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Danno non patrimoniale, istruzioni per l’uso

L’omesso pagamento dell’assegno divorzile, integrando gli estremi del reato di cui all’art. 12 sexies L. 1 dicembre 1970 n. 898, ed obbliga
l’autore di tale condotta al risarcimento del danno morale in favore dell’ex coniuge.
Nella specie, il Tribunale di Roma 12 settembre 2018, n. 7144 ha ritenuto equo ex art. 1226 c.c. un risarcimento di euro 5.000 per il coniuge ed
altrettanti per ciascuno dei tre figli aventi diritto al mantenimento, a fronte di un inadempimento dell’obbligo di pagamento dell’assegno
protrattosi per venti mesi.
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Diciamocelo: esisteranno pure reati più gravi della violazione degli obblighi di assistenza familiare, ma pochi sono considerati dalla coscienza sociale
più odiosi di questo. Non deve stupire, quindi, se la sentenza qui in rassegna abbia avuto la mano pesante nei confronti del reo: 5.000 euro di
risarcimento, a fronte di 20 mesi di evasione dell’obbligo di pagamento dell’assegno divorzile alla moglie, ed altrettanti a ciascuno dei tre figli.
Fanno 250 euro al mese, e non mi avventurerò certo a stabilire se fossero adeguati od inadeguati: di norma nessuno, oltre il giudice del merito, ha il
polso della situazione, e nessuno meglio di lui è in grado di stabilire esattamente che peso risarcitorio dare alla sofferenza provocata da un reato.
La sentenza qui in rassegna, tuttavia, porge il destro per affrontare una questione di metodo, e non di merito, qg_big
nella liquidazione del danno non patrimoniale. E’ una riflessione che mi viene imposta dal diffondersi della tendenza
(almeno a me così pare) a liquidare il danno non patrimoniale in poche e sbrigative battute, spesso costituite da frasi
fatte o vuoti formulari: “tenuto conto di questo e di quello, si stima equo ecc.”; segue la liquidazione.
Si tratta d’una tendenza che finisce per trasformare il risarcimento del danno non patrimoniale ora in un indennizzo, ora
in una punizione, a seconda che la liquidazione risulti sotto - o sovrastimata rispetto alla reale entità del danno.
Si tratta d’una tendenza che può avere molte spiegazioni (ma non giustificazioni): la mancanza di precedenti, la diversa sensibilità degli interpreti,
l’apparente impalpabilità di taluni tipi di pregiudizi.
E nondimeno è, questa tendenza “forfettaria”, produttiva di almeno due effetti assai perniciosi.
Il primo è che liquidazioni del danno non patrimoniale “a spanne” saranno pur perfettamente eque nel caso concreto, ma impediscono agli interpreti
di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice, e finiscono per tale via per fomentare le liti. L’imperscrutabilità del percorso seguito dal giudicante per
arrivare ad una certa liquidazione finale indurrà fatalmente il debitore a domandarne in appello la revisione al ribasso, e l’opposto farà il creditore.
Prima ancora, l’imperscrutabilità della decisione impedisce alle parti di formulare qualsiasi sensata previsione sul possibile esito del giudizio, e di
conseguenza alimenta il moral hazard, indicendole ad agire o resistere anche quando, se avessero potuto conoscere il plausibile esito della lite, se
ne sarebbero verosimilmente astenute.
Liquidazioni per nulla o scarsamente motivate, insomma, sono uno degli elementi che, insieme a tanti altri, producono il perverso effetto del “diritto
incalcolabile”, di cui così bene scrisse un insigne giurista [Irti, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, 11; sullo stesso tema si veda anche
Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna 2017, passim, ma in special modo i contributi di Irti, De Nova e Nuzzo].
Ma il danno non patrimoniale è, per definizione, insondabile, impalpabile e mutevole: come, dunque, dare un peso all’imponderabile ed un calcolo
all’incalcolabile? Il dolore è un vento che passa e spezza, e noi non ne vediamo che l’ombra: come dare, dunque, un colore od un valore all’ombra
del vento?
Cominciamo col dire che non partiamo da zero. La Corte di cassazione da decenni, e la dottrina da secoli, hanno fornito agli interpreti
molti strumenti logico-deduttivi per la stima del danno non patrimoniale.
Tra questi, a me pare che quattro criteri abbiano una particolare rilevanza per la stima del danno non patrimoniale:

(a) l’oggetto del danno; (b) il soggetto che l’ha subito; (c) la durata; (d) l’intensità.
Sul piano oggettivo, non tutti i danni non patrimoniali sono uguali. Il pregiudizio in esame può consistere nella paura (ad esempio, quella provata
da chi venga minacciato di morte); può consistere nell’ansia (ad esempio, quella provata da chi, a causa d’una erronea diagnosi, disperi di poter
sopravvivere); può consistere nella rabbia (ad esempio, quella provata da chi venga ingiuriato o calunniato); può consistere nella tristezza (ad
esempio, quella provata da chi, a causa d’un infortunio, abbia visto svanire le proprie aspirazioni lavorative.
Talune di queste sensazioni finiscono per condizionare l’intera vita della vittima (un invalido difficilmente riuscirà a sottrarsi alla propria condizione);
altre consentono dei palliativi (un arrabbiato prima o poi deporrà l’ira); altre ancora sono destinate fatalmente a cessare (la paura provocata dalla
minaccia probabilmente cesserà, una volta assicurato il minacciante alla giustizia).
Dunque il primo errore che anderebbe evitato nella stima del danno non patrimoniale è considerare che qualsiasi pregiudizio di questo tipo sia
uguale agli altri, come notte in cui tutte le vacche sono nere.
Così, solo per azzardare un paragone: 5.000 euro per risarcire il “dolore” provocato da venti mesi di ritardato pagamento dell’assegno divorzile
equivalgono a 250 euro al mese.
Secondo il più diffuso parametro utilizzato dai giudici di merito per la stima del danno non patrimoniale alla salute, le tabelle diffuse dal
Tribunale di Milano, un giorno di invalidità temporanea al 100% è liquidato al massimo con 147 euro, vale a dire 4.410 euro al mese. Dovremmo
inferirne che chi sia costretto per un mese a letto, completamente immobilizzato, soffre 18 volte più di chi, dovendo ricevere un bonifico a titolo di
assegno divorzile, non lo veda arrivare. Mi pare che qualcosa non quadri.

