Diritto penale: è quella parte del diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti reato.
Reato: si definisce così ogni fatto umano alla cui realizzazione la legge riconnette sanzioni
penali
Sono Sanzioni penali: la Pena e le Misure di Sicurezza
Ratio: entrambe tendono all’obiettivo di difendere la società dal delitto e di risocializzare il
delinquente. Sono definibili leggi penali quelle che riconnettono sanzioni penali alla commissione
di determinati fatti. Reato, pena e misura di sicurezza costituiscono, dunque, i tre pilastri su cui
poggia l’edificio del moderno diritto penale.
Il reato ruota su tre principi cardine del diritto penale:
1) Principio di materialità : non può esservi reato se la volontà criminosa non si materializza in un
comportamento esterno (cogitatio poenam nemo patitur).
2) Principio di necessaria lesività o offensività : è necessario che tale comportamento leda o ponga
in pericolo beni giuridici.
3) Principio di colpevolezza: il reato può essere penalmente attribuito all’autore soltanto a
condizione che gli si possa muovere un rimprovero per averlo commesso.
La necessità di ricorrere al diritto penale si spiega perché i mezzi di protezione predisposti dagli
altri settori dell’ordinamento non risultano altrettanto idonei a prevenire la commissione di fatti
socialmente dannosi, che è necessario impedire in vista della garanzia delle condizioni di una
pacifica convivenza. Peraltro, il ricorso alla sanzione penale per antonomasia – e cioè la pena
detentiva – risulta in taluni casi ancor oggi inevitabile per scoraggiare le azioni dannose di coloro i
quali non avvertirebbero, o perché “possono permettersi tutto” ovvero perché “non posseggono
nulla”, l’effetto di sanzioni pecuniarie come il risarcimento del danno e simili.
La spiccata attitudine preventiva del diritto penale si dispiega in una duplice forma:
- prevenzione c.d. generale: la minaccia della sanzione penale distoglie dal commettere reati
- prevenzione c.d. speciale: la concreta inflizione della pena tende a impedire che l’autore del reato
torni a delinquere.
Principio di frammentarietà
Il principio di frammentarietà è, solitamente, considerato operante a tre livelli :
• Alcune fattispecie di reato tutelano il bene oggetto di protezione non contro ogni aggressione
proveniente da terzi, ma soltanto contro specifiche forme di aggressione.
• La sfera di ciò che rileva penalmente è molto più limitata rispetto alla sfera di ciò che è qualificato
antigiuridico alla stregua dell’intero ordinamento (es. la violazione di un contratto, non è un illecito
penale, ma solo civile).
• L’area del penalmente rilevante non coincide con quella di ciò che è moralmente riprovevole (si
pensi all’omosessualità ormai decriminalizzata).
Ma la framm. contrasta con la prospettiva della prevenzione generale , perché tende a lasciare delle
lacune. Per tale motivo, la giurisprudenza, non di rado, indulge verso interpretazioni estensive delle
fattispecie incriminatrici (ad es. l’estensione del significato del termine aiuto nel reato di
favoreggiamento personale a chi si rifiuta di fornire notizie utili per l’accertamento del reato
commesso da persona non ancora identificata). Dal punto di vista della prevenzione speciale la
framm. contrasta con l’esigenza di risocializzazione quale obiettivo dell’esecuzione della pena:
infatti se la pena deve tendere non solo ad impedire la recidiva, ma anche a riorientare il reo
secondo il sistema dei valori dominanti, sarebbe più coerente penalizzare tutte le condotte lesive dei
beni. A questo punto risulta chiaro che la framm. rappresenta un’ulteriore proiezione della
concezione dello strumento penale come ultima ratio.
Principio di autonomia
• Il Binding : attribuisce al diritto penale una funzione secondaria o accessoria e sanzionatoria. La
sua funzione specifica consisterebbe nel rafforzare con la propria sanzione i precetti e le sanzioni
degli altri rami del diritto.
• In Italia , il Grispigni : attribuisce al diritto penale un carattere ulteriormente sanzionatorio. In
altri termini, ogni condotta costituente reato sarebbe sempre vietata anche da un’altra norma di
diritto privato o di diritto pubblico e pertanto ogni reato integrerebbe un illecito di natura non penale
prima ancora di essere vietato dal diritto penale: “la sanzione penale serve così di completamento e
di rafforzamento all’altra sanzione non penale”. La tesi del carattere sanzionatorio del dir. pen. è
oggi quasi unanimemente respinta perché, se la sanzione penale deve costituire l’estrema ratio, ne
deriva logicamente che il diritto penale non può precedere, ma può soltanto intervenire
successivamente agli altri settori dell’ordinamento. Un dato è, comunque, inconfutabile: e, cioè, per
procedere all’applicazione delle tipiche sanzioni punitive, il giudice non è vincolato a precedenti
valutazioni di altri giudici o di autorità amministrative, per cui è indifferente che la sanzione penale
sia preceduta da altre sanzioni.
Caso 1: in una giornata molto calda, un uomo per ricevere refrigerio, si immerge nudo in una
fontana di Hyde Park. Denunciato, è chiamato a rispondere penalmente per la violazione delle
norme che proibiscono di indossare abbigliamenti contrari ai buoni costumi.
Principio di legalità
Ha una genesi non strettamente penalistica, ma squisitamente politica. La sua matrice risale alla
dottrina del:
- contratto sociale;
- si giustifica con la conseguente esigenza di vincolare l’esercizio di ogni potere dello Stato alla
legge.
Il pensiero illuministico, proteso ad eliminare gli arbitri ed i soprusi dello Stato assoluto, si fa
assertore in chiave garantistica del vincolo del giudice alla legge, quale corollario del principio
della divisione dei poteri. L’idea della tutela dei diritti di libertà del cittadino nei confronti del
potere statuale si esprime, fondamentalmente, nel divieto di retroattività della legge penale
(riconoscimento oltre che nelle Cost. anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789). La traduzione in termini giuridico - penali della base politica del principio di legalità,
avviene nell’800, ad opera di Anselm Feuerbach , il quale lo canonizza nella frase “nulla poena,
sine lege“, e lo raccorda concettualmente al problema del fondamento della pena, visto come
prevenzione generale, attuata mediante coazione psicologica. Cioè,se la minaccia della pena deve
funzionare da deterrente psicologico nel distogliere dal commettere reati, è necessario che i cittadini
conoscano prima quali sono i fatti, la cui realizzazione comporta l’inflizione della sanzione. La
migliore riprova del fondamento del principio di legalità sta nel fatto che esso ha trovato espresso
riconoscimento nell’art. 25 c. 2 / Cost. e nell’art. 7 della CEDU del 4 novembre 1950. L’art. 25 c. 2
della Cost. dispone che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso”. A sua volta, l’art. 1 del c.p. statuisce: “Nessuno può essere
punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che
non siano da essa stabilite”. Il significato di garanzia del principio di legalità sono evidenziate dal
caso 1. Risoluzione caso 1: il comportamento dell’uomo rientra, ad una considerazione basata sulla
ratio della tutela, tra le condotte da reprimere, ma l’essere nudi non è in nessun modo assimilabile
all’essere vestiti. Il principio di legalità ha come destinatari sia il legislatore sia il giudice e si
articola in 4 sottoprincipi quali:
1) Riserva di legge
2) Tassatività (o sufficiente determinatezza della fattispecie penale)
3) Irretroattività della legge penale
4) Divieto di analogia in materia penale
La riserva di legge
- Esprime il divieto di punire un determinato fatto in assenza di una legge preesistente che lo
configuri come reato. Esso tende a sottrarre la competenza in materia penale al potere esecutivo. Il
procedimento legislativo (competenza esclusiva del legislatore per esigenze di garanzia) appare lo
strumento più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale: esso consente di tutelare i
diritti delle minoranze e delle forze politiche dell’opposizione che sono così poste in condizione di
esercitare un sindacato sulle scelte penali, ma, soprattutto, perché la legge è espressione della
volontà popolare e, se ricorre alla coercizione penale, significa che intende difendere interessi
rilevanti della collettività. In Italia, si è tentato di ridimensionare il valore della riserva di legge,
degradandola a relativa: in questo senso, si è ritenuta ammissibile e legittima la partecipazione di
fonti normative secondarie, come i regolamenti, alla creazione della fattispecie penale. Questa
concezione non può essere accolta perché finisce con l’eludere le esigenze di garanzia cui il
principio di legalità deve soddisfare. La riserva deve essere intesa come assoluta perché esclude
che il legislatore possa attribuire il potere normativo ad una fonte di grado inferiore. Ma su questo
punto esistono divergenze. Secondo una prima formulazione elastica, il carattere assoluto della
riserva di legge non implica necessariamente l’esclusione del concorso del potere normativo
secondario nella configurazione del modello di reato. Se un elemento della fattispecie è determinato
tramite il rinvio a un regolamento, questa fonte degrada a mero presupposto di fatto, come fatto tra i
fatti. Questa impostazione oggi è, per lo più, respinta. Ma nel diritto penale moderno un apporto
della fonte secondaria appare indispensabile nei settori della legislazione speciale (dove sono
consentiti accertamenti di indole tecnica o specificazioni di dati, purché alla stregua di parametri
legislativamente predeterminati): si pensi alle tabelle del Min. Sanità relative alle sostanze
stupefacenti. Sicché si può rinvenire un punto di equilibrio tra il profilo della riserva e quello della
tassatività in questo senso: - le scelte di fondo relative all’incriminazione rimangono monopolio del
legislatore, mentre rimane affidata alla fonte normativa secondaria, la possibilità di specificare dal
punto di vista tecnico il contenuto di elementi di fattispecie già delineati in sede legislativa.
Il principio di tassatività
Proiezione del principio di legalità, il principio di tassatività o sufficiente determinatezza della
fattispecie penale (il principio di legalità sarebbe rispettato nella forma, ma eluso nella sostanza, se
la legge che eleva a reato un dato fatto lo configurasse in termini così generici da non lasciar
individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente sanzionato) coinvolge la
tecnica di formulazione delle fattispecie criminose e tende, precipuamente, a salvaguardare i
cittadini contro eventuali abusi del potere giudiziario. Se la tutela penale è apprestata soltanto
contro determinate forme di aggressione a beni giuridici (principio di frammentarietà), è necessario
che il legislatore specifichi con sufficiente precisione i comportamenti che integrano siffatte
modalità aggressive. La determinatezza risulta essere una condizione indispensabile perché la
norma penale possa fungere da guida del comportamento del cittadino. Una norma penale persegue
lo scopo di essere obbedita, ma obbedita non può essere se il destinatario non ha la possibilità di
conoscerne con sufficiente chiarezza il contenuto. L’elusione del principio di tassatività
pregiudicherebbe lo stesso principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e lo stesso diritto
costituzionale alla difesa. In sostanza il principio di tassatività vincola:
• Il legislatore, obbligandolo ad una descrizione il più possibile precisa del fatto di reato.
• Il giudice, obbligandolo ad una interpretazione che rifletta il tipo descrittivo così come legalmente
configurato.
Tra il principio di t. e la realtà dell’ordinamento penale vigente esiste una notevole differenza che
dipende, anche, da un eccessivo self - restraint della Corte Cost., la quale, di rado, è intervenuta in
questo campo, facendo leva su argomenti discutibili quali:
a) Creare vuoti di tutela
b) Entrare in conflitto con il legislatore
c) Obiettiva difficoltà di stabilire con precisione il confine tra sufficiente determinatezza e
indeterminatezza.
d) Salvataggio operato in base al criterio del significato linguistico, per il quale sarebbe sempre
possibile rintracciare un significato determinato corrispondente al normale uso linguistico dei
termini impiegati.
e) Argomento del diritto vivente, utilizzato in due versioni. Con la prima il d.v. si identifica con
l’interpretazione costante o dominante della giurisprudenza, specie della Cassazione. Con la
seconda, il criterio viene adottato nei casi in cui manca un indirizzo costante o prevalente, per cui il
d.v., inteso come il rapporto dialettico tra le diverse interpretazioni, lascia libero il giudice di
scegliere la soluzione preferibile. In questo modo, però, si attribuisce un ruolo eccessivo alla
giurisprudenza ordinaria.
f) In altre sentenze, in tema di frode fiscale e prevenzione antincendio, l’idea emergente è la
seguente: il vero punto di riferimento della determinatezza è, non già, la sola formulazione della
norma incriminatrice, bensì il cosiddetto tipo criminoso, come sintesi di un omogeneo contenuto di
disvalore penale. Con la circolare 05/02/1986 il P.C.M si prefigge l’obiettivo di razionalizzare la
legislazione, fissando alcuni criteri per la formulazione delle fattispecie penali.
Il principio di irretroattività
Fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore.
- art. 11 preleggi : la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo.
Ma esso ha rango costituzionale, soltanto rispetto alla materia penalistica:
art. 25 cost. 2° comma : nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata
in vigore prima del fatto commesso. Principio ispirato alla garanzia della libertà personale del
cittadino nei confronti dei detentori del potere legislativo.
Art. 2 c.p.: il primo comma ribadisce l’irretroattività della norma incriminatrice, i commi
secondo e terzo appaiono ispirati al diverso principio della retroattività di una eventuale norma più
favorevole, successivamente emanata.
- Non è consentito applicare retroattivamente una disciplina processuale che peggiori la
posizione dell’imputato. Ma vi è contrasto tra p. di irretroattività assoluto, sancito da Cost. e
principio di applicazione retroattiva della legge più favorevole al reo previsto dal c.p.? No, in base
all’art. 3 Cost. sull’eguaglianza dei cittadini.
Principio di ultrattività
Il principio dell'ultrattività delle leggi tributarie è stato introdotto dall'art. 20 della L. 4/1929 che
recita testualmente: "... le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni
altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in
vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro
applicazione ...". Secondo tale principio le leggi tributarie si applicano, nelle parti in cui prevedono
violazioni e sanzioni, sempre ai fatti commessi quando erano in vigore. In altre parole, le
disposizioni sanzionatorie in materia tributaria si applicano ai fatti commessi quando tali
disposizioni erano in vigore, anche se le stesse sono state successivamente abrogate o modificate in
senso più favorevole al trasgressore. Tale norma è stata in passato oggetto di esame da parte della
Corte Costituzionale in quanto vi era il sospetto di incompatibilità con l'art 25 della Costituzione. In
particolare la Corte con la sentenza n. 164 del 6 giugno 1974, ha ritenuto infondata la questione, in
quanto: "... l'art. 20 della L. 7 gennaio 1929, n. 4, nella parte in cui sancisce la c.d. ultrattività delle
disposizioni penali delle leggi finanziarie, non contrasta con il principio costituzionale di
uguaglianza. La norma, infatti, diretta a garantire che la spinta psicologica all'osservanza della legge
fiscale non sia sminuita nemmeno dalla speranza di mutamenti di legislazione, appare ispirata alla
tutela dell'interesse primario alla riscossione dei tributi ...". Si ricorda che l'art. 29 del D.Lgs. 472/97
ha abrogato il principio di ultrattività della norma fiscale stabilito dall'art. 20 della L. 4/29.
ART. 2 c.p.: analisi.
• 1 comma : nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato. È il fenomeno della nuova incriminazione, che ricorre quando
una legge introduce una figura di reato prima inesistente. Il divieto di punire comportamenti
considerati illeciti da un legge emanata successivamente, soddisfa sia ad un’esigenza di giustizia sia
perché i cittadini sarebbero continuamente esposti al rischio di arbitri dei detentori del potere
politico. Il principio di irretroattività si salda con quello di legalità, fondendosi con la formula
nullum crimen , nulla poena sine praevia lege poenali.
• 2 comma : Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato: e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. La
norma allude al fenomeno dell’abolizione di incriminazioni prima esistenti. Gli autori del reato
oggetto di abrogazione non solo non possono essere puniti ma, se hanno subito una sentenza di
condanna , anche definitiva, ne cessa l’esecuzione e si estinguono tutti i connessi effetti penali. La
RATIO è: sarebbe contraddittorio e irragionevole continuare a punire l’autore di un fatto ormai
tollerato dall’ordinamento giuridico. Criterio della successione: si ha successione allorché nel
passaggio dalla vecchia alla nuova norma permane la continuità del tipo di reato. Ma il criterio in
esame è piuttosto criticabile perché di incerta applicazione. Più certo è, invece, il rapporto di
continenza: si verifica quando la fattispecie successiva sia pienamente contenuta nella precedente, il
che tipicamente avviene quando la norma posteriore sia speciale rispetto ad una precedente di
contenuto più generico.
. 3 comma: se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede
esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella
corrispondente pena pecuniaria.
•4 comma: se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile.
È il principio di retroattività della norma più favorevole al reo: fondamento del principio è il favor
libertatis, che assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge
penale vigente al momento della realizzazione del fatto e quello previsto dalle leggi successive,
purché precedenti alla sentenza definiva di condanna : questo principio è ricollegabile al
principio costituzionale di uguaglianza, che impone di evitare ingiustificate o irragionevoli
disparità di trattamento. Quando ci si trovi di fronte ad una disposizione più favorevole, occorre
operare un raffronto tra la disciplina prevista dalla vecchia norma e quella introdotta dalla nuova.
Tale raffronto va fatto in concreto, cioè mettendo a confronto i rispettivi risultati dell’applicazione
di ciascuna di esse alla situazione concreta oggetto di giudizio (es. vecchia legge, 1-5 anni di
reclusione, nuova 2-4, il giudice applicherà 1 anno se intende accostarsi alla pena minima
diversamente 4).
•5 comma : il principio di retroattività in senso più favorevole al reo è inoperante rispetto alle
leggi temporanee ed alle leggi eccezionali.
Si definiscono “eccezionali” quelle leggi, il cui ambito di operatività temporale è segnato dal
persistere di uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario (guerre, epidemie,
terremoti, ecc.); sono “temporanee” le leggi, rispetto alle quali è lo stesso legislatore a prefissare un
termine di durata. Ove il principio del favor rei dovesse trovare riconoscimento, si offrirebbe una
comoda scappatoia per commettere violazioni con la certezza di una futura impunità. I commi 2 e 3
dell’art. 2 c.p. si applicano anche nel caso di successione di leggi penali finanziarie (art. 20 d. lgs.
