come fatto tra i
fatti. Questa impostazione oggi è, per lo più, respinta. Ma nel diritto penale moderno un apporto
della fonte secondaria appare indispensabile nei settori della legislazione speciale (dove sono
consentiti accertamenti di indole tecnica o specificazioni di dati, purché alla stregua di parametri
legislativamente predeterminati): si pensi alle tabelle del Min. Sanità relative alle sostanze
stupefacenti. Sicché si può rinvenire un punto di equilibrio tra il profilo della riserva e quello della
tassatività in questo senso: - le scelte di fondo relative all’incriminazione rimangono monopolio del
legislatore, mentre rimane affidata alla fonte normativa secondaria, la possibilità di specificare dal
punto di vista tecnico il contenuto di elementi di fattispecie già delineati in sede legislativa.

Fonti del diritto penale


Il principio della riserva di legge rinvia alla legge in senso formale, come previsto dagli art. 70 – 74
Cost. (formazione delle leggi). V’è da chiedersi se siano ammissibili come fonti di diritto anche le
leggi in senso materiale: cioè decreti leggi e leggi delegate. La dottrina dominante annovera senza
difficoltà sia il decreto legislativo che il decreto legge tra le fonti legittime di produzione di norme
penali. Invece, dottrina e giurisprudenza escludono dal novero delle fonti in materia penale la legge
regionale, nelle ipotesi sia di competenza esclusiva, sia di competenza concorrente ex art. 117 Cost.
A sostegno c’è che le restrizioni dei beni fondamentali della persona è così impegnativa da essere di
pertinenza solo statale e, poi, che un eventuale pluralismo di fonti regionali contrasterebbe col
principio dell’unità politica dello Stato e, infine, si richiama l’art. 120 c. 2-3 Cost. che vieta
allemRegioni di adottare provvedimenti che siano di ostacolo al libero esercizio dei diritti
fondamentali dei cittadini. La più IMPORTANTE SENTENZA della Corte Costit. SULLE
REGIONI è la 487/89 nella quale si afferma: La criminalizzazione comporta una scelta tra tutti i
beni e valori emergenti nell’intera società: e tale scelta non può essere realizzata dai consigli
regionali per la mancanza di una visione generale dei bisogni ed esigenze dell’intera società. -
Meno problematica appare, invece, l’ammissibilità di una legge regionale in funzione scriminante.
Ad esempio, si porta il caso di uno stabilimento industriale che scarica sostanze ritenute inquinanti
dalla legge statale, ma tollerate da una successiva legge regionale.

Rapporto legge-fonte subordinata: i diversi modelli di integrazione


I modelli di integrazione tra legge e fonte normativa subordinata (regolamento, ordinanza ecc.)
possono essere così schematizzati:
a) la legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte concretamente
punibili (c.d. norme penali in bianco, es. art. 650 c.p., es. inosservanza dei provvedimenti
dell’Autorità). La fattispecie è molto generica e, in fondo, la effettiva determinazione del fatto
costituente reato rimane affidata alla stessa autorità amministrativa. Ma la Corte Cost. la dichiarò
legittima nel 1972 motivando che la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in
tutti i suoi elementi costitutivi, dimenticando che la norma penale in bianco si estende sino al punto
da porre essa stessa la regola di comportamento.
b) La fonte secondaria disciplina uno o più elementi che concorrono alla descrizione
dell’illecito penale (es. art. 659 c.p., disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone). In
questo caso le prescrizioni dell’autorità contribuiscono a delineare le modalità del fatto vietato,
incidendo sul suo disvalore penale. In tal modo, sorge quantomeno il dubbio che una siffatta
integrazione cozzi con la ratio della riserva di legge. Nondimeno una certa tolleranza è imposta dal
fatto che la tutela penale si raccorda spesso a discipline extrapenali di fonte secondaria.
c) L’atto normativo subordinato assolve alla funzione di specificare, in via tecnica, elementi di
fattispecie legislativamente predeterminati nel nucleo essenziale. Nessun problema di violazione
di riserva di legge suscita quell’apporto della fonte secondaria di tipo tecnico nei settori della
legislazione speciale caratterizzati da complessità tecnica e bisognosi di continuo aggiornamento,
quale la disciplina degli stupefacenti.
d) La legge consente alla fonte secondaria di scegliere i comportamenti punibili tra quelli
da quest’ultima disciplinati. Questo modello di integrazione è certamente illegittimo perché il
legislatore si spoglierebbe del principio della riserva di legge per delegare quest’ultimo interamente
al potere regolamentare. La Corte Costituzionale ha per lo più mostrato la preoccupazione di salvare
la legittimità deiprecetti penali integrati da atti amministrativi.

Rapporto legge – consuetudini


Definizione della consuetudine : ripetizione generale, uniforme e costante di un comportamento,
accompagnata dalla convinzione della sua corrispondenza ad un precetto giuridico. In diritto penale,
è assolutamente pacifico, proprio in forza del principio di riserva di legge, l’inattitudine della
consuetudine a svolgere funzione incriminatrice o aggravatrice del trattamento punitivo. Ad
analoga conclusione si deve pervenire riguardo alla consuetudine cosiddetta abrogatrice o
desuetudine. Parte della dottrina ammette, invece, una funzione integratrice della consuetudine,
come, ad esempio, allorché si afferma che l’obbligo di impedire l’evento ex art. 40 cpv c.p. può
anche scaturire da una fonte consuetudinaria. Sennonché, sussiste contrasto tra il principio di riserva
di legge e la funzione integratrice della consuetudine. Ammissibile invece , il ricorso alla
consuetudine c.d. scriminante (es. esercizio di un diritto, (51cp). Ciò perché le norme che
configurano cause di giustificazione non hanno carattere specificamente penale, per cui le situazioni
scriminanti non sono necessariamente subordinate al principio della riserva di legge: così è, ad
esempio, ammissibile che l’esercizio di un diritto, quale causa di giustificazione (art. 51), abbia la
sua fonte in una norma consuetudinaria.
Riserva di legge e normativa comunitaria
Un problema di recente emersione concerne i rapporti tra la legge penale e le disposizioni
normative emanate dalla UE. La normativa comunitaria non può costituire legittima fonte di
produzione dell’illecito penale a causa dello sbarramento opposto dal principio della riserva di
legge statale ex art. 25, c. 2 Cost. La normativa comunitaria può contribuire alla descrizione
della fattispecie mediante una specificazione in chiave tecnica di elementi già posti dalla legge
nazionale. IN SOSTANZA:
- PUO’ UNA NORMA COMUNITARIA ESSERE FONTE DI DIRITTO PENALE? SI
- PUO’ ESSERE FONTE INCRIMINATRICE DI UNA REPONSABILITA’ PENALE? NO
Cioè, non può contenere un precetto e una sanzione penale. Vale, comunque, il principio del
primato del diritto comunitario per il quale la norma comunitaria deve prevalere sulla norma
penale interna. Questo principio è stato riconosciuto da una importante decisione della Corte di
Giustizia della CEE, che ha sancito l’obbligo del giudice nazionale di applicare le disposizioni di
diritto comunitario e di garantire la piena efficacia disapplicando all’occorrenza, di propria
iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza
dovere chiedere o attendere la rimozione in via legislativa e mediante il procedimento
costituzionale. La nostra Corte Cost. ha statuito che il regolamento comunitario prevale sulla norma
interna: l’influenza della normativa comunitaria sull’ordinamento interno riguarda l’intero diritto
penale. A livello di parte generale il fenomeno è ancora allo stato embrionale. Più frequente è,
invece, l’influsso della normativa comunitaria nel settore della parte speciale. La norma penale
incriminatrice può venire a contatto sia con un regolamento comunitario sia con le norme dei
Trattati. In conclusione, nessun dubbio dovrebbe esistere sulla diretta ed immediata applicabilità dei
regolamenti comunitari. Esclusa è, invece, la diretta applicabilità delle direttive a carattere generale
perché esse lasciano liberi gli Stati membri in ordine ai mezzi idonei al perseguimento degli scopi
mirati. Un orientamento dottrinale ritiene direttamente applicabili le c.d. direttive analitiche, quelle
cioè che contengono precetti sufficientemente individuati e specifici. Riguardo ai trattati UE sono
direttamente applicabili ed efficaci quelle norme che hanno pieno contenuto dispositivo, sia verso
gli stati membri sia verso i singoli cittadini.

Il principio di tassatività
Proiezione del principio di legalità, il principio di tassatività o sufficiente determinatezza della
fattispecie penale (il principio di legalità sarebbe rispettato nella forma, ma eluso nella sostanza, se
la legge che eleva a reato un dato fatto lo configurasse in termini così generici da non lasciar
individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente sanzionato) coinvolge la
tecnica di formulazione delle fattispecie criminose e tende, precipuamente, a salvaguardare i
cittadini contro eventuali abusi del potere giudiziario. Se la tutela penale è apprestata soltanto
contro determinate forme di aggressione a beni giuridici (principio di frammentarietà), è necessario
che il legislatore specifichi con sufficiente precisione i comportamenti che integrano siffatte
modalità aggressive. La determinatezza risulta essere una condizione indispensabile perché la
norma penale possa fungere da guida del comportamento del cittadino. Una norma penale persegue
lo scopo di essere obbedita, ma obbedita non può essere se il destinatario non ha la possibilità di
conoscerne con sufficiente chiarezza il contenuto. L’elusione del principio di tassatività
pregiudicherebbe lo stesso principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e lo stesso diritto
costituzionale alla difesa. In sostanza il principio di tassatività vincola:
• Il legislatore, obbligandolo ad una descrizione il più possibile precisa del fatto di reato.
• Il giudice, obbligandolo ad una interpretazione che rifletta il tipo descrittivo così come legalmente
configurato.
Tra il principio di t. e la realtà dell’ordinamento penale vigente esiste una notevole differenza che
dipende, anche, da un eccessivo self - restraint della Corte Cost., la quale, di rado, è intervenuta in
questo campo, facendo leva su argomenti discutibili quali:
a) Creare vuoti di tutela
b) Entrare in conflitto con il legislatore
c) Obiettiva difficoltà di stabilire con precisione il confine tra sufficiente determinatezza e
indeterminatezza.
d) Salvataggio operato in base al criterio del significato linguistico, per il quale sarebbe sempre
possibile rintracciare un significato determinato corrispondente al normale uso linguistico dei
termini impiegati.
e) Argomento del diritto vivente, utilizzato in due versioni. Con la prima il d.v. si identifica con
l’interpretazione costante o dominante della giurisprudenza, specie della Cassazione. Con la
seconda, il criterio viene adottato nei casi in cui manca un indirizzo costante o prevalente, per cui il
d.v., inteso come il rapporto dialettico tra le diverse interpretazioni, lascia libero il giudice di
scegliere la soluzione preferibile. In questo modo, però, si attribuisce un ruolo eccessivo alla
giurisprudenza ordinaria.
f) In altre sentenze, in tema di frode fiscale e prevenzione antincendio, l’idea emergente è la
seguente: il vero punto di riferimento della determinatezza è, non già, la sola formulazione della
norma incriminatrice, bensì il cosiddetto tipo criminoso, come sintesi di un omogeneo contenuto di
disvalore penale. Con la circolare 05/02/1986 il P.C.M si prefigge l’obiettivo di razionalizzare la
legislazione, fissando alcuni criteri per la formulazione delle fattispecie penali.

Tassatività e tecniche di redazione della fattispecie penale


Le principali tecniche sono di
• Normazione descrittiva: descrive il fatto criminoso mediante l’impiego di termini che alludono a
dati della realtà empirica. Es. omicidio (575), lesione personale (582), danneggiamento (635).
• Normazione sintetica: adotta una qualificazione di sintesi mediante l’impiego di elementi
normativi (ad esempio atti osceni, art. 529), rinviando ad una fonte esterna (il comune sentimento
del pudore), rispetto alla fattispecie incriminatrice, il parametro per la regola di giudizio da
applicare nel caso concreto. Se si tratta di elementi normativi giuridici, l’esigenza di tassatività è
rispettata, ma nel caso di elementi extragiuridici, cioè rinviati a norme sociali o di costume (es. atti
osceni ex art. 529, pudore ex art. 527) il parametro diventa inevitabilmente incerto. Altri sospetti di
mancanza di t. sono il 323 (abuso innominato d’ufficio) e l’interesse privato in atti d’ufficio (art.
324, abrogato).

Il principio di irretroattività
Fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore.
- art. 11 preleggi : la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo.
Ma esso ha rango costituzionale, soltanto rispetto alla materia penalistica:
art. 25 cost. 2° comma : nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata
in vigore prima del fatto commesso. Principio ispirato alla garanzia della libertà personale del
cittadino nei confronti dei detentori del potere legislativo.
Art. 2 c.p.: il primo comma ribadisce l’irretroattività della norma incriminatrice, i commi
secondo e terzo appaiono ispirati al diverso principio della retroattività di una eventuale norma più
favorevole, successivamente emanata.
- Non è consentito applicare retroattivamente una disciplina processuale che peggiori la
posizione dell’imputato. Ma vi è contrasto tra p. di irretroattività assoluto, sancito da Cost. e
principio di applicazione retroattiva della legge più favorevole al reo previsto dal c.p.? No, in base
all’art. 3 Cost. sull’eguaglianza dei cittadini.
Principio di ultrattività
Il principio dell'ultrattività delle leggi tributarie è stato introdotto dall'art. 20 della L. 4/1929 che
recita testualmente: "... le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni
altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in
vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro
applicazione ...". Secondo tale principio le leggi tributarie si applicano, nelle parti in cui prevedono
violazioni e sanzioni, sempre ai fatti commessi quando erano in vigore. In altre parole, le
disposizioni sanzionatorie in materia tributaria si applicano ai fatti commessi quando tali
disposizioni erano in vigore, anche se le stesse sono state successivamente abrogate o modificate in
senso più favorevole al trasgressore. Tale norma è stata in passato oggetto di esame da parte della
Corte Costituzionale in quanto vi era il sospetto di incompatibilità con l'art 25 della Costituzione. In
particolare la Corte con la sentenza n. 164 del 6 giugno 1974, ha ritenuto infondata la questione, in
quanto: "... l'art. 20 della L. 7 gennaio 1929, n. 4, nella parte in cui sancisce la c.d. ultrattività delle
disposizioni penali delle leggi finanziarie, non contrasta con il principio costituzionale di
uguaglianza. La norma, infatti, diretta a garantire che la spinta psicologica all'osservanza della legge
fiscale non sia sminuita nemmeno dalla speranza di mutamenti di legislazione, appare ispirata alla
tutela dell'interesse primario alla riscossione dei tributi ...". Si ricorda che l'art. 29 del D.Lgs. 472/97
ha abrogato il principio di ultrattività della norma fiscale stabilito dall'art. 20 della L. 4/29.
ART. 2 c.p.: analisi.
• 1 comma : nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato. È il fenomeno della nuova incriminazione, che ricorre quando
una legge introduce una figura di reato prima inesistente. Il divieto di punire comportamenti
considerati illeciti da un legge emanata successivamente, soddisfa sia ad un’esigenza di giustizia sia
perché i cittadini sarebbero continuamente esposti al rischio di arbitri dei detentori del potere
politico. Il principio di irretroattività si salda con quello di legalità, fondendosi con la formula
nullum crimen , nulla poena sine praevia lege poenali.
• 2 comma : Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato: e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. La
norma allude al fenomeno dell’abolizione di incriminazioni prima esistenti. Gli autori del reato
oggetto di abrogazione non solo non possono essere puniti ma, se hanno subito una sentenza di
condanna , anche definitiva, ne cessa l’esecuzione e si estinguono tutti i connessi effetti penali. La
RATIO è: sarebbe contraddittorio e irragionevole continuare a punire l’autore di un fatto ormai
tollerato dall’ordinamento giuridico. Criterio della successione: si ha successione allorché nel
passaggio dalla vecchia alla nuova norma permane la continuità del tipo di reato. Ma il criterio in
esame è piuttosto criticabile perché di incerta applicazione. Più certo è, invece, il rapporto di
continenza: si verifica quando la fattispecie successiva sia pienamente contenuta nella precedente, il
che tipicamente avviene quando la norma posteriore sia speciale rispetto ad una precedente di
contenuto più generico.
. 3 comma: se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede
esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella
corrispondente pena pecuniaria.
•4 comma: se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile.
È il principio di retroattività della norma più favorevole al reo: fondamento del principio è il favor
libertatis, che assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge
penale vigente al momento della realizzazione del fatto e quello previsto dalle leggi successive,
purché precedenti alla sentenza definiva di condanna : questo principio è ricollegabile al
principio costituzionale di uguaglianza, che impone di evitare ingiustificate o irragionevoli
disparità di trattamento. Quando ci si trovi di fronte ad una disposizione più favorevole, occorre
operare un raffronto tra la disciplina prevista dalla vecchia norma e quella introdotta dalla nuova.
Tale raffronto va fatto in concreto, cioè mettendo a confronto i rispettivi risultati dell’applicazione
di ciascuna di esse alla situazione concreta oggetto di giudizio (es. vecchia legge, 1-5 anni di
reclusione, nuova 2-4, il giudice applicherà 1 anno se intende accostarsi alla pena minima
diversamente 4).
•5 comma : il principio di retroattività in senso più favorevole al reo è inoperante rispetto alle
leggi temporanee ed alle leggi eccezionali.
Si definiscono “eccezionali” quelle leggi, il cui ambito di operatività temporale è segnato dal
persistere di uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario (guerre, epidemie,
terremoti, ecc.); sono “temporanee” le leggi, rispetto alle quali è lo stesso legislatore a prefissare un
termine di durata. Ove il principio del favor rei dovesse trovare riconoscimento, si offrirebbe una
comoda scappatoia per commettere violazioni con la certezza di una futura impunità. I commi 2 e 3
dell’art. 2 c.p. si applicano anche nel caso di successione di leggi penali finanziarie (art. 20 d. lgs.
507/99), mentre, prima, cioè con la legge n. 4/1929 all’art. 20, si applicavano le disposizioni in
vigore al tempo dei fatti, anche se successivamente abrogate e modificate (PRINCIPIO DI
ULTRATTIVITA’). L’art. 20 è stato abrogato dalla legge del 1999 suindicata.

Decreti legge non convertiti


•Ultimo comma : la successione di leggi penali si applica anche nei casi di decadenza e di
mancata ratifica di un decreto legge e nel caso di un decreto legge convertito in legge con
emendamenti. Un decreto legge che abroghi un reato o ne attenui il trattamento sanzionatorio, in
caso di decadenza dello stesso, tornerebbe a costituire reato o a essere più gravemente punito. Ne
consegue che poiché il principio del favor libertatis deve comunque prevalere sull’art. 77 Cost.
(effetti del decreto non convertito), dovrà essere ugualmente applicato il decreto decaduto.
Legge dichiarate incostituzionali
Articolo 136 Costituzione: Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una
norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione (cioè ex NUNC). La decisione della Corte è
pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo
ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali.
Con riferimento all'art. 136 vanno fatte due osservazioni. La prima è che il primo comma deve
essere integrato con l'art.30, 3° comma, della legge n. 87 del 1953 secondo il quale: "le norme
dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo dalla
pubblicazione". Il combinato di queste due disposizioni consente di affermare che una sentenza
d'incostituzionalità elimina la norma incostituzionale dall'ordinamento con effetti retroattivi (cioè ex
TUNC): la cancella dal sistema ed è come se non fosse mai esistita. La conseguenza è molto
importante e consiste nell'impossibilità per gli operatori giuridici (giudici e pubblica
amministrazione) di applicarla. C'è, però, un limite che è dato dai giudicati (Corte costituzionale
sentenza n.58 del 1967: "...Pertanto le pronunce stesse fanno sorgere l'obbligo per i giudici avanti
ai quali si invocano le norme di legge dichiarate costituzionalmente illegittime di non applicarle, a
meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed
irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi
invocabili in materia".). In altre parole, le sentenze passate in giudicato (ovvero non più
impugnabili per decorrenza dei termini), che hanno fatto applicazione di una normativa dichiarata
successivamente incostituzionale, non possono essere messe nuovamente in discussione, restando
valide ed efficaci. Sennonché, anche qui, il principio di irretroattività assume un ruolo prioritario,
per cui una legge invalidata si applicherà comunque ove risulti più favorevole al reo rispetto
ad una precedente disposizione incriminatrice (caso analogo a quello del decreto legge non
convertito se più favorevole al reo).

Tempo del commesso reato


Ai fini dell’individuazione della legge penale applicabile nel tempo è essenziale determinare il
tempus commissi delicti. In assenza di una presa di posizione legislativa, la dottrina ha prospettato
tre criteri.
1) Teoria della condotta: la quale considera il reato commesso nel momento in cui si è realizzata
l’azione o l’omissione (questa è quella prevalente in dottrina perché essendo questo il momento nel
quale il soggetto mette in atto il proposito criminoso, si tratta di un frangente temporale decisivo).
2) Teoria dell’evento: secondo cui il reato è commesso allorché si verifica il risultato lesivo
causalmente riconducibile alla condotta e necessario ai fini della compiuta configurazione
dell’illecito.
3) Teoria mista: che guarda sia all’azione che all’evento, nel senso che il reato si considera
indifferentemente commesso quando si verifichi l’uno o l’altro estremo. Quale dei criteri sia il più
valido non si può dire in astratto. Dobbiamo prendere le mosse dalla ratio dell’art. 2 e si concorda
nel respingere i punti 2 e 3. La prima perché porterebbe ad una applicazione retroattiva della legge
penale in tutti i casi in cui la condotta si sia svolta sotto una precedente legge e l’evento si sia,
invece, verificato sotto una nuova legge. La seconda perché non appare ragionevole considerare
commesso un reato indifferentemente sotto la vigenza di due norme diverse. Non rimane, quindi,
che il criterio della condotta. Ciò premesso, tale criterio si atteggia diversamente in funzione delle
singole tipologie di reato. Reati causalmente orientati, c.d. a forma libera: se dolosi, il tempo del
commesso reato coincide con la realizzazione dell’ultimo atto sorretto dalla volontà colpevole. Se
colposi, con l’atto che, per primo, tra gli atti causalmente collegati con l’evento, dà luogo a una
situazione antigiuridica. Nei reati c.d. di durata si hanno divergenze di opinioni. Tra questi si
distinguono:
Reato permanente (perdurare di una situazione illecita volontariamente rimovibile) e reato
abituale (reiterazione nel tempo di condotte della stessa specie): dottrina e giurisprudenza fissano il
tempo del commesso reato, nell’ultimo momento di mantenimento della condotta antigiuridica.
Appare, però, preferibile l’orientamento minoritario che fissa il t.d.c.r. nel primo atto che dà avvio
al reato
permanente o che, unitamente ai successivi, integra il reato abituale.
Reato continuato (art. 81, comma 2): esso non rappresenta, nell’ottica della successione di leggi, un
fatto unitario, ma piuttosto un concorso materiale di reati, ciascuno dei quali presenta un proprio
tempus commissi delicti.
Reati omissivi : occorre fare riferimento al momento in cui scade il termine (esplicito o implicito)
utile per realizzare la condotta doverosa.

Divieto di analogia
L’analogia consiste in un processo di integrazione dell’ordinamento attuato tramite una regola di
giudizio ricavata dall’applicazione all’ipotesi di specie, non regolata espressamente da alcuna
norma, di disposizioni regolanti casi o materie simili: il presupposto di tale procedimento
integrativo è costituito dal ricorrere dell’identità di ratio. Il ricorso all’analogia non è, tuttavia,
sempre ammissibile. ART. 14 delle disposizioni sulla legge in generale esclude il procedimento
analogico in due casi, uno dei quali è costituito dalle leggi penali e, in via implicita, anche dall’art.
1 (nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge
come reato) e 199 c.p. (nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza fuori dei casi dalla
legge preveduti). Inoltre è costituzionalmente implicito nel concetto nullum crimen sine lege. Ma
non sempre riesce agevole distinguere tra analogia e interpretazione estensiva. La dottrina
maggioritaria non dubita, infatti, della legittimità dell’interpretazione estensiva in campo penale,
anche se si possono considerare alcune giustificate riserve, tipo il rispetto del principio di
frammentarietà che impedisce che si forzino i limiti di tipicità prefissati dal legislatore. Per quanto
riguarda l’ampiezza del divieto di analogia, il divieto avrebbe carattere assoluto, se riguardasse sia
le norme incriminatrici, sia le norme di favore. A giustificazione, si adduce il principio
dell’esigenza di certezza. Ma contro questa concezione assoluta è da obiettare che l’art. 25 comma 2
Cost. sancisce, non già il primato dell’esigenza di certezza, ma della garanzia della libertà del
cittadino e proprio movendo dal presupposto che la “libertà” è la regola e la sua limitazione
l’eccezione, risulta del tutto conforme all’art. 25 Cost. un’interpretazione analogica estesa alle
norme più favorevole al reo. Così si è riconosciuto che il divieto di analogia ha carattere relativo
perché concerne soltanto l’interpretazione delle norme penali sfavorevoli. Ma in che limiti è
consentita l’interpretazione analogica in bonam partem? Un ostacolo si può riscontrare all’art. 14
delle disposizioni preliminari (“le leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”). Occorre, quindi, stabilire il significato di leggi
eccezionali insuscettive di applicazione analogica sia in malam sia in bonam partem. Sono da
considerare regolari le norme che disciplinano situazioni in cui può versare “chiunque” al ricorrere
di determinati presupposti, mentre ci si trova di fronte a norme eccezionali nei casi in cui viene
introdotta una disciplina che deroga alla efficacia generale di una o più disposizioni. Applicando
questi criteri, non tutte le norme che prevedono cause di punibilità, latu sensu intese, hanno
carattere eccezionale. Il ricorso al procedimento analogico è, invece, precluso rispetto a quelle
cause di non punibilità che fanno riferimento a situazioni particolari o riflettono motivazioni
politico-criminali specifiche. In particolare l’analogia è inammissibile:
a) alle immunità
b) alle cause di estinzione del reato e della pena.
c) alle cause speciali di non punibilità.
Rispetto alle circostanze attenuanti, il problema non esiste più a seguito dell’introduzione dell’art.
62 bis (attenuanti generiche).

CAPITOLO 3. L’INTERPRETAZIONE DELLE LEGGI PENALI


L’interpretazione della legge penale designa il complesso delle operazioni intellettuali finalizzate
all’individuazione del significato delle norme da applicare.
L’i. viene tradizionalmente distinta in autentica, ufficiale, giudiziale, dottrinale.
Interpretazione autentica: è quella fornita dallo stesso organo che ha prodotto la norma da
interpretare.
Interpretazione ufficiale: si intende l’attività ermeneutica svolta dai funzionari dello Stato
nell’ambito delle competenze istituzionali (es. circolari ministeriali).
Interpretazione giudiziale (giurisprudenziale): è quella dei giudici nell’emanare sentenze.
Influenza maggiormente la concreta applicazione del diritto.
Interpretazione dottrinale: è quella realizzata dai giuristi nelle opere di dottrina. Riesce a
influenzare l’applicazione del diritto soltanto in virtù della sua intrinseca forza persuasiva.
All’ideale illuministico di un giudice mero “esecutore” della volontà legislativa, espresso nella
celebre espressione risalente al Montesquieu, del giudice come “bocca” della legge, corrisponde il
fatto che anche la formula legislativa apparentemente più chiara abbisogna di interpretazione, con
l’obiettivo di tutela.

La lettera della legge e l’intenzione del legislatore


L’art. 12 delle preleggi del c.c. dispone:
Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro significato che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore.
Due elementi da sottolineare: il significato proprio delle parole e l’intenzione del legislatore. Ma la
maggiore debolezza dell’art. 12 consiste nel fatto che non dice quale dei due criteri debba prevalere,
qualora siano in contrasto tra loro, per cui la scelta viene affidata all’interprete.
I tradizionali canoni ermeneutici
I canoni interpretativi sono così riassumibili:
a) Criterio semantico
b) Criterio storico
c) Criterio logico – sistematico
d) Criterio teleologico
Criterio semantico o grammaticale
Tende ad individuare il senso della norma facendo leva sul significato lessicale dei termini utilizzati
nella formula legislativa. Ogni contenuto di pensiero va, infatti, ricavato dal linguaggio “comune”
che lo esprime. Ma il linguaggio comune non sempre è sufficiente perché il diritto addotta spesso
termini tecnici di tipo specialistico: in questi casi, il linguaggio specialistico prevale su quello
comune.
Criterio storico
Mira a ricostruire la volontà espressa dal legislatore al momento dell’emanazione delle norme. Tale
criterio rivendica la maggiore coerenza col principio della separazione dei poteri. Vi sono almeno
due sensi:
- come volontà soggettiva del legislatore del tempo.
- più correttamente, come volontà storica obiettivata nella legge. A tal fine risulta utile consultare
i c.d. lavori preparatori, mentre è sicuramente preferibile con riguardo a norme emanate al preciso
scopo di risolvere questioni interpretative assai complesse.
Criterio logico-sistematico
Consiste nel cogliere le connessioni concettuali esistenti tra la norma da applicare e le restanti
norme, sia del sistema penale strettamente inteso, sia dell’intero ordinamento giuridico. Il nesso
sistematico tra norme penali e norme di altri settori dell’ordinamento, è particolarmente evidente nei
casi in cui la fattispecie incriminatrice contiene elementi normativi la cui definizione implica il
riferimento a norme extrapenali (es. normativa civilistica sulla proprietà per definire l’altruità della
cosa nel furto). Questo collegamento tra norme di diversi ordinamenti è particolarmente importante
nel caso di presenza di cause di giustificazione posizionate in tutto l’ordinamento giuridico.
Criterio teleologico
La legge, una volta emanata, è paragonabile, per dirla con Radbruch, a una nave che giunta in alto
mare cerca la propria rotta, in altre parole, sforzandosi di attualizzare il senso delle norme. A tal
fine, diventa importante la considerazione del bene o interesse protetto, considerato non già
staticamente ma dinamicamente. Una sottospecie è l’interpretazione c.d. orientata secondo le
conseguenze, cioè volta a scegliere la soluzione ermeneutica che provoca l’impatto più favorevole
sul reo e/o sull’ambiente cui la decisione si rivolge. Struttura aperta del linguaggio e interpretazione
e procedimento analogico. Processo circolare, l’interprete trascorre continuamente dalla legge al
caso e poi da questo a quella con le scelte valutative del giudice.

CAPITOLO 4. AMBITO DI VALIDITA’ SPAZIALE E PERSONALE DELLA


LEGGE PENALE
Per determinare i limiti spaziali di applicabilità della legge penale vi sono 4 principi:
1) Principio di territorialità : la legge nazionale si applica a qualunque Cittadino o Straniero
o Apolide che delinque nel territorio dello stato.
2) Principio di difesa o tutela: rende applicabile la legge dello Stato cui appartengono i beni
offesi o cui appartiene il soggetto passivo del reato.
3) Principio di universalità : la legge nazionale si applica a tutti i delitti dovunque e da
chiunque commessi.
4) Principio di personalità : si applica sempre la legge dello Stato di appartenenza del reo.

Dall’esame della complessa normativa del c.p. (art. 6 ss) sembra potersi desumere che nessuno dei
principi predomina in modo assoluto, piuttosto si assiste alla combinazione di principi diversi.
Attraverso il ricorso sempre più frequente allo strumento delle convenzioni internazionali
l’ordinamento penale italiano dà sempre più spazio al principio di universalità (vedi trattato di
Roma del 1998 che ha istituito la Corte Penale Internazionale sui crimini internazionali tipo
genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, ancorché in via suppletiva rispetto all’azioni delle
giurisdizioni nazionali).
Concetto di territorio
Art. 6 c.p. sancisce il principio di territorialità: è punito secondo la legge italiana “chiunque
commette un reato nel territorio dello Stato”. Nozione di territorio è fornita dall’art. 4 c.p. : “agli
effetti della legge penale è territorio dello Stato, il territorio della Repubblica e ogni altro luogo
soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come
territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto
internazionale, ad una legge territoriale straniera.”. Il territorio dello Stato è costituito dalla
superficie terrestre compreso nei suoi confini politico –geografici, secondo i confini stabiliti dai
trattati internazionali, nonché dal mare costiero e dallo spazio aereo. Il mare territoriale italiano si
estende per 12 miglia marine dalla linea costiera e dalle linee rette che uniscono i promontori (art. 2
cod. nav.). Lo spazio aereo incontra il suo limite nella zona c.d. ultraatmosferica, cioè sovrastante
l’atmosfera terrestre. Il sottosuolo fa parte del territorio dello Stato fino alle profondità
raggiungibili con l’impiego di mezzi meccanici. Navi ed aeromobili si considerano territorio dello
Stato ovunque si trovino. L’applicabilità di questo principio (detto, della bandiera) è
incondizionata per le navi e gli aeromobili di Stato, mentre per quelli privati (civili e mercantili) è
limitata all’ipotesi in cui essi si trovino in alto mare o in zona non soggetta a sovranità straniera. Ma
quand’è che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato? Locus commissi delicti: nell’
art. 6 c.p. 2° comma il legislatore ha accolto il principio dell’ubiquità, stabilendo che il reato si
considera commesso nel territorio italiano quando l’azione od omissione che lo costituisce è ivi
avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od
omissione. Si discute se la parte di azione od omissione compiuta nel territorio dello Stato debba o
no, per assumere rilevanza penale, integrare gli estremi del tentativo punibile. Sembra prevalere
la tesi negativa in base all’art. 56 che presuppone pur sempre che “l’azione non si compia o
l’evento non si verifichi”, mentre l’art. 6, comma 2° prevede ipotesi delittuose che, realizzandosi
in tutti gli estremi, pervengono allo stadio di reati consumati e come tali vengono puniti: quindi,
è sufficiente accertare che la parte o frazione di azione compiuta rappresenti un anello essenziale
della condotta conforme al modello criminoso. Al fine di stabilire se la parte di azione realizzata in
Italia costituisca parte integrante del fatto complessivo, ci si dovrà avvalere di un giudizio a
posteriori e in concreto riferito ad un delitto interamente consumatosi. L’accoglimento del
principio di ubiquità comporta, in tema di concorso di persone, che il reato si considera commesso
nel territorio dello Stato, sia quando l’azione venga iniziata all’estero e proseguita in Italia (o
viceversa), sia nel caso in cui, pur eseguito interamente all’estero, il reato abbia un qualsiasi atto
partecipativo compiuto in Italia. Nel reato continuato, per il quale assai problematico è principio
di ubiquità, si applica l’art. 6 tutte le volte in cui ne derivi un vantaggio all’imputato.

ART. 7 c.p. Reati commessi all’estero.


Alcuni reati commessi all’estero (sia da un cittadino che da uno straniero) sono
incondizionatamente puniti secondo la legge italiana per i seguenti delitti :
- Contro la personalità dello Stato (principio di difesa);
- Contraffazione di sigillo dello Stato e l’uso di tale sigillo contraffatto;
- Falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di
pubblico credito italiano;
- Reati commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei loro poteri (principio
di difesa);
- Nonché altri reati per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali
stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana (si fonda o sul principio di universalità, i
c.d. delicta juris gentium, ovvero sul principio di difesa o su ragioni di opportunità (art. 22 trattato
con S. Sede, in virtù del quale lo Stato italiano, su richiesta della Santa Sede, provvederà a punire
nel proprio territorio i delitti commesse nella Città del Vaticano). Art.9 Delitto comune del
cittadino all’estero, per il quale la punibilità è subordinata alla presenza di alcune condizioni:
- Che si tratti di delitto per il quale la legge italiana stabilisce l’ergastolo o la reclusione non
inferiore nel minimo a tre anni;
- Che il cittadino si trovi nel territorio dello Stato;
- art. 9 secondo comma: ove si tratti di delitti punibili con una pena inferiore a tre anni occorre,
oltre alla presenza del reo nel territorio dello Stato, pure la richiesta del Ministro della Giustizia o
dell’istanza o querela della persona offesa;
- art. 9 terzo comma: ove si tratti di delitto comune commesso all’estero a danno di uno Stato
estero o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia, sempreché
l’estradizione non sia stata concessa o accettata. Lo Stato straniero deve assumere la qualifica di
soggetto passivo specifico. Art. 10. Delitto comune dello straniero all’estero: lo straniero che
commette all’estero delitti comuni a danno dello Stato o di un cittadino italiano è punito con la
legge italiana a condizione che:
- il reo si trovi nel territorio dello Stato
- si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore nel minimo ad un anno
- ci sia richiesta del Ministro della giustizia o istanza o querela della persona offesa.
Se commesso a danno delle Comunità Europee, di uno Stato estero o di un cittadino straniero
occorre che:
- il reo si trovi nel territorio dello Stato
- si tratti di delitto punito con l’ergastolo o con la reclusione nel minimo a tre anni
- a richiesta del ministro
- l’estradizione non sia stata accettata o concessa.

Delitto politico
E’ delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato o un diritto politico
del cittadino. E’ altresì considerato delitto politico, il delitto comune determinato in tutto o in parte
da motivi politici (art. 8).
Distinguiamo :
Delitto politico in senso oggettivo, il d.p.o. offende un interesse politico dello Stato, vale a dire la
sua essenza unitaria comprensiva di popolo, territorio, indipendenza, forma di governo, ecc. Vi
rientrano sia i delitti contro la personalità dello Stato, sia quelli previsti da leggi speciali che
offendono lo Stato in una delle componenti dette sopra, mentre non vi rientrano i delitti che
offendono il potere amministrativo o giudiziario. Delitto politico è anche quello che offende un
diritto politico del cittadino, cioè il diritto del cittadino di partecipare alla vita dello Stato e di
contribuire alla formazione della sua volontà. Delitto politico in senso soggettivo, caratterizzato
dalla motivazione psicologica che spinge l’autore a commettere il fatto. Può essere composto in
parte da motivo politico vero e proprio e in parte da motivo sociale. La Costituzione parla del d.p.
in rapporto sia all’estradizione (art. 26 Cost.) sia al diritto d’asilo (art. 10 Cost.), ma non ne
fornisce alcuna definizione precisa. Subito dopo l’emanazione della Costituzione, è invero parso
prevalere un orientamento incline a considerare costituzionalizzato il contenuto dell’art. 8, in
linea del resto con il ritenuto ripristino, da parte del legislatore costituente, di un trattamento più
favorevole per i detenuti politici (ciò offriva scappatoie per rendere amnistiabili fatti criminosi
ispirati ad una opposizione politica nei confronti del passato regime). Maturata nel corso degli anni
una diversa sensibilità costituzionale nei confronti della stessa materia penale, si è andato
assistendo ad un mutamento di indirizzo, tanto che oggi è divenuta prevalente la tesi
“autonomistica” seppure espressa secondo formulazioni diverse. L’opinione che merita
accoglimento è quella che assume a criterio discretivo della natura politica del reato il tipo di
rapporto intercorrente tra il fatto commesso e le “libertà democratiche garantite dalla Cost.
ital”; ossia potranno avvantaggiarsi dei benefici del divieto di estradizione o del diritto di asilo
soltanto gli autori dei reati commessi all’estero al fine di lottare contro un regime autoritario o
per far valere diritti fondamentali il cui esercizio viene di fatto impedito; delitto politico come
connotazione “oggettiva” (riferimento al catalogo delle libertà previste dalla nostra Carta
costituzionale).
Ambito di validità personale della legge penale
Il principio di obbligatorietà della legge penale, la legge penale italiana obbliga tutti coloro che,
cittadini o stranieri, si trovano sul territorio dello Stato; e tutti coloro, cittadini o stranieri, che si
trovano all’estero nei casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale, sancito dall’art.
3 del codice, deve considerarsi nello Stato moderno una proiezione o realizzazione del più generale
principio di uguaglianza. Agli effetti della legge penale, è considerato cittadino colui che è in
possesso dei requisiti previsti dalla legge per l’acquisto della cittadinanza, mentre è straniero colui
che è legato da rapporto di cittadinanza con altro Stato, oppure l’apolide residente all’estero. Vi
sono poi le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Queste
eccezioni vengono denominate immunità penali e definiscono un complesso di situazioni che
hanno per effetto finale la sottrazione al potere coercitivo dello Stato. Le immunità sono:
- assolute, perché si estendono a tutti i reati, senza distinzione tra attività funzionale o attività
extrafunzionale;
- relative perché riconosciute solo in costanza di carica o richiedono un’autorizzazione al
procedimento penale da parte di organi diversi dal giudice ordinario. Si distinguono ancora le
immunità di natura sostanziale operanti nell’esercizio di funzioni, dalle immunità processuali
riferite dagli atti fuori dell’esercizio delle funzioni e perseguibili al momento della cessazione della
carica.

Fonte giuridica dell’immunità: il diritto interno


La fonte dell’immunità può essere il diritto pubblico interno ovvero il diritto internazionale. Le
immunità derivanti dal diritto pubblico interno mirano a garantire e proteggere l’espletamento di
determinate funzioni o uffici di particolare importanza per il corretto funzionamento del nostro
sistema politico: non si tratta di privilegi ma di prerogative riguardanti le funzioni esercitate e,
quindi, valide solo nei limiti fissati dalla legge. Tali immunità possono così riassumersi:
- il PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, quale Capo dello Stato, non è responsabile, ex art. 90
Cost., degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per
attentato alla Costituzione. Per gli altri atti è come un normale cittadino, e, come tale, sottoposto
alla coercizione penale.
- il PRESIDENTE DEL SENATO, che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica, gode
delle stesse immunità per tutto il periodo della supplenza.
- I MEMBRI DEL PARLAMENTO, a norma dell’art. 68 Cost. (come modificato dalla legge cost.
29/10/1993) non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati
nell’esercizio delle loro funzioni (l’uso del turpiloquio non rientra nell’esercizio delle prerogative
parlamentari). Abolito il discusso istituto della autorizzazione a procedere, queste prerogative si
riducono al nuovo art. 68, comma 2, Cost.: “senza autorizzazione della Camera alla quale
appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o
domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale o mantenuto in
detenzione, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza”. Anche per intercettazioni o sequestro di corrispondenza. Indipendenza
del Parlamento.
- I GIUDICI DELLA CORTE COSTITUZIONALE, per effetto dell’art. 3, della legge cost. n.
1/1948 godono di immunità analoga a quella dei parlamentari, con l’esclusione, però, del 3° comma
dell’art. 68 Cost. (intercettazioni): l’autorizzazione a procedere è data dalla stessa Corte.
- I MEMBRI DEI CONSIGLI REGIONALI godono soltanto, a norma dell’art. 122 Cost., della
garanzia dell’irresponsabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
- I MEMBRI DEL CSM, ai sensi dell’art. 5 legge 1/1981, come sopra.
Fonte giuridica dell’immunità: il diritto internazionale
Le immunità derivanti dal diritto internazionale sono riconosciute dall’ordinamento giuridico
italiano in forza di trattati, convenzioni o accordi internazionali (ratificati e resi esecutivi con un atto
normativo interno) ovvero in forza dell’art. 10, comma 1, della Cost. che garantisce la conformità
della nostra legislazione alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (la Corte
costituzionale ha comunque precisato che il meccanismo di adeguamento automatico previsto
dall’art. 10 Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale). Tali immunità sono così riassumibili:
1) Il SOMMO PONTEFICE è considerato sacro e inviolabile (art. 8 Trattato del Laterano).
Immunità assoluta riconosciuta non solo nella sua veste di Capo dello Stato estero, ma anche nella
sua altissima posizione spirituale di Capo della cristianità.
2) I CAPI DI STATO ESTERI E I REGGENTI hanno immunità totale estesa anche ai
famigliari e al seguito e deriva dal diritto internazionale.
3) IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI sono
immuni per tutti i fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
4) GLI AGENTI DIPLOMATICI hanno immunità penale assoluta dello Stato accreditato, a
norma della Convenzione di Vienna del 18/04/1961, art. 31. Il medesimo status è esteso ai membri
conviventi delle loro famiglie. Il personale di rango inferiore delle rappresentanze diplomatiche
hanno, invece, immunità funzionale.
5) I FUNZIONARI INTERNAZIONALI godono della sola immunità funzionale per gli atti
compiuti nell’esercizio delle loro funzioni, come da trattati internazionali.
6) I PARLAMENTARI EUROPEI, a norma del protocollo di Bruxelles dell’8/4/1965, hanno la
prerogativa dell’irresponsabilità, sia delle immunità riconosciute ai membri del Parlamento del loro
Paese, sia sul territorio di ogni Stato membro, per la durata delle sessioni dell’assemblea.
7) I CONSOLI E GLI AGENTI CONSOLARI, si avvantaggiano dell’immunità, se ciò è
stabilito dai trattati internazionali tra l’Italia e gli altri Strati.
8) GLI AGENTI DIPLOMATICI E GLI INVIATI DEI GOVERNI PRESSO LA S. SEDE
godono delle stesse immunità degli agenti diplomatici presso lo Stato italiano (art. 19 Trattato del
Laterano).
9) I GIUDICI DELLA CORTE DELL’AJA hanno l’immunità in base all’art. 19 dello Statuto
della Corte.
10) I GIUDICI DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO per l’art. 2 del
Protocollo addizionale all’accordo sui privilegi e immunità del Consiglio d’Europa hanno
immunità in misura più ridotta.
11) I MEMBRI E LE PERSONE AL SEGUITO DELLE FORZE ARMATE DELLA NATO,
di stanza nel territorio italiano, che sono soggette alle leggi e alla giurisdizione militare dello
Stato di appartenenza (vedi convenzione del 15/06/1951 tra gli Stati della Nato).
12) I MILITARI STRANIERI, che si trovano nel territorio dello Stato, con previa relativa
autorizzazione, sono immuni.
La natura giuridica delle immunità è riconducibile alla categoria delle cause di esclusione della
pena, delle cause, cioè, che hanno come effetto la non applicazione della sanzione penale, pure in
presenza di un fatto di reato. Questa tesi, però, non è accettabile perché non coglie la ratio
sostanziale dell’esenzione da pena, ma si limita a registrare l’effetto finale, non tipico, del suo
operare, trascura inoltre le diversità tra le varie prerogative. Con riferimento all’effetto tipico, si è
in presenza di una causa di giustificazione, con riferimento al contesto: il riconoscimento
dell’immunità discende dalla necessità di mantenere relazioni diplomatiche con Stati Esteri, a
garanzia di una pacifica convivenza tra i popoli. Ciò induce a ravvisare nell’immunità un mero
limite all’esercizio del potere giurisdizionale.
CAPITOLO 5. TEORIA GENERALE E DEFINIZIONE DEL REATO
Si definisce reato “ogni fatto umano cui la legge ricollega una sanzione penale”, cioè in funzione
delle conseguenze giuridiche (pena o misura di sicurezza) che il legislatore riconnette ai fatti in
questione. Ma non si può prescindere dall’insieme dei principi che la Cost. esplicitamente prevede
in materia penale. Sulla base di questi principi, l’illecito penale presenta le seguenti caratteristiche:
a) È di creazione legislativa, perché soltanto una “legge in senso stretto” può disciplinarne gli
elementi costitutivi (nullum crimen sine lege: art. 25, comma 2, Cost.). Fonti di livello secondario
possono soltanto specificare elementi già legislativamente predeterminati.
b) È di formulazione tassativa perché la legge deve fissare con la maggiore determinatezza
possibile i fatti costituenti reato.
c) Ha carattere personale (art. 27, comma 1, Cost).
Il riferimento alle accennate caratteristiche è senz’altro sufficiente per differenziare l’illecito penale
dall’illecito civile. In campo civile, infatti, non domina il principio di riserva di legge, con la
conseguenza che una fonte normativa di grado inferiore può creare una figura di illecito e non vige
il principio di tassatività. Inoltre, nell’ordinamento civile sono ammesse forme di responsabilità
indiretta (c.d. per rischio) e senza colpevolezza (c.d. responsabilità oggettiva). Di maggiore affinità
è, invece, IL RAPPORTO TRA ILLECITO PENALE E ILLECITO AMMINISTRATIVO,
specie a seguito dell’intervenuta regolamentazione, con legge 689/1981, dell’illecito c.d.
depenalizzato. Per effetto di tale regolamentazione sono stati, infatti, estesi a questo tipo di
illecito alcuni principi fondamentali (quali riserva di legge, irretroattività, colpevolezza, ecc.)
tradizionalmente propri della materia penale. La loro differenza dipende da due elementi: da un
lato, dalla scelta di sanzione amministrativa di tipo pecuniario, dall’altro, dalla natura
amministrativa del procedimento e dell’organo giurisdizionalmente competente. È pacifico che il
reato va definito come lesione o messa in pericolo di un bene giuridico che appaia meritevole di
protezione penalistica, in base alle direttive di tutela potenzialmente vincolanti desumibili dalla
Costituzione. Tenendo conto, allora, dei necessari principi di sussidiarietà e di meritevolezza di
pena, la definizione sostanziale di reato è la seguente: è reato un fatto umano che aggredisce un
bene giuridico ritenuto meritevole di protezione da un legislatore che si muove nel quadro dei
valori costituzionali, sempreché la misura dell’aggressione sia tale da far apparire inevitabile il
ricorso alla pena e sanzioni di tipo non penale non siano sufficienti a garantire un’efficace tutela.

Portata e limiti del c.d. principio di offensività.


