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Parte prima
Globalizzazione, integrazione europea e crisi di regime
Parte seconda
Rappresentanza, partiti e regolamenti parlamentari
Rappresentanza in campo politico e divieto di mandato
imperativo
Il paradosso della rappresentanza in campo politico e il tema del divieto di
mandato imperativo si sono ripresentati in occasione delle dimissioni di
Giovanna Mangili, eletta nelle liste del M5S per il collegio Lombardia e
respinte per due volte dal Senato.
L’applicazione meccanica ed ideologica della democrazia di investitura ha
prodotto il DDL cost. n.196 che riproduce un testo già proposto nel 2012
volto ad introdurre il vincolo di mandato nell’ordinamento e a collegarlo
con la normativa relativa allo scioglimento e all’espressione della fiducia
al Governo e richiamando l’opinione di costituenti comunisti come
Terracini e Grieco si dichiarava che il manato di partito non andava in
contrasto con il divieto di vincolo di mandato, ma era strettamente
collegato a quanto stabilito nell’art.49 Cost.
Le proposte di riforma dell’art.67 Cost. rischiano di non essere comprese
se non opportunatamente situate e storicizzate.
Prima di tutto, rappresentare significa sostituire, prendere il posto di
qualcuno ad un certo livello e per certi fini; negli ord. Contemporanei
l’esigenza di rappresentare nasce da motivazioni quantitative e/o
qualitative: in ambito locale è possibile una partecipazione diretta, ma sul
piano più elevato, dal punto di vista numerico, questo non è più
concepibile, mentre dal punto di vista qualitativo, nell’ambito della
moderna divisione del lavoro, ad un certo livello di complessità è più
opportuni che siano persone esperte ad occuparsi di temi specialistici.
L’ideologia liberale denomina come rappresentanza politica (fiduciaria) il
libero mandato imperativo che, alle origini del sistema rappresentativo,
basa le proprie fondamenta nello Stato moderno, quando le Assemblee
diventano organi politici e contribuiscono in modo determinante alla
distribuzione autoritativa di valori, mutando il ruolo dei parlamentari e
dell’assemblea dei rappresentanti. Il rappresentante viene considerato
come un fiduciario che risponde nei confronti dell’elettorato solo nel
momento della richiesta di rinnovo del mandato, essendo il Parlamento
un 《assemblea deliberativa di una nazione》con interesse comune, che
decide nell’interesse della stessa e non dei singoli collegi/elettori
(dibattito costituente nordamericano tra whig e partecipazionisti;
concezione di Locke, Hobbes, Burke soprattutto e sostenuta da Madison).
Lo sviluppo continentale del dibattito sulla rappresentanza ha seguito
sviluppi dalla fine del ‘700 con le teorizzazioni di Siéyès, che sulla base
della teoria della sovranità nazionale certifica il superamento del vincolo
di mandato, nel senso che i rappresentanti sono tenuti a rappresentare la
nazione intera.
Con l’espansione del suffragio e la trasformazione della natura delle
istituzioni parlamentari, che diventano aule di contrapposizione di
posizioni rigide e inquadrate, il rapporto rappresentativo si trasforma. È
però il primo conflitto mondiale e la crisi di partecipazione ad evidenziare
la profondità del mutamento e della discussione: da un lato chi sostiene il
divieto di vincolo di mandato come indispensabile garanzia di autonomia
del rappresentante, dall’altro chi introduce il vincolo di partito (clausola
cecoslovacca), dando vita a un tipo di rappresentanza triadico
(elettori-partito-eletto).
Leibholz e Mortati sono rappresentativi del costituzionalismo della crisi di
partecipazione e dell’ingresso delle masse in politica. Entrambi giuristi,
Leibholz, antiformalista, teorizza lo Stato dei partiti regolato, mentre
Mortati propone un disegno di costituzionalizzazione organica dei partiti.