507/99), mentre, prima, cioè con la legge n. 4/1929 all’art. 20, si applicavano le disposizioni in
vigore al tempo dei fatti, anche se successivamente abrogate e modificate (PRINCIPIO DI
ULTRATTIVITA’). L’art. 20 è stato abrogato dalla legge del 1999 suindicata.
Divieto di analogia
L’analogia consiste in un processo di integrazione dell’ordinamento attuato tramite una regola di
giudizio ricavata dall’applicazione all’ipotesi di specie, non regolata espressamente da alcuna
norma, di disposizioni regolanti casi o materie simili: il presupposto di tale procedimento
integrativo è costituito dal ricorrere dell’identità di ratio. Il ricorso all’analogia non è, tuttavia,
sempre ammissibile. ART. 14 delle disposizioni sulla legge in generale esclude il procedimento
analogico in due casi, uno dei quali è costituito dalle leggi penali e, in via implicita, anche dall’art.
1 (nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge
come reato) e 199 c.p. (nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza fuori dei casi dalla
legge preveduti). Inoltre è costituzionalmente implicito nel concetto nullum crimen sine lege. Ma
non sempre riesce agevole distinguere tra analogia e interpretazione estensiva. La dottrina
maggioritaria non dubita, infatti, della legittimità dell’interpretazione estensiva in campo penale,
anche se si possono considerare alcune giustificate riserve, tipo il rispetto del principio di
frammentarietà che impedisce che si forzino i limiti di tipicità prefissati dal legislatore. Per quanto
riguarda l’ampiezza del divieto di analogia, il divieto avrebbe carattere assoluto, se riguardasse sia
le norme incriminatrici, sia le norme di favore. A giustificazione, si adduce il principio
dell’esigenza di certezza. Ma contro questa concezione assoluta è da obiettare che l’art. 25 comma 2
Cost. sancisce, non già il primato dell’esigenza di certezza, ma della garanzia della libertà del
cittadino e proprio movendo dal presupposto che la “libertà” è la regola e la sua limitazione
l’eccezione, risulta del tutto conforme all’art. 25 Cost. un’interpretazione analogica estesa alle
norme più favorevole al reo. Così si è riconosciuto che il divieto di analogia ha carattere relativo
perché concerne soltanto l’interpretazione delle norme penali sfavorevoli. Ma in che limiti è
consentita l’interpretazione analogica in bonam partem? Un ostacolo si può riscontrare all’art. 14
delle disposizioni preliminari (“le leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”). Occorre, quindi, stabilire il significato di leggi
eccezionali insuscettive di applicazione analogica sia in malam sia in bonam partem. Sono da
considerare regolari le norme che disciplinano situazioni in cui può versare “chiunque” al ricorrere
di determinati presupposti, mentre ci si trova di fronte a norme eccezionali nei casi in cui viene
introdotta una disciplina che deroga alla efficacia generale di una o più disposizioni. Applicando
questi criteri, non tutte le norme che prevedono cause di punibilità, latu sensu intese, hanno
carattere eccezionale. Il ricorso al procedimento analogico è, invece, precluso rispetto a quelle
cause di non punibilità che fanno riferimento a situazioni particolari o riflettono motivazioni
politico-criminali specifiche. In particolare l’analogia è inammissibile:
a) alle immunità
b) alle cause di estinzione del reato e della pena.
c) alle cause speciali di non punibilità.
Rispetto alle circostanze attenuanti, il problema non esiste più a seguito dell’introduzione dell’art.
62 bis (attenuanti generiche).
Dall’esame della complessa normativa del c.p. (art. 6 ss) sembra potersi desumere che nessuno dei
principi predomina in modo assoluto, piuttosto si assiste alla combinazione di principi diversi.
Attraverso il ricorso sempre più frequente allo strumento delle convenzioni internazionali
l’ordinamento penale italiano dà sempre più spazio al principio di universalità (vedi trattato di
Roma del 1998 che ha istituito la Corte Penale Internazionale sui crimini internazionali tipo
genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, ancorché in via suppletiva rispetto all’azioni delle
giurisdizioni nazionali).
Concetto di territorio
Art. 6 c.p. sancisce il principio di territorialità: è punito secondo la legge italiana “chiunque
commette un reato nel territorio dello Stato”. Nozione di territorio è fornita dall’art. 4 c.p. : “agli
effetti della legge penale è territorio dello Stato, il territorio della Repubblica e ogni altro luogo
soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come
territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto
internazionale, ad una legge territoriale straniera.”. Il territorio dello Stato è costituito dalla
superficie terrestre compreso nei suoi confini politico –geografici, secondo i confini stabiliti dai
trattati internazionali, nonché dal mare costiero e dallo spazio aereo. Il mare territoriale italiano si
estende per 12 miglia marine dalla linea costiera e dalle linee rette che uniscono i promontori (art. 2
cod. nav.). Lo spazio aereo incontra il suo limite nella zona c.d. ultraatmosferica, cioè sovrastante
l’atmosfera terrestre. Il sottosuolo fa parte del territorio dello Stato fino alle profondità
raggiungibili con l’impiego di mezzi meccanici. Navi ed aeromobili si considerano territorio dello
Stato ovunque si trovino. L’applicabilità di questo principio (detto, della bandiera) è
incondizionata per le navi e gli aeromobili di Stato, mentre per quelli privati (civili e mercantili) è
limitata all’ipotesi in cui essi si trovino in alto mare o in zona non soggetta a sovranità straniera. Ma
quand’è che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato? Locus commissi delicti: nell’
art. 6 c.p. 2° comma il legislatore ha accolto il principio dell’ubiquità, stabilendo che il reato si
considera commesso nel territorio italiano quando l’azione od omissione che lo costituisce è ivi
avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od
omissione. Si discute se la parte di azione od omissione compiuta nel territorio dello Stato debba o
no, per assumere rilevanza penale, integrare gli estremi del tentativo punibile. Sembra prevalere
la tesi negativa in base all’art. 56 che presuppone pur sempre che “l’azione non si compia o
l’evento non si verifichi”, mentre l’art. 6, comma 2° prevede ipotesi delittuose che, realizzandosi
in tutti gli estremi, pervengono allo stadio di reati consumati e come tali vengono puniti: quindi,
è sufficiente accertare che la parte o frazione di azione compiuta rappresenti un anello essenziale
della condotta conforme al modello criminoso. Al fine di stabilire se la parte di azione realizzata in
Italia costituisca parte integrante del fatto complessivo, ci si dovrà avvalere di un giudizio a
posteriori e in concreto riferito ad un delitto interamente consumatosi. L’accoglimento del
principio di ubiquità comporta, in tema di concorso di persone, che il reato si considera commesso
nel territorio dello Stato, sia quando l’azione venga iniziata all’estero e proseguita in Italia (o
viceversa), sia nel caso in cui, pur eseguito interamente all’estero, il reato abbia un qualsiasi atto
partecipativo compiuto in Italia. Nel reato continuato, per il quale assai problematico è principio
di ubiquità, si applica l’art. 6 tutte le volte in cui ne derivi un vantaggio all’imputato.
Delitto politico
E’ delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato o un diritto politico
del cittadino. E’ altresì considerato delitto politico, il delitto comune determinato in tutto o in parte
da motivi politici (art. 8).
Distinguiamo :
Delitto politico in senso oggettivo, il d.p.o. offende un interesse politico dello Stato, vale a dire la
sua essenza unitaria comprensiva di popolo, territorio, indipendenza, forma di governo, ecc. Vi
rientrano sia i delitti contro la personalità dello Stato, sia quelli previsti da leggi speciali che
offendono lo Stato in una delle componenti dette sopra, mentre non vi rientrano i delitti che
offendono il potere amministrativo o giudiziario. Delitto politico è anche quello che offende un
diritto politico del cittadino, cioè il diritto del cittadino di partecipare alla vita dello Stato e di
contribuire alla formazione della sua volontà. Delitto politico in senso soggettivo, caratterizzato
dalla motivazione psicologica che spinge l’autore a commettere il fatto. Può essere composto in
parte da motivo politico vero e proprio e in parte da motivo sociale. La Costituzione parla del d.p.
in rapporto sia all’estradizione (art. 26 Cost.) sia al diritto d’asilo (art. 10 Cost.), ma non ne
fornisce alcuna definizione precisa. Subito dopo l’emanazione della Costituzione, è invero parso
prevalere un orientamento incline a considerare costituzionalizzato il contenuto dell’art. 8, in
linea del resto con il ritenuto ripristino, da parte del legislatore costituente, di un trattamento più
favorevole per i detenuti politici (ciò offriva scappatoie per rendere amnistiabili fatti criminosi
ispirati ad una opposizione politica nei confronti del passato regime). Maturata nel corso degli anni
una diversa sensibilità costituzionale nei confronti della stessa materia penale, si è andato
assistendo ad un mutamento di indirizzo, tanto che oggi è divenuta prevalente la tesi
“autonomistica” seppure espressa secondo formulazioni diverse. L’opinione che merita
accoglimento è quella che assume a criterio discretivo della natura politica del reato il tipo di
rapporto intercorrente tra il fatto commesso e le “libertà democratiche garantite dalla Cost.
ital”; ossia potranno avvantaggiarsi dei benefici del divieto di estradizione o del diritto di asilo
soltanto gli autori dei reati commessi all’estero al fine di lottare contro un regime autoritario o
per far valere diritti fondamentali il cui esercizio viene di fatto impedito; delitto politico come
connotazione “oggettiva” (riferimento al catalogo delle libertà previste dalla nostra Carta
costituzionale).
Ambito di validità personale della legge penale
Il principio di obbligatorietà della legge penale, la legge penale italiana obbliga tutti coloro che,
cittadini o stranieri, si trovano sul territorio dello Stato; e tutti coloro, cittadini o stranieri, che si
trovano all’estero nei casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale, sancito dall’art.
3 del codice, deve considerarsi nello Stato moderno una proiezione o realizzazione del più generale
principio di uguaglianza. Agli effetti della legge penale, è considerato cittadino colui che è in
possesso dei requisiti previsti dalla legge per l’acquisto della cittadinanza, mentre è straniero colui
che è legato da rapporto di cittadinanza con altro Stato, oppure l’apolide residente all’estero. Vi
sono poi le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Queste
eccezioni vengono denominate immunità penali e definiscono un complesso di situazioni che
hanno per effetto finale la sottrazione al potere coercitivo dello Stato. Le immunità sono:
- assolute, perché si estendono a tutti i reati, senza distinzione tra attività funzionale o attività
extrafunzionale;
- relative perché riconosciute solo in costanza di carica o richiedono un’autorizzazione al
procedimento penale da parte di organi diversi dal giudice ordinario. Si distinguono ancora le
immunità di natura sostanziale operanti nell’esercizio di funzioni, dalle immunità processuali
riferite dagli atti fuori dell’esercizio delle funzioni e perseguibili al momento della cessazione della
carica.
Fatto tipico
Nel diritto penale: il fatto tipico è, il complesso degli elementi che delineano la figura di uno
specifico reato (nell’omicidio, il fatto è l’aver cagionato la morte ad un uomo). Perciò il fatto, come
oggetto del giudizio di tipicità, ingloba soltanto quei contrassegni in presenza dei quali può dirsi
adempiuto un particolare modello delittuoso e non un altro. Ciò è in funzione del principio nullum
crimen sine lege. In sostanza, compito del fatto tipico è quello di ritagliare e circoscrivere specifiche
forme di aggressione ai beni penalmente tutelati, così da giustificare il ricorso alla extrema ratio. Il
giudice sarà tenuto a verificare se l’offesa è stata realizzata proprio con quelle particolari modalità
legislativamente tipizzate: in caso contrario, in omaggio ai principi di legalità, tassatività e
frammentarietà, il fatto (pur sostanzialmente offensivo) deve ritenersi privo di rilevanza penale.
Inoltre il fatto tipico deve essere idoneo a rispettare le esigenze poste dal principio di materialità
ovvero che il reato si manifesti in un contegno esteriore accertabile nella realtà. Che la tipicità della
condotta inglobi la lesione del bene, appare in alcuni casi di evidenza tangibile. Esistono, tuttavia,
altri casi in cui all’esteriore conformità del fatto alla fattispecie legale non si accompagna una
effettiva lesione del bene protetto (casi classici del furto di un acino d’uva o di un chiodo
arrugginito, del peculato per sottrazione di un foglio di carta alla P.A. o del falso grossolano o
innocuo). Qui la tipicità è soltanto apparente. Il principio della tipicità può, di fatto, subire
deroghe, nell’ambito, ad esempio, della legislazione penale extracodicistica.
Antigiuridicità
Si fonda sul principio di non contraddizione dell’ordinamento, nel senso che l’esistenza di una
qualsiasi norma (non importa in quale settore giuridico sia collocata), atta a facoltizzare o rendere
doveroso un determinato comportamento, basta a renderlo lecito in tutto l’ordinamento giuridico.
(es. l’ufficiale giudiziario che procede ad un pignoramento). Per converso, l’art. 651 c.p.p. vincola il
giudice civile e amministrativo al giudicato penale di condanna. Il giudizio di antigiuridicità si
risolve dunque, nella verifica che il fatto tipico non è coperto da alcuna causa di
giustificazione o esimente. All’interno della concezione tripartita del reato, la categoria
dell’antigiuridicità ha carattere oggettivo: cioè costituisce una qualità oggettiva del fatto tipico,
che come tale prescinde ed è distinta dalla colpevolezza. Questo modo d’intendere l’antigiuridicità
corrisponde alla stessa impostazione codicistica: l’art. 59, nel fissare la regola della rilevanza
obiettiva delle cause di giustificazione, nel senso che esse operano anche se non conosciute
dall’agente, presuppone, infatti, un’antigiuridicità concepita su base puramente oggettiva. LA
TEORIA DEGLI ELEMENTI NEGATIVI DEL FATTO. Per spiegare sul piano dogmatico
l’operatività delle cause di giustificazione, taluni autori fanno ricorso agli elementi negativi del
fatto, cioè a degli elementi che devono mancare perché l’illecito penale si configuri. Es. è vietato
cagionare la morte di un uomo, a meno che l’aggressione non sia giustificata dalla necessità di
difendersi. Si ricomprende, così, nel concetto di fatto, oltre agli elementi positivi, i presupposti delle
scriminanti: tale impostazione sembra da respingere, perché tale teoria, sorta storicamente in
ordinamenti europei privi della disciplina degli errori sulle scriminanti, appare superflua nel nostro
ordinamento, dove, invece, tale problema è stato risolto.
Colpevolezza
La colpevolezza riassume le condizione psicologiche che consentono l’imputazione personale
del fatto di reato all’autore: si tratta, infatti, di verificare se, e fino a che punto, il precetto penale
assunto come regola obiettiva di comportamento in sede di tipicità e antigiuridicità, sia suscettivo di
essere osservato dal singolo agente. Nel giudizio di c. rientra, così, innanzitutto, la valutazione del
legame psicologico o, comunque, del rapporto di appartenenza tra fatto e autore, nonché la
valutazione delle circostanze, di natura personale e non, che incidono sulle capacità di
autodeterminazione del soggetto. La legge penale garantisce la libertà di scelta individuale proprio
nella misura in cui rifiuta la responsabilità oggettiva e subordina la punibilità alla presenza di
coefficienti soggettivi quali il dolo e la colpa. Questa spiegazione liberale garantistica è stata
avallata dalla Corte costituzionale nella sentenza n.364/88, in cui ha parzialmente dichiarato
incostituzionale l’art. 5 c.p. relativamente all’efficacia scusante dell’errore inevitabile di diritto,
nella quale sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per
comportamenti che solo fortuitamente producono conseguenze penalmente vietate. In questa stessa
sentenza la Corte ravvisa nella colpevolezza un principio costituzionale garantista. Se oggi nessuno
contesta il ruolo fondamentale della colpevolezza come principio di civiltà, minore convergenza si
ha sul contenuto della colpevolezza come categoria dogmatica. In particolare, mentre è pacifico che
essa abbraccia come requisiti minimi il dolo o la colpa, si discute se vi rientrano elementi ulteriori e
di quale misura siano. Nella dottrina contemporanea, la colpevolezza in senso dogmatico tende ad
essere distinta secondo che essa funga da elemento costitutivo del reato che si pone accanto alla
tipicità e alla antigiuridicità ovvero da criterio di commisurazione della pena.
Concetto di azione
L’azione umana rappresenta la base su cui poggia l’intera costruzione dogmatica del reato
commissivo doloso. La dottrina dell’azione ha storicamente prospettato diverse concezioni, delle
quali le principali
sono:
La teoria causale La teoria finalistica La teoria sociale
Definisce l’azione come una Secondo Hans Wezel, l’azione Il comportamento
modificazione del mondo
esterno cagionata dalla volontà
umana. Il dolo non rappresenta
(anche) un elemento
dell’azione, ma è considerato
soltanto come forma di
colpevolezza.
umana consiste nell’esercizio di penalmente
Presupposti dell’azione
Fatto umano. Condotta e suoi presupposti. Si riferiscono al soggetto attivo del reato
specificandone:
- un ruolo o una qualità (pubblico ufficiale nei delitti vs P.A.)
- l’oggetto materiale della condotta (es. natura documentale per falsità in atti)
- il contesto (ad es. situazione di pericolo nell’omissione di soccorso)
- il soggetto passivo (es. Capo dello Stato nell’art. 276 ss).