Il principio di offensività induce a ravvisare lo zoccolo duro del reato nell’aggressione (sotto
forma di lesione o di messa in pericolo) di uno o più beni giuridici. Manca a tutt’oggi,
nell’ordinamento italiano, una disposizione che enunci esplicitamente il principio di offensività,
attribuendogli il ruolo di principio generale del diritto penale. Tendenza a concepire detto principio
come un criterio implicito o immanente del nostro sistema penale. Il primo tentativo dottrinale
di enucleare dal codice l’offensività quale principio generale dell’ordinamento penale, prende le
mosse da una peculiare interpretazione dell’art. 49 comma 2° (per il quale la punibilità è esclusa
“quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento
dannoso o pericoloso”). Dunque non può esservi reato senza effettiva lesione o messa in
pericolo di un bene giuridico. Costituzionalizzazione implicita del principio di offensività; la
dottrina sostiene che “il reato non può incentrarsi su un atto di infedeltà all’autorità statale o sulla
pericolosità soggettiva dell’autore; esso deve, piuttosto, consistere in un fatto socialmente dannoso,
e cioè in un fatto oggettivamente lesivo (in forma di danno o di messa in pericolo) di beni o
interessi rilevanti e, perciò, meritevoli e bisognosi di tutela. Principio di offensività come criterio di
conformazione legislativa dei fatti punibili; esso impegna il legislatore, vincolandolo a costruire i
reati dal punto di vista strutturale come fatti che incorporano un’offesa a uno o più beni giuridici.
Dall’altro, e in secondo luogo, il principio di offensività tende ad atteggiarsi a criterio giudiziario-
interpretativo: come tale esso impegna il giudice in sede applicativa a qualificare come reati
soltanto fatti che siano idonei anche in concreto a offendere beni giuridici.
Delitti e Contravvenzioni
Il Codice Rocco opera una summa divisio tra gli illeciti penali distinguendo tra: Delitti: sono le
forme più gravi di illecito penale. Contravvenzioni: sono le forme meno gravi (storicamente,
recepiscono nel d.p. i c.d. illeciti di polizia, affidati prima dell’illuminismo all’autorità
amministrativa). Secondo una teoria risalente al Beccaria, mentre i delitti offenderebbero la
sicurezza pubblica e privata, coincidente con la integrità dell’insieme dei diritti di natura (mala in
se), le contravvenzioni violerebbero soltanto leggi destinate a promuovere il pubblico bene (mala
quia prohibita). Secondo un’altra teoria, i delitti offenderebbero le condizioni primarie, essenziali e
permanenti del vivere civile, mentre le contravvenzioni minaccerebbero le condizioni secondarie e
contingenti della convivenza e, secondo la concezione di Arturo Rocco, le contravvenzioni sono
azioni od omissioni contrarie all’interesse amministrativo dello Stato. Alla fine, la dottrina ha
assunto la posizione per cui fa poggiare la differenza tra le due specie di reato su di un criterio
quantitativo, nel senso, cioè, che vengono distinte soltanto in ragione della maggiore o minore
gravità La problematica è tornata d’attualità sul rapporto tra illecito penale/illecito penale
depenalizzato (l.689/81) e giustifica l’interrogativo se non sia opportuno superare la vecchia
bipartizione trasferendo in blocco l’intero settore degli illeciti contravvenzionali nel campo degli
illeciti puniti con sanzione pecuniaria amministrativa, considerando, appunto, che le
contravvenzioni sono tradizionalmente considerate figure minori di illecito, sicuramente meno gravi
dei delitti. Nello stesso ordine di idee si colloca la circolare P.C.M. 05/02/1986 che circoscrive la
materia contravvenzionale a due categorie di illeciti:
a) Fattispecie di carattere preventivo – cautelare (ad es. art. 673 c.p. e ss.).
b) Fattispecie concernenti la disciplina di attività sottoposte a un potere amministrativo.
Ma sul piano del diritto positivo vigente, il criterio più sicuro di distinzione rimane quello di natura
formale, facendo leva sul diverso tipo di sanzioni rispettivamente comminate. L’ art. 39 c.p.
stabilisce che i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle
pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice. A sua volta l’art. 17 c.p. dispone che le
pene principali stabilite per i delitti sono l’ergastolo, la reclusione e la multa (libro II c.p.).
Mentre per le contravvenzioni sono l’arresto e l’ammenda (libro III c.p.) La distinzione tra d. e c.
ha una notevolissima importanza rispetto all’elemento soggettivo del reato e al tentativo. Mentre i
delitti richiedono di regola il dolo come elemento soggettivo e la punibilità a titolo di colpa
rappresenta l’eccezione (art. 42, comma 2), nelle contravvenzioni si risponde indifferentemente a
titolo di dolo o di colpa (art. 42 comma 4). Quanto al tentativo, esso è configurabile solo nei delitti.
La distinzione tra delitti e contravvenzioni assume, altresì, rilievo in rapporto alla professionalità e
abitualità del reato, alle misure di sicurezza, alle cause di estinzione del reato e della pena ecc.

Il soggetto attivo del reato


Si definisce soggetto attivo o autore del reato (oppure reo, agente, colpevole) colui il quale
realizza un fatto conforme ad una fattispecie astratta di reato. Autore di un reato può essere soltanto
la persona umana a prescindere dall’età sesso o da altri requisiti. La dottrina parla di CAPACITÀ
PENALE per alludere, appunto, all’ attitudine di tutte le persone a porre in essere un fatto rilevante
per il diritto penale. Si parla, così, di capacità alla pena (imputabilità), capacità alle misure di
sicurezza (pericolosità sociale) e di immunità (incapacità di essere assoggettati a conseguenze
penali). Si ha un reato comune: quando il reato può essere commesso da chiunque. Si ha un reato
proprio quando il reato può essere commesso solo da soggetti in possesso di determinati requisiti,
naturalistici (come la madre nel delitto di infanticidio ) o giuridici (peculato). Il nostro delitto
penale, non conosce forme di responsabilità penale a carico delle persone giuridiche (societas
delinquere non potest). La mancata punizione dell’impresa si traduce in un ingiustificato accollo di
responsabilità ad un altro soggetto, il quale sembra assumere un ruolo di capro espiatorio.
Problematica l’individuazione dei meccanismi sanzionatori da adottare. Parte dottrina , ritiene che il
principio societas delinquere non potest riceverebbe un avallo costituzionale. L’irresponsabilità
delle persone giuridiche discenderebbe dal principio di carattere personale della responsabilità
penale e quindi la società non potrebbe rispondere penalmente per la condotta di un suo organo.
Secondo il principio di colpevolezza la società non potrebbe rispondere personalmente perché
incapace di atteggiamento volitivo e colpevole. A queste obiezioni si è replicato facendo leva
sulla teoria organicistica della persona giuridica :
- teoria che riconosce soggettività reale in virtù di un rapporto di rappresentanza organica tra
l’entemstesso e le persone fisiche che ne determinano la volontà e l’azione. La conseguenza è che
l’attività degli organi diventa automaticamente imputabile alla persona collettiva. Ma il
problema rimane aperto ove si aderisca alla tesi che intende il principio di personalità come
inclusivo del requisito di colpevolezza quale presupposto del reato: l’ente collettivo, come tale, è
capace di agire con dolo o con colpa? Per questo si è proposto di configurare, a carico della persona
giuridica, sanzioni aventi il carattere di misure di sicurezza (es. confisca, chiusura stabilimento,
revoca concessione, sospensione attività, ecc.) che non di pena in senso stretto. Ma un modello
extrapenale è stato adottato nel nostro ordinamento che ha di recente introdotto la
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati commessi da loro organi o
sottoposti (d.lgs. 231/2001). Il reato, in questo caso, dovrà costituire anche espressione della
politica aziendale o quantomeno derivare da una colpa di organizzazione (v. pag. 147).

Soggetti responsabili negli enti o nelle imprese


Il titolare non sempre è in grado di adempiere a determinate mansioni, pertanto delega
l’adempimento di tali obblighi ad altri soggetti suoi collaboratori. Ma il problema è: in presenza
di quali condizioni la delega può assumere rilevanza penale? La giurisprudenza prevalente ritiene
che il titolare debba avere obblighi di vigilanza, onde evitare che la responsabilità sia troppo verso
il basso. La giurisprudenza prevalente condiziona la rilevanza penale della delega alla presenza dei
seguenti presupposti:
a) L’impresa deve essere di grandi dimensioni.
b) La ripartizione di funzioni non deve avere carattere fraudolento.
c) I collaboratori delegati devono essere dotati dei poteri e dei mezzi necessari per svolgere
efficacemente i loro compiti.
d) Inoltre, essi devono possedere una provata competenza tecnica.
In presenza delle predette condizioni, la giurisprudenza ammette che la delega esoneri da
responsabilità penale il soggetto delegante e la responsabilità di conseguenza si trasferisca al
soggetto delegato. Altra parte della dottrina ritiene che la delega non liberi il titolare originario
da responsabilità: al contrario, costui manterrebbe, quantomeno, un obbligo di vigilanza sui
collaboratori. Il soggetto delegante continuerebbe a rispondere, eventualmente in concorso, sotto
forma di mancato impedimento di reato ex art. 40 c.p. Neppure questa impostazione si sottrae a
rischi perché si potrebbe andare incontro al problema opposto, alias verso l’alto, chiamando a
rispondere i titolari originari in base alla posizione o al ruolo rivestito, pur in assenza della concreta
responsabilità di adempimento, con conseguente violazione della responsabilità personale.

Il soggetto passivo del reato


Il soggetto passivo del reato è il titolare del bene protetto dalla singola fattispecie incriminatrice di
parte speciale. In questo senso, coincide con quello che il codice chiama persona offesa dal reato
(art. 120). La nozione di soggetto passivo si differenzia da quella di oggetto materiale del reato,
che allude, invece, alla persona o cosa sulla quale materialmente ricade l’attività delittuosa. In taluni
casi le due nozioni di fatto coincidono (es. omicidio), in altri rimangono distinte (es. nella
mutilazione fraudolenta della propria persona, soggetto passivo è l’ente assicuratore e oggetto
materiale è l’agente del reato). Il concetto di soggetto passivo del reato non coincide
necessariamente neppure con quello di danneggiato dal reato (cioè il soggetto che subisce un
danno patrimoniale o non patrimoniale risarcibile e che è, pertanto, legittimato a costituirsi “parte
civile” nel processo penale es. delitto di lesioni e omicidio). Si ammette che la posizione di soggetto
passivo può spettare, oltre che alle persone fisiche, anche allo Stato (vedi art. 241 ss) e alle
persone giuridiche nonché alle collettività non personificate. Si parla anche di reati a soggetto
passivo indeterminato per alludere ad ipotesi, nelle quali l’interesse offeso appartiene ad una
cerchia indeterminata di persone (c.d. reati vaghi o vaganti) es. reati contro l’incolumità pubblica.
Può aversi anche una pluralità di soggetti passivi (es. violazione di domicilio). Le caratteristiche
del soggetto passivo del reato possono assumere rilevanza penale sotto diversi profili:
- la qualità di soggetto minore, essenziale per i delitti di corruzione o sottrazione di minorenne.
- Possono addirittura cambiare il titolo del reato: es., delitto di violenza privata che si trasforma in
minaccia o violenza ad un pubblico ufficiale.
- Qualità di figlio, elemento costitutivo del delitto di violazione degli obblighi di assistenza
familiare.
- Individuazione del soggetto passivo assume rilevanza soprattutto ai fini di presentazione di
querela, infatti è sufficiente che la presenti uno solo dei soggetti passivi. Il soggetto passivo può
assumere rilevanza, oltre che per le sue caratteristiche come nei casi predetti, anche per la condotta
tenuta anteriormente (ad es. attenuante del concorso del fatto doloso della persona offesa), ovvero
successivamente al reato (es. iniziativa del soggetto passivo necessaria per consentire all’offensore
la prova della verità dell’addebito nei delitti contro l’onore). Reati senza soggetto passivo o senza
vittima (non è facile individuare l’offesa ad un bene giuridico “afferrabile” es. reati contro la
moralità pubblica).

Analisi della struttura del reato


La varietà dei diversi tipi di reato non ha impedito alla dottrina penalistica di tendere alla
costruzione di una teoria generale del reato, intesa a unificare tutti gli elementi comuni alle varie
tipologie delittuose. Fondamento di un reato è un fatto umano, corrispondente alla fattispecie
obiettiva di una figura criminosa. Il giudizio di corrispondenza tra il fatto e lo schema legale di una
specifica figura di reato si traduce nel concetto di tipicità. Dall’altro, l’illecito penale deve essere
realizzato contra ius. Il contrasto tra fatto tipico ed ordinamento si riassume nel giudizio di
“antigiuridicità”. Occorre che si possa muovere un rimprovero a questo soggetto, quindi, che sia
colpevole. Il reato è dunque un fatto umano tipico, antigiuridico e colpevole (concezione
tripartita). La dottrina tripartita convive con la teoria della bipartizione, la quale si limita solo a
scomporre il reato in elemento soggettivo e oggettivo, manca l’antigiuridicità come elemento
costitutivo del concetto di illecito penale. La concezione tripartita riesce meglio a soddisfare le
esigenze di indagine del peculiare fenomeno giuridico che va sotto il nome di reato, dal momento
che le tre categorie assolvono funzioni specifiche. Così, ad es., l’accertamento giudiziale di un
omicidio presuppone:
- la prova del fatto tipico;
- la verifica dell’illiceità del fatto medesimo, sotto il profilo dell’assenza di cause di giustificazione;
- la prova della colpevolezza dell’agente.

Fatto tipico
Nel diritto penale: il fatto tipico è, il complesso degli elementi che delineano la figura di uno
specifico reato (nell’omicidio, il fatto è l’aver cagionato la morte ad un uomo). Perciò il fatto, come
oggetto del giudizio di tipicità, ingloba soltanto quei contrassegni in presenza dei quali può dirsi
adempiuto un particolare modello delittuoso e non un altro. Ciò è in funzione del principio nullum
crimen sine lege. In sostanza, compito del fatto tipico è quello di ritagliare e circoscrivere specifiche
forme di aggressione ai beni penalmente tutelati, così da giustificare il ricorso alla extrema ratio. Il
giudice sarà tenuto a verificare se l’offesa è stata realizzata proprio con quelle particolari modalità
legislativamente tipizzate: in caso contrario, in omaggio ai principi di legalità, tassatività e
frammentarietà, il fatto (pur sostanzialmente offensivo) deve ritenersi privo di rilevanza penale.
Inoltre il fatto tipico deve essere idoneo a rispettare le esigenze poste dal principio di materialità
ovvero che il reato si manifesti in un contegno esteriore accertabile nella realtà. Che la tipicità della
condotta inglobi la lesione del bene, appare in alcuni casi di evidenza tangibile. Esistono, tuttavia,
altri casi in cui all’esteriore conformità del fatto alla fattispecie legale non si accompagna una
effettiva lesione del bene protetto (casi classici del furto di un acino d’uva o di un chiodo
arrugginito, del peculato per sottrazione di un foglio di carta alla P.A. o del falso grossolano o
innocuo). Qui la tipicità è soltanto apparente. Il principio della tipicità può, di fatto, subire
deroghe, nell’ambito, ad esempio, della legislazione penale extracodicistica.

Antigiuridicità
Si fonda sul principio di non contraddizione dell’ordinamento, nel senso che l’esistenza di una
qualsiasi norma (non importa in quale settore giuridico sia collocata), atta a facoltizzare o rendere
doveroso un determinato comportamento, basta a renderlo lecito in tutto l’ordinamento giuridico.
(es. l’ufficiale giudiziario che procede ad un pignoramento). Per converso, l’art. 651 c.p.p. vincola il
giudice civile e amministrativo al giudicato penale di condanna. Il giudizio di antigiuridicità si
risolve dunque, nella verifica che il fatto tipico non è coperto da alcuna causa di
giustificazione o esimente. All’interno della concezione tripartita del reato, la categoria
dell’antigiuridicità ha carattere oggettivo: cioè costituisce una qualità oggettiva del fatto tipico,
che come tale prescinde ed è distinta dalla colpevolezza. Questo modo d’intendere l’antigiuridicità
corrisponde alla stessa impostazione codicistica: l’art. 59, nel fissare la regola della rilevanza
obiettiva delle cause di giustificazione, nel senso che esse operano anche se non conosciute
dall’agente, presuppone, infatti, un’antigiuridicità concepita su base puramente oggettiva. LA
TEORIA DEGLI ELEMENTI NEGATIVI DEL FATTO. Per spiegare sul piano dogmatico
l’operatività delle cause di giustificazione, taluni autori fanno ricorso agli elementi negativi del
fatto, cioè a degli elementi che devono mancare perché l’illecito penale si configuri. Es. è vietato
cagionare la morte di un uomo, a meno che l’aggressione non sia giustificata dalla necessità di
difendersi. Si ricomprende, così, nel concetto di fatto, oltre agli elementi positivi, i presupposti delle
scriminanti: tale impostazione sembra da respingere, perché tale teoria, sorta storicamente in
ordinamenti europei privi della disciplina degli errori sulle scriminanti, appare superflua nel nostro
ordinamento, dove, invece, tale problema è stato risolto.

VANTAGGI DELL’ANTIGIURIDICITA’ COME REQUISITO AUTONOMO DEL


REATO. La funzione della categoria del fatto è quella di selezionare le forme di offesa meritevoli
di sanzione penale, ragion per cui la categoria stessa assume una connotazione prettamente
penalistica. Mentre la categoria delle cause di giustificazione non ha una funzione prettamente
giuridico-penale, le scriminanti servono ad “integrare” il diritto penale nell’ordinamento giuridico
generale.
APPLICAZIONE ANALOGICA DELLE SCRIMINANTI. Dal carattere non specificamente
penale delle cause di giustificazione (autonome norme extrapenali), deriva, da un lato, che la
disciplina delle scriminanti non è, necessariamente, subordinata al principio della riserva di legge
(può valere anche una scriminante di origine consuetudinaria), dall’altro se ne deduce la loro
possibile estensione analogica.
ANTIGIURIDICITÀ IN SENSO MATERIALE. Parte della dottrina, tiene conto delle ragioni
che stanno alla base dell’incriminazione, ragioni ravvisate nell’antisocialità e nella lesione del bene
penalmente protetto. Ma tale concetto appare superfluo e fuorviante, dal momento che tali profili
sono già assorbiti dal giudizio di tipicità (secondo gli autori F.M.).
ANTIGIURIDICITÀ O ILLICEITÀ SPECIALE. Si parla nei casi nei quali la stessa condotta
tipica è contraddistinta da una nota di illiceità, desunta da una norma diversa da quella
incriminatrice. La presenza di questa speciale antigiuridicità è indiziata da espressioni legislative
quali illegittimamente, abusivamente, arbitrariamente, indebitamente e simili, oppure quali
abusando dei poteri e delle qualità, ecc. Un esempio è fornito dal delitto di cui all’art. 348
(esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato):
l’avverbio abusivamente richiede il contrasto con le disposizioni amministrative sulle professioni.
Analogamente, l’art. 659 (esercizio di un mestiere rumoroso) richiede che il fatto avvenga contro le
disposizioni della legge o le prescrizioni dell’autorità. La rilevanza pratica della categoria si
proietta sul terreno del dolo e dell’errore, posto che il contrasto tra la condotta tipica e la norma
extrapenale deve riflettersi nel momento conoscitivo della volontà colpevole: come si vedrà un
errore sulla illiceità speciale, ove scaturisca dalla erronea interpretazione di una norma extrapenale,
può risolversi in un errore sul fatto che esclude il dolo (art. 47, comma 3). La presenza di un
requisito di antigiuridicità speciale è, nella maggior parte dei casi, espressamente evidenziata dallo
stesso legislatore mediante una delle formule linguistiche sopra accennate.

Colpevolezza
La colpevolezza riassume le condizione psicologiche che consentono l’imputazione personale
del fatto di reato all’autore: si tratta, infatti, di verificare se, e fino a che punto, il precetto penale
assunto come regola obiettiva di comportamento in sede di tipicità e antigiuridicità, sia suscettivo di
essere osservato dal singolo agente. Nel giudizio di c. rientra, così, innanzitutto, la valutazione del
legame psicologico o, comunque, del rapporto di appartenenza tra fatto e autore, nonché la
valutazione delle circostanze, di natura personale e non, che incidono sulle capacità di
autodeterminazione del soggetto. La legge penale garantisce la libertà di scelta individuale proprio
nella misura in cui rifiuta la responsabilità oggettiva e subordina la punibilità alla presenza di
coefficienti soggettivi quali il dolo e la colpa. Questa spiegazione liberale garantistica è stata
avallata dalla Corte costituzionale nella sentenza n.364/88, in cui ha parzialmente dichiarato
incostituzionale l’art. 5 c.p. relativamente all’efficacia scusante dell’errore inevitabile di diritto,
nella quale sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per
comportamenti che solo fortuitamente producono conseguenze penalmente vietate. In questa stessa
sentenza la Corte ravvisa nella colpevolezza un principio costituzionale garantista. Se oggi nessuno
contesta il ruolo fondamentale della colpevolezza come principio di civiltà, minore convergenza si
ha sul contenuto della colpevolezza come categoria dogmatica. In particolare, mentre è pacifico che
essa abbraccia come requisiti minimi il dolo o la colpa, si discute se vi rientrano elementi ulteriori e
di quale misura siano. Nella dottrina contemporanea, la colpevolezza in senso dogmatico tende ad
essere distinta secondo che essa funga da elemento costitutivo del reato che si pone accanto alla
tipicità e alla antigiuridicità ovvero da criterio di commisurazione della pena.

Classificazione dei tipi di reato


Nella classificazione dei reati si è passato dalla costruzione unitaria dell’illecito penale (assumendo
a modello l’illecito commissivo doloso) alla costruzione separata delle rispettive tipologie delittuose
del delitto doloso e del delitto colposo, nonché del delitto commissivo e del delitto omissivo.
Tratteremo, dunque, separatamente l’illecito commissivo doloso, l’illecito commissivo colposo,
l’illecito omissivo proprio e improprio nelle rispettive varianti doloso e colposo. Reati di evento: la
fattispecie incriminatrice rende tipico un evento esteriore come risultato separabile dall’azione e a
questa legato in base ad un nesso di causalità (es. la morte di un uomo nel delitto di omicidio, il
danno alla cosa nel delitto di danneggiamento, ecc.). Si opera un’ulteriore distinzione secondo che il
legislatore specifici la modalità di produzione del risultato lesivo oppure no: così, nel primo caso, si
parla di reati di evento a “forma vincolata” (es. art. 438 che incrimina chiunque cagiona
un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni), nel secondo di r. a forma libera, detti reati
causali puri (es. art. 575, omicidio). Reati d’azione: consistono nel semplice compimento
dell’azione vietata, senza che sia necessario attendere il verificarsi di un evento casualmente
connesso alla condotta medesima. In funzione delle due forme tipiche della condotta umana, i reati
si distinguono in commissivi (o di azione) ed omissivi (o di omissione). Reati omissivi impropri
(o commissivi mediante omissione) quando l’evento lesivo dipende dalla mancata realizzazione di
un’azione doverosa: es. omicidio colposo dovuto alla mancata sorveglianza di un bambino. La loro
previsione è il risultato del combinarsi di una disposizione di parte generale (art. 40 co. 2 c.p.) e di
norme incriminatrici di parte speciale che vietano la causazione di un evento. Es.: chiunque non
impedisce la morte di un uomo, avendo l’obbligo giuridico di impedirla, è punito... Occorre una
notevole precisione per individuare il fatto nei reati omissivi impropri, e in particolare il giudice
dovrà attenersi a due criteri per stabilire SE e QUANDO l’omesso impedimento di un evento sia
penalmente rilevante :
- RILEVA SOLTANTO il mancato compimento di un’azione che poteva impedire l’evento
IMPOSTA da una NORMA GIURIDICA (e non derivato da norme di natura etico -sociali) e cioè
da qualsiasi NORMA ubicata in qualsiasi ramo dell’ordinamento.
- È il contenuto delle stesse norme giuridiche che decide quali siano i presupposti in presenza dei
quali sorge l’obbligo di impedire l’evento e quali siano gli eventi il cui verificarsi deve essere
impedito. Obblighi di protezione e obblighi di controllo: I contenuti e i presupposti degli obblighi
giuridici richiamati nell’art. 40 possono essere desunti solo dalle singole norme giuridiche che
fondano l’obbligo di impedire questo o quell’evento. Obblighi di protezione derivanti da qualsiasi
fonte dell’ordinamento. Obblighi di controllo sono quelli aventi per oggetto la neutralizzazione dei
pericoli derivanti da una determinata fonte, in funzione di tutela di tutti i beni che possono essere
messi a repentaglio da quella fonte di pericolo. Vengono in evidenza sia i pericoli creati da forze
della natura, sia pericoli connessi allo svolgimento di attività umane.
Reati omissivi propri: consiste nel semplice mancato compimento di un’azione imposta da una
norma penale, a prescindere dalla verificazione di un evento come conseguenza della condotta
omissiva (es. omissione di soccorso, di referto, omessa denuncia di reato). L’obbligo giuridico di
agire presuppone il potere di compiere l’azione doverosa (es. handicappato non imputabile per non
aver soccorso un minore di anni 10).
Reati istantanei: la realizzazione del fatto tipico integra ed esaurisce l’offesa, perché è impossibile
che la lesione del bene persista nel tempo (es. omicidio).
Reati permanenti: quando il protrarsi dell’offesa dipende dalla volontà dell’autore. Il reato
permanente cessa nel momento in cui si mette fine alla condotta volontaria di mantenimento dello
stato antigiuridico. Reato permanente è un reato unico in quanto lesivo di un medesimo bene
giuridico.
Reato abituale: illeciti penali, per la cui realizzazione è necessaria la reiterazione nel tempo di più
condotte della stessa specie (es. art. 572, maltrattamenti in famiglia). Si distinguono due figure di
reato abituale.
Reato abituale proprio: le singole condotte sono penalmente irrilevanti (es. sfruttamento della
prostituzione).
Reato abituale improprio, ciascun singolo atto integra di per sé altra figura di reato, come la
relazione incestuosa (art. 564). Nel reato abituale la prescrizione comincerà a decorrere dall’ultima
condotta integrante il reato e il termine per proporre querela dalla singola condotta già sufficiente ad
assumere rilievo penale.
Reati comuni: realizzabili da chiunque
Reati propri: realizzabili solo da chi riveste una particolare qualifica o posizione (es. pubblico
ufficiale) che pone il soggetto in una speciale relazione con l’interesse tutelato. La distinzione tra
reati propri e comune assume rilevanza soprattutto ai fini della determinazione del dolo (per es. è
controverso se la volontà criminosa presupponga la conoscenza della qualifica) o nel concorso di
persone (se e a quali condizioni un soggetto estraneo possa concorrere nel reato proprio).

Reati di danno e di pericolo


I reati si distinguono in illeciti di danno e illeciti di pericolo, secondo che la condotta criminosa
comporti la lesione effettiva (es. reato di omicidio) ovvero la semplice messa in pericolo o lesione
potenziale del bene giuridico assunto a oggetto di tutela penale (art. 423, delitto di incendio). I reati
di pericolo hanno subito una rilevante espansione in tempi recenti per l’evoluzione tecnologica e per
l’assunzione da parte dello Stato di compiti di natura solidaristica. Sono distinti in due categorie :
- Reati di pericolo concreto: il pericolo rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie
incriminatrice, spetta al giudice, in base alle circostanze concrete del singolo caso, accertarne
l’esistenza (es. art. 422 strage). C’è una rilevante possibilità di verificazione di un evento temuto.
- Reati di pericolo presunto: il pericolo si presume in base ad una regola di esperienza che al
compimento di certe azioni si accompagni l’insorgere di un pericolo. Il giudice e’ dispensato dallo
svolgere ulteriori indagini perché il legislatore tipicizza il fatto (es. chi cagiona un incendio, art.
423). I reati a pericolo astratto sono criticabili sotto il profilo costituzionale. Il punto dolente è
l’illecito di pericolo presunto strettamente inteso: viene disatteso il principio di necessaria lesività
(principio di offensività) e rischiano di reprimere la mera disobbedienza dell’agente, vale a dire la
semplice inottemperanza ad un precetto penale senza che si accompagni un effettivo pericolo del
bene protetto. Vi sono poi dei beni collettivi o super – collettivi, come l’ambiente o l’economia
pubblica che, per loro natura, possono essere danneggiati soltanto da condotte cumulative.
Principio di precauzione: assume rilievo tale principio in base all’art. 174 del Trattato istitutivo
della Comunità europea relativo alle politiche ambientali: “quando un’oggettiva e preliminare
valutazione scientifica stabilisca che è ragionevole temere che gli effetti potenzialmente pericolosi
per l’ambiente o la salute degli uomini, animali o vegetali siano incompatibili con l’alto livello di
protezione scelto dalla Comunità”. Si devono imporre misure preventive a carattere coattivo in caso
di rischio.
Reati aggravati dall’evento: è previsto un aumento di pena se dalla realizzazione del delitto-base
deriva come conseguenza non voluta un evento ulteriore (es. omissione di soccorso aggravata dalla
morte del soggetto che si aveva l’obbligo giuridico di soccorrere, art. 586).
Delitti di attentato: sono forme di illecito che consistono nel compiere atti o nell’usare mezzi
diretti a offendere un bene giuridico. La caratteristica di questi atti è che la legge considera
consumato il delitto pur in presenza di atti, al più, tipici rispetto ad una fattispecie di delitto tentato
(art. 241, attentato contro l’integrità dello Stato).

PARTE SECONDA CAPITOLO 1. IL REATO COMMISSIVO DOLOSO

Tipicità: la fattispecie e i suoi elementi costitutivi


Per fattispecie di reato o semplicemente fatto si intende il complesso degli elementi che
contraddistinguono ogni singolo illecito penale: gli elementi costitutivi delle fattispecie variano,
dunque, in funzione delle diverse tipologie delittuose. La fattispecie legale assolve, innanzitutto,
una fondamentale funzione di garanzia: ciò che non rientra in una fattispecie legalmente tipizzata
non può costituire materia di divieto e, non può, di conseguenza, integrare un illecito penale. In un
senso più stretto, il concetto di F. tende a coincidere con quello di FATTO TIPICO, quale
categoria distinta dall’antigiuridicità e dalla colpevolezza. LA CONCEZIONE CLASSICA DI
FATTISPECIE OBIETTIVA. Secondo la classica teoria di Beling, la F. intesa come F. obiettiva
designerebbe soltanto gli elementi descrittivi (come cosa, uomo, animale) ed obiettivi del fatto di
reato (es. nel furto l’impossessamento della cosa rubata, nell’omicidio la morte di un uomo, ecc.).
LA CONCEZIONE OGGI DOMINANTE. Il concetto di fatto tipico va inteso in un’accezione più
ampia, nel senso che può ricomprendere, nel contempo, sia elementi di natura descrittiva o
normativa, sia elementi a carattere soggettivo.
I fondamentali elementi oggettivi del fatto tipico sono: condotta e suoi presupposti, oggetto
materiale dell’azione, evento e rapporto di causalità.
Fatto umano Antigiuridico Colpevole Punibile
Condotta e suoi presupposti Cause di giustificazione
o circostanze che
escludono la pena
Imputabilità
Oggetto materiale dolo o colpa
Evento Conoscibilità del divieto
penale
Rapporti di causalità Assenza di cause di
esclusione della
colpevolezza
(MARINUCCI e DOLCINI:Teoria quadripartita del reato)

Concetto di azione
L’azione umana rappresenta la base su cui poggia l’intera costruzione dogmatica del reato
commissivo doloso. La dottrina dell’azione ha storicamente prospettato diverse concezioni, delle
quali le principali
sono:
La teoria causale La teoria finalistica La teoria sociale
Definisce l’azione come una Secondo Hans Wezel, l’azione Il comportamento
modificazione del mondo
esterno cagionata dalla volontà
umana. Il dolo non rappresenta
(anche) un elemento
dell’azione, ma è considerato
soltanto come forma di
colpevolezza.
umana consiste nell’esercizio di penalmente

un’attività orientata verso uno rilevante consiste in


scopo. L’attività finalistica è
ogni risposta dell’uomo
ad una pretesa nascente da
una situazione riconosciuta o
riconoscibile, attuata mediante
una scelta libera tra quelle
disponibili.

l’agire consapevolmente diretto


verso un obiettivo, mentre
l’accadere meramente causale
non è governato da uno scopo, ma rappresenta il risultato casuale
delle condizioni casuali di volta in volta presenti.

IL CONCETTO DI AZIONE NEL REATO COMMISSIVO DOLOSO. Le teorie dell’azione,


sopraricordate, sono tutte fallite perché hanno trascurato la verità che i dadi della dogmatica
penalistica non si giocano nella dottrina dell’azione, ma, al più, nella dottrina della tipicità e
dell’antigiuridicità. I criteri che presiedono alla determinazione del concetto di azione si uniformano
ai principi dell’imputazione penale, e non viceversa. Il punto di partenza è sempre costituito dalla
verificazione di un accadimento che lede o pone in pericolo un bene giuridico: soltanto in un
secondo momento ci si preoccupa di stabilire se, e in che modo, l’accadimento sia riconducibile al
comportamento di qualcuno. Quali siano i criteri di attribuzione della responsabilità, lo stabilisce
l’ordinamento penale di volta in volta considerato. Ora, la condotta criminosa, nel reato
commissivo, assume la forma di un’azione in senso stretto, cioè di un movimento corporeo
dell’uomo. In base all’art. 42 comma 1, per rilevare penalmente, l’azione deve consistere in un
movimento corporeo cosciente e volontario (tale azione assume significato diverso in funzione
della natura dolosa o colposa del reato commesso). Nel reato commissivo doloso l’azione cosciente
e volontaria viene assorbita dalla configurazione dolosa: le due azioni, così, finiscono col
coincidere.

Azione determinata da forza maggiore o da costringimento fisico. Caso fortuito


Abbiamo visto che l’azione punibile deve essere accompagnata dal requisito della coscienza e
volontà. Il nostro legislatore ha reso tipiche due situazioni, nelle quali, per certo, non può mai
giungersi a un giudizio di colpevolezza, perché manca già in partenza la precondizione sopra detta
(azione criminosa come opera propria di un determinato soggetto). Le situazioni cui si fa
riferimento vanno sotto il nome di forza maggiore e di costringi mento fisico. FORZA
MAGGIORE: è definita dall’ art. 45: non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore.
La forza maggiore viene tradizionalmente definita come qualsiasi energia esterna contro la quale il
soggetto non è in grado di resistere e che perciò lo costringe necessariamente ad agire. Manca il
requisito della coscienza e volontà. Il soggetto agitur, non agit. L’esempio di scuola è l’uccisione
di un passante da parte di un operaio che cade da un’impalcatura perché travolto da una tromba
d’aria. COSTRINGIMENTO FISICO. Art. 46. Non è punibile chi ha commesso il fatto per
esservi stato costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere o comunque
sottrarsi. In tal caso del fatto commesso risponde l’autore della violenza, occorre, però, che la
volontà dell’agente sia coartata in maniera assoluta; se sussistono margini di scelta, si ricade nella
diversa ipotesi della coazione morale (art. 54). CASO FORTUITO. Art. 45. Non è punibile chi ha
commesso il fatto per caso fortuito. Esso è l’incrocio tra l’accadimento naturale e una condotta
umana, da cui deriva l’imprevedibile verificarsi di un evento lesivo. In tal modo, il fatto f.
impedisce che l’agente risponda dell’evento causato col concorso di fattori fuori dall’ordine
normale delle cose. Il caso di scuola è quello di chi, ferito da un terzo, muore dopo il ricovero, a
causa di un incendio fortuito scoppiato nell’ospedale (il caso f. assume, qui, rilevanza come fattore
di esclusione del nesso causale tra condotta ed evento). Oppure, il malore improvviso che impedisce
di rispettare le regole del traffico (impossibilità dell’osservanza del dovere di diligenza richiesto
nella situazione concreta).

Presupposti dell’azione
Fatto umano. Condotta e suoi presupposti. Si riferiscono al soggetto attivo del reato
specificandone:
- un ruolo o una qualità (pubblico ufficiale nei delitti vs P.A.)
- l’oggetto materiale della condotta (es. natura documentale per falsità in atti)
- il contesto (ad es. situazione di pericolo nell’omissione di soccorso)
- il soggetto passivo (es. Capo dello Stato nell’art. 276 ss).
I presupposti sono importanti nel dolo: trattandosi di elementi precedenti l’azione possono essere
non già voluti, ma soltanto conosciuti dal reo. Oggetto materiale dell’azione (o.m. azione). Si
definisce la persona o la cosa sulla quale ricade l’attività fisica del reo (es. la cosa nel furto, la
persona nell’omicidio). Può essere sia unico sia plurimo. Si distingue sia dall’oggetto giuridico
come sinonimo di bene penalmente protetto (bene giuridico) sia dal soggetto passivo del reato. Es.
il reato di sottrazione consensuale di minorenni dove l’interesse protetto è la potestà dei due
genitori, oggetto dell’azione è il minore protetto. Ma in numerosi casi o.m. dell’azione coincide con
soggetto passivo. La differenza tra o.m. dell’azione e bene giuridico si accentua man mano che il
b.g. subisce un processo di spiritualizzazione (es. fede pubblica come bene immateriale). O.m.
azione caratterizza la fattispecie: es. il furto solo cose mobili, l’invasione o turbativa del possesso
solo cose immobili. Evento naturalistico Risultato esteriore causalmente riconducibile all’azione
umana. In senso tecnico si parla di evento naturalistico. Va inteso, quindi, come conseguenza
dell’azione e consistente in una modificazione fisica della realtà esterna. L’evento n. può essere
anche la messa in pericolo di un bene protetto (es. art.434). Rispetto al rapporto di causalità, l’e.n.
costituisce il secondo polo del nesso causale e, quindi, un requisito del fatto tipico. Può rivestire il
ruolo di circostanza aggravante di un reato già perfetto (ad es. lesione o morte come aggravante
dell’omissione di soccorso) e, in altri casi, quello di condizione obiettiva di punibilità (ad es. il
pubblico scandalo nell’incesto). Rapporti di causalità Il nesso di causalità lega l’azione all’evento.

Nesso di causalità: Riassunto migliore delle Teorie di Fiandaca – Musco,


Marinucci – Dolcini, Padovani

Nozione di Rapporto di Causalità

Quando tra gli estremi del fatto compare un evento, l'evento rileva solo se è stato causato
dall'azione: tra la azione e l'evento deve sussistere un rapporto di causalità, come stabilisce, sotto
la rubrica "rapporto di causalità", l'art.40, 1° comma c.p., il quale dice che "nessuno può essere
punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui la
legge fa dipendere l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione".
Dottrina e giurisprudenza hanno fornito cinque risposte all'interrogativo su cosa sia necessario per
poter affermare che una data azione è causa di un dato evento. Le principali teorie della causalità
sono: 1) la teoria condizionalistica; 2) la teoria della causalità scientifica 3) la teoria della causalità
adeguata; 4) la teoria della causalità umana 5) la teoria della imputazione obiettiva dell’evento.

La Teoria condizionalistica
La teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non o della causalità naturale) parte dalla
premessa che ogni evento è la conseguenza di molti fattori causali, che sono tutti egualmente
necessari perché l'evento si verifichi: giuridicamente rilevante come causa dell'evento è ogni azione
che non può essere eliminata mentalmente, cioè immaginata come non avvenuta, senza che l'evento
concreto venga meno, perciò basta che l'azione di Tizio sia uno degli antecedenti senza i quali
l'evento non si sarebbe verificato perché quell'azione possa considerarsi causa dell'evento. Ad
es. se Tizio colpisce con uno schiaffo Caio, che era affetto da un grave vizio cardiaco e Caio per lo
spavento muore, sia lo schiaffo, sia lo spavento, sia la malattia di cuore sono antecedenti necessari
della morte ed è sufficiente che Tizio abbia posto in essere una di queste condizioni perché la sua
azione si consideri causa dell'evento concreto: decisivo è che senza lo schiaffo di Tizio Caio non
sarebbe morto. Questa concezione della causalità trova piena applicazione anche in due casi
discussi in dottrina. - un primo caso è quello della causalità ipotetica: ad esempio sorge la
domanda se sussiste il rapporto di causalità nel caso del medico che pratica un'iniezione mortale a
un malato terminale per alleviare le sofferenze, dal momento che si tratta di una persona che
comunque sarebbe morta dopo qualche tempo, e la risposta è affermativa, perché l'evento che
rappresenta il punto di riferimento del rapporto di causalità non è l'evento che è stato descritto dalla
norma incriminatrice, cioè nell'omicidio la morte di un uomo,

ma è l'evento concreto individuato attraverso le modalità della sua verificazione, compreso le


modalità spazio temporali, cioè la morte di Tizio per assunzione di una certa quantità di morfina, in
un certo ospedale, a una certa ora di un certo giorno; inoltre il rapporto di causalità va accertato
tenendo conto del decorso causale effettivo e non solo ipotetico, cioè che poteva verificarsi ma non
si è verificato, quindi bisogna domandarsi come sono andate le cose non come potevano andare, se
non fosse stata praticata l'iniezione mortale il malato non sarebbe morto il giorno x alle ore y come
conseguenza della somministrazione di quella sostanza. - Un secondo caso è quello della causalità
addizionale: ad esempio sorge la domanda se sussiste il rapporto di causalità tra l'azione di Tizio,
che ha somministrato a Caio una dose di veleno sufficiente ad uccidere, e la morte di Caio, se anche
Sempronio ha versato, all'insaputa di Tizio, una dose mortale dello stesso veleno nella stessa
bevanda assunta da Caio. Si potrebbe credere che nè l'azione di Tizio, né quella di Sempronio
possano essere considerate causa dell'evento morte: eliminando mentalmente l'azione di Tizio, Caio
sarebbe morto comunque per avvelenamento nello stesso tempo e luogo in cui è morto, e lo stesso
varrebbe per Sempronio ; la conseguenza paradossale quindi sarebbe che la morte di Caio non
sarebbe stata causata nè da Tizio nè da Sempronio , però questo paradosso viene meno tenendo
presente che il rapporto di causalità va accertato in relazione all'evento concreto descritto alla luce
di tutte le sue modalità e, in questo caso, bisogna considerare la quantità di veleno reperito dal
medico legale nel corpo della vittima, cioè il risultato dell'accumulo del veleno somministrato se da
Tizio che da Sempronio, quindi non si possono eliminare mentalmente le azioni di nessuno dei due
senza che l'evento concreto venga meno, quindi sia l'azione di Tizio che quella di Sempronio sono
cause dell'evento morte di Caio. La formula dell'eliminazione mentale che consente di immaginare
che quell'azione non è mai stata compiuta e che quindi l'evento concreto non si è verificato, è una
formula vuota, cioè da riempire di contenuti per poter essere applicata ai casi concreti, e questi
contenuti vanno ricavati da leggi scientifiche, cioè da enunciati che esprimono successioni regolari
di accadimenti, frutto dell'osservazione sistematica della realtà fisica o psichica. Viene chiamato
"sussunzione del caso concreto" sotto quella legge, il procedimento che deve essere seguito per
utilizzare le leggi scientifiche in modo da spiegare il perché di un determinato evento concreto:

- la premessa maggiore di questo procedimento è una legge scientifica che descrive la successione
regolare tra la classe di accadimenti A e la classe di accadimenti B,
- la premessa minore è un caso concreto sussumibile sotto quella legge scientifica, cioè l'azione
umana A è stata seguita dall'evento B,
- la conclusione è che quell'azione concreta è causa di quell'evento concreto (ad esempio le leggi
balistiche e della scienza medica affermano che tra l'azione "sparare un colpo di pistola al cuore di
un uomo" è l'evento "morte dell'uomo per arresto cardiaco" vi è una successione regolare: Tizio ha
sparato con una pistola al cuore di Caio e Caio è morto a seguito della rottura del muscolo cardiaco,
quindi l'azione di Tizio è stata causa della morte di Caio). Quindi in base alla teoria
condizionalistica la causa dell'evento è ogni azione che, tenendo conto di tutte le circostanze
che si sono verificate, non può essere eliminata mentalmente, sulla base di leggi scientifiche,
senza che l'evento concreto venga meno. Le leggi scientifiche che possono esser utilizzate dal
giudice per la spiegazione causale dell'evento possono essere
- leggi universali (cioè enunciati che asseriscono regolarità senza eccezioni nella successione di
eventi; ad esempio la legge della dilatazione termica che dice che se un corpo viene di riscaldato si
dilata, ha carattere universale perché in tutti i casi empiricamente osservati al riscaldamento del
corpo segue la sua dilatazione. Però difficilmente il giudice può utilizzare questo tipo di leggi), o
- leggi statistiche: si tratta di leggi, a cui molto spesso deve ricorrere il giudice, che enunciano
regolarità statistiche emerse dall'osservazione della realtà empirica e che affermano che in un gran
numero di casi all'accadimento A segue l'accadimento B.

(Ad esempio la ricerca farmacologica può affermare che in molti casi la somministrazione di un
determinato farmaco a una donna incinta provoca la nascita di bambini affetti da gravi
malformazioni, attraverso legge statistica il giudice potrà spiegare nel caso concreto l'insorgere
della malformazione come conseguenza della condotta del medico che ha prescritto quella
medicina, e il medico risponderà di lesioni colpose se avrà prescritto quella medicina ignorando
quei rischi che erano noti alla scienza medica e che erano segnalati dal produttore del farmaco).
Altre volte il giudice si può trovare davanti a una pluralità di possibili spiegazioni causali
dell'evento, ciascuna fondata su una diversa legge scientifica. (Ad esempio la perizia A ritiene che
la causa della caduta di una valanga che ha messo in pericolo la pubblica incolumità sia il passaggio
di sciatori che si sono avventurati fuoripista, mentre la perizia B riconduce l'evento a fattori estranei
all'opera dell'uomo, come il crollo del fronte del ghiaccio su cui si era accumulata la neve). Tra le
varie spiegazioni il giudice deve dare preferenza a quella che meglio si attaglia al caso concreto (in
questo esempio sceglierà la seconda spiegazione se le dimensioni della valanga, la testimonianza di
chi ha visto il distacco di una parete di ghiaccio, rendono più probabile che la valanga sia stata
causata da fattori naturali). La teoria condizionalistica ha tre corollari: -il concorso di fattori
causali preesistenti, simultanei o sopravvenuti non esclude il rapporto di causalità tra l'azione e
l'evento, quando l'azione è una condizione necessaria dell'evento, e ciò vale anche se i fattori
estranei all'opera dell'uomo sono rari o anormali (ad esempio non è escluso il rapporto di causalità
se la morte di una persona vittima di una lesione personale è dovuta alla sua vulnerabilità a causa
dell'emofilia); -il rapporto di causalità non è escluso nemmeno se il fattore causale ulteriore rispetto
all'azione dell'uomo consiste in un fatto illecito di un terzo, come nel caso della persona ricoverata
in ospedale per una ferita di arma da fuoco, se la morte è dovuta a un grave errore del chirurgo che
lo ha operato per estrarre il proiettile; -il rapporto di causalità è escluso quando tra l'azione e
l'evento si è inserita una serie causale autonoma, cioè una serie causale che è stata da sola
sufficiente a causare l'evento, in questo caso l'azione è solo un antecedente temporale e non una
condicio sine qua non dell'evento (ad esempio se Tizio avvelena Caio, il quale muore investito da
un'automobile prima che il veleno faccia effetto, Tizio non avrà causato l'evento morte, e quindi non
risponderà di omicidio doloso consumato, ma solo di tentato omicidio).

Teoria della causalità adeguata.


Si prospetta come correttivo alla teoria condizionalistica nella sfera dei delitti c.d. aggravati
dall’evento. La teoria della causalità adeguata, in aggiunta a quanto previsto dalla teoria
condizionalistica, si propone di escludere il rapporto di causalità quando nel decorso causale,
accanto all'azione umana, siano intervenuti fattori, preesistenti, simultanei o sopravvenuti,
anormali, quindi richiede che l'evento sia una conseguenza normale o almeno non
improbabile dell'azione. Questo limite è giustificato innanzitutto dal fatto che eventi imprevedibili
non possono essere evitati neanche da un uomo prudente e giudizioso, inoltre la punizione di chi ha
causato un evento imprevedibile non soddisfa né le esigenze della giusta retribuzione né quelle della
prevenzione. La teoria dell’adeguatezza tende a selezionare come causali soltanto alcuni
antecedenti: cioè, è considerata causa, quella condizione che è tipicamente idonea o adeguata a
produrre l’evento in base a un criterio di prevedibilità basato sull’ id quod plerumque accidit ( = ciò
che accade più spesso o caso più probabile). Per accertare la sussistenza del rapporto di causalità,
questa teoria impone di compiere una prognosi postuma, articolata in due momenti:
- in primo luogo il giudice deve compiere un viaggio nel passato, cioè idealmente deve tornare al
momento in cui il soggetto ha agito e deve formulare così un giudizio ex ante, cioè deve chiedersi,
sulla base di leggi scientifiche e dei dati disponibili al momento dell'azione, quali erano i normali o
non improbabili sviluppi causali dell'azione;
- in secondo luogo il giudice deve confrontare il decorso causale che si è verificato con quelli che
erano prevedibili (ad esempio se il pedone investito da un automobilista è morto per
dissanguamento siamo in presenza di un rapporto di causalità adeguata perché quel decorso causale
era non improbabile; se invece la morte del pedone investito è avvenuta nell'ambulanza che lo
trasportava in ospedale in seguito all'incidente, il rapporto di causalità è escluso per il carattere
anormale del concreto decorso causale). Infatti l’azione è causa soltanto quando è tipicamente
idonea a cagionare l’evento e, cioè, richiede una generale attitudine dell’azione a cagionare eventi
del tipo di quello verificatosi in concreto (caso 16, del tossicodipendente). I criteri di accertamento
della generale attitudine causale dell’azione sono costituiti dai giudizi di probabilità che si emettono
nella vita pratica. Il diritto penale, avendo lo scopo di prevenire azioni dannose, vieta e punisce solo
quelle azioni che non solamente siano condizioni di un evento dannoso, ma appaiono, ex ante, come
idonee a produrlo, nel senso che aumentano in misura non irrilevante le probabilità del suo
verificarsi.

La formulazione più recente della teoria della c.a.


I sostenitori della teoria della causalità adeguata hanno finito col proporla come teoria generale
della causalità penalmente rilevante ed è stata formulata in termini negativi. Il rapporto di causalità
sussiste tutte le volte in cui non sia improbabile che l’azione produca l’evento. CRITERIO
DELLA PROGNOSI POSTUMA. Il giudizio di probabilità va effettuato sulla base delle
circostanze presenti al momento dell’azione e conoscibili ex ante da un osservatore avveduto, con
aggiunga di quelle superiori eventualmente possedute dall’agente concreto (criterio prognosi
postuma o ex ante in concreto). OBIEZIONI ALLA TEORIA DELLA CAUSALITA’
ADEGUATA. La teoria dell’adeguatezza non sempre riesce a delimitare la responsabilità (es. tizio
provoca grave ferita a Caio, il quale quasi del tutto guaritone, muore invece in ospedale a causa di
un incendio). La ferita è grave, e, se considerata ex ante, risulta adeguata a produrre l’evento morte,
ma sembra sproporzionato accollare al feritore la morte dovuta all’incendio. La teoria dell’ad.
fallisce nella descrizione dell’evento. In altri termini, l’evento lesivo va considerato come evento
astratto o concreto? La miglior dottrina ha suggerito di scindere il giudizio di ad. in due fasi:
- in base a un giudizio ex ante occorre verificare se non appaia improbabile che all’azione consegua
un evento contemplato nella norma.
- In base a un giudizio ex post bisogna verificare se l’evento concreto realizzi il pericolo tipicamente
o generalmente connesso al reato.
Ma, complessivamente, la teoria in esame si presta a tre obiezioni.
1) Non è agevole conciliare il requisito della prevedibilità ex ante dell’evento con l’accertamento
della causalità che dovrebbe, invece, basarsi su giudizi ex post e di natura rigorosamente oggettiva.
2) Include considerazioni che appartengono alla sfera della colpevolezza.
3) Lo stesso concetto di ad. è, inevitabilmente, soggetto ad applicazioni incerte.