In un sistema dei partiti nazionale, stabile e strutturato il problema della
rappresentanza viene risolto utilizzando il divieto di mandato imperativo
come mera valvola di sicurezza per la tutela del dissenso. I rappresentanti
possono mettere in gioco la loro responsabilità attraverso la
sottoposizione all’eventuale giudizio del corpo elettorale. Ma quando si
passa dalla forma di governo parlamentare razionalizzata a un governo di
legislatura, dove vengono costruite maggioranze elettorali artificiali, la
situazione cambia e il rappresentante perde autonomia e si trova
vincolato al contratto sottoscritto con gli elettori.
Il concetto di rappresentanza cambia ancora con la rivoluzione digitale
sulla quale si sviluppa l’idea di una democrazia digitale, promossa dal M5S
e, in particolare, da Gianroberto Casaleggio secondo il quale essa
evidenzia “una nuova centralità del cittadino nella società” capace di
destrutturare le organizzazioni politiche e sociali esistenti. Lo stesso
Parlamento cambia natura, perché gli eletti divengono meri “portavoce”,
con il compito di “sviluppare il programma elettorale e mantenere gli
impegni presi con chi li ha votati”; di qui la possibilità “per ogni collegio
elettorale di sfiduciare e di far dimettere il parlamentare” attraverso
opportuni referendum locali. Alla democrazia diretta risulterebbe, inoltre,
estraneo sia il concetto di leader sia la segretezza e la riservatezza.
La garanzia del divieto di mandato imperativo continua, tuttavia, a
costituire un’indispensabile guarentigia istituzionale che preserva
l’agibilità politica degli agenti, sebbene possano essere controllati e
vincolati in vario modo.
Dal “grande partito” al “piccolo”, rispettabile e regolato
Il partito politico è stata un’istituzione fondamentale della società di
massa ed oggi le trasformazioni sociali e tecnologiche lo vedono in
profonda trasformazione e in severa difficoltà. È nato all’interno dei
parlamenti, si è sviluppato con l’allargamento del suffragio, attraverso il
partito organizzativo di massa, è divenuto nel 2 dopoguerra partito
pigliatutto, poi partito cartello sulla base del finanziamento pubblico e,
infine, partito personale nella democrazia del pubblico. In ogni caso, oggi,
è ‘affetto’ da una forte sfiducia dell’elettorato e dalla presenza di
movimenti populisti e di protesta.
Per quanto concerne la rispettabilità del partito politico, respectability s i
connette con l’affidabilità, reliability, ossia il giudizio relazionale della
correttezza del comportamento, che a sua volta si connette con
l’affidamento di mantenersi all’interno dei limiti che definiscono il regime,
quindi anche essere accountable e responsive.
La politica è un tipo di agire relativo ai rapporti di potere, mentre il
politico definisce la specificità del rapporto di aggregazione tra individui in
merito alla allocazione autoritativa di valori, aggregazione che proviene
da un’esigenza di difesa caratterizzante la politicità. Il politico ha la
possibilità di utilizzare la forza al fine di distribuire i valori prevalenti in
una comunità, che si definisce politica quando si presenta la capacità di
distribuire valori sulla base di una omogeneità di interessi. È ovvio che
tutti gli ordinamenti siano caratterizzati da fenomeni di divisività più o
meno organizzata e non è un caso che prendere partito significhi
assumere decisioni, proceduralizzate o meno, che impongono, dal punto
di vista concettuale, una divisione. Prendere partito finisce, quindi, per
connettersi con l’esistenza di istituzioni capaci di convogliare la volontà
degli elettori, favorendone la partecipazione.