I presupposti sono importanti nel dolo: trattandosi di elementi precedenti l’azione possono essere
non già voluti, ma soltanto conosciuti dal reo. Oggetto materiale dell’azione (o.m. azione). Si
definisce la persona o la cosa sulla quale ricade l’attività fisica del reo (es. la cosa nel furto, la
persona nell’omicidio). Può essere sia unico sia plurimo. Si distingue sia dall’oggetto giuridico
come sinonimo di bene penalmente protetto (bene giuridico) sia dal soggetto passivo del reato. Es.
il reato di sottrazione consensuale di minorenni dove l’interesse protetto è la potestà dei due
genitori, oggetto dell’azione è il minore protetto. Ma in numerosi casi o.m. dell’azione coincide con
soggetto passivo. La differenza tra o.m. dell’azione e bene giuridico si accentua man mano che il
b.g. subisce un processo di spiritualizzazione (es. fede pubblica come bene immateriale). O.m.
azione caratterizza la fattispecie: es. il furto solo cose mobili, l’invasione o turbativa del possesso
solo cose immobili. Evento naturalistico Risultato esteriore causalmente riconducibile all’azione
umana. In senso tecnico si parla di evento naturalistico. Va inteso, quindi, come conseguenza
dell’azione e consistente in una modificazione fisica della realtà esterna. L’evento n. può essere
anche la messa in pericolo di un bene protetto (es. art.434). Rispetto al rapporto di causalità, l’e.n.
costituisce il secondo polo del nesso causale e, quindi, un requisito del fatto tipico. Può rivestire il
ruolo di circostanza aggravante di un reato già perfetto (ad es. lesione o morte come aggravante
dell’omissione di soccorso) e, in altri casi, quello di condizione obiettiva di punibilità (ad es. il
pubblico scandalo nell’incesto). Rapporti di causalità Il nesso di causalità lega l’azione all’evento.
Quando tra gli estremi del fatto compare un evento, l'evento rileva solo se è stato causato
dall'azione: tra la azione e l'evento deve sussistere un rapporto di causalità, come stabilisce, sotto
la rubrica "rapporto di causalità", l'art.40, 1° comma c.p., il quale dice che "nessuno può essere
punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui la
legge fa dipendere l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione".
Dottrina e giurisprudenza hanno fornito cinque risposte all'interrogativo su cosa sia necessario per
poter affermare che una data azione è causa di un dato evento. Le principali teorie della causalità
sono: 1) la teoria condizionalistica; 2) la teoria della causalità scientifica 3) la teoria della causalità
adeguata; 4) la teoria della causalità umana 5) la teoria della imputazione obiettiva dell’evento.
La Teoria condizionalistica
La teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non o della causalità naturale) parte dalla
premessa che ogni evento è la conseguenza di molti fattori causali, che sono tutti egualmente
necessari perché l'evento si verifichi: giuridicamente rilevante come causa dell'evento è ogni azione
che non può essere eliminata mentalmente, cioè immaginata come non avvenuta, senza che l'evento
concreto venga meno, perciò basta che l'azione di Tizio sia uno degli antecedenti senza i quali
l'evento non si sarebbe verificato perché quell'azione possa considerarsi causa dell'evento. Ad
es. se Tizio colpisce con uno schiaffo Caio, che era affetto da un grave vizio cardiaco e Caio per lo
spavento muore, sia lo schiaffo, sia lo spavento, sia la malattia di cuore sono antecedenti necessari
della morte ed è sufficiente che Tizio abbia posto in essere una di queste condizioni perché la sua
azione si consideri causa dell'evento concreto: decisivo è che senza lo schiaffo di Tizio Caio non
sarebbe morto. Questa concezione della causalità trova piena applicazione anche in due casi
discussi in dottrina. - un primo caso è quello della causalità ipotetica: ad esempio sorge la
domanda se sussiste il rapporto di causalità nel caso del medico che pratica un'iniezione mortale a
un malato terminale per alleviare le sofferenze, dal momento che si tratta di una persona che
comunque sarebbe morta dopo qualche tempo, e la risposta è affermativa, perché l'evento che
rappresenta il punto di riferimento del rapporto di causalità non è l'evento che è stato descritto dalla
norma incriminatrice, cioè nell'omicidio la morte di un uomo,
- la premessa maggiore di questo procedimento è una legge scientifica che descrive la successione
regolare tra la classe di accadimenti A e la classe di accadimenti B,
- la premessa minore è un caso concreto sussumibile sotto quella legge scientifica, cioè l'azione
umana A è stata seguita dall'evento B,
- la conclusione è che quell'azione concreta è causa di quell'evento concreto (ad esempio le leggi
balistiche e della scienza medica affermano che tra l'azione "sparare un colpo di pistola al cuore di
un uomo" è l'evento "morte dell'uomo per arresto cardiaco" vi è una successione regolare: Tizio ha
sparato con una pistola al cuore di Caio e Caio è morto a seguito della rottura del muscolo cardiaco,
quindi l'azione di Tizio è stata causa della morte di Caio). Quindi in base alla teoria
condizionalistica la causa dell'evento è ogni azione che, tenendo conto di tutte le circostanze
che si sono verificate, non può essere eliminata mentalmente, sulla base di leggi scientifiche,
senza che l'evento concreto venga meno. Le leggi scientifiche che possono esser utilizzate dal
giudice per la spiegazione causale dell'evento possono essere
- leggi universali (cioè enunciati che asseriscono regolarità senza eccezioni nella successione di
eventi; ad esempio la legge della dilatazione termica che dice che se un corpo viene di riscaldato si
dilata, ha carattere universale perché in tutti i casi empiricamente osservati al riscaldamento del
corpo segue la sua dilatazione. Però difficilmente il giudice può utilizzare questo tipo di leggi), o
- leggi statistiche: si tratta di leggi, a cui molto spesso deve ricorrere il giudice, che enunciano
regolarità statistiche emerse dall'osservazione della realtà empirica e che affermano che in un gran
numero di casi all'accadimento A segue l'accadimento B.
(Ad esempio la ricerca farmacologica può affermare che in molti casi la somministrazione di un
determinato farmaco a una donna incinta provoca la nascita di bambini affetti da gravi
malformazioni, attraverso legge statistica il giudice potrà spiegare nel caso concreto l'insorgere
della malformazione come conseguenza della condotta del medico che ha prescritto quella
medicina, e il medico risponderà di lesioni colpose se avrà prescritto quella medicina ignorando
quei rischi che erano noti alla scienza medica e che erano segnalati dal produttore del farmaco).
Altre volte il giudice si può trovare davanti a una pluralità di possibili spiegazioni causali
dell'evento, ciascuna fondata su una diversa legge scientifica. (Ad esempio la perizia A ritiene che
la causa della caduta di una valanga che ha messo in pericolo la pubblica incolumità sia il passaggio
di sciatori che si sono avventurati fuoripista, mentre la perizia B riconduce l'evento a fattori estranei
all'opera dell'uomo, come il crollo del fronte del ghiaccio su cui si era accumulata la neve). Tra le
varie spiegazioni il giudice deve dare preferenza a quella che meglio si attaglia al caso concreto (in
questo esempio sceglierà la seconda spiegazione se le dimensioni della valanga, la testimonianza di
chi ha visto il distacco di una parete di ghiaccio, rendono più probabile che la valanga sia stata
causata da fattori naturali). La teoria condizionalistica ha tre corollari: -il concorso di fattori
causali preesistenti, simultanei o sopravvenuti non esclude il rapporto di causalità tra l'azione e
l'evento, quando l'azione è una condizione necessaria dell'evento, e ciò vale anche se i fattori
estranei all'opera dell'uomo sono rari o anormali (ad esempio non è escluso il rapporto di causalità
se la morte di una persona vittima di una lesione personale è dovuta alla sua vulnerabilità a causa
dell'emofilia); -il rapporto di causalità non è escluso nemmeno se il fattore causale ulteriore rispetto
all'azione dell'uomo consiste in un fatto illecito di un terzo, come nel caso della persona ricoverata
in ospedale per una ferita di arma da fuoco, se la morte è dovuta a un grave errore del chirurgo che
lo ha operato per estrarre il proiettile; -il rapporto di causalità è escluso quando tra l'azione e
l'evento si è inserita una serie causale autonoma, cioè una serie causale che è stata da sola
sufficiente a causare l'evento, in questo caso l'azione è solo un antecedente temporale e non una
condicio sine qua non dell'evento (ad esempio se Tizio avvelena Caio, il quale muore investito da
un'automobile prima che il veleno faccia effetto, Tizio non avrà causato l'evento morte, e quindi non
risponderà di omicidio doloso consumato, ma solo di tentato omicidio).
Come si è già rilevato, a una condotta tipica si accompagna il carattere antigiuridico del fatto. Ma
l’antigiuridicità viene meno, se una norma facoltizza o impone quel medesimo fatto che
costituirebbe reato. Si definiscono, appunto, cause di esclusione dell’antigiuridicità o cause di
giustificazione, (ovvero anche scriminanti, giustificanti, esimenti) quelle situazioni normativamente
previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie
incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. L’ efficacia delle c. di g. non è limitata al diritto
penale, ma si estende a tutti i rami dell’ordinamento e rende inapplicabili anche le sanzioni civili o
amministrative (tranne per stato di necessità). In realtà l’espressione tecnica cause di giustificazione
è estranea al linguaggio del codice e costituisce una categoria dottrinale. Il legislatore preferisce,
infatti, parlare di circostanze che escludono la pena (art. 59). Come esempio si considerano le
disposizioni che dichiarano non punibile chi agisce per legittima difesa (art. 52) o nell’esercizio di
un diritto (art. 51), l’incapacità di intendere e di volere (art. 85), chi commette un delitto contro
l’amm.ne della giustizia per evitare la condanna di un prossimo congiunto (art. 384), ovvero del
figlio che ruba ai danni di un genitore (art. 649). Vi sono tre categorie dogmatiche di esclusione
della punibilità: Cause di giustificazione in senso stretto: solo queste rendono inapplicabile
qualsiasi sanzione penale, civile, amministrativa. Esse si estendono a tutti coloro che prendono parte
alla commissione del fatto e operano in forza della loro obiettiva esistenza, elidendo l’antigiuridicità
o illiceità come contrasto tra il fatto e l’intero ordinamento giuridico. Cause di esclusione della
colpevolezza (o scusanti): lasciano integra l’antigiuridicità o illiceità oggettiva del fatto, e fanno
venir meno solo la possibilità di muovere un rimprovero al suo autore. Le circostanze operano solo
se conosciute dall’agente, e non sono estensibili ad eventuali concorrenti. Riguardano tutte quelle
situazioni in cui il soggetto agisce sotto la pressione di circostanze psicologicamente coartanti (es.
coazione morale). Cause di esenzione della pena in senso stretto: lasciano sussistere sia
l’antigiuridicità sia la colpevolezza, avuto riguardo all’esigenza di salvaguardare contro - interessi.
Non sono estensibili, di conseguenza, ad eventuali concorrenti nel reato (ad es. al complice del
figlio che ruba al padre o di cui all’art. 384). CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE COMUNI E
SPECIALI. Gli art. 50,51,52,53,54 contengono esimenti di portata generalissima, come tali
applicabili a quasi tutti i reati (cause di giustificazione c.d. comuni). Esulano dalla nostra indagine
le scriminanti c.d. speciali, che si applicano soltanto a specifiche figure di illecito penale e non ad
altre (es. reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale ex art. 4 d.l.lt. 288/1944).
DIRITTI DISPONIBILI. Specificando che il consenso deve provenire dalla “persona che può
validamente disporne”, lo stesso art. 50 circoscrive l’operatività della scriminante in esame ai casi
in cui il consenso abbia ad oggetto diritti disponibili. Il limite del carattere disponibile del diritto si
spiega in base alla stessa ratio dell’istituto. L’interesse alla repressione infatti viene meno soltanto
se il consenso ha ad oggetto la lesione di beni di pertinenza esclusiva (o prevalente) del privato che
ne è titolare. Posto che l’art. 50 non precisa quali siano i diritti disponibili, il compito di individuarli
non può che spettare all’interprete, il quale deve ricavarli dall’intero ordinamento giuridico e dalla
stessa consuetudine (es. diritti patrimoniali, attributi della personalità quali onore, libertà morale e
personale). Si considerano indisponibili tutti gli interessi che fanno capo allo Stato, agli enti
pubblici e alla famiglia. Inoltre, il consenso è indisponibile nell’ambito dei reati contro la fede
pubblica, inclusa la falsità in scrittura privata, delitti di usura, frode in commercio, false
comunicazioni sociali, nonché il bene della vita (art. 579, punisce l’omicidio del consenziente).
CAPITOLO 3: LA COLPEVOLEZZA
Nozioni generali
Perché sia punibile il fatto commissivo deve essere non solo tipico e antigiuridico, ma anche
colpevole: la COLPEVOLEZZA è dunque il terzo elemento costitutivo fondamentale del reato
(nulla poena sine culpa). Principio-cardine del sistema penale. L’uomo è in grado, a differenza
degli animali, grazie ai suoi poteri di signoria (i c.d. strati superiori della personalità), di
controllare gli istinti e di reagire agli stimoli del mondo esterno, di effettuare delle scelte. È dunque
viene considerato il reato come “opera” dell’agente, e rivolgergli un rimprovero per averlo
commesso. Il ruolo centrale del principio di colpevolezza è confermato dalla sua rilevanza
costituzionale che si desume dall’art. 27, 1° comma Cost.: la responsabilità penale è personale.
Cioè il legislatore costituzionale, nell’affermare che la responsabilità è personale, ha espresso il
principio, secondo cui l’applicazione della pena presuppone l’attribuibilità psicologica del singolo
fatto di reato alla volontà antidoverosa del soggetto. Come anche la Corte Cost. ha ormai chiarito
(sent. 364/88 e 1085/88), l’imputazione soggettiva del fatto criminoso può considerarsi veramente
conforme al principio di “personalità”, a condizione che il fatto stesso sia attribuibile all’autore
almeno a titolo di colpa (se non di dolo). La responsabilità personale (art. 27/1) è sinonimo di
responsabilità per un fatto proprio colpevole. Il ruolo della colp. è altresì confermato, sempre a
livello cost., dal collegamento sistematico tra il comma 1° e 3° dell’art. 27 Cost. che sancisce il
finalismo rieducativo della pena. Il nesso che intercorre tra principio di rieducazione e il principio
di colpevolezza sta nel fatto che, se fosse sufficiente, ai fini dell’assoggettamento a pena, il
semplice fatto di cagionare materialmente un evento lesivo, e nessun “rimprovero”, la pretesa
“rieducativa” dello Stato non avrebbe più molto senso. La Corte costituzionale ha stabilito che
“comunque si intenda la funzione rieducativa, essa postula almeno la colpa dell’agente in
relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la rieducazione di
chi, non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto), non ha certo bisogno di essere rieducato”.
L’idea della colpevolezza presuppone il rifiuto della responsabilità per l’evento (responsabilità c.d.
oggettiva): ciò equivale a bandire ogni forma di responsabilità per accadimenti dovuto al mero caso
fortuito. Il rimprovero di colpevolezza implica che si presupponga come esistente una possibilità di
agire diversamente da parte del soggetto cui il fatto viene attribuito (il soggetto non è in grado di
signoreggiare il verificarsi degli eventi). Differenza tra dolo (volontarietà del fatto) e colpa
(involontarietà del fatto), cioè la forma più grave e più lieve di colpevolezza. Deve esserci una
proporzione tra forme di colpevolezza e intensità della risposta sanzionatoria. La colpevolezza può
significare solo colpevolezza per il fatto, per aver commesso il fatto lesivo di un bene penalmente
protetto. È inammissibile la figura della colpa d’autore, nella duplice versione della
“colpevolezza per il carattere” e della “colpevolezza per la condotta di vita”. Per la prima si
muove l’addebito di non aver frenato in tempo le pulsioni antisociali; la seconda teoria pretende di
incentrare il giudizio di disapprovazione sullo stesso modello o stile di vita e sulle scelte esistenziali
del reo, che starebbero all’origine della sua inclinazione al delitto. Tradizionalmente, il concetto di
colpevolezza si contrappone a quello di pericolosità sociale: il primo, che concerne soltanto i
soggetti capaci di intendere e di volere, esprime un rimprovero per la commissione di un fatto
delittuoso; il secondo privilegia la personalità dell’autore e fa riferimento alla probabilità che
l’autore continui a delinquere in futuro. Corrispondentemente, mentre la colpevolezza costituisce
presupposto della applicazione della pena in senso stretto, la pericolosità giustifica la applicazione
di una misura di sicurezza.
Imputabilità
Se la colp. presuppone una consapevole capacità di scelta tra diverse alternative di azione, allora
l’imputabilità costituisce, necessariamente, la prima condizione per esprimere la disapprovazione
soggettiva del fatto tipico e antigiuridico commesso dall’agente. Il codice penale all’art. 85
definisce l’imputabilità come capacità di intendere e volere. L’odierno giurista è ormai ben
consapevole che la volontà umana è soggetta a molteplici condizionamenti: una volontà libera,
intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste. La volontà
umana può definirsi libera, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi
psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca a fare delle scelte, su cui
possono esserci dei condizionamenti. Ai fini della stessa efficacia deterrente del diritto penale, è
dunque necessario che il timore di poter incorrere in una sanzione punitiva eserciti sull’agente
un “condizionamento” idoneo a indurlo a non delinquere. L’imputabilità come categoria
penalistica ha alla base giustificazioni diverse. Ne abbiamo, all’inizio, evidenziato lo stretto
rapporto con la colpevolezza. Ed invero questo nesso cresce quanto più si accentui la dimensione
normativa della colpevolezza, e, cioè, se ne sottolinei la componente di rimprovero o
disapprovazione del soggetto per aver commesso un fatto che non avrebbe dovuto
commettere. La disapprovazione, il rimprovero non avrebbero, infatti, senso se rivolti a soggetti
del tutto privi della possibilità di agire diversamente. Ma il fondamento penalistico
dell’imputabilità, quali che ne siano i nessi con la colpevolezza, è a maggior ragione rinvenibile sul
terreno delle funzioni della pena. Se la minaccia della sanzione punitiva deve esercitare
un’efficacia preventiva, un necessario presupposto è che i destinatari siano psicologicamente
in grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa. Tale motivabilità normativa, intesa come
attitudine a recepire l’appello della norma penale, non è presente allo stesso modo in tutti gli
individui: i soggetti immaturi come i minori fino a un certo limite di età, e le persone inferme di
mente e assimilabili, sono infatti a tutt’oggi da considerare incapaci di subire la coazione
psicologica della pena o, comunque incapaci di subirla nella stessa misura in cui l’avvertono gli
adulti mentalmente sani.