Teoria della causalità umana.


La teoria della causalità umana, in aggiunta a quanto previsto dalla teoria condizionalistica,
richiede anche che l'evento non deve essere dovuto al concorso di fattori eccezionali, quindi il
rapporto di causalità si considera escluso non, come sostiene la teoria della causalità adeguata,
tutte le volte in cui il decorso causale è anormale, ma solo nei casi in cui tra l'azione e l'evento
intervengono fattori causali rarissimi, cioè che hanno una minima probabilità di verificarsi.
La ratio di questo limite è che possono considerarsi opera dell'uomo solo gli sviluppi causali che
l'uomo può dominare con i suoi poteri conoscitivi e volitivi e tra gli sviluppi dominabili non
possano essere ricompresi quelli dovuti al concorso di fattori causali rarissimi. Di conseguenza,
secondo questa teoria, la gamma di eventi che possono essere causati da un'azione risulta più
ristretta rispetto a quanto stabilito dalla teoria condizionalistica, ma più ampia rispetto a quanto
stabilito dalla teoria della causalità adeguata. Questi fattori causali rarissimi sono, ad esempio,
fattori causali che preesistono all'azione, come l'emofilia della persona ferita, oppure fattori causali
sopravvenuti, come un incendio divampato nell'ospedale in cui il ferito è stato ricoverato.

Critiche di F-M alla teoria della causalità umana


La teoria della causalità umana è, tra le minori, quella che ha avuto maggior diffusione in Italia.
TEORIA DELLA CAUSALITA’UMANA: possono considerarsi causati dall’uomo soltanto i
risultati che egli può dominare in virtù dei suoi poteri conoscitivi e volitivi, che rientrano cioè nella
sua sfera di signoria. Esulano dal rapporto causale i fattori eccezionali, quindi, occorrono due
elementi:
- uno positivo, che l’uomo con la sua azione abbia posto in essere una condizione dell’evento, e,
cioè, un antecedente, senza il quale, l’evento stesso non si sarebbe verificato.
- uno negativo, che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali. È un mal riuscito
tentativo di perfezionamento della teoria dell’adeguatezza.

Teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento


La teoria della c.d. imputazione obiettiva dell’evento si fonda sul rilievo che il nesso causale
costituisce presupposto indispensabile della responsabilità, in quanto è, ordinariamente, in grado di
riflettere la signoria dell’uomo sul fatto: esso comprova che l’evento è opera dell’agente. Possiamo
dire che questa teoria costituisce uno sviluppo aggiornato della teoria della causalità adeguata. Di
qui, lo sforzo di individuare, appunto, parametri di attribuzione giuridica ulteriori rispetto a quelli
condizionalistici. Tali criteri sono fondamentalmente due. LA TEORIA DELL’AUMENTO DEL
RISCHIO presuppone che, oltre al nesso condizionalistico, l’azione in questione abbia aumentato
la probabilità di verificare l’evento dannoso (caso 16). LA TEORIA DELLO SCOPO DELLA
NORMA VIOLATA. L’imputazione viene meno tutte le volte in cui il fatto che si verifica, pur
essendo causalmente riconducibile alla condotta dell’autore, non rende concreto lo specifico rischio
che la norma in questione tende a prevenire. Ma la teoria dell’imputazione non si è ancora tradotta
in formulazioni rigorose e convincenti.

L'accoglimento della teoria condizionalistica nell'art.41 c.p.


Il legislatore italiano all'art.41 c.p., sotto la rubrica "concorso di cause ", ha dettato una serie di
regole per dare una risposta all'interrogativo su ciò che è necessario per poter affermare che una
data azione ha causato un dato evento. Il primo e il terzo comma dell'art. 41 enunciano due
corollari della teoria condizionalistica:
-il 1° comma stabilisce che "il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se
indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione
od omissione e l'evento", cioè per l'esistenza del rapporto di causalità basta che l'agente abbia posto
in essere uno solo degli antecedenti necessari dell'evento.
-il 3° comma stabilisce che "le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa
preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui", cioè un'azione che è
condizione necessaria dell'evento ne resta la causa anche se tra i fattori causali c'è un fatto illecito
altrui.
-il 2 comma invece dice che "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono
state da sole sufficienti a determinare l'evento".
Anche se la disciplina di questo comma è stata oggetto di controversie, sembra che anche essa
aderisca alla teoria condizionalistica perché esprime un'ulteriore corollario di questa teoria e non
contiene nessuna formula che evochi né l'idea di valutazioni prognostiche né l'intervento di fattori
causali rarissimi. Se, come dice questo comma, le cause sopravvenute sono state da sole sufficienti
a determinare l'evento, è evidente che tra l'azione e l'evento si è inserita una serie causale autonoma
che fa sì che quell'azione rappresenti non una condizione necessaria dell'evento ma solo un
antecedente temporale. Però quell'azione che solo temporalmente precede l'evento può di per sé
costituire reato. Infatti il secondo comma prosegue dicendo che "se l'azione od omissione
precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita". (Ad
esempio se Tizio colloca nella casa di Caio una bomba a orologeria, ma prima che la bomba esploda
Caio muore per un problema cardiaco, e quindi per una causa sopravvenuta che è stata da sola
sufficiente a determinare la morte, Tizio non avrà causato l'evento morte e quindi non dovrà
rispondere di omicidio doloso consumato ma solo di omicidio tentato).

La teoria condizionalistica non ha bisogno di correttivi (secondo Marinucci – Dolcini)


L'adesione da parte del legislatore italiano alla teoria condizionalistica non comporta un eccessiv
ampliamento dell'area della responsabilità penale. - In primo luogo nelle ipotesi di
responsabilità per dolo o per colpa, l'esigenza delle teorie della causalità adeguata e della
causalità umana di delimitare la responsabilità, è soddisfatta quando, una volta che è stata accertata
l'esistenza del rapporto di causalità tra l'azione e l'evento, si va a esaminare se quell'evento è stato
causato dolosamente o colposamente (ad esempio nel caso dell'emofiliaco la morte conseguente alla
ferita dolosamente o colposamente prodotta dall'agente non potrà essere rimproverata a quest'ultimo
né a titolo di dolo né a titolo di colpa, se l'esistenza di quella malattia non era né conosciuta nei
conoscibile con la dovuta diligenza). - In secondo luogo la teoria della causalità umana è inutile e
spesso arriva a conseguenze paradossali (ad esempio nel caso dell'emofiliaco, questa teoria esclude
l'esistenza del rapporto di causalità quando la morte è dovuta all'intervento di questo fattore causale,
quindi esclude la responsabilità penale per omicidio doloso o colposo, di conseguenza Tizio non
dovrebbe rispondere di omicidio doloso anche se era a conoscenza della malattia di Caio e l'ha
ferito con l'intenzione di ucciderlo). - Inoltre la teoria condizionalistica sembra comportare un
eccessivo ampliamento dell'area della responsabilità penale nel caso in cui l'evento viene posto a
carico dell'agente a titolo di responsabilità oggettiva, cioè solo perché l'azione dell'agente lo ha
materialmente causato, senza che sia necessario accertare il dolo o la colpa. Una delle ragioni che
sono alla base della teoria della causalità adeguata è quella di arricchire la struttura del rapporto di
causalità nei reati aggravati dall'evento, introducendo un limite che coincide con quello della colpa.
Infatti, non può essere rimproverato all'agente per colpa un evento che per la sua anormalità non
poteva essere previsto, e quindi evitato, neanche da un uomo giudizioso e dotato del massimo di
conoscenze; ciò rispondeva a esigenze politico-criminali. Però, oggi, dopo l'avvento della
costituzione, tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva non sono più riconosciute nel nostro
ordinamento. Infatti la corte costituzionale ha riconosciuto rango costituzionale al principio di
colpevolezza traendone la conseguenza che un elemento del fatto deve essere investito almeno dalla
colpa, quindi le ragioni politico-criminali sono venute meno. Infine non regge neanche l'obiezione
mossa alla teoria condizionalistica di aprire la strada a un "regresso all'infinito", andando cioè alla
ricerca della causa penalmente rilevante anche tra gli antecedenti più remoti dell'evento. Infatti, se
questo regresso infinito fosse un problema non si capirebbe perché la giurisprudenza non si ponga
questo problema, in verità il problema della causalità si pone solo per un comportamento che si
sospetta che sia antigiuridico e colpevole.

Le insufficienze della teoria condizionalistica, secondo Fiandaca - Musco


L’ esigenza di un legame causale tra azione ed evento è indicato nell’art. 40.1: l’evento dannoso o
pericoloso, dal quale dipende l’esistenza del reato, deve essere conseguenza dell’azione del reo.
Ma a quali condizioni l’evento lesivo può essere considerato conseguenza dell’azione? Il codice
non dà risposta. È verosimile che i suoi compilatori si siano ispirati alla Dottrina della TEORIA
CONDIZIONALISTICA del tempo: è causa di ogni condizione dell’evento, ogni antecedente
senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. Tale teoria è detta della equivalenza: in questo
senso, perché l’azione umana assurga a causa, è sufficiente che essa rappresenti una delle
condizioni che concorrono a produrre il risultato lesivo. PROCEDIMENTO DI ELIMINAZIONE
MENTALE. Per accertare tale nesso condizionalistico, la dottrina ricorre al procedimento
dell’eliminazione mentale (formula della condicio sine qua non); alla stregua di esso, un’azione è
condicio sine qua non di un evento, se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento
stesso venga meno. LIMITATA EFFICACIA DELLA FORMULA DELLA CONDICIO SINE
QUA NON. Ma ci sono casi in cui la condicio non riesce a fornire indicazioni probanti in merito
all’esistenza del nesso eziologico. Nei casi 12 e 13 mancano le indispensabili conoscenze che fanno
da presupposto al procedimento di eliminazione mentale. PROBLEMA DEL REGRESSO
ALL’INFINITO DELLA T. CONDIZIONALISTICA. Proprio perché considera equivalenti tutte
le condizioni che concorrono alla produzione dell’evento lesivo, la teoria in esame condurrebbe a
considerare causali anche i remoti antecedenti dell’evento delittuoso: es. si potrebbe sostenere che
un omicidio sia da far risalire anche ai genitori dell’omicida i quali , procreandolo, avrebbero così
creato una condizione indispensabile dell’evento. Ulteriori inconvenienti della t.c. si hanno nelle
ipotesi che seguono. CAUSALITÀ ALTERNATIVA IPOTETICA: supponiamo che in mancanza
dell’azione del reo, l’evento sarebbe stato prodotto da un’altra causa intervenuta nello stesso
momento: (es. caso 14, bomba in casa, che sarebbe stata distrutta comunque da un incendio naturale
subito dopo). Appunto perché eliminando materialmente la bomba, l’incendio non sarebbe venuto
meno, potrebbe doversi dedurre che la condotta del reo sia impunibile. CAUSALITÀ
ADDIZIONALE: supponiamo che l’evento sia prodotto dal concorso di più condizioni, ciascuna
però capace da sola di produrre il risultato. Anche in questo caso 15, il procedimento di
eliminazione mentale porta a risultati aberranti: entrambi i soggetti potrebbero scagionarsi a vicenda
(A e B mettono del veleno, ignari l’uno dell’altro, nel bicchiere di C, questo muore). CAUSA
SOPRAVVENUTA DA SOLA SUFFICIENTE… (art. 41): in ipotesi del genere, supponendo come
non realizzata la seconda azione, l’evento permarrebbe come conseguenza della prima (con la
conseguenza paradossale di considerare priva di efficacia proprio l’azione produttiva dell’evento).

Correttivi alla condicio sine qua non secondo F-M


REGRESSO ALL’INFINITO. Si selezionano come antecedenti causali le sole condotte che
assumono rilevanza rispetto alla fattispecie incriminatrice e non tutte le condotte (regresso
all’infinito). IL CORRETTIVO DEL RIFERIMENTO ALL’EVENTO CONCRETO. Nella
causalità alternativa ipotetica, caso 14, si deve considerare l’evento in concreto che si verifica hic et
nunc, e non come genere di evento (morte o incendio in astratto): pertanto, è irrilevante la
circostanza che potrebbero verificarsi eventi analoghi per effetto di altre cause operanti, all’incirca,
nello stesso momento. Nella causalità addizionale, caso 15, hanno efficacia causale quelle
condizioni dell’evento che, cumulativamente considerate, ne costituiscono un presupposto
necessario e che lo sarebbero alternativamente se l’altra condizione mancasse. Entrambi vanno
considerati responsabili di omicidio.

La teoria condizionalista secondo la sussunzione sotto leggi scientifiche


Il limite della t.c. consiste nell’incapacità della formula della condicio sine qua non a spiegare da
sola perché, in assenza dell’azione, l’evento non si sarebbe verificato. In sostanza, il metodo
dell’eliminazione mentale non funziona ove non si sappia in anticipo se in generale sussistono
rapporti di derivazione tra determinati antecedenti e determinati conseguenti (casi 12 e 13). Proprio
per risolvere questi tipi di casi si prospettano i due modelli alternativi di ricostruzione del rapporto
di causalità. METODO INDIVIDUALIZZANTE: l’accertamento del rapporto di causalità si
svolge tra accadimenti singoli e concreti, non importa se unici o riproducibili nel futuro. Il giudice
si dovrebbe comportare come uno storico, il quale nel ricostruire le vicende si limita a individuare
connessioni tra eventi ben determinati e circoscritti, senza preoccuparsi di rinvenire leggi universali
in cui sussumere il rapporto tra i singoli accadimenti. Ma, per esigenze di garanzia, essendo il nesso
causale uno dei più importanti requisiti dei reati d’evento, la sua determinazione non può essere
affidata alla discrezionalità del giudice, ma deve essere effettuata alla stregua di criteri
tendenzialmente certi ed il più possibile controllabili. È, soprattutto, in omaggio al principio di
tassatività, che il criterio della condicio sine qua non, va inteso in senso generalizzante e non
individualizzante, e cioè il giudizio causale deve fornire una spiegazione adeguata dell’evento
concreto e la spiegazione del nesso causale può effettuarsi soltanto alla stregua del modello della
sussunzione sotto leggi scientifiche:

SUSSUNZIONE SOTTO LEGGI SCIENTIFICHE: un antecedente può essere considerato come


condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di
una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica (legge generale di
copertura), portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto. Occorre che l’accadimento
particolare possa essere spiegato sulla base di una legge generale di copertura, la quale permetta
di sussumere in se stessa il rapporto azione-evento concepiti non come fenomeni singolari e
irripetibili, bensì come accadimenti riproducibili in presenza del ricorrere di determinate
condizioni.
CAPITOLO 2. ANTIGIURIDICITA’ E SINGOLE CAUSE DI
GIUSTIFICAZIONE

Come si è già rilevato, a una condotta tipica si accompagna il carattere antigiuridico del fatto. Ma
l’antigiuridicità viene meno, se una norma facoltizza o impone quel medesimo fatto che
costituirebbe reato. Si definiscono, appunto, cause di esclusione dell’antigiuridicità o cause di
giustificazione, (ovvero anche scriminanti, giustificanti, esimenti) quelle situazioni normativamente
previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie
incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. L’ efficacia delle c. di g. non è limitata al diritto
penale, ma si estende a tutti i rami dell’ordinamento e rende inapplicabili anche le sanzioni civili o
amministrative (tranne per stato di necessità). In realtà l’espressione tecnica cause di giustificazione
è estranea al linguaggio del codice e costituisce una categoria dottrinale. Il legislatore preferisce,
infatti, parlare di circostanze che escludono la pena (art. 59). Come esempio si considerano le
disposizioni che dichiarano non punibile chi agisce per legittima difesa (art. 52) o nell’esercizio di
un diritto (art. 51), l’incapacità di intendere e di volere (art. 85), chi commette un delitto contro
l’amm.ne della giustizia per evitare la condanna di un prossimo congiunto (art. 384), ovvero del
figlio che ruba ai danni di un genitore (art. 649). Vi sono tre categorie dogmatiche di esclusione
della punibilità: Cause di giustificazione in senso stretto: solo queste rendono inapplicabile
qualsiasi sanzione penale, civile, amministrativa. Esse si estendono a tutti coloro che prendono parte
alla commissione del fatto e operano in forza della loro obiettiva esistenza, elidendo l’antigiuridicità
o illiceità come contrasto tra il fatto e l’intero ordinamento giuridico. Cause di esclusione della
colpevolezza (o scusanti): lasciano integra l’antigiuridicità o illiceità oggettiva del fatto, e fanno
venir meno solo la possibilità di muovere un rimprovero al suo autore. Le circostanze operano solo
se conosciute dall’agente, e non sono estensibili ad eventuali concorrenti. Riguardano tutte quelle
situazioni in cui il soggetto agisce sotto la pressione di circostanze psicologicamente coartanti (es.
coazione morale). Cause di esenzione della pena in senso stretto: lasciano sussistere sia
l’antigiuridicità sia la colpevolezza, avuto riguardo all’esigenza di salvaguardare contro - interessi.
Non sono estensibili, di conseguenza, ad eventuali concorrenti nel reato (ad es. al complice del
figlio che ruba al padre o di cui all’art. 384). CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE COMUNI E
SPECIALI. Gli art. 50,51,52,53,54 contengono esimenti di portata generalissima, come tali
applicabili a quasi tutti i reati (cause di giustificazione c.d. comuni). Esulano dalla nostra indagine
le scriminanti c.d. speciali, che si applicano soltanto a specifiche figure di illecito penale e non ad
altre (es. reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale ex art. 4 d.l.lt. 288/1944).

Disciplina delle cause di giustificazione


La dottrina si è da tempo sforzata di elaborare i principi generali che presiedono alle cause di
giustificazione e ha adottato un modello esplicativo ora di tipo monistico ora di tipo pluralistico.
Secondo il primo modello, tutte le scriminanti andrebbero ricondotte ad uno stesso principio:
“mezzo adeguato per il raggiungimento di uno scopo approvato dall’ordinamento giuridico”;
ovvero della “prevalenza del vantaggio del danno”. Ciascuna causa di giustificazione, comunque,
presenta elementi ad essa propri. La dottrina dominante propende per un modello esplicativo di tipo
pluralistico, tendente a ricondurre le esimenti a principi diversi e, cioè, due: interesse prevalente e
interesse mancante. Il nostro ordinamento penale sottopone le cause di giustificazione ad alcune
regole comuni previste dagli art. 55 e 59 del codice. RILEVANZA OBIETTIVA ART. 59, 1°
comma: le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente, anche se da lui non
conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti. Le cause di giustificazione della parte generale del
codice operano su un piano meramente oggettivo: esse vengono valutate a favore dell’agente in
virtù della loro sola esistenza, a prescindere dalla consapevolezza che quest’ultimo ne abbia.
RILEVANZA DEL PUTATIVO: art. 59 , 4°. comma : se l’agente ritiene per errore che esistano
circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. L’errore, però, per
essere scusante deve investire:
1) i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione stessa (es. Tizio a causa di un
errore di percezione, crede di essere aggredito da Caio e reagisce difendendosi). Ovvero
2) Una norma extrapenale integratrice di un elemento normativo della fattispecie giustificante.
Occorre che l’errore appaia ragionevole, abbia logica giustificazione, possa apparire scusabile sulla
base dei dati di fatto. È, invece, da escludere la rilevanza esimente di un errore di diritto: ad es.,
non avrebbe alcuna rilevanza l’erronea convinzione che la provocazione escluda il reato. Altrimenti,
non avrebbe applicazione l’art. 5 che non scusa l’ignoranza della legge. ERRORE DI FATTO art.
47: chi commette un reato nell’erronea convinzione che sussistano circostanze che lo permettano,
agisce senza dolo. Per cui l’errore di fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente.
Non dimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è
preveduto dalla legge come delitto colposo. ERRORE COLPOSO art. 59 ult. comma. Se l’errore
sulla presenza di una scriminante è dovuto a colpa dell’agente, la punibilità non è esclusa, quando il
fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Es. se Tizio, camminando di notte lungo una
strada solitaria, venga avvicinato da un estraneo che si limita a chiedergli un’informazione; e lui
scambiandolo, per effetto di suggestione, per un pericolo bandito, lo uccida credendosi aggredito. Si
deve propendere per la tesi che tale disciplina sia applicabile anche alle contravvenzioni.
ECCESSO COLPOSO ART.55: quando nel commettere alcuno dei fatti agli art. 50-51-52-53-54,
si eccedono colposamente i limiti dalla legge imposti, si applicano le disposizioni concernenti i
delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. La situazione di eccesso
colposo si distingue da quella di erronea supposizione di una scriminante: mentre in quest’ultima la
causa di giustificazione non esiste nella realtà ma soltanto nella mente di chi agisce, nel caso ora in
esame la scriminante di fatto esiste ma l’agente supera colposamente i limiti del comportamento
consentito. Due forme di eccesso colposo:
1) Si ha quando si cagiona un determinato risultato volutamente, perché si valuta erroneamente la
situazione di fatto.
2) Si verifica quando la situazione di fatto è valutata esattamente, ma per un errore esecutivo si
produce un evento più grave di quello che sarebbe stato necessario cagionare. Si è fuori dai limiti
dell’eccesso colposo se l’agente supera volontariamente i limiti dell’agire scriminato, onde
l’eccesso è doloso e il soggetto deve rispondere del reato commesso a titolo di dolo. Nonostante
l’art. 55 in esame non richiami l’art. 50, la sfera di operatività dell’eccesso colposo deve ritenersi
estendibile anche nella scriminante del consenso dell’avente diritto. La disposizione relativa
all’eccesso è applicabile anche nell’ipotesi di scriminante putativa, cioè esistente nella mente
dell’agente. Il delitto commesso in situazione di eccesso deve ritenersi un vero e proprio delitto
colposo.

Consenso dell’avente diritto (50 c.p.)


ART. 50: Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può
validamente disporne. Ratio: non vi è ragione che lo Stato appresti la tutela penale di un interesse,
alla cui salvaguardia il titolare mostra di rinunciare consentendone la lesione. Il consenso non ha
natura di negozio giuridico né di diritto privato né di diritto pubblico: esso va qualificato come un
semplice atto giuridico, cioè un permesso col quale si attribuisce al destinatario un potere di agire,
che non crea alcun vincolo obbligatorio a carico dell’avente diritto e non trasferisce alcun diritto in
capo all’agente. Sicché il consenso è sempre revocabile, a meno che l’attività consentita non possa
essere interrotta se non ad avvenuto esaurimento.
REQUISITI DI VALIDITÀ: perché sia considerata scriminante, il consenso deve essere libero o
spontaneo, cioè immune da violenza, errore o dolo. Data la sua natura non negoziale, può essere
prestato in qualsiasi forma (orale, scritta). Può anche essere desunto dal comportamento
oggettivamente univoco dell’avente diritto (cd. tacito), purché sussista al momento del fatto: non
vale, invece, il consenso successivo o ratifica. Non si esige neppure che la volontà del consenziente
giunga effettivamente a conoscenza del destinatario (art. 59, principio della rilevanza meramente
obiettiva delle scriminanti). Consenso può essere:
- tacito o espresso.
- Putativo: se il soggetto agisce nella erronea supposizione della sua esistenza, ma la sua efficacia
scriminante viene meno ove si escluda, in base alle circostanze del caso concreto, la ragionevole
persuasione di operare con l’assenso della persona che può validamente disporre del diritto.
- Presunto : quando si può ritenere che il titolare del bene lo avrebbe concesso se fosse stato a
conoscenza della situazione di fatto. Legittimazione a prestare il consenso: spetta al titolare del
bene penalmente protetto e nel caso di più titolari spetta a tutti i cointeressati. In secondo luogo, al
rappresentante legale o volontario, a meno che la rappresentanza non risulti incompatibile con la
natura del diritto e dell’atto da consentire. Il soggetto legittimato deve possedere la capacità di
agire, che finisce col risolversi nella capacità di intendere e di volere: il giudice deve accertare,
caso per caso, che il consenziente possegga una maturità sufficiente a comprendere il significato del
consenso prestato (c.d. capacità naturale). In altri casi il legislatore fissa un’età minima: 14 anni in
materia di corruzione di minorenne, 14, 16 o 13 anni nelle diverse ipotesi di atti sessuali con
minorenne. La maggiore età di 18 anni è, invece, richiesta per potere validamente consentire alla
lesione di diritti patrimoniali (come prescritto dal
c.c. in questo caso).

DIRITTI DISPONIBILI. Specificando che il consenso deve provenire dalla “persona che può
validamente disporne”, lo stesso art. 50 circoscrive l’operatività della scriminante in esame ai casi
in cui il consenso abbia ad oggetto diritti disponibili. Il limite del carattere disponibile del diritto si
spiega in base alla stessa ratio dell’istituto. L’interesse alla repressione infatti viene meno soltanto
se il consenso ha ad oggetto la lesione di beni di pertinenza esclusiva (o prevalente) del privato che
ne è titolare. Posto che l’art. 50 non precisa quali siano i diritti disponibili, il compito di individuarli
non può che spettare all’interprete, il quale deve ricavarli dall’intero ordinamento giuridico e dalla
stessa consuetudine (es. diritti patrimoniali, attributi della personalità quali onore, libertà morale e
personale). Si considerano indisponibili tutti gli interessi che fanno capo allo Stato, agli enti
pubblici e alla famiglia. Inoltre, il consenso è indisponibile nell’ambito dei reati contro la fede
pubblica, inclusa la falsità in scrittura privata, delitti di usura, frode in commercio, false
comunicazioni sociali, nonché il bene della vita (art. 579, punisce l’omicidio del consenziente).

Esercizio di un diritto (51 c.p.)


A norma dell’art. 51 l’esercizio di un diritto, esclude la punibilità. Ratio della norma: rispettare
il principio di non contraddizione all’interno di uno stesso ordinamento giuridico. La ragione
giustificatrice della scriminante va ravvisata nella prevalenza dell’interesse di chi agisce esercitando
un diritto rispetto agli interessi eventualmente configgenti. Concetto di diritto va inteso
nell’accezione più ampia: cioè come potere giuridico di agire, non importa quale sia la
corrispondente denominazione legislativa o dogmatica, ad eccezione degli interessi legittimi e i c.d.
interessi semplici, perché non suscettibili di esercizio. La fonte del diritto: legge in senso stretto,
regolamento , atto amministrativo, sentenza, contratto di diritto privato, consuetudine.
CONFLITTO FRA NORMA AUTORIZZATIVA E INCRIMINATRICE: vi sono dei casi nei
quali la norma penale ha la prevalenza rispetto alla norma che prevede il diritto: es. risponde
penalmente chi incendia la propria casa con pericolo per la pubblica incolumità (art. 423), anche se
le norme civilistiche sulla proprietà attribuiscano la facoltà di disporre delle proprie cose. Orbene, i
criteri invocabili per definire la prevalenza di una o dell’altra norma sono: il criterio gerarchico, il
cronologico, quello di specialità. È necessario che l’attività realizzata costituisca una (corretta)
estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione. LIMITI ALL’ESERCIZIO DEL
DIRITTO, in conseguenza della necessità di salvaguardare altri diritti ugualmente meritevoli di
protezione. I limiti sono: interni ed esterni. I primi sono desumibili dalla natura del diritto esercitato, i
secondi dall’ordinamento cui il diritto esercitato appartiene. In particolare, i limiti possono stare in una
legge ordinaria oppure a livello costituzionale. ESEMPI DI ESERCIZIO DEL DIRITTO. Diritto di
cronaca giornalistica (caso 20). Gli addebiti obiettivamente diffamatori che potrebbero ledere l’onore e
la reputazione di terze persone possono essere superati dall’estrinsecazione del diritto costituzionale alla
libera manifestazione del pensiero, dunque potrebbe essere ammissibile il ricorso alla scriminante ex art.
51. Ma anche l’onore è un bene di rango costituzionale, pertanto il diritto di cronaca non può essere
esercitato illimitatamente. Tale diritto deve poggiarsi: su fatti corrispondenti al vero; esistenza di un
pubblico interesse alla conoscenza dei fatti medesimi; obiettiva e serena esposizione della notizia.
Diritto di sciopero (caso 21). Esiste un limite interno e un limite esterno, costituzionale. Conflitto tra
l’esercizio del diritto di sciopero in forma di c.d. picchettaggio e la libertà dei non scioperanti di recarsi
al lavoro. Sul diritto di picchettaggio si registrano orientamenti contrastanti. Jus corrigendi. Art. 571
punisce l’abuso di mezzi di correzione. Lo jus c. può essere delegato dai genitori ad altri soggetti
(maestri), ma non può essere arbitrariamente esercitato da persone estranee. Offendicula. Sono i mezzi
di tutela della proprietà (cocci di vetro sui muri di cinta, filo spinato, ecc.). L’impiego degli off. viene
giustamente subordinata all’esistenza di un rapporto di proporzione tra mezzo usato e bene da difendere.

Adempimento di un dovere (51 c.p.)


L’art. 51 stabilisce altresì che l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un
ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità. Ratio: esigenza di rispettare il
principio di non contraddizione all’interno dello stesso ordinamento giuridico. Il dovere può
scaturire o da una norma giuridica o da un ordine legittimo della P.A.:
a) Dovere imposto da una norma giuridica: va intesa nel senso più lato, come comprensiva, cioè,
di qualsiasi precetto giuridico del potere legislativo od esecutivo. In virtù dell’art. 10 cost., il dovere
scriminante potrà trovare la sua fonte anche in un ordinamento straniero, purché il diritto
internazionale imponga che tale dovere sia riconosciuto come valido anche dallo Stato italiano.
b) Dovere imposto da un ordine dell’Autorità: l’ordine consiste nella manifestazione di volontà
che un superiore rivolge ad un subordinato, in vista del compimento di una data condotta. Perché
l’esecuzione dell’ordine possa assumere efficacia esimente ex art. 51, è necessario che tra il
superiore e l’inferiore intercorra un rapporto di subordinazione di diritto pubblico, mentre non
scrimina se il rapporto di subordinazione è di tipo privato (caso 22). Ma la punibilità potrebbe venir
meno sul piano della colpevolezza in caso di forte condizionamento del subordinato privato. Si
discute se questo ordine debba provenire solo da un pubblico ufficiale oppure anche dagli incaricati
di pubblici servizi o da soggetti esercenti servizi di pubblica necessità. Ai fini della non punibilità
non basta l’esistenza di un ordine, ma occorre che questo sia legittimo.
Presupposti formali:
- competenza del superiore ad emanare l’ordine
- competenza dell’inferiore ad eseguirlo
- forma prescritta.
Presupposti sostanziali:
- esistenza dei presupposti stabiliti dalla legge per l’emanazione dell’ordine (es. l’emanazione di
un’ordinanza di custodia cautelare presuppone che sussistano sufficienti indizi di colpevolezza a
carico del destinatario del provvedimento). Il legislatore esclude la punibilità quando la legge non
consente all’inferiore alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine (art. 51, comma 4°). Se il
controllo di legittimità non viene effettuato dai subordinati legittimati a farlo, anche loro rispondono
penalmente dell’eventuale reato commesso in esecuzione dell’ordine illegittimo. Non risponde
l’inferiore se :
- per errore di fatto ha ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.
- Se la legge non gli dà alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine. Quanto più aumenta la
subordinazione gerarchica, altrettanto diminuisce il potere del subordinato di sindacare la legittimità
sostanziale dell’ordine. La dottrina ritiene che, stando in uno stato democratico, competa al
subordinato il diritto – dovere di controllare la conformità sostanziale dell’ordine alla legge.
Dottrina e giurisprudenza però dicono che vi è un limite all’impossibilità di sindacare la legittimità
sostanziale dell’ordine da parte dello stesso inferiore vincolato alla pronta obbedienza: - tale limite
viene individuato nella manifesta criminosità dell’ordine medesimo.
Legittima difesa (52 c.p.)
Art.52: non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di
difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la
difesa sia proporzionata all’offesa. La L.D. rappresenta un residuo di AUTOTUTELA che lo Stato
concede al cittadino, nei casi in cui l’intervento dell’Autorità non può risultare tempestivo (vim vi
repellere licet). Struttura della legittima difesa ruota attorno a due comportamenti che si
contrappongono:
- condotta aggressiva
- condotta difensiva.
CARATTERISTICHE AGGRESSIONE: la minaccia deve provenire da una condotta umana, o
da altro (animali o cose), a patto che sia individuabile un soggetto che ha l’obbligo di vigilanza. In
tal caso l’esimente si applicherà sia a favore di chi reagisce direttamente contro l’animale o la cosa,
sia a favore di chi reagisce contro l’obbligato alla custodia.
- Può provenire anche da una condotta omissiva: (es. Tizio impugna un arma per far intimare a Caio
di ritirare l’animale feroce);
- l’aggressione giustifica la reazione anche se l’aggressore è un soggetto minore o non imputabile.
Oggetto dell’aggressione: l’attacco deve avere ad oggetto un diritto altrui. Necessità dell’ attualità
del pericolo, perché se non fosse attuale (ma un pericolo corso e quindi di non prevenire un’offesa,
né un pericolo futuro) si potrebbe chiamare l’autorità. Nella nozione di pericolo attuale deve farsi
rientrare anche il pericolo perdurante: lo si riscontra non solo nei reati permanenti, ma anche in
quei casi in cui non si è ancora completato il trapasso dalla situazione di pericolo a quella di danno
effettivo. Giurisprudenza e dottrina inclinano a ritenere che la scriminante non sia invocabile se la
situazione di pericolo è volontariamente cagionata dal soggetto che reagisce, poiché concorrono
entrambi a creare la situazione di pericolo. Se ne deduce che l’art. 52 è inapplicabile al provocatore,
a chi accolga una sfida o affronti una situazione di rischio prevista ed accettata. La legittima difesa
viene di regola esclusa in caso di rissa, posto che i partecipanti sono spinti da un reciproco intento
aggressivo. La scriminante della l. d. va concessa anche al ladro del caso 24.
OFFESA INGIUSTA: è cioè provocata contra ius. Non può invocare la legittima difesa chi
pretende di reagire contro una persona la quale agisca, a sua volta, nell’esercizio di una
facoltà legittima espressamente stabilita dall’ordinamento o, a fortiori, nell’adempimento di
un dovere. La reazione e’ giustificata solo in presenza di due requisiti:
1° REQUISITO DELLA NECESSITA’. La difesa deve apparire necessaria per salvaguardare il
bene posto in pericolo; il giudizio di necessità - inevitabilità non è assoluto ma relativo, bisogna
tener conto di tutte le circostanze del caso concreto, es. forza fisica delle persone coinvolte,
condizioni del tempo, ecc. Si discute se la legittima difesa sia applicabile ove l’aggredito possa
mettersi in fuga. Nel passato si distingueva tra fuga e commodus discessus: in questo senso si
sarebbe tenuti a fuggire soltanto se non si appare vili. Il nodo va sciolto sulla base del bilanciamento
degli interessi. Il soggetto non è tenuto a fuggire nei casi in cui la fuga esporrebbe sé e i suoi beni a
rischi maggiori. La salvaguardia della dignità personale, però, non potrà giustificare l’uccisione o il
ferimento dell’aggressore da parte di chi poteva benissimo fuggire.
2° REQUISITO DELLA PROPORZIONE TRA DIFESA E OFFESA: occorre operare un
bilanciamento tra il bene minacciato e il bene leso, con la conseguenze che all’aggredito che si
difende non è consentito di ledere un bene dell’aggressore marcatamente superiore a quello posto in
pericolo dall’iniziale aggressione illecita. Il caso 25 esemplifica un caso di legittima difesa putativa,
ma manca la responsabilità penale in base all’art. 59, ultimo comma (se l’agente ritiene per errore
che esista una causa di giustificazione, questa è valutata a suo favore). La disciplina codicistica
della legittima difesa è stata innovata con la l. 13 febbraio 2006, n. 59, la quale ha aggiunto all’art.
52 due nuovi commi destinati appositamente a regolamentare l’esercizio del “diritto all’autotutela in
un privato domicilio”: lo scopo perseguito dal legislatore tende ad ampliare i presupposti di una
difesa legittima nei casi in cui l’aggressore sorprende, appunto, l’aggredito in casa o in altro luogo
chiuso assimilabile. Modifica di disciplina del requisito della proporzione: nel senso che, quando
la reazione difensiva è diretta contro un “intruso” in una privata dimora, il giudice è dispensato dal
verificare in concreto la “proporzione tra offesa e difesa, essendo d’ora in avanti il requisito
della proporzione, in questi casi, legislativamente presunto juris et de jure”. Struttura
normativa, sussiste il rapporto di proporzione se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi
ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: la
propria o altrui incolumità; i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è “pericolo
di aggressione”. Anche quando il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga
esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Presupposti necessità di
difendersi, pericolo attuale, presunzione di proporzione, contesto situazionale in cui l’aggredito
viene sorpreso. Deve esserci il fine di difendere l’incolumità e il fine di difendere i beni; pericolo di
aggressione.

Uso legittimo di armi (53 c.p.)


Art. 53 1° comma: non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere ad un proprio
dovere d’ufficio, fa uso o ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando
vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e
comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro
aviatorio, omicidio volontario, rapina a mano armata, sequestro di persona. Carattere sussidiario
scriminante, il requisito della necessità va interpretato nel senso che il pubblico ufficiale deve
impiegare, tra i mezzi idonei a disposizione, quello meno lesivo e soltanto ove difettino i
presupposti della legittima difesa o dell’adempimento del dovere. Occorre, inoltre, la qualità di
pubblico ufficiale del soggetto (agenti di P.S., polizia giudiziaria, aimilitari in servizio di P.S.: non
quindi, incaricati di pubblico servizio, esercenti un servizio dipubblica necessità). Il fine perseguito
dal pubblico ufficiale deve essere quello di “adempiere un dovere del proprio ufficio”. Il ricorso
alla coazione fisica è giustificato, innanzitutto, di fronte alla “necessità di respingere una violenza
o di vincere una resistenza all’Autorità”: tale necessità sussiste quando il pubblico ufficiale non
ha altra scelta, per adempiere al proprio dovere, all’infuori di quella di far uso di un mezzo
coercitivo. La violenza deve coesistere in un comportamento attivo, in atto, tendente a frapporre
ostacoli all’adempimento del dovere di ufficio. Deve essere un comportamento violento “in atto”.
Differenza tra violenza e minaccia: la violenza, secondo alcuni, abbraccia anche la coercizione
psichica. Più controvertibile appare la resistenza. Si insegna tradizionalmente che la resistenza deve
essere attiva: non basterebbe una resistenza passiva (di tipo pacifico) o la fuga per sottrarsi ad una
cattura. Si tratta di richiedere un rapporto di proporzione tra i mezzi di coazione impiegati e il tipo
di resistenza da vincere. La fuga rappresenta un’ipotesi tipica di resistenza passiva che come tale
esclude il ricorso alle armi: è questo il caso 26, dove non è scusabile il ricorso alle armi.

Stato di necessità (54 c.p.)


Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se od
altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente
causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. DIFFERENZA
TRA LEGITTIMA DIFESA: si reagisce contro un aggressore che minaccia di offendere un nostro
diritto. STATO DI NECESSITÀ: si agisce per sottrarsi al pericolo di un danno grave alla persona
e l’azione difensiva ricade su un terzo estraneo (ad es.: Tizio per sottrarsi all’aggressione di Caio,
fugge con la macchina di Sempronio, del tutto estraneo oppure l’alpinista che fa precipitare il
compagno legato alla stessa corda che minaccia di spezzarsi per il peso dei due).
Ratio della scriminante dello stato di necessità
Per molto tempo la dottrina ha considerato lo stato di necessità come causa di esclusione della
colpevolezza, muovendo dal presupposto che la ratio dell’istituto fosse da rinvenire
nell’impossibilità di esigere umanamente un comportamento diverso da quello tenuto. È oggi di
ostacolo l’equiparazione di disciplina tra l’azione necessitata diretta a porre in salvo un bene dello
stesso agente e quella diretta, invece, a difendere un bene di una terza persona (c.d. soccorso di
necessità), pur esso contemplato dal comma 1° dell’art. 54 (salvare altri dal pericolo). L’idea dell’
inesigibilità psicologica di una condotta diversa può, indubbiamente, giustificare la non punibilità di
chi agisca per mettere in salvo sé medesimo, o un congiunto, ma non sarebbe in grado di spiegare
perché debba andare esente da pena colui il quale agisce in modo necessitato per salvare un estraneo
o uno sconosciuto. Si comprende, allora, come la dottrina in atto dominante ricerchi la ratio della
scriminante nella mancanza di interesse dello Stato a salvaguardare l’uno o l’altro dei beni in
conflitto, posto che uno dei bene deve, comunque, essere sacrificato: in base al principio del
bilanciamento degli interessi, è, però, necessario che il bene sacrificato sia di rango uguale o
equivalente o di poco superiore a quello salvato.

Analogie tra stato di necessità e legittima difesa


Lo S. di N. presenta forti analogie con la legittima difesa, ma se ne differenzia per due elementi
fondamentali :
- L’ azione necessitata si dirige contro un individuo innocente, non responsabile della situazione
di pericolo che si viene a creare.
- L’azione giustificata non deve tendere a salvaguardare un qualsiasi diritto, come nella l.d., ma
soltanto il pericolo attuale di un danno grave alla persona.
- Requisito dell’attualità del pericolo: è richiesto anche nella l.d. ma, non di rado, è opportuno
agire anticipatamente per impedire l’aggravamento del pericolo.
- Requisito della involontarietà del pericolo: art. 54 richiede che il pericolo sia non
volontariamente causato, né altrimenti evitabile.
- Requisito della inevitabilità – altrimenti del pericolo: questo rafforzativo della necessità di
salvare sé o altri da un danno grave alla persona, sta a indicare che non solo può scriminare
unicamente la condotta che arreca il minor danno al terzo coinvolto senza sua colpa, ma che la
valutazione della inevitabilità stessa va effettuata in concreto con criteri più rigorosi rispetto alla
legittima difesa.
- Stato di necessità e bisogno economico. La Cassazione giunge alla conclusione di ritenere per lo
più inapplicabile l’art. 54 nei casi di bisogno economico, dal momento che a questi bisogni può far
fronte la moderna organizzazione sociale. Ma nel caso 27 si applica l’art. 54, stante il precario stato
di salute.
- Requisito del danno grave alla persona. Una parte, minoritaria, della dottrina limita la portata di
questo requisito solo alla vita e alla lesione grave. La parte maggioritaria include anche i danni alla
personalità morale dell’uomo (quali la libertà personale e sessuale, taluno esclude ora il pudore ora
l’onore). Secondo il F – M il pericolo deve avere ad oggetto un danno grave alla persona : cioè
qualsiasi lesione minacciata ad un bene personale giuridicamente rilevante, si tratti di un bene
tutelato nell’ambito penale o extrapenale.
- Misurazione della gravità del danno. Può essere determinata mediante un duplice indice:
- Criterio qualitativo : considerando l’eventuale rango del bene minacciato.
- Criterio quantitativo : tenendo conto del grado di pericolo che incombe sul bene.
- Rapporto di proporzione tra fatto e pericolo. Il giudizio di p. deve avere ad oggetto il rapporto
di valore tra i beni confliggenti: in questo senso bisogna che il bene minacciato prevalga rispetto a
quello sacrificato o, almeno, gli equivalga.
- Criterio di accertamento del rapporto di proporzione. Attraverso un accertamento ex ante,
bisogna integrare il raffronto di valore dei beni con l’esame comparativo dei rischi rispettivamente
incombenti sul bene da salvaguardare e su quello che viene aggredito. In sede di giudizio di
proporzione si può adottare questo criterio – base: quando il rischio maggiore è quello gravante
sull’interesse del terzo innocente, il rapporto di valore tra i beni dev’essere proporzionalmente a
vantaggio di quello da salvaguardare. Quando, invece, il bene di maggior peso è quello aggredito, il
rapporto tra i rischi deve essere proporzionalmente a vantaggio di quello salvaguardato.
- STATO DI NECESSITA’ E OPERATO DEGLI ORGANI PUBBLICI. Si pone il problema se
la scriminante dello stato di necessità sia invocabile dagli organi pubblici per giustificare interventi
autoritativi che esulano dai poteri loro formalmente attribuiti. La soluzione è, in linea di massima,
negativa giacché concedere spazio allo s. di n. significherebbe rinunciare al rispetto del principio di
legalità nell’operato degli organi pubblici. Caso 28: invocare lo s. di n. per giustificare la violenza
inquisitoria significherebbe dimenticare che, in uno Stato democratico, gli strumenti della ricerca
della verità sono dalla legge processuale regolati a garanzia dell’inviolabilità delle persone
sottoposte a restrizioni di libertà.
- SOCCORSO DI NECESSITA’. L’ art. 54, 1° comma, contempla anche l’ipotesi del c.d.
soccorso di necessità, la quale ricorre se l’azione necessitata è compiuta non dallo stesso soggetto
minacciato, ma da un terzo soccorritore. Vi sono, però, casi di soccorso che rientrano nella più
incisiva scriminante dell’ adempimento di un dovere: si pensi, ad esempio, all’obbligo previsto
dall’art. 593 (Omissione di soccorso).
- Stato di necessità e dovere di esporsi al pericolo. La scriminante dello s. di n. non si applica a
chi ha un particolare giuridico di esporsi al pericolo: es. vigili del fuoco, guardie alpine, ecc. La
scriminante è applicabile se chi ha questo dovere realizza un’azione necessitata per salvare non se
stesso, ma terzi in pericolo. Il dovere di esporsi al pericolo può discendere direttamente dalla legge
oppure da un atto di natura contrattuale.
- Coazione morale. Art. 54, ultimo comma: se lo stato di necessità è determinato da altrui
minaccia, del fatto risponderà la persona che ha costretto il soggetto a commettere il fatto. Es.
automobilista che provoca un incidente perché spinto a correre sotto la minaccia di una pistola.
- RESPONSABILITÀ CIVILE. Nello s. di n., a differenza che nella legittima difesa (art. 2044
c.c.), ai sensi dell’art. 2045 cc, al danneggiato è dovuta un’indennità la cui misura è rimessa
all’equo apprezzamento del giudice. La ragione sta nel fatto che l’azione necessitata arreca
pregiudizio ad un soggetto non responsabile della situazione di pericolo.

CAPITOLO 3: LA COLPEVOLEZZA

Nozioni generali
Perché sia punibile il fatto commissivo deve essere non solo tipico e antigiuridico, ma anche
colpevole: la COLPEVOLEZZA è dunque il terzo elemento costitutivo fondamentale del reato
(nulla poena sine culpa). Principio-cardine del sistema penale. L’uomo è in grado, a differenza
degli animali, grazie ai suoi poteri di signoria (i c.d. strati superiori della personalità), di
controllare gli istinti e di reagire agli stimoli del mondo esterno, di effettuare delle scelte. È dunque
viene considerato il reato come “opera” dell’agente, e rivolgergli un rimprovero per averlo
commesso. Il ruolo centrale del principio di colpevolezza è confermato dalla sua rilevanza
costituzionale che si desume dall’art. 27, 1° comma Cost.: la responsabilità penale è personale.
Cioè il legislatore costituzionale, nell’affermare che la responsabilità è personale, ha espresso il
principio, secondo cui l’applicazione della pena presuppone l’attribuibilità psicologica del singolo
fatto di reato alla volontà antidoverosa del soggetto. Come anche la Corte Cost. ha ormai chiarito
(sent. 364/88 e 1085/88), l’imputazione soggettiva del fatto criminoso può considerarsi veramente
conforme al principio di “personalità”, a condizione che il fatto stesso sia attribuibile all’autore
almeno a titolo di colpa (se non di dolo). La responsabilità personale (art. 27/1) è sinonimo di
responsabilità per un fatto proprio colpevole. Il ruolo della colp. è altresì confermato, sempre a
livello cost., dal collegamento sistematico tra il comma 1° e 3° dell’art. 27 Cost. che sancisce il
finalismo rieducativo della pena. Il nesso che intercorre tra principio di rieducazione e il principio
di colpevolezza sta nel fatto che, se fosse sufficiente, ai fini dell’assoggettamento a pena, il
semplice fatto di cagionare materialmente un evento lesivo, e nessun “rimprovero”, la pretesa
“rieducativa” dello Stato non avrebbe più molto senso. La Corte costituzionale ha stabilito che
“comunque si intenda la funzione rieducativa, essa postula almeno la colpa dell’agente in
relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la rieducazione di
chi, non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto), non ha certo bisogno di essere rieducato”.
L’idea della colpevolezza presuppone il rifiuto della responsabilità per l’evento (responsabilità c.d.
oggettiva): ciò equivale a bandire ogni forma di responsabilità per accadimenti dovuto al mero caso
fortuito. Il rimprovero di colpevolezza implica che si presupponga come esistente una possibilità di
agire diversamente da parte del soggetto cui il fatto viene attribuito (il soggetto non è in grado di
signoreggiare il verificarsi degli eventi). Differenza tra dolo (volontarietà del fatto) e colpa
(involontarietà del fatto), cioè la forma più grave e più lieve di colpevolezza. Deve esserci una
proporzione tra forme di colpevolezza e intensità della risposta sanzionatoria. La colpevolezza può
significare solo colpevolezza per il fatto, per aver commesso il fatto lesivo di un bene penalmente
protetto. È inammissibile la figura della colpa d’autore, nella duplice versione della
“colpevolezza per il carattere” e della “colpevolezza per la condotta di vita”. Per la prima si
muove l’addebito di non aver frenato in tempo le pulsioni antisociali; la seconda teoria pretende di
incentrare il giudizio di disapprovazione sullo stesso modello o stile di vita e sulle scelte esistenziali
del reo, che starebbero all’origine della sua inclinazione al delitto. Tradizionalmente, il concetto di
colpevolezza si contrappone a quello di pericolosità sociale: il primo, che concerne soltanto i
soggetti capaci di intendere e di volere, esprime un rimprovero per la commissione di un fatto
delittuoso; il secondo privilegia la personalità dell’autore e fa riferimento alla probabilità che
l’autore continui a delinquere in futuro. Corrispondentemente, mentre la colpevolezza costituisce
presupposto della applicazione della pena in senso stretto, la pericolosità giustifica la applicazione
di una misura di sicurezza.

LA CONCEZIONE PSICOLOGICA. Manifestamente influenzata dal liberalismo, la


colpevolezza è il rapporto psicologico tra l’agente e l’azione che cagiona un evento voluto, o
non voluto, ancorché non preveduto, ma prevedibile. La concezione psicologica esprime
l’esigenza di circoscrivere la colpevolezza all’atto di volontà relativo al singolo reato.