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Sul piano soggettivo, le persone non sono tutte uguali, né uguali sono le vittime dei reati. Vi sarà lo stoico e l’epicureo; il gretto e il filosofo; il
perdonista e il vendicativo. Così come le forze fisiche variano da persona a persona, parimenti variano le forze morali; e dinanzi al fatto illecito (od
al reato) altrui, non tutti hanno la forza di “nell’animo soffrire i sassi e i dardi dell’oltraggiosa fortuna”.
Dunque il secondo errore che andrebbe evitato nella stia del danno alla persona è fare come se la vittima non esistesse, o fosse qualcosa di
standardizzato. Il danno non patrimoniale, come amo ripetere, non è mai un danno semplicemente “alla” persona, ma è sempre un danno a “quella”
persona, e non ad altre: e dunque alla vittima innanzitutto occorrerà guardare per la aestimatio di esso.
Così, ad esempio, nel caso deciso dalla sentenza qui in rassegna si apprende che la vittima aveva costituito un nuovo nucleo familiare, con una
persona che svolgeva attività lavorativa e dunque necessariamente percettore di reddito. Mi parrebbe, pertanto, impossibile non tenere conto di
tale circostanza nella stima della ipotetica sofferenza causata dalla violazione dell’obbligo di pagamento dell’assegno divorzile: altra, infatti, è la
condizione di chi in mancanza dell’assegno sia costretto a ricorrere al credito, ben altra sarà quella di chi, pur nelle ristrettezze, potrà comunque
sempre fare assegnamento sul sostegno economico del convivente.
Durata ed intensità sono nozioni di intuitiva evidenza. Il danno non patrimoniale potrà essere permanente o transeunte, e il primo compito del
giudice dovrebbe essere quello di inquadrarlo nell’una o nell’altra categoria, ai fini della sua liquidazione. Il dolore per la perdita d’un figlio sarà
probabilmente permanente, mentre altrettanto ben difficilmente potrà dirsi per l’arrabbiatura provocata da una ingiuriosa vignetta satirica, destinata
ben presto a cadere nel dimenticatoio dell’opinione pubblica.
L’opinione secondo cui il danno non patrimoniale sarebbe, per definizione, transeunte, fu uno dei più madornali errori commessi dalla dottrina
giuridica del XIX sec., e perpetuatosi fino all’altro ieri. che il danno non patrimoniale fosse necessariamente transeunte fu una petizione di principio
sorta per giustificarne dapprima l’irrisarcibilità (Gabba, Nota senza titolo in Giur. it., 1896, I, 2, 581), e poi la distinzione dal danno biologico,
quando se ne negava la risarcibilità in assenza di reato [Scognamiglio, Il danno morale (contributo alla teoria del danno extracontrattuale), in
Riv. dir. civ., 1957, 277].
Anche la giurisprudenza, tralatiziamente, per anni ripeté il medesimo concetto, sino a che finalmente le Sezioni Unite rimisero a posto la questione,
giustamente rilevando come “la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso
protrarsi anche per lungo tempo (…). Va conseguentemente affermato che (…) la formula "danno morale" (…) descrive [una]
sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del
risarcimento” (Cass. sez. un. Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Giur. it., 2009, 61).
Proviamo ora ad applicare i criteri sopra elencati al caso deciso dalla sentenza qui in rassegna. Senza, ovviamente, minimamente sindacare la il
merito della decisione, v’è da rilevare tuttavia che il percorso attraverso il quale il giudicante è pervenuta alla aestimatio del danno resta in parte
non ricostruibile.
Apprendiamo dallo svolgimento del processo che il responsabile aveva trascurato di pagare un assegno divorzile di 600 euro mensili alla ex moglie,
e 350 euro mensili ai tre figli, e l’aveva fatto per 20 mesi. apprendiamo altresì che, non pago, aveva anche minacciato telefonicamente l’ex coniuge
di “farla morire di fame”. Apprendiamo altresì che la donna aveva comunque costituito un nuovo vincolo affettivo con un nuovo compagno.
Queste sono le uniche circostanze di fatto che la sentenza riferisce, Non sappiamo quanti anni avesse la donna; quanti i figli; quali le condizioni
abitative e sociali; non sappiamo se il nuovo vincolo affettivo sia stato costituito dalla donna prima o dopo la commissione del reato; non
conosciamo le condizioni patrimoniali né della vittima, né dell’obbligato.
Quel che la sentenza unicamente ci dice è che la liquidazione è avvenuta tenendo conto:
(a) dell’ansia provocata dal reato;
(b) della preoccupazione provocata dal reato;
(c) del turbamento psichico transitorio;
(d) della gravità dei fatti.

E tuttavia gli elementi sopra elencati appaiono, nell’economia della sentenza qui in rassegna, più come una formula di stile che come una ostensione
dell’iter logico seguito dal giudicante. Che la vittima di un reato provi "ansia e preoccupazione” potrà anche presumersi ex art. 2727 c.c.; ma di
che intensità e durata siano state tali sensazioni spiacevoli ben difficilmente potrà immaginarsi, senza acquisire almeno l’interrogatorio libero della
parte danneggiata.
In definitiva, la vicenda decisa dalla sentenza capitolina mi pare riproduca l’eterno dilemma del bilanciamento tra efficienza e garanzia, che
potremmo volgarizzare così: a liquidare il danno non patrimoniale in quattro e quattr’otto ci si sbriga, ma difficilmente ci si azzecca.

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(Altalex, 11 ottobre 2018. Articolo di Marco Rossetti tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)

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