Minore età
L’art. 97 dispone che “non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva
compiuto i 14 anni”. È stata, così, introdotta una presunzione di incapacità di natura assoluta
perché non è ammessa la prova contraria. Rispetto ai minori ricompresi tra i 14 e i 18 anni, L’art. 98
1° comma dispone che “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva
compiuto i 14 anni, ma non ancora i 18, se aveva capacità di intendere e volere; ma la pena è
diminuita”. È il giudice che deve accertare in concreto, volta per volta, se il minore è imputabile o
no. Secondo l’orientamento consolidato, l’incapacità minorile non presuppone necessariamente
l’infermità mentale, perché si tratta di una situazione di immaturità (inadeguato sviluppo della
coscienza morale). La capacità di intendere e di volere è, invece, presunta dal legislatore al
compimento del 18° anno di età: si tratta di una presunzione relativa, perché la capacità è
esclusa o diminuita in presenza del vizio totale o parziale di mente o delle altre cause
legislativamente previste.
Infermità di mente
L’art. 88 dispone che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per
infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere. Non basta
accertare una malattia mentale per dedurre automaticamente la non imputabilità del soggetto, ma
occorre verificare se la malattia stessa ne comprometta la c. di i. e v. CONCETTO DI
INFERMITA’. Il disturbo deve avere in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la
capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento
punitivo. L’infermità può avere origine anche da una malattia fisica, sia pure a carattere transitorio,
purché produttiva di vizio di mente. Da notare che gli art. 88 e 89 parlano non già di infermità
mentale, ma di infermità tale da provocare uno stato di mente che esclude l’imputabilità. Un
indirizzo giurisprudenziale ancor oggi diffuso tende a ricostruire il concetto di malattia mentale
secondo un modello medico, ma, un altro orientamento giurisprudenziale attribuisce significato
patologico anche alle alterazioni mentali atipiche dette psicopatie, disarmonie della personalità,
quali le c.d. reazioni a corto circuito esemplificate dal caso 30. Anche i disturbi della personalità,
che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel
concetto di infermità, purché incidano concretamente sulla capacità di intendere o di volere.
STATI EMOTIVI E PASSIONALI. Art. 90 c.p. dispone che gli stati emotivi e passionali non
escludono né diminuiscono l’imputabilità. DIVERSI GRADI DEL VIZIO DI MENTE. Il codice
distingue diversi gradi del vizio di mente. In base al disposto dell’art. 88 il vizio di mente è totale
se l’infermità, di cui il soggetto soffre al momento della commissione del fatto è tale da escludere
del tutto la capacità di intendere e di volere. La capacità di i. e di v. può essere esclusa anche da una
infermità transitoria, purché sia sempre tale da far venire meno i presupposti dell’imputabilità.
Caso 29. Per converso, nella prassi applicativa (es. nell’epilessia) si propende per una possibile
affermazione di responsabilità nei c.d. intervalli di lucidità sufficientemente lunghi. A seguito
dell’abolizione della pericolosità presunta, all’imputato prosciolto per vizio totale di mente la
misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario può essere applicata soltanto
previo accertamento concreto della sua pericolosità sociale. VIZIO PARZIALE DI MENTE. La
capacità di i. e di v. è diminuita in presenza di un vizio parziale di mente. A norma dell’art. 89
risponde ugualmente, ma la pena è diminuita. Se socialmente pericoloso si applicherà la misura di
sicurezza dell’assegnazione a una casa di cura e di custodia. La distinzione tra le due forme di vizio
mentale, totale e parziale, è affidata a un criterio non qualitativo, ma quantitativo, considerandosi il
grado e non l’estensione. Il v. p. di m. è compatibile con le aggravanti della premeditazione e dei
motivi abietti e futili, come pure con l’attenuante della provocazione e con le circostanze attenuanti
generiche.
Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti
Il codice prevede un trattamento articolato in base alla causa dello stato di u. (o di intossicazione da
stupefacenti).
a) L’ubriachezza esclude l’imputabilità solo se dovuta a caso fortuito o forza maggiore: se l’u. è tale
da far scemare, senza escluderla, la capacità di i. e di v., la pena è diminuita (art. 91). Questo caso si
definisce ubriachezza accidentale. Es. l’operaio di una distilleria che si ubriaca in un ambiente
saturo di vapori alcoolici a causa di un guasto dell’impianto e simili. La medesima disciplina vale
per l’intossicazione accidentale da stup. (art. 93).
b) Non fa scemare, invece, né esclude l’imputabilità l’ubriachezza volontaria o colposa (art.
92, comma 1°). Anche per l’intossicazione da stupefacenti. La ratio della disposizione è che chi si
ubriaca volontariamente o per leggerezza non può pretendere di accampare scuse: se realizza un
reato, deve rispondere come se fosse pienamente capace di intendere e di volere. Una parte della
dottrina meno recente, riproponendo lo stesso schema della actio libera in causa, sosteneva che
bisognasse risalire al momento in cui l’ubriaco si pone in condizioni di ubriacarsi volontariamente o
involontariamente. Ma l’orientamento in atto propende per una soluzione diversa: si ritiene cioè che
il dolo o la colpa dell’ubriaco vadano accertati con riferimento al momento nel quale il reato in
questione viene commesso.
c) Art. 92, comma 2°. L’ubriachezza è preordinata (e comporta un aumento di pena) quando è
provocata al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa. Questa ipotesi costituisce una
esemplificazione del principio contenuto nell’art. 87. In questo caso il soggetto si ubriaca proprio
allo scopo di commettere un reato: ciò perché lo stato di ubriachezza facilità la commissione di un
fatto criminoso che lo stesso soggetto non sarebbe capace di commettere.
d) Art. 94, comma 1° e 3°. L’ubriachezza abituale comporta, addirittura, un aumento di pena,
nonché la possibilità di applicare la misura di sicurezza della casa di cura e di custodia ovvero della
libertà vigilata. L’abitualità è subordinata al ricorrere dei due presupposti della dedizione all’uso
eccessivo di bevande alcooliche e del frequente stato di ubriachezza.
e) Art. 95. I legislatori del codice, mossi dalla preoccupazione repressiva e preventiva di arginare il
duplice vizio dell’alcoolismo e della tossicomania, hanno stabilito che tanto l’uno che l’altra
possono arrivare ad escludere la capacità di i. e v. soltanto nel caso estremo della intossicazione
cronica.
Sordomutismo
Art. 96 dispone che non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto,
non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di intendere e volere. Se la capacità di i. e
v. era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita. Questa norma non può essere
applicata nei casi di solo mutismo o di sola sordità, ma occorre che sussistano entrambe le affezioni.
L’elemento volitivo
Il dolo non è semplice rappresentazione del fatto delittuoso, ma volontà consapevole di realizzare il
fatto tipico. Il momento volitivo, consiste nella risoluzione di realizzare l’azione, e tale risoluzione
deve essere presente nel momento in cui il soggetto agisce, rappresentandosi tutti gli estremi del
fatto descritto dalla norma incriminatrice. In sostanza, perché ci sia dolo il soggetto deve aver
voluto la realizzazione del fatto antigiuridico che si era preventivamente rappresentato, cioè deve
aver deciso di realizzarlo. Il dolo come volontà del fatto non va confuso col motivo o movente
dell’azione delittuosa: quest’ultimo, infatti, consiste nell’impulso o stimolo di natura affettiva che
spinge il soggetto ad agire (ad es. odio, vendetta, ecc.)
Intensità e forme del dolo
L’art. 133 RAPPORTA LA GRAVITÀ DEL REATO ANCHE ALL’INTENSITÀ DEL
DOLO. Per quanto riguarda la componente conoscitiva, la sua graduabilità dipende dal livello di
chiarezza e certezza con il quale il soggetto si rappresenta gli elementi del fatto di reato. Dolo
d’impeto. In questo caso la risoluzione è la conseguenza immediata di un improvviso impulso ad
agire (dolo d’impeto): qui la deliberazione criminosa esprime una minore gravità, dal momento che
essa si traduce immediatamente e improvvisamente in azione. Dolo intenzionale o dolo di
proposito: si configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto. Es. Tizio spara
mortalmente a Caio appunto allo scopo di ucciderlo. La presenza di questa forma di dolo rileverà
soltanto ai fini della commisurazione
della pena, sotto il profilo intensità di dolo. Esiste, in questo caso, un rilevante stacco temporale tra
il momento della decisione e il momento dell’esecuzione: ne costituisce sottospecie aggravata ex
art. 577/1/ n° 3 la c.d. premeditazione che si configura quando il proposito criminoso non solo
perdura per un rilevante lasso di tempo, ma tradisce un’ostinazione criminosa particolarmente
riprovevole.
- Dolo specifico: il legislatore richiede che l’agente commetta il fatto avendo di mira un risultato
ulteriore. Il dolo specifico consiste in una finalità ulteriore che l'agente deve prendere di mira per
integrare il reato e che accompagna tutti gli elementi del fatto tipico, ma che non è necessario si
realizzi effettivamente per aversi il reato. Es. nel delitto di furto, è necessario che l’agente, oltre a
volere l’impossessamento mediante sottrazione di una cosa altrui, persegua l’ulteriore fine di trarre
profitto; ma perché il delitto si configuri, non è necessario che il profitto venga effettivamente
ottenuto.
- Dolo generico: le finalità perseguite dall’agente sono irrilevanti per l’esistenza del dolo. Il dolo
generico corrisponde alla nozione tipica del dolo e consiste nel realizzare tutti gli elementi del fatto
tipico, sua caratteristica è la corrispondenza tra ideazione e realizzazione.
- Dolo diretto: Ricorre la figura del dolo diretto quando l'evento non è l'obiettivo dell'azione od
omissione dell'agente, ma costituisce soltanto uno strumento necessario perché l’agente realizzi lo
scopo perseguito; il quale tuttavia prevede l'evento come conseguenza certa o altamente probabile
della sua condotta e lo accetta come strumento per perseguire un fine ulteriore. In dottrina si fa
l'esempio di un armatore che provochi l'incendio di una delle sue navi al fine di ottenere il premio
dell'assicurazione, pur sapendo che dalla sua condotta discenderà come conseguenza certa o
altamente probabile la morte dell'equipaggio.
Nel dolo diretto il soggetto conosce tutti gli elementi che integrano la fattispecie di reato e prevede
come sicuro o altamente probabile che la sua condotta porterà ad integrarli. In questa forma di dolo
assume un ruolo dominante la previsione.
- Dolo eventuale: si verifica quando il soggetto si rappresenta l’evento come seriamente possibile
(non come certo). Il dolo eventuale rappresenta la linea di confine che separa l’area di responsabilità
per dolo da quella della responsabilità per colpa. Il dolo eventuale è una forma di dolo indiretto. Si
ha quando l'agente pone in essere una condotta sapendo che vi sono concrete (rectius: serie)
possibilità (o secondo una teoria affine concrete probabilità) di produrre un evento integrante un
reato, eppur, tuttavia, accetta il rischio di cagionarli. È proprio questa accettazione consapevole del
rischio che fa differire questa figura dall'affine figura della Colpa Cosciente. L'Agente decide di
agire costi quel che costi, accettando il rischio del verificarsi dell'evento. Nel dolo eventuale e la
colpa cosciente i criteri di imputazione di responsabilità hanno in comune l’elemento della
previsione dell’evento, ma presentano differenze. Nel dolo eventuale agisce chi ritiene seriamente
possibile la realizzazione del fatto e agisce accettando tale eventualità. Nella colpa cosciente, anche
detta colpa con previsione dell'evento, ben distante dal dolo eventuale, l'agente prevede sì
l'evento, ma esclude (erroneamente) che questo si possa realizzare, tanto che, se avesse compreso
che l'evento in questione sarebbe venuto in essere, non avrebbe agito. Un esempio è dato da Tizio
che guida a tutta velocità la macchina e si rappresenta la possibilità di incidente, ma continua a
correre fiducioso nella sua abilità di guidatore, convinto che ciò non si verificherà.
- Il dolo alternativo è un'altra forma di dolo indiretto e si ha quando l'agente prevede, come
conseguenza certa (dolo diretto) o possibile (dolo eventuale) della sua condotta il verificarsi di due
eventi, ma non sa quale si realizzerà in concreto. Ad esempio Tizio spara a Caio volendo
indifferentemente ferirlo o ucciderlo. Tizio si rappresenta come conseguenza della sua azione più
eventi tra loro compatibili.
- Il dolo generale, che non rileva nel nostro ordinamento, si ha quando il soggetto mira a realizzare
un evento tramite una prima azione, ma che realizza solo dopo una seconda azione, animata da una
intenzione differente. Es. esiste dolo generale di omicidio nella circostanza in cui si avvelena al fine
di uccidere (ma non si uccide) e si impicca la vittima al fine di simulare un suicidio, e solo in quel
momento si uccide.
L’ACCERTAMENTO DEL DOLO. Il dolo deve essere provato, solo che la prova è difficile.
L’indagine del giudice è, infatti, esente da limiti predeterminati a priori. Ad esempio, per l’omicidio
è tipico il riferimento al movente. Soccorrerà il ricorso ad apposite regole d’esperienza, la
conformità alle quali è sufficiente a far ritenere dimostrato il fatto psicologico. Il principio secondo
cui il dolo deve costituire oggetto di accertamento vale come principio generale da rispettare
comunque.
La disciplina dell’errore
Nella disciplina della colpevolezza riveste un ruolo fondamentale la problematica dell’ errore.
Anche nel d.p. è radicata la distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto. Il primo (error
facti), di solito, consiste in una mancata o errata percezione della realtà esterna (cacciatore spara per
errore a un uomo anziché alla selvaggina) mentre il secondo (error juris) si traduce nell’ignoranza o
erronea interpretazione di una norma giuridica, penale o extrapenale. All’errore è equiparata
l’ignoranza, in quanto, sia la mancanza di conoscenza, sia l’erronea conoscenza di un dato
elemento provocano lo stesso effetto dell’errore. Diverso è lo stato di dubbio: qui mancano i
presupposti sia di una conoscenza del tutto esatta, sia di un vero e proprio errore. Ciò spiega come,
di regola, il dubbio non possa essere invocato come causa di esclusione della responsabilità.
Particolarmente complesso è il problema del trattamento dell’ errore di diritto, che si distingue in
- errore sul precetto penale: ricade sulla norma incriminatrice. L’agente per ignoranza, o errata
interpretazione della norma incriminatrice, non si rende conto di realizzare un fatto penalmente
illecito. A seguito della sentenza 364/88 Corte Cost. tale errore è irrilevante (art. 5) a meno che non
si tratti di errore inevitabile e, perciò, scusabile.
- errore su una norma extrapenale: ha ad oggetto una norma diversa da quella penale
incriminatrice (Tizio erra sull’interpretazione della norma sul matrimonio e compie reato di
bigamia). Perché questa specie di errore scusi è necessario, come da art. 47 comma 3°, che esso si
risolva o si converta in un errore sul fatto di reato: occorre cioè che l’agente ne risulti fuorviato al
punto tale da non essere consapevole di compiere un fatto materiale conforme a quello previsto
dalla legge come reato. Ove, invece, l’errore su norma extrapenale si limiti a suscitare nell’agente
l’erronea convinzione che il fatto sia penalmente lecito, si ricade sull’errore sul precetto penale, che
è, come abbiamo visto, irrilevante, ex art. 5 c.p.
Errore di fatto sul fatto
CASO 31
Un bracconiere, scorgendo in un canneto una sagoma simile a quella di un cinghiale, spara
per abbatterlo. Poco dopo, si scopre che il bersaglio colpito è un ragazzo che ha perduto la
vita: omicidio?
CASO 32
Un uomo si congiunge carnalmente con una ragazza minore di 14 anni, che egli ha per errore
ritenuto almeno 16enne, a causa del notevole sviluppo fisico.
Se l’agente non conosce uno o più elementi del fatto concreto rilevanti ai sensi della corrispondente
fattispecie incriminatrice, egli non agisce dolosamente ed il reato viene meno. L’errore può derivare
da ignoranza o falsa rappresentazione della situazione di fatto nella quale il soggetto si trova ad
agire: questa forma di errore, prende il nome di errore motivo, distinto da errore inabilità del caso
di reato aberrante. ERRORE SUGLI ELEMENTI ESSENZIALI DEL FATTO. L’art. 47
comma 1° c.p. dispone che l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità
dell’agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa,
quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Sia l’errore sia l’ignoranza devono
vertere su elementi essenziali del fatto: è questo il caso 31 del bracconiere. L’errore qui scusa
perché l’omicidio doloso presuppone che l’agente sia consapevole di dirigere l’azione contro un
uomo, essendo la qualità di uomo requisito essenziale del soggetto passivo del reato. ERRORE
PER SCAMBIO TRA SOGGETTI/OGGETTI. Sono, invece, errori di regola irrilevanti quelli
conseguenti a uno scambio tra soggetti oppure tra oggetti (error in persona ed error in obiecto),
che rivestono una posizione equivalente sul piano della fattispecie incriminatrice. (es. omicida che
scambia soltanto l’identità della vittima).
ERRORE SUL DECORSO CAUSALE. È da ritenere irrilevante l’errore sul nesso causale,
almeno finché la divergenza tra il prefigurato e l’effettivo non sia tale da far escludere che l’evento
sia il rischio connesso nell’azione iniziale del soggetto. ERRORE DETERMINATO DA
COLPA. L’errore di fatto, se esclude il dolo, non esclude necessariamente la responsabilità penale:
può residuare una responsabilità a titolo di colpa, purché ne sussistano i presupposti (seconda parte
dell’art. 47, comma 1°).
1° presupposto: l’errore di percezione sia rimproverabile, cioè dovuto a inosservanza di norme
precauzionali di condotta imputabile all’agente. Es. se si sarebbe dovuta usare una maggiore
precauzione prima di sparare.
2° presupposto: il fatto sia espressamente preveduto dalla legge come delitto colposo. Quindi, potrà
residuare un’ipotesi di omicidio colposo, ma non di furto o danneggiamento colposo perché delitti
non punibili a titolo di colpa.