LA CONCEZIONE NORMATIVA DELLA COLPEVOLEZZA. Essa si sviluppa soprattutto


per rimediare agli inconvenienti dogmatici della concezione psicologica. Istanza di riportare all’idea
di colpevolezza il peso che assumono i motivi dell’azione e le circostanze in cui essa si realizza.
Non ogni fatto “volontario” merita lo stesso rimprovero; come pure tra i fatti “involontari” ve
ne sono di più gravi e meno gravi. Concetto di colpevolezza idoneo a fungere anche da criterio di
commisurazione giudiziale della pena facendo da ponte tra l’elemento costitutivo del reato,
accanto alla tipicità e antigiuridicità, e della valutazione della gravità del fatto criminoso, ai fini
della determinazione della pena. (colpevolezza= criterio di commisurazione della pena).
Colpevolezza che consiste nella valutazione “normativa” di un elemento psicologico e
precisamente nella rimproverabilità dell’atteggiamento psicologico tenuto dall’autore. Elemento
comune tra dolo e colpa è costituito dall’atteggiamento antidoveroso della volontà. In un
moderno Stato, lo strumento penale non può pretendere di imporre coattivamente l’osservanza di
semplici concezioni morali o religiose, quindi la colpevolezza non può che tradursi in un
rimprovero per il fatto di aver commesso azioni dannose socialmente. L’orientamento attuale è che
la colp. ha la funzione anche di distogliere altri dal commettere reati (prevenzione generale)
ovvero che lo stesso autore torni a delinquere (prevenzione speciale). Colpevolezza: insieme dei
criteri dai quali dipende la possibilità di muovere un rimprovero all’agente per aver commesso il
fatto antigiuridico.

Struttura della colpevolezza


La concezione normativa oggi dominante afferma che è colpevole un soggetto imputabile, il quale
abbia realizzato con dolo o colpa la fattispecie obiettiva di un reato, in assenza di circostanze tali da
rendere necessitata l’azione illecita. I presupposti della colpevolezza sono: Imputabilità, dolo o
colpa, conoscibilità del divieto penale, assenza di cause di esclusione di colpevolezza. Secondo
l’Antolisei, l’imputabilità rappresenterebbe un modo di essere, uno status della persona necessario
perché l’autore del reato sia assoggettabile a pena; la mancanza di imputabilità, di conseguenza,
opererebbe semplicemente come causa personale di esenzione da pena. Vi è anche chi considera
l’imputabilità come un aspetto della capacità giuridica penale. Il dolo e la colpa di per sé non
esauriscono il concetto di colpevolezza in senso normativo, che richiede ulteriori elementi nella
prospettiva del rimprovero. Il dolo e la colpa del soggetto inimputabile non possono coincidere col
dolo o la colpa del soggetto capace di intendere e di volere.

Imputabilità
Se la colp. presuppone una consapevole capacità di scelta tra diverse alternative di azione, allora
l’imputabilità costituisce, necessariamente, la prima condizione per esprimere la disapprovazione
soggettiva del fatto tipico e antigiuridico commesso dall’agente. Il codice penale all’art. 85
definisce l’imputabilità come capacità di intendere e volere. L’odierno giurista è ormai ben
consapevole che la volontà umana è soggetta a molteplici condizionamenti: una volontà libera,
intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste. La volontà
umana può definirsi libera, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi
psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca a fare delle scelte, su cui
possono esserci dei condizionamenti. Ai fini della stessa efficacia deterrente del diritto penale, è
dunque necessario che il timore di poter incorrere in una sanzione punitiva eserciti sull’agente
un “condizionamento” idoneo a indurlo a non delinquere. L’imputabilità come categoria
penalistica ha alla base giustificazioni diverse. Ne abbiamo, all’inizio, evidenziato lo stretto
rapporto con la colpevolezza. Ed invero questo nesso cresce quanto più si accentui la dimensione
normativa della colpevolezza, e, cioè, se ne sottolinei la componente di rimprovero o
disapprovazione del soggetto per aver commesso un fatto che non avrebbe dovuto
commettere. La disapprovazione, il rimprovero non avrebbero, infatti, senso se rivolti a soggetti
del tutto privi della possibilità di agire diversamente. Ma il fondamento penalistico
dell’imputabilità, quali che ne siano i nessi con la colpevolezza, è a maggior ragione rinvenibile sul
terreno delle funzioni della pena. Se la minaccia della sanzione punitiva deve esercitare
un’efficacia preventiva, un necessario presupposto è che i destinatari siano psicologicamente
in grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa. Tale motivabilità normativa, intesa come
attitudine a recepire l’appello della norma penale, non è presente allo stesso modo in tutti gli
individui: i soggetti immaturi come i minori fino a un certo limite di età, e le persone inferme di
mente e assimilabili, sono infatti a tutt’oggi da considerare incapaci di subire la coazione
psicologica della pena o, comunque incapaci di subirla nella stessa misura in cui l’avvertono gli
adulti mentalmente sani.

La capacità di intendere e volere


Il concetto di imputabilità è, al tempo stesso, empirico e normativo. Spetta, innanzitutto, alle
scienze del comportamento umano individuare i presupposti empirici (cioè l’insieme dei requisiti
bio-psicologici, degli attributi, delle attitudini, ecc.), in presenza dei quali sia fondato asserire che
l’essere umano è in grado di recepire il messaggio o appello contenuto nella sanzione punitiva.
L’art. 85 c.p. fissa i presupposti dell’imputabilità nella capacità di intendere e volere: tale duplice
capacità deve sussistere al momento della commissione del fatto che costituisce reato. Lo stesso
legislatore puntualizza la disciplina dell’istituto attraverso il riferimento ad alcuni parametri
legalmente predeterminati: l’età del soggetto (art. 97 – 98) e l’assenza di infermità mentale (art.
88) o di altre condizioni capaci di incidere sull’autodeterminazione responsabile dell’agente (art. 95
– 96, sordismo, cronica intossicazione alcoolica ecc.) capaci di incidere sull’autodeterminazione
responsabile dell’agente. Ma le cause codificate di esclusione dell’imputabilità non sono tassative,
nel senso che possono esserci altri motivi legislativamente non previsti come, ad es., uno sviluppo
intellettuale gravemente deficitario. L’imputabilità difetta nel momento in cui manca anche una sola
capacità (di intendere e di volere). La capacità d’intendere può essere definita come la capacità
di comprendere il significato del proprio comportamento e di valutarne le possibili
ripercussioni positive o negative sui terzi. Tale capacità manca nelle ipotesi di sviluppo
intellettivo così ritardato o deficitario da precludere al soggetto il potere di orientarsi nel rapporto
col mondo esterno.

Minore età
L’art. 97 dispone che “non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva
compiuto i 14 anni”. È stata, così, introdotta una presunzione di incapacità di natura assoluta
perché non è ammessa la prova contraria. Rispetto ai minori ricompresi tra i 14 e i 18 anni, L’art. 98
1° comma dispone che “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva
compiuto i 14 anni, ma non ancora i 18, se aveva capacità di intendere e volere; ma la pena è
diminuita”. È il giudice che deve accertare in concreto, volta per volta, se il minore è imputabile o
no. Secondo l’orientamento consolidato, l’incapacità minorile non presuppone necessariamente
l’infermità mentale, perché si tratta di una situazione di immaturità (inadeguato sviluppo della
coscienza morale). La capacità di intendere e di volere è, invece, presunta dal legislatore al
compimento del 18° anno di età: si tratta di una presunzione relativa, perché la capacità è
esclusa o diminuita in presenza del vizio totale o parziale di mente o delle altre cause
legislativamente previste.

Infermità di mente
L’art. 88 dispone che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per
infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere. Non basta
accertare una malattia mentale per dedurre automaticamente la non imputabilità del soggetto, ma
occorre verificare se la malattia stessa ne comprometta la c. di i. e v. CONCETTO DI
INFERMITA’. Il disturbo deve avere in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la
capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento
punitivo. L’infermità può avere origine anche da una malattia fisica, sia pure a carattere transitorio,
purché produttiva di vizio di mente. Da notare che gli art. 88 e 89 parlano non già di infermità
mentale, ma di infermità tale da provocare uno stato di mente che esclude l’imputabilità. Un
indirizzo giurisprudenziale ancor oggi diffuso tende a ricostruire il concetto di malattia mentale
secondo un modello medico, ma, un altro orientamento giurisprudenziale attribuisce significato
patologico anche alle alterazioni mentali atipiche dette psicopatie, disarmonie della personalità,
quali le c.d. reazioni a corto circuito esemplificate dal caso 30. Anche i disturbi della personalità,
che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel
concetto di infermità, purché incidano concretamente sulla capacità di intendere o di volere.
STATI EMOTIVI E PASSIONALI. Art. 90 c.p. dispone che gli stati emotivi e passionali non
escludono né diminuiscono l’imputabilità. DIVERSI GRADI DEL VIZIO DI MENTE. Il codice
distingue diversi gradi del vizio di mente. In base al disposto dell’art. 88 il vizio di mente è totale
se l’infermità, di cui il soggetto soffre al momento della commissione del fatto è tale da escludere
del tutto la capacità di intendere e di volere. La capacità di i. e di v. può essere esclusa anche da una
infermità transitoria, purché sia sempre tale da far venire meno i presupposti dell’imputabilità.
Caso 29. Per converso, nella prassi applicativa (es. nell’epilessia) si propende per una possibile
affermazione di responsabilità nei c.d. intervalli di lucidità sufficientemente lunghi. A seguito
dell’abolizione della pericolosità presunta, all’imputato prosciolto per vizio totale di mente la
misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario può essere applicata soltanto
previo accertamento concreto della sua pericolosità sociale. VIZIO PARZIALE DI MENTE. La
capacità di i. e di v. è diminuita in presenza di un vizio parziale di mente. A norma dell’art. 89
risponde ugualmente, ma la pena è diminuita. Se socialmente pericoloso si applicherà la misura di
sicurezza dell’assegnazione a una casa di cura e di custodia. La distinzione tra le due forme di vizio
mentale, totale e parziale, è affidata a un criterio non qualitativo, ma quantitativo, considerandosi il
grado e non l’estensione. Il v. p. di m. è compatibile con le aggravanti della premeditazione e dei
motivi abietti e futili, come pure con l’attenuante della provocazione e con le circostanze attenuanti
generiche.
Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti
Il codice prevede un trattamento articolato in base alla causa dello stato di u. (o di intossicazione da
stupefacenti).
a) L’ubriachezza esclude l’imputabilità solo se dovuta a caso fortuito o forza maggiore: se l’u. è tale
da far scemare, senza escluderla, la capacità di i. e di v., la pena è diminuita (art. 91). Questo caso si
definisce ubriachezza accidentale. Es. l’operaio di una distilleria che si ubriaca in un ambiente
saturo di vapori alcoolici a causa di un guasto dell’impianto e simili. La medesima disciplina vale
per l’intossicazione accidentale da stup. (art. 93).
b) Non fa scemare, invece, né esclude l’imputabilità l’ubriachezza volontaria o colposa (art.
92, comma 1°). Anche per l’intossicazione da stupefacenti. La ratio della disposizione è che chi si
ubriaca volontariamente o per leggerezza non può pretendere di accampare scuse: se realizza un
reato, deve rispondere come se fosse pienamente capace di intendere e di volere. Una parte della
dottrina meno recente, riproponendo lo stesso schema della actio libera in causa, sosteneva che
bisognasse risalire al momento in cui l’ubriaco si pone in condizioni di ubriacarsi volontariamente o
involontariamente. Ma l’orientamento in atto propende per una soluzione diversa: si ritiene cioè che
il dolo o la colpa dell’ubriaco vadano accertati con riferimento al momento nel quale il reato in
questione viene commesso.
c) Art. 92, comma 2°. L’ubriachezza è preordinata (e comporta un aumento di pena) quando è
provocata al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa. Questa ipotesi costituisce una
esemplificazione del principio contenuto nell’art. 87. In questo caso il soggetto si ubriaca proprio
allo scopo di commettere un reato: ciò perché lo stato di ubriachezza facilità la commissione di un
fatto criminoso che lo stesso soggetto non sarebbe capace di commettere.
d) Art. 94, comma 1° e 3°. L’ubriachezza abituale comporta, addirittura, un aumento di pena,
nonché la possibilità di applicare la misura di sicurezza della casa di cura e di custodia ovvero della
libertà vigilata. L’abitualità è subordinata al ricorrere dei due presupposti della dedizione all’uso
eccessivo di bevande alcooliche e del frequente stato di ubriachezza.
e) Art. 95. I legislatori del codice, mossi dalla preoccupazione repressiva e preventiva di arginare il
duplice vizio dell’alcoolismo e della tossicomania, hanno stabilito che tanto l’uno che l’altra
possono arrivare ad escludere la capacità di i. e v. soltanto nel caso estremo della intossicazione
cronica.

Sordomutismo
Art. 96 dispone che non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto,
non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di intendere e volere. Se la capacità di i. e
v. era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita. Questa norma non può essere
applicata nei casi di solo mutismo o di sola sordità, ma occorre che sussistano entrambe le affezioni.

Actio libera in causa


Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La locuzione latina actio libera in causa indica il fenomeno che si verifica allorquando taluno si
pone in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso
viene applicata la pena, sebbene chi abbia commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e
di volere al momento del compimento della condotta. La teoria delle actiones liberae in causa era
già utilizzata in diritto canonico dai moralisti della tradizione cristiana per giustificare l'applicazione
della pena nei casi di peccati commessi da soggetti incapaci di intendere o di volere, che si erano
posti volontariamente in stato di incoscienza al fine di commettere il peccato o di scusarne la
condotta. L'ubriaco, dunque, doveva rispondere non solo dell'ubriachezza, ma anche di ogni atto
illecito commesso nello stato di ubriachezza, sebbene compiuto con incoscienza. Nel diritto italiano
la teoria è stata accolta nell'art. 87 del codice penale ai sensi del quale: «la disposizione della
prima parte dell'art. 85 non si applica a colui che si è messo in stato di incapacità di intendere
e di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa». In pratica i requisiti del
dolo e della colpa vengono valutati non al momento in cui il soggetto compie l'azione, ma in un
momento precedente, ossia quando il soggetto si pone in stato di incapacità. La ratio della teoria
delle actiones liberae in causa sta allora nel principio causa causae est causa causati: chi
determina volontariamente una situazione dalla quale deriva un evento lesivo, è chiamato a
rispondere dell'evento stesso, a prescindere dalla eventuale volontarietà dell'evento. Ai fini della
punibilità, occorre che il reato concretamente posto in essere sia del tipo di quello inizialmente
programmato.

Struttura e oggetto del dolo


Il dolo rappresenta il normale criterio di imputazione soggettiva, come si desume dall’ art. 42,
comma 2°, ove è stabilito che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come
delitto se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale, espressamente
preveduti dalla legge. Gli altri casi di imputazione soggettiva, cioè, la colpa e la preterintenzione,
operano, invece, solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Art. 42, comma 4°. Nelle
contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa
dolosa o colposa.
Funzioni e definizione legislativa del dolo
Il dolo assolve a varie funzioni nel processo di imputazione penale.
a) Rappresenta un elemento costitutivo del fatto tipico, cioè la volontà dell’imputato che si è
realizzata.
b) Connota la forma più grave della colpevolezza. Chi agisce con dolo aggredisce il bene
protetto in maniera più intensa di chi agisce con colpa.
DEFINIZIONE LEGISLATIVA DEL DOLO. L’art. 43/1, stabilisce che il delitto è doloso, o
secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, omissis, è dall’agente preveduto e
voluto come conseguenza della propria azione od omissione. Secondo la definizione legislativa, la
nozione del dolo si incentra su tre elementi: previsione, volontà (sono gli elementi strutturali che
attengono al soggetto), evento (dannoso o colposo, che attiene all’oggetto). La definizione del dolo
strutturato sull’intenzione scissa in previsione e volontà si sforza di attuare un compromesso tra le
due teorie della rappresentazione (previsione) e della volontà, ai tempi del codice Rocco.
TEORIA DELLA RAPPRESENTAZIONE - PREVISIONE. Concepiva la volontà e la
rappresentazione (o previsione) quali fenomeni psichici distinti: la volontà aveva ad oggetto solo il
movimento corporeo dell’uomo (es. l’atto fisico del premere il grilletto della pistola per uccidere),
mentre oggetto della rappresentazione era la modificazione del mondo esterno provocata dalla
condotta (es. evento-morte).
TEORIA DELLA VOLONTA’. Privilegiava l’elemento volitivo del dolo, nel convincimento che
potessero costituire oggetto di volontà anche i risultati della condotta e considerava la
rappresentazione un presupposto implicito della volontà. Per cui, la definizione del dolo contenuta
nell’art. 43 è, in ogni caso, parziale. Secondo una concezione ormai consolidata, il DOLO consta di
due componenti psicologiche: Rappresentazione (o coscienza o conoscenza o previsione) e
Volontà. Le due categorie vanno considerate in reciproco rapporto, dal momento che una volontà
non accompagnata dall’elemento intellettivo diventa cieca (nihil volitum nisi praecognitum). Le due
componenti si possono rappresentare graficamente in questo modo: volontà e la rappresentazione
sono inversamente proporzionali: più è grande l’una più è bassa l’altra e viceversa. Ad un alto
momento rappresentativo corrisponde una bassa volontà. L’elemento intellettivo del dolo consta
della rappresentazione o conoscenza degli elementi che integrano la fattispecie oggettiva: se il
soggetto non conosce o si rappresenta erroneamente un requisito del fatto tipico, la punibilità è
esclusa per mancanza del dolo. La componente conoscitiva del dolo può avere come punto di
riferimento i seguenti elementi della fattispecie:
- descrittivi: in questo caso è sufficiente che il soggetto sia a conoscenza degli elementi del mondo
esterno così come appaiono nella loro dimensione naturalistica. In altre parole, nei casi nei quali la
conoscenza può essere acquisita attraverso i sensi (es. morte , uomo , sessuale).
- normativi: per l’esistenza del dolo non basta che l’agente sia a conoscenza di meri dati di fatto,
ma deve rappresentarsi anche gli aspetti giuridici della situazione di fatto. In altre parole, gli
elementi normativi appartengono a concetti che esprimono qualità giuridiche sociali di un dato della
realtà (cosa altrui , matrimonio avente effetti civili). La conoscenza di questi concetti richiede la
mediazione di una norma giuridica. Non occorre la conoscenza del giurista, ma quella del profano,
ossia del comune cittadino. La rappresentazione o conoscenza si atteggia più precisamente a
previsione con riferimento agli accadimenti futuri che si prospettano come risultato della condotta
criminosa (ad es. la morte come conseguenza della condotta omicida). Nella previsione deve anche
rientrare il nesso causale tra azione ed evento. L’ art. 47 (ERRORE DI FATTO) esclude il dolo
per difetto di rappresentazione del fatto, mentre l’art. 59/4 (CIRCOSTANZE
ERRONEAMENTE SUPPOSTE) esclude il dolo dell’agente se non si rende conto del suo
carattere antigiuridico. La rappresentazione sufficiente ai fini del dolo è compatibile, in linea di
principio, con uno stato di dubbio in ordine a uno o più elementi di fattispecie: il dubbio infatti non
equivale né ad ignoranza né ad erronea conoscenza. Agendo, nonostante lo stato di incertezza, egli
finisce con l’accettare il rischio che la cosa sia veramente in proprietà di altri (se il dubbio riguarda
un caso di furto) e ciò significa un’imputazione a titolo di dolo. Ci si deve chiedere, altresì, se la
rappresentazione debba essere attuale in relazione a tutti i requisiti del fatto delittuoso o se basti
una conoscenza soltanto potenziale. E’ da respingere, perché astratta e razionalistica, la pretesa che
il dolo presupponga che l’agente si soffermi con il pensiero su ogni singolo elemento. Così ad es. è
da escludere che l’autore di una corruzione di minorenne debba, nel praticare l’atto sessuale,
pensare di compierlo proprio in presenza di un minore “infraquattordicenne”. L’autore della
corruzione di minorenne agirà con dolo se, pur non riflettendo attualmente sulla età della persona
offesa, era da tempo a conoscenza di tale dato. Momento rappresentativo è integrato anche nei casi
di dubbio, perché chi agisce in stato di dubbio ha un’esatta rappresentazione di quel dato della
realtà. Il dubbio è incompatibile quando la legge richiede una conoscenza piena e certa
dell’esistenza di un elemento del fatto. (es. calunnia). Ma qual è la soglia di consapevolezza
sufficiente per imputare il fatto a titolo di dolo? MOMENTO RAPPRESENTATIVO DEL
DOLO: esige la conoscenza di tutti gli elementi del fatto concreto che integra una figura di reato, e
tale conoscenza deve sussistere al momento in cui il soggetto inizia l’esecuzione dell’azione tipica.
La conoscenza deve essere effettiva, e non potenziale. Una conoscenza potenziale può rilevare solo
per la sussistenza della colpa, quando l’agente non si rende conto di quello che fa, ma potrebbe
rendersene conto usando criteri di diligenza. Invece è sufficiente che la conoscenza effettiva sia
presente nel momento in cui l’agente inizia l’esecuzione anche se non la mantiene per tutto il tempo
dell’azione. In, sintesi, la struttura del momento rappresentativo è la seguente: Non c’è dolo se
difetta la rappresentazione del fatto, cioè quando non si rappresenti la presenza di almeno uno degli
elementi del fatto come conseguenza di un’errata percezione sensoriale (errore di fatto) o di
un’errata interpretazione di norme giuridiche (errore di diritto), in questo caso solo se si tratta di
errore scusabile.

L’elemento volitivo
Il dolo non è semplice rappresentazione del fatto delittuoso, ma volontà consapevole di realizzare il
fatto tipico. Il momento volitivo, consiste nella risoluzione di realizzare l’azione, e tale risoluzione
deve essere presente nel momento in cui il soggetto agisce, rappresentandosi tutti gli estremi del
fatto descritto dalla norma incriminatrice. In sostanza, perché ci sia dolo il soggetto deve aver
voluto la realizzazione del fatto antigiuridico che si era preventivamente rappresentato, cioè deve
aver deciso di realizzarlo. Il dolo come volontà del fatto non va confuso col motivo o movente
dell’azione delittuosa: quest’ultimo, infatti, consiste nell’impulso o stimolo di natura affettiva che
spinge il soggetto ad agire (ad es. odio, vendetta, ecc.)
Intensità e forme del dolo
L’art. 133 RAPPORTA LA GRAVITÀ DEL REATO ANCHE ALL’INTENSITÀ DEL
DOLO. Per quanto riguarda la componente conoscitiva, la sua graduabilità dipende dal livello di
chiarezza e certezza con il quale il soggetto si rappresenta gli elementi del fatto di reato. Dolo
d’impeto. In questo caso la risoluzione è la conseguenza immediata di un improvviso impulso ad
agire (dolo d’impeto): qui la deliberazione criminosa esprime una minore gravità, dal momento che
essa si traduce immediatamente e improvvisamente in azione. Dolo intenzionale o dolo di
proposito: si configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto. Es. Tizio spara
mortalmente a Caio appunto allo scopo di ucciderlo. La presenza di questa forma di dolo rileverà
soltanto ai fini della commisurazione
della pena, sotto il profilo intensità di dolo. Esiste, in questo caso, un rilevante stacco temporale tra
il momento della decisione e il momento dell’esecuzione: ne costituisce sottospecie aggravata ex
art. 577/1/ n° 3 la c.d. premeditazione che si configura quando il proposito criminoso non solo
perdura per un rilevante lasso di tempo, ma tradisce un’ostinazione criminosa particolarmente
riprovevole.

- Dolo specifico: il legislatore richiede che l’agente commetta il fatto avendo di mira un risultato
ulteriore. Il dolo specifico consiste in una finalità ulteriore che l'agente deve prendere di mira per
integrare il reato e che accompagna tutti gli elementi del fatto tipico, ma che non è necessario si
realizzi effettivamente per aversi il reato. Es. nel delitto di furto, è necessario che l’agente, oltre a
volere l’impossessamento mediante sottrazione di una cosa altrui, persegua l’ulteriore fine di trarre
profitto; ma perché il delitto si configuri, non è necessario che il profitto venga effettivamente
ottenuto.
- Dolo generico: le finalità perseguite dall’agente sono irrilevanti per l’esistenza del dolo. Il dolo
generico corrisponde alla nozione tipica del dolo e consiste nel realizzare tutti gli elementi del fatto
tipico, sua caratteristica è la corrispondenza tra ideazione e realizzazione.
- Dolo diretto: Ricorre la figura del dolo diretto quando l'evento non è l'obiettivo dell'azione od
omissione dell'agente, ma costituisce soltanto uno strumento necessario perché l’agente realizzi lo
scopo perseguito; il quale tuttavia prevede l'evento come conseguenza certa o altamente probabile
della sua condotta e lo accetta come strumento per perseguire un fine ulteriore. In dottrina si fa
l'esempio di un armatore che provochi l'incendio di una delle sue navi al fine di ottenere il premio
dell'assicurazione, pur sapendo che dalla sua condotta discenderà come conseguenza certa o
altamente probabile la morte dell'equipaggio.

Nel dolo diretto il soggetto conosce tutti gli elementi che integrano la fattispecie di reato e prevede
come sicuro o altamente probabile che la sua condotta porterà ad integrarli. In questa forma di dolo
assume un ruolo dominante la previsione.
- Dolo eventuale: si verifica quando il soggetto si rappresenta l’evento come seriamente possibile
(non come certo). Il dolo eventuale rappresenta la linea di confine che separa l’area di responsabilità
per dolo da quella della responsabilità per colpa. Il dolo eventuale è una forma di dolo indiretto. Si
ha quando l'agente pone in essere una condotta sapendo che vi sono concrete (rectius: serie)
possibilità (o secondo una teoria affine concrete probabilità) di produrre un evento integrante un
reato, eppur, tuttavia, accetta il rischio di cagionarli. È proprio questa accettazione consapevole del
rischio che fa differire questa figura dall'affine figura della Colpa Cosciente. L'Agente decide di
agire costi quel che costi, accettando il rischio del verificarsi dell'evento. Nel dolo eventuale e la
colpa cosciente i criteri di imputazione di responsabilità hanno in comune l’elemento della
previsione dell’evento, ma presentano differenze. Nel dolo eventuale agisce chi ritiene seriamente
possibile la realizzazione del fatto e agisce accettando tale eventualità. Nella colpa cosciente, anche
detta colpa con previsione dell'evento, ben distante dal dolo eventuale, l'agente prevede sì
l'evento, ma esclude (erroneamente) che questo si possa realizzare, tanto che, se avesse compreso
che l'evento in questione sarebbe venuto in essere, non avrebbe agito. Un esempio è dato da Tizio
che guida a tutta velocità la macchina e si rappresenta la possibilità di incidente, ma continua a
correre fiducioso nella sua abilità di guidatore, convinto che ciò non si verificherà.
- Il dolo alternativo è un'altra forma di dolo indiretto e si ha quando l'agente prevede, come
conseguenza certa (dolo diretto) o possibile (dolo eventuale) della sua condotta il verificarsi di due
eventi, ma non sa quale si realizzerà in concreto. Ad esempio Tizio spara a Caio volendo
indifferentemente ferirlo o ucciderlo. Tizio si rappresenta come conseguenza della sua azione più
eventi tra loro compatibili.
- Il dolo generale, che non rileva nel nostro ordinamento, si ha quando il soggetto mira a realizzare
un evento tramite una prima azione, ma che realizza solo dopo una seconda azione, animata da una
intenzione differente. Es. esiste dolo generale di omicidio nella circostanza in cui si avvelena al fine
di uccidere (ma non si uccide) e si impicca la vittima al fine di simulare un suicidio, e solo in quel
momento si uccide.

Esclusione del dolo


Il dolo è escluso:
• nel caso di errore sul fatto che costituisce reato e questo può trattarsi di:
o errore di fatto: erronea percezione della realtà;
o errore di diritto: erronea interpretazione di norme giuridiche se inevitabile;
• nel caso si ritenga erroneamente di trovarsi in presenza di una causa di giustificazione.

Oggetto del dolo (sul libro non c’era)


Come già accennato, l’art. 43/1 riferisce la volontà colpevole all’evento dannoso o pericoloso:
come già anticipato si tratta di una scelta legislativa poco felice, proprio perché la nozione di evento
è particolarmente controverso. E, infatti, se si allude all’evento in senso naturalistico, come risultato
lesivo del fatto tipico, tale definizione lascia inacettabilmente fuori i reati di mera condotta. Mentre,
se si considera l’evento in senso giuridico, si incorre nell’obiezione che, specie nei reati di
creazione legislativa (es. inosservanza del provvedimento del giudice), la coscienza del fatto lesivo
non può prescindere dalla conoscenza effettiva del divieto penale. Ma, qui, si incorre nell’art. 5, per
il quale l’ignoranza (evitabile) della legge penale non scusa. A ben vedere, OGGETTO DEL DOLO
non è né l’evento naturalistico né l’evento giuridico, ma il FATTO TIPICO. Una simile conclusione
trova un preciso riscontro normativo nell’art. 47 che dispone che il dolo è escluso dall’errore sul
fatto che costituisce reato. Perché l’azione sia imputabile a titolo di dolo, occorre distinguere a
seconda che si tratti di reati a forma vincolata ovvero a forma libera. I reati a forma vincolata:
sono quei reati per i quali la norma penale descrive un'azione connotata da specifiche modalità. In
questo caso il bene protetto dalla norma penale è tutelato penalmente solo contro determinate
modalità di azione e non altre. I reati a forma libera: sono i reati in cui la fattispecie è descritta
facendo riferimento all'evento potendo essere le più varie le modalità dell’azione. (ad es. la norma
penale che punisce l'omicidio tutela il bene della vita indipendentemente dalle modalità di
aggressione). Nell’ambito dei primi è necessario che la coscienza e volontà abbiano ad oggetto
proprio le specifiche modalità di realizzazione del fatto tipizzato, mentre, nei secondi, il dolo deve
normalmente accompagnare l’ultimo atto compiuto prima che il decorso causale sfugga al dominio
dell’ agente. Per quanto attiene al nesso causale, basta di regola che l’agente se ne prefiguri lo
svolgimento nei tratti essenziali e non anche nei dettagli secondari. Come già anticipato, il dolo
deve anche investire i c.d. elementi normativi della fattispecie, cioè quegli elementi la cui
determinazione presuppone il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice che viene in
questione (v. art. 47 ult. comma). In sostanza, il dolo si configura soltanto se l’agente è a
conoscenza della illiceità speciale (extrapenale) del fatto commesso. Dibattuta è, altresì, la
questione se rientrano nell’oggetto del dolo le qualifiche soggettive che ineriscono all’autore dei
c.d. reati propri. Concludendo sul punto: nel dolo rientrano i substrati di fatto su cui si basano le
qualifiche soggettive, mentre esula dal dolo la conoscenza della fonte giuridica – penale delle
qualifiche stesse, essendo detta conoscenza irrilevante.
Dolo e coscienza dell’offesa
Oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale ci si domanda se il dolo includa la cosiddetta
coscienza dell’offesa. Il concetto di offesa, quale oggetto del dolo, può assumere più significati.
Esso può significare l’antigiuridicità o illiceità penale del fatto ovvero, più semplicemente,
l’incidenza negativa del fatto su interessi meritevoli di protezione, a prescindere, però, dalla
puntuale conoscenza dell’esistenza della norma. L’assunto che la volontà colpevole presupponga la
coscienza effettiva o attuale della illiceità del fatto si scontra con l’art. 5, c.p. (non è ammessa
l’ignoranza della legge). Come oggetto del dolo l’offesa può, pertanto, venire in questione soltanto
in un senso fattuale o sostanziale come pregiudizio effettivo ad interessi protetti nella loro
dimensione sociale, in linea con la concezione dogmatica della tipicità. In alcuni casi la
compenetrazione tra fatto materiale e lesione del bene è così immediata che il disvalore del fatto
non può sfuggire all’agente. Diverso è il caso dei reati c.d. di pura creazione legislativa in cui la
consapevolezza della lesione dell’interesse protetto può non aversi senza essere a conoscenza della
norma incriminatrice, ma così incorrendo nello sbarramento dell’art. 5. (fino a qui).

L’ACCERTAMENTO DEL DOLO. Il dolo deve essere provato, solo che la prova è difficile.
L’indagine del giudice è, infatti, esente da limiti predeterminati a priori. Ad esempio, per l’omicidio
è tipico il riferimento al movente. Soccorrerà il ricorso ad apposite regole d’esperienza, la
conformità alle quali è sufficiente a far ritenere dimostrato il fatto psicologico. Il principio secondo
cui il dolo deve costituire oggetto di accertamento vale come principio generale da rispettare
comunque.

La disciplina dell’errore
Nella disciplina della colpevolezza riveste un ruolo fondamentale la problematica dell’ errore.
Anche nel d.p. è radicata la distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto. Il primo (error
facti), di solito, consiste in una mancata o errata percezione della realtà esterna (cacciatore spara per
errore a un uomo anziché alla selvaggina) mentre il secondo (error juris) si traduce nell’ignoranza o
erronea interpretazione di una norma giuridica, penale o extrapenale. All’errore è equiparata
l’ignoranza, in quanto, sia la mancanza di conoscenza, sia l’erronea conoscenza di un dato
elemento provocano lo stesso effetto dell’errore. Diverso è lo stato di dubbio: qui mancano i
presupposti sia di una conoscenza del tutto esatta, sia di un vero e proprio errore. Ciò spiega come,
di regola, il dubbio non possa essere invocato come causa di esclusione della responsabilità.
Particolarmente complesso è il problema del trattamento dell’ errore di diritto, che si distingue in
- errore sul precetto penale: ricade sulla norma incriminatrice. L’agente per ignoranza, o errata
interpretazione della norma incriminatrice, non si rende conto di realizzare un fatto penalmente
illecito. A seguito della sentenza 364/88 Corte Cost. tale errore è irrilevante (art. 5) a meno che non
si tratti di errore inevitabile e, perciò, scusabile.
- errore su una norma extrapenale: ha ad oggetto una norma diversa da quella penale
incriminatrice (Tizio erra sull’interpretazione della norma sul matrimonio e compie reato di
bigamia). Perché questa specie di errore scusi è necessario, come da art. 47 comma 3°, che esso si
risolva o si converta in un errore sul fatto di reato: occorre cioè che l’agente ne risulti fuorviato al
punto tale da non essere consapevole di compiere un fatto materiale conforme a quello previsto
dalla legge come reato. Ove, invece, l’errore su norma extrapenale si limiti a suscitare nell’agente
l’erronea convinzione che il fatto sia penalmente lecito, si ricade sull’errore sul precetto penale, che
è, come abbiamo visto, irrilevante, ex art. 5 c.p.
Errore di fatto sul fatto
CASO 31
Un bracconiere, scorgendo in un canneto una sagoma simile a quella di un cinghiale, spara
per abbatterlo. Poco dopo, si scopre che il bersaglio colpito è un ragazzo che ha perduto la
vita: omicidio?
CASO 32
Un uomo si congiunge carnalmente con una ragazza minore di 14 anni, che egli ha per errore
ritenuto almeno 16enne, a causa del notevole sviluppo fisico.

Se l’agente non conosce uno o più elementi del fatto concreto rilevanti ai sensi della corrispondente
fattispecie incriminatrice, egli non agisce dolosamente ed il reato viene meno. L’errore può derivare
da ignoranza o falsa rappresentazione della situazione di fatto nella quale il soggetto si trova ad
agire: questa forma di errore, prende il nome di errore motivo, distinto da errore inabilità del caso
di reato aberrante. ERRORE SUGLI ELEMENTI ESSENZIALI DEL FATTO. L’art. 47
comma 1° c.p. dispone che l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità
dell’agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa,
quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Sia l’errore sia l’ignoranza devono
vertere su elementi essenziali del fatto: è questo il caso 31 del bracconiere. L’errore qui scusa
perché l’omicidio doloso presuppone che l’agente sia consapevole di dirigere l’azione contro un
uomo, essendo la qualità di uomo requisito essenziale del soggetto passivo del reato. ERRORE
PER SCAMBIO TRA SOGGETTI/OGGETTI. Sono, invece, errori di regola irrilevanti quelli
conseguenti a uno scambio tra soggetti oppure tra oggetti (error in persona ed error in obiecto),
che rivestono una posizione equivalente sul piano della fattispecie incriminatrice. (es. omicida che
scambia soltanto l’identità della vittima).

ERRORE SUL DECORSO CAUSALE. È da ritenere irrilevante l’errore sul nesso causale,
almeno finché la divergenza tra il prefigurato e l’effettivo non sia tale da far escludere che l’evento
sia il rischio connesso nell’azione iniziale del soggetto. ERRORE DETERMINATO DA
COLPA. L’errore di fatto, se esclude il dolo, non esclude necessariamente la responsabilità penale:
può residuare una responsabilità a titolo di colpa, purché ne sussistano i presupposti (seconda parte
dell’art. 47, comma 1°).
1° presupposto: l’errore di percezione sia rimproverabile, cioè dovuto a inosservanza di norme
precauzionali di condotta imputabile all’agente. Es. se si sarebbe dovuta usare una maggiore
precauzione prima di sparare.
2° presupposto: il fatto sia espressamente preveduto dalla legge come delitto colposo. Quindi, potrà
residuare un’ipotesi di omicidio colposo, ma non di furto o danneggiamento colposo perché delitti
non punibili a titolo di colpa.

ERRORE DEL SOGGETTO INIMPUTABILE. Nel trattamento dell’errore del soggetto


inimputabile, si distingue tra errore condizionato dalla infermità mentale ed errore non
condizionato, cioè del tutto indipendente dalla causa dell’infermità. È da ritenere che l’errore
condizionato non abbia rilevanza scusante in quanto il soggetto, a causa della sua malattia, può
risultare socialmente pericoloso, e, per questo, va sottoposto a una misura di sicurezza. Ha efficacia
scusante, invece, l’errore incondizionato se determinato da circostanze di fatto che avrebbero
tratto in inganno anche una persona capace.
ERROR AETATIS. La regola dell’efficacia liberatoria dell’errore non vale, tuttavia, in generale.
Così, nel caso 32 dell’uomo che erra sull’età della ragazza, l’error aetatis non sarà invocabile
perché a norma dell’art. 609 sexies (come art. 539) il colpevole non può, nell’ambito dei delitti
contro la libertà sessuale, invocare l’ignoranza dell’età della persona offesa, se il fatto riguarda un
minore di anni 14. In base al 2° comma dell’art. 47, l’errore sul fatto che costituisce un
determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso.
ERRORE SUI C.D. ELEMENTI DEGRADANTI IL TITOLO DI REATO. Meno pacifico
risulta la disciplina dell’errore che ricada su elementi degradanti il titolo di reato. L’esempio
classico è quello del soggetto che causa la morte di una persona, nella supposizione erronea che la
vittima abbia prestato il suo consenso all’uccisione: omicidio semplice (art. 575) ovvero omicidio
del consenziente (art. 579)? Si propende per l’errore sulle cause di giustificazione.

Errore sul fatto determinato da errore su legge extrapenale


CASO 33
Il padre di una studentessa presenta una dichiarazione non veritiera sul reddito familiare al
fine di ottenere il presalario alla figlia: imputato di truffa ai danni dell’ Opera Universitaria,
il genitore si difende eccependo che le dichiarazioni non veritiere sulla situazione economica
del nucleo famigliare dipendono da una errata interpretazione delle norme fiscali e delle
norme che regolano la concessione dell’assegno di studio.
L’art. 47, comma 3°, stabilisce che l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la
punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato. Come mai un errore
vertente su di una norma extrapenale si converte in un errore sul fatto materiale idoneo a escludere
il dolo? Sorge, così, il problema del rapporto tra art. 47 comma 3° e art. 5 che non scusa l’ignoranza
della legge. Ci sono diversi orientamenti.
1° ORIENTAMENTO. Occorre distinguere tra norma extrapenale che integra la norma penale in
quanto necessario presupposto (e, quindi, non scusa) e norma extrapenale che non la integra,
rimanendo autonoma (e, quindi, scusa l’errore). Ora succede che la Corte di Cassazione ha quasi
sempre sostenuto la tesi della integrazione tra norma extrapenale e norma penale, con la
conseguenza di negare efficacia scusante all’errore. Di fatto, l’art. 47 comma 3° è stato abrogato, né
la Cassazione è mai riuscita a prospettare un criterio chiaro sul tema. Simile orientamento
rigoristico ha subito un parziale temperamento con la sentenza 364/1988 Corte Cost. in base alla
quale si può sostenere la tesi dell’esenzione da responsabilità in presenza dei caratteri della
inevitabilità – scusabilità dell’errore sulla legge penale.

2° ORIENTAMENTO. Ritiene che l’art. 47 comma 3° introdurrebbe una deroga espressa al


principio di inescusabilità dell’errore sul precetto penale dell’art. 5, a causa della natura marginale
dell’ipotesi di errore su legge extrapenale e nel minor valore sintomatico e sociale del fatto
conseguente all’errore.
ORIENTAMENTO 3°. La verità è che non è necessario pensare alla predetta deroga del principio
di inescusabilità dell’errore di diritto, perché già nel previgente codice penale veniva pacificamente
riconosciuta efficacia scusante, nonostante in quel codice mancasse una disposizione analoga a
quella dell’art. 47 comma 3°. Basta applicare coerentemente i principi generali sulla responsabilità
dolosa. Infatti, la situazione di chi incorre in un errore sul fatto determinato dalla inesatta
interpretazione di una legge extrapenale è, psicologicamente, identica, nelle conseguenze, a quella
di chi agisce sulla base di una falsa percezione di un dato reale. Ecco che il comma 3° si colloca
nello stesso alveo del comma 1° dell’art. 47: trattasi, in entrambi i casi, di un errore sul fatto che
costituisce reato e, quindi, scusabile. Così è il caso 33. SIGNIFICATO DI LEGGE
EXTRAPENALE. Prevale ormai l’opinione che si debbano intendere non solo norme di natura non
penale (civili e amministrative), ma anche norme penali diverse dalla norma incriminatrici. LE
4 TIPOLOGIE DELL’ERRORE SU LEGGE EXTRAPENALE. Il quadro delle possibili
tipologie di errore è il seguente:
a) errore su legge extrapenale che si converte in errore sui c.d. elementi normativi della
attispecie penale.
b) La soluzione adottata per gli elementi normativi di natura giuridica deve essere estesa al
trattamento degli elementi normativi di natura etico – sociale.
c) L’errore può escludere la responsabilità anche quando ricada su di una norma extrapenale
integratrice di una norma penale in bianco in quanto l’art. 47 comma 3° non fa distinzione in
ordine all’ampiezza.
d) L’errore può, infine, ricadere su di una norma extrapenale che in concreto rileva ai fini della
valutazione del significato di un elemento del fatto.

Errore determinato dall’altrui inganno


L’errore sul fatto può anche derivare dall’inganno in cui l’agente sia tratto per opera di un’altra
persona. Al riguardo, l’art. 48 stabilisce che le disposizioni dell’articolo precedente si applicano
anche se l’errore sul fatto che costituisce reato è determinato dall’altrui inganno: ma, in tal caso,
del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo. Dal
punto di vista strutturale l’errore deve ricadere su di un elemento costitutivo del reato: altrimenti,
esso non escluderebbe il dolo e la responsabilità, di conseguenza, permarrebbe il reato. L’inganno,
come fonte dell’errore, deve consistere nell’impiego di mezzi fraudolenti sostanzialmente
assimilabili agli artifici e ai raggiri del delitto di truffa. Ciò che conta è, comunque, che l’inganno
provochi nel deceptus una falsa rappresentazione della realtà. È da ritenere che, al fine di
affermare la responsabilità, basti la sola condotta ingannatrice.

Reato putativo
L’art. 49 comma 1° stabilisce che non è punibile chi commette un fatto non costituente reato,
nella supposizione erronea che esso costituisca reato. È il c.d. reato putativo. Si tratta di un fatto
criminoso immaginato da chi agisce, ma, di fatto, inesistente. In tutte queste ipotesi, la convinzione
dell’agente di commettere un fatto di reato è priva di rilevanza.

Il reato aberrante
Il reato si definisce aberrante quando, a causa di un errore nell’esecuzione dello stesso, l’agente
provoca un’offesa a un bene (tutelato giuridicamente), diverso da quello a cui voleva provocare il
danno, oppure quando l’agente pone in essere un reato diverso da quello realmente voluto.

Errore – inabilità
CASO 34
Tizio, nell’aggredire mortalmente Caio, presunto amante della moglie, per errore infligge
colpi di coltello anche a Sempronio intervenuto.

ABERRATIO ICTUS MONOLESIVA. La divergenza tra il voluto e il realizzato può dunque


dipendere sia da un errore del soggetto agente che incide sul momento formativo della volontà sia
da un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o da un errore dovuto ad altra causa (ad es.
A vuole uccidere B ma, per un errore nella mira, fallisce il bersaglio e colpisce erroneamente C).
L’art. 82 c.p. definisce la cd. aberratio ictus quando l’agente, per errore nell’esecuzione dei mezzi
di esecuzione del reato o per altra causa, provoca un’offesa a un soggetto diverso da quello a cui
voleva provocare danno. In questi casi, l’ordinamento prevede (art. 82 c.p.) per il reo l’applicazione
della stessa pena che gli sarebbe stata applicata se avesse provocato l’offesa alla persona da lui
voluta, salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell’art. 60
(non si applicano le aggravanti, solo le attenuanti). Quando invece l’agente, per errore, provoca
offesa oltre alla persona voluta anche ad altra persona, l’ordinamento prevede l’applicazione della
pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà. IL PROBLEMA
DELL’ATTRIBUZIONE DELLA RESPONSABILITA’. L’offesa in concreto realizzata è
normativamente equivalente a quella voluta dal soggetto, onde il dolo permane proprio perché per
la sua configurazione basta che l’agente si rappresenti gli elementi del fatto rilevanti ai sensi della
fattispecie incriminatrice considerata. Questa tesi appare contestabile, ove si privilegi la concreta
dimensione psicologica, cioè la congruenza tra l’atteggiamento psicologico e l’evento concreto,
come sarebbe necessario per considerare l’evento stesso come concretizzazione della volontà
dell’agente. ABERRATIO ICTUS PLURILESIVA. Art. 82 ult. cpv dispone che qualora, oltre
alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace
alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà. Questa disposizione è
esemplificata dal caso 34. Anche per questa categoria si pone il problema relativo ai criteri di
attribuzione della responsabilità. Mentre si risponde a titolo di dolo della offesa arrecata alla vittima
designata, l’ulteriore offesa nei confronti della persona erroneamente colpita viene attribuita a titolo
di responsabilità oggettiva. Infatti, la norma non richiede che si accerti l’esistenza di un agire
colposo (caso 34, così T risponderà anche per le ferite inferte a S). Il trattamento penale dell’a.i.
appare eccessivamente rigorosa: la sanzione complessiva risultante dall’aumento fino alla metà
della pena stabilita per il reato più grave (quello attribuito a titolo di dolo) sarà di regola assai
superiore a quella di un caso di concorso formale di delitto doloso con uno colposo. Ma vi sono casi
non ben definiti dalla legge. Quale trattamento sanzionatorio si applica quando:
- oltre alla persona presa di mira, si ledano più persone diverse? Per alcuni si dovrebbero applicare
tanti aumenti di pena sino alla metà, quante sono le offese alle persone non designate. Per altri, un
solo aumento di pena, a prescindere dal numero delle persone offese. Per altri ancora, si applicherà
l’aumento di pena alla offesa non voluta più simile a quella voluta, mentre per le altre si avrà una
responsabilità colposa, sempreché ne sussistano i requisiti.
- Mancata la vittima designata, rimangono lese soltanto più persone diverse? Per alcuni, allo scopo
di non incorrere nella violazione del divieto di analogia in malam partem, si deve applicare il più
benevolo regime del concorso formale del reato doloso con eventuali delitti colposi.

Aberratio delicti
CASO 35
Uno scioperante lancia un sasso contro un autobus ma, a causa di un errore nel tiro, colpisce
alla testa un passante.
CASO 36
Caso di violenza sessuale su minore di anni 14 e lesioni personali.
L’art. 83 comma 1° c.p. definisce l’aberratio delicti in questo modo: fuori dei casi previsti
dall’articolo precedente, se, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o, per altra
causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di COLPA,
dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. È l’ipotesi in
cui l’agente pone in essere un reato diverso da quello voluto per errore nella valutazione o per
errore nei mezzi per l’esecuzione del reato (è il caso 35, il reato realizzato è una lesione personale
mentre quello programmato era un danneggiamento, reato contro il patrimonio). Anche in questo
caso, l’ordinamento prevede che l’agente dovrà rispondere del fatto commesso anche se non voluto.
ABERRATIO DELICTI CON PLURALITA’ DI EVENTI. Il cpv dell’art. 83 prevede che se il
colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto, si applicano le regole sul concorso di reati. In tal
modo, l’agente risponde di due reati, uno doloso e uno colposo (caso 36). Un caso tipico di a.d. con
pluralità di eventi è quello rappresentato dall’art. 589 c.p. (da delitto doloso deriva non voluta la
morte o la lesione di una persona). Anche nel caso dell’a.d., parte della dottrina suggerisce una
lettura correttiva dell’art. 83, tale da scongiurare la responsabilità oggettiva e da renderlo
compatibile col principio di colpevolezza, nel solco delle due sentenze costituzionali 364/1988 e
1085/1988. Si richiede, allora, che il giudice accerti in concreto la colpa in relazione all’evento non
voluto.