Da queste osservazioni derivano alcuni dati di fatto:
✔ Il fenomeno partigiano e l’istituzione partito politico risultano
collegati con il politico e con la prospettazione di una specifica
attività di indirizzo (la politica): l’attività partigiana esiste come
elemento naturale della politicità, come disputa dell’allocazione
autoritativa dei valori, che si concretizza in indirizzo politico;
✔ I modi in cui si esplica sono connessi con lo sviluppo della società
civile;
✔ Il partito politico come istituzione dello Stato moderno ha come
caratteristica essenziale quella di presentare candidati a cariche
pubbliche e farli eleggere attraverso votazioni elettive
✔ Le fratture sociale si sono implementate
✔ Viene superato il concetto di grande partito e legittimato quello di
piccolo partito, che attraverso i propri eletti può divenire
determinante per l’individuazione dell’indirizzo politico
✔ Il partito di massa nasce in maniera differente
La legittimazione del partito parlamentare fondato sulla rappresentanza
fiduciaria dei migliori si ha solo con Burke, dopo che i partiti smettono di
limitarsi a temi che hanno riflessi generali e incisivi e, in particolare,
formati su una frattura religiosa. Nel momento in cui la distanza
ideologica e comportamentale dei soggetti è veramente centripeta, la
forma di governo parlamentare può dirsi legittimata (Bagehot). Tale
passaggio, secondo Simmel, è dovuto all’introduzione delle votazioni
come lo strumento che legittima la violenza operata dalla prevalenza
della maggioranza sulla minoranza, attraverso il consenso.
Il partito diventa ‘piccolo’ quando si laicizza e può agire nell’aula
parlamentare, in contatto con una opinione pubblica omogenea. Il parti
government rientra in un governo equilibrato e razionale che si fonda su
partiti parlamentari. Il partito nello Stato di massa assume una funzione di
inquadramento della partecipazione e una funzione di indirizzo
democratico e partecipato; il party government a questo punto cambia,
perché il partito deve strutturare ampie masse. L’ingresso delle fratture
della società civile ripropone il tema del grande partito (che esclude la
possibilità formale di esistenza di altre formazioni o le funzionalizza ai
propri scopi) la cui rinascita corrisponde al rafforzamento degli esecutivi
di fronte a parlamenti sempre più deboli. Nel XX secolo la religiosità
secolarizzata si ripropone con i partiti totalitari o autoritari che operano
come organi di inquadramento e trasmissione del consenso. Dopo 1989 la
generalizzazione del modello democratico rafforza la crisi della
rappresentanza e del partito politico. Nascono i partiti populisti che
rifiutano la rappresentanza (M5S). Si ripresenta il tema del grande partito
non rispettabile ed affidabile che indebolisce il sistema. Per recuperare
credibilità, però, deve essere prevista una regolazione leggera, ma
indispensabile.
Le elezioni primarie dirette di partito (o di coalizione) e la loro
regolazione interna
Le primarie sono strumenti istituzionali strettamente connessi con
l’evoluzione della democrazia rappresentativa di massa.
● L’ elezione primaria diretta di partito si inquadra nell’ambito delle
procedure di votazione collettive dei cittadini politicamente attivi e
in relazione all’attività dei partiti politici (strumenti di
canalizzazione, riduzione e articolazione della domanda politica).
Negli ordinamenti contemporanei le decisioni collettive dei
consociati si sostanziano nella preposizione di individui a cariche
autoritative o in decisioni deliberative di vario tipo, e in particolare,
in quelli pubblicistici, si sostanziano in decisioni elettive e
deliberative per predisporre individui di organi collegiali o
individuare titolari di cariche monocratiche. Il metodo della
votazione, come sosteneva Simmel, caratterizza gli ordinamenti
liberali e democratici e, favorendo la legittimazione delle scelte
attraverso procedure, la partecipazione e l’integrazione dei
consociati, controlla il conflitto. Le decisioni proceduralizzate del
singolo si condensano o in determinazioni individuali o deliberazioni
collettive in cui interviene la regolazione giuridica autonoma del
gruppo o eteronoma. La decisione , così, risulta legittimamente
imputata all’ente di appartenenza con effetti giuridici precisi. Le
votazioni, per definirsi democratiche, devono rispettare determinati
standards che non si limitino alla fase costitutiva, ma anche a quella
preparatoria e successiva, garantendo da un lato la possibilità di
essere informati e di informare nell’ambito di una competizione
pluralistica e, dall’altro, di esprimere senza costrizione il suffragio
nella certezza che venga valutato correttamente. Il tema delle
votazioni si collega necessariamente alla presenza delle formazioni
di partito, la cui stessa definizione di collega al concetto di divisione
e di votazione, e se mancano si determinano fenomeni di tipo
plebiscitario. Il prendere partito, in questo caso, finisce per
connettersi con l’esistenza di vere e proprie istituzioni capaci di
convogliare la volontà degli aventi diritto al voto.