Reato putativo
L’art. 49 comma 1° stabilisce che non è punibile chi commette un fatto non costituente reato,
nella supposizione erronea che esso costituisca reato. È il c.d. reato putativo. Si tratta di un fatto
criminoso immaginato da chi agisce, ma, di fatto, inesistente. In tutte queste ipotesi, la convinzione
dell’agente di commettere un fatto di reato è priva di rilevanza.
Il reato aberrante
Il reato si definisce aberrante quando, a causa di un errore nell’esecuzione dello stesso, l’agente
provoca un’offesa a un bene (tutelato giuridicamente), diverso da quello a cui voleva provocare il
danno, oppure quando l’agente pone in essere un reato diverso da quello realmente voluto.
Errore – inabilità
CASO 34
Tizio, nell’aggredire mortalmente Caio, presunto amante della moglie, per errore infligge
colpi di coltello anche a Sempronio intervenuto.
Aberratio delicti
CASO 35
Uno scioperante lancia un sasso contro un autobus ma, a causa di un errore nel tiro, colpisce
alla testa un passante.
CASO 36
Caso di violenza sessuale su minore di anni 14 e lesioni personali.
L’art. 83 comma 1° c.p. definisce l’aberratio delicti in questo modo: fuori dei casi previsti
dall’articolo precedente, se, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o, per altra
causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di COLPA,
dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. È l’ipotesi in
cui l’agente pone in essere un reato diverso da quello voluto per errore nella valutazione o per
errore nei mezzi per l’esecuzione del reato (è il caso 35, il reato realizzato è una lesione personale
mentre quello programmato era un danneggiamento, reato contro il patrimonio). Anche in questo
caso, l’ordinamento prevede che l’agente dovrà rispondere del fatto commesso anche se non voluto.
ABERRATIO DELICTI CON PLURALITA’ DI EVENTI. Il cpv dell’art. 83 prevede che se il
colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto, si applicano le regole sul concorso di reati. In tal
modo, l’agente risponde di due reati, uno doloso e uno colposo (caso 36). Un caso tipico di a.d. con
pluralità di eventi è quello rappresentato dall’art. 589 c.p. (da delitto doloso deriva non voluta la
morte o la lesione di una persona). Anche nel caso dell’a.d., parte della dottrina suggerisce una
lettura correttiva dell’art. 83, tale da scongiurare la responsabilità oggettiva e da renderlo
compatibile col principio di colpevolezza, nel solco delle due sentenze costituzionali 364/1988 e
1085/1988. Si richiede, allora, che il giudice accerti in concreto la colpa in relazione all’evento non
voluto.
a) Le circostanze aggravanti comportano per lo più un aumento della pena comminata per il
reato-base (variazione c.d. quantitativa); ma anche casi dove l’aggravante ha per effetto di
modificare qualitativamente la sanzione (da una pena pecuniaria a una pena detentiva). Le
circostanze attenuanti comportano viceversa una diminuzione quantitativa della pena
prevista per il reato-base, oppure una modifica qualitativa che però, questa volta, ridonda a
vantaggio del reo (ad es. passaggio da una pena detentiva a una pena pecuniaria).
b) Si definiscono comuni le circostanze (aggravanti o attenuanti) prevedute nella parte
generale del codice, perché potenzialmente applicabili a un insieme non predeterminabile di
reati). Sono invece speciali le circostanze prevedute dal legislatore soltanto in rapporto a
specifiche figure di reato.
c) A norma dell’art. 70, sono oggettive le circostanze che concernono “la natura, la specie, i
mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o
del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso”; sono soggettive quelle
che riguardano “la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità
personali del colpevole, o i rapporti tra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla
persona del colpevole” (ossia l’imputabilità e la recidiva). Tale distinzione assume rilevanza
nell’ambito del concorso di persone.
d) La distinzione tra circostanze tipiche e generiche dipende dal diverso grado di
determinatezza raggiunto in sede di tipizzazione legislativa delle situazioni assunte ad
elementi circostanziali. Vi sono anche aggravanti indefinite, dove spetta al giudice
concretizzare elementi circostanziali indicati dal legislatore soltanto in forma assai generica
(es. per l’espressione fatto di “rilevante gravità”).
LE AGGRAVANTI COMUNI.
Il codice del 1930, a differenza di altri codici e della precedente legislazione, prevede non solo
attenuanti comuni e speciali e aggravanti speciali, ma anche aggravanti comuni. L’art. 61 ne
prevede 13:
1. l'avere agito per motivi abietti o futili (sog.): è abietto il motivo (rappresenta la molla,
l’impulso, l’istinto che spinge psicologicamente ad agire) ripugnante o spregevole; è futile quello
del tutto sproporzionato alla entità del reato commesso (tra il movente e l’azione delittuosa);
2. l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o
assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di un altro reato
(sog.): come, ad esempio, l’omicidio compiuto per derubare la vittima, l’uccisione del complice per
non dividere il bottino, la distruzione del cadavere dell’ucciso o l’uccisione del testimone;
3. l'avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento (sog.);
4. l'avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone (sog.): sevizia è
l’inflizione di una sofferenza atroce di natura fisica; crudeltà è l’inflizione di un patimento morale
che rileva parimenti la mancanza di sentimenti umanitari;
5. l'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la
pubblica o privata difesa (ogg.): l’agente deve avere consapevolezza; come in caso di calamità
naturale per i fenomeni di sciacallaggio;
Le attenuanti comuni
L’art. 62 contiene il catalogo delle circostanze attenuanti “comuni”. Attenuano il reato, quando non
ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti:
1. l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale, tranne se venga usata la
violenza; es. omicidio doloso attribuito a due genitori che, per motivi religiosi, tralasciano di far
praticare alla figlia talassemica una trasfusione di sangue, così non impedendone la morte;
2. l'aver reagito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui; l’attenuante della c.d.
provocazione, il fatto deve essersi verificato e deve esserci proporzione e adeguatezza tra fatto
provocatorio e fatto reattivo;
3. l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o
assembramenti vietati dalla legge o dall'Autorità e il colpevole non è delinquente o contravventore
abituale o professionale, o delinquente per tendenza; dal punto di vista strutturale, la circostanza
presuppone non solo la presenza di una moltitudine di persone in stato di intensa e violenta tensione
emotiva, ma anche l’agente vi si trovi di fatto coinvolto e che riceva stimolo ad agire dalla
suggestione esercitata dalla folla;
4. l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato
alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti
determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un
lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso e pericoloso sia di speciale tenuità;
l’elemento di novità è costituito dalla presa in considerazione del “lucro” e della sua entità, mentre
in precedenza la norma faceva esclusivo riferimento al “danno”. La circostanza ha natura oggettiva;
5. l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il
fatto doloso della persona offesa; ogg. deve esserci l’elemento materiale, ossia l’inserimento
dell’azione dell’offeso nella serie delle cause che determinano l’evento; l’altro psichico,
rappresentato dalla volontà di concorrere alla produzione dell’evento medesimo;
6. l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso,
e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso
preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente
per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. Due distinte circostanze
attenuanti, fondate sulla comune ratio del ravvedimento del colpevole successivamente alla
commissione del reato e, comunque, prima dell’inizio del giudizio. La prima circostanza,
denominata risarcimento o riparazione del danno, presuppone che il ristoro del danno medesimo sia
effettivo ed integrale, in modo da compensare sia il danno patrimoniale che quello non
patrimoniale. L’iniziativa risarcitoria deve provenire dallo stesso soggetto colpevole. Per la seconda
circostanza deve esserci uno sforzo del colpevole che sia frutto di una libera scelta e non l’effetto
della pressione di circostanze esterne. Si esclude l’applicabilità della circostanza ai reati control il
patrimonio. Natura soggettiva. Le c.d. attenuanti generiche. Ai sensi dell’art. 62 bis il giudice,
indipendentemente dalle circostanze prevedute nell'articolo 62, può prendere in considerazione
altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse
sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza,
la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62. Per
la giurisprudenza e buona parte della dottrina i criteri di massima, cui il giudice deve attenersi, sono
quelli indicati dall'articolo 133, che detta appunto le regole generali per l'uso del potere
discrezionale del giudice nella determinazione concreta della pena.
LA RECIDIVA. Tra le circostanze inerenti la persona del colpevole il codice annovera la recidiva
che letteralmente equivale a ricaduta nel reato. Secondo il testo originario del codice a “chi dopo
essere stato condannato per un reato, ne commette un altro” poteva infliggersi un aumento di
pena. L’istituto della recidiva è stato oggetto di penetranti modifiche ad opera della citata legge di
riforma del 2005 n. 251; l’intenzione è stata quella di reagire al rischio di una eccessiva
svalutazione applicativa della recidiva. Recidivo è chi dopo essere stato condannato per un
delitto non colposo, ne commette un altro parimenti non colposo. Nesso col concetto di capacità
a delinquere. L’art. 99 prevede tre forme di recidiva:
a) La recidiva semplice: consiste nella commissione di un delitto non colposo a seguito della
condanna irrevocabile per un altro delitto non colposo; è indifferente il tempo trascorso dalla
precedente condanna. Aumento di pena di un terzo. Presupposto dell’applicabilità
dell’aggravamento di pena è che il precedente delitto sia stato accertato con una sentenza
definitiva di condanna (non si richiede che la pena sia stata effettivamente scontata). Ai fini
della sua sussistenza si tiene conto delle precedenti condanne per le quali sia intervenuta una
causa di estinzione del reato o della pena, mentre non si considerano le precedenti condanne
per le quali siano intervenute cause estintive di tutti gli effetti penali (ad es. riabilitazione).
b) La recidiva è aggravata se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole (art. 101
recidiva c.d. specifica), o è stato commesso entro 5 anni dalla condanna precedente (recidiva
c.d. infraquinquennale), ovvero è stato realizzato durante o dopo l’esecuzione della pena,
oppure ancora durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente
all’esecuzione della pena stessa. In tutte queste ipotesi la pena “può” essere aumentata fino
alla metà. Se concorrono più circostanze l’aumento è della metà. Reati della stessa indole,
non solo quando violano una stessa disposizione, ma anche quando presentano caratteri
fondamentali comuni;
c) La recidiva è reiterata se il nuovo delitto non colposo è commesso da chi è già recidivo. La
riforma del 2005 ha irrigidito gli aumenti di pena per questa forma di recidiva: nel senso che
l’aumento di pena è della metà (e non fino, questo per tutte) nel caso di recidiva semplice;
ed è di due terzi se la precedente recidiva è aggravata specifica o infraquinquennale o si
riferisce ad un delitto non colposo commesso durante o dopo l’esecuzione della pena,
ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della
pena stessa (art. 99, comma 4°);
d) Infine nuova figura di recidiva (reiterata) obbligatoria che si riferisce al soggetto recidivo
che commette uno dei delitti indicati dall’art. 407, comma 2°, lettera a c.p.p. Include anche
quelli di recidiva aggravata; e) L’ultimo comma dell’art. 99 dispone, in chiusura di
disciplina, che “in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare
il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo
delitto non colposo”. A parte l’ipotesi di recidiva (reiterata) obbligatoria, l’applicazione
della recidiva resta facoltativa.
CAPITOLO 5. DELITTO TENTATO
DELITTO TENTATO: IN GENERALE. Ricorre la figura del delitto tentato o tentativo nei casi
in cui l’agente non riesce a portare a compimento il delitto programmato, ma gli atti
parzialmente realizzati sono tali da esteriorizzare l’intenzione criminosa; diversamente, ci si
troverebbe di fronte ad un mero proposito delittuoso, irrilevante in base al già più volte sottolineato
principio cogitationis poenam nemo patitur. Il fondamento politico-criminale della punibilità del
tentativo è costituito dall’esigenza di prevenire l’esposizione a pericolo dei beni giuridicamente
protetti (teoria c.d. oggettiva). Risultano prive di legittimazione le teorie c.d. soggettive e- sia
pure in misura minore – le teorie c.d. miste. La idoneità dell’azione non può che essere rapportata
all’attitudine della condotta materiale ad aggredire il bene tutelato. A contrario, la disposizione di
cui all’art. 49, parlando di reato impossibile per “inidoneità dell’azione”, conferma che nel nostro
ordinamento il tentativo inidoneo non ha diritto di cittadinanza. Dal punto di vista dell’incidenza
sugli interessi penalmente tutelati, consumazione e tentativo riflettono dunque, rispettivamente, la
lesione effettiva e la lesione potenziale del bene oggetto di protezione: ed è il minore grado di
aggressione al bene che giustifica la minore severità del trattamento penale del tentativo. Una sorta
di delitto di “minore grado”. Non è un “delitto imperfetto” ma anzi un delitto perfetto perché
presenta tutti gli elementi necessari per l’esistenza di un reato: e cioè il fatto tipico,
l’antigiuridicità e la colpevolezza. Sicché, sul piano normativo, il delitto tentato costituisce un
titolo autonomo di reato, che nasce dall’incontro o combinazione di due norme: la norma
incriminatrice di parte speciale, che eleva a reato un determinato fatto, che svolge una funzione
estensiva della punibilità perché consente, appunto, di reprimere penalmente fatti che non
pervengono alla soglia della consumazione. La soglia della punibilità sarà raggiunta soltanto in
coincidenza con la messa in pericolo del bene protetto.
L’elemento soggettivo
Anche sotto l'aspetto soggettivo il delitto tentato presenta caratteri propri rispetto al delitto perfetto.
Esso è, anzitutto, un delitto doloso: non solo perché il tentare, se inteso nel concetto comune, è
incompatibile con la colpa e perché l'articolo 56 parla di atti diretti a commettere un delitto, ma
anche in base alla regola generale dell'articolo 42/2, mancando ogni espressa previsione del
tentativo colposo. Per la tesi positiva il dolo del tentativo è volontà di commettere il delitto perfetto
che è, come tale, è comprensivo anche del dolo eventuale. Ciò in quanto, imponendo all'agente di
realizzare e non tentare tale delitto, il dolo del tentativo non può essere che quello del delitto
perfetto. Preferibile appare la tesi negativa, per cui il dolo del tentativo è intenzione di commettere
il delitto perfetto, con conseguente esclusione del dolo eventuale. Chi, mirando ad altro risultato,
accetta il rischio che abbia a verificarsi anche un delitto (o un ulteriore delitto), non si rappresenta e
non vuole gli atti come diretti alla commissione di questo delitto. Il che vuol dire che si ha delitto
tentato solo se il soggetto agisce con dolo intenzionale e che non è possibile punire il tentativo con
dolo eventuale, senza violare il divieto di analogia in malam partem, dovendosi ammettere un
tentativo con atti non diretti. Quanto all'accertamento del dolo, si ha in un certo senso, un
capovolgimento del procedimento ordinario. Nel delitto perfetto si parte dal fatto materiale per
accertare, poi, se il soggetto lo ha voluto. Nel delitto tentato occorre prima accertare l’intenzione, il
fine cui l'agente tendeva, lo stesso piano di attuazione, perché solo in rapporto allo specifico fine ed
al concreto piano dell’agente è possibile valutare la idoneità e la direzione univoca degli atti. La
prova del dolo sottostà alle stesse regole che valgono per il dolo in generale.
L’elemento oggettivo
Sotto il profilo oggettivo il delitto tentato è costituito da un elemento negativo e da un elemento
positivo:
- l'elemento negativo consiste nel non compimento dell'azione o nel non verificarsi dell'evento;
- l'elemento positivo consiste nel duplice requisito dell'idoneità degli atti e della univoca direzione
degli stessi.
Quanto alla inidoneità, da sola dilaterebbe oltre misura il tentativo punibile, dovendo essere intesa
in un ampio senso prognostico. Quanto alla direzione non equivoca degli atti, essa dovrebbe
riportare, quale ulteriore requisito limitativo, entro ragionevoli limiti il tentativo punibile.
Sennonché tale requisito viene inteso in due modi diversi, che ne vanificano però entrambi la
funzione. Secondo l'accezione soggettiva, risultante anche dai lavori preparatori, l'univocità
starebbe ad indicare non un elemento costitutivo - limitativo, ma una semplice esigenza processuale
probatoria: che, in sede processuale, sia data la prova che l'atto tendeva al fine criminoso, cioè della
intenzione di commettere il delitto perfetto. Secondo l'accezione oggettiva, l'univocità costituirebbe
un requisito oggettivo e, quindi, ulteriormente limitativo, del tentativo, in quanto starebbe a
significare:
a) secondo la tesi della univocità assoluta, che gli atti devono rivelare, in se e per se considerati,
cioè nella loro oggettività, la loro direzione finalistica verso lo specifico reato, la specifica
intenzione criminosa del soggetto;
b) secondo la tesi della univocità relativa, che gli atti debbono rivelare, in rapporto al piano
criminoso previamente individuato in base tutte le risultanze probatorie, la loro direzione finalistica
allo specifico reato voluto dall’agente. Sennonché la prima tesi non limita, ma elimina il tentativo
punibile; la seconda tesi, viceversa, non limita, ma dilata incontenibilmente il tentativo punibile.
TENTATIVO E ATTENTATO.
I delitti di attentato si caratterizzano per il fatto che il legislatore ha considerato reato perfetto il
compimento di “atti diretti a” offendere un bene ritenuto meritevole di protezione anticipata
perché di rango particolarmente elevato. Utilizzato nel settore dei delitti contro la personalità dello
Stato. È stata equiparata la punibilità del tentativo e dell’attentato. Oggi l’opinione dominante
ritiene che vi sia omogeneità strutturale fra tentativo e attentato e che, per la punibilità
dell’attentato, occorre che l’attività sia anch’essa idonea a ledere il bene protetto (con esclusione
quindi delle mere attività preparatorie).
Il reato impossibile
Due sono le ipotesi di reato impossibile (art. 49.1):
1. per inidoneità della condotta;
2. per l'inesistenza dell'oggetto materiale.
Quanto alla prima ipotesi, non si tratta di un inutile doppione negativo del delitto tentato, ma si
riferisce ai casi in cui il soggetto ha portato a termine l'intera condotta che per sue
caratteristiche intrinseche non ha realizzato l'offesa al bene protetto. Quanto alla seconda
ipotesi, le difficoltà sorgono perché vi può essere:
a) una inesistenza assoluta dell'oggetto, perché in rerum natura mai esistito o estintosi;
b) una inesistenza relativa, perché l'oggetto è esistente in rerum natura, ma manca nel luogo in cui
cade la condotta criminosa.