La coscienza dell’illiceità: la possibilità di conoscere il precetto penale


CASO 37
Un medico, detentore di due pistole regolarmente denunciate, acquisisce una terza pistola e si
presenta all’autorità competente per denunciarne il possesso, dichiarando il numero
complessivo delle armi possedute: l’autorità competente lo assicura che questa denuncia è
sufficiente. Ai sensi della legge in materia di armi (legge 110/75 art. 10) costituisce, invece,
reato detenere più di due armi comuni da sparo senza licenza di collezione rilasciata dal
questore.
All’interno della concezione normativa autonoma della colpevolezza, giuoca un ruolo la coscienza
dell’illiceità concepita come elemento costitutivo autonomo: cioè, quale requisito distinto che si
aggiunge all’imputabilità, al dolo o alla colpa e all’assenza di cause di discolpa. Come sappiamo,
nell’attuale ordinamento italiano il dolo non include nel suo oggetto la conoscenza dell’ illiceità
penale del fatto (al massimo la coscienza della dannosità del fatto). L’aspetto veramente nodale
riguarda, però, la portata e i limiti dell’affermazione, secondo cui non esiste colpevolezza senza
coscienza dell’illiceità. Vediamo attraverso quale ragionamento. Come già detto, è da escludersi che
la volontà colpevole richieda la piena conoscenza dell’illiceità penale, in base all’art. 5 c.p.,
ignorantia legis non excusat (sia in caso di mancata od erronea conoscenza). In un primo tempo la
Corte Cost. accolse questo principio senza riserve, ritenendo che fosse sufficiente la possibilità di
conoscere la norma penale dalla mera pubblicazione di essa, come atto che precede la sua entrata in
vigore, in una con il divieto di irretroattività della legge penale. Sennonché, la realtà stessa fece
apparire astratta e teorica, oltre che iniqua, la pretesa assolutezza dell’inescusabilità dell’errore sulla
legge penale. L’ordinamento penale moderno, infatti, ricomprende, oltre ai c.d. delitti naturali, un
numero sempre più grande di delitti c.d. di pura creazione legislativa, cioè di illeciti penali che sono
tali per volontà del legislatore, senza che ad essi preesista una diffusa disapprovazione sociale. La
chiave di volta è rappresentata dall’art. 27 Cost. che, sancendo il carattere personale della
responsabilità penale, impedisce di ritenere irrilevante la mancata percezione del disvalore penale
del fatto commesso. Nello stesso tempo, perché risulti attuabile e credibile la funzione rieducativa
assegnata alla pena dall’art. 27 comma 3° Cost., la risposta punitiva deve operare nei confronti di un
soggetto che si trovi in condizioni di avvertire il disvalore penale del fatto connesso. Ora, per
soddisfare l’esigenza costituzionale di una maggiore compenetrazione tra fatto e autore, mediata
dalla conoscenza del disvalore penale, non è necessario richiedere l’effettiva conoscenza da parte
dell’agente del carattere criminoso del comportamento. In una prospettiva di compromesso, ci si
può accontentare di richiedere la possibilità di conoscenza dell’illiceità: cioè, ai fini del
rimprovero di colpevolezza, diventa sufficiente esigere che l’autore, prima di agire, sia in grado di
percepirne il carattere antigiuridico. La possibilità di conoscenza del carattere illecito del fatto
rende, infatti, evitabile e, perciò, inescusabile, l’ignoranza o l’errore. La Corte Cost. avalla questa
teoria con la sentenza 364/1988 nella quale dichiara parzialmente illegittima l’art. 5 nella parte in
cui non escludeva i casi di ignoranza inevitabile e, perciò, scusabile. Ma quali sono i criteri in
base ai quali la possibilità di conoscenza della legge penale è esclusa? Si possono fare alcuni
esempi:
- caratteri personali del soggetto: cultura, personalità, ecc.
- Oscurità del testo legislativo, repentino mutamento della giurisprudenza.
- Le indicazioni fuorvianti delle autorità, le prassi amministrative tolleranti, l’emanazione di più
sentenze in contrasto tra loro.
Nel caso 37, il soggetto è indotto in errore da una fonte qualificata, perciò è scusabile.

Cause di esclusione della colpevolezza


Allo scopo di tenere conto dell’influenza esercitata dalle circostanze anormali sul processo
motivazionale dell’agente, parte della dottrina ha fatto assurgere a causa generale di esclusione della
colpevolezza la c.d. inesigibilità, cioè l’impossibilità di pretendere, in presenza di circostanze
particolari, un comportamento diverso da quello tenuto. Così una parte della dottrina configura
come causa di esclusione della c. lo stato di necessità e la coazione morale. Al principio di
inesigibilità si intenderebbe attribuire la funzione di valvola di sicurezza di umanità. Si suole
citare come esempio di i. il caso del medico che si rifiuti di recarsi a visitare un paziente malato a 4
ore di marcia notturna nella neve, stanco per altre faticose visite già effettuate. Un’applicazione
analogica del p. di i. sono i casi di conflitto di doveri o casi di conflitto tra norme giuridiche e
morali/religiose (es. testimoni di Geova). È da escludere, comunque, che la i. possa assumere quel
ruolo ampiamente scusante ipotizzato da una parte della dottrina, al punto che è stata messa in forse
dalla stessa dottrina tedesca, da cui proviene.

Scusanti legalmente riconosciute


LE CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA O SCUSANTI SI DIFFERENZIANO
DALLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE O SCRIMINANTI perché lasciano integra
l’antigiuridicità obiettiva del fatto e fanno venir meno soltanto la possibilità di muovere un
rimprovero all’autore.

CATEGORIE DOGMATICHE DI SCUSANTI


A) Lo stato di necessità scusante (o cogente) e la coazione morale.
B) L’ordine criminoso insindacabile della pubblica Autorità.
C) L’ignoranza (o errore) inevitabile – scusabile della legge penale, a seguito di sentenza
costituzionale n. 364/1988.

La colpevolezza nelle contravvenzioni


Il c.p. prevede una specifica disciplina dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni. Dispone,
infatti, l’art. 42 comma 4° che nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od
omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. E l’art. 43 ult. comma dispone che la
distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita (…) per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un
qualsiasi effetto giuridico. Risulta ormai superata la tesi che riteneva sufficiente la mera coscienza
e volontà della condotta, indipendentemente dal dolo o dalla colpa. Si è rivelata decisiva
l’obiezione che essa introduce una forma mascherata di responsabilità oggettiva. Ed, invero, l’inciso
dell’art. 42 ult. comma sta a significare che è indifferente la presenza dell’una o dell’altra specie di
colpevolezza. Ciò vuol dire ancora che, mentre nel campo dei delitti il dolo rappresenta il criterio
tipico di imputazione e la colpa l’eccezione (art. 42 comma 2°), nelle contravvenzioni sarà
sufficiente la sola colpa. Ma v’è di più. A causa dell’art. 43/2 il giudice deve tener conto
dell’intensità del dolo e della colpa ai fini della commisurazione della pena. Ne discende che il
giudice deve prima accertare se l’illecito contravvenzionale sia stato commesso con dolo o con
colpa. Posto che anche nelle contravvenzioni debbono ritenersi vigenti i normali principi relativi
all’accertamento psicologico si può osservare che alcune contravvenzioni possono essere
commesse soltanto con dolo (es. abuso di credulità popolare art. 661) o con colpa (es. rovina di
edificio art. 676). La distinzione tra dolo e colpa rileva, oltre che ai fini della commisurazione della
pena, agli effetti dell’abitualità, dell’amnistia limitata ai reati colposi, ecc. L’accertamento
dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni. Parte della dottrina, in verità, sostiene che la
legge avrebbe dispensato il giudice dall’indagine sull’atteggiamento psichico del contravventore,
sancendo una presunzione juris tantum di colpevolezza (dolo o colpa) e addossando all’agente
l’onere della prova contraria. Secondo altri, sarebbe sufficiente in sede di accertamento far ricorso
alle comuni regole di esperienza, sulla base delle quali sarà consentito condannare ove non vi siano
circostanze in grado di evidenziare una situazione eccezionale in cui il soggetto abbia realizzato il
fatto senza dolo o senza colpa. Simili impostazioni, finalizzate a semplificare l’accertamento della
colpevolezza, sono in realtà del tutto prive di appigli normativi: non v’è alcuna disposizione che
esplicitamente consenta di derogare, nella materia in esame, ai principi generali in tema di
accertamento. Distinzione tra dolo e colpa anche sul terreno delle contravvenzioni.
Dell’intensità del dolo e del grado della colpa il giudice deve tener conto ai fini della
commisurazione della pena: ne discende che il giudice, per potere compiere tale valutazione, deve
prima accertare se l’illecito contravvenzionale sia stato commesso con dolo o con colpa. Alcune
contravvenzioni possono essere commesse soltanto con dolo (es. abuso di credulità popolare) o
con colpa (ad es. rovina di edificio).
CAPITOLO 4. CIRCOSTANZE DEL REATO

A partire dall’illuminismo, sorge il problema di una espressa previsione legislativa di quelle


situazioni che vanno oggi sotto il nome di circostanze del reato: cioè di elementi che stanno
intorno o accedono ad un reato già perfetto nella sua struttura, e la cui presenza determina
soltanto una modificazione della pena: o in termini quantitativi, sotto forma di modifica
proporzionale della pena edittale (aumento o diminuzione, di norma fino a un terzo, della pena
prevista per il reato-base), o in senso qualitativo (ad es., reclusione in luogo della multa, o
viceversa). Si parla anche di accidentalia delicti per sottolineare, appunto, che le circostanze sono
elementi contingenti che possono mancare senza che il reato venga meno; mentre, se manca un
“elemento essenziale” del reato, a far difetto è la stessa figura criminosa. Il codice Rocco, a
differenza di altri sistemi codicistici, ha introdotto una disciplina assai ampia e dettagliata delle
circostanze del reato. Ed infatti hanno finito col costituire oggetto di tipizzazione legislativa non
soltanto circostanze attenuanti comuni (cioè riferibili a tutti i reati) e aggravanti speciali (relative
cioè a specifiche ipotesi di reato), ma anche circostanze aggravatrici di pena applicabili a tutti i
reati (c.d. aggravanti comuni). Il legislatore ha dunque mirato ha un duplice obiettivo. Per un
verso, tener conto di un insieme di circostanze particolari che, incidendo in concreto sulla gravità
dell’astratta figura di reato, permettono di meglio adeguare la pena ai singoli e variegati casi
criminosi che la realtà prospetta. Per altro verso, far si che tale adeguamento sanzionatorio non
rimanga affidato al puro potere discrezionale del giudice, ma si attui entro confini legislativamente
predeterminati. Dubbio se vi è una fattispecie autonoma ovvero se, combinandosi con gli elementi
costitutivi del reato-base, dia luogo ad una nuova fattispecie penale complessa (in questo secondo
senso, ad es. la fattispecie di un furto circostanziato darebbe vita ad una fattispecie autonoma e
diversa rispetto a quella integrata dal furto-base ecc.). Classificazione delle circostanze:

a) Le circostanze aggravanti comportano per lo più un aumento della pena comminata per il
reato-base (variazione c.d. quantitativa); ma anche casi dove l’aggravante ha per effetto di
modificare qualitativamente la sanzione (da una pena pecuniaria a una pena detentiva). Le
circostanze attenuanti comportano viceversa una diminuzione quantitativa della pena
prevista per il reato-base, oppure una modifica qualitativa che però, questa volta, ridonda a
vantaggio del reo (ad es. passaggio da una pena detentiva a una pena pecuniaria).
b) Si definiscono comuni le circostanze (aggravanti o attenuanti) prevedute nella parte
generale del codice, perché potenzialmente applicabili a un insieme non predeterminabile di
reati). Sono invece speciali le circostanze prevedute dal legislatore soltanto in rapporto a
specifiche figure di reato.
c) A norma dell’art. 70, sono oggettive le circostanze che concernono “la natura, la specie, i
mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o
del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso”; sono soggettive quelle
che riguardano “la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità
personali del colpevole, o i rapporti tra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla
persona del colpevole” (ossia l’imputabilità e la recidiva). Tale distinzione assume rilevanza
nell’ambito del concorso di persone.
d) La distinzione tra circostanze tipiche e generiche dipende dal diverso grado di
determinatezza raggiunto in sede di tipizzazione legislativa delle situazioni assunte ad
elementi circostanziali. Vi sono anche aggravanti indefinite, dove spetta al giudice
concretizzare elementi circostanziali indicati dal legislatore soltanto in forma assai generica
(es. per l’espressione fatto di “rilevante gravità”).

CRITERIO DI IMPUTAZIONE DELLE CIRCOSTANZE. Ad oggi non vi sono criteri di


distinzione veramente sicuri per l’individuazione degli elementi circostanziali. Per quanto invece
riguarda il criterio di imputazione delle circostanze; con la l. 7 febbraio 1990, n. 19, il legislatore
ha modificato il precedente modello oggettivo di imputazione sottoponendo anche le circostanze,
e più precisamente quelle “aggravanti” ad un regime di imputazione “soggettiva”. Nuovo testo
dell’art. 59, comma 2° stabilisce: “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico
dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore
determinato da colpa”. È rimasta, invece, inalterata l’imputazione obiettiva delle circostanze
“attenuanti”. Interpretazione ritenuta dominante: ai fini dell’imputazione della circostanza
aggravante, basta in ogni caso che il reo ne abbia ignorato per colpa l’esistenza, non importa se la
circostanza acceda ad un reato-base doloso ovvero ad un reato-base colposo. Se così è, la specifica
colpevolezza relativa alle circostanze aggravanti esige in tutti i casi, come coefficiente minimo di
imputazione, la “colpa”. Una disciplina peculiare, nel senso di un’adesione ancora più piena al
principio di colpevolezza, è prevista per l’ipotesi di errore sulla persona offesa da un reato. L’art.
60 dispone che “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico
dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa,
o i rapporti tra offeso e colpevole. Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti
(condizioni, qualità o rapporti predetti). Es. un uomo ritiene di uccidere un nemico ma, a causa di
un errore di percezione, uccide invece suo padre; in questo caso non risponderà di parricidio, bensì
di omicidio semplice. Per rispondere di parricidio è necessaria l’effettiva consapevolezza, dunque
imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti. Conclusione analoga per la supposizione
erronea dell’esistenza di una circostanza attenuante. Es. Tizio che, a causa di un errore
percettivo, rivolga la propria azione contro una persona diversa dal “provocatore” e lo uccida: in un
caso come questo, Tizio beneficerà dell’attenuante della provocazione come se avesse realmente
ucciso il provocatore. L’ultimo comma dell’art. 60 ripristina, invece, i criteri generali di
imputazione di cui all’art. 59,comma 2° “qualora si tratti di circostanze che riguardano l’età o
altre condizioni o qualità, fisiche o psichiche, della persona offesa”.

CRITERI DI APPLICAZIONE DEGLI AUMENTI O DELLE DIMINUZIONI DI PENA.


L’effetto giuridico tipico delle circostanze è quello di modificare il regime sanzionatorio previsto
per la figura semplice di un reato: i criteri, che presiedono a questa variazione di regime
sanzionatorio, non sono però sempre uguali. Si distingue fra circostanze ad efficacia comune e
circostanze ad efficacia speciale. Nella prima l’aumento o la diminuzione di pena è dipendente
dalla pena ordinaria, nel senso che si effettua una variazione frazionaria (fino a un terzo) della pena
prevista per il reato semplice. Nella seconda rientrano “quelle che importano un aumento o una
diminuzione della pena superiore ad un terzo”; e vale per esse la regola, secondo cui l’aumento o la
diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena
stabilita per la circostanza speciale.

CONCORSO DI CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTI. Ad un medesimo fatto


di reato possono talora accedere più circostanze: si parla di concorso omogeneo per designare le
ipotesi nelle quali sono compresenti più circostanze della stessa specie, vale a dire o tutte aggravanti
o tutte attenuanti. La disciplina del concorso omogeneo si differenzia, a seconda che si tratti di
circostanze ad efficacia “comune” ovvero ad efficacia “speciale”. Nel primo caso, dispone l’art.
63, comma 2°, che, se concorrono più circostanze aggravanti ovvero più circostanze attenuanti,
l’aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di pena risultante dall’aumento o dalla
diminuzione precedente. Sempre salvi i limiti espressamente previsti. Nell’ipotesi di concorso di
circostanze attenuanti, la pena da applicare non può essere inferiore a 10 anni se la pena prevista per
il delitto è l’ergastolo, mentre negli altri casi non può essere inferiore a un quarto (art. 67). Diversa
è la disciplina del concorso omogeneo delle circostanze ad efficacia “speciale”. In proposito, l’art.
63, comma 4°, stabilisce che, se concorrono più circostanze aggravanti, si applica la pena stabilita
per la circostanza più grave (ma il giudice può aumentarla); mentre al comma 5°, stabilisce che se
concorrono più attenuanti, si applica soltanto la pena meno grave stabilita per le circostanze
predette (ma il giudice può diminuirla). Per quanto riguarda poi il concorso omogeneo tra
circostanze a efficacia “comune” e circostanze a effetto o efficacia “speciale”, l’art. 63, comma
3°, stabilisce la seguente regola: “quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie
diversa da quella ordinaria del reato, o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l’aumento o la
diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita
per la circostanza anzidetta”. Dispone infine l’art. 68 che, “fuori dai casi di specialità”, “quando
una circostanza aggravante comprende in sé un’altra circostanza aggravante, ovvero una circostanza
attenuante comprende in sé un’altra circostanza attenuante, è valutata a carico o a favore del
colpevole soltanto la circostanza aggravante o la circostanza attenuante, la quale importa,
rispettivamente, il maggiore aumento o la maggiore diminuzione di pena”. Si ha concorso
eterogeneo quando ad un medesimo fatto di reato accedono, contemporaneamente, circostanze
“aggravanti” e “attenuanti”. Principio di bilanciamento, a norma dell’art. 69, il giudice deve
procedere ad un giudizio di prevalenza o equivalenza tra le circostanze eterogenee. Divieto di
prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti nelle due seguenti ipotesi e
cioè: a) nei casi di recidiva reiterata; b) e di determinazione al reato di persone non imputabili o non
punibili. Divieto di doppia valutazione delle medesime circostanze (principio del ne bis in idem).

LE AGGRAVANTI COMUNI.
Il codice del 1930, a differenza di altri codici e della precedente legislazione, prevede non solo
attenuanti comuni e speciali e aggravanti speciali, ma anche aggravanti comuni. L’art. 61 ne
prevede 13:
1. l'avere agito per motivi abietti o futili (sog.): è abietto il motivo (rappresenta la molla,
l’impulso, l’istinto che spinge psicologicamente ad agire) ripugnante o spregevole; è futile quello
del tutto sproporzionato alla entità del reato commesso (tra il movente e l’azione delittuosa);
2. l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o
assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di un altro reato
(sog.): come, ad esempio, l’omicidio compiuto per derubare la vittima, l’uccisione del complice per
non dividere il bottino, la distruzione del cadavere dell’ucciso o l’uccisione del testimone;
3. l'avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento (sog.);
4. l'avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone (sog.): sevizia è
l’inflizione di una sofferenza atroce di natura fisica; crudeltà è l’inflizione di un patimento morale
che rileva parimenti la mancanza di sentimenti umanitari;
5. l'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la
pubblica o privata difesa (ogg.): l’agente deve avere consapevolezza; come in caso di calamità
naturale per i fenomeni di sciacallaggio;

6. l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente


alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione spedito per un
precedente reato (sog.);
7. l'avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio
(conseguenze pregiudizievoli a carico dell’altrui patrimonio), ovvero nei delitti determinati da
motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità
(ogg.); la capacità economica del danneggiato considerato come criterio sussidiario di valutazione
del danno; si deve tener conto del momento in cui il reato venne commesso e il lucro cessante;
8. l'avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso (sog.); occorre
l’intenzione di aggravare; es. un uomo dopo aver ferito gravemente taluno, rimuova (o tenti di
rimuovere) la fasciatura per provocare un’emorragia;
9. l'avere commesso il fatto con abuso di poteri, o con violazione dei doveri inerenti ad una
pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto (sog.);
non è sufficiente avere la qualifica, ma questa deve avere in qualche modo agevolato l’esecuzione
del reato es. un’insegnante di una scuola statale che, abusando della sua posizione di supremazia,
compia atti di libidine su alcune allieve. L’aggravante non può essere applicata se l’abuso non è
doloso: essa dunque si applica solo se effettivamente conosciuta e voluta;
10. l'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale [c.p. 357] o una persona incaricata di
un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso
nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell'atto o, a
causa, dell'adempimento delle funzioni o del servizio (ogg.);
11. l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso
di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalità (sog.). La ratio di
questa aggravante consiste nell’”abuso di fiducia” commesso da chi compie un reato a danno di
persone legate da particolari relazioni col soggetto attivo; la relazione fiduciaria deve però ritenersi
presunta (non serve di volta in volta la prova); si ha “abuso di autorità” quando si profitti di una
condizione di supremazia nei confronti del soggetto passivo, es. abuso di potestà parentale; abuso di
relazioni domestiche, quando le persone coinvolte appartengono ad un medesimo nucleo familiare,
anche se non legate da un vincolo di reciproca parentela;
11-bis) l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio
nazionale.
11-ter) l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno
o nelle adiacenze di istituti di istruzione o formazione.

Le attenuanti comuni
L’art. 62 contiene il catalogo delle circostanze attenuanti “comuni”. Attenuano il reato, quando non
ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti:
1. l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale, tranne se venga usata la
violenza; es. omicidio doloso attribuito a due genitori che, per motivi religiosi, tralasciano di far
praticare alla figlia talassemica una trasfusione di sangue, così non impedendone la morte;
2. l'aver reagito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui; l’attenuante della c.d.
provocazione, il fatto deve essersi verificato e deve esserci proporzione e adeguatezza tra fatto
provocatorio e fatto reattivo;
3. l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o
assembramenti vietati dalla legge o dall'Autorità e il colpevole non è delinquente o contravventore
abituale o professionale, o delinquente per tendenza; dal punto di vista strutturale, la circostanza
presuppone non solo la presenza di una moltitudine di persone in stato di intensa e violenta tensione
emotiva, ma anche l’agente vi si trovi di fatto coinvolto e che riceva stimolo ad agire dalla
suggestione esercitata dalla folla;

4. l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato
alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti
determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un
lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso e pericoloso sia di speciale tenuità;
l’elemento di novità è costituito dalla presa in considerazione del “lucro” e della sua entità, mentre
in precedenza la norma faceva esclusivo riferimento al “danno”. La circostanza ha natura oggettiva;
5. l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il
fatto doloso della persona offesa; ogg. deve esserci l’elemento materiale, ossia l’inserimento
dell’azione dell’offeso nella serie delle cause che determinano l’evento; l’altro psichico,
rappresentato dalla volontà di concorrere alla produzione dell’evento medesimo;
6. l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso,
e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso
preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente
per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. Due distinte circostanze
attenuanti, fondate sulla comune ratio del ravvedimento del colpevole successivamente alla
commissione del reato e, comunque, prima dell’inizio del giudizio. La prima circostanza,
denominata risarcimento o riparazione del danno, presuppone che il ristoro del danno medesimo sia
effettivo ed integrale, in modo da compensare sia il danno patrimoniale che quello non
patrimoniale. L’iniziativa risarcitoria deve provenire dallo stesso soggetto colpevole. Per la seconda
circostanza deve esserci uno sforzo del colpevole che sia frutto di una libera scelta e non l’effetto
della pressione di circostanze esterne. Si esclude l’applicabilità della circostanza ai reati control il
patrimonio. Natura soggettiva. Le c.d. attenuanti generiche. Ai sensi dell’art. 62 bis il giudice,
indipendentemente dalle circostanze prevedute nell'articolo 62, può prendere in considerazione
altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse
sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza,
la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62. Per
la giurisprudenza e buona parte della dottrina i criteri di massima, cui il giudice deve attenersi, sono
quelli indicati dall'articolo 133, che detta appunto le regole generali per l'uso del potere
discrezionale del giudice nella determinazione concreta della pena.
LA RECIDIVA. Tra le circostanze inerenti la persona del colpevole il codice annovera la recidiva
che letteralmente equivale a ricaduta nel reato. Secondo il testo originario del codice a “chi dopo
essere stato condannato per un reato, ne commette un altro” poteva infliggersi un aumento di
pena. L’istituto della recidiva è stato oggetto di penetranti modifiche ad opera della citata legge di
riforma del 2005 n. 251; l’intenzione è stata quella di reagire al rischio di una eccessiva
svalutazione applicativa della recidiva. Recidivo è chi dopo essere stato condannato per un
delitto non colposo, ne commette un altro parimenti non colposo. Nesso col concetto di capacità
a delinquere. L’art. 99 prevede tre forme di recidiva:
a) La recidiva semplice: consiste nella commissione di un delitto non colposo a seguito della
condanna irrevocabile per un altro delitto non colposo; è indifferente il tempo trascorso dalla
precedente condanna. Aumento di pena di un terzo. Presupposto dell’applicabilità
dell’aggravamento di pena è che il precedente delitto sia stato accertato con una sentenza
definitiva di condanna (non si richiede che la pena sia stata effettivamente scontata). Ai fini
della sua sussistenza si tiene conto delle precedenti condanne per le quali sia intervenuta una
causa di estinzione del reato o della pena, mentre non si considerano le precedenti condanne
per le quali siano intervenute cause estintive di tutti gli effetti penali (ad es. riabilitazione).
b) La recidiva è aggravata se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole (art. 101
recidiva c.d. specifica), o è stato commesso entro 5 anni dalla condanna precedente (recidiva
c.d. infraquinquennale), ovvero è stato realizzato durante o dopo l’esecuzione della pena,
oppure ancora durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente
all’esecuzione della pena stessa. In tutte queste ipotesi la pena “può” essere aumentata fino
alla metà. Se concorrono più circostanze l’aumento è della metà. Reati della stessa indole,
non solo quando violano una stessa disposizione, ma anche quando presentano caratteri
fondamentali comuni;
c) La recidiva è reiterata se il nuovo delitto non colposo è commesso da chi è già recidivo. La
riforma del 2005 ha irrigidito gli aumenti di pena per questa forma di recidiva: nel senso che
l’aumento di pena è della metà (e non fino, questo per tutte) nel caso di recidiva semplice;
ed è di due terzi se la precedente recidiva è aggravata specifica o infraquinquennale o si
riferisce ad un delitto non colposo commesso durante o dopo l’esecuzione della pena,
ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della
pena stessa (art. 99, comma 4°);
d) Infine nuova figura di recidiva (reiterata) obbligatoria che si riferisce al soggetto recidivo
che commette uno dei delitti indicati dall’art. 407, comma 2°, lettera a c.p.p. Include anche
quelli di recidiva aggravata; e) L’ultimo comma dell’art. 99 dispone, in chiusura di
disciplina, che “in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare
il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo
delitto non colposo”. A parte l’ipotesi di recidiva (reiterata) obbligatoria, l’applicazione
della recidiva resta facoltativa.
CAPITOLO 5. DELITTO TENTATO

Il concetto di consumazione esprime tecnicamente la compiuta realizzazione di tutti gli elementi


costitutivi di una fattispecie criminosa: in altri termini, si è in presenza di un reato consumato tutte
le volte in cui il fatto concreto corrisponde interamente al modello legale delineato dalla norma
incriminatrice in questione. Così nell’ambito dei reati di mera condotta, la consumazione
coinciderà con la compiuta realizzazione della condotta vietata. Es. quando il soggetto fuoriesca dal
luogo in cui si trovava recluso. Nei reati di evento, invece, la consumazione presuppone, oltre al
compimento dell’azione, anche la produzione dell’evento. La determinazione del momento
consumativo del reato assume rilevanza sotto diversi profili, e precisamente:
a) In ordine all’individuazione della norma da applicare nel caso di successione di leggi penali
nel tempo;
b) Rispetto all’inizio della decorrenza del termine di prescrizione;
c) Ai fini dell’amnistia e dell’indulto, di solito concessi limitatamente ai fatti commessi fino al
giorno precedente la data della legge;
d) Ai fini della competenza territoriale;
e) Per la applicazione della legge penale italiana rispetto alla legge penale straniera.
Il concetto di consumazione funge, inoltre, da imprescindibile termine di riferimento rispetto alla
distinta e autonoma figura del tentativo.

DELITTO TENTATO: IN GENERALE. Ricorre la figura del delitto tentato o tentativo nei casi
in cui l’agente non riesce a portare a compimento il delitto programmato, ma gli atti
parzialmente realizzati sono tali da esteriorizzare l’intenzione criminosa; diversamente, ci si
troverebbe di fronte ad un mero proposito delittuoso, irrilevante in base al già più volte sottolineato
principio cogitationis poenam nemo patitur. Il fondamento politico-criminale della punibilità del
tentativo è costituito dall’esigenza di prevenire l’esposizione a pericolo dei beni giuridicamente
protetti (teoria c.d. oggettiva). Risultano prive di legittimazione le teorie c.d. soggettive e- sia
pure in misura minore – le teorie c.d. miste. La idoneità dell’azione non può che essere rapportata
all’attitudine della condotta materiale ad aggredire il bene tutelato. A contrario, la disposizione di
cui all’art. 49, parlando di reato impossibile per “inidoneità dell’azione”, conferma che nel nostro
ordinamento il tentativo inidoneo non ha diritto di cittadinanza. Dal punto di vista dell’incidenza
sugli interessi penalmente tutelati, consumazione e tentativo riflettono dunque, rispettivamente, la
lesione effettiva e la lesione potenziale del bene oggetto di protezione: ed è il minore grado di
aggressione al bene che giustifica la minore severità del trattamento penale del tentativo. Una sorta
di delitto di “minore grado”. Non è un “delitto imperfetto” ma anzi un delitto perfetto perché
presenta tutti gli elementi necessari per l’esistenza di un reato: e cioè il fatto tipico,
l’antigiuridicità e la colpevolezza. Sicché, sul piano normativo, il delitto tentato costituisce un
titolo autonomo di reato, che nasce dall’incontro o combinazione di due norme: la norma
incriminatrice di parte speciale, che eleva a reato un determinato fatto, che svolge una funzione
estensiva della punibilità perché consente, appunto, di reprimere penalmente fatti che non
pervengono alla soglia della consumazione. La soglia della punibilità sarà raggiunta soltanto in
coincidenza con la messa in pericolo del bene protetto.

LA SOLUZIONE DEL NOSTRO CODICE PER IL DELITTO TENTATO. Ai sensi dell'articolo


56 chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto
tentato, se l'azione non si compie o l’evento non si verifica. Il colpevole di delitto tentato è punito:
con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi,
con la pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi.
La idoneità degli atti
Secondo l’art. 56, comma 1°, si ha tentativo se “l’azione non si compie” (ad es. un omicida è
sorpreso mentre sta per vibrare un colpo di pugnale) ovvero se “l’evento non si verifica” (ad es.
l’evento-morte non si verifica a causa di un errore di mira): contrapposizione tra tentativo
incompiuto e tentativo compiuto; distinzione discutibile, dato che il codice Rocco sottopone le
due forme di tentativo al medesimo trattamento sanzionatorio. La idoneità degli atti è la
condizione prima per la pericolosità del tentativo. Se gli atti sono inidonei a commettere un
delitto, viene meno, già priori, ogni probabilità di realizzazione di esso. Sono idonei gli atti che si
presentano adeguati alla realizzazione del delitto perfetto, perché potenzialmente capaci di
causarne o favorirne la verificazione. Il giudizio di idoneità degli atti, come è ormai pacifico:
1. è un giudizio in concreto (criterio della c.d. prognosi postuma, perché il giudizio prognostico
viene effettuato si dopo la commissione degli atti di tentativo, ma ponendosi con la mente nel
momento iniziale dell’attività delittuosa), dovendo gli atti essere considerati nel contesto della
situazione cui ineriscono (si deve accertare se gli atti erano in grado di sfociare nella commissione
del reato). Proprio per questa ragione il codice vigente ha rettificato la formula dei mezzi idonei del
codice dell'89 in quella degli atti idonei, in quanto la idoneità o meno del mezzo dipende, non solo
dal mezzo in sé ma anche dall'attività spiegata nel suo complesso e dall'insieme delle circostanze
concrete;
2. è un giudizio ex ante, cioè prognostico ipotetico, poiché va rapportato, bloccato, al momento in
cui il soggetto ha posto in essere la sua attività, ed effettuato rispetto ad un reato che non si è
verificato;
3. è un giudizio a base parziale, poiché il giudice deve valutare, secondo la migliore scienza ed
esperienza umana se sulla base delle circostanze concrete in quel momento verosimilmente
esistenti. anche se dall’agente non conosciute, appariva verosimile, probabile, la capacità dell'atto a
cagionare l'evento o, comunque, la sua adeguatezza allo scopo criminoso. Indipendentemente da ciò
che, poi, si è realmente verificato per il concorso di fattori eccezionali impeditivi, estranei alla
condotta.

La univocità degli atti


La seconda condizione perché possa dirsi insorto un reale pericolo è che il comportamento,
idoneo, lasci altresì prevedere che tale realizzazione è verosimile. Gli atti sono diretti in modo
non equivoco a commettere un delitto quando, per il grado di sviluppo raggiunto, lasciano
prevedere come verosimile la realizzazione del delitto voluto. Univocità di direzione degli atti
significa la loro attitudine a fondare un giudizio probabilistico sulla verosimile realizzazione del
delitto perfetto e, quindi, anche sulla verosimile intenzione dell'agente di portare a termine il
proposito criminoso. Il requisito della non equivocità degli atti, nella fattispecie tentata, deve essere
valutato in termini oggettivi, nel senso che gli atti considerati, esaminati nella loro oggettività e nel
contesto in cui si inseriscono, devono possedere l’attitudine a denotare il proposito criminoso
perseguito (Cass. 25065/2011).

L’elemento soggettivo
Anche sotto l'aspetto soggettivo il delitto tentato presenta caratteri propri rispetto al delitto perfetto.
Esso è, anzitutto, un delitto doloso: non solo perché il tentare, se inteso nel concetto comune, è
incompatibile con la colpa e perché l'articolo 56 parla di atti diretti a commettere un delitto, ma
anche in base alla regola generale dell'articolo 42/2, mancando ogni espressa previsione del
tentativo colposo. Per la tesi positiva il dolo del tentativo è volontà di commettere il delitto perfetto
che è, come tale, è comprensivo anche del dolo eventuale. Ciò in quanto, imponendo all'agente di
realizzare e non tentare tale delitto, il dolo del tentativo non può essere che quello del delitto
perfetto. Preferibile appare la tesi negativa, per cui il dolo del tentativo è intenzione di commettere
il delitto perfetto, con conseguente esclusione del dolo eventuale. Chi, mirando ad altro risultato,
accetta il rischio che abbia a verificarsi anche un delitto (o un ulteriore delitto), non si rappresenta e
non vuole gli atti come diretti alla commissione di questo delitto. Il che vuol dire che si ha delitto
tentato solo se il soggetto agisce con dolo intenzionale e che non è possibile punire il tentativo con
dolo eventuale, senza violare il divieto di analogia in malam partem, dovendosi ammettere un
tentativo con atti non diretti. Quanto all'accertamento del dolo, si ha in un certo senso, un
capovolgimento del procedimento ordinario. Nel delitto perfetto si parte dal fatto materiale per
accertare, poi, se il soggetto lo ha voluto. Nel delitto tentato occorre prima accertare l’intenzione, il
fine cui l'agente tendeva, lo stesso piano di attuazione, perché solo in rapporto allo specifico fine ed
al concreto piano dell’agente è possibile valutare la idoneità e la direzione univoca degli atti. La
prova del dolo sottostà alle stesse regole che valgono per il dolo in generale.

L’elemento oggettivo
Sotto il profilo oggettivo il delitto tentato è costituito da un elemento negativo e da un elemento
positivo:
- l'elemento negativo consiste nel non compimento dell'azione o nel non verificarsi dell'evento;
- l'elemento positivo consiste nel duplice requisito dell'idoneità degli atti e della univoca direzione
degli stessi.
Quanto alla inidoneità, da sola dilaterebbe oltre misura il tentativo punibile, dovendo essere intesa
in un ampio senso prognostico. Quanto alla direzione non equivoca degli atti, essa dovrebbe
riportare, quale ulteriore requisito limitativo, entro ragionevoli limiti il tentativo punibile.
Sennonché tale requisito viene inteso in due modi diversi, che ne vanificano però entrambi la
funzione. Secondo l'accezione soggettiva, risultante anche dai lavori preparatori, l'univocità
starebbe ad indicare non un elemento costitutivo - limitativo, ma una semplice esigenza processuale
probatoria: che, in sede processuale, sia data la prova che l'atto tendeva al fine criminoso, cioè della
intenzione di commettere il delitto perfetto. Secondo l'accezione oggettiva, l'univocità costituirebbe
un requisito oggettivo e, quindi, ulteriormente limitativo, del tentativo, in quanto starebbe a
significare:
a) secondo la tesi della univocità assoluta, che gli atti devono rivelare, in se e per se considerati,
cioè nella loro oggettività, la loro direzione finalistica verso lo specifico reato, la specifica
intenzione criminosa del soggetto;
b) secondo la tesi della univocità relativa, che gli atti debbono rivelare, in rapporto al piano
criminoso previamente individuato in base tutte le risultanze probatorie, la loro direzione finalistica
allo specifico reato voluto dall’agente. Sennonché la prima tesi non limita, ma elimina il tentativo
punibile; la seconda tesi, viceversa, non limita, ma dilata incontenibilmente il tentativo punibile.

La necessaria pericolosità del tentativo


Per una chiarificazione del problema, va premesso:
a) che, a scanso di illusioni, il tentativo, per sua natura, non consente soluzioni parimenti appaganti
le opposte esigenze di certezza giuridica e di difesa sociale;
b) che la formula dell'articolo 56, pur se introdotta per superare gli angusti limiti degli atti esecutivi
tipici, deve però essere interpretata in conformità del principio di offensività, in modo cioè che sia
costantemente assicurata la reale pericolosità del tentativo punibile;
c) che la pericolosità del tentativo non può che consistere nel pericolo di realizzazione del delitto
perfetto, giacché con la perfezione di esso si avrebbe già la lesione dell'oggetto giuridico o
dell’interesse statale alla non realizzazione della situazione incriminata;
d) che il pericolo di realizzazione del delitto perfetto, perché sia non ipotetico ma reale, deve,
altresì, presentare una sua attualità o perché è già in atto la stessa condotta tipica o perché è sul
punto di essere iniziata o perché il soggetto ha già proceduto o sta procedendo all'opera di
eliminazione dei mezzi di difesa o degli ostacoli materiali che si frappongono alla aggressione del
bene protetto.
Il tentativo nei singoli delitti
Non tutti i reati ammettono il tentativo. E’ ontologicamente inconcepibile:
1. nei delitti colposi, per incompatibilità logica;
2. nei delitti unisussistenti, perché si perfezionano in un solo atto, mentre il tentativo richiede un
iter
criminis frazionabile.
E’ giuridicamente inammissibile:
1. nelle contravvenzioni, perché l'articolo 56 lo limita ai soli delitti, per quelle ragioni di politica
criminale che ne hanno sempre sconsigliato la punibilità rispetto ai reati più lievi e perché molte
contravvenzioni sono già forme di tutela anticipata;
2. nei delitti di pericolo, poiché il pericolo del pericolo è un non pericolo che non si concilia con il
principio di offensività;
3. nei delitti di attentato o a consumazione anticipata, poiché il minimum necessario a dare vita al
tentativo è, qui, già sufficiente per la consumazione;
4. nei delitti preterintenzionali, o meglio in quelli dell'omicidio e dell'aborto preterintenzionali,
dovendo in essi mancare la volontà dell'evento perfezionativo.
Il tentativo è invece ammissibile, benché sussista controversia:
1. nei delitti dolosi qualificati dall'evento, nei casi in cui l'evento ulteriore possa verificarsi anche se
la condotta incriminata non è portata a termine;
2. nei delitti abituali;
3. nei delitti condizionati, nei casi in cui la condizione oggettiva di punibilità possa verificarsi anche
se il reato non si è perfezionato e pur se la punibilità del tentativo si avrà solo dopo che la
condizione è intervenuta;
4. nei delitti a condotta plurima, per i quali determinate condotte acquistano rilevanza se seguite da
un altro tipo di condotta;
5. nei delitti permanenti, allorché la situazione offensiva non sia stata ancora instaurata o non abbia
raggiunto il minimum necessario per la perfezione del reato;
6. nei delitti omissivi impropri, rispetto ai quali è configurabile sia il tentativo incompiuto e quindi
la desistenza, sia il tentativo compiuto e quindi il recesso attivo;
7. nei delitti omissivi propri, rispetto ai quali si è sempre negato il tentativo, affermandosi che,
finché non è scaduto il termine utile per compiere l’azione, il soggetto può sempre adempiervi,
mentre se il termine è scaduto il delitto è già perfetto. Adesso,invece, (v. F-M pag. 579), si ammette
il tentativo anche per questi delitti quando il soggetto non si limiti ad agire, ma compia atti positivi
diretti a non adempiere al comando di azione.

Il delitto tentato circostanziato e circostanziato tentato


Circa il problema della rilevanza delle circostanze del reato rispetto al delitto tentato, occorre
distinguere tra:
1. delitto tentato circostanziato che si ha quando, pur non essendosi il delitto perfezionato, la
circostanza si è completamente realizzata. Trattasi cioè di circostanza perfetta (es. tentato furto con
effettuata violazione di domicilio o praticata infrazione);
2. delitto circostanziato tentato che si ha quando la circostanza non è stata realizzata, ma rientra
tuttavia nel proposito criminoso dell'agente e gli atti compiuti sono idonei e diretti in modo non
equivoco a commettere il delitto circostanziato. Trattasi, cioè, di circostanza tentata (es. tentativo di
rubare gli ingenti valori contenuti nella cassaforte da parte di soggetto, colto con la lancia termica
presso la stessa). Ed il punctum pruriens della disciplina può essere risolto nei termini seguenti. Per
il delitto tentato circostanziato:
a) individuando la cornice edittale della pena del delitto tentato semplice (cioè diminuendo di un
terzo il massimo edittale e di due terzi il minimo edittale della pena per il delitto perfetto semplice);
b) determinando, tra tale massimo e minimo, la pena in concreto per il delitto tentato semplice;
c) aumentando o diminuendo detta pena per la circostanza realizzata.
Per il delitto circostanziato tentato:
a) individuando la cornice edittale della pena del delitto perfetto circostanziato (cioè aumentando,
per l’aggravante, di un giorno il minimo edittale e di un terzo il massimo edittale della pena del
delitto perfetto semplice, diminuendo, per l’attenuante, di un terzo il minimo edittale e di un giorno
il massimo edittale della suddetta pena;
b) determinando, in rapporto a tale cornice, la cornice edittale della pena per il delitto circostanziato
tentato;
c) determinando, nell'ambito di tale cornice, la pena in concreto per il delitto tentato. In caso di
delitto circostanziato tentato circostanziato, che si ha quando sussistono circostanze “perfette” e
circostanze “tentate” (es.: tentativo di furto, per motivi abbietti o futili, di cose di ingente valore), la
pena va determinata calcolando, come sopra, la pena per il d.c.t. e sommando o sottraendo ad essa
gli aumenti o le diminuzioni per le circostanze realizzate, calcolati come sopra.

Le desistenza e il recesso volontari (attivo)


Le due ipotesi si verificano quando il soggetto, dopo aver compiuto atti che già di per sé
costituiscono tentativo punibile, muta proposito ed opera in modo che il delitto non si perfezioni.
Sicché questa non si completa non per fattori estranei, ma per mutata volontà del soggetto. Le due
ipotesi sono regolate dall'articolo 56/3 e 4, che dispone: se il colpevole volontariamente desiste
dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un
reato diverso. Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto
tentato, diminuita da un terzo alla metà.
Circa il profilo oggettivo, la desistenza dall'azione si ha quando l’agente rinuncia a compiere gli
ulteriori atti che poteva ancora compiere perché il reato si perfezionasse. Il recesso si ha, invece,
quando l’agente, dopo aver posto in essere tutti gli atti causali necessari, impedisce l'evento tenendo
una contro-condotta che arresta il processo causale già in atto. Nei reati di evento, la linea di
demarcazione tra desistenza e recesso è data, pertanto, dall'essersi o dal non essersi già messo in
moto il processo causale, corrispondendo alle due diverse situazione quei due diversi gradi di
pericolo per il bene protetto, che giustificano il diverso trattamento penale. Per desistere, all’agente
basta non continuare nel proprio comportamento, possibile, in quanto il comportamento tenuto o
non integra ancora la condotta tipica o, comunque, non esaurisce ancora quanto egli può ancora
compiere per perfezionare il reato con altri atti tipici contestuali. Per recedere, all'agente occorre
attivarsi per interrompere il processo causale già posto in moto dalla condotta e che, altrimenti,
sfocerebbe verosimilmente nell'evento. Quanto all'elemento soggettivo, la desistenza ed il recesso
debbono essere posti in essere volontariamente. Secondo la interpretazione più diffusa, conforme
alla ratio degli istituti, la volontarietà non va intesa nel ristretto senso di spontaneità, come
comprova il fatto che la legge, quando esige la spontaneità, espressamente lo dice. La volontarietà
non va, però, neppure intesa nell'opposto senso lato di una qualsiasi possibilità di scelta, perché,
come tale, verrebbe meno solo quando esiste la impossibilità di portare a termine l'impresa
criminosa. Bensì nel senso di possibilità di scelta ragionevole, onde la volontarietà viene meno
allorché la continuazione dell'impresa, pur se materialmente possibile, presenta svantaggi o rischi
tali da non potersi attendere da persona ragionevole. Quanto agli effetti, la desistenza comporta la
impunità del soggetto per il delitto tentato, salva la responsabilità per un reato diverso se gli atti
compiuti ne integrano gli estremi. Il recesso comporta solo una diminuzione della pena stabilita per
il delitto tentato. Se per recedere l'agente compie un altro reato, risponderà anche di questo.

TENTATIVO E ATTENTATO.
I delitti di attentato si caratterizzano per il fatto che il legislatore ha considerato reato perfetto il
compimento di “atti diretti a” offendere un bene ritenuto meritevole di protezione anticipata
perché di rango particolarmente elevato. Utilizzato nel settore dei delitti contro la personalità dello
Stato. È stata equiparata la punibilità del tentativo e dell’attentato. Oggi l’opinione dominante
ritiene che vi sia omogeneità strutturale fra tentativo e attentato e che, per la punibilità
dell’attentato, occorre che l’attività sia anch’essa idonea a ledere il bene protetto (con esclusione
quindi delle mere attività preparatorie).

Il reato impossibile
Due sono le ipotesi di reato impossibile (art. 49.1):
1. per inidoneità della condotta;
2. per l'inesistenza dell'oggetto materiale.
Quanto alla prima ipotesi, non si tratta di un inutile doppione negativo del delitto tentato, ma si
riferisce ai casi in cui il soggetto ha portato a termine l'intera condotta che per sue
caratteristiche intrinseche non ha realizzato l'offesa al bene protetto. Quanto alla seconda
ipotesi, le difficoltà sorgono perché vi può essere:
a) una inesistenza assoluta dell'oggetto, perché in rerum natura mai esistito o estintosi;
b) una inesistenza relativa, perché l'oggetto è esistente in rerum natura, ma manca nel luogo in cui
cade la condotta criminosa.
Meglio contempera i principi di legalità ed offensività la più recente soluzione per cui:
c) il reato impossibile riguarda le sole ipotesi di inesistenza assoluta dell’oggetto: costituirebbe una
manifesta violazione del principio di offensività punire là dove è precluso, già a priori, un qualsiasi
pericolo di perfezione del delitto;
d) il tentativo punibile riguarda, invece le ipotesi di inesistenza relativa, sempre che al momento
della condotta apparisse verosimile l'esistenza dell'oggetto.
Circa l’elemento soggettivo, il reato impossibile - per chi lo intende come doppione negativo del
tentativo - è necessariamente doloso ed il dolo è identico a quello del delitto tentato. Per chi lo
considera, invece, come figura autonoma, può essere anche colposo essendo esso configurabile
anche nei confronti di reati colposi e non esistendo alcuna controindicazione nella lettera
dell'articolo 49/2. Quanto agli effetti i codici a più marcata impronta soggettivistica affidano al
giudice la facoltà di non punire o di applicare una pena attenuata o prevedono una pena ridotta. Per i
codici, più fermamente ancorati al principio oggettivistico di offensività, il reato impossibile è un
non reato e, come tale, non può essere punito, ma in ragione della esigenza preventiva l'autore può
essere sottoposto a misure di sicurezza. Così per il nostro codice.

Integrazione sul delitto tentato da fonte diversa


Tentativo e circostanze (versione da Wikiuniversity)
L'art. 56 c.p. nulla dispone in relazione alle circostanze, fatta eccezione per la sola specifica
previsione del pentimento operoso di cui si accennerà nel seguito. Il problema della rilevanza delle
circostanze del reato rispetto al delitto tentato ha impegnato nel corso degli anni la dottrina e la
giurisprudenza le quali sono tuttavia pervenute a risultati divergenti e non sempre appaganti. La
prima questione riguarda le modalità attraverso le quali gli elementi accidentali del reato possono
interferire in un contesto di fattispecie tentata. Rileva quindi, la distinzione operata tra le figure:
Delitto tentato circostanziato o tentativo circostanziato di delitto, nel quale le circostanze si sono
compiutamente realizzate nell'ambito del delitto tentato; Delitto circostanziato tentato o tentativo di
delitto circostanziato, nel quale le circostanze non sono state realizzate, ma rientrano nel proposito
criminoso dell'agente e gli atti compiuti si presentano idonei e diretti in modo non equivoco a
commettere il delitto circostanziato; Tentativo circostanziato di delitto circostanziato di nel quale,
pur non essendo stato il delitto perfezionato, una o più circostanze abbiano trovato compiuta
realizzazione, mentre altra o altre rientrano nel proposito criminoso dell'agente e avrebbero
qualificato il fatto se questo fosse giunto a consumazione. Per ciascuna delle suddette figure occorre
interrogarsi circa l'ammissibilità giuridica e la configurabilità ontologica.

Delitto tentato circostanziato


La dottrina e la giurisprudenza dominanti ritengono giuridicamente configurabile l' ipotesi della
compiuta realizzazione delle circostanze anche prima che il reato giunga a consumazione (omicidio
tentato aggravato dal rapporto di parentela; omicidio tentato attenuato dalla provocazione) e a
conforto invocano i principi di offensività e di individualizzazione dell'illecito nonché di
uguaglianza, quest'ultimo violato se, negata ogni rilevanza all'integrazione di circostanze perfette
nel delitto tentato, si riservasse lo stesso trattamento sanzionatorio all'autore del delitto tentato
semplice e a quello del delitto tentato circostanziato. Si osserva altresì che la funzione tipicamente
estensiva propria dell'art. 56 c.p. è destinata ad operare non soltanto nei riguardi delle fattispecie
semplici ma anche con riferimento alle fattispecie di delitto circostanziato. Si discute solamente
circa la ammissibilità del tentativo circostanziato di delitto con riferimento a tutte le categorie di
circostanze. Parte della dottrina ritiene che al tentativo possano essere applicate soltanto le
circostanze comuni che la legge riferisce in generale a qualsiasi reato, e non invece le circostanze
speciali; queste ultime, previste solo in relazione a singole figure criminose consumate, non
potrebbero estendersi al tentativo che dà luogo ad un autonomo titolo di reato.

Delitto circostanziato tentato. Il dibattito in dottrina.