● L’elezione primaria diretta di partito si intende “una procedura di
votazione elettiva infrapartitica o infracoalizionale, in cui vengono
selezionati i candidati per le elezioni interpartitiche o
intercoalizionali di qualsiasi tipo”. Essa si distingue dai metodi di
selezione delle candidature di tipo indiretto e dalla individuazione
attraverso votazione elettiva delle cariche potestative del partito.
Bisogna, poi, considerare in primo luogo se le elezioni primarie
abbiano natura autonoma, e quindi imposta e controllata
dall’ordinamento statale, o eteronoma, e quindi frutto
dell’autonomia dell’organizzazione; in secondo luogo se siano
aperte, semiaperte, semichiuse o chiuse.
● Primarie a livello comparato:
a. Caso USA: l’esigenza di riformare le conventions, che avevano
sostituito i caucuses come sistema di individuazione dei
candidati alle elezioni interpartitiche statunitensi, a causa delle
degenerazioni, aveva posto il tema della segretezza del voto e
dall’introduzione della scheda di Stato. Il movimento per la
trasparenza e la democratizzazione riuscì a modificare il
meccanismo per l’elezione dei senatori; richiese il referendum,
il recall e la democrazia infrapartitica. Alla fine degli anni ’60
un movimento di riforma popolare investì le strutture dei due
maggiori partiti e le primarie rivoluzionarono il processo
politico di selezione dei candidati alla presidenza e alle cariche
congressuali, rendendo i candidati più indipendenti.
b. Caso argentino: le votazioni infrapartitiche presentano una
regolazione di tipo pubblicistico da parte di una legge organica
sui partiti politici del 1985 di cui all’art.3 si prevede che i
partiti, strumenti necessari alla realizzazione della politica
nazionale, necessitano dell’esistenza di un gruppo di cittadini
“uniti attraverso un vincolo politico permanente”, di
un’organizzazione interna permanente regolata da uno statuto
conforme al metodo democratico, del riconoscimento
giudiziale della sua personalità politico-giuridica attraverso
l’inserimento in un registro pubblico. Le elezioni interne
possono essere sottoposte a verifica degli atti interni da parte
della justicia federal con competencia electoral (art.30).
Nell’art.29 si prevede l’obbligatorietà della partecipazione alle
elezioni primarie per la designazione di candidati a cariche
elettive nazionali.