Meglio contempera i principi di legalità ed offensività la più recente soluzione per cui:
c) il reato impossibile riguarda le sole ipotesi di inesistenza assoluta dell’oggetto: costituirebbe una
manifesta violazione del principio di offensività punire là dove è precluso, già a priori, un qualsiasi
pericolo di perfezione del delitto;
d) il tentativo punibile riguarda, invece le ipotesi di inesistenza relativa, sempre che al momento
della condotta apparisse verosimile l'esistenza dell'oggetto.
Circa l’elemento soggettivo, il reato impossibile - per chi lo intende come doppione negativo del
tentativo - è necessariamente doloso ed il dolo è identico a quello del delitto tentato. Per chi lo
considera, invece, come figura autonoma, può essere anche colposo essendo esso configurabile
anche nei confronti di reati colposi e non esistendo alcuna controindicazione nella lettera
dell'articolo 49/2. Quanto agli effetti i codici a più marcata impronta soggettivistica affidano al
giudice la facoltà di non punire o di applicare una pena attenuata o prevedono una pena ridotta. Per i
codici, più fermamente ancorati al principio oggettivistico di offensività, il reato impossibile è un
non reato e, come tale, non può essere punito, ma in ragione della esigenza preventiva l'autore può
essere sottoposto a misure di sicurezza. Così per il nostro codice.
Da un punto di vista prettamente tecnico -giuridico, questa dottrina, confutando le osservazioni dei
sostenitori della opposta tesi per cui nell'ipotesi di delitto circostanziato tentato si avrebbe una
violazione del principio di legalità, sottolinea infine che il codice prevede, sia pur implicitamente,
anche la figura del delitto circostanziato tentato in quanto la parola delitto di cui all'art. 56 c.p.
andrebbe intesa sia come delitto semplice che come delitto circostanziato. Un ulteriore aspetto
problematico cui, in questa sede, conviene fare cenno è quello relativo ai criteri di imputazione
delle circostanze nel delitto tentato: la dottrina dominante interpreta l'art. 59 c.p. nel senso che ai
fini dell'imputazione delle circostanze aggravanti perfette sarebbe sufficiente che l'agente ne abbia
per colpa ignorato l'esistenza, a nulla rilevando che la circostanza acceda ad un reato base doloso
avvero ad un reato base colposo. Se così è si tratta di stabilire se anche le circostanze aggravanti
avanti tentate acquistino rilevanza giuridica non solo quando siano state oggetto di conoscenza
effettiva ma anche quando siano state ignorate o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa:
a questo proposito è stato prospettato che tutti gli elementi rientranti nella fattispecie del delitto
consumato, alla realizzazione del quale gli atti si presentano idonei ed univocamente diretti,
debbano essere imputati all'agente in quanto rientranti nel fuoco del dolo. Per quanto concerne
invece la rilevanza giuridica delle circostanze attenuanti tentate si ritiene preferibile restare ancorati
al criterio della rilevanza obiettiva che vale in materia di attenuanti realizzate, costituendo esso
espressione del più generale principio del favor rei.
Delitto circostanziato tentato circostanziato
Quanto alla figura del delitto circostanziato tentato circostanziato, questa risulta dall'interferenza tra
il delitto tentato circostanziato e il delitto circostanziato tentato: talché, ai fini del suo
riconoscimento giuridico e strutturale, non resta che richiamare gli orientamenti favorevoli
all'ammissibilità delle suddette figure. Con la precisazione che, non essendo prospettabile una
pacifica soluzione in tema di configurabilità delle suddette figure, l'ammissibilità del delitto
circostanziato tentato circostanziato, non costituisce approdo sicuro.
Negli ordinamenti a legalità sostanziale, la punibilità dei concorrenti non ha bisogno, a rigore, di
essere espressamente prevista, ma si ricava dalla stessa nozione materiale di reato (sulla c.d.
concezione estensiva dell’autore). Negli ordinamenti a legalità formale, la punibilità dei concorrenti
deve essere, invece, espressamente prevista. Nel nostro diritto penale tale funzione estensiva è
assolta dall’art. 110, il quale statuisce che quando più persone concorrono nel medesimo reato,
ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita. Parlando genericamente di reato, essa
incrimina il concorso sia nei delitti che nelle contravvenzioni.
Tre sono le teorie formulate per spiegare, tecnicamente, la punibilità del concorso:
1. teoria della equivalenza causale, secondo la quale, poiché ogni persona che concorre a produrre
l’evento unico e indivisibile lo cagiona nella sua totalità, questo andrebbe integralmente imputato ad
ognuno dei compartecipi. Essa, connaturale agli ordinamenti a legalità sostanziale, è inconciliabile
con quelli a legalità formale ove i reati sono tipizzati nei loro requisiti oggettivi e soggettivi;
2. teoria della accessorietà, secondo la quale la norma sul concorso estenderebbe la tipicità della
condotta principale alle condotte accessorie dei compartecipi: in tal modo il semplice partecipe
risponde del reato in quanto la sua condotta atipica accede al fatto tipico dell’autore, dal quale
attinge la sua rilevanza penale. Suo vizio sta nell’esigere, per la punibilità dei compartecipi, una
condotta principale tipica, con le due conseguenti insuperabili limitazioni: - di non riuscire a
giustificare la punibilità dei concorrenti in tutti i casi c.d. di esecuzione frazionata, ove nessuno da
solo realizza l’intero fatto tipico, ma ciascuno; - ne compie una parte soltanto; - di non riuscire a
giustificare la punibilità dei concorrenti nel reato proprio, allorché la condotta materiale sia posta in
essere dall’extraneus, dato che l’autore della condotta principale non può essere che l’intraneus,
cioè la persona che ha la qualifica soggettiva.
3. teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale per la quale dalla combinazione sulla norma
sul concorso con la norma incriminatrice di parte speciale nasce una nuova fattispecie
plurisoggettiva, autonoma e diversa da quella monosoggettiva e che ad essa si affianca, con una sua
nuova tipicità: la fattispecie del concorso di persone nel reato. Questa appare pertanto essere la
teoria da seguire.
La realizzazione di un reato
Secondo elemento costitutivo della fattispecie plurisoggettiva del concorso è che sia stato posto in
essere un fatto materiale di reato, consumato o tentato. Siccome il delitto tentato costituisce
l'estremo limite dei fatti punibili, il minimo indispensabile perché possa aversi un concorso punibile
è che siano realizzati gli estremi di un delitto tentato. Il nostro codice non punisce il tentativo di
concorso, ma soltanto il concorso nel delitto tentato. Il puro accordo e la semplice istigazione a
commettere un reato sono per il nostro diritto qualcosa di meno del tentativo punibile; onde per
aversi concorso punibile occorre che vi sia la realizzazione quanto meno di un delitto tentato. Il
reato consumato o tentato può essere materialmente posto in essere, indifferentemente:
- da uno o taluni soltanto dei concorrenti;
- da ciascuno dei concorrenti, allorché ognuno di essi ponga in essere la azione tipica;
- da tutti concorrenti insieme, qualora ciascuno di essi ponga in essere soltanto una frazione
dell'intera condotta tipica.
CIRCOSTANZE ATTENUANTI. Nel concorso sia doloso che colposo, la pena può essere
diminuita, come stabilisce l’art. 114:
a) nel caso che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto
minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato;
b) per chi è stato determinato a commettere il reato da persona che esercita sul soggetto un’autorità,
direzione o vigilanza, o quando il soggetto determinato sia un minore degli anni 18 o persona in
stato di infermità o deficienza psichica. A differenza delle aggravanti dell’art. 112, applicabili
obbligatoriamente, le suddette attenuanti vengono considerate facoltative.
Pentimento operoso
La configurabilità del p. o. presuppone, a sua volta, che l’azione collettiva sia giunta ad esaurimento
e che uno dei concorrenti riesca ad impedire il verificarsi dell’evento lesivo: ad es., A e B
infliggono coltellate a C con volontà omicida, ma B, pentito, porta C in ospedale, salvandolo dal
decesso. Il pentimento operoso ha natura di circostanza attenuante soggettiva.
Causazione dell’evento
Nel reato colposo di evento il risultato lesivo rappresenta la conseguenza della condotta illecita: il
nesso di causalità si accerta secondo la teoria condizionalistica. L’evento deve rappresentare una
conseguenza necessaria non tanto della semplice azione materiale, quanto piuttosto di un’azione
connotata da specifiche caratteristiche: dell’azione, cioè, che contrasta col dovere oggettivo di
diligenza. Il dubbio concerne il punto se la prevenibilità dell’evento conforme al tipo di quelli che la
norma precauzionale mirava ad impedire debba essere verificata in astratto o in concreto. A favore
della prima tesi militano, indubbiamente, ragioni di certezza, essendo nel campo della colpa per
inosservanza di norme scritte. L’affermazione di responsabilità riposerebbe, così, sul criterio
puramente oggettivo. Appare, dunque, preferibile la tesi che richiede la prevenibilità in concreto
dell’evento. Se si accoglie questa tesi non è, però, agevole giustificare, sul piano dogmatico, perché
la responsabilità venga meno in tutti i casi in cui sia fondamentalmente sostenibile che l’evento
lesivo si sarebbe egualmente verificato pur osservando la condotta prescritta. Si prospettano più
modelli di soluzione:
- il c.d. comportamento alternativo lecito: cioè, comportamento omesso conforme al dovere di
diligenza, ma inidoneo ad impedire l’evento.
- il criterio dell’aumento del rischio: cioè, ai fini dell’affermazione sarebbe sufficiente accertare
che l’inosservanza della regola di condotta ha determinato un rilevante aumento del rischio di
verificazione dell’evento.
Antigiuridicità
Anche nell’ambito del delitto colposo, la tipicità ha una funzione indiziante rispetto
all’antigiuridicità concepita come assenza di cause di giustificazione: onde, se si accerta l’esistenza
di un’ esimente, il fatto commesso non costituisce reato. In base all’esperienza giurisprudenziale, le
esimenti si sono prospettate con riferimento a:
- consenso dell’avente diritto;
- legittima difesa;
- stato di necessità.
Legittima difesa
L’applicabilità della L.D. al reato colposo è contestata da una parte della giurisprudenza: per
giustificare un simile comportamento negativo, si fa leva sul rilievo che la legittima difesa
presuppone la volontà dell’offesa. L’assunto non convince, perché, a ben vedere, entro lo spazio
occupato dall’azione difensiva appare legittimo provocare anche un evento lesivo che l’agente, in
realtà, non ha voluto e che avrebbe potuto evitare con l’uso della diligenza dovuta.
Stato di necessità
La configurabilità dello stato di necessità nel delitto colposo è, generalmente, ammessa in dottrina e
giurisprudenza. È da precisare che lo stato di necessità ricorre veramente soltanto quando l’azione
necessitata viola il dovere obiettivo di diligenza.
Colpevolezza
Non c’è differenza rispetto alla colpevolezza nell’ambito del delitto colposo. È sufficiente
esaminare la struttura psicologica della colpa, la c.d. misura soggettiva del dovere di diligenza e le
cause di esclusione della colpevolezza.
Nozioni Generali
Il modello tipico di illecito penale è, tradizionalmente, costituito dal reato di azione. Fino a buona
parte dell’800, il reato omissivo ha rappresentato una figura eccezionale. Coerentemente ad
un’ideologia liberale, l’unico limite alla libertà d’azione del cittadino era rappresentato dall’obbligo
di non aggredire le altrui posizioni di interesse. Ma in conformità all’affermarsi del diverso
principio solidaristico, che fa obbligo di attivarsi per la salvaguardia di beni altrui posti in
pericolo, si assiste al progressivo incremento della forma di responsabilità per omissione,
incremento che subisce la massima espansione con la legislazione sociale del secondo dopoguerra.
Con il crescere, così, dei reati omissivi aumenta anche l’attenzione della dottrina per tale figura di
reato che merita uno studio a sé.
Struttura del reato omissivo: tipicità. La fattispecie obiettiva del reato omissivo proprio.
Situazione tipica.
Come già detto, nel reato omissivo proprio il legislatore provvede a fissare elementi costitutivi
della fattispecie. La figura di illecito è, in primo luogo, costituita dalla situazione tipica cioè
dall’insieme dei presupposti da cui scaturisce l’obbligo di attivarsi. Ad es., nell’omissione di
soccorso (art. 593), la situazione tipica è costituita dalla condizione di pericolo in cui versa il
soggetto bisognoso di aiuto. Il legislatore nel descrivere la fattispecie può, analogamente al reato
commissivo, utilizzare sia elementi descrittivi (cioè che rinviano alla realtà naturale) che elementi
normativi (es omissione di un atto d’ufficio).
Condotta omissiva tipica e possibilità di agire.
Falliti gli sforzi di fornire all’omissione una nozione fisica (proprio perché per sua essenza è un non
essere), l’orientamento dominante propende per l’accoglimento della teoria normativa (del
Grispigni) secondo cui l’omissione è il non compimento, da parte di un soggetto, di una determinata
azione che era da attendersi in base ad una norma. Condotta omissiva tipica è, nell’illecito omissivo
proprio, il mancato compimento dell’azione richiesta. Tuttavia occorre che il soggetto abbia la
possibilità materiale di agire nel senso richiesto dalla norma, possibilità che è esclusa sia
dall’assenza delle necessarie attitudini psico-fisiche (es. non omette di soccorrere un bagnante se
non è in grado di nuotare) dalle condizioni esterne (es la lontananza dal luogo). Gli altri elementi
che entrano a far parte della possibilità di agire, inteso nel senso più ampio, inclusivo delle capacità
intellettive, devono tenersi conto in sede di colpevolezza.
Situazione tipica.
Anche per il reato omissivo improprio, la fattispecie obiettiva ricomprende, anzitutto, la situazione
tipica intesa come il complesso dei presupposti di fatto che danno vita a una situazione di
pericolo per il bene da proteggere e che, pertanto, rendono attuale l’obbligo di attivarsi del
“garante” (es. il nuotatore inesperto che si trova in difficoltà obbliga il bagnino a intervenire per
impedire l’evento-morte). Il contenuto e lo scopo del dovere di agire del garante possono
specificarsi soltanto in rapporto alle circostanze del caso concreto.
La posizione di garanzia.
Ai fini della responsabilità per reato omissivo non è sufficiente l’esistenza di un nesso causale tra
condotta omissiva ed evento, ma occorre anche verificare la violazione di un obbligo giuridico di
impedire l’evento. Il problema è, allora, quello di individuare, nell’ambito degli obblighi giuridici
di attivarsi, quelli la cui violazione è penalmente rilevante; problema di non facile soluzione visto
che l’art 40 non fornisce alcun criterio selettivo. La dottrina tradizionale accoglie la teoria formale
dell’obbligo di impedire l’evento, la quale esige l’espressa previsione dell’obbligo giuridico di
attivarsi da parte di fonti formali. Tale teoria è stata, però, criticata perché non è in grado di spiegare
per quale motivo solo alcuni degli obblighi giuridici sono penalmente rilevanti.
Antigiuridicità
Relativamente all’antigiuridicità, valgono le stesse regole del reato commissivo anche se è più
difficile la sussistenza delle cause di giustificazione rispetto ai reati omissivi. Le ipotesi più
frequenti riguardano lo stato di necessità (es. chi omette di prestare soccorso perché l’azione di
salvataggio porrebbe in pericolo la sua vita).
Colpevolezza.
La colpevolezza nei reati omissivi presenta le stesse caratteristiche dei reati commissivi, salvo
alcune peculiarità, anche se dottrina minoritaria ritiene che la colpevolezza nei reati omissivi sia
meno grave perché il lasciare le cose come stanno implica una carica di minore pericolosità.
Dolo omissivo
Nel settore dei reati omissivi, la ricostruzione degli aspetti strutturali e contenutistici del dolo risulta
complessa e delicata. Fino a che punto, infatti, è possibile avere la coscienza e volontà di omettere,
senza conoscere previamente la legge penale che impone di attivarsi in un determinato modo. La
fattispecie dolosa omissiva comporta problemi soprattutto relativamente ai reati omissivi propri
dove, mancando un evento naturalistico, diventa essenziale la conoscenza della norma, essendo il
disvalore del fatto incentrato tutto sulla condotta normativamente descritta. E’ opportuno
distinguere i reati omissivi propri in due categorie:
- LE FATTISPECIE CON SITUAZIONE DI TIPO PREGNANTE in cui l’obbligo di attivarsi
ha per presupposto una realtà immediatamente percepibile, a prescindere dalla conoscenza
dell’obbligo di agire: ad es. nell’omissione di soccorso la visione di un ferito provoca una spinta
psicologica ad agire, anche se il soggetto ignora l’esistenza della norma che punisce l’omesso
soccorso.
- LE FATTISPECIE CON SITUAZIONE TIPICA NEUTRA riguardano quegli illeciti di
creazione legislativa, senza che ad essi preesista un disvalore socialmente percepibile. In questi casi,
dunque, parte della dottrina ritiene che per la sussistenza del dolo occorra la conoscenza del
comando penale, in deroga all’art. 5. Nei reati omissivi impropri il dolo abbraccia anche i
presupposti di fatto della posizione di garanzia Ad es., una baby sitter non risponde di omicidio
doloso se non ha riconosciuto nel bambino che sta annegando quello affidatogli. Trova, cioè,
applicazione in questi casi la disciplina dell’art. 479, anche con riferimento agli errori che cadono
sugli obblighi extrapenali di agire, derivanti ad esempio da un contratto.
Colpa.
Anche la ricostruzione della colpa solleva problemi particolari nelle fattispecie omissive, in
funzione della loro particolare struttura. L’adempimento del dovere di diligenza presuppone, è
ovvio, che il soggetto obbligato abbia la possibilità di agire nel senso richiesto. Possibilità di agire
in senso fisico ma non solo. I requisiti della possibilità di agire sono così compendiabili:
a) Conoscenza o riconoscibilità della situazione tipica.
b) Possibilità obiettiva di agire.
c) Conoscenza o riconoscibilità del fine dell’azione doverosa.
d) Conoscenza o riconoscibilità dei mezzi necessari al raggiungimento del fine medesimo.