Se appare oggi pacifica la legittimità della figura del delitto tentato circostanziato, una parte della
dottrina ritiene invece inammissibile il tentativo di delitto circostanziato. Tale figura -si afferma -
costituirebbe una deroga al principio di stretta legalità, e sarebbe oltretutto contraria alla logica delle
cose. Più precisamente la violazione del principio di legalità consisterebbe nella costruzione di un
tentativo di circostanza laddove la legge prevede solo un tentativo di delitto, escludendo altresì
tentativi di contravvenzione e di concorso nel reato. E contrasto con la logica empirica risiederebbe
invece nel dar luogo ad un aumento o ad una diminuzione di pena previsti per un fatto quando quel
fatto non è riscontrabile negli eventi. Altra parte della dottrina, al contrario, sostiene l'ammissibilità
della figura del delitto tentato circostanziato. A sostegno di tale tesi si afferma che da un punto di
vista ontologico esistono circostanze che, seppure non possono realizzarsi o non si sono comunque
realizzate nel delitto tentato, possono nondimeno far parte della fattispecie del reato perfetto alla
realizzazione della quale gli atti idonei diretti in modo non equivoco tendevano. Inoltre dal punto di
vista dell'ammissibilità giuridica si ritiene che tale figura trovi fondamento politico sostanziale
nell'esigenza di individualizzazione dell'illecito, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, in base alla
quale si deve valutare non solo l'entità dell'offesa concretamente prodotta dal delitto tentato, ma
anche 1'entità dell'offesa che si sarebbe verosimilmente prodotta qualora tale delitto fosse giunto a
consumazione, esigenza che il ricorso all'art. 133 c.p. non consentirebbe di soddisfare
adeguatamente.

Da un punto di vista prettamente tecnico -giuridico, questa dottrina, confutando le osservazioni dei
sostenitori della opposta tesi per cui nell'ipotesi di delitto circostanziato tentato si avrebbe una
violazione del principio di legalità, sottolinea infine che il codice prevede, sia pur implicitamente,
anche la figura del delitto circostanziato tentato in quanto la parola delitto di cui all'art. 56 c.p.
andrebbe intesa sia come delitto semplice che come delitto circostanziato. Un ulteriore aspetto
problematico cui, in questa sede, conviene fare cenno è quello relativo ai criteri di imputazione
delle circostanze nel delitto tentato: la dottrina dominante interpreta l'art. 59 c.p. nel senso che ai
fini dell'imputazione delle circostanze aggravanti perfette sarebbe sufficiente che l'agente ne abbia
per colpa ignorato l'esistenza, a nulla rilevando che la circostanza acceda ad un reato base doloso
avvero ad un reato base colposo. Se così è si tratta di stabilire se anche le circostanze aggravanti
avanti tentate acquistino rilevanza giuridica non solo quando siano state oggetto di conoscenza
effettiva ma anche quando siano state ignorate o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa:
a questo proposito è stato prospettato che tutti gli elementi rientranti nella fattispecie del delitto
consumato, alla realizzazione del quale gli atti si presentano idonei ed univocamente diretti,
debbano essere imputati all'agente in quanto rientranti nel fuoco del dolo. Per quanto concerne
invece la rilevanza giuridica delle circostanze attenuanti tentate si ritiene preferibile restare ancorati
al criterio della rilevanza obiettiva che vale in materia di attenuanti realizzate, costituendo esso
espressione del più generale principio del favor rei.
Delitto circostanziato tentato circostanziato
Quanto alla figura del delitto circostanziato tentato circostanziato, questa risulta dall'interferenza tra
il delitto tentato circostanziato e il delitto circostanziato tentato: talché, ai fini del suo
riconoscimento giuridico e strutturale, non resta che richiamare gli orientamenti favorevoli
all'ammissibilità delle suddette figure. Con la precisazione che, non essendo prospettabile una
pacifica soluzione in tema di configurabilità delle suddette figure, l'ammissibilità del delitto
circostanziato tentato circostanziato, non costituisce approdo sicuro.

CAPITOLO 6: CONCORSO DI PERSONE NEL REATO

Il fondamento della punibilità del concorso


Si ha concorso di persone nel reato quando più persone pongono in essere insieme un reato che,
astrattamente, può essere realizzato anche da una sola persona. Il fenomeno viene chiamato anche
concorso eventuale di persone per contraddistinguerlo dal c.d. concorso necessario di persone,
che si ha quando è la stessa norma incriminatrice di parte speciale che richiede, per la esistenza del
reato, una pluralità di soggetti attivi es. reati di rissa, associazione a delinquere. La differenza tra i
diversi tipi di associazione a delinquere e il concorso di persone nel reato è che i primi,
presuppongono un “vincolo stabile” tra più soggetti e un “programma criminoso” riferito ad un
insieme indeterminato di fatti delittuosi; il secondo determina, invece, un vincolo “occasionale” tra
più persone circoscritto alla realizzazione di uno o più reati determinati. IL PROBLEMA DEI
MODELLI DI DISCIPLINA DEL CONCORSO CRIMINOSO. Le fattispecie incriminatrici
contenute nei codici moderni sono modellate sulla figura dell’autore individuale: esse quindi non
sono direttamente applicabili a quei concorrenti che apportano si un contributo alla realizzazione
del fatto, ma limitandosi a porre in essere atti da soli non sufficienti a integrare la figura di reato in
questione. Le norme sul concorso di persone nel reato assolvono, appunto, la funzione di rendere
punibili anche comportamenti che non lo sarebbero in base alla singola norma incriminatrice:
in questo senso, le norme sul concorso integrano le singole disposizioni di parte speciale. Il
legislatore italiano del ’30, realizzando un’inversione di rotta rispetto al codice Zanardelli del 1889,
ha optato per il modello della tipizzazione unitaria basata sul criterio dell’efficienza causale
della condotta di ciascun concorrente. L’art. 110 del codice vigente infatti, lungi dall’operare
distinzioni tra diversi “ruoli” di concorrente, si limita a stabilire che “quando più persone
concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”: il
che vuol dire che concorre a pari titolo chi apporta un contributo qualsiasi, purché dotato di
rilevanza causale nell’ambito della realizzazione collettiva del fatto. Per quanto riguarda poi la
compartecipazione primaria e secondaria, l’art. 114 stabilisce: “il giudice, qualora ritenga che
l’opera prestata da talune delle persone che sono concorse nel reato a norma degli artt. 110 e
113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato, può diminuire
la pena”. L’inconveniente è quello di una eccessiva dilatazione della responsabilità a titolo di
concorso. LE TEORIE SUL CONCORSO CRIMINOSO. Per spiegare il fondamento tecnico-
giuridico della punibilità di condotte concorsuali “atipiche” rispetto alle fattispecie incriminatrici
di parte speciale, la dottrina penalistica ha escogitato diverse teorie. Secondo una teoria che ha per
lungo tempo dominato specie in passato, la partecipazione criminosa ha natura accessoria. Con
ciò si vuol dire che la condotta atipica del semplice partecipe non ha rilevanza penale autonoma, ma
l’acquista nella misura in cui accede alla condotta principale o tipica dell’autore: ad es. se A si
limita a fornire a B uno strumento da scasso per compiere un furto, questa sua condotta di ausilio
non potrà essere punita finché l’esecutore materiale non avrà realizzato gli estremi di un’azione
furtiva tipica ai sensi dell’art. 624. Altra teoria quella della fattispecie plurisoggettiva eventuale:
tale sarebbe la fattispecie del concorso di persone, quale fattispecie nuova, autonoma e diversa da
quella incriminatrice di parte speciale modellata sull’autore singolo. Le singole condotte perdono la
loro autonomia per divenire parti di un tutto. Teoria delle fattispecie plurisoggettive
differenziate: tante fattispecie quanti sono i soggetti concorrenti; tutte queste fattispecie avrebbero
in comune il medesimo nucleo di accadimento materiale, ma si distinguerebbero tra loro “per
l’atteggiamento psichico (che è, per ciascuna di esse, quello proprio del compartecipe che si
considera) e per taluni aspetti esteriori (che ineriscono soltanto alla condotta dell’uno o dell’altro
compartecipe)”. La teoria della fattispecie plurisoggettiva spiega meglio, sul piano logico-formale,
il fenomeno della punibilità delle condotte atipiche.

Negli ordinamenti a legalità sostanziale, la punibilità dei concorrenti non ha bisogno, a rigore, di
essere espressamente prevista, ma si ricava dalla stessa nozione materiale di reato (sulla c.d.
concezione estensiva dell’autore). Negli ordinamenti a legalità formale, la punibilità dei concorrenti
deve essere, invece, espressamente prevista. Nel nostro diritto penale tale funzione estensiva è
assolta dall’art. 110, il quale statuisce che quando più persone concorrono nel medesimo reato,
ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita. Parlando genericamente di reato, essa
incrimina il concorso sia nei delitti che nelle contravvenzioni.

Tre sono le teorie formulate per spiegare, tecnicamente, la punibilità del concorso:
1. teoria della equivalenza causale, secondo la quale, poiché ogni persona che concorre a produrre
l’evento unico e indivisibile lo cagiona nella sua totalità, questo andrebbe integralmente imputato ad
ognuno dei compartecipi. Essa, connaturale agli ordinamenti a legalità sostanziale, è inconciliabile
con quelli a legalità formale ove i reati sono tipizzati nei loro requisiti oggettivi e soggettivi;
2. teoria della accessorietà, secondo la quale la norma sul concorso estenderebbe la tipicità della
condotta principale alle condotte accessorie dei compartecipi: in tal modo il semplice partecipe
risponde del reato in quanto la sua condotta atipica accede al fatto tipico dell’autore, dal quale
attinge la sua rilevanza penale. Suo vizio sta nell’esigere, per la punibilità dei compartecipi, una
condotta principale tipica, con le due conseguenti insuperabili limitazioni: - di non riuscire a
giustificare la punibilità dei concorrenti in tutti i casi c.d. di esecuzione frazionata, ove nessuno da
solo realizza l’intero fatto tipico, ma ciascuno; - ne compie una parte soltanto; - di non riuscire a
giustificare la punibilità dei concorrenti nel reato proprio, allorché la condotta materiale sia posta in
essere dall’extraneus, dato che l’autore della condotta principale non può essere che l’intraneus,
cioè la persona che ha la qualifica soggettiva.
3. teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale per la quale dalla combinazione sulla norma
sul concorso con la norma incriminatrice di parte speciale nasce una nuova fattispecie
plurisoggettiva, autonoma e diversa da quella monosoggettiva e che ad essa si affianca, con una sua
nuova tipicità: la fattispecie del concorso di persone nel reato. Questa appare pertanto essere la
teoria da seguire.

Il problema della responsabilità dei concorrenti


Due sono i modelli fondamentali per valutare e punire i concorrenti, seguiti dalle varie legislazioni
passate e presenti e che riflettono le due esigenze, opposte, ma entrambe reali, di qualificare e
differenziare i medesimi:
- quello della responsabilità differenziata, in base al quale i concorrenti sono considerati
diversamente responsabili e punibili a seconda dei differenti tipi di concorso;
- quello della pari responsabilità, per cui essi sono considerati egualmente responsabili e punibili,
in via di principio, salvo valutare in concreto la loro reale responsabilità e graduare la pena in base
al ruolo effettivamente avuto. Nel solco della tradizione classica retributivo - legalistica del secolo
scorso, buona parte delle legislazioni segue il principio della responsabilità differenziata, tipizzando
per figure astratte di concorrenti. Si suole distinguere infatti tra:
- l'autore, che è colui che materialmente compie l’azione esecutiva del reato, o il coautore, che è il
soggetto che, assieme ad altri, esegue tale azione tipica;
- il partecipe (o complice), che è colui che pone in essere una condotta che, di per sé sola, non
integra la fattispecie del reato. Si distingue, poi, la partecipazione psichica, che ha luogo nella fase
creativa, preparatoria o anche esecutiva del reato, la partecipazione fisica, che ha luogo nelle fasi
della preparazione e dell'esecuzione. La prima dà vita alla figura dell'istigatore, di chi cioè fa
sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente. La seconda dà luogo alla figura
dell'ausiliatore, cioè di chi aiuta materialmente nella preparazione o nella esecuzione. A favore del
principio della pari responsabilità si è andata orientando la più moderna dottrina. Oltre a
presentare un solido fondamento razionale, esso meglio soddisfa le esigenze della pratica e della
difesa sociale. Il principio della pari responsabilità non implica, però, una meccanica eguaglianza
del quantum della pena per tutti concorrenti: esso sta a significare l'impossibilità di differenziazioni
aprioristiche di responsabilità sulla base di tipi astratti di concorrenti, ma la necessità pur sempre di
una graduazione in concreto della stessa in rapporto al reale contributo apportato da ciascun
concorrente. Il codice del ‘30 ha adottato, di principio, la soluzione corretta e semplificante della
pari responsabilità dei concorrenti. Ma, ad un tempo, ne ammette la possibilità di concreta
graduazione sia attraverso il riconoscimento di specifiche aggravanti ed attenuanti, sia in virtù
dell'articolo 133, che vale anche per la commisurazione della pena per i singoli concorrenti.

L’elemento oggettivo: la pluralità di agenti


Primo ed ovvio requisito del concorso è che il reato sia commesso da un numero di soggetti
superiore a quello che la legge ritiene necessario per la esistenza del reato. Nei reati
monosoggettivi sono, perciò, necessari e sufficienti almeno due soggetti. Nei reati plurisoggettivi
il concorso è possibile da parte di una o più persone diverse dai soggetti essenziali. Secondo una
diffusa opinione per poter assumere la qualifica di concorrente il soggetto dovrebbe essere
imputabile ed aver agito con dolo, postulando essa l'unicità del titolo della responsabilità. Non vi
sarebbe, dunque, concorso di persone, ma sarebbe applicabile la fattispecie del reato
monosoggettivo, in tutti i casi di autore mediato. Nel diritto italiano, la teoria, fondata in realtà su
una occulta analogia in malam partem della norma incriminatrice di parte speciale, non ha ragione
di essere. Né dal punto di vista pratico, perché la reità mediata è già espressamente punita dalla
legge. Né dal punto di vista dogmatico, perché in tutti i casi sopra elencati il soggetto risponde non
quale autore mediato, ma come concorrente alla stregua dell'articolo 110 ed è sottoposto alla
disciplina del concorso e, in particolare, alle aggravanti previste dal codice. Per integrare la
fattispecie incriminatrice del concorso occorre l'attività di più soggetti, ma non anche che questi
siano tutti imputabili o abbiano tutte agito con dolo, poiché ciò riguarda non la sussistenza del
concorso, ma soltanto la punibilità o il titolo della punibilità dei concorrenti. Il medesimo reato
dell'articolo 110 va inteso come medesimo fatto materiale di reato. I requisiti strutturali del
concorso di persone nel reato sono 4: la pluralità di agenti; la realizzazione della fattispecie
oggettiva di un reato; il contributo di ciascun concorrente alla realizzazione del reato comune;
l’elemento soggettivo. Si possono ricondurre al concorso criminoso le seguenti ipotesi:
costringimento fisico a commettere un reato; reato commesso per un errore determinato dall’altrui
inganno; costringimento psichico a commettere un reato o coazione morale; determinazione in altri
dello stato di incapacità allo scopo di far commettere un reato; determinazione al reato di persona
non imputabile o non punibile.

La realizzazione di un reato
Secondo elemento costitutivo della fattispecie plurisoggettiva del concorso è che sia stato posto in
essere un fatto materiale di reato, consumato o tentato. Siccome il delitto tentato costituisce
l'estremo limite dei fatti punibili, il minimo indispensabile perché possa aversi un concorso punibile
è che siano realizzati gli estremi di un delitto tentato. Il nostro codice non punisce il tentativo di
concorso, ma soltanto il concorso nel delitto tentato. Il puro accordo e la semplice istigazione a
commettere un reato sono per il nostro diritto qualcosa di meno del tentativo punibile; onde per
aversi concorso punibile occorre che vi sia la realizzazione quanto meno di un delitto tentato. Il
reato consumato o tentato può essere materialmente posto in essere, indifferentemente:
- da uno o taluni soltanto dei concorrenti;
- da ciascuno dei concorrenti, allorché ognuno di essi ponga in essere la azione tipica;
- da tutti concorrenti insieme, qualora ciascuno di essi ponga in essere soltanto una frazione
dell'intera condotta tipica.

Il contributo dei concorrenti


La responsabilità a titolo di concorso presuppone che ciascun concorrente arrechi un contributo
personale alla realizzazione del fatto delittuoso. Problema centrale del concorso è quello del
comportamento atipico minimo, necessario per concorrere nel reato. Per il nostro ordinamento,
misto e garantista, il problema va risolto alla luce
1. oltre che del principio di tassatività:
2. del principio di materialità, quando si interviene personalmente nella serie degli atti che danno
vita all’elemento materiale del reato; concorso morale (quando si dà un impulso psicologico alla
realizzazione di un reato materialmente commesso da altri);
3. del principio della responsabilità personale, in forza del quale il comportamento esteriore
deve, altresì, concretizzarsi in un contributo rilevante, materiale e morale, alla realizzazione del
reato: a livello ideativo, preparatorio o esecutivo. Ciò per evitare che attraverso il concorso filtri la
responsabilità per fatto altrui occulta. Perché possa dirsi rispettato il principio della responsabilità
per fatto proprio, nella fattispecie monosoggettiva occorre che il soggetto abbia causato anche
materialmente il reato. Nella fattispecie plurisoggettiva basta che ne abbia agevolato l'esecuzione
da parte di altri, poiché, in forza del vincolo associativo, diventano sue proprie anche le condotte
causali dei soci. Per aversi concorso punibile è, poi, sufficiente che la condotta dell'agente,
concepita come partecipazione materiale, dia luogo almeno ad una partecipazione morale. Forme di
partecipazione psichica, necessarie o agevolatrici, sono, oltre alla istigazione (rafforzare o eccitare
in altri un proposito criminoso già esistente) per determinazione o rafforzamento:

- l'accordo criminoso, cioè di commettere reato e di fornire ciascuno un determinato contributo,


riconducibile, in definitiva, alla istigazione reciproca;
- il cosiddetto consiglio tecnico consistente nel fornire all'organizzatore o all'esecutore notizie
necessarie o agevolatrici;
- la promessa di aiuto da prestarsi dopo la commissione del reato, allorché abbia determinato o
rafforzato l'altrui proposito criminoso.
Viceversa, non può costituire concorso nel reato l'aiuto prestato dopo la commissione del reato, il
quale potrà dare luogo a responsabilità per altro reato (favoreggiamento, ricettazione, ecc.).
Particolare menzione merita il concorso per omissione nel reato commissivo posto in essere da
altri. Per aversi concorso per omissione occorre:
- che anche l'omissione sia condizione necessaria o agevolatrice del reato, premesso che anche
l'altrui non facere può assurgere a conditio sine qua non o soltanto favorire la realizzazione del
reato;
- che tale omissione costituisca violazione dell'obbligo giuridico di garanzia, cioè di impedimento
dei reati altrui del tipo di quello commesso, per cui il soggetto, tenendo il comportamento doveroso,
avrebbe impedito o reso più ardua la realizzazione del medesimo. L'esistenza di detto obbligo
impeditivo contraddistingue il concorso per omissione dalla mera connivenza, che si ha quando il
soggetto assiste passivamente alla perpetrazione di un reato, che ha la possibilità materiale ma non
l'obbligo giuridico di impedire. Specifici obblighi impeditivi di determinati reati sono previsti dalla
legge o contratto a carico di particolari categorie di soggetti, quali il titolare di un potere di
educazione, istruzione, cura, custodia, agli amministratori di società, le guardie giurate. Circa gli
appartenenti alla polizia giudiziaria, alla forza pubblica, alle forze armate sussiste nei loro confronti
l'obbligo di impedire i singoli reati, che vengono commessi alla loro presenza, dovendo essi
rispondere di concorso se hanno assistito passivamente alla loro perpetrazione. Particolare forma di
istigazione è quella realizzata dal c.d. agente provocatore: cioè colui il quale (si tratta non di rado
di appartenenti alla polizia) provoca un delitto al fine di assicurare il colpevole alla giustizia.

L’elemento soggettivo/oggettivo nel concorso doloso


Dottrina e giurisprudenza hanno sempre concordemente ritenuto che nel concorso debba esistere
anche un elemento soggettivo, sulla determinazione del quale permangono però incertezze e
divergenze. Innanzitutto, per il principio costituzionale della responsabilità personale, occorre che al
concorrente sia attribuibile psicologicamente, non solo la condotta da lui materialmente posta in
essere, ma anche l’intero reato realizzato in concorso con gli altri soggetti. Secondo il nostro codice
è configurabile:
1. pacificamente, sia il concorso doloso nel reato doloso, sia il concorso colposo nel reato colposo;
2. meno pacificamente, sia il concorso doloso nel reato colposo, sia il concorso colposo nel reato
doloso.
Quanto alla struttura del dolo di concorso è pacifico che non occorre il previo concerto non
essendo necessario che i soggetti si siano preventivamente accordati per commettere il reato.
Altrettanto pacifico è che non vi può essere concorso nell’ipotesi opposta in cui più soggetti
compiono una analoga azione criminosa ai danni di un terzo, l’uno all’insaputa dell’altro. Si
discute, invece, se sia necessaria la c.d. volontà comune, se cioè occorra che tutti i concorrenti
abbiano la reciproca coscienza e volontà di cooperare con gli altri o se basti che anche uno solo
abbia la coscienza e volontà della realizzazione comune del fatto. Così, ad esempio, nel caso di chi
fa trovare ad una persona, di cui conosce il proposito omicida, un’arma senza che questi sappia
dell’ausilio che gli viene dato. Per la dottrina prevalente e ancor prima per il nostro codice non
occorre, per aversi concorso, la reciproca consapevolezza dell’altrui contributo, essendo
sufficiente che tale consapevolezza esista in uno solo dei concorrenti. La coscienza e volontà di
cooperare è, invece, necessaria in ogni singolo agente perché risponda a titolo di concorso. Il
concorso unilaterale rende punibili condotte altrimenti non perseguibili; in secondo luogo rende
possibile configurare il c.d. concorso doloso nel reato colposo, che si ha quando con una condotta
atipica il soggetto concorre dolosamente nell’altrui fatto colposo: strumentalizza cioè l’altrui
condotta colposa. Quanto all’oggetto, il dolo di concorso è coscienza e volontà del fatto previsto
dalla fattispecie plurisoggettiva del concorso: cioè di concorrere con altri alla realizzazione del
reato. Esso implica perciò:
1. la coscienza e volontà di realizzare un fatto di reato;
2. la consapevolezza delle condotte che gli altri concorrenti hanno esplicato, esplicano o
esplicheranno;
3. la coscienza e volontà di contribuire con la propria condotta, assieme alle altre, al verificarsi del
reato stesso. Dibattuta è la questione della eventuale responsabilità dell’agente provocatore, cioè di
colui che, istigando od offrendo l’occasione, provoca la commissione di reati al fine di coglierne gli
autori in flagranza o, comunque, di farli scoprire e punire.

Il concorso colposo nei reati colposi


Primo problema, ampiamente discusso, fu quello della stessa configurabilità ontologica del
concorso colposo nei reati colposi. Il problema è stato risolto - per i delitti - dall’art. 113 del codice
del ’30 che statuisce: “nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di
più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”. Per le
contravvenzioni è stato risolto dall’art. 110, di cui lo stesso art. 113 giustifica una interpretazione
estensiva. Il secondo problema riguarda, invece, la struttura del concorso colposo, cioè gli elementi
che lo caratterizzano e differenziano non solo dal concorso doloso, ma soprattutto dal concorso di
azioni colpose indipendenti. Nonostante qualche contraria opinione, anche il concorso colposo
richiede, per la sua stessa natura plurisoggettiva, anzitutto un legame psicologico con l’agire altrui,
rappresentato dalla coscienza e volontà di concorrere: non ovviamente, nell’intero fatto criminoso,
ma soltanto nella condotta violatrici delle regole cautelari di comportamento, dirette a prevenire
danni a terzi. In conclusione, per aversi concorso colposo occorrono:
a) la non volontà di concorrere alla realizzazione del fatto criminoso;
b) la volontà di concorrere - materialmente o psicologicamente - alla realizzazione della condotta
contraria a regole cautelari e causa dell’evento;
c) la previsione o la prevedibilità ed evitabilità dell’evento criminoso.
Circa il trattamento, anche nel concorso colposo il codice segue il principio della pari responsabilità
dei concorrenti, quale che sia la forma di partecipazione, ma ne ammette la possibilità di
graduazione in concreto, sia attraverso specifiche aggravanti ed attenuanti, sia in virtù dell’art. 133
(gravità del reato).

La responsabilità del concorrente per il reato diverso


Può accadere che taluno dei concorrenti, nell’eseguire il piano criminoso, commetta di propria
iniziativa altro reato al posto di quello (o oltre a quello) voluto dagli altri concorrenti.
Mancando nel concorrente il dolo di concorrere nel reato diverso, si pone il problema di stabilire se
questo possa essergli penalmente attribuito e a quale titolo. Tre sono le soluzioni astrattamente
ipotizzabili ed anche concretamente seguite dai vari codici:
a) quella soggettivistica di imputare a ciascuno dei concorrenti l’evento effettivamente voluto;
b) quella oggettivistica di imputare l’evento per lo stesso titolo, a tutti i concorrenti sulla base del
solo contributo causale materiale;
c) quella, più corretta, di imputare l’evento causato a titolo di dolo soltanto a chi lo volle e a titolo
di colpa, se ne esistono gli estremi, a chi collaborò volendo un evento diverso. La soluzione più
drastica sub b) fu accolta dall’art. 116 del codice del ’30, assai contrastato, perché deviante dai
principi generali sulla responsabilità e dalla nostra tradizione giuridica. Lo sforzo della dottrina e
giurisprudenza è stato costantemente volto a ricercare interpretazioni correttive, che mitigassero il
rigore di tale norma. Siamo così pervenuti, nelle posizioni più avanzate, ad una forma di
responsabilità non più oggettiva, ma soltanto anomala, nel senso che il concorrente risponde di
un reato doloso sulla base di un reale atteggiamento colposo. Dell'agire colposo sono riscontrabili
tutti e tre i requisiti:
a) della non volontà del fatto sotto il profilo del dolo sia diretto che eventuale;
b) della inosservanza di regole di prudenza, consistente nell'affidarsi, per realizzare il proposito
criminoso, anche alla condotta altrui, che come tale sfugge completamente al dominio finalistico del
soggetto e sulla quale non si può esercitare quel controllo che invece è possibile esercitare sulla
propria condotta, per evitare, almeno entro certi limiti, la causazione di fatti offensivi non voluti;
c) della previsione o prevedibilità come verosimile ed evitabilità dell'evento, accettabili in concreto
(cioè tenendo conto di tutte le circostanze che accompagnano l'azione dei concorrenti) e col
parametro dell'uomo giudizioso ejusdem professionis et condicionis.

IL CONCORSO NEL REATO PROPRIO E IL MUTAMENTO DEL TITOLO DI REATO.


Dottrina e giurisprudenza ammettono la possibilità del concorso dell’estraneo nel reato proprio e
l’art. 117 ne dà espressa conferma. In base ai principi generali sul concorso, devono esistere tutti
gli elementi oggettivi e soggettivi del concorso stesso, quali atteggiano alla particolare figura del
reato proprio. Es. il cittadino comune che istighi un militare alla diserzione. Circa l’elemento
oggettivo è essenziale:
a) che tra la pluralità di soggetti vi sia la partecipazione del soggetto avente la qualifica richiesta
dalla legge;
b) la commissione del reato proprio.
Quanto all’elemento soggettivo, la conoscenza della qualifica occorre per i reati esclusivi e per i
reati propri ma non esclusivi, che senza la qualifica costituirebbero reato comune. Non invece per i
reati propri, ma non esclusivi, che senza la qualifica costituirebbero illeciti extrapenali o
resterebbero, comunque, offensivi di altrui interessi. Sicché, nell’ipotesi in cui l’estraneo ignori che
il concorrente rivesta la qualità richiesta dal reato proprio, secondo i suddetti principi generali egli
dovrebbe rispondere:
a) di alcun reato se si tratta di reati esclusivi;
b) del reato comune nel caso che la qualifica comporti soltanto un mutamento del titolo di reato,
cioè trasformi in proprio un reato altrimenti comune;
c) del reato proprio nel caso che senza la qualifica il fatto costituirebbe illecito extrapenale o
sarebbe comunque offensivo di altrui interessi. Diversa è la soluzione del vigente diritto positivo.
Derogando, parzialmente, ai principi generali, l’art. 117 sancisce infatti: Se, per le condizioni o le
qualità personali del colpevole, o per i rapporti tra il colpevole e l’offeso, muta il titolo di reato
per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato. Operando
un ulteriore effetto estensivo del concorso nel reato proprio, questa disposizione statuisce che in
caso di mutamento del titolo di reato l’estraneo risponde del reato proprio, anche se non ha
conoscenza della qualifica dell’intraneo. Per mitigare tale forma di responsabilità oggettiva, l’art.
117 aggiunge che, se il reato è più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non
sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena.

Le circostanze del concorso


CIRCOSTANZE AGGRAVANTI. Nel concorso doloso la pena deve essere aumentata, come
stabilisce l’art. 112:
a) per chi ha promosso od organizzato la cooperazione nel reato ovvero diretto l’attività delle
persone che sono concorse nel reato medesimo; un aggravante anche quando le persone siano 5 o
più;
b) per chi nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il
reato persone ad esso soggette;
c) per chi, fuori dal caso previsto nell’art. 111, ha determinato a commettere il reato un minore degli
anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica;
d) se il numero delle persone che sono concorse nel reato è di cinque o più, salvo che la legge
disponga altrimenti.
Nel concorso colposo la pena è aumentata per chi ha determinato a cooperare nel delitto:
a) una persona non imputabile o non punibile;
b) un minore degli anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica; c) persone
soggette alla propria autorità, direzione o vigilanza; l’applicazione delle circostanze aggravanti è
obbligatoria.

CIRCOSTANZE ATTENUANTI. Nel concorso sia doloso che colposo, la pena può essere
diminuita, come stabilisce l’art. 114:
a) nel caso che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto
minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato;
b) per chi è stato determinato a commettere il reato da persona che esercita sul soggetto un’autorità,
direzione o vigilanza, o quando il soggetto determinato sia un minore degli anni 18 o persona in
stato di infermità o deficienza psichica. A differenza delle aggravanti dell’art. 112, applicabili
obbligatoriamente, le suddette attenuanti vengono considerate facoltative.

LA COMUNICABILITÀ DELLE CIRCOSTANZE E DELLE CAUSE DI ESCLUSIONE


DELLA PENA.
Quanto alle circostanze, l’originaria disciplina dell’art. 118 è stata così modificata dalla L. n.
19/1990:
1. le circostanze, obiettive e soggettive, sono imputate ai concorrenti nei termini dell’art. 59/1 e 2:
- le attenuanti, oggettivamente (a tutti);
- le aggravanti, soggettivamente: se conosciute o conoscibili dal singolo concorrente;
2. le sole circostanze, aggravanti o attenuanti, strettamente personali, cioè “concernenti i motivi a
delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa” oppure “inerenti alla persona del colpevole”
sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono, anche se conosciute o conoscibili
dagli altri concorrenti.
Quanto alle CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA PENA, l’art. 119 stabilisce che:
1. hanno effetto rispetto a tutti i concorrenti le circostanze oggettive di esclusione della pena
(scriminanti);
2. hanno effetto soltanto nei confronti della persona cui si riferiscono le circostanze soggettive che
escludono la pena per taluno dei concorrenti, dovendosi intendere con questa espressione le c.d.
cause di esclusione della colpevolezza e le cause di esclusione della sola punibilità e non anche del
reato.

Desistenza volontaria e pentimento operoso


In mancanza di esplicita presa di posizione legislativa sul punto, la problematica si riduce alla
seguente domanda: se per andare esente da pena, il concorrente che desiste possa limitarsi a
neutralizzare il proprio contributo personale o debba, piuttosto, impedire la consumazione del reato
anche da parte degli altri correi. Ove il soggetto che desiste rivesta la posizione di esecutore, il
recesso si manifesterà in forma negativa: cioè, semplicemente, interrompendo l’attività già
iniziata. Assai più problematica è, invece, la posizione del semplice complice. Chi si limita a fare
il complice, spesso, ha interamente fornito il proprio apporto ancor prima che la realizzazione
collettiva raggiunga la soglia del tentativo. Ciò rende la posizione del mero complice più
svantaggiosa: avendo già esaurito il suo contributo all’azione collettiva, il partecipe dovrà
attivarsi per neutralizzare per neutralizzare le conseguenze della collaborazione. Proprio per il
principio della personalità della responsabilità penale, è da ritenere che la desistenza del
partecipe sia configurabile anche allorché egli si limiti a neutralizzare la condotta già realizzata,
elidendone gli effetti rispetto alla produzione dell’evento: così il reato non può più essere
considerato opera sua. Posto che la desistenza rientra tra le cause personali di esclusione della pena,
essa non si stende a tutti i concorrenti, me esime da responsabilità soltanto i soggetti cui si riferisce.

Pentimento operoso
La configurabilità del p. o. presuppone, a sua volta, che l’azione collettiva sia giunta ad esaurimento
e che uno dei concorrenti riesca ad impedire il verificarsi dell’evento lesivo: ad es., A e B
infliggono coltellate a C con volontà omicida, ma B, pentito, porta C in ospedale, salvandolo dal
decesso. Il pentimento operoso ha natura di circostanza attenuante soggettiva.

Il reato (necessariamente) plurisoggettivo o concorso necessario


Si ha un reato necessariamente plurisoggettivo quando è la stessa norma di parte speciale che
richiede, per la esistenza del reato, una pluralità di soggetti attivi. Fondamentale è la distinzione fra:
1. reati plurisoggettivi propri, in cui tutti i coagenti sono assoggettati a pena in quanto l’obbligo
giuridico, la cui violazione integra il reato, incombe su ciascuno di essi. Così nel duello,
nell’associazione per delinquere, nella rissa, in cui tutti i soggetti sono tenuti alla osservanza del
dovere imposto dalla norma penale;
2. reati plurisoggettivi impropri in cui uno o taluni soltanto dei coagenti sono punibili in quanto
su di essi soltanto incombe l’obbligo giuridico di non tenere il comportamento. Il primo problema
che si pone è se, nel reato plurisoggettivo improprio, il concorrente necessario, non espressamente
dichiarato punibile dalla legge, possa essere ritenuto responsabile a titolo di concorso unicamente
per avere tenuto la condotta tipica, cioè prevista dalla norma sul reato plurisoggettivo. E’ comune
opinione che punire, in tali casi, il concorrente necessario sarebbe violare il principio di legalità. Il
secondo problema è se il concorrente necessario, non dichiarato punibile come tale dalla legge,
possa essere punito a titolo di concorso per una condotta atipica, diversa ed ulteriore rispetto a
quella di concorrente necessario e volta a far realizzare all’altro concorrente la condotta punibile. Il
terzo problema è se ai concorrenti necessari, dichiarati punibili dalla legge, siano applicabili le
norme sul concorso di persone e, particolarmente, le circostanze degli artt. 112 e 114 e le
disposizioni sulla comunicabilità delle circostanze e delle cause di esclusione della punibilità. Va da
ultimo notato che è possibile il concorso eventuale nel concorso necessario da parte di persone
diverse dai concorrenti necessari, che non realizzano le azioni tipiche della fattispecie
plurisoggettiva.

Concorso eventuale e reati associativi


Esistono alcuni problemi di interferenza tra l’istituto generale del concorso di persone e il reato
associativo (banda armata, associazione di stampo mafioso, ecc.) che corrisponde al modello dei
reati a concorso necessario. Si tratta di stabilire in presenza di quali condizioni i membri di
un’associazione criminosa rispondano, a titolo di concorso eventuale, anche dei cosiddetti reati –
scopo materialmente eseguiti da latri associati.
a) per la prima questione, occorrono alcuni presupposti minimi da accertare in concreto caso per
caso, evitando il rischio di attribuire una sorta di responsabilità di posizione ai capi delle
associazioni elevandoli al ruolo di concorrenti morali nei singoli delitti commessi da altri associati.
b) La seconda questione attiene alla configurabilità di un concorso eventuale ex art. 110 c.p nel
reato associativo c.d. concorso esterno da parte di soggetti estranei all’associazione criminosa.
Sennonché molto dubbia appare l’ammissibilità di un concorso esterno nei termini di un concorso
materiale, dal momento che un vero concorso non può che essere (al contrario del concorso morale)
di partecipazione interna.

PARTE TERZA. CAPITOLO 1. IL REATO COMMISSIVO COLPOSO

Il fatto commissivo colposo tipico: azione


Gli elementi costitutivi della fattispecie commissiva colposa presentano maggiore complessità
rispetto a quelli del delitto commissivo doloso. Nell’ambito del delitto colposo assumono rilevanza
penale non solo comportamenti coscienti e volontari, ma anche comportamenti che non
corrispondono al concetto di azione quale dato sorretto dalla coscienza e volontà come coefficienti
psicologici effettivi (colpa c.d. incosciente). Che cosa significa azione cosciente e volontaria (art.
42) nel delitto colposo? Nel campo del delitto colposo vi è azione penalmente rilevante finché è
possibile muovere un rimprovero per colpa. Detto in breve: azione e colpa stanno e cadono
insieme. Ciò posto, si comprende come il concetto di coscienza e volontà dell’azione ex art. 42
vada differenziato a seconda che si tratta di reati dolosi o colposi. Nei reati dolosi la coscienza e
volontà consiste in un coefficiente psicologico effettivo. Invece, nei delitti colposi, tale requisito si
identifica ora con un dato psicologico (colpa c.d. cosciente) ora con un dato normativo (colpa c.d.
incosciente). In quest’ultimo caso l’azione si considera “voluta” anche quando risulta soltanto
“dominabile” dal volere. È dominabile o controllabile un atto che può essere impedito mediante
l’attivazione dei normali poteri di arresto e di impulso della volontà. All’agente, cui si imputa il
fatto, si rimprovera, dunque, di non avere attivato quei poteri di controllo che doveva e poteva
attivare per scongiurare l’evento lesivo. Il giudizio sulla volontarietà assume in tali casi un
contenuto normativo proprio perché il rimprovero si fonda, essenzialmente, sul fatto che l’agente
non ha osservato, pur potendolo, lo standard di diligenza richiesto nella situazione concreta.

Inosservanza delle regole precauzionali di condotta


L’art. 43 definisce il delitto colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto,
non è voluto dall’agente, e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia (colpa
generica) ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica). Gli
elementi strutturali del delitto colposo sono requisiti di natura psicologica e requisiti a carattere
normativo. Ogni illecito colposo si conforma sulla base del rapporto intercorrente fra la
trasgressione del dovere oggettivo di diligenza e i restanti elementi della fattispecie incriminatrice.
Sicché, il contenuto del dovere di diligenza muta in funzione del tipo di fattispecie che viene in
questione. Azione tipica è quella che nel complesso degli atti compiuti da un soggetto e
causalmente collegati con l’evento, per prima dia luogo ad una situazione di contrarietà con la
regola di condotta a contenuto preventivo.

Criteri di individuazione delle regole di condotta: “prevedibilità” ed “evitabilità” dell’evento.


Il limite del caso fortuito.
Alla base delle norme precauzionali (di diligenza, prudenza o perizia), tendenti a scongiurare i
pericoli connessi allo svolgimento delle diverse attività umane, stanno “regole di esperienza”
ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi
più adatti ad evitarne le conseguenze. La prevedibilità e l’evitabilità dell’evento costituiscono i
criteri di individuazione delle misure precauzionali da adottare nelle diverse situazioni concrete, una
volta che sia insorta o stia per insorgere una situazione di pericolo. Si deve, tuttavia, avvertire che
non basta ad esimere da responsabilità la semplice osservanza di una regola cautelare, che
l’agente adotti proprio perché socialmente diffusa. L’agente non dovrà limitarsi ad adottare cautele
tradizionalmente suggerite dagli usi sociali, ma dovrà di volta in volta emettere un rinnovato
giudizio di prevedibilità ed evitabilità, inteso a verificare la persistente validità della regola
cautelare che dovrebbe essere osservata. Principio di precauzione; tale principio seppur inidoneo a
produrre automaticamente nuove regole cautelari, funge invece da criterio atto a sollecitare un
rafforzamento dei doveri di attenzione e di informazione tendenti a verificare col massimo scrupolo
la fondatezza dei pericoli o dei rischi paventabili. Trova un limite nell’ambito delle attività si
rischiose, ma consentite dall’ordinamento per la loro elevata utilità sociale: da questo punto di
vista, le cautele da osservare non possono giungere comunque fino al punto di pregiudicare nei suoi
aspetti essenziali il comportamento autorizzato. Il criterio della prevedibilità ed evitabilità
dell’evento opera anche nell’ambito della colpa c.d. specifica, dovuta, cioè, all’inosservanza di
regole scritte di condotta: solo che in questo caso il giudizio prognostico sul pericolo e sui mezzi
atti ad evitare l’evento dannoso, è compiuto dall’autorità che pone la norma scritta.

Fonti e specie delle qualifiche normative relative alla fattispecie colposa


Le regole precauzionali richiamate dalle fattispecie colpose hanno una fonte sociale e giuridica.
a) Sono qualificate normative sociali la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia, le quali sono
ricavate dalle esperienza della vita sociale (colpa c.d. generica).
- Si ha negligenza se la regola di condotta violata prescrive un’attività positiva (ad. es. controllare
la chiusura del gas prima di uscire).
- L’imprudenza consiste, invece, nella trasgressione di una regola di condotta da cui discende
l’obbligo di non realizzare una determinata azione oppure di compierla con modalità diverse da
quelle tenute.
- L’imperizia consiste in una forma di imprudenza o negligenza qualificata e si riferisce ad attività
che esigono particolari conoscenze tecniche: ad es. l’attività medico – chirurgica. Quel che
determina la complessità del reato colposo è, appunto, la circostanza che rimane affidato al giudice
il compito di diagnosticare l’azione delittuosa sulla base di criteri sociali di valutazione
necessariamente aperti e fluidi.
b) La fonte delle regole cautelari può anche essere giuridica o scritta: a ciò allude l’art. 43
quando parla di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa c..d. specifica): ad es.
legge antinfortunistica, il codice della strada. La predeterminazione legale delle regole di prudenza
garantisce la certezza del diritto assai più delle elastiche norme sociali di condotta applicate al
terreno della colpa generica. Tuttavia, a fronte di questo vantaggio, la colpa specifica presenta un
inconveniente: infatti, la semplice difformità della condotta concreta dalle norme scritte basta a far
presumere, iuris e de iure, l’esistenza della colpa. Beninteso, occorre, di volta in volta verificare se
le norme scritte esauriscano la misura di diligenza richiesta all’agente nelle situazioni considerate.
Le norme giuridiche a contenuto prudenziale sono, a loro volta, distinguibili in rigide (ad es.
fermarsi di fronte al rosso) ed elastiche (ad es. la distanza di sicurezza dei veicoli va rapportata allo
spazio di frenata).

Contenuto della regola di condotta


Tra le regole di condotta si possono elencare le seguenti:
a) Obbligo di astensione dal compiere una determinata azione per un elevato rischio di
avvenimento della fattispecie colposa (ad es. colpa c.d. per assunzione del medico che
opera senza la necessaria esperienza chirurgica).
b) Obbligo di adottare misure cautelari, nel caso, ad es., dell’uso di materiali pericolosi.
c) Obbligo di preventiva informazione, ad es., per chi si accinge a svolgere una determinata
attività produttiva.
d) Obbligo di controllo sull’operato altrui, ad es., di istruire i propri dipendenti e di
controllarne l’operato.

Standard oggettivo del dovere di diligenza


Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento deve essere effettuato ex ante in base al
parametro oggettivo dell’ homo eiusdem professionis et condiciones: cioè, la misura della
diligenza, della perizia e della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che svolga la
stessa professione o mestiere (così chi dispone tegole sul tetto, anche se proprietario, sarà giudicato
col metro dell’operaio specializzato). Vi può essere una pluralità di tipi di agenti – modello: ad es. il
medico cattedratico, lo specialista o il medico generico. Ciò non impedisce l’individuazione di
agenti con conoscenze superiori rispetto a quelle proprie del tipo di appartenenza: questi dovranno
essere tenuti in conto nel ricostruire l’obbligo di diligenza da osservare. La dottrina tedesca sostiene
che l’accertamento della colpa debba seguire due fasi e in questo senso si parla di doppia misura
della colpa. Mentre in sede di tipicità si accerta la violazione del dovere obiettivo di diligenza
commisurato alla stregua dell’agente modello, in sede di colpevolezza si verifica se il soggetto
agente in concreto era in grado di impersonare il tipo ideale di agente collocato nella situazione
data.

Limiti del dovere di diligenza: rischio consentito


Vi sono delle attività intrinsecamente pericolose, che vengono, tuttavia, consentite in quanto
indispensabili: si pensi alla circolazione automobilistica, aerea, ferroviaria, ecc. In questo caso, il
giudizio di colpa presuppone che si sia oltrepassato il limite della adeguatezza sociale o rischio
consentito. I parametri di valutazione di questo rischio sono applicati secondo criteri meramente
fattuali: si legittima, cioè, una prassi in cui il grado di pericolosità dei comportamenti tollerati
supera il grado di utilità prodotto a beneficio della comunità. Un criterio più vincolante è fornito,
invece, dal riferimento alle autorizzazioni amministrative, che, ove esistano, rendono lecito
determinate attività, a fronte del rispetto di precise norme cautelari.

Principio dell’affidamento e comportamento del terzo.


Il principio dell’affidamento corrisponde ad una valutazione sociale secondo cui ciascun
consociato confida nell’altrui rispetto delle regole cautelari. Bisogna distinguere se la regola
violata sia una norma scritta oppure una norma desumibile dagli usi sociali. Nel primo caso si
tratterà di accertare, in via interpretativa, se nello scopo perseguito dalla disposizione scritta rientri
anche l’impedimento di eventi cagionati dall’azione di terze persone. Più complesso è il discorso
con riferimento alla violazione di regole generiche di diligenza: a questo riguardo è opportuno
distinguere secondo che la condotta del terzo dia, a sua volta, luogo a una forma di responsabilità
colposa o dolosa.
a) Mancato impedimento del fatto colposo del terzo. In base al principio di affidamento non si ha
l’obbligo di impedire che realizzino comportamenti pericolosi terze persone altrettanto capaci di
scelte responsabili. Questo principio ha delle eccezioni:
- nei casi in cui particolari circostanze lascino presumere che il terzo medesimo non sia in grado di
soddisfare le aspettative dei consociati (es. prestare la macchina a un terzo senza patente che
provoca un incidente mortale).
- Quando l’obbligo di diligenza riguarda una posizione di garanzia nei confronti di un terzo
incapace di provvedere a se stesso (ad es. un infermiere di ospedale psichiatrico che ha l’obbligo di
impedire che il pazzo a lui affidato compia atti inconsulti). E’ in base a queste premesse che va
affrontato il problema della responsabilità colposa nelle attività di equipe.
b) Mancato impedimento del fatto doloso del terzo. Nella misura in cui l’azione dolosa è frutto di
una libera scelta del soggetto che ne è l’autore, vale a maggior ragione in questo caso il principio
dell’autoresponsabilità: ciascuno risponde delle proprie azioni deliberate in in modo libero e
responsabile. Questo principio ha qualche eccezione:
- un soggetto che riveste una posizione di garanzia avente a contenuto la difesa di un bene rispetto
alle aggressioni di terzi (es. guardia del corpo assunta per proteggere una persona o un bene).
- nel caso di un uomo che controlla fonti di pericolo (armi, veleni, esplosivi, ecc.) di cui un terzo
possa far uso per un illecito doloso che molto probabilmente questo terzo commetterà.

Causazione dell’evento
Nel reato colposo di evento il risultato lesivo rappresenta la conseguenza della condotta illecita: il
nesso di causalità si accerta secondo la teoria condizionalistica. L’evento deve rappresentare una
conseguenza necessaria non tanto della semplice azione materiale, quanto piuttosto di un’azione
connotata da specifiche caratteristiche: dell’azione, cioè, che contrasta col dovere oggettivo di
diligenza. Il dubbio concerne il punto se la prevenibilità dell’evento conforme al tipo di quelli che la
norma precauzionale mirava ad impedire debba essere verificata in astratto o in concreto. A favore
della prima tesi militano, indubbiamente, ragioni di certezza, essendo nel campo della colpa per
inosservanza di norme scritte. L’affermazione di responsabilità riposerebbe, così, sul criterio
puramente oggettivo. Appare, dunque, preferibile la tesi che richiede la prevenibilità in concreto
dell’evento. Se si accoglie questa tesi non è, però, agevole giustificare, sul piano dogmatico, perché
la responsabilità venga meno in tutti i casi in cui sia fondamentalmente sostenibile che l’evento
lesivo si sarebbe egualmente verificato pur osservando la condotta prescritta. Si prospettano più
modelli di soluzione:
- il c.d. comportamento alternativo lecito: cioè, comportamento omesso conforme al dovere di
diligenza, ma inidoneo ad impedire l’evento.
- il criterio dell’aumento del rischio: cioè, ai fini dell’affermazione sarebbe sufficiente accertare
che l’inosservanza della regola di condotta ha determinato un rilevante aumento del rischio di
verificazione dell’evento.

Antigiuridicità
Anche nell’ambito del delitto colposo, la tipicità ha una funzione indiziante rispetto
all’antigiuridicità concepita come assenza di cause di giustificazione: onde, se si accerta l’esistenza
di un’ esimente, il fatto commesso non costituisce reato. In base all’esperienza giurisprudenziale, le
esimenti si sono prospettate con riferimento a:
- consenso dell’avente diritto;
- legittima difesa;
- stato di necessità.

Consenso dell’avente diritto


La giurisprudenza prevalente tende a escludere l’efficacia scriminante del consenso nei reati
colposi, facendo leva su due ordini di argomentazioni.
1) Il consenso non scriminerebbe a causa della natura indisponibile dei beni della vita e
dell’integrità fisica (eccedenti quelli consentiti dall’art. 5 c.c.). Qui si può obiettare che la tesi della
compatibilità ha una portata pratica assai limitata, considerato lo scarso numero di reati colposi
posti a tutela di interessi indisponibili.
2) Sussisterebbe incompatibilità tra il consenso concepito come volontà di lesione e il carattere
involontario del reato colposo. In questo senso, si specifica che di consenso dell’avente diritto si
può parlare soltanto in rapporto ad un reato doloso. Qui si può obiettare che si può consentire
un’attività pericolosa, senza, per questo, volere l’effettiva verificazione dell’evento lesivo.

Legittima difesa
L’applicabilità della L.D. al reato colposo è contestata da una parte della giurisprudenza: per
giustificare un simile comportamento negativo, si fa leva sul rilievo che la legittima difesa
presuppone la volontà dell’offesa. L’assunto non convince, perché, a ben vedere, entro lo spazio
occupato dall’azione difensiva appare legittimo provocare anche un evento lesivo che l’agente, in
realtà, non ha voluto e che avrebbe potuto evitare con l’uso della diligenza dovuta.