c. Caso francese: l’utilizzazione delle primarie ha avuto corso in
maniera particolare per le elezioni presidenziali nell’ambito
dell’autonomia organizzativa delle singole formazioni
partitiche (UMP, PSF, EELV)
d. Caso italiano: l’anomalia italiana sta nella mancata regolazione
del partito politico che si connette con la natura del suo
sistema dei partiti. Durante il periodo Costituente vi furono
tentativi di istituzionalizzare i compiti dei partiti ma fallirono a
causa del timore di un’intromissione statale nella vita delle
organizzazioni. Pierluigi Zampetti cercò di introdurre le
primarie in Italia all’interno della DC per migliorare la
partecipazione e il collegamento tra il partito democristiano e
la società, ma il frazionismo democristiano fece sì che
venissero accantonate ipotesi di proceduralizzazione dei
comportamenti democratici. Anche nel PCI fu discussa ma mai
concretizzata l’ipotesi delle primarie. Negli anni ’90 la crisi di
regime e la costruzione di partiti leggeri e carismatici pose il
problema della utilizzazione di strumenti di individuazione dei
candidati. Ripresero importanza con il progetto Mancina che
prevedeva l’effettuazione di primarie facoltative. Furono
utilizzate nel 2005 per la designazione della candidatura di
Prodi, ma anche in altre occasioni (PD 2007, Calabria 2004 per
presidente della Regione, Toscana-legge sulle primarie). La
legge elettorale 270/2005 attribuisce ai segretari dei partiti o
al Capo delle singole coalizioni la scelta dei candidati, privando
gli elettori della possibilità di scegliere i rappresentanti. Per
approfondimenti leggere pagg.156-157
Le conclusioni cui si può giungere sono due:
1. I fenomeni di globalizzazione rendono meno incisive le procedure
democratiche basate sui meccanismi di votazione rispetto
all’ideologia che sta alla loro base. Il principio di sovranità popolare
viene eroso e nullificato dalla incapacità degli ordinamenti di
determinare le decisioni politiche, incapacità dalla quale deriva la
richiesta di trasparenza, controllo e incisione sul processo politico.
La forma di Stato di democrazia pluralista viene, quindi, messa in
gioco nella riqualificazione dei rapporti di potenza geopolitici. La
regolazione pubblicistica del processo di trasmissione della
domanda e del controllo politico attraverso le votazioni non risolve
il problema, lo attenua.
2. L’impossibilità di regolare il partito politico ha condotto alla
prospettiva dell’autonomia del sistema dei partiti e ne vengono
fuori o lo Stato dei partiti o una partitocrazia senza partiti di tipo
bipolare centrifugo. Bisognerebbe attribuire personalità giuridica ai
partiti e controllare le attività pubblicisticamente rilevanti. Le
primarie, inoltre, devono avere applicazione sia per le cariche
collegiali che per quelle monocratiche ed avere valore su tutti i
livelli.
Stato dei partiti, non partitocrazia
In Italia lo Stato dei partiti, succeduto a quello autoritario a tendenza
totalitario fascista, era diventato egemone sin dalla ‘svolta di Salerno’ e,
già nel periodo Costituente, aveva dimostrato l’incapacità di autoregolarsi
opportunatamente. Incapacità che si rafforzò con lo spostamento
dell’interesse dalla regolazione del partito al sistema dei partiti, ovvero
alla necessità di integrare formazioni politiche con tendenze centrifughe.
La grande frattura del 1948 aggravò e confermò l’anomalia sistemica
caratterizzante dall’Unità l’ordinamento costituzionale. È interessante
notare come Leopoldo Elia, il 18 aprile 1948, avesse evidenziato la
necessità di una regolazione in quanto negli Statuti dei partiti vi erano
due aree che possedevano un interesse pubblicistico: i diritti degli iscritti
e la selezione dei candidati.
Il dibattito riguardo la necessità della regolazione dei partiti continuò, in
particolar modo tra il 1958 e il 1960, tentando un’applicazione della
Costituzione, ma negli anni Sessanta venne sopravanzata una polemica
per cui non si voleva regolare i partiti, ma sostituirli con il ricorso allo
Stato amministrativo. Il problema italiano, quindi, si trascina dalle origini
e si aggrava durante gli anni Sessanta in occasione del fallimento della
scommessa del centro-sinistra. Nel decennio successivo, la legge 195 del
1974 rappresentò il simbolo di un intervento in cui i partiti di un sistema
in difficoltà introdussero il finanziamento e il rimborso senza controlli
efficienti. Nel 1978, il primo referendum contro il finanziamento pubblico
non ebbe successo e quindici anni dopo, una nuova consultazione
popolare affondò la prima fase della Costituzione. Le leggi del 1997 e del
1999, unite alla legge elettorale 270 del 2005 hanno trasformato i
meccanismi del finanziamento e della rappresentanza, acuendo una crisi
di rappresentanza. L’ordinamento italiano, nonostante i cambiamenti, ha
sempre convissuto con uno Stato dei partiti sregolato, ma nella prima
fase era pesante, caratterizzato da partiti organizzativi di massa, poi
trasformati in partiti pigliatutto e poi in partiti cartello, mentre nella
seconda fase è diventato leggero, con forti elementi plebiscitari e
personali.
Nei circa 60 anni di esperienza costituzionale repubblicana è stata
confermata l’incapacità del sistema politico-costituzionale di integrare e
di regolare i soggetti della competizione politica, costituendo un
indicatore di basso rendimento istituzionale. Permane la necessità di
regolazione dei partiti poiché essi sono coessenziali agli ordinamenti
democratici e rappresentativi, svolgono funzioni di tipo pubblicistico e
sono inserite a pieno titolo nel settore delle votazioni elettive e
deliberative, che a sua volta necessita di una regolazione.
Vi sono stati diversi progetti riformatori di regolamentazione della natura
giuridica dei partiti politici, alcuni che prevedevano il riconoscimento della
personalità giuridica (Turco) e altri che si opponevano a questo (Vitale,
Chiaromonte-Carloni). Pochi, invece, sono stati i progetti di
regolamentazione della selezione dei candidati e della democrazia
infrapartitica (Veltroni-Vassallo).
Ulteriore tentativo riformatore fallito è stato quello condotto dal Governo
Monti, teso a rilegittimare il patto tra ceto politico ed elettorato. Il
programma riguardava la modifica al rimborso per le spese elettorali,
regole di applicazione dell’art.49, riduzione del numero dei parlamentari,
differenziazione bicameralismo perfetto, modifica del porcellum.
Si può concludere sostenendo che, per rilegittimare il rapporto fra società
politica e istituzioni, è importante modificare la legislazione sulle
votazioni e superare le remore ed i vincoli tradizionali alla regolazione
giuridica del partito, ma soprattutto prevedere regole comuni a tutti i
soggetti politici e regole specifiche adatte alle specificità delle singole
formazioni.
Il partito come istituzione storicamente situata
Il partito ha la funzione di mantenimento della legittimità/sostegno, di
articolazione della domanda e di indirizzo. In particolare, negli
ordinamenti autoritari e totalitari, il partito finisce per essere
istituzionalizzato, divenendo Stato-Partito o Partito-Stato. Per quanto
riguarda gli ordinamenti liberal-democratici, il partito è un istituzione
coessenziale e si collega alla rappresentanza in campo politico e allo
stesso rapporto che si instaura sulla base di procedure di votazione, che
dal punto di vista concettuale impongono una divisione in quanto
permettono di esprimere le proprie decisioni attraverso deliberazioni
collettive di tipo elettivo. Facendo particolare riferimento al caso italiano,
è interessante citare l’ordinanza 79/2006 della Corte Costituzionale che
afferma che “i partiti politici vanno considerati come organizzazioni
proprie della società civile, alle quali sono attribuite dalle leggi ordinarie
talune funzioni pubbliche, e non come poteri dello Stato ai fini
dell’art.134 Cost.”. Il che è ovviamente corretto, ma nello stesso tempo
evidenzia che gli stessi devono essere valutati per le funzioni specifiche e
indefettibili che esercitano all’interno del circuito democratico (cfr
sentenza Smith v. Allwright d ella Corte suprema statunitense per quanto
riguarda la democrazia infrapartitica).
Regolamenti parlamentari e forma di governo
La dinamica dei regolamenti parlamentari può essere legata a quella
generale della storia costituzionale italiana e della Costituzione
repubblicana, dato che regolamenti indicatori della dinamica della forma
di governo e il valore delle tecniche istituzionali cambia al mutare della
forma di Stato e della forma di regime.
❖ La natura dei regolamenti parlamentari è connessa al regime e,
quindi, alla Costituzione materiale. I regolamenti parlamentari,
infatti, costituiscono i principali strumenti procedurali per la
produzione delle norme di carattere legislativo, la quale, per la
visione formalista, coincide con la Costituzione in senso materiale.
❖ I regolamenti parlamentari costituiscono uno strumento per influire
ed analizzare la dinamica del tipo di regime di governo, perché
costituiscono il segno concreto dei rapporti esistenti all’interno delle
singole Camere e tra gli organi attivi del rapporto che
contribuiscono alla sostanziazione dell’indirizzo politico.
❖ I nuovi regolamenti appaiono caratterizzati da una doppia natura:
da un lato indicano il processo di istituzionalizzazione delle strutture
parlamentari e quindi sono uno degli elementi del processo di
modernizzazione dell’ordinamento; dall’altro sono caratterizzati da
una transitorietà derivante dai precari equilibri politici di crisi.
Nella storia del Parlamento e del diritto parlamentare italiano possono
essere rilevate differenti fasi:
a) Modello statutario originale: modello monarchico-costituzionale
dello Statuto albertino. Il parlamento avrebbe dovuto collaborare
attraverso una compartecipazione alla funzione legislativa
all’indirizzo politico intestato nel Sovrano; l’autonomia
parlamentare venne supplita dall’iniziativa del Governo Balbo,
che fornì alla Camera dei deputati un regolamento; voto palese e
voto censitario, uninominale e maggioritario di tipo britannico.
b) L’interpretazione liberale oligarchica della monarchia
rappresentativa: il Parlamento divenne un elemento cardine in
un sistema caratterizzato dalla base censitaria e dalla tutela del
Sovrano nei momenti di crisi e furono previste modifiche
regolamentari.
c) Il breve periodo liberale e democratico: nuovo regolamento della
Camera e Decreto Zanardellli, suffragio maschile, formula non
maggioritaria, modifica dell’organizzazione del Parlamento con
l‘adozione del sistema dei gruppi parlamentari e delle
Commissioni, pieni poteri al Governo.
d) Periodo autoritario a tendenza totalitaria: legge Acerbo,
abolizione dell’elettività della Camera dei deputati e
trasformazione in Camera dei fasci e delle corporazioni.
e) Il periodo transitorio e provvisorio della ristrutturazione
costituzionale: recupero della normativa dello Stato liberale e
democratico fino alla formazione di uno Stato dei partiti
sregolato.
f) La prima fase della storia della Costituzione repubblicana
1948-1993:
1. 1948-54: congelamento istituzionale e applicazione rigida
della conventio ad excludendum ( razionalizzazione della
presenza di partiti antisistema nell’ord. e necessità di
restringere l’area di Governo ai settori del centro-destra e
centro-sinistra; legge truffa con premio di maggioranza;
2. 1955-68: scongelamento istituzionale e scommessa di
centro sinistra;
3. 1969-92: grande transizione e implosione del sistema
g) La seconda fase della storia della Costituzione 1994-2012: Stato
di partiti sregolato, privo di formazioni strutturate, perdita di
partecipazione e bipolarismo centrifugo di tipo
carismatico-plebiscitario; instabilità e nuovi soggetti;
Nell’ambito dei processi di devoluzione, integrazione e globalizzazione, si
è individuata una nuova funzione dei parlamenti nazionali, quella di
coordinamento tra i differenti piani delle assemblee elettive. In questa
prospettiva lo stesso Trattato di Lisbona ha cercato di collegare il piano
dell’Assemblea di Strasburgo con quelle nazionali, ma il problema risiede
nella stessa legittimazione di rappresentanza. I parlamenti nazionali
rischiano di essere eterodiretti con la conseguente delegittimazione delle
Assemblee parlamentari, le cui agende diventano sempre più leggere e
preordinate dall’esterno.
Parte terza
Il sistema elettorale e la giurisprudenza della Corte
Costituzionale dal Porcellum all’Italicum