Anche per i reati omissivi, ai fini della colpa occorre verificare se la condotta si pone in contrasto
con il dovere oggettivo di diligenza alla stregua del criterio dell’agente modello, quindi, tener conto,
in un secondo momento, ai fini della rimproverabilità, dell’omissione delle capacità psico-fisiche
dell’agente concreto. Il criterio accennato risulta utile, soprattutto, nei casi di colpa c.d.
incosciente, bene esemplificata dalle omissioni dovute a pura dimenticanza. Nell’ambito dei delitti
omissivi impropri, dovere di diligenza e obbligo di impedire l’evento finiscono per coincidere anche
se concettualmente restano entità distinte.
Coscienza dell’illiceità’
Anche nei reati omissivi, ai fini della sussistenza della colpevolezza, occorre la possibilità di
conoscere il precetto penale, cioè, il comando di agire; tale possibilità nei reati omissivi va
verificata con maggiore rigore.
Tentativo.
E’ pacificamente riconosciuto il tentativo nei reati omissivi impropri: è evidente che il non
verificarsi dell’evento per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente dimostra che è
ammissibile il tentativo. Piuttosto, il dubbio riguarda l’individuazione del momento iniziale
dell’omissione punibile: deve ritenersi che l’omissione tentata assume rilevanza penale quando
provoca un pericolo diretto per il bene tutelato. Difficoltà sorgono, invece, sulla configurabilità del
tentativo nei delitti omissivi propri, perché se il termine utile per compiere l’azione prescritta non
è ancora scaduto, è ancora possibile l’azione dovuta, mentre, se il termine è scaduto, il reato è già
perfetto. Tuttavia parte della dottrina ritiene che, anche relativamente ai reati omissivi propri, è
possibile il tentativo tutte le volte in cui il soggetto compie atti positivi diretti in modo non
equivoco a non adempiere al comando d’azione.
La responsabilità oggettiva, nell'ambito del diritto penale, indica quella forma di imputazione della
responsabilità penale che prescinde dalla verifica della sussistenza del criterio d'imputazione
soggettiva del fatto al suo autore (nelle diverse forme del dolo, della colpa e della preterintenzione,
anche se la preterintenzione stessa viene, da taluna parte della dottrina e da parte della
giurisprudenza, ricondotta nell'alveo della responsabilità oggettiva). La responsabilità oggettiva è,
dunque, caratterizzata dall'imputazione del fatto penalmente rilevante esclusivamente alla luce della
ricorrenza del nesso causale tra la condotta e l'evento lesivo. La fonte codicistica generale che
contempla il criterio d'attribuzione della responsabilità oggettiva è individuata nell'art. 42 c.p., 2°
comma nella parte in cui prevede:...la legge determina i casi in cui l'evento è posto altrimenti a
carico dell'agente come conseguenza della sua azione od omissione. Parte della dottrina ha
ravvisato, nella responsabilità per colpa specifica, una forma di responsabilità oggettiva occulta
in quanto il coefficiente psicologico effettivo viene sostituito da un coefficiente psicologico
presunto (rimproverabilità presunta) sulla base di una valutazione ex ante astrattamente fatta dal
legislatore in ordine alla prevedibilità dei risultati offensivi possibili in relazione alla violazione di
specifiche norme cautelari. Ulteriore forma di responsabilità oggettiva occulta è stata ravvisata nell'
aberratio delicti di cui all'art. 83 cp, ove interpretato nel senso che la colpa menzionata in detto
articolo, quale criterio d'attribuzione della responsabilità penale per il reato diverso da quello
voluto, sarebbe automaticamente collegata alla violazione della norma penale, a prescindere da
ogni effettiva valutazione in ordine alla prevedibilità o all'evitabilità del risultato offensivo da parte
dell'agente, ovvero qualora interpretato nel senso che il riferimento alla colpa sia limitato alle
conseguenze punitive e non al criterio d'attribuzione della responsabilità.
La responsabilità oggettiva, nel campo penale, pone delicati problemi di compatibilità con l'art. 27
Cost., sia sotto il profilo del possibile contrasto con il principio della responsabilità penale
colpevole (anche se vi è chi ritiene che l'art. 27 Cost. escluda solamente la responsabilità per fatto
altrui), sia sotto il profilo del possibile contrasto con il principio, espresso nel contesto del
medesimo art. 27, della finalità rieducativa della pena. L'evoluzione legislativa e della
giurisprudenza costituzionale confermano i dubbi circa la legittimità costituzionale della
responsabilità oggettiva quale criterio di attribuzione della responsabilità penale. Rileva, in
particolare, sotto tale aspetto, la L. n. 19/1990 che, nel modificare l'art. 59 c.p. in materia di criteri
d'applicazione delle circostanze aggravanti, ha previsto l'applicabilità delle medesime solo in
caso di loro conoscenza effettiva o in caso di loro ignoranza colposa ovvero in caso di erronea
supposizione della loro assenza determinata da colpa. Con riferimento alla giurisprudenza della
Corte Costituzionale, rileva, in primo luogo, la nota sentenza n. 364/1988 che, sindacando della
legittimità costituzionale dell'art. 5 c.p., ha avuto modo di precisare come debba esservi, ai fini
dell'individuazione di una responsabilità penale conforme ai principi costituzionali, un legame
psicologico tra l'agente e gli elementi più significativi della fattispecie penale astratta. In tale
direzione, rileva altresì la sentenza della Corte che ha fornito un' interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 116 c.p., a mente della quale, il concorrente risponde del
reato diverso da quello pianificato commesso da altro concorrente solo ove tale diverso reato sia
uno sviluppo prevedibile di quello formante l'oggetto del disegno criminoso. Ulteriore ipotesi di
responsabilità oggettiva contemplata dalla normativa codicistica, è quella di cui all'art. 117 c.p. che
prevede la responsabilità dell'extraneus a titolo di concorso nel reato proprio. Con riferimento a
tale fattispecie, la norma non precisa se l'extraneus debba essere a conoscenza o meno della
qualifica soggettiva del concorrente, sicché la sua responsabilità a titolo di concorso nel reato
proprio deve essere affermata anche in difetto di tale consapevolezza. In tal caso, tuttavia, e
seguendo tale interpretazione, la norma introdurrebbe un'ulteriore fattispecie di responsabilità
oggettiva, sulla quale graverebbero dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo della
compatibilità con i principi di responsabilità personale colpevole e della finalità rieducativa della
pena di cui al già menzionato art. 27 Cost. Ulteriore ipotesi di responsabilità oggettiva, contemplata
e disciplinata dalla parte generale del codice era quella prevista dall'art. 57 cp a carico del
direttore o del redattore responsabile con riferimento ai reati commessi a mezzo della stampa.
Invero si discuteva, in dottrina, se la responsabilità del direttore e del redattore responsabile fosse,
per l'appunto, di carattere oggettivo o se, invece, si trattasse di una responsabilità per omessa
vigilanza. Con la modifica dell'art. 57 c.p. introdotta dalla L. n. 127 del 1958,
il legislatore ha abbracciato la tesi della responsabilità per fatto proprio omissivo colpevole
stabilendo che: "Salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso,
il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico
da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo dalla pubblicazione siano commessi
reati, e' punito, a titolo di colpa, se un reato e' commesso, con la pena stabilita per tale reato,
diminuita in misura non eccedente un terzo". Il reato configurato dall'art. 57 c.p. è un reato proprio
richiedendosi una determinata qualifica soggettiva in capo all'autore ed è un reato d'evento in
quanto, ai fini della sua integrazione, si richiede che venga commesso un reato a mezzo stampa
perfetto sia quanto ai requisiti oggettivi sia quanto ai requisiti soggettivi. Secondo parte della
dottrina, peraltro, l'evento di reato commesso a mezzo della stampa si configurerebbe come una
condizione di punibilità e, tuttavia, si tratta di teoria rimasta isolata. La responsabilità del direttore
responsabile è stata affermata anche in caso di consenso alla pubblicazione di notizie fondate su
fonti non correttamente e scrupolosamente verificate. Come chiarito, l'art. 57 cp, così come riscritto,
non configura più un'ipotesi di responsabilità oggettiva in quanto il criterio di responsabilità
soggettiva dell'autore del fatto è quello della colpa per l'omessa vigilanza.
Si ha concorso di reati quando uno stesso soggetto ha violato più volte la legge penale e, perciò,
deve rispondere di più reati. Sul piano del diritto sostanziale, il problema è quello del trattamento
sanzionatorio. In un sistema penale orientato in senso repressivo retributivo tre sono i criteri in
astratto possibili:
1. il cumulo materiale, per il quale si applicano tante pene quanti sono i reati commessi;
2. il cumulo giuridico, per il quale si applica la pena del reato più grave, aumentata
proporzionalmente alla gravità delle pene concorrenti, ma in modo complessivamente inferiore al
loro cumulo materiale;
3. l'assorbimento o consunzione, per il quale si applica soltanto la pena del reato più grave,
intendendosi in questo assorbite le pene minori. Una particolare ipotesi di concorso di reati è
costituita dai cosiddetti reati connessi, cioè fra loro collegati:
1. da connessione teleologica, quando cioè un reato è commesso allo scopo di eseguire un altro
reato;
2. da connessione consequenziale, allorché un reato viene commesso per conseguire o assicurare a
sé o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto, ovvero l'impunità di un altro reato oppure per
occultarlo. Fuori di queste ipotesi, è improprio parlare di concorso di reati come categoria
sostanziale.
Il reato continuato
La figura del reato continuato sorse per opera dei Pratici, che la introdussero per mitigare la
eccessiva severità delle legislazioni dell’epoca sul concorso di reati. Ancor oggi la funzione
dell’istituto è quella di introdurre un trattamento penale più mite, che trova però la sua ratio nel fatto
che nel reato continuato la riprovevolezza complessiva dell’agente viene ritenuta minore che nei
normali casi di concorso. L’art. 81/2, nella sua originaria formulazione, statuì infatti la non
applicabilità delle disposizioni sul cumulo materiale delle pene a chi con più azioni od omissioni
esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della
stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità. Il D.L. 99/74 ha ampliato la portata
dell’articolo ammettendo la continuazione nei casi di più violazioni della stessa o di diverse
disposizioni di legge: cioè oltre al reato continuato omogeneo, anche quello eterogeneo. Tre
sono i requisiti del reato continuato, istituto di una vitalità espansiva senza pari:
1.Il medesimo disegno criminoso. E’ il coefficiente psicologico che lega e cementa i diversi
episodi criminosi e contraddistingue, ontologicamente, il reato continuato dal concorso di reati. Per
aversi medesimo disegno criminoso è necessario e sufficiente la iniziale programmazione e
deliberazione di compiere una pluralità di reati, in vista del conseguimento di un unico fine
prefissato sufficientemente specifico. L’unicità del disegno criminoso ha come requisito
intellettivo una mera rappresentazione mentale anticipata dei singoli episodi delittuosi, poi, di
fatto, commessi dallo stesso agente. Come requisito finalistico, l’unicità dello scopo, cioè i diversi
episodi criminosi costituiscono attuazione di un preciso e concreto programma diretto alla
realizzazione di un obiettivo unitario. Ne deriva che i diversi reati sono in un rapporto di
interdipendenza funzionale rispetto al conseguimento di un unico fine. L’identità del disegno
criminoso viene meno quando fra l’uno e l’altro fatto criminoso siano intervenute circostanze
che abbiano indotto il reo a modificare il piano criminoso nella sua essenza sopra precisata per
cui il passaggio ad ulteriori azioni richieda un previo superamento dei nuovi motivi inibitori,
generati da tali circostanze, sì da aversi un nuovo atteggiamento antidoveroso del soggetto.
2. Più violazioni di legge. Esiste una stretta interdipendenza tra l’identità del disegno criminoso e
una certa omogeneità funzionale di violazioni. Intanto è configurabile un disegno criminoso unitario
in quanto le violazioni, pur se di leggi diverse, si presentano tutte come mezzi per conseguire il
fine ultimo, cui tende il disegno. Come già anticipato, tale requisito ha subito con la riforma del
1974 un’innovazione veramente radicale, se non sconvolgente, in quanto, il riformato art. 81
ammette la presenza di reati diversi, anche del tutto eterogenei tra di loro, per cui sarebbe
meglio parlare di continuazione di reati (nella maggior parte degli ordinamenti, invece, esiste la
necessità della omogeneità dei reati).
3. La pluralità di azioni o omissioni (art. 81 cpv). Deve intendersi come pluralità di condotte
autonome che danno luogo ad altrettanti episodi criminosi. Il reato continuato esula, però, se la
pluralità di azioni è tale solo in senso naturalistico, ma deve, invece, sussistere un’azione
giuridicamente unitaria (es. furto commesso con ripetuti impossessamenti entro un congruo
spazio di tempo, si ha furto unico, non continuato). Le diverse azioni possono avvenire in tempi
diversi (art. 81), quindi anche con notevole lasso di tempo (essendo la contemporaneità concepibile
solo per le omissioni!): sarà, però, più difficile dimostrare la medesimezza del disegno criminoso.
I presupposti sono:
a) la pluralità di norme, non essendo concepibile il concorso di una norma con se stessa;
b) la identità del fatto, che appare contemplato da più norme. Il che è possibile se ed in quanto
intercorrano tra le fattispecie le relazioni di specialità (unilaterale) o di specialità reciproca (o
bilaterale). Dispone l’art. 15: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge
penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o
alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito” (principio della prevalenza
della legge speciale rispetto alla legge “generale”). Si ha specialità (rapporto di specialità tra
fattispecie) quando una norma, speciale, presenta tutti gli elementi di altra norma, generale, con
almeno un elemento in più. Tipico esempio è l'art. 341 rispetto all' art. 594, poiché l'oltraggio
presenta tutti gli elementi dell’ingiuria ed inoltre il quid pluris della qualifica di pubblico ufficiale
nell'offeso. Si ha specialità reciproca allorché nessuna norma è speciale o generale, ma ciascuna è
ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano, accanto ad un nucleo di elementi
comuni, elementi specifici e elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra. Al di là
della specialità, unilaterale e reciproca, non è più configurabile concorso di norme, poiché le norme
già prima facie appaiono applicabili a fatti diversi, in quanto nessuna ipotesi, integrante l’una,
integra anche l’altra e viceversa. Infine, un fenomeno di concorso di norme non si pone quando la
legge già espressamente esclude l’applicazione di una di esse, attraverso clausole di riserva
determinate (cioè del tipo “fuori del caso indicato nell’art. xx”).
1. la specialità tra fattispecie, che emerge dalla stessa descrizione delle figure criminose,
presentando l'una tutti gli elementi costitutivi dell’altra più un quid pluris;
2. la specialità tra leggi, allorché il legislatore provvede a disciplinare, in modo particolare, una
categoria di fatti in un distinto testo legislativo, in una “legge speciale”, in ragione della qualità dei
soggetti o delle condizioni in cui vengono commessi. Quanto alle clausole di riserva, esse
assolvono, anche per la loro frequenza, la fondamentale funzione di affermare l’assorbimento nel
maggior numero di fattispecie in rapporto di specialità reciproca. Quanto all'art. 84, se non lo si
vuole ridurre ad un inutile ripetizione dell'art. 15 attraverso una inammissibile interpretatio
abrogans, occorre affermare che esso abbraccia:
a) non solo i reati necessariamente complessi sia in senso stretto sia in senso lato, che costituiscono
delle semplici ipotesi di specialità;
b) ma anche i reati eventualmente complessi sia in senso stretto sia in senso lato, che costituiscono
invece delle ipotesi di specialità reciproca. Quanto, infine, alle circostanze, gli artt. 15, 61-62 e 68
portano ad affermare la perfetta coincidenza del concorso apparente con tutte le ipotesi di
disposizioni circostanzianti, siano esse in rapporto di specialità o di specialità reciproca. In sintesi,
dal complesso dei dati legislativi esaminati risulta che all’interno dell'identica materia del concorso
di norme:
a) essi costituiscono particolari espressioni del sopra ordinato principio giuridico del ne bis in
idem sostanziale, esprimendo tutti la comune esigenza giuridica di non addossare all'autore più
volte un fatto, capace di effetti giuridici ad opera di più norme;
b) il ne bis in idem è principio non eccezionale ma regolare. In base ai suddetti dati il concorso
apparente, infatti, copre tutte le ipotesi di concorso sia di norme circostanzianti sia di norme
incriminatrici.
Viceversa, la contrapposta normativa degli artt. 71-78 e degli artt. 63, 66, 67, sul concorso di reati e
di circostanze, si riferisce, per esclusione, alla identica e autonoma materia del non-concorso di
norme (cioè alle ipotesi di fattispecie in rapporto di mera interferenza, di eterogeneità, di
incompatibilità). E, nell'ambito di tale materia, costituisce espressione del sopraordinato e regolare
principio giuridico, dell'integrale valutazione giuridica, esprimendo la comune esigenza
dell'applicabilità di più norme perché nessuna di esse esaurisce integralmente l'intero disvalore del
fatto. Pertanto, tra il complesso normativo degli artt. 15, 84, 61-62, 68 e clausole di riserva e quello
degli artt. 71-81, 63, 66-67, non è concepibile alcun problema di regola- eccezione, attenendo essi
alle diverse ed autonome materie rispettivamente del concorso e del non- concorso di norme ed
esprimendo, rispettivamente, i due principi altrettanto regolari del ne bis in idem e della integrale
valutazione.
Ed eccoci al punto. Le residue ipotesi di specialità reciproca, non espressamente risolte dalla legge,
siccome rientrano anch'esse nel più ampio settore del concorso di norme non possono che essere
risolte nel senso del concorso apparente di norme in virtù del principio sopraordinato del ne bis in
idem, che domina tale materia, esistendo tutti gli estremi dell'analogia iuris: favor rei, regolarità del
principio, identità di ratio di disciplina. In conclusione, in base al nostro diritto positivo il concorso
apparente combacia con l'intero ambito del concorso di norme, cioè con tutte le fattispecie in
rapporto di specialità e di specialità reciproca. Il concorso eterogeneo di reati si restringe al non
concorso di norme, riguardando cioè le fattispecie in rapporto di interferenza, di eterogeneità, di
incompatibilità. E la relazione di “interferenza per la condotta” è l'unica che permette di configurare
il concorso formale di reati.