Stato di necessità
La configurabilità dello stato di necessità nel delitto colposo è, generalmente, ammessa in dottrina e
giurisprudenza. È da precisare che lo stato di necessità ricorre veramente soltanto quando l’azione
necessitata viola il dovere obiettivo di diligenza.

Colpevolezza
Non c’è differenza rispetto alla colpevolezza nell’ambito del delitto colposo. È sufficiente
esaminare la struttura psicologica della colpa, la c.d. misura soggettiva del dovere di diligenza e le
cause di esclusione della colpevolezza.

Struttura psicologica della colpa


Dal punto di vista psicologico la colpa presuppone, innanzitutto, l’assenza della volontà diretta a
commettere il fatto: la realizzazione della fattispecie colposa deve, dunque, essere non voluta. Nella
manualistica si continua a riproporre la distinzione tra colpa propria e colpa impropria. La colpa
propria racchiude la maggior parte dei casi nei quali è riscontrabile la maggiore caratteristica della
colpa in sé, la non volontà dell'evento. Ci sono, tuttavia, casi eccezionali in cui la colpa, in tali
frangenti detta impropria, non è caratterizzata da questo elemento e l'evento è voluto dall'agente.
Sono:
• Eccesso colposo nelle cause giustificatrici: lo stesso art. 55 del c.p. sancisce che l'esercizio
sproporzionato di un diritto o di un adempimento, così come in una situazione di legittima difesa o
di stato di necessità, comporta non il dolo ma la colpa dell'agente.
• Erronea supposizione della presenza di una causa giustificatrice (art. 59/ult. comma): si
verifica quando l'agente ritiene erroneamente che al verificarsi di un fatto, ricorrano i presupposti di
una causa giustificatrice.
• Errore di fatto determinato da colpa (art. 47).

Colpa cosciente e incosciente


La distinzione più rilevante che s'è andata affermando nell'ambito del genus della colpa è fra
cosciente ed incosciente:
- la prima ricorre quando l'agente ha previsto l'evento senza però averlo voluto,
- la seconda senza previsione alcuna.
Mentre l'ultima rappresenta il caso più diffuso, la prima è molto più rara ed è stata esaminata dalla
dottrina solo in tempi recenti. È molto simile al dolo eventuale, ma si differenzia da quest'ultimo
perché manca l'accettazione da parte dell'agente dell'evento possibile, e c'è anzi la convinzione che
con la condotta antigiuridica o pericolosa posta in essere non accada nulla. La colpa cosciente
costituisce un'aggravante della pena.

La misura soggettiva del dovere di diligenza


La deviazione dallo standard di diligenza esigibile dal gruppo di appartenenza conduce gli
oggettivisti ad incriminare l’automobilista inesperto che abbia procurato il ferimento di terze
persone per non aver evitato una manovra fattibile per l’automobilista medio; ed anche l’anziana
signora che non impedisca il ferimento del nipote nelle porte della metropolitana. La scusabilità
del difetto di socializzazione viene, infatti, riconosciuta solo quando sia ascrivibile all’intero
gruppo di appartenenza. Proprio per evitare queste conseguenze, i soggettivisti hanno optato per
una maggiore personalizzazione dell’addebito, che consiglia di superare il criterio
dell’aspettativa del gruppo quando l’agente non sia personalmente in grado di rendersi conto della
deviazione dallo standard di diligenza. Come si è più sopra accennato, i soggettivisti propendono
per una considerazione anche delle capacità intellettive dell’agente, che conducano alla
ricostruzione di un modello umano, sostituivo del modello sociale proposto dagli oggettivisti. In
realtà, la diversità di vedute esula dai confini di una mera disputa tecnico - giuridica ed affonda le
proprie radici in una diversa concezione del principio di colpevolezza. Si tratta, cioè, di stabilire
se, ai fini del giudizio di colpa, assumano rilevanza le caratteristiche fisiche e/o intellettuali come:
difetti, menomazioni o cattive condizioni di salute, livello di socializzazione e scolarizzazione,
conoscenze ed esperienze. In una prospettiva di equilibrato bilanciamento tra difesa sociale e
principio di colpevolezza, anche a nostro avviso preferibile, è giusto evitare che si risponda
penalmente al di là dei limiti fisico – intellettuali di ciascuno.

Il grado della colpa


L’art. 133 menziona, fra gli indici di commisurazione della pena, il grado della colpa, ma non
esplicita i criteri in base ai quali il giudice debba compiere una tale valutazione. Si deve subito
escludere che sul terreno penalistico siano automaticamente trasferibili le tradizionali distinzioni
civilistiche relative ai gradi della colpa. Se l’essenza della colpa consiste nella violazione del dovere
obiettivo di diligenza, per stabilire quanto grave sia la colpa dovrà accertarsi la misura di
divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e la condotta che era, invece, da attendersi in
base alla norma cautelare cui ci si doveva attenere nel caso di specie. In sede di verifica di questo
grado di divergenza soccorreranno un criterio di valutazione oggettivo e un criterio di valutazione
soggettivo.

Cause di esclusione della colpevolezza


Se l’esigenza di riconoscere efficacia scusante nelle circostanze anormali capaci di condizionare il
giudizio di colpa è da molti condivisa, il vero punctum dolens concerne la ritenuta necessità di una
loro espressa tipizzazione legislativa. È in questa prospettiva che qualche autore legge le
disposizioni codicistiche relative a:
- il caso fortuito o forza maggiore (art. 45);
- costringimento fisico (art. 46).
Sarebbero queste le circostanze anormali che impediscono all’agente di conformare il proprio
comportamento alla regola obiettiva di diligenza da osservare nel caso concreto. Ma la vera
rilevanza pratica del ricorso alla categoria in esame riguarda quelle circostanze anormali che non
sono state tipizzate legislativamente (ad es. stanchezza eccessiva, stordimento, terrore, paura, ecc.).
Ma l’art. 42/1 che dispone nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla
legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà, è, infatti, idonea a
ricomprendere tutte le circostanze anormali non tipizzate o innominate.
La cooperazione colposa
CASO 56
Il proprietario di un’automobile affida a persona che egli sa priva di patente il proprio mezzo:
l’affidatario, a causa dell’inesperienza nella guida, provoca lesioni a terzi. La configurabilità di
un concorso nei reati colposi è stata negata fino a tempi recenti dalla dottrina che riteneva elemento
essenziale della fattispecie plurisoggettiva il previo concerto, ravvisabile solo nei reati dolosi. Tanto
che, lo stesso codice, all’art. 113 c.p., pur ammettendo la figura, si è ben guardato dal parlare di
concorso preferendo la definizione di cooperazione nel delitto colposo. Stabilisce la norma che nel
delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di
queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. Per poter parlare di cooperazione colposa
occorre un legame psicologico tra le varie condotte, costituito dalla coscienza e volontà di ciascuno
di concorrere con altri; pare evidente (a sommesso parere di chi scrive) che, trattandosi di reato
colposo caratterizzato dalla non volontà dell’evento, i compartecipi non avranno la volontà di
concorrere alla commissione di un reato, ma solo alla condotta violatrice di norme cautelari.
Orbene, la necessità di questo legame determina la differenza fra cooperazione colposa ed il
concorso di cause indipendenti. Mentre nella cooperazione le volontà devono tutte confluire
consapevolmente all’interno della condotta dalla quale deriva l’evento, nei casi di concorso di cause
indipendenti l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni non collegate da
alcun vincolo soggettivo. Perciò, nella cooperazione, l’agente ha la consapevolezza di contribuire
con la propria condotta, sommata a quella di altri, alla realizzazione dell’evento non voluto; di
fatto, si realizza un’unità di reato con pluralità di soggetti. Come in ogni reato colposo, anche nella
cooperazione occorre la violazione di norme cautelari, che potrà consistere:
- nella inosservanza della regola cautelare propria del concorrente (ad es. prestare la macchina al
soggetto privo di patente);
- nella inosservanza comune ai concorrenti (si pensi a due soggetti che accendono un falò nel bosco
determinando per negligenza un incendio);
- nel concorso nella inosservanza altrui (ad esempio l’istigazione a superare il limite di velocità).
Infine, secondo Mantovani, occorre la prevedibilità - evitabilità dell’evento non voluto. Vi sono
accese discussioni sul fatto se sia possibile ravvisare una cooperazione colposa nelle
contravvenzioni, ciò in quanto la lettera dell’art. 113 c.p. prevede esclusivamente la cooperazione
nel delitto colposo. La dottrina dominante (su tutti, Mantovani) e la giurisprudenza, ritengono
configurabile il concorso colposo nella contravvenzione colposa in base all’art. 110 c.p. che fa
riferimento al reato latu sensu, comprensivo quindi di delitto e contravvenzione. L’art. 113, dunque,
sarebbe stato previsto in considerazione del fatto che i delitti sono punibili a titolo di colpa nei soli
casi espressamente previsti dalla legge, quindi non per escludere laipotizzabilità della cooperazione
colposa nelle contravvenzioni, ma per estendere ai delitti una disciplina che per le contravvenzioni
deriva già dall’art. 110 c.p. in forza della loro punibilità, indifferentemente a titolo di dolo o colpa.
Altra parte della dottrina (Fiandaca - Musco) obietta che, in tal modo, stando il comma 2 dell’art.
113 c.p., si dovrebbe pervenire alla conclusione assurda che le aggravanti di cui ai numeri 1 e 2
dell’art. 112 c.p. sarebbero applicabili alle sole contravvenzioni colpose e non anche ai delitti. Vi è,
infine, chi ritiene che a considerare configurabile ex art. 110 c.p. il concorso colposo nelle
contravvenzioni, si finirebbe per estendere eccessivamente le punibilità di condotte atipiche e, per
di più, sulla base di una norma implicita; tale tipo di considerazione appare, a sommesso parere di
chi scrive, la più logica e sintetica analisi della fattispecie in oggetto.

PARTE QUARTA. CAPITOLO 1. IL REATO OMISSIVO

Nozioni Generali
Il modello tipico di illecito penale è, tradizionalmente, costituito dal reato di azione. Fino a buona
parte dell’800, il reato omissivo ha rappresentato una figura eccezionale. Coerentemente ad
un’ideologia liberale, l’unico limite alla libertà d’azione del cittadino era rappresentato dall’obbligo
di non aggredire le altrui posizioni di interesse. Ma in conformità all’affermarsi del diverso
principio solidaristico, che fa obbligo di attivarsi per la salvaguardia di beni altrui posti in
pericolo, si assiste al progressivo incremento della forma di responsabilità per omissione,
incremento che subisce la massima espansione con la legislazione sociale del secondo dopoguerra.
Con il crescere, così, dei reati omissivi aumenta anche l’attenzione della dottrina per tale figura di
reato che merita uno studio a sé.

Diritto penale dell’omissione e bene giuridico.


Qualcuno dubitò della conformità dei reati omissivi al principio di offensività poiché
l’incriminazione di condotte omissive mirerebbe non tanto a impedire la lesione di un bene
giuridico preesistente, ma piuttosto a promuovere il benessere collettivo attraverso la creazione di
un bene o di un’utilità futura. Il Bending, ad esempio, fu incline a degradare il reato omissivo puro
a illecito di pura disobbedienza e, in questa logica, è auspicabile la trasformazione di tali reati in
semplici illeciti amministrativi. Tale orientamento, però, omette di considerare che esistono
fattispecie omissive poste a tutela di un quid assimilabile al concetto di bene giuridico, come
nel caso dei cd. Beni Prestazione costituiti dalle disponibilità economico-finanziarie necessarie per
assolvere le funzioni tipiche di uno stato sociale(es., la regolare riscossione dei tributi).

La bipartizione dei reati omissivi propri e impropri.


I reati mossivi si dividono in due gruppi.
- REATI OMISSIVI PROPRI.
Sono i delitti omissivi che si perfezionano con il mancato compimento dell’azione che la legge
penale comanda di realizzare (anche se dall’omissione possono derivare degli eventi
indesiderati). L’omittente viene punito per non aver realizzato l’azione doverosa e non per non
aver impedito il verificarsi dell’evento. Incrimina la semplice omissione dell’assistenza occorente
ad una persona che si trova in pericolo: se ne consegue la morte del soggetto bisognoso di aiuto,
l’omittente non risponde di omicidio, ma si applica soltanto una circostanza aggravante.
- REATI OMISSIVI IMPROPRI O COMMISSIVI MEDIANTE OMISSIONE
Sono i reati che consistono nella violazione dell’obbligo di impedire il verificarsi di un evento
tipico. Si tratta di ipotesi in cui l’omittente riveste un ruolo di garante della salvaguardia del bene
protetto. Es. la madre che non presta soccorso al figlio in pericolo, o il bagnino ecc. Ma, altra
caratteristica ancora importante, oltre alla presenza di un evento, dei reati omissivi impropri, è il
fatto che tale tipo delittuoso è carente di previsione legislativa espressa. La fattispecie del reato
omissivo improprio nasce, infatti, nel nostro ordinamento, dal combinarsi della clausola
generale contenuta nell’art. 40 secondo comma con le norme di parte speciale, direttamente
incentrate su di un reato d’azione (commissivo) e trasformate in fattispecie omissiva per via di
interpretazione giudiziale. E’, dunque, preferibile distinguere tra reati omissivi impropri,
individuando, così, gli illeciti omissivi carenti di previsione legislativa espressa ( ricavati in base
all’art. 40), e reati omissivi propri, che sono quelli direttamente configurati come tali dal legislatore
penale (sia o no presente un evento naturalistico nella loro struttura).

Struttura del reato omissivo: tipicità. La fattispecie obiettiva del reato omissivo proprio.
Situazione tipica.
Come già detto, nel reato omissivo proprio il legislatore provvede a fissare elementi costitutivi
della fattispecie. La figura di illecito è, in primo luogo, costituita dalla situazione tipica cioè
dall’insieme dei presupposti da cui scaturisce l’obbligo di attivarsi. Ad es., nell’omissione di
soccorso (art. 593), la situazione tipica è costituita dalla condizione di pericolo in cui versa il
soggetto bisognoso di aiuto. Il legislatore nel descrivere la fattispecie può, analogamente al reato
commissivo, utilizzare sia elementi descrittivi (cioè che rinviano alla realtà naturale) che elementi
normativi (es omissione di un atto d’ufficio).
Condotta omissiva tipica e possibilità di agire.
Falliti gli sforzi di fornire all’omissione una nozione fisica (proprio perché per sua essenza è un non
essere), l’orientamento dominante propende per l’accoglimento della teoria normativa (del
Grispigni) secondo cui l’omissione è il non compimento, da parte di un soggetto, di una determinata
azione che era da attendersi in base ad una norma. Condotta omissiva tipica è, nell’illecito omissivo
proprio, il mancato compimento dell’azione richiesta. Tuttavia occorre che il soggetto abbia la
possibilità materiale di agire nel senso richiesto dalla norma, possibilità che è esclusa sia
dall’assenza delle necessarie attitudini psico-fisiche (es. non omette di soccorrere un bagnante se
non è in grado di nuotare) dalle condizioni esterne (es la lontananza dal luogo). Gli altri elementi
che entrano a far parte della possibilità di agire, inteso nel senso più ampio, inclusivo delle capacità
intellettive, devono tenersi conto in sede di colpevolezza.

La fattispecie obiettiva del reato omissivo improprio.


Autonomia della fattispecie omissiva impropria e principio di legalità.
Come detto, i reati omissivi impropri nascono dalla combinazione dell’art. 40 con le fattispecie di
parte speciale e quindi l’evento del cui impedimento si è chiamati a rispondere è quello tipico ai
sensi di una fattispecie commissiva. Tali reati vengono, perciò, anche definiti reati commissivi
mediante omissione per indicare che si tratta di fattispecie in cui, comunque, si viola un divieto di
cagionare l’evento, a differenza dei reati omissivi propri che, invece, contravvengono ad un
comando di agire. Va, invece, chiarito che, dall’incontro tra la clausola di equivalenza dell’art 40 e
le fattispecie di parte speciale, nasce una nuova fattispecie autonoma e non una forma di
manifestazione della fattispecie commissiva e in quanto fattispecie omissiva è caratterizzata da un
comando. I reati omissivi impropri pongono problemi di conflittualità con il principio di legalità
poiché lasciano al giudice il compito di individuare le fattispecie commissive che possono essere
convertite in omissive e la individuazione degli obiettivi di agire la cui violazione giustifichi una
responsabilità penale.

La sfera di operatività dell’art 40 secondo comma.


Occorre a questo punto stabilire la portata della clausola di equivalenza espressa dal secondo
comma dell’art 40: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a
cagionarlo. Una prima limitazione riguarda ovviamente quelle fattispecie in cui il legislatore fa
menzione della condotta omissiva (es. art 450 e 659); altra limitazione riguarda quelle fattispecie
integrate da una condotta caratterizzata, necessariamente, da un comportamento positivo (in
particolare i reati a condotta vincolata) es. furto rapina e per le stesse caratteristiche anche i reati di
mano propria e i reati abituali. Al contrario, vi sono fattispecie che incriminano la violazione di
obblighi comportamentali, violazione che può avvenire indifferentemente con un’azione o
un’omissione: es. l’art. 380 che incrimina il patrocinatore o il consulente tecnico che, rendendosi
infedele ai suoi doveri professionali, arreca danno alla parte da lui assistita. Un’ulteriore indicazione
è data dal fatto che la norma dell’art. 40 è inserita in una rubrica del rapporto di causalità da cui si
deduce che la clausola di equivalenza vale solo per i reati di evento. Specifico campo di azione della
clausola di equivalenza risulta, di conseguenza, quello dei reati causali puri, cioè quei reati di
evento in cui il disvalore si incentra nella produzione del risultato lesivo, mentre sono indifferenti le
specifiche modalità di realizzazione. Sono costruiti secondo questo schema i reati contro la vita e
l’incolumità personale e i reati contro l’incolumità pubblica (art. 422, 423, 430).

Situazione tipica.
Anche per il reato omissivo improprio, la fattispecie obiettiva ricomprende, anzitutto, la situazione
tipica intesa come il complesso dei presupposti di fatto che danno vita a una situazione di
pericolo per il bene da proteggere e che, pertanto, rendono attuale l’obbligo di attivarsi del
“garante” (es. il nuotatore inesperto che si trova in difficoltà obbliga il bagnino a intervenire per
impedire l’evento-morte). Il contenuto e lo scopo del dovere di agire del garante possono
specificarsi soltanto in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Omesso impedimento dell’evento ed equivalente normativo della causalità.


Elementi costitutivi della fattispecie omissiva impropria sono, oltre alla situazione tipica, la
condotta omissiva di mancato impedimento e l’evento non impedito. Ovviamente, occorre
dimostrare una connessione tra l’evento e la condotta omissiva (ad es., tra annegamento del
bagnante e l’inattività del bagnino). Nonostante gli sforzi di parte della dottrina in tal senso, non è
possibile nei reati omissivi riscontrare un rapporto di causalità uguale a quello esistente nei reati
commissivi. Nella fattispecie omissiva non esiste, infatti, un rapporto con i dati reali del mondo
esterno, dal momento che, per determinare il nesso omissione-evento, si emette un giudizio
ipotetico e prognostico: cioè il giudice deve immaginare come realizzata l’azione doverosa omessa
e verificare se, in presenza di essa, l’evento lesivo sarebbe venuto meno. Ciò non toglie che i criteri
per accertare la causalità siano gli stessi dei reati commissivi, solo che vanno adattati. Per effettuare
tale giudizio prognostico, il giudice utilizzerà il modello della sussunzione sotto leggi. Ad es., per
verificare il nesso di causalità tra l’omissione del medico che non ha praticato l’antitetanica e la
morte provocata da infezione tetanica, occorre verificare l’esistenza di una legge biologica la quale
asserisca che l’inoculazione del siero rende generalmente inattivo il focolaio infettivo. Come test di
controllo, si potrà usare, anche questa volta, la formula della condicio sine qua non la quale, per
l’illecito omissivo improprio va così articolata: l’omissione è causa dell’evento quando non può
essere mentalmente sostituita dall’azione doverosa, senza che l’evento venga meno. Anche il
GRADO DI CERTEZZA raggiungibile nell’accertamento del nesso causale non può essere lo
stesso del nesso causale vero e proprio, trattandosi di un giudizio effettuato in termini ipotetici. Il
fatto che nel caso di reato omissivo si richieda un grado di certezza meno rigoroso, non toglie che
possano esistere casi in cui il giudizio prognostico sull’attitudine dell’azione doverosa a impedire
l’evento, possa raggiungere un grado vicino alla certezza: se una baby sitter lascia un bambino
piccolissimo nei pressi di uno stagno e il bambino annega, non sussiste alcun dubbio che sarebbe
bastata la sorveglianza per scongiurare con certezza l’evento letale.

La posizione di garanzia.
Ai fini della responsabilità per reato omissivo non è sufficiente l’esistenza di un nesso causale tra
condotta omissiva ed evento, ma occorre anche verificare la violazione di un obbligo giuridico di
impedire l’evento. Il problema è, allora, quello di individuare, nell’ambito degli obblighi giuridici
di attivarsi, quelli la cui violazione è penalmente rilevante; problema di non facile soluzione visto
che l’art 40 non fornisce alcun criterio selettivo. La dottrina tradizionale accoglie la teoria formale
dell’obbligo di impedire l’evento, la quale esige l’espressa previsione dell’obbligo giuridico di
attivarsi da parte di fonti formali. Tale teoria è stata, però, criticata perché non è in grado di spiegare
per quale motivo solo alcuni degli obblighi giuridici sono penalmente rilevanti.

La concezione contenutistico - funzionale.


Per le insufficienze mostrate dalla teoria formale, la dottrina più recente si è sforzata di sostituire o,
comunque, di integrare i criteri formali con criteri materiali desunti dalla specifica funzione della
responsabilità per omissione. In particolare, tale dottrina parte dalla considerazione che la
responsabilità per omissione è prevista al fine di apprestare una tutela rafforzata a determinati beni,
stante l’incapacità totale o parziale dei loro rispettivi titolari di proteggerli adeguatamente: da qui
l’attribuzione a soggetti, diversi dai titolari, della funzione di garanti dell’integrità di tali beni. Ai
fini della responsabilità penale per omissione, non basta, perciò, un qualsiasi obbligo giuridico, ma
occorre una posizione di garanzia nei confronti del bene protetto definibile come un particolare
vincolo di tutela tra un soggetto garante e un bene giuridico, determinato dall’incapacità (totale o
parziale) del titolare a proteggerlo autonomamente; classico esempio è quello della madre che lascia
morire di inedia il proprio figlio.
La posizione di protezione e la posizione di controllo.
Le posizioni di garanzia possono essere inquadrate nei due tipi fondamentali della POSIZIONE DI
PROTEZIONE e della POSIZIONE DI CONTROLLO. LA POSIZIONE DI PROTEZIONE ha
per scopo di preservare determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono minacciarne
l’integrità. LA POSIZIONE DI CONTROLLO ha lo scopo di neutralizzare determinate fonti di
pericolo, in modo da garantire l’integrità di tutti i beni giuridici che ne possono risultare minacciati.
Le posizioni di garanzia, sia di protezione che di controllo, possono distinguersi in originarie e
derivate. Le prime sussistono in capo a determinati soggetti in considerazione della speciale
posizione che rivestono, le seconde sono ravvisabili quando trapassano dal titolare originario a un
soggetto diverso; di solito il passaggio avviene attraverso un contratto (es la baby sitter che si
impegna a sorvegliare i bambini in assenza dei genitori). Obblighi di garanzia possono derivare
anche da un’assunzione volontaria della posizione di garante; parte della dottrina inquadra tale
ipotesi nell’istituto della gestione di affari, ma a prescindere dall’applicabilità di uno schema
civilistico, ciò che caratterizza l’assunzione volontaria è che l’intervento del garante determina o
accentua un’esposizione a pericolo del bene da proteggere o impedisce l’attivarsi di istanze di
protezione alternative.

La distinzione tra agire e omettere nei casi problematici.


Un primo gruppo di casi problematici riguarda i casi di reati colposi imperniati su un’azione: es.
nel caso di chi guida a fari spenti nella notte provocando un incidente, si può sostenere anche che
l’incidente è dovuto all’omissione della regola che impone di guidare di sera con i fari accesi.
Anche se è vero che nella colpa è sempre insito un momento omissivo (l’inosservanza di una
regola cautelare), il criterio discretivo può essere rappresentato dalla verifica in capo al soggetto
della posizione di garante che, nell’esempio fatto, non sussiste: il dovere di prudenza cui è tenuto
l’automobilista ha come presupposto una pregressa azione positiva pericolosa e non una posizione
di garanzia in senso tecnico. Altri casi problematici riguardano reati dolosi caratterizzati
dall’impedimento di azioni soccorritrici altrui e di interruzione di un personale intervento
soccorritore. In alcuni casi è indifferente definire il fatto come azione o omissione: es nel caso di
un medico che applica la macchina cuore-polmoni, ma, poco dopo, la disattiva senza ragione,
l’indifferenza deriva dal fatto che in quanto garante dell’ammalato il medico risponde in ogni caso
di omicidio.

Antigiuridicità
Relativamente all’antigiuridicità, valgono le stesse regole del reato commissivo anche se è più
difficile la sussistenza delle cause di giustificazione rispetto ai reati omissivi. Le ipotesi più
frequenti riguardano lo stato di necessità (es. chi omette di prestare soccorso perché l’azione di
salvataggio porrebbe in pericolo la sua vita).
Colpevolezza.
La colpevolezza nei reati omissivi presenta le stesse caratteristiche dei reati commissivi, salvo
alcune peculiarità, anche se dottrina minoritaria ritiene che la colpevolezza nei reati omissivi sia
meno grave perché il lasciare le cose come stanno implica una carica di minore pericolosità.

Dolo omissivo
Nel settore dei reati omissivi, la ricostruzione degli aspetti strutturali e contenutistici del dolo risulta
complessa e delicata. Fino a che punto, infatti, è possibile avere la coscienza e volontà di omettere,
senza conoscere previamente la legge penale che impone di attivarsi in un determinato modo. La
fattispecie dolosa omissiva comporta problemi soprattutto relativamente ai reati omissivi propri
dove, mancando un evento naturalistico, diventa essenziale la conoscenza della norma, essendo il
disvalore del fatto incentrato tutto sulla condotta normativamente descritta. E’ opportuno
distinguere i reati omissivi propri in due categorie:
- LE FATTISPECIE CON SITUAZIONE DI TIPO PREGNANTE in cui l’obbligo di attivarsi
ha per presupposto una realtà immediatamente percepibile, a prescindere dalla conoscenza
dell’obbligo di agire: ad es. nell’omissione di soccorso la visione di un ferito provoca una spinta
psicologica ad agire, anche se il soggetto ignora l’esistenza della norma che punisce l’omesso
soccorso.
- LE FATTISPECIE CON SITUAZIONE TIPICA NEUTRA riguardano quegli illeciti di
creazione legislativa, senza che ad essi preesista un disvalore socialmente percepibile. In questi casi,
dunque, parte della dottrina ritiene che per la sussistenza del dolo occorra la conoscenza del
comando penale, in deroga all’art. 5. Nei reati omissivi impropri il dolo abbraccia anche i
presupposti di fatto della posizione di garanzia Ad es., una baby sitter non risponde di omicidio
doloso se non ha riconosciuto nel bambino che sta annegando quello affidatogli. Trova, cioè,
applicazione in questi casi la disciplina dell’art. 479, anche con riferimento agli errori che cadono
sugli obblighi extrapenali di agire, derivanti ad esempio da un contratto.

Colpa.
Anche la ricostruzione della colpa solleva problemi particolari nelle fattispecie omissive, in
funzione della loro particolare struttura. L’adempimento del dovere di diligenza presuppone, è
ovvio, che il soggetto obbligato abbia la possibilità di agire nel senso richiesto. Possibilità di agire
in senso fisico ma non solo. I requisiti della possibilità di agire sono così compendiabili:
a) Conoscenza o riconoscibilità della situazione tipica.
b) Possibilità obiettiva di agire.
c) Conoscenza o riconoscibilità del fine dell’azione doverosa.
d) Conoscenza o riconoscibilità dei mezzi necessari al raggiungimento del fine medesimo.
Anche per i reati omissivi, ai fini della colpa occorre verificare se la condotta si pone in contrasto
con il dovere oggettivo di diligenza alla stregua del criterio dell’agente modello, quindi, tener conto,
in un secondo momento, ai fini della rimproverabilità, dell’omissione delle capacità psico-fisiche
dell’agente concreto. Il criterio accennato risulta utile, soprattutto, nei casi di colpa c.d.
incosciente, bene esemplificata dalle omissioni dovute a pura dimenticanza. Nell’ambito dei delitti
omissivi impropri, dovere di diligenza e obbligo di impedire l’evento finiscono per coincidere anche
se concettualmente restano entità distinte.

Coscienza dell’illiceità’
Anche nei reati omissivi, ai fini della sussistenza della colpevolezza, occorre la possibilità di
conoscere il precetto penale, cioè, il comando di agire; tale possibilità nei reati omissivi va
verificata con maggiore rigore.
Tentativo.
E’ pacificamente riconosciuto il tentativo nei reati omissivi impropri: è evidente che il non
verificarsi dell’evento per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente dimostra che è
ammissibile il tentativo. Piuttosto, il dubbio riguarda l’individuazione del momento iniziale
dell’omissione punibile: deve ritenersi che l’omissione tentata assume rilevanza penale quando
provoca un pericolo diretto per il bene tutelato. Difficoltà sorgono, invece, sulla configurabilità del
tentativo nei delitti omissivi propri, perché se il termine utile per compiere l’azione prescritta non
è ancora scaduto, è ancora possibile l’azione dovuta, mentre, se il termine è scaduto, il reato è già
perfetto. Tuttavia parte della dottrina ritiene che, anche relativamente ai reati omissivi propri, è
possibile il tentativo tutte le volte in cui il soggetto compie atti positivi diretti in modo non
equivoco a non adempiere al comando d’azione.

Partecipazione nel reato omissivo.


Si può configurare sia un concorso mediante omissione in un reato omissivo, il fenomeno è
ammissibile allorché più soggetti obbligati decidano, di comune accordo, che ciascuno non
adempirà al suo obbligo di condotta (es. più persone convengono di non prestare soccorso ad un
ferito), sia anche in concorso mediante azione di un reato omissivo (es. Tizio istiga Caio a non
soccorrere un ferito).

Presupposti e limiti della partecipazione mediante omissione nel reato commissivo.


Relativamente al concorso mediante omissione in un reato commissivo si è già detto che, poiché il
giudizio di equivalenza ex art 40 riguarda i reati di evento, solo rispetto a questi è possibile un
concorso mediante omissione. Ovviamente, occorre che l’omittente rivesta la posizione di garante,
anche se, in concreto, non è sempre agevole verificarne l’esistenza: infatti, anche la giurisprudenza
ha mostrato orientamento contrastanti.

PARTE QUINTA. CAPITOLO 1. LA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA

La responsabilità oggettiva, nell'ambito del diritto penale, indica quella forma di imputazione della
responsabilità penale che prescinde dalla verifica della sussistenza del criterio d'imputazione
soggettiva del fatto al suo autore (nelle diverse forme del dolo, della colpa e della preterintenzione,
anche se la preterintenzione stessa viene, da taluna parte della dottrina e da parte della
giurisprudenza, ricondotta nell'alveo della responsabilità oggettiva). La responsabilità oggettiva è,
dunque, caratterizzata dall'imputazione del fatto penalmente rilevante esclusivamente alla luce della
ricorrenza del nesso causale tra la condotta e l'evento lesivo. La fonte codicistica generale che
contempla il criterio d'attribuzione della responsabilità oggettiva è individuata nell'art. 42 c.p., 2°
comma nella parte in cui prevede:...la legge determina i casi in cui l'evento è posto altrimenti a
carico dell'agente come conseguenza della sua azione od omissione. Parte della dottrina ha
ravvisato, nella responsabilità per colpa specifica, una forma di responsabilità oggettiva occulta
in quanto il coefficiente psicologico effettivo viene sostituito da un coefficiente psicologico
presunto (rimproverabilità presunta) sulla base di una valutazione ex ante astrattamente fatta dal
legislatore in ordine alla prevedibilità dei risultati offensivi possibili in relazione alla violazione di
specifiche norme cautelari. Ulteriore forma di responsabilità oggettiva occulta è stata ravvisata nell'
aberratio delicti di cui all'art. 83 cp, ove interpretato nel senso che la colpa menzionata in detto
articolo, quale criterio d'attribuzione della responsabilità penale per il reato diverso da quello
voluto, sarebbe automaticamente collegata alla violazione della norma penale, a prescindere da
ogni effettiva valutazione in ordine alla prevedibilità o all'evitabilità del risultato offensivo da parte
dell'agente, ovvero qualora interpretato nel senso che il riferimento alla colpa sia limitato alle
conseguenze punitive e non al criterio d'attribuzione della responsabilità.

La responsabilità oggettiva, nel campo penale, pone delicati problemi di compatibilità con l'art. 27
Cost., sia sotto il profilo del possibile contrasto con il principio della responsabilità penale
colpevole (anche se vi è chi ritiene che l'art. 27 Cost. escluda solamente la responsabilità per fatto
altrui), sia sotto il profilo del possibile contrasto con il principio, espresso nel contesto del
medesimo art. 27, della finalità rieducativa della pena. L'evoluzione legislativa e della
giurisprudenza costituzionale confermano i dubbi circa la legittimità costituzionale della
responsabilità oggettiva quale criterio di attribuzione della responsabilità penale. Rileva, in
particolare, sotto tale aspetto, la L. n. 19/1990 che, nel modificare l'art. 59 c.p. in materia di criteri
d'applicazione delle circostanze aggravanti, ha previsto l'applicabilità delle medesime solo in
caso di loro conoscenza effettiva o in caso di loro ignoranza colposa ovvero in caso di erronea
supposizione della loro assenza determinata da colpa. Con riferimento alla giurisprudenza della
Corte Costituzionale, rileva, in primo luogo, la nota sentenza n. 364/1988 che, sindacando della
legittimità costituzionale dell'art. 5 c.p., ha avuto modo di precisare come debba esservi, ai fini
dell'individuazione di una responsabilità penale conforme ai principi costituzionali, un legame
psicologico tra l'agente e gli elementi più significativi della fattispecie penale astratta. In tale
direzione, rileva altresì la sentenza della Corte che ha fornito un' interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 116 c.p., a mente della quale, il concorrente risponde del
reato diverso da quello pianificato commesso da altro concorrente solo ove tale diverso reato sia
uno sviluppo prevedibile di quello formante l'oggetto del disegno criminoso. Ulteriore ipotesi di
responsabilità oggettiva contemplata dalla normativa codicistica, è quella di cui all'art. 117 c.p. che
prevede la responsabilità dell'extraneus a titolo di concorso nel reato proprio. Con riferimento a
tale fattispecie, la norma non precisa se l'extraneus debba essere a conoscenza o meno della
qualifica soggettiva del concorrente, sicché la sua responsabilità a titolo di concorso nel reato
proprio deve essere affermata anche in difetto di tale consapevolezza. In tal caso, tuttavia, e
seguendo tale interpretazione, la norma introdurrebbe un'ulteriore fattispecie di responsabilità
oggettiva, sulla quale graverebbero dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo della
compatibilità con i principi di responsabilità personale colpevole e della finalità rieducativa della
pena di cui al già menzionato art. 27 Cost. Ulteriore ipotesi di responsabilità oggettiva, contemplata
e disciplinata dalla parte generale del codice era quella prevista dall'art. 57 cp a carico del
direttore o del redattore responsabile con riferimento ai reati commessi a mezzo della stampa.
Invero si discuteva, in dottrina, se la responsabilità del direttore e del redattore responsabile fosse,
per l'appunto, di carattere oggettivo o se, invece, si trattasse di una responsabilità per omessa
vigilanza. Con la modifica dell'art. 57 c.p. introdotta dalla L. n. 127 del 1958,

il legislatore ha abbracciato la tesi della responsabilità per fatto proprio omissivo colpevole
stabilendo che: "Salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso,
il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico
da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo dalla pubblicazione siano commessi
reati, e' punito, a titolo di colpa, se un reato e' commesso, con la pena stabilita per tale reato,
diminuita in misura non eccedente un terzo". Il reato configurato dall'art. 57 c.p. è un reato proprio
richiedendosi una determinata qualifica soggettiva in capo all'autore ed è un reato d'evento in
quanto, ai fini della sua integrazione, si richiede che venga commesso un reato a mezzo stampa
perfetto sia quanto ai requisiti oggettivi sia quanto ai requisiti soggettivi. Secondo parte della
dottrina, peraltro, l'evento di reato commesso a mezzo della stampa si configurerebbe come una
condizione di punibilità e, tuttavia, si tratta di teoria rimasta isolata. La responsabilità del direttore
responsabile è stata affermata anche in caso di consenso alla pubblicazione di notizie fondate su
fonti non correttamente e scrupolosamente verificate. Come chiarito, l'art. 57 cp, così come riscritto,
non configura più un'ipotesi di responsabilità oggettiva in quanto il criterio di responsabilità
soggettiva dell'autore del fatto è quello della colpa per l'omessa vigilanza.

Naturalmente, ove il direttore responsabile si rappresenti la possibilità della commissione del


reato, risponderà in concorso ex art. 110 c.p. del reato effettivamente commesso a mezzo della
stampa. Ulteriori fattispecie sulle quali si discute se si tratti di responsabilità oggettiva o di
responsabilità per colpa sono quelle del delitto preterintenzionale e quella dei delitti aggravati
dall'evento (che parte della dottrina riconduce, peraltro, nell'alveo dei delitti preterintenzionali).
Dalla lettura dell’art. 42 si deduce che il legislatore considera la preterintenzione come un criterio
autonomo di ascrizione di responsabilità, diverso da un lato dal dolo e dalla colpa e, dall’altro, dalla
responsabilità oggettiva. Le ipotesi pacifiche di preterintenzione nel nostro ordinamento sono
soltanto due. La principale è contenuta nel codice penale ed è costituita dall’omicidio
preterintenzionale, che si realizza allorché un soggetto, con atti diretti a percuotere o ledere,
cagiona (involontariamente) la morte di un uomo, art. 584. La seconda è quella dell’aborto
preterintenzionale, la quale ricorre quando, con azioni dirette a provocare lesioni, si cagiona
come effetto non voluto l’interruzione della gravidanza (l. 194/1978). Il delitto
preterintenzionale costituisce un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva. Art. 43, comma
2°, stabilisce che: il delitto è “preterintenzionale o oltre l’intenzione, quando dall’azione od
omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.
Combinazione tra un’azione diretta a commettere un delitto meno grave e la realizzazione di un
evento più grave di quello voluto: l’azione diretta a provocare l’evento meno grave, in quanto tale
evento è voluto, è certamente dolosa. Quanto all’evento più grave non voluto, la legge si limita ad
affermare che deve essere conseguenza della condotta, ma non richiede espressamente che sia
commesso con colpa (responsabilità oggettiva). Si definiscono aggravati o qualificati dall’evento i
reati che subiscono un aumento di pena per il verificarsi di un evento ulteriore rispetto ad un fatto-
base che già costituisce reato. Il fenomeno dei delitti aggravati dall’evento è riscontrabile
soprattutto nell’ambito dei reati commissivi dolosi: ad es. il reato di avvelenamento di acque o di
sostanze alimentari è punito più gravemente (cioè con l’ergastolo) se dal fatto deriva la morte di
qualcuno. Vi sono anche ipotesi di reati omissivi (omissione di soccorso), di delitti colposi o di
contravvenzioni parimenti aggravati dal verificarsi di un evento più grave. A norma dell’art. 44
quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole
risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui
voluto. L’interferenza tra la responsabilità obiettiva e le condizioni obiettive di punibilità è
dovuta alla circostanza che l’evento-condizione può verificarsi a prescindere da qualsiasi relazione
psicologica col soggetto. È da precisare, però, che la predetta interferenza sussiste veramente in
presenza di due condizioni. Le condizioni obiettive di punibilità sono distinguibili in “intrinseche”
ed “estrinseche”, a seconda che contribuiscono o no ad approfondire la lesione dell’interesse
protetto.

PARTE SESTA CAPITOLO 1. CONCORSO DI REATI

Si ha concorso di reati quando uno stesso soggetto ha violato più volte la legge penale e, perciò,
deve rispondere di più reati. Sul piano del diritto sostanziale, il problema è quello del trattamento
sanzionatorio. In un sistema penale orientato in senso repressivo retributivo tre sono i criteri in
astratto possibili:
1. il cumulo materiale, per il quale si applicano tante pene quanti sono i reati commessi;
2. il cumulo giuridico, per il quale si applica la pena del reato più grave, aumentata
proporzionalmente alla gravità delle pene concorrenti, ma in modo complessivamente inferiore al
loro cumulo materiale;
3. l'assorbimento o consunzione, per il quale si applica soltanto la pena del reato più grave,
intendendosi in questo assorbite le pene minori. Una particolare ipotesi di concorso di reati è
costituita dai cosiddetti reati connessi, cioè fra loro collegati:
1. da connessione teleologica, quando cioè un reato è commesso allo scopo di eseguire un altro
reato;
2. da connessione consequenziale, allorché un reato viene commesso per conseguire o assicurare a
sé o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto, ovvero l'impunità di un altro reato oppure per
occultarlo. Fuori di queste ipotesi, è improprio parlare di concorso di reati come categoria
sostanziale.

Il concorso materiale e il concorso formale


Circa il trattamento sanzionatorio, il nostro diritto vigente distingue, a differenza di molti altri
codici, tra concorso materiale e concorso formale di reati. Si ha concorso materiale (si applicano
tante pene quanti sono i reati) quando il soggetto ha posto in essere più reati con più azioni o
omissioni. Può essere omogeneo se è stata violata più volte la stessa norma penale o eterogeneo se
sono state violate norme diverse. Sì ha concorso formale di reati (si applica la pena prevista per la
violazione più grave aumentata fino al triplo) quando il soggetto ha posto in essere più reati con
una sola azione od omissione. Anch’esso è omogeneo o eterogeneo a seconda che si violi la stessa
norma più volte o più norme diverse. Abbandonato il sistema del cumulo giuridico, adottato dal
codice del 1889, il codice del ‘30 accolse il sistema del cumulo materiale temperato. Cioè, ha
adottato come principio base il cumulo materiale delle pene, apportandovi però degli opportuni
temperamenti, consistenti innanzitutto nel fissare dei limiti insuperabili di pena. Con la riforma del
D.L. n. 99/74 si è opportunamente passati al cumulo giuridico, così modificandosi l'articolo 81/1: è
punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo
chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commetta più
violazioni della medesima disposizione di legge. La figura del concorso apparente di norme
ricorre quando una medesima condotta soltanto in apparenza risulta riconducibile a più fattispecie
incriminatrici, ma in realtà integra un solo reato.

Il problema della unità e pluralità di reati


Il concorso di reati presuppone risolto il problema della unità e pluralità di reati. Tra i più
impegnativi della scienza penale, il tema ha dato luogo a tre fondamentali opinioni: la concezione
naturalistica, la concezione normativa, la concezione normativa su base ontologica. Per la
concezione naturalistica la unità e pluralità di reati va desunta da strutture preesistenti in rerum
natura ed individuabili in base ad una teoria generale della realtà. L’agire umano costituirà un solo
reato o più reati a seconda che esso sia naturalisticamente unico o plurimo. Si avrà, quindi, un solo
reato o più reati a seconda che si abbia, rispettivamente, un'unica azione o più azioni, un unico
evento o più eventi, un'unica volontà o più volontà. Per la concezione normativa, che è la più
condivisa, l'unità o pluralità di reati va desunta esclusivamente dalla norma penale, che è l'unico
metro per decidere se il fatto storico sia valutato dal diritto penale come un solo illecito o come più
illeciti. Per la concezione normativa a base ontologica, pur affermandosì che la norma costituisce
il prius logico per la valutazione del fatto storico come unico o plurimo e che il legislatore non è
rigidamente vincolato al dato pregiuridico, tuttavia si riconosce che determinati schemi ontologici
fondamentali, determinati sistemi di valori e le correlative tipologie di aggressione, non possono
non costituire l’ossatura concettuale, la struttura portante, di ogni sistema penale razionale e
progredito. Ciò premesso, in base alla interpretazione delle norme singolarmente prese o
considerate nei loro reciproci rapporti vanno risolti i due problemi, che anche la pratica giudiziaria
quotidianamente pone. Quand’è che il soggetto con il suo comportamento viola:
1. una sola volta o più volte la stessa norma penale;
2. oppure una sola norma o più norme diverse?
Il primo problema si pone nei cosiddetti casi di ripetizione o moltiplicazione della stessa fattispecie
legale nello stesso contesto di tempo. Se tra le singole condotte ripetitive intercorresse, infatti, un
apprezzabile lasso di tempo, si avrebbe sicuramente una pluralità di reati. Il secondo problema si
pone, oltre che nel cosiddetto concorso di norme, anche rispetto alle norme penali miste. In tutti i
casi di realizzazione congiunta di più previsioni si pone il problema se la norma penale mista debba
applicarsi tante volte quante sono le ipotesi concretamente realizzate o invece una sola volta. La
soluzione più corretta è distinguere tra:
1. disposizioni di più norme che contengono tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie ivi
previste, la violazione di ognuna delle quali da perciò luogo ad altrettanti reati;
2. norme a più fattispecie, che viceversa sono costituite da un'unica norma incriminatrice e che,
perciò, sono applicabili una sola volta in caso di realizzazione sia di una soltanto sia di tutte le
fattispecie ivi previste, trattandosi di semplici modalità di previsione di un unico tipo di reato.

UNITA’ DI AZIONE NEI REATI COLPOSI E NEI REATI OMISSIVI


Nei reati colposi sussiste unità di azione se, nonostante la violazione di più obblighi di diligenza,
l’evento tipico si è verificato una sola volta. Laddove si siano invece verificati più eventi tipici o lo
stesso evento si sia verificato più volte, si tratta di stabilire se l’autore, tra un evento e l’altro, fosse
o no in grado di adempiere all’obbligo di diligenza, nel primo caso si avrà “pluralità” nel secondo
caso “unità” di azione. Criteri analoghi per l’illecito omissivo improprio. È da ritenere sussista una
sola omissione se il garante poteva impedire i diversi eventi soltanto attivandosi
contemporaneamente; si configurano invece diverse omissioni se, dopo il verificarsi del primo
evento, gli altri potevano ancora essere impediti. Nell’ambito dei reati omissivi propri, si verifica
una pluralità di omissioni se l’omittente viola contemporaneamente più obblighi di condotta, ma i
diversi obblighi potevano essere adempiuti uno dopo l’altro.

Il reato continuato
La figura del reato continuato sorse per opera dei Pratici, che la introdussero per mitigare la
eccessiva severità delle legislazioni dell’epoca sul concorso di reati. Ancor oggi la funzione
dell’istituto è quella di introdurre un trattamento penale più mite, che trova però la sua ratio nel fatto
che nel reato continuato la riprovevolezza complessiva dell’agente viene ritenuta minore che nei
normali casi di concorso. L’art. 81/2, nella sua originaria formulazione, statuì infatti la non
applicabilità delle disposizioni sul cumulo materiale delle pene a chi con più azioni od omissioni
esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della
stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità. Il D.L. 99/74 ha ampliato la portata
dell’articolo ammettendo la continuazione nei casi di più violazioni della stessa o di diverse
disposizioni di legge: cioè oltre al reato continuato omogeneo, anche quello eterogeneo. Tre
sono i requisiti del reato continuato, istituto di una vitalità espansiva senza pari:

1.Il medesimo disegno criminoso. E’ il coefficiente psicologico che lega e cementa i diversi
episodi criminosi e contraddistingue, ontologicamente, il reato continuato dal concorso di reati. Per
aversi medesimo disegno criminoso è necessario e sufficiente la iniziale programmazione e
deliberazione di compiere una pluralità di reati, in vista del conseguimento di un unico fine
prefissato sufficientemente specifico. L’unicità del disegno criminoso ha come requisito
intellettivo una mera rappresentazione mentale anticipata dei singoli episodi delittuosi, poi, di
fatto, commessi dallo stesso agente. Come requisito finalistico, l’unicità dello scopo, cioè i diversi
episodi criminosi costituiscono attuazione di un preciso e concreto programma diretto alla
realizzazione di un obiettivo unitario. Ne deriva che i diversi reati sono in un rapporto di
interdipendenza funzionale rispetto al conseguimento di un unico fine. L’identità del disegno
criminoso viene meno quando fra l’uno e l’altro fatto criminoso siano intervenute circostanze
che abbiano indotto il reo a modificare il piano criminoso nella sua essenza sopra precisata per
cui il passaggio ad ulteriori azioni richieda un previo superamento dei nuovi motivi inibitori,
generati da tali circostanze, sì da aversi un nuovo atteggiamento antidoveroso del soggetto.

2. Più violazioni di legge. Esiste una stretta interdipendenza tra l’identità del disegno criminoso e
una certa omogeneità funzionale di violazioni. Intanto è configurabile un disegno criminoso unitario
in quanto le violazioni, pur se di leggi diverse, si presentano tutte come mezzi per conseguire il
fine ultimo, cui tende il disegno. Come già anticipato, tale requisito ha subito con la riforma del
1974 un’innovazione veramente radicale, se non sconvolgente, in quanto, il riformato art. 81
ammette la presenza di reati diversi, anche del tutto eterogenei tra di loro, per cui sarebbe
meglio parlare di continuazione di reati (nella maggior parte degli ordinamenti, invece, esiste la
necessità della omogeneità dei reati).

3. La pluralità di azioni o omissioni (art. 81 cpv). Deve intendersi come pluralità di condotte
autonome che danno luogo ad altrettanti episodi criminosi. Il reato continuato esula, però, se la
pluralità di azioni è tale solo in senso naturalistico, ma deve, invece, sussistere un’azione
giuridicamente unitaria (es. furto commesso con ripetuti impossessamenti entro un congruo
spazio di tempo, si ha furto unico, non continuato). Le diverse azioni possono avvenire in tempi
diversi (art. 81), quindi anche con notevole lasso di tempo (essendo la contemporaneità concepibile
solo per le omissioni!): sarà, però, più difficile dimostrare la medesimezza del disegno criminoso.

Regime sanzionatorio del reato continuato


Il reato continuato è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave,
aumentata sino al triplo. Tale pena non può, comunque, superare quella che sarebbe applicabile
sommando le singole pene previste per i reati in concorso.
1) Primo problema è l’individuazione della violazione più grave, essendo controverso se debba
intendersi quella più grave in astratto, oppure in concreto, con riferimento cioè alla pena edittale,
qualitativamente o quantitativamente più grave, o invece alla pena concretamente applicabile,
valutati tutti gli indici dell’art. 133 e le circostanze. La giurisprudenza appare orientarsi nel secondo
senso: la dottrina (F-M) in quella più grave in astratto.
2) Altro problema riguarda il caso di reati puniti con PENE DI SPECIE DIVERSA (es. reclusione
e arresto ovvero multa e ammenda): la Corte Cost. con la sentenza 312/88 ha avallato
l’orientamento estensivo, sottolineando l’esigenza di far godere al condannato una minore
limitazione della libertà personale rispetto a quella che gli deriverebbe dal cumulo materiale delle
pene.
3) Terzo problema è l’applicabilità del cumulo giuridico ai reati continuati, puniti con PENE
ETEROGENEE (reclusione e arresto; multa e ammenda), essendo la novella del ’74, a differenza
del codice del 1889 e di altri codici stranieri, del tutto carente sul punto. Sicché subito si è posto il
problema se e come effettuare tale cumulo tra reclusione e arresto e, soprattutto, tra pene detentive e
pene pecuniarie. Si possono schematizzare tre possibili soluzioni:
a) Aumento della pena base prevista per il reato più grave, per cui la pena si trasformerebbe nella
parte aggiuntiva di pena detentiva sulla base dell’indice di 250 € / giorno (art. 135). Ma confligge
con il favor rei.
b) Fissata la pena base per il reato più grave, la si aumenta rispetto agli altri reati in termini di pena
detentiva, subito dopo convertendo la pena aumentata in pena pecuniaria.
c) Si applica una pena complessiva, costituita di due pene di genere diverso (pecuniaria e detentiva),
in modo che una parte di sanzione sia riferibile a entrambe le violazioni in concorso e la pena
pecuniaria attenga solo a quella meno grave. Questa è la soluzione attualmente preferita dalla
giurisprudenza, con riferimento ai reati meno gravi, composti di parte detentiva e pecuniaria
congiunta.
CONTINUAZIONE E GIUDICATO. Si registra, inoltre, la possibilità di ammettere la
continuazione tra reati già giudicati con sentenza irrevocabile e reati ancora sub judice. È
intervenuta, infatti, la Corte Cost. che, con sentenza 115/87, ha avallato la tesi favorevole alla
configurabilità della continuazione di reato, sulla base di due rilievi:
- ciò che veramente conta, è l’unicità del disegno criminoso;
- nello stesso tempo, il principio dell’intangibilità del giudicato è suscettivo di deroga tutte le volte
in cui dalla sua intangibilità derivi un ingiusto sacrificio dei diritti del condannato. Ai sensi dell’art.
137 delle norme di attuazione del nuovo codice di procedura penale, la disciplina del reato
continuato, come pure quella del concorso formale, è applicabile anche quando concorrono reati,
per i quali la pena è applicata su richiesta delle parti, e altri reati.
Natura giuridica
Il reato continuato va ritenuto come REATO UNICO ai fini:
- dell’applicazione della pena;
- della dichiarazione di abitualità e professionalità;
- della decorrenza del termine iniziale della prescrizione.
Va considerato come REATO PLURIMO ai fini:
- dell’amnistia propria;
- del computo della durata del tempo necessario a prescrivere;
- della responsabilità dei concorrenti nell’ambito del concorso di persone;
- dell’applicabilità delle circostanze.
CAPITOLO 2. IL CONCORSO APPARENTE DI NORME.
La figura del concorso apparente di norme ricorre quando una medesima condotta soltanto in
apparenza risulta riconducibile a più fattispecie incriminatrici, ma in realtà integra un solo reato. I
presupposti del concorso o conflitto apparente di norme sono due: l’esistenza di una medesima
situazione di fatto; e la convergenza di una pluralità di norme che sembrano prestarsi a regolarla. Di
fronte ai molti casi di concorso di norme incriminatrici si pone sempre l'identico ricorrente
problema. Si tratta di un concorso reale di norme, nel senso che tutte debbono essere applicate, e,
quindi, di un concorso formale di reati? Oppure si tratta soltanto di un concorso apparente di norme
e, quindi, di un solo reato, perché solo a prima vista il fatto appare riconducibile sotto più norme,
ma in realtà una soltanto è ad esso applicabile? Il fenomeno del concorso di norme pone tre ordini
di indagini riguardanti:
1. i presupposti della sua esistenza;
2. il principio giuridico per stabilire l'apparenza o la realtà del medesimo.
3. i criteri per individuare, nell'ambito del preaccertato concorso apparente, la norma
prevalente.

I presupposti sono:
a) la pluralità di norme, non essendo concepibile il concorso di una norma con se stessa;
b) la identità del fatto, che appare contemplato da più norme. Il che è possibile se ed in quanto
intercorrano tra le fattispecie le relazioni di specialità (unilaterale) o di specialità reciproca (o
bilaterale). Dispone l’art. 15: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge
penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o
alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito” (principio della prevalenza
della legge speciale rispetto alla legge “generale”). Si ha specialità (rapporto di specialità tra
fattispecie) quando una norma, speciale, presenta tutti gli elementi di altra norma, generale, con
almeno un elemento in più. Tipico esempio è l'art. 341 rispetto all' art. 594, poiché l'oltraggio
presenta tutti gli elementi dell’ingiuria ed inoltre il quid pluris della qualifica di pubblico ufficiale
nell'offeso. Si ha specialità reciproca allorché nessuna norma è speciale o generale, ma ciascuna è
ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano, accanto ad un nucleo di elementi
comuni, elementi specifici e elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra. Al di là
della specialità, unilaterale e reciproca, non è più configurabile concorso di norme, poiché le norme
già prima facie appaiono applicabili a fatti diversi, in quanto nessuna ipotesi, integrante l’una,
integra anche l’altra e viceversa. Infine, un fenomeno di concorso di norme non si pone quando la
legge già espressamente esclude l’applicazione di una di esse, attraverso clausole di riserva
determinate (cioè del tipo “fuori del caso indicato nell’art. xx”).

Le teorie monistiche e pluralistiche


Per stabilire se il concorso è apparente o reale, parte della dottrina ritiene sufficiente il solo criterio
di specialità. In forza di esso quando più leggi o più disposizioni della medesima legge penale
regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla
disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.(art. 15 c.p.). Certi autori
delimitano l’ambito logico del criterio di specialità alle sole norme con identico oggetto giuridico,
ritenendo tale limite imposto dall’inciso “stessa materia”. Altri autori tendono, viceversa, ad
ampliare l’ambito del criterio di specialità interpretando l’inciso “stessa materia” come “stessa
situazione concreta”: in tal modo l’art. 15 accoglierebbe un criterio di specialità non solo in astratto,
ma anche in concreto. La dominante dottrina italiana integra l’insufficiente criterio di specialità con
criteri di valore, di varia denominazione e numero, che possono ridursi a quelli della sussidiarietà e
della consunzione: per il criterio di sussidiarietà, pressoché concordemente ammesso, la norma
principale esclude l’applicabilità della norma sussidiaria. E’ sussidiaria la norma che tutela un
grado inferiore dell’identico interesse che è tutelato dalla norma principale. Tale principio intercorre
tra norme che prevedono stadi o gradi diversi di offesa di un medesimo bene: in modo tale che
l’offesa maggiore assorbe la minore e, di conseguenza, l’applicabilità dell’una norma è subordinata
alla non applicazione dell’altra. Per il criterio di consunzione, ammesso da una parte della dottrina
pluralistica, la norma consumante prevale sulla norma consumata. E’ consumante la norma, il cui
fatto comprende in sé il fatto previsto dalla norma consumata, e che perciò esaurisce l’intero
disvalore del fatto concreto. I due suddetti criteri presentano vizi e limiti insuperabili, per il loro non
dimostrato fondamento giuridico -positivo e la loro intrinseca insufficienza e vaghezza. In
conclusione, tutta la storia del concorso di norme rivela una duplice esigenza: di equità, tesa a fare
coincidere il concorso apparente con tutti i casi in cui un medesimo fatto rientri sotto più norme,
cioè non solo con la specialità, ma anche con la specialità reciproca; e di certezza giuridica, volta a
trovare un principio unitario e di immediata applicazione pratica che elimini le incertezze che fanno
del concorso di norme il fianco più vulnerato del principio costituzionale di legalità.

Il principio del ne bis in idem


Equità e certezza sono adeguatamente soddisfatte dal principio generale del ne bis in idem
sostanziale, che in tutte le ipotesi di concorso di norme vieta di addossare più volte lo stesso fatto
all’autore. Tale principio si desume da numerosi dati legislativi. Cominciando dall’art. 15, esso si
fonda sullo schema logico della specificazione, che, come si impone al pensiero umano ogni qual
volta intende distinguere fra più idee subordinate ad una idea superiore, così si impone al legislatore
quando, nell’ambito di una categoria di fatti sottoposta ad una data disciplina, ne valuta taluni
meritevoli di una particolare regolamentazione. Parlando di specialità sia tra disposizioni della
stessa legge sia tra leggi diverse, l'art. 15 copre i due modi in cui può estrinsecarsi detto schema
logico:

1. la specialità tra fattispecie, che emerge dalla stessa descrizione delle figure criminose,
presentando l'una tutti gli elementi costitutivi dell’altra più un quid pluris;
2. la specialità tra leggi, allorché il legislatore provvede a disciplinare, in modo particolare, una
categoria di fatti in un distinto testo legislativo, in una “legge speciale”, in ragione della qualità dei
soggetti o delle condizioni in cui vengono commessi. Quanto alle clausole di riserva, esse
assolvono, anche per la loro frequenza, la fondamentale funzione di affermare l’assorbimento nel
maggior numero di fattispecie in rapporto di specialità reciproca. Quanto all'art. 84, se non lo si
vuole ridurre ad un inutile ripetizione dell'art. 15 attraverso una inammissibile interpretatio
abrogans, occorre affermare che esso abbraccia:
a) non solo i reati necessariamente complessi sia in senso stretto sia in senso lato, che costituiscono
delle semplici ipotesi di specialità;
b) ma anche i reati eventualmente complessi sia in senso stretto sia in senso lato, che costituiscono
invece delle ipotesi di specialità reciproca. Quanto, infine, alle circostanze, gli artt. 15, 61-62 e 68
portano ad affermare la perfetta coincidenza del concorso apparente con tutte le ipotesi di
disposizioni circostanzianti, siano esse in rapporto di specialità o di specialità reciproca. In sintesi,
dal complesso dei dati legislativi esaminati risulta che all’interno dell'identica materia del concorso
di norme:

a) essi costituiscono particolari espressioni del sopra ordinato principio giuridico del ne bis in
idem sostanziale, esprimendo tutti la comune esigenza giuridica di non addossare all'autore più
volte un fatto, capace di effetti giuridici ad opera di più norme;
b) il ne bis in idem è principio non eccezionale ma regolare. In base ai suddetti dati il concorso
apparente, infatti, copre tutte le ipotesi di concorso sia di norme circostanzianti sia di norme
incriminatrici.
Viceversa, la contrapposta normativa degli artt. 71-78 e degli artt. 63, 66, 67, sul concorso di reati e
di circostanze, si riferisce, per esclusione, alla identica e autonoma materia del non-concorso di
norme (cioè alle ipotesi di fattispecie in rapporto di mera interferenza, di eterogeneità, di
incompatibilità). E, nell'ambito di tale materia, costituisce espressione del sopraordinato e regolare
principio giuridico, dell'integrale valutazione giuridica, esprimendo la comune esigenza
dell'applicabilità di più norme perché nessuna di esse esaurisce integralmente l'intero disvalore del
fatto. Pertanto, tra il complesso normativo degli artt. 15, 84, 61-62, 68 e clausole di riserva e quello
degli artt. 71-81, 63, 66-67, non è concepibile alcun problema di regola- eccezione, attenendo essi
alle diverse ed autonome materie rispettivamente del concorso e del non- concorso di norme ed
esprimendo, rispettivamente, i due principi altrettanto regolari del ne bis in idem e della integrale
valutazione.
Ed eccoci al punto. Le residue ipotesi di specialità reciproca, non espressamente risolte dalla legge,
siccome rientrano anch'esse nel più ampio settore del concorso di norme non possono che essere
risolte nel senso del concorso apparente di norme in virtù del principio sopraordinato del ne bis in
idem, che domina tale materia, esistendo tutti gli estremi dell'analogia iuris: favor rei, regolarità del
principio, identità di ratio di disciplina. In conclusione, in base al nostro diritto positivo il concorso
apparente combacia con l'intero ambito del concorso di norme, cioè con tutte le fattispecie in
rapporto di specialità e di specialità reciproca. Il concorso eterogeneo di reati si restringe al non
concorso di norme, riguardando cioè le fattispecie in rapporto di interferenza, di eterogeneità, di
incompatibilità. E la relazione di “interferenza per la condotta” è l'unica che permette di configurare
il concorso formale di reati.

La norma prevalente
Il principio del ne bis in idem nel concorso di norme consente di affermare che una ed una sola
norma è applicabile, ma non dice quale. L’individuare la norma prevalente è un problema di
interpretazione sistematica, volto a delimitare la rispettiva reale portata delle norme concorrenti,
per cui il fatto, che appariva comune ad esse, in realtà cade sotto la previsione di una soltanto di
esse. In certe ipotesi la norma prevalente è individuabile in forza di criteri che operano sulla base di
determinati rapporti formali fra norme, quali il criterio di specialità (la legge speciale prevale sulla
generale), il criterio cronologico (la legge posteriore prevale su quella anteriore), il criterio
gerarchico (la legge di grado superiore prevale su quella di grado inferiore). Nelle ipotesi di norme
di pari grado, coeve ed in rapporto di specialità reciproca, la norma prevalente va individuata
attraverso le clausole di riserva, quando esistono. Nelle ipotesi in cui le clausole non esistono, tra gli
indici rivelatori della norma applicabile, il primo e più sintomatico è, certo, quello del trattamento
penale più severo. Detto criterio non ha però un valore assoluto, per gli inaccettabili risultati cui in
certi casi porterebbe; né ha un valore esclusivo, essendo inapplicabile rispetto alle norme con
identica sanzione.

I reati a struttura complessa


Possono denominarsi reati a struttura complessa i vari tipi di reato che, pur se diversi fra loro, sono
tutti composti da fatti già costituenti di per sé reati e cioè: IL REATO COMPLESSO VERO E
PROPRIO; IL REATO ABITUALE; IL REATO CONTINUATO.
Il reato complesso
Il reato complesso (o composto) è previsto dall’art. 84/1, il quale stabilisce che “le disposizioni
degli articoli precedenti (riferendosi al concorso di reati) non si applicano quando la legge
considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che
costituirebbero, per sé stessi, reato”. Circa la struttura, nel reato complesso un altro reato può
rientrare come elemento costitutivo, dando luogo ad un autonomo titolo di reato (es. rapina
rispetto al furto) oppure come circostanza aggravante, lasciando inalterato il titolo del reato-base
(es. furto aggravato dalla violazione di domicilio o dalla violenza sulle cose). Si discute se l’art. 84
comprenda soltanto i reati complessi in senso stretto, per l’esistenza dei quali sono necessari almeno
due reati, o anche i reati complessi in senso lato, per la sussistenza dei quali basta un solo reato con
l’aggiunta di elementi ulteriori non costituenti reato. Deve accogliersi la nozione ampia, sia perché
i due tipi di reato complesso presentano problemi comuni, sia perché la disciplina degli artt. 131 e
170/2 è riferibile ad entrambi. Ma ciò che è fondamentale stabilire è se l’art. 84 comprenda soltanto
i reati necessariamente complessi, in cui almeno un reato è contenuto come elemento costitutivo,
onde non è possibile realizzare la fattispecie complessa senza commettere anche quest’ultimo;
oppure anche i reati eventualmente complessi, in cui un reato è contenuto come “elemento
particolare”, cosicché è possibile realizzare tali reati senza realizzare quest’ultima fattispecie.
Species del reato complesso in senso lato è il c.d. reato progressivo, che comprende quei reati che
contengono come elemento un reato minore, onde la commissione del reato maggiore implica il
passaggio attraverso il reato minore. Mentre per il reato complesso basta che un reato sia contenuto
in un altro, per il reato progressivo occorre altresì l’offesa crescente di uno stesso bene. Circa i
requisiti per l’unificazione dei singoli reati nel reato complesso, questi debbono essere legati tra
loro non da un rapporto di mera occasionalità, ma da precise connessioni sostanziali, la cui
individuazione va rimandata alle singole figure complesse. Quanto ai limiti della contenenza, per
l’elementare principio di proporzione giuridica il reato complesso non può assorbire quei fatti
criminosi già di per se sanzionati in modo più grave dallo stesso reato complesso. Infine, la
disciplina del reato complesso è quella del reato unico; non quella della pluralità dei reati, neppure
quando sia più favorevole al reo.

L’antefatto e il postfatto non punibili e la progressione criminosa


Con le incerte categorie dell’antefatto e del postfatto occorre intendere quei reati che
costituiscono la normale premessa o il normale sbocco di altri reati. Per una parte della dottrina
resterebbero assorbiti nel reato principale in base, però, agli inconsistenti criteri di sussidiarietà o
consunzione. In verità, le categorie dell’antefatto e del postfatto non punibili mancano, invece,
di fondamento di diritto positivo. Per progressione criminosa deve intendersi il passaggio
contestuale da un reato ad un altro più grave, (fenomeno del contestuale susseguirsi di
aggressioni di crescente gravità nei confronti di un medesimo bene; es. al fatto di chi, prima di
uccidere, percuote e ferisce la vittima designata) contenente il primo, per effetto di risoluzioni
successive: costituisce un fenomeno, per così dire intermedio, tra il concorso di norme sullo stesso
fatto e le ipotesi che danno sicuramente vita ad un concorso di reati. Nel silenzio della legge, la
progressione si risolve nel senso della unicità del reato per analogia juris, in quanto esistono i
presupposti per l’applicazione del principio, sopra ordinato al concorso apparente di norme anziché
di quello sopra ordinato al concorso di reati. La validità della soluzione appare ancor più evidente
rispetto alle ipotesi di progressione in cui il fatto iniziale costituisce una condizione necessaria
dell’evento finale. Poiché il fatto minore rientra, nel suo aspetto oggettivo, nella fattispecie
maggiore, se si ammettesse il concorso di reati lo stesso fatto finirebbe, anche qui, per essere
addebitato due volte all’autore.

Il reato abituale
A differenza del reato complesso, continuato e permanente, il reato abituale è una categoria di
creazione dottrinale, non rinvenendosi nella legge né una definizione né una disciplina di esso. E’
detto abituale il reato per l’esistenza del quale la legge richiede la reiterazione di più condotte
identiche o omogenee. E’ proprio il reato abituale consistente nella ripetizione di condotte che sono
in sé non punibili, come nello sfruttamento della prostituzione, o che possono essere non punibili,
come nei maltrattamenti in famiglia. E’ improprio se consiste nella ripetizione di condotte già di
per sé costituenti reato, come nella relazione incestuosa, costituendo il singolo fatto incestuoso
delitto di incesto. In altre parole, mentre nel reato abituale proprio, le singole condotte,
autonomamente considerate, sono penalmente irrilevanti, nel reato abituale improprio ciascun
singolo atto integra di per sé altra figura di reato. Quanto all’elemento soggettivo, non può
accogliersi la tesi che, al fine di fondare anche il reato abituale su una unità ontologica, richiede un
dolo unitario, costituito dalla rappresentazione e deliberazione iniziali, anticipate, del complesso di
condotte da realizzare. Deve perciò ritenersi sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta,
delle singole condotte, accompagnate dalla consapevolezza che la nuova condotta si aggiunga alle
precedenti, dando vita con queste ad un sistema di comportamenti offensivi. Ciò che si rimprovera
all’agente è di aver voluto persistere in un certo modo di agire, di non aver desistito
nonostante la consapevolezza del suo precedente operare. Il reato (necessariamente) abituale si
“perfeziona” allorché è stato realizzato il minimum di condotte e con la frequenza, necessari ad
integrare quel sistema di comportamenti in cui si concreta tale reato e la cui valutazione è affidata
alla discrezionalità del giudice. Si consuma allorché cessa la condotta reiterativa.

PARTE SETTIMA LE SANZIONI


CAPITOLO 1. I PRESUPPOSTI TEORICI E POLITICO-CRIMINALI DEL
SISTEMA SANZIONATORIO VIGENTE

Parlare di sanzione penale equivale ad evocare l’idea di un castigo inflitto all’autore di un fatto
illecito. Non ci sono dubbi sul fatto che la pena consiste in uno strumento di afflizione, il fatto è
che il momento afflittivo implicito nella pena può essere strumentalizzato per il raggiungimento di
fini diversi. Inoltre l’evoluzione storico-sociale influisce non soltanto sugli scopi della pena, ma
anche sulle tecniche di volta in volta adoperate per punire l’autore dell’infrazione (es. il
passaggio dalle pene corporali alla pena detentiva, e più di recente alle pene c.d. alternative
affidamento al servizio sociale e la semilibertà). Il concetto di sanzione penale oggi si estende sino a
ricomprendere la c.d. misura di sicurezza, cioè una misura ulteriore che consegue pur sempre alla
commissione di un reato, ma la cui funzione (almeno negli utenti) si differenzia da quella delle
pene in senso stretto: scopo precipuo delle misure di sicurezza sarebbe, infatti, quello di
risocializzare l’autore di un reato in quanto soggetto socialmente pericoloso. Le tre idee guida del
dibattito sulla pena sono: retribuzione, prevenzione generale e prevenzione speciale. La sanzione
penale deve servire a compensare la colpa per il male commesso. L’idea retributiva implica anche,
per sua natura, il concetto di proporzione: la risposta sanzionatoria, se deve compensare il male
provocato dall’azione illecita, non può non essere proporzionata alla gravità del reato medesimo.
L’idea della “prevenzione generale” si fonda sull’assunto che la minaccia della pena serva a
distogliere la generalità dei consociati dal compiere fatti socialmente dannosi. La teoria della
“prevenzione speciale” fa leva sull’idea che l’inflizione della pena ad un determinato soggetto,
serva ad evitare che il medesimo compia in futuro altri reati. Ideologia dello Stato forte, crisi degli
strumenti penalistici alla fine dell’800. Introduzione del sistema del c.d. doppio binario, cioè un
sistema per il quale si prevede, accanto e in aggiunta alla pena tradizionale inflitta sul presupposto
della colpevolezza, una misura di sicurezza, vale a dire una misura fondata sulla pericolosità
sociale del reo e finalizzata alla sua risocializzazione. Contingente e specifica concezione del
rapporto tra prevenzione generale e prevenzione speciale. La dizione del “sistema del doppio
binario” implica anche la possibilità di applicare ad un medesimo soggetto, che sia al tempo stesso
“imputabile” e “socialmente pericoloso”, tanto la pena che la misura di sicurezza.

CONTRADDIZIONI E INSUFFICIENZE DEL SISTEMA DEL DOPPIO BINARIO.


Il meccanismo del doppio binario introdotto dal codice Rocco non è, in verità, riuscito a tradursi
in un sistema di sanzioni organico e coerente: la sua natura eccessivamente compromissoria si
evidenzia in alcune palesi contraddizioni teoriche e in alcune incongruenze pratiche.
L’applicabilità ad un medesimo soggetto di una pena e di una misura di sicurezza, aventi come
presupposto l’una (pena) la libertà del volere e la colpevolezza, l’altra (misura di sicurezza) la
tendenza deterministica a delinquere e la conseguente pericolosità sociale, sembra supporre una
concezione dell’uomo come essere “diviso in due parti”: libero e responsabile per un verso, e
come tale assoggettabile a pena; determinato e pericoloso per un altro verso, e come tale
assoggettabile a pena; determinato e pericoloso per un altro verso, e come tale assoggettabile a
misura di sicurezza. Nella commisurazione della pena si deve tener conto anche della “capacità a
delinquere del colpevole”, art. 133, desunta da una serie di indici relativi alla sua personalità e al
suo ambiente di provenienza. A sua volta l’art. 203, relativo all’accertamento della pericolosità
quale presupposto della misura di sicurezza, dispone che la qualità di persona socialmente
pericolosa si desume dalle stesse circostanze indicate nell’art. 133; rilevano gli stessi elementi per
la quantificazione della pena. Identità di contenuto afflittivo nella concreta prassi esecutiva. Alla
stregua delle segnalate contraddizioni e insufficienze si spiega, allora, come mai la pretesa
differenza di funzioni tra pene e misure di sicurezza sia stata in dottrina etichettata come “frode
delle etichette”: da qui l’esigenza di un superamento, prima ancora che dell’attuale disciplina, delle
ragioni teoriche che legittimarono l’introduzione di entrambi i tipi di sanzione da parte del
legislatore del ’30.

LA PENA SECONDO LA COSTITUZIONE.


L’art. 27, comma 3° Cost. e la portata innovativa del principio di rieducazione; “le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”. Facendo leva sul verbo “tendere”, si sostenuto che la
rieducazione sia non una finalità essenziale, ma soltanto uno scopo “eventuale” della pena; scopo
necessario della prima rimane la “retribuzione”, mentre la funzione rieducativa resterebbe
confinata alla fase esecutiva. Rieducazione intesa come risocializzazione. Esclusa ogni forma di
imposizione o di intervento coattivo, la possibilità di rieducare si atteggia soltanto ad obiettivo
tendenziale, perseguibile finché il reo sia disposto a collaborare. Per quanto riguarda lo scopo
della pena, la rieducazione assume un ruolo primario; per la fase della minaccia, l’obiettivo
perseguito è quello della “prevenzione generale”, proprio perché la minaccia della pena serve a
distogliere la generalità dei consociati dalla commissione di fatti penalmente illeciti (15 bis).

SIGNIFICATO E LIMITI DELL’IDEA RIEDUCATIVA.


Idea rieducativa come trattamento finalizzato alla correzione definitiva. L’art. 25, comma 2° Cost.,
nel sancire il principio di legalità, configura inequivocabilmente la pena come effetto giuridico di
un “fatto criminoso”; il presupposto della stessa pretesa rieducativa non può che essere costituito
dalla commissione di un fatto socialmente dannoso da parte del soggetto da rieducare.
Esigenza di una proporzione tra fatto e sanzione. Il trattamento rieducativo correttamente inteso
presuppone che il destinatario si renda consapevole del torto commesso, ed avverta come giusta e
proporzionata la sanzione che gli viene inflitta. Contenuti della rieducazione: riattivare il rispetto
dei valori fondamentali della vita sociale, riacquisizione dei valori basilari della convivenza.
L’identificazione della funzione rieducativa della pena col “recupero sociale” tout court, comporta
necessariamente una frattura dello scopo costituzionalmente assegnato alla pena in tutti quei casi
nei quali, per es., il destinatario della sanzione non sia un individuo passibile di reinserimento
sociale, in quanto soggetto socialmente già ben inserito; dunque distinzione tra la rieducazione
quale generale obiettivo da perseguire, e le tecniche che si rendono di volta in volta necessarie per
ottenere il risultato. Superamento della condizione di emarginazione, con la riappropriazione dei
valori della convivenza; se il reo è invece già inserito socialmente, la rieducazione potrà essere
perseguita anche attraverso una sanzione di tipo “afflittivo”. Dal momento che non può essere
coercitivamente imposta, la rieducazione trova un ostacolo nell’eventuale rifiuto opposto dal
soggetto destinatario della sanzione. Oppure nel caso in cui il delitto costituisce il frutto di una
scelta politico-ideologica che si pone e pretende di porsi in contrasto con i principi ispiratori
dell’ordinamento. Sono queste le uniche situazioni nelle quali il principio rieducativo entra
veramente in crisi. Questo per il valore dotato di rilevanza costituzionale e cioè l’autonomia
morale dell’individuo. Per attenuare il contrasto tra la pena dell’ergastolo e la finalità rieducativa,
la legge del 1962, modificando l’art. 176 del codice, ha stabilito che “il condannato all’ergastolo
può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di
pena” (poi ulteriore abbassamento di tale limite). Successivamente, la “miniriforma”
penitenziaria dell’86 ha esteso anche agli ergastolani la possibilità di beneficiare della semilibertà
e della liberazione anticipata. Il finalismo rieducativo ha successivamente ispirato la modifica della
disciplina della sospensione condizionale. L’espressione più significativa del finalismo rieducativo
è però costituita dalla riforma dell’ordinamento penitenziario con l. del 1975. I punti più
qualificanti di tale riforma consistono, da un lato, nella ricezione dell’ideologia del trattamento
rieducativo e, dall’altro, nella introduzione di misure alternative alla detenzione (affidamento
in prova, la semilibertà e la liberazione anticipata); tendenza al recupero sociale con il reinserimento
del condannato nell’ambiente esterno, con il servizio sociale. Poi diverse inversioni di tendenza
dall’inasprimento del trattamento penitenziario per fronteggiare l’escalation della criminalità
organizzata di stampo mafioso nei primi anni 90, alle misure “premiali” finalizzate allo scopo di
incentivare la collaborazione giudiziaria (c.d. pentitismo). Legislazione antimafia del 1998 e
sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi con scopi rieducativi. Disciplina della pena
pecuniaria. Recente tendenza a rivalutare la prevenzione generale, per l’aumento della criminalità
e per esiti poco confortanti della prassi attuativa dell’ideologia della risocializzazione. La funzione
di prevenzione speciale tende ad impedire che chi si è già reso responsabile di un reato torni a
delinquere anche in futuro. La tecnica più elementare consiste nella neutralizzazione del
soggetto potenzialmente pericoloso ottenuta grazie all’impiego della coercizione fisica; anche
attraverso forme di interdizione giuridica. Ancora forma di condizionamento della personalità del
reo. Emenda morale del delinquente. Teoria della emenda. Per questa dottrina la pena è protesa
verso la redenzione morale del reo. Per l’analoga teoria della espiazione, la pena ha funzione di
purificazione dello spirito, operando come antidoto contro la immoralità per la forza purificatrice
del dolore.

CAPITOLO 2. LE PENE IN SENSO STRETTO

La nozione di pena
Concettualmente la pena è la limitazione dei diritti del soggetto quale conseguenza della violazione
di un obbligo, che è comminata per impedire tale violazione e ha carattere eterogeneo rispetto al
contenuto dell’obbligo stesso. La pena pubblica abbraccia non solo la pena criminale, ma anche la
pena amministrativa. La pena criminale è la sanzione afflittiva prevista dall’ordinamento giuridico
per chi viola un comando di natura penale.

LE PENE PRINCIPALI
Il nostro diritto positivo distingue le pene in principali ed accessorie. Dispone l’art. 17 che le pene
principali stabilite per i “delitti” sono: la pena di morte, l’ergastolo, la reclusione e la multa; e
che le pene principali stabilite per le “contravvenzioni” sono: l’arresto e l’ammenda. A sua volta,
l’art. 18 definisce pene detentive o restrittive della libertà personale l’ergastolo, la reclusione e
l’arresto; pene pecuniarie la multa e l’ammenda. Infine, l’art. 20 precisa che le pene principali sono
inflitte dal giudice con sentenza di condanna, e quelle accessorie conseguono di diritto alla
condanna, come effetti penali di essa. Accanto ad esse, il d.lgs n. 274/2000 ha introdotto due nuove
pene principali di applicazione limitata ai soli reati di competenza del giudice di pace, e cioè la
detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità (es. per furti punibili a querela, ingiuria,
percosse ecc.).
a) la pena di morte, oggi completamente abolita e assorbita nell’ergastolo, sia per i reati previsti
dal codice penale e leggi speciali diverse da quelle militari (L. 224/44, D.Lgs. 21/48), sia per i reati
previsti dal codice penale militare di guerra (L. 589/94); la soppressione della pena di morte ha
trovato il riconoscimento più elevato nella Costituzione: l’art. 27, comma 4°, statuisce infatti che
“Non è ammessa la pena di morte”.
b) l’ergastolo. Secondo il disposto dell’art. 22 “la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata
in uno degli stabilimenti a ci destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Il
condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto”. Problema della compatibilità
del’ergastolo con i principi della Costituzione, ed in particolare con il principio di rieducazione
espresso dall’art. 27, comma 3° Cost. La Corte costituzionale ha dal canto suo ritenuto legittimo
l’ergastolo, in base alla motivazione che funzione della pena “non è soltanto il riadattamento
sociale dei delinquenti, ma pure la prevenzione generale, la difesa sociale, e la
neutralizzazione a tempo indeterminato di determinati delinquenti”. La natura perpetua
dell’ergastolo è andata comunque sempre più ridimensionandosi. L’ergastolano (se ha tenuto un
comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento) può essere ammesso alla liberazione
condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena; la sentenza n. 274 del 1983, ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di ammettere i condannati all’ergastolo al
godimento degli sconti di pena consentiti dall’istituto della liberazione “anticipata”, con
conseguente riduzione dei tempi necessari ai fini della liberazione condizionale. Successivamente è
stato esteso espressamente agli ergastolani l’applicabilità dei due istituti della semilibertà (col
limite dell’espiazione di almeno 20 anni di pena) e della stessa liberazione anticipata. Altri
possibili sconti di pena. La Corte costituzionale ha poi ritenuto illegittimo l’ergastolo per i
minorenni imputabili con sentenza del 1994. Inoltre la Corte ha stabilito che “previsioni
sanzionatorie fisse non appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale, salvo che
appaiono proporzionate all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di
reato”.

c) la reclusione, art. 23, ovvero la privazione temporanea della libertà personale, per un tempo che
va da 15 giorni a 24 anni (massimo che può essere elevato fino a 30 anni in caso di concorso di
reato o circostanze aggravanti) ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo
del lavoro e con l’isolamento notturno. Il condannato alla reclusione, che ha scontato almeno un
anno della pena, può essere ammesso al lavoro all’aperto. La reclusione è la pena temporanea per i
delitti. Possono esserci poi cause di differimento (rinviare) dell’esecuzione della reclusione.
Differimento obbligatorio per donne incinte o donne che hanno partorito da meno di 6 mesi,
persona affetta da infezione da HIV; differimento facoltativo se è stata presentata domanda di
grazia, per persone con grave infermità fisica e per donne che hanno partorito da più di 6 mesi e da
meno di un anno e non vi è modo di affidare il figlio ad altro che alla madre;
d) la multa, consistente nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a € 50 né superiore a
€ 50.000 (art. 24, se trattasi di delitto di lucro con la sola pena della reclusione, il giudice può
aggiungere la multa da € 50 a € 25.000). La multa è la pena pecuniaria prevista per i delitti. Il
pagamento della multa può avvenire, in relazione alle condizioni economiche del condannato,
in rate mensili da un minimo di tre ad un massimo di trenta. L’ammontare di ciascuna rata non può
essere inferiore a 15 euro (art. 133 ter). Se non viene eseguita per insolvibilità del condannato, la
pena della multa si converte in una sanzione c.d. di conversione, la libertà controllata ed il
lavoro sostitutivo.

Per le contravvenzioni:
a) l’arresto, art. 25, pena detentiva temporanea per le contravvenzioni, che si estende da 5
giorni a 3 anni (massimo elevabile a 5 anni nel concorso di aggravanti e fino a 6 anni nel concorso
di reati); è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati o in sezioni speciali degli stabilimenti di
reclusione, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Può essere addetto anche a lavori
diversi da quelli organizzati nello stabilimento. Stessi principi stabiliti per la reclusione, unica
differenza disciplina della semilibertà;
b) l’ammenda, pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni, art. 26, consistente nel
pagamento allo Stato di una somma non inferiore a € 20 né superiore a € 10.000. La
regolamentazione ricalca quella della multa. La commisurazione della pena in concreto avviene
secondo il sistema della somma complessiva, in cui si tiene conto della gravità del reato e della
capacità a delinquere, ma altresì delle condizioni economiche del reo.

Le pene accessorie
Le pene accessorie, art. 19, sono misure afflittive, che comportano una limitazione di capacità,
attività o funzioni, ovvero accrescono l’afflittività della stessa pena principale, e presuppongono
sempre la condanna ad una pena che sia l’ergastolo, la reclusione, l’arresto, la multa o
l’ammenda (pena comune sia ai delitti che alle contravvenzioni). Possono essere perpetue o
temporanee. Ne sono caratteri normali: a) l’automaticità, poiché di regola conseguono di diritto
alla condanna principale; ma può essere rimessa anche alla discrezionalità del giudice b)
l’indefettibilità, nel senso che una volta irrogate sono sempre scontate non estendendosi ad esse la
sospensione condizionale della pena principale. Sospendibilità delle pene accessorie. Vediamole
da vicino, pene accessorie previste per i delitti:
- l’interdizione dai pubblici uffici: art. 28, la più importante sanzione interdittiva del nostro
sistema penale, priva il condannato di ogni diritto politico; di ogni pubblico ufficio o incarico,
non obbligatorio, di pubblico servizio; dei gradi e dignità accademiche, titoli e decorazioni ecc;
l’interdizione può essere perpetua o temporanea. L’interdizione “perpetua” consegue ipso iure
alla condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni, come pure alla
dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto e alla dichiarazione di tendenza a delinquere.
L’interdizione “temporanea” ha una durata non inferiore ad un anno né superiore a cinque
(conseguente alla reclusione per un tempo non inferiore a 3 anni); tale interdizione consegue pure al
reato realizzato con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione o al
pubblico servizio (art. 31);

- l’interdizione da una professione o arte: consiste nella perdita, durante l’interdizione, della
capacità di esercitare una professione, arte, industria, commercio o mestiere, per cui è necessario
uno speciale permesso, licenza ecc. Si applica nell’ipotesi di condanna per un delitto commesso
con abuso di una professione, arte, industria, o di commercio o mestiere, o con violazione dei
doveri ad essi inerenti. La pena in esame non può avere una durata inferiore ad un mese né
superiore a 5 anni, salvo i casi espressamente stabiliti dalla legge. Decorso il periodo della pena
accessoria, i permessi, le licenze ecc. possono essere riottenuti;
- la sospensione dall’esercizio di una professione o arte: a differenza dell’interdizione comporta
solo il divieto di esercitare una certa attività, prevista per le contravvenzioni;
- la interdizione legale: pena accessoria per i delitti di maggiore gravità. Comporta la perdita
della capacità di agire, applicandosi al condannato interdetto le norme della legge civile per
l’interdizione giudiziale in ordine alla disponibilità e amministrazione dei beni e alla rappresentanza
negli atti relativi. Tale interdizione segue alla condanna alla pena dell’ergastolo, nonché alla
condanna alla reclusione per un tempo non inferiore ai 5 anni. La condanna prevede anche, durante
la pena, la sospensione della potestà dei genitori, salvo che il giudice disponga altrimenti;

-la interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e im prese: priva temporaneamente il
condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco,
liquidatore e direttore generale, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona
giuridica o dell’imprenditore (c.d. colletti bianchi); consegue ad ogni condanna alla reclusione non
inferiore a 6 mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti
all’ufficio. Interdice lo svolgimento di attività non soggette ad autorizzazione o licenza da
parte della P.A., non deve esserci un mero rapporto di occasionalità tra l’attività esercitata e il fatto
delittuoso realizzato;
- la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (per le
contravvenzioni);
- la incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione, importa il divieto di concludere
contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico
servizio. Non può avere durata inferiore ad un anno né superiore a tre anni, riguarda solo la persona
fisica del condannato e non anche l’impresa;
- la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori: la decadenza consegue
all’ergastolo e agli altri casi determinati dalla legge;
-la sospensione, per le contravvenzioni, per un tempo pari al doppio della pena inflitta, consegue
alla condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori;
- la pubblicazione della sentenza penale di condanna (art. 36, comune a delitti e
contravvenzioni).
Viene eseguita, su ordine del giudice, mediante la pubblicazione, di regola, per estratto, e sempre
una sola volta, della sentenza di condanna in uno o più giornali stabiliti dal giudice ed a spese del
condannato, nonché nel sito internet del Ministero. Consegue alla condanna per delitti o
contravvenzioni nei casi stabiliti dalla legge. La sentenza di condanna alla pena dell’ergastolo,
inoltre, è pubblicata mediante affissione nel comune dove è stata pronunciata, in quello in cui fu
commesso il delitto ed in quello in cui il condannato aveva l’ultima residenza.

LE PENE SOSTITUTIVE.
Anch’essa innovazione della legge di Modifiche al sistema penale n. 689/81, sanzioni sostitutive
delle pene detentive di breve durata esse sono la semidentezione, la libertà controllata e la pena
pecuniaria.
a) la semidetenzione, è la misura sostitutiva della pena detentiva fino ad 1 anno. Comporta
l’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno negli istituti penitenziari, il divieto di detenere a
qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di
polizia; la sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto, sospensione di ogni altro
documento valido ai fini dell’espatrio, l’obbligo di conservare e di presentare agli organi di polizia
l’ordinanza contenente le prescrizioni imposte. La semidentezione è analoga dunque alla
“semilibertà”.
b) la libertà controllata, è la misura sostitutiva delle pene detentive fino a 6 mesi, che comporta il
divieto di allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione per motivi di lavoro, di studio,
di famiglia o di salute; l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di
pubblica sicurezza o in mancanza presso i carabinieri, il divieto di detenere a qualsiasi titolo armi,
munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; la
sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto, sospensione di ogni altro documento
valido ai fini dell’espatrio, l’obbligo di conservare e di presentare agli organi di polizia l’ordinanza
contenente le prescrizioni imposte;
c) la pena pecuniaria della multa o dell’ammenda, sostitutiva della pena detentiva
rispettivamente della reclusione o dell’arresto, determinabile dal giudice delle pene detentive fino ai
3 mesi. Le sanzioni sostitutive si applicano in presenza di condizioni oggettive (pena in concreto
irrogata dal giudice e tipo di reato) e soggettive (precedente condanna superiore a due anni ecc.)
fissate dalla legge. L’applicazione delle sanzioni sostitutive è affidata dalla legge al potere
discrezionale del giudice. Le pene sostitutive possono essere revocate o convertite in caso di
inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato.

LE MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE.


Esse sono:
a) l’affidamento in prova al servizio sociale, fuori dell’istituto, per un periodo uguale a quello
della pena da scontare; è la più importante delle misure alternative, questo per il condannato a pena
detentiva non superiore a tre anni; l’affidamento in prova è revocato qualora il comportamento del
soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione
della prova. La revoca dell’affidamento, dunque, non segue ipso iure alla commissione di un nuovo
reato oppure alla trasgressione delle prescrizioni imposte. L’esito positivo del periodo di prova
estingue la pena e ogni altro effetto penale, ma non le pene accessorie ne le obbligazioni civili
derivanti da reato.
b) l’affidamento in prova per tossicodipendenti o alcool dipendenti, particolare ipotesi di
affidamento in prova al servizio sociale. Si applica su domanda dell’interessato tossicodipendente o
alcool dipendente che abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi e
deve scontare una condanna entro il limite dei 4 anni.
c) il regime di semilibertà, parziale limitazione della libertà personale, corrispondente nella
concessione di trascorrere parte del giorno fuori del carcere per partecipare ad attività lavorative,
istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Può essere concessa per pene detentive brevi e
anche per le pene detentive di lunga durata. Il tempo trascorso in semilibertà è sempre considerato
come pena detentiva effettivamente scontata. La semilibertà può essere revocata se il soggetto si
dimostra “inidoneo al trattamento” oppure rimane assente dall’istituto senza giustificato motivo per
non più di 12 ore;
d) la detenzione domiciliare, consistente nell’espiazione della pena nella propria abitazione o in
altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura o di assistenza. La misura è
revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge e alle prescrizioni dettate, appare
incompatibile con la prosecuzione della misura.
e) la liberazione anticipata. Dispone l’art. 54 dell’ordinamento penitenziario che “al condannato a
pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale
riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una
detrazione di 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. A tal fine è valutato anche il
periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare”.
f) i permessi premio. Si concedono ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e che non
risultano socialmente pericolosi, per consentire loro di coltivare interessi affettivi, culturali o di
lavoro. La durata dei permessi premio non può essere superiore a 45 giorni in ciascun anno di
espiazione.
g) l’art. 4 bis ord. Penit. Disciplina penitenziaria differenziata nei confronti dei condannati
appartenenti alla criminalità organizzata od eversiva. Tutte le misure sopra descritte possono essere
concesse solo nei casi in cui collaborano con la giustizia.

Presupposti oggettivi della sostituzione sono altresì:


- l’appartenenza dei reati alla competenza del pretore (oggi giudice di pace), anche se giudicati da
altro giudice;
- la non inclusione dei reati tra quelli tassativamente esclusi. Presupposti soggettivi sono:
- la non commissione del reato nei cinque anni successivi a condanne a pena detentiva
complessivamente superiore a due anni di reclusione, o mentre si è sottoposti a libertà vigilata o
sorveglianza speciale; la non condanna più di due volte per reati della stessa indole; la non
intervenuta revoca di una precedente pena sostitutiva o della semilibertà;
- la non presunzione da parte del giudice che le prescrizioni non saranno adempiute da parte del
condannato.
La legge del 1981 ha introdotto, altresì, la pena del lavoro sostitutivo consistente nella prestazione
di una attività non retribuita, a favore della collettività, da svolgere presso lo Stato o un ente minore
per una giornata lavorativa alla settimana. Infine, sull’esempio del plea bargaining anglosassone è
stata prevista anche l’applicazione della pena su richiesta della parte (patteggiamento).

Il problema della commisurazione della pena


Di regola, sia le pene restrittive della libertà personale, sia le pene pecuniarie presentano un
carattere “mobile” perché vanno da un minimo ad un massimo legislativamente
predeterminati. Non di rado, la sanzione è altresì prevista in forma alternativa: all’autore del
reato è cioè applicabile una pena detentiva ovvero una pena pecuniaria (o ancora una pena
sostitutiva). Si definisce commisurazione della pena la determinazione, da parte del giudice,
della quantità di pena da infliggere in concreto al reo tra il minimo ed il massimo edittali; come
pure, la scelta del tipo di sanzione da applicare per il reato commesso. Nello scegliere la pena adatta
al caso concreto, il giudice esercita un potere discrezionale: lo riconosce in maniera esplicita l’art.
132 comma 1°, il quale afferma che “nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena
discrezionalmente, esso deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere discrezionale”.
La ragione per cui è affidata alla discrezionalità del giudice la concreta irrogazione della pena,
consiste nel fatto che il legislatore, essendo impotente a fissare in linea generale e astratta tutte le
sfumature di valore o disvalore del singolo episodio criminoso, delega al giudice il compito di
valutare tutti gli aspetti del fatto. Si deve stabilire se il potere discrezionale del giudice nella
commisurazione della pena sia libero o vincolato. È opinione dominante che si tratti di una
discrezionalità vincolata; in quanto il giudice va incontro a limiti legislativamente predeterminati.
I vincoli giuridici sono: in primo luogo nel quadro edittale della pena (minimo e massimo), poi
nella previsione esplicita degli indici di commisurazione della pena di cui all’art. 133 e nell’obbligo
di motivazione, per un controllo giurisdizionale sull’esercizio dei poteri discrezionali medesimi. Nel
quadro della razionalizzazione di tale commisurazione, il problema dibattuto dalla dottrina è quello
di:
- determinare, innanzitutto, i criteri finalistici di valutazione, cioè i fini che l’ordinamento assegna
alla pena nella fase della sua irrogazione;
- individuare, conseguentemente, gli elementi di fatto da valutare alla stregua dei criteri finalistici
adottati;
- tradurre in ammontare di pena le valutazioni effettuate.

La soluzione dell’art. 133 c.p.


Nell’esercizio del potere discrezionale il giudice deve tenere conto dei dati fattuali della gravità del
reato e, altresì, della capacità a delinquere del reo. La gravità del reato va desunta:
a) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità
dell’azione.;
b) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato (una grossa
somma provoca un danno maggiore di pochi euro e un pericolo concreto sarà sempre più grave di
un pericolo astratto);
c) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa (l’intensità del dolo si misura considerando la
forma in cui esso si manifesta: la volontà consapevole appare di intensità maggiore nel dolo
intenzionale e progressivamente meno grave nel dolo diretto e nel dolo eventuale; grado della colpa
per il quantum rispettivo di esigibilità della condotta doverosa e di divergenza tra la condotta tenuta
e la regola precauzionale applicabile nel caso concreto ecc.).

La capacità a delinquere va desunta:


a) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo (il motivo o movente viene comunemente
definito coma la causa psichica, lo stimolo che induce l’individuo a delinquere: nel linguaggio
della psicologia, si tratta di un’inclinazione affettiva, e cioè di un sentimento, un impulso o un
istinto, es. gelosia, vendetta, paura ecc.; per la psicoanalisi motivo dell’azione può essere anche
inconscio perché ignoto allo stesso agente. Per il carattere del reo, gli psicologi tendono a
concepirlo come il termine di transizione, il risultato della lotta tra i fattori “endogeni”
(temperamento) ed “esogeni” (ambiente) che contribuiscono a integrare la personalità, ciò porta
alla scelta tra diverse possibilità di azione;
b) dai precedenti penali (le condanne anteriormente riportate ecc.) e giudiziari (sottoposizione a
misure di prevenzione, provvedimenti di interdizione o inabilitazione ecc.) e, in genere, dalla
condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato (modi di essere e comportarsi della persona,
carriera scolastica, eventuale uso di droghe, alcool ecc.);
c) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato (es. compiacimento durante la
commissione del fatto delittuoso lunga esitazione prima del passaggio all’azione);
d) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo (incidenza dell’ambiente
esterno all’interno del processo criminogenetico).
Ciò serve a estendere la valutazione giudiziale del fatto oggettivo alla personalità del reo. Dopo le
diverse interpretazioni del significato della capacità a delinquere, in mancanza di indicazioni
univoche si è costretti a ricostruire il significato mediante il richiamo di elementi esterni. Avendo
l’art. 27, comma 1°, Cost., implicitamente riconosciuto il principio della responsabilità non solo
personale ma anche colpevole, si riflette un orientamento del sistema penale diretto alla
valorizzazione dell’elemento soggettivo del reato; inoltre divieto di responsabilità per fatto
altrui; non si può effettuare una prevenzione generale. Nel senso che non si può infliggere una
pena sproporzionata ad una persona, una pena esemplare, per un ammonimento verso tutti gli
altri consociati (tesi però non condivisa unanimamente). Le pene devono tendere alla rieducazione
del condannato. Ricostruzione della categoria della capacità a delinquere in chiave di prevenzione
speciale: il giudizio sull’attitudine del reo a commettere reati dovrà essere cioè proiettato nel futuro,
e fungerà da criterio di scelta e/o di dosaggio di una pena da determinare. La Corte Costituzionale
ha più volte ribadito che l’art. 133 c.p. svolge la funzione di garantire, ai fini di una più efficiente ed
equilibrata giustizia, il processo di individualizzazione della pena. La pena deve pertanto risultare a
misura dell’individuo così come il reato, in tutto il suo complesso atteggiarsi, ne è stata
l’espressione.

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