La norma prevalente
Il principio del ne bis in idem nel concorso di norme consente di affermare che una ed una sola
norma è applicabile, ma non dice quale. L’individuare la norma prevalente è un problema di
interpretazione sistematica, volto a delimitare la rispettiva reale portata delle norme concorrenti,
per cui il fatto, che appariva comune ad esse, in realtà cade sotto la previsione di una soltanto di
esse. In certe ipotesi la norma prevalente è individuabile in forza di criteri che operano sulla base di
determinati rapporti formali fra norme, quali il criterio di specialità (la legge speciale prevale sulla
generale), il criterio cronologico (la legge posteriore prevale su quella anteriore), il criterio
gerarchico (la legge di grado superiore prevale su quella di grado inferiore). Nelle ipotesi di norme
di pari grado, coeve ed in rapporto di specialità reciproca, la norma prevalente va individuata
attraverso le clausole di riserva, quando esistono. Nelle ipotesi in cui le clausole non esistono, tra gli
indici rivelatori della norma applicabile, il primo e più sintomatico è, certo, quello del trattamento
penale più severo. Detto criterio non ha però un valore assoluto, per gli inaccettabili risultati cui in
certi casi porterebbe; né ha un valore esclusivo, essendo inapplicabile rispetto alle norme con
identica sanzione.
Il reato abituale
A differenza del reato complesso, continuato e permanente, il reato abituale è una categoria di
creazione dottrinale, non rinvenendosi nella legge né una definizione né una disciplina di esso. E’
detto abituale il reato per l’esistenza del quale la legge richiede la reiterazione di più condotte
identiche o omogenee. E’ proprio il reato abituale consistente nella ripetizione di condotte che sono
in sé non punibili, come nello sfruttamento della prostituzione, o che possono essere non punibili,
come nei maltrattamenti in famiglia. E’ improprio se consiste nella ripetizione di condotte già di
per sé costituenti reato, come nella relazione incestuosa, costituendo il singolo fatto incestuoso
delitto di incesto. In altre parole, mentre nel reato abituale proprio, le singole condotte,
autonomamente considerate, sono penalmente irrilevanti, nel reato abituale improprio ciascun
singolo atto integra di per sé altra figura di reato. Quanto all’elemento soggettivo, non può
accogliersi la tesi che, al fine di fondare anche il reato abituale su una unità ontologica, richiede un
dolo unitario, costituito dalla rappresentazione e deliberazione iniziali, anticipate, del complesso di
condotte da realizzare. Deve perciò ritenersi sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta,
delle singole condotte, accompagnate dalla consapevolezza che la nuova condotta si aggiunga alle
precedenti, dando vita con queste ad un sistema di comportamenti offensivi. Ciò che si rimprovera
all’agente è di aver voluto persistere in un certo modo di agire, di non aver desistito
nonostante la consapevolezza del suo precedente operare. Il reato (necessariamente) abituale si
“perfeziona” allorché è stato realizzato il minimum di condotte e con la frequenza, necessari ad
integrare quel sistema di comportamenti in cui si concreta tale reato e la cui valutazione è affidata
alla discrezionalità del giudice. Si consuma allorché cessa la condotta reiterativa.
Parlare di sanzione penale equivale ad evocare l’idea di un castigo inflitto all’autore di un fatto
illecito. Non ci sono dubbi sul fatto che la pena consiste in uno strumento di afflizione, il fatto è
che il momento afflittivo implicito nella pena può essere strumentalizzato per il raggiungimento di
fini diversi. Inoltre l’evoluzione storico-sociale influisce non soltanto sugli scopi della pena, ma
anche sulle tecniche di volta in volta adoperate per punire l’autore dell’infrazione (es. il
passaggio dalle pene corporali alla pena detentiva, e più di recente alle pene c.d. alternative
affidamento al servizio sociale e la semilibertà). Il concetto di sanzione penale oggi si estende sino a
ricomprendere la c.d. misura di sicurezza, cioè una misura ulteriore che consegue pur sempre alla
commissione di un reato, ma la cui funzione (almeno negli utenti) si differenzia da quella delle
pene in senso stretto: scopo precipuo delle misure di sicurezza sarebbe, infatti, quello di
risocializzare l’autore di un reato in quanto soggetto socialmente pericoloso. Le tre idee guida del
dibattito sulla pena sono: retribuzione, prevenzione generale e prevenzione speciale. La sanzione
penale deve servire a compensare la colpa per il male commesso. L’idea retributiva implica anche,
per sua natura, il concetto di proporzione: la risposta sanzionatoria, se deve compensare il male
provocato dall’azione illecita, non può non essere proporzionata alla gravità del reato medesimo.
L’idea della “prevenzione generale” si fonda sull’assunto che la minaccia della pena serva a
distogliere la generalità dei consociati dal compiere fatti socialmente dannosi. La teoria della
“prevenzione speciale” fa leva sull’idea che l’inflizione della pena ad un determinato soggetto,
serva ad evitare che il medesimo compia in futuro altri reati. Ideologia dello Stato forte, crisi degli
strumenti penalistici alla fine dell’800. Introduzione del sistema del c.d. doppio binario, cioè un
sistema per il quale si prevede, accanto e in aggiunta alla pena tradizionale inflitta sul presupposto
della colpevolezza, una misura di sicurezza, vale a dire una misura fondata sulla pericolosità
sociale del reo e finalizzata alla sua risocializzazione. Contingente e specifica concezione del
rapporto tra prevenzione generale e prevenzione speciale. La dizione del “sistema del doppio
binario” implica anche la possibilità di applicare ad un medesimo soggetto, che sia al tempo stesso
“imputabile” e “socialmente pericoloso”, tanto la pena che la misura di sicurezza.
La nozione di pena
Concettualmente la pena è la limitazione dei diritti del soggetto quale conseguenza della violazione
di un obbligo, che è comminata per impedire tale violazione e ha carattere eterogeneo rispetto al
contenuto dell’obbligo stesso. La pena pubblica abbraccia non solo la pena criminale, ma anche la
pena amministrativa. La pena criminale è la sanzione afflittiva prevista dall’ordinamento giuridico
per chi viola un comando di natura penale.
LE PENE PRINCIPALI
Il nostro diritto positivo distingue le pene in principali ed accessorie. Dispone l’art. 17 che le pene
principali stabilite per i “delitti” sono: la pena di morte, l’ergastolo, la reclusione e la multa; e
che le pene principali stabilite per le “contravvenzioni” sono: l’arresto e l’ammenda. A sua volta,
l’art. 18 definisce pene detentive o restrittive della libertà personale l’ergastolo, la reclusione e
l’arresto; pene pecuniarie la multa e l’ammenda. Infine, l’art. 20 precisa che le pene principali sono
inflitte dal giudice con sentenza di condanna, e quelle accessorie conseguono di diritto alla
condanna, come effetti penali di essa. Accanto ad esse, il d.lgs n. 274/2000 ha introdotto due nuove
pene principali di applicazione limitata ai soli reati di competenza del giudice di pace, e cioè la
detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità (es. per furti punibili a querela, ingiuria,
percosse ecc.).
a) la pena di morte, oggi completamente abolita e assorbita nell’ergastolo, sia per i reati previsti
dal codice penale e leggi speciali diverse da quelle militari (L. 224/44, D.Lgs. 21/48), sia per i reati
previsti dal codice penale militare di guerra (L. 589/94); la soppressione della pena di morte ha
trovato il riconoscimento più elevato nella Costituzione: l’art. 27, comma 4°, statuisce infatti che
“Non è ammessa la pena di morte”.
b) l’ergastolo. Secondo il disposto dell’art. 22 “la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata
in uno degli stabilimenti a ci destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Il
condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto”. Problema della compatibilità
del’ergastolo con i principi della Costituzione, ed in particolare con il principio di rieducazione
espresso dall’art. 27, comma 3° Cost. La Corte costituzionale ha dal canto suo ritenuto legittimo
l’ergastolo, in base alla motivazione che funzione della pena “non è soltanto il riadattamento
sociale dei delinquenti, ma pure la prevenzione generale, la difesa sociale, e la
neutralizzazione a tempo indeterminato di determinati delinquenti”. La natura perpetua
dell’ergastolo è andata comunque sempre più ridimensionandosi. L’ergastolano (se ha tenuto un
comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento) può essere ammesso alla liberazione
condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena; la sentenza n. 274 del 1983, ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di ammettere i condannati all’ergastolo al
godimento degli sconti di pena consentiti dall’istituto della liberazione “anticipata”, con
conseguente riduzione dei tempi necessari ai fini della liberazione condizionale. Successivamente è
stato esteso espressamente agli ergastolani l’applicabilità dei due istituti della semilibertà (col
limite dell’espiazione di almeno 20 anni di pena) e della stessa liberazione anticipata. Altri
possibili sconti di pena. La Corte costituzionale ha poi ritenuto illegittimo l’ergastolo per i
minorenni imputabili con sentenza del 1994. Inoltre la Corte ha stabilito che “previsioni
sanzionatorie fisse non appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale, salvo che
appaiono proporzionate all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di
reato”.
c) la reclusione, art. 23, ovvero la privazione temporanea della libertà personale, per un tempo che
va da 15 giorni a 24 anni (massimo che può essere elevato fino a 30 anni in caso di concorso di
reato o circostanze aggravanti) ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo
del lavoro e con l’isolamento notturno. Il condannato alla reclusione, che ha scontato almeno un
anno della pena, può essere ammesso al lavoro all’aperto. La reclusione è la pena temporanea per i
delitti. Possono esserci poi cause di differimento (rinviare) dell’esecuzione della reclusione.
Differimento obbligatorio per donne incinte o donne che hanno partorito da meno di 6 mesi,
persona affetta da infezione da HIV; differimento facoltativo se è stata presentata domanda di
grazia, per persone con grave infermità fisica e per donne che hanno partorito da più di 6 mesi e da
meno di un anno e non vi è modo di affidare il figlio ad altro che alla madre;
d) la multa, consistente nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a € 50 né superiore a
€ 50.000 (art. 24, se trattasi di delitto di lucro con la sola pena della reclusione, il giudice può
aggiungere la multa da € 50 a € 25.000). La multa è la pena pecuniaria prevista per i delitti. Il
pagamento della multa può avvenire, in relazione alle condizioni economiche del condannato,
in rate mensili da un minimo di tre ad un massimo di trenta. L’ammontare di ciascuna rata non può
essere inferiore a 15 euro (art. 133 ter). Se non viene eseguita per insolvibilità del condannato, la
pena della multa si converte in una sanzione c.d. di conversione, la libertà controllata ed il
lavoro sostitutivo.
Per le contravvenzioni:
a) l’arresto, art. 25, pena detentiva temporanea per le contravvenzioni, che si estende da 5
giorni a 3 anni (massimo elevabile a 5 anni nel concorso di aggravanti e fino a 6 anni nel concorso
di reati); è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati o in sezioni speciali degli stabilimenti di
reclusione, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Può essere addetto anche a lavori
diversi da quelli organizzati nello stabilimento. Stessi principi stabiliti per la reclusione, unica
differenza disciplina della semilibertà;
b) l’ammenda, pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni, art. 26, consistente nel
pagamento allo Stato di una somma non inferiore a € 20 né superiore a € 10.000. La
regolamentazione ricalca quella della multa. La commisurazione della pena in concreto avviene
secondo il sistema della somma complessiva, in cui si tiene conto della gravità del reato e della
capacità a delinquere, ma altresì delle condizioni economiche del reo.
Le pene accessorie
Le pene accessorie, art. 19, sono misure afflittive, che comportano una limitazione di capacità,
attività o funzioni, ovvero accrescono l’afflittività della stessa pena principale, e presuppongono
sempre la condanna ad una pena che sia l’ergastolo, la reclusione, l’arresto, la multa o
l’ammenda (pena comune sia ai delitti che alle contravvenzioni). Possono essere perpetue o
temporanee. Ne sono caratteri normali: a) l’automaticità, poiché di regola conseguono di diritto
alla condanna principale; ma può essere rimessa anche alla discrezionalità del giudice b)
l’indefettibilità, nel senso che una volta irrogate sono sempre scontate non estendendosi ad esse la
sospensione condizionale della pena principale. Sospendibilità delle pene accessorie. Vediamole
da vicino, pene accessorie previste per i delitti:
- l’interdizione dai pubblici uffici: art. 28, la più importante sanzione interdittiva del nostro
sistema penale, priva il condannato di ogni diritto politico; di ogni pubblico ufficio o incarico,
non obbligatorio, di pubblico servizio; dei gradi e dignità accademiche, titoli e decorazioni ecc;
l’interdizione può essere perpetua o temporanea. L’interdizione “perpetua” consegue ipso iure
alla condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni, come pure alla
dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto e alla dichiarazione di tendenza a delinquere.
L’interdizione “temporanea” ha una durata non inferiore ad un anno né superiore a cinque
(conseguente alla reclusione per un tempo non inferiore a 3 anni); tale interdizione consegue pure al
reato realizzato con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione o al
pubblico servizio (art. 31);
- l’interdizione da una professione o arte: consiste nella perdita, durante l’interdizione, della
capacità di esercitare una professione, arte, industria, commercio o mestiere, per cui è necessario
uno speciale permesso, licenza ecc. Si applica nell’ipotesi di condanna per un delitto commesso
con abuso di una professione, arte, industria, o di commercio o mestiere, o con violazione dei
doveri ad essi inerenti. La pena in esame non può avere una durata inferiore ad un mese né
superiore a 5 anni, salvo i casi espressamente stabiliti dalla legge. Decorso il periodo della pena
accessoria, i permessi, le licenze ecc. possono essere riottenuti;
- la sospensione dall’esercizio di una professione o arte: a differenza dell’interdizione comporta
solo il divieto di esercitare una certa attività, prevista per le contravvenzioni;
- la interdizione legale: pena accessoria per i delitti di maggiore gravità. Comporta la perdita
della capacità di agire, applicandosi al condannato interdetto le norme della legge civile per
l’interdizione giudiziale in ordine alla disponibilità e amministrazione dei beni e alla rappresentanza
negli atti relativi. Tale interdizione segue alla condanna alla pena dell’ergastolo, nonché alla
condanna alla reclusione per un tempo non inferiore ai 5 anni. La condanna prevede anche, durante
la pena, la sospensione della potestà dei genitori, salvo che il giudice disponga altrimenti;
-la interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e im prese: priva temporaneamente il
condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco,
liquidatore e direttore generale, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona
giuridica o dell’imprenditore (c.d. colletti bianchi); consegue ad ogni condanna alla reclusione non
inferiore a 6 mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti
all’ufficio. Interdice lo svolgimento di attività non soggette ad autorizzazione o licenza da
parte della P.A., non deve esserci un mero rapporto di occasionalità tra l’attività esercitata e il fatto
delittuoso realizzato;
- la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (per le
contravvenzioni);
- la incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione, importa il divieto di concludere
contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico
servizio. Non può avere durata inferiore ad un anno né superiore a tre anni, riguarda solo la persona
fisica del condannato e non anche l’impresa;
- la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori: la decadenza consegue
all’ergastolo e agli altri casi determinati dalla legge;
-la sospensione, per le contravvenzioni, per un tempo pari al doppio della pena inflitta, consegue
alla condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori;
- la pubblicazione della sentenza penale di condanna (art. 36, comune a delitti e
contravvenzioni).
Viene eseguita, su ordine del giudice, mediante la pubblicazione, di regola, per estratto, e sempre
una sola volta, della sentenza di condanna in uno o più giornali stabiliti dal giudice ed a spese del
condannato, nonché nel sito internet del Ministero. Consegue alla condanna per delitti o
contravvenzioni nei casi stabiliti dalla legge. La sentenza di condanna alla pena dell’ergastolo,
inoltre, è pubblicata mediante affissione nel comune dove è stata pronunciata, in quello in cui fu
commesso il delitto ed in quello in cui il condannato aveva l’ultima residenza.
LE PENE SOSTITUTIVE.
Anch’essa innovazione della legge di Modifiche al sistema penale n. 689/81, sanzioni sostitutive
delle pene detentive di breve durata esse sono la semidentezione, la libertà controllata e la pena
pecuniaria.
a) la semidetenzione, è la misura sostitutiva della pena detentiva fino ad 1 anno. Comporta
l’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno negli istituti penitenziari, il divieto di detenere a
qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di
polizia; la sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto, sospensione di ogni altro
documento valido ai fini dell’espatrio, l’obbligo di conservare e di presentare agli organi di polizia
l’ordinanza contenente le prescrizioni imposte. La semidentezione è analoga dunque alla
“semilibertà”.
b) la libertà controllata, è la misura sostitutiva delle pene detentive fino a 6 mesi, che comporta il
divieto di allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione per motivi di lavoro, di studio,
di famiglia o di salute; l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di
pubblica sicurezza o in mancanza presso i carabinieri, il divieto di detenere a qualsiasi titolo armi,
munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; la
sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto, sospensione di ogni altro documento
valido ai fini dell’espatrio, l’obbligo di conservare e di presentare agli organi di polizia l’ordinanza
contenente le prescrizioni imposte;
c) la pena pecuniaria della multa o dell’ammenda, sostitutiva della pena detentiva
rispettivamente della reclusione o dell’arresto, determinabile dal giudice delle pene detentive fino ai
3 mesi. Le sanzioni sostitutive si applicano in presenza di condizioni oggettive (pena in concreto
irrogata dal giudice e tipo di reato) e soggettive (precedente condanna superiore a due anni ecc.)
fissate dalla legge. L’applicazione delle sanzioni sostitutive è affidata dalla legge al potere
discrezionale del giudice. Le pene sostitutive possono essere revocate o convertite in caso di
inